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1 FEBBRAIO 28 FEBBRAIO 2011
Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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Twitter journalism, la guerra in tempo reale Andrea Nicastro, l’inviato digitale Doc Gerry, l’ecoreporter che sfidava Manila Gestalten tv, da Berlino l’arte del video collage The Bold Italic, il meglio di San Francisco
INFOGRAPHICS!
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La notizia è da vedere di Giacomo Segantini e Francesca Sironi
Diagrammi,database e grafici possono raccontare la realtà meglio di un articolo.Un lavoro di illustrazione dei contenuti che trasforma i numeri in immagini evocative e facilmente accessibili ai lettori.Elogio del giornalismo tutto da vedere
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O MANY NEWS, SO LITTLE TIME: con il bombardamento di
informazioni cui siamo quotidianamente esposti, riuscire a trasmettere un messaggio con chiarezza è sempre più difficile. E allora addio all’articolo di fondo di 15 mila battute. La lettura approfondita, che richiede tempo, è sostituita dalla pratica immediata del “guardare le figure”. Se questo è il trend, gli specialisti dell’informazione si adeguano. Nasce così l’infografica, l’arte di veicolare informazioni sotto forma di immagini. Dalla sua forma primigenia, la cartografia, si è passati ai grafici di corredo sui giornali stampati, per arrivare fino alle animazioni interattive sul. Nel 2008, per citare un esempio, il New York Times ha pubblicato sul suo sito un grafico interattivo sui risultati delle elezioni presidenziali. Centinaia di migliaia i click sulla pagina, decine le persone che vi hanno lavorato. Ma il New York Times non è rimasto solo ad investire nel mondo dell’information graphics: il Guardian, il National Geographic, El Mundo, il Sole24Ore, sono solo alcuni degli altri grandi nomi dell’informazione che credono nella forza di quello che ormai viene definito “Visual Journalism”. Ma se il giornalismo si trova, così, a fare i conti con la necessità di parlare per immagini, anche i grafici devono ragionare in termini di informatività e chiarezza. La grafica deve raccontare una storia. Lo crede fermamente John Grimwade, Graphics Director del gruppo editoriale Condé Nast e collaboratore di Sports Illustrated e Popular Science. « Mi piacciono tutti i progetti dove sento che sto aiutando le persone a capire qualcosa che fino ad allora non avevano veramente compreso. Credo fermamente che si possano comunicare idee in maniera molto efficace usando le immagini». Per Grimwade la forza dell'infografica è strettamente legata alla sua capacità informativa: «Viviamo nell'età dell'informazione. Le infografiche avranno un grande ruolo nel futuro. A livello giornalistico, tutti i dati a cui possiamo ora accedere aprono inaspettate opportunità per creare nuovi tipi di storie. La grafica ha un ruolo chiave: deve illuminare i fatti, farli emergere nella loro complessità. Le migliori infografiche ci informano senza intimidirci». Da ventitré anni Grimwade firma insieme ai suoi collabora-
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tori le infografiche di Condé Nast, e insegna alla Scuola di Arti Visuali di New York. I suoi studenti imparano a dare priorità all’informazione sull’arte: «Una buona infografica deve avere chiarezza nella visualizzazione. E questa si raggiunge con l'editing, la gerarchia dei contenuti, la divisione in sequenze, il colore, la tipografia e in generale un buon senso del design». Per Grimwade un infografica deve rispondere a queste domande: posso capirla facilmente? La sequenza è chiara? L'informazione principale è preminente? Attrarrà l'attenzione del lettore? Sebbene Grimwade usi ancora carta e matite per fare chiarezza fra le idee, gli strumenti dell’infografica sono in grande evoluzione. E non solo sul lato software, dove rimangono intoccabili i classici del design, Illustrator e Photoshop. La sfida si è spostata sulla visualizzazione: dai video interattivi all’adattabilità rispetto al supporto: «Il potere sta passando nelle mani delle informazioni dinamiche. L'Interactive Design è il futuro dell'infografica. Stratificare l'informazione, dare all'utente la possibilità di controllare la sua esperienza ed esplorare il suo lavoro è davvero eccitante. Un'altra tendenza importante è quella delle grafiche adattabili al supporto (un cellulare, un tablet, un computer), che possano funzionare su schermi di diverso formato o risoluzione». Non a caso, infatti, la grande novità di quest’anno del festival internazionale dell’infografica, che avrà luogo a Pamplona dal 20 al 25 marzo, è la sessione tematica (accanto a quelle su stampa e web) focalizzata sulle infografiche per iPhone, iPad e altri portable devices. Nato negli anni 80, il Malofiej Infographics World Summit è considerato il “Premio Pulitzer” del visual journalism. Deve il suo nome ad Alejandro Malofiej, cartografo argentino morto nel 1987 e pioniere della rappresentazione grafica delle informazioni. Il suo motto, Show, don’t tell, “mostra, non parlare”, cattura perfettamente lo spirito dei suoi partecipanti: utilizzare le immagini al posto delle parole. L’evento vede la partecipazione dei maggiori esperti di info-
grafica del mondo e l’assegnazione di premi in più di 100 categorie, tra stampa e online, da parte di una giuria internazionale. L’anno scorso a trionfare sono stati, tra gli altri, il giornale svedese Svenska Dagbladet per la sua infografica interattiva online su come l’Europa, divisa tra blocco Est e Ovest, ha votato nell’ultimo Festival europeo della canzone (manifestazione canora sconosciuta in Italia, ma seguitissima in altri paesi), la mappa dell’alta marea a Venezia disegnata dal National Geographic, e il giornale tedesco Die Zeit per la sua illustrazione dei risultati delle elezioni del Bundestag nel 2009 con i colori della bandiera tedesca. Tra gli italiani, si segnalano le grafiche curate da Francesco Franchi nel mensile del Sole 24 Ore Intelligence in Lifestyle. Quest’anno il parterre di esperti che faranno da giudici al concorso e animeranno i workshop è veramente notevole: oltre allo stesso Grimwade, saranno presenti Kat Downs dal Washington Post e Haika Hinze dal Die Zeit tedesco. Dall’Italia unico ospite è Paolo Ciuccarelli, direttore del Density Design Lab; oltre a partecipare alla giuria, porterà un intervento dal titolo L’estetica delle conversazioni, sulle informazioni estra-
