,)&.*('
!"
#$%&'(()*+% #%,)-.+%#!/!
Quindicinale di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
www.magzine.it
Deaglio | Protti | Scaramucci | Manghi | Giannuli | Il Giornalista Il Professore | Boneschi | Gay | Pillola Rossa Crew
CONTRO informazione Per alcuni è stata una stagione esaltante del giornalismo, per altri una pagina da archiviare al più presto. Storia e metodi di lavoro dell’inchiesta dal basso
una definizione 1 | deaglio
E se la verità
fosse un’altra di Lorenzo Bagnoli e Valerio Bassan
Da Lotta Continua a Diario,tre decenni vissuti a rettificare la “voce del potere”.Per Enrico Deaglio,controinformazione e informazione coincidono.Nelle ultime inchieste ha usato il video,ma il metodo è sempre quello del cronista di strada
C
ONTROINFORMAZIONE” È UN CONCETTO CHE
presuppone l’esistenza di un’informazione ufficiale che ha interesse a raccontare i fatti in un certo modo e quella di una “verità alternativa” che ad essa si contrappone. Questa verità alternativa all’inizio è sempre piccola e debole e ha anche un limite enorme: il punto di vista ideologico. È inutile negarlo. Nelle proprie ricerche si viene guidati da ciò per cui si parteggia. Questa stagione giornalistica fiorì negli anni della contestazione, quando si sperava che il mondo potesse cambiare, a partire proprio dal modo in cui esso veniva raccontato. Storicamente il periodo della controinformazione nacque negli anni della strategia della tensione, con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. «All’epoca militavo nelle file di Lotta Continua - spiega Enrico Deaglio - e ricordo che piazza Fontana fu un evento inaudito sotto due punti di vista. Non s’era mai vista in Italia una bomba in una banca con tutti quei morti. Si capì subito che c’era una grossa posta in gioco. Per noi della sinistra extraparlamentare l’evento rappresentò un problema: fummo additati come responsabili della strage. Da un lato volevamo conoscere la verità, dall’altro dovevamo difenderci dalle accuse. Non eravamo del tutto sicuri che la bomba non fosse stata messa dagli anarchici, perciò decidemmo di fare una prima inchiesta nel nostro mondo». Che metodo seguiste? Quali fonti interpellaste? Gli anarchici stessi. Il metodo seguito a volte era piuttosto spiccio. Si pigliava la persona, la si metteva da parte e le si diceva: “Adesso me la racconti giusta”. Stare dalla