Oggi la grafica ha un ruolo chiave: deve illuminare i fatti e farli emergere nella loro complessità. Le migliori infografiche informano senza intimidire
polabili dalle discussioni in Internet e il modo per trasformarle in conoscenza visiva. Non solo celebrazione, il Malofiej è quindi anche un’occasione per i giovani di imparare dai migliori e inquadrare gli ultimi trend. Un modo per riscoprire umiltà, inoltre, secondo Alberto Cairo, responsabile multimedia della rivista brasiliana Época, autore di Infografìa 2.0, e vincitore di numerosi premi, tra cui svettano i lavori svolti presso El Mundo, in Spagna, sugli attacchi terroristici del 2004: «La redazione è come un bozzolo. Essere isolati dal mondo esterno può farti credere che il tuo lavoro sia superbo, ma al Malofiej capisci di essere solo uno tra i tanti di talento». Tra i lavori degni di nota di quest’anno, secondo Cairo, la grafica di Hannah Wallander del New York Times Driving shifts into reverse, sulla relazione tra abitudini di guida degli americani e il prezzo della benzina, alla luce dei vari rivolgimenti storici dagli anni 50 a oggi. O le mappe pubblicate dal giornale Estado de Sao Paulo sui risultati delle elezioni presidenziali dello scorso anno. Ma in che direzione va l’infografica, oggi? «Verso un approccio più funzionale», dice Cairo. «Il designer deve pensare a come il lettore fruirà dell’infografica, e adattarla di conseguenza». Questo non significa non utilizzare forme grafiche nuove, ma farlo sempre con un scopo preciso, «bilanciando innovazione con chiarezza e funzionalità». E cita l’esempio del grafico “a bussola” realizzato dal suo team, sempre in occasione delle elezioni: a colpo d’occhio è possibile capire in quali stati, organizzati in base alla posizione geografica, abbia trionfato la Roussef e in quali, invece, abbia preso più voti lo sfidante José Serra. MAGZINE 12 | 1 febbraio - 28 febbraio 2011
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Dal numero all’immagine Il fascino discreto dei dati Come una squadra di minatori esperti, i ricercatori del Density Design Lab di Milano analizzano i flussi di dati complessi per ricavarne infografiche che raccontano emergenze e trasformazioni sociali di francesca sironi
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CIUCCARELLI E IL SUO TEAM di ricercatori lavorano come una squadra di minatori. Ogni giorno prendono pale e picconi, salgono sul montacarichi e si inabissano nelle viscere della terra. Nel buio delle gallerie cercano una vena d’oro da scavare e riportare in superficie. “Data mining” e “information visualization” chiamano questa attività speleologica, che costruisce percorsi di conoscenza visuale a partire da numeri, statistiche, database, testi e documenti di ogni tipo. «È una tendenza che si sta affermando negli ultimi anni e che aiuta, per esempio, a vedere fenomeni complessi come la povertà con altri occhi», spiega il professor Ciuccarelli, docente di Design della comunicazione al Politecnico di Milano Bovisa e direttore scientifico del laboratorio di ricerca Density Design. Spesso i temi più interessanti sono anche quelli più ostici, o complessi, come preferisce definirli Ciuccarelli: un labirinto
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di dati e informazioni che normalmente vengono comunicati attraverso tabelle e statistiche, che il “data visualization” trasforma in splendide illustrazioni che rendono conto dei numeri e delle loro relazioni. Professor Ciuccarelli, come nasce l’idea di mettere il design al servi zio del data-mining? Volevo mettere alla prova le competenze e gli strumenti tipici del design della comunicazione per rendere fruibile la complessità dei fenomeni. Troppo spesso tendenze sociali complesse vengono rappresentate in modo frammentario e distante dal pubblico più ampio, con un grande dispiegamento di numeri e grafici che confondono le idee. Noi invece cerchiamo di rendere visibili le relazioni tra i frammenti e ricreare quella che viene definita la “big picture”, una rappresentazione visuale che sappia spiegare ma anche incuriosire chi guarda. Le nostre immagini non semplificano i problemi, ma esaltano la complessità delle relazioni e dei
punti di vista. Come scegliete gli oggetti di ricer ca? Per la loro attualità o la rilevanza sociale e per le sfide che ci permettono di affrontare. L’anno scorso avevamo tematizzato il concetto di povertà, un fenomeno decisamente complesso, che viene spesso visualizzato come una linea retta che divide la popolazione in base al reddito. Noi volevamo far emergere la complessità, gli effetti e le cause connessi al concetto di povertà. Quest’anno, invece, abbiamo affrontato il fenomeno dell’incertezza. Oltre a questi temi abbiamo anche progetti commissionati dall’esterno, come una mappa delle scuole di diverse contee Usa per una ong americana. Partner internazionali? Lo Humanities Center di Stanford e SciencePo a Parigi. Con Stanford stiamo lavorando a un progetto sulla Repubblica delle Lettere: l’idea è ricostruire la mappa delle relazioni fra gli intellettuali nel periodo fra il 1500 e il 1800. Con Parigi, invece, stiamo lavorando a un progetto per raccontare visivamente lo sviluppo delle controversie, ovvero le discussioni fra posizioni scientifiche radicalmente opposte, sulla rete come nella realtà. Quali strumenti di lavoro utiliz zate per le vostre creazioni? Illustrator per la grafica. Per il design delle interfacce e le applicazioni web principalmente Flash finora, anche se ci stiamo spostando verso Javascript. HTML5 non è ancora abbastanza potente. Chi si avvicina al vostro lavoro? C’è un interesse crescente per la visualizzazione dei dati e delle informazioni. È un’attrazione spinta soprattutto dai media, con le infografiche o l’emergente data-journalism, ma anche dagli studiosi di computer science, che da anni si occupano di database e ora sentono l’esigenza di restituirli anche a un pubblico meno specialistico. Anche sociologi, politologi e artisti si stanno appassionando alle modalità con cui la visualizzazione di dati permette di mettere a fuoco un problema. La capacità di visione e di sintesi dell’information design può favorire nuovi livelli di conoscenza.
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di Denis Rizzoli
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a una nuvola di capelli scuri in testa e un vistoso paio di occhiali neri. Alto e magro, con un sorriso accennato sul viso, sembra sempre soddisfatto, anche quando è agitato. A 27 anni, Francesco Franchiè direttore artistico di IL - Intelligence in lifestyle, supplemento “maschile” de Il Sole 24 Ore. Il suo lavoro è probabilmente più apprezzato all’estero: al Malofiej Infographics World Summit 2009, uno dei più prestigiosi concorsi riservati alla grafica editoriale, ha vinto cinque premi. La tesi con cui si è laureato si intitola “Il Re-designer”. Vi si propone un nuovo paradigma dell’informazione, in cui le redazioni dei giornali sono più simili a studi di design che a fredde catene di assemblaggio. Chi sono i tuoi autori di riferimento e quali ope re ispirano la tua creati vità? Non ho autori di riferimento in particolare. Ci sono piuttosto dei personaggi che seguo come Nicholas Feltron. Si è reinventato la professione dell’infografico. Lui tiene traccia ogni giorno di cosa mangia, in quali posti è stato, che musica ascolta, che film ha visto. Alla fine dell’anno, li rielabora in forma grafica e distribuisce un annual report. Come trovi la grafica dei giornali italiani rispetto a quella dei giornali stranieri? La grafica italiana è più confusa. C’è meno attenzione verso la gri-
“IL” sperimenta un nuovo modo di trattare le notizie. La redazione? Più simile a uno studio di design che a una catena di assemblaggio delle news
Forma, pulizia e rigore Così il giornale si fa bello glia, meno pulizia. Sono aspetti che vengono considerati un po’ “fighetti” nei giornali italiani. Si pensa che popolare voglia dire scontorni. In realtà ci sono giornali britannici che sono popolari eppure sono molto razionali. Dipende molto dalla cultura. Quando hai cominciato a pensare che la tua arte grafica potesse essere utilizzata per fare informazione? Qual è stato il primo lavoro in cui hai fuso questi due aspetti? Il primo progetto è stata una bozza di un quotidiano che avevamo sviluppato all’interno di Leftloft in cui si iniziava ad integrare l’infografica nei progetti editoriali. Spesso l’infografica viene concepita come un apparato complementare al testo. Invece la differenza che cercavamo di sviluppare è quella di sostituire il testo con delle doppie pagine infografiche, che erano una vera e propria alternativa a un articolo di diecimila battute. Quali passaggi segui
nella creazione di un grafico? Prima di tutto c’è l’idea del giornalista, ciò che vuole comunicare. Il secondo passaggio è la fase di ricerca, sia dal punto di vista delle informazioni, sia dal punto di vista visivo. Bisogna cercare quale stile usare, se si vuole realizzare un’infografica più fredda, come istogrammi e torte, oppure una più illustrata. Poi si inizia a lavorare ad una bozza a mano, per prefigurarti la pagina e capire come vuoi organizzare le informazioni. Dopo si trasferisce sul computer e si decide con il giornalista quali informazioni selezionare. La parte finale è l’editing del testo. Qual è il valore aggiun to di un’ infografica rispetto ad un normale articolo? Il valore aggiunto è la non linearità. Il lettore si approccia in maniera diversa. Può scegliere le informazioni che vuole, come in una sorta di palinsesto, in cui può scegliere il suo percorso all’interno delle pagine.
Nel tuo libro Re-Designer parli di un muta mento di paradigma, da redesign a redesi gner. Quale sarebbe il ruolo di questa nuova figura professionale nel mondo dell’informazio ne? Un designer in una redazione è un plusvalore. Il giornale dovrebbe nascere da una fusione di conoscenze diverse, poste tutte sullo stesso piano. Spesso nei giornali, la realizzazione è verticale e quindi non c’è molta libertà di esprimersi, di partecipare al processo creativo. La realizzazione di IL invece avviene in maniera molto orizzontale, c’è una divisione funzionale dove ognuno condivide le sue idee e competenze al massimo. È importante capire che non si può concepire la grafica come un pacchetto chiuso, che si consegna al giornale. I giornali che funzionano fondono il punto di vista grafico con quello del contenuto sin dalle fasi di progettazione. La grafica è contenuto e il contenuto è design.
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social network
La guerra in tempo reale Rivoluzione via Twitter Dalle rivolte iraniane del 2009 a piazza Tahrir, il tweet-reporting sta reinventando il modo di raccontare i conflitti. Un flusso di informazioni immediate che però nasconde qualche insidia Di Paolo Frediani
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N FLUSSO CONTINUO di informazio-
ni. Essenziali, veloci. Anzi, istantanee. Le rivolte iraniane del 2009 hanno rivelato al mondo la capacità di Twitter, il social network che permette di condividere brevi messaggi (tweet) da 140 caratteri, di arrivare dove i mezzi di informazione tradizionali non riescono. Chiunque, digitando le parole chiave giuste, può leggere tutti i tweet del mondo su un argomento. I cittadini iraniani condividevano on-line slogan e informazioni, e usavano il social network per convocare le manifestazioni. Oggi Al-Jazeera sembra essere riuscita a domare questa tecnologia, creando una
lista Twitter (@AJEnglish/egyptprotests) per seguire in maniera professionale, ordinata e giornalisticamente attendibile la crisi egiziana. Si tratta di un canale in cui vengono raccolti i resoconti dal Cairo di cinque reporter che seguono in prima linea le proteste. È visualizzabile anche dal sito ufficiale del network televisivo e la copertura degli eventi è 24 ore su 24. La brevità dei messaggi è compensata dal fatto che ne vengono pubblicati centinaia ogni giorno. Nei momenti di maggiore crisi, come nel caso degli scontri in piazza Tahrir del 1 febbraio notte, la raffica di informazioni si fa pressoché continua. Il reporter Dan Nolan è persino riuscito a comunicare il proprio arresto in tempo rea-
le. Fermato dall'esercito il 31 gennaio insieme ad altri cinque colleghi, è stato rilasciato poche ore dopo, ma le loro telecamere, i loro laptop ed i loro telefoni sono stati sequestrati. La notizia è poi apparsa sui principali quotidiani del mondo. «Alcuni media statunitensi avevano già sperimentato l'uso di queste liste in occasione di alcuni eventi, come ad esempio la strage di Fort Hood del 2009 – precisa Craig Kanalley, redattore dell'Huffington Post ed esperto di twitter journalism –. Anche la Cnn e il New York Times hanno validi reporter al Cairo che pubblicano gli aggiornamenti su Twitter. Ma Al -Jazeerasta facendo un grandissimo lavoro. È probabilmente la prima volta che un grande avvenimento internazionale è seguito in modo così capillare. Per situazioni di tale importanza, in cui le cose si evolvono molto rapidamente, credo che la loro lista sia un sistema estremamente efficace per garantire l'informazione in tempo reale. I giornali americani e di tutto il mondo in questi giorni stanno seguendo i tweet di AlJazeera con estrema attenzione. Mi aspetto che questo format abbia sempre più successo in futuro e che diverse testate on-line inizino ad usarlo regolarmente». La velocità ha anche i suoi aspetti negativi. Alcuni tweet si rivelano imprecisi, e molti riportano voci non ancora verificate. Per Craig Kanalley, però, non è l'utilizzo del social network il problema: «Qualunque informazione trasmessa da contesti in rapido sviluppo va presa con le pinze. È un limite con cui i corrispondenti che lavorano in situazioni di crisi si devono confrontare in ogni caso. È l'insieme delle diverse informazioni a dare un quadro complessivo attendibile. Sta ai giornalisti distinguere nei loro tweet i fatti certi dalle impressioni e dalle dicerie. In generale però, è vero che esiste il rischio per i reporter di rimanere intrappolati nella corsa ad arrivare per primi sulle notizie e dimenticarsi del problema nel suo insieme, che per il lettore è poi la cosa più importante».
Per sap e rne di più twitter.com/ajenglish/egyptprotests
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mafie
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di Cristina Lonigro
er Giuseppe Carlo Marino la globalizzazione ha un doppio volto: quello di atto finale del capitalismo e quello di un’economia globale ma sommersa, alimentata e gestita della criminalità. Una vita spesa nella ricerca sulla fenomenologia delle mafie, Marino, storico all’università di Palermo, torna a parlare di organizzazioni criminali in un libro, Globalmafia. Manifesto per un’internazionale antimafia, che non si limita a costruire un quadro interpretativo dei rapporti internazionali costruiti dalle mafie, da quelle sudamericane a quelle europee e asiatiche. Nel suo libro-manifesto Marino vuole mettere in chiaro un dato di fatto: non si può pensare di vincere un fenomeno globale, come ormai è la mafia, con istituzioni nazionali. Perché l’effettivo valore delle politiche statali di contrasto, nel quadro complessivo, risulta irrilevante. Da qui la necessità di una "Internazionale antimafia”, un’unione di Stati che garantisca una forza equipollente a quella criminale. Quanto c’è di utopistico nell’idea di un’ “Inter nazionale antimafia”? L’idea è in se stessa un’utopia, ma questo non significa che non debba rappresentare un impegno e un traguardo da raggiungere. L’utopia non è l’irrealizzabilità assoluta, ma la tensione per realizzare gli ideali. Sono le voci progressiste e utopistiche a poter guidare un percorso che porti a un’unificazione reale nella lotta alla criminalità. Quali poteri dovrebbe avere un’Internaziona le antimafia per essere efficace? Prima di tutto dovrebbe poter operare indagini supernazionali tramite la fondazione, come ha suggerito Antonio Ingroia, di una procura internazionale. In secondo luogo dovrebbe avere la forza di mobilitare un’opinione
La guerra contro la mafia è un affare internazionale pubblica trasversale agli stati, attraverso un’iniziativa comunicativa permanente. C’è poi la questione della tracciabilità dei capitali e della trasparenza finanziaria, ma da questo siamo davvero troppo lontani. Perché nell’appendice del libro ha deciso di pubblicare la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo? Ho voluto inserire i riferimenti normativi per indicare quello che si è pensato e scritto ma non ancora realizzato. La dichiarazione dei diritti umani sarebbe la base di un’”Internazionale antimafia”, perché un’autentica
lotta per la legalità internazionale è una condizione imprescindibile per la giustizia sociale tra i popoli. Combattere per la legalità significa lottare per la giustizia sociale. È dell’ingiustizia che le mafie si avvalgono per far germinare dal basso la criminalità. Ci sono delle responsa bilità italiane nella proliferazione delle mafie internazionali? Credo ci sia una responsabilità metodologica. È la tradizione italiana che ha diffuso la cultura della mafiosità. Una cultura che ha poi assunto varie sfumature a seconda dei territori. Oggi le
mafie intrattengono tra loro una varietà di rapporti che spazia dalla collaborazione alla competizione, fino alla specializzazione settoriale, ma tutte sono unificate da una metodologia dei comportamenti e delle scelte. Tutte le mafie hanno in comune la pretesa di esercitare un potere che non ha bisogno di leggi perché sta al di sopra di tutte le leggi possibili.
Per saperne di più Francesco Forgione, Mafia Export (Dalai); Giuseppe Carlo Marino, Globalmafia (Bompiani)
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giornalismo
L’inviato digitale di giacomo segantini
Da quindici anni Andrea Nicastro racconta i conflitti sulle pagine del Corriere della Sera. Del giornale milanese è stato anche uno dei primi a prendere in mano una telecamera per filmare.Da autodidatta
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e Haiti sono solo alcune delle aree di crisi raccontate dal “veterano” Andrea Nicastro, inviato del Corriere della Sera. È stato tra i primi a firmare servizi che si appoggiano sui video pubblicati sul sito, come quello, nel 2003, dal nascondiglio di Saddam, il famigerato “spider hole”, o i tumulti scoppiati dopo la rielezione di Ahmadinejadin Iran. La sua prima volta è stata in Kosovo, a 31 anni: «Ho iniziato nel ’96 – racconta - appena arrivato agli esteri. Dato che non tutti vogliono andare in aree di crisi, mi hanno chiesto di tornarci in seguito e da lì sono stato in tante altre parti del globo». Come sicontrollalapau ra? Più acquisti esperienza, e più sei consapevole dei rischi. All’inizio non avevo la più pallida idea di cosa fosse un fucile o una pallottola. Mi ricordo un episodio, a inizio carriera: stavo facendo un’intervista in Kosovo, quando sono arrivati i carri armati serbi. Eravamo su una collina, e questo carro armato era un puntino lontano che non mi incuteva alcun timore. Vedendolo arrivare, tutti sono scappati, e io sono rimasto lì, guadagnandomi, tra l’altro, la fama dell’intrepido reporter. Assolutamente inconsapevole,
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RAQ, AFGHANISTAN
però: giorni dopo, parlando con un soldato Nato, scopro che il margine di errore di una mitragliatrice pesante, da quella distanza, è di 3 o 4 dita. Potevano decidere se prendermi in mezzo agli occhi o in pieno petto. Non avevo la più pallida idea del rischio che si corresse. È stato facile comportarmi in quel modo perché non conoscevo il pericolo. Poi ho capito quali sono i rischi che si corrono, tanto da volerli evitare. Ma più “entri” nella storia e più vuoi essere vicino a quello che accade. Che curriculum deve avere il giornalista di guerra? Ci sono dei corsi organizzati dall’esercito, dalla Rai e da alcune fondazioni per gli inviati di guerra. Ma le uniche persone che ho visto reagire in modo professionale in un conflitto armato sono i soldati delle forze speciali, vere e proprie “macchine da crisi”. Non trovo quindi credibile l’idea che i giornalisti possano imparare con un corso a gestire la loro emotività in una situazione di rischio per la vita. Credo che la soluzione sia quella dell’esperienza sul campo, maturata attraverso la buona fede e la prudenza. Lei è sposato, con 3 bam bini. Cosa ne pensa la sua famiglia di quello che fa?
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Quello che penso io: è un lavoro che qualcuno deve fare perché è fondamentale per un’informazione libera e per la dinamica democratica. Senza fare gli eroi però: c’è tutta una serie di situazioni da evitare, in cui ci si finisce dentro. La mia famiglia ha un atteggiamento responsabile verso il mio lavoro: sa che mi piace, e non mi chiede di non farlo. Si fida della mia capacità di discernere tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Prima di partire per un’area di crisi, quali sonoi passaggidi prepa razione essenziali? Sapere cosa si può trovare in termini logistici: alloggio, cibo e comunicazione. Poi cercare di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, con strumenti per potabilizzare l’acqua, formaggio grana sottovuoto, o anche tubetti di latte condensato. Poi, se è una zona pericolosa, munirsi di giubbotto, elmetto e kit di pronto soccorso. Quali sono gli strumenti di lavoro nello zaino di un giornalista in zone di crisi? Un pannello solare pieghevole, per alimentare le batterie dei vari sistemi elettronici, un modem e
un telefono satellitari, un paio di cellulari, uno internazionale e uno con la scheda locale, il Pc (con console di montaggio video), telecamera, macchina fotografica e registratore digitale. Ma la mia esperienza multimediale, fino ad oggi, è stata un’esperienza volontaristica, perché il giornale non aveva e non ha, ad oggi, uno strumento per capitalizzare tramite pubblicità il lavoro multimediale dei pochi inviati che lo fanno. Il primo servizio multimediale commissionato e pagato è stato nella primavera dell’anno scorso, il 2010, quando ho fatto un reportage in tre puntate per il giornale dal Caucaso, e una serie di cinque video per l’online, in concomitanza con il lancio del Corriere su iPad. Per dieci anni, insomma, è stata la passione più che il guadagno a spingermi in questa direzione. Quali sono i requisiti per essere giornalisti multi mediali?
Non credo si diventi giornalista di guerra grazie a corsi che insegnano a gestire l’emotività. L’unico modo è fare esperienza diretta sul campo La cosa fondamentale è essere veramente giornalisti. Non puoi fare questo lavoro, anche se sei bravissimo a girare e a montare, se non capisci qual è la notizia e non hai un senso etico che ti guidi nel leggere la realtà. La tecnica, poi, è qualcosa che si acquisisce. Ma è la testa che comanda la mano che riprende o che scrive: prima di tutto ci vogliono giornalisti intelligenti e liberi. A quel punto, con gli strumenti che ci sono oggi, non è neppure necessario avere una macchina fotografica. Ti basta una telecamera ad alta risoluzione, e devi cominciare a girare. Fondamentale, poi, è montare: facendolo impari a girare, perché capisci quali
immagini ti servono. Chi vuole essere perfetto nelle riprese, però, deve fare il cameraman, non il giornalista. Ma l’industria dell’informazione è capace di reggere entrambe le figure per un servizio? Se il servizio non è a pagamento e non è emanazione del potere politico, purtroppo la risposta è no. Allora, cosa dobbiamo fare, non fare informazione perché il mercato è ristretto? No: è una funzione sociale che dobbiamo svolgere. All’esteroinvece il multi mediale è più valorizza to? Il New York Times ci ha provato. Hanno fornito ai loro inviati una “valigetta multimediale”, che den-
tro ha già tutto pronto, un kit con computer, telecamera Flip, satellitare, sfruttando però quella che è la loro rete di uffici di corrispondenza. Il New York Times però è anche una sorta di “agenzia”, che vende servizi a tutti i giornali anglofoni del globo. Non lanci, ma articoli di qualità. E quindi ha una struttura, una capacità economica che è diversa da qualunque altro giornale del pianeta. Come è avvenuto, nel suo caso personale, il passaggio a reporter multimediale? Ero a Jabal Saraj, all’ingresso della valle del Panjshir in Afghanistan, nell’ottobre 2001, prima dell’invasione. I giornalisti dormivano tutti assieme in edifici semidiroccati assegnati loro dai mujaheddin dell’ex-comandante Massud, tranne quelli di Cnn e Bbc, che avevano edifici affittati per conto loro. C’era un collega turco di Cnn Türk, Irfan Sapmaz, che la Cnn International non voleva nel suo compound. Arrabbiatissimo con i colleghi, si è vendicato dandogli una serie di “buchi”, da solo, che sono stati spettacolari. Non aveva contatti, supporto tecnico, l’autista, e nemmeno la scorta armata, tutte cose che aveva la Cnn. Ma, essendo turco si fece capire in farsi dai mujaheddin, e con la sua camerina riuscì a fare una serie di servizi che la grande struttura Cnn non riuscì a fare. Andandogli appresso, capii l’opportunità di effetto che, in certe
situazioni, ha il mezzo espressivo visivo rispetto a quello cartaceo. È più bello fare un’analisi o un’intervista scritta, ma è più efficace riprendere una trincea, un carcere, un ambiente per dare emozione. Utilizzi social network e blog come fonti? Certo: sono indispensabili. Sono un nuovo sistema per scovare notizie. Prima si andava in un bar a Pristina a sentire cosa dicevano i vecchi, o nelle università a sentire cosa dicevano i giovani, adesso devi cercare luoghi di aggregazione virtuale per capire cosa pensa la gente. Il servizio di cui va più fiero, se dovesse sce glierne uno? Un inedito: l’ingresso a Kabul nel 2001 dei mujaheddin dell’alleanza del Nord. Non è mai uscito perché all’epoca non avevo gli strumenti per inviare i file e montarli, ma comunque mi avevano prestato la telecamera, e quei 10 minuti di girato, che sono un pezzo di storia perché eravamo pochi ad entrare a Kabul, sono ancora nel mio cassetto. Nessuno lo ha mai visto: l’immagine entrata nella storia è John Simpson della Bbc su un carro armato. Ma ci sono anch’io, sul cofano di una vecchia Lada sovietica guidata da un mujaheddin che entra a Kabul. Quello sarebbe stato un valore, un qualcosa in più, ma non esisteva il mezzo per valorizzare quel tipo di prodotto. Oggi speriamo di sì.
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libertà di stampa
Il reporter ambientale che sfidava Manila di Paolo Frediani
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a un anno girava con la guardia del corpo, ma non è bastato. La mattina del 24 gennaio Marlon Bechavez Recamata, un sicario venuto dall'area metropolitana di Manila, lo ha ucciso. Gli ha sparato in pieno giorno, in un mercato di Puerto Princesa, capoluogo dell'isola di Palawan. Gerardo Ortega in quella città era un personaggio in vista. Si faceva chiamare “Doc Gerry” ed era il conduttore di Ramatak, un programma di informazione trasmesso sulla filiale locale del network radiofonico Rmn. Aveva dedicato la sua vita alla difesa dell'ambiente, e dai microfoni della sua trasmissione non risparmiava attacchi alle società minerarie che operano nella regione. Palawan è una delle isole più belle e incontaminate dell'arcipelago delle Filippine e ha un potenziale turistico enorme. Il suo sottosuolo è ricco di nickel, e questo ne ha fatto una preda appetibile per le aziende estrattive. Tra queste, l'inglese Toledo Mining Corporation e la MicroAsia di Lucio Tan, secondo uomo più ricco delle
Gerardo Ortega denunciava con coraggio da anni le ecobarbarie commesse dalle industrie e aveva prove schiaccianti della corruzione del governo. Un sicario lo ha ucciso in pieno giorno 10
Filippine. Gerardo Ortega da tempo denunciava casi di corruzione e devastazioni del territorio, e aveva subito diverse minacce. In Palawan ci sono molte aree protette in cui non è possibile l'attività estrattiva, ma questa viene portata avanti abusivamente. «Doc Gerry aveva diverse frecce nel suo arco. Era project manager di una campagna per promuovere l'ecoturismo sull'isola. Era anche presidente dell'associazione Klm, che si occupa di denunciare casi di corruzione nell'industria del metano. Aveva un sacco di documenti e prove schiaccianti che avrebbero potuto rivelare casi di corruzione del governo», ha scritto Redempto Anda sul quotidiano Philippine Daily Inquirer. Anche Anda, giornalista e amico di Ortega, è stato vittima di minacce, nel 2008. «Ortega alla corruzione non era semplicemente contrario. Lo mandava su tutte le furie», dice l'arcivescovo di Palawan Pedro Arigo. Il prelato è tra i sostenitori di una raccolta firme per chiedere al governo di fermare completamente le estrazioni sull'isola. Ortega è stato uno dei promotori della campagna. Non si sa con certezza chi ci sia dietro il suo assassinio. Si sa però che non doveva essere l'unico a morire. Rodolfo Edrad Jr, uno dei complici del sicario che gli ha sparato, ha rivelato che era in progetto l'omicidio un'altra personalità del mondo dei media, non ancora identificata.
MAGZINE 12 | 1 febbraio - 28 febbraio 2011
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Un post dalla rivolta, in prima fila il blog di Lina di Destefanis e Daina
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INA è una di quelle che
le storie le vanno a cercare in strada, ma soprattutto è una blogger tunisina che la rivolta la racconta da dentro. «I rischi ci sono - spiega - ma fanno parte delle regole del gioco. Ero in mezzo agli scontri quando ho scoperto che le milizie del partito dell’ex presidente Ben Ali offrivano soldi e alcol alla gente perché aggredisse i manifestanti. Ho rischiato di essere malmenata anch’io mentre me lo facevo raccontare». Assistente di linguistica nella facoltà di Scienze umane e sociali dell’Università di Tunisi, Lina Ben Mhenniha studiato e insegnato anche negli Stati Uniti . Quella dei tentativi di corruzione dei controrivoluzionari è solo una delle storie che la 27enne di Tunisi ha scritto sul suo blog, A Tunisian Girl, online dal 2007 ma censurato per due anni, insieme a molti altri e a Facebook. «Hanno revocato la censura un giorno prima che Ben Ali fosse destituito: un gesto
che mirava a placare in extremis la rabbia del popolo virtuale, ma non ha raggiunto il suo scopo», spiega. «Comunque - continua Lina a nome della comunità dei blogger - non ci siamo mai arresi. Diffondevamo via web i programmi per aggirarla. Purtroppo non tutti erano capaci a usarli». Guai a tirarsi indietro. Lina ha scoperto di essere stata censurata due settimane dopo essere arrivata negli Stati Uniti, dove teneva corsi di giornalismo e sociologia. Era il 2008. «Le spiegazioni - racconta - non me le hanno mai date, a me come agli altri blogger. Buio e basta. Probabilmente pensano che le mie idee siano pericolose. Sarà per questo che non si sono limitati a oscurarmi ma sono entrati in casa dei miei genitori, hanno perquisito la mia stanza e mi hanno sequestrato il computer e i dvd». All’inizio Lina scriveva di arte, cultura, letteratura e soprattutto questioni sociali. Nel 2008, quando iniziarono le campagne contro la censura, e iniziò a testimoniare le violazioni dei diritti umani. Erano appena scoppiate le proteste studentesche organizzate nella General Union of Student of Tunisia, e i manifestanti erano picchiati e arrestati con frequenza dalla polizia. «Erano le avvisaglie della rivoluzione che stiamo vivendo ora», conclude Lina.
multimedia
Gestalten tv, l’arte del collage di Luigi Serenelli
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ONO TRE LE PAROLE che riassumono
il progetto Gestalten tv: exploring visual culture, esplorare la cultura dell’immagine. Perché l’immagine è sempre il frutto di un’elaborazione creativa e pratica, che i curatori del progetto “made in Deutschland” seguono passo dopo passo, documentando ogni sequenza del lavoro. Gestalten è nata a Berlino nel 1995 come editrice e da allora si è fatta conoscere per i 400 libri che documentano e anticipano i trend di design, illustrazione, architettura e tipografia, ma anche arte urbana e contemporanea. La rete di distribuzione è diventata il canale per entrare in contatto con artisti e avanguardie di tutto il mondo. La web tv è arrivata in un
pagina bianca sulla quale si scrivono le storie che coprono «tutto lo spettro del mondo dei designer, dagli artisti in senso lato, agli architetti, ai tipografi», continua Wagner. «Per noi – aggiunge – la cultura visiva si genera dall’interrelazione tra design, arte, architettura, fotografia e altre discipline visive. E di queste ultime con isole di creatività come la musica e la cultura pop. Combinare influenze eterogenee sposta la linea della frontiera dell’espressione creativa contemporanea più in là». Il “palinsesto” di Gestalten propone ogni due settimane un nuovo mini-documentario. Il ritratto degli artisti e il loro lavoro è assemblato sotto forma di videocollage. «Alcuni esempi del nostro approccio – suggerisce
Una web tv di Berlino remixa design, architettura e fotografia per documentare come si costruisce un’opera d’arte. Puntando gli occhi sul backstage secondo momento, come un fuori programma, racconta il direttore, Ole Wagner: «L’idea di fondo alla quale ci siamo ispirati, nel 2007, è stata la continuazione dell’esperienza acquisita da Gestalten negli anni di documentazione delle avanguardie della cultura visiva». Tra queste, Gestalten ha individuato Erwin Wurm. L’artista austriaco è, secondo Wagner ,il simbolo perfetto «dell’influenza dell’arte sulla realtà attraverso il canale dell’umorismo e dell’ironia». Gestalten è, allo stesso tempo, un think tank al quale si rivolgono marchi globali, ed una
Wagner – sono “Studio on Fire”, un viaggio nell’ossessione del processo di design, ed “Erik Spiekermann”, racconto in prima persona di un tipografo, graphic designer e uomo d’affari che ha alle spalle 30 anni di lavori metafisici». Il messaggio finale resta immutato: la realtà è qualcosa che si può scomporre, analizzare, assemblare nuovamente, fino a farla diventare irreale.
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Wikipedia addio, il futuro è video
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di Giuliana Grimaldi
i chiama Qwiki.com ed è una nuova piattaforma multimedialeintenzionata a ribaltare il modo con il quale interroghiamo il web. Presentata come un video search engine, è in realtà un’enciclopedia video. Una volta introdotto l’oggetto della ricerca nella barra di navigazione, parte una sorta di presentazione multimediale che, avvalendosi di immagini, video, grafiche e di una voce narrante simile a quella delle audioguide dei musei, sintetizzerà le informazioni salienti riguardanti un personaggio, un fatto storico, una città, un tipo di tecnologia, un genere musicale. Dopo il rodaggio della versione beta, il 24 gennaio il sito è diventato open public; in poco tempo i lemmi contenuti nel sistema sono già oltre 3 milioni. Gli argomenti spaziano dalla geografia allo spettacolo, dalla storia alla moda, dal cinema alla politica, passando da cronaca e sport. Facendo un breve test si scoprono presentazioni molto accurate su Steve Jobs come su Letizia Moratti, su Michelangelo come sugli spaghetti alla puttanesca. Mente e cassa del progetto sono Eduardo Saverin (l’ex braccio destro di Mark Zuckerberg) e Jawed Karim, fondatore di YouTube; insieme hanno iniettato nel progetto 8 milioni di dollari con l’intenzione di «migliorare per sempre il modo in cui la gente fruisce l’informazione». MAGZINE 12 | 1 febbraio - 28 febbraio 2011
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grafica
News on the road Bold Italic è un labora t o rio virtuale di giovani aspiranti scrittori che raccontano storie e tendenze della gente di San Francisco. Un viaggio dove gra fica e reportage si fondono, a metà tra Kerouac e il gonzo journalism di Antonio Nasso
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in città a bizzarre gite collettive in luoghi sacri, dalla ricetta per il limoncello messa a punto dal catering più esclusivo ai segreti della caccia ai granchi: un argomento al giorno per raccontare San Francisco, riunendo le voci di commercianti e consumatori, curiosità e tendenze. Tutto questo è The Bold Italic (www.the bolditalic.com), sito web che da due anni detta la linea delle tendenze cittadine grazie alla potenza dell’impianto grafico e della squadra di scrittura, composta da giovani cantastorie (i Bold Locals) costantemente in giro per la città. Una comunità nella comunità, che mette le potenzialità globali della rete al servizio del locale, come spiega la producer, Nicole Grant. Com’è nato The Bold Italic? È un progetto della Gannett, gruppo editoriale proprietario di grandi testate, tra cui Usa Today. I lettori non credono più nell’oggettività, per capire cosa fare e dove andare vogliono punti di vista autentici da parte di persone del luogo. Amano i negozi locali, cercano i consigli degli organizzatori di professione, di chi vive attivamente la città ed è in grado di creare aggregazione. Per veicolare efficacemente questi contenuti è necessario un design pulito, lontano dalla confusione di Facebook. Partendo da questi presupposti The Bold Italic ha riunito i Bold Locals, persone comuni più che
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Periodico realizzato dal Master in Giornalismo dell’Università Cattolica - Almed © 2009 - Università Cattolica del Sacro Cuore
AL MIGLIOR BRUNCH
direttore Matteo Scanni coordinatori Laura Silvia Battaglia, Ornella Sinigaglia
scrittori di professione che hanno accettato la scommessa di uscire di casa per raccontare la vita urbana e raccontare esperienze originali. Tutte storie che non trovano spazio su altri siti o quotidiani locali. Come vi finanziate? Riceviamo denaro dalle attività locali che hanno interesse a raggiungere il nostro pubblico. Siamo i campioni dell’imprenditoria locale, perché gli abitanti di San Francisco si identificano molto con i negozi che sostengono, dal caffè in cui vanno ogni mattina al negozio di design che
MAGZINE 12 | 1 febbraio - 28 febbraio 2011
visitano nel weekend. Pubblichiamo una storia al giorno e quasi tutte hanno al loro interno un negozio locale. Cosa c’è nel vostro futu ro? The Bold Italic sarà replicato in altre città? San Francisco è piena di gente creativa e questo la rende un terreno fertile per simili esperimenti. Penso però che ci siano persone che vivono esperienze uniche in tutte le città americane e l’idea di espanderci ci piace molto. Per questo invitiamo i nostri lettori a darci i loro feedback sul nostro forum.
redazione Fabrizio Aurilia, Giuditta Avellina, Chiara Avesani, Lorenzo Bagnoli, Valerio Bassan, Matteo Battistella, Marco Billeci, Valeria Castellano Salvo Catalano, Michele D’Onofrio, Chiara Daina, Giulia Dedionigi, Giulia Destefanis, Fabio Forlano, Giacomo Galanti, Carlotta Garancini, Giuliana Grimaldi, Cosimo Lanzo, Andrea Legni, Cristina Lonigro, Paolo Massa, Alessandro Massini Innocenti, Antonio Nasso, Ambra Notari, Tancredi Palmeri, Simona Peverelli, Rosa Ricchiuti, Denis Rizzoli, Gregorio Romeo, Gabriele Russo, Stefania Saltalamacchia, Giacomo Segantini, Bianca Senatore, Luigi Serenelli, Francesca Sironi, Matteo Sivori, Alessandro Socini, Enrico Turcato, Gianluca Veneziani amministrazione Università Cattolica del Sacro Cuore largo Gemelli, 1 20123 - Milano tel. 0272342802 fax 0272342881 magzinemagazine@gmail.com
progetto grafico Matteo Scanni service provider www.unicatt.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 81 del 20 febbraio 2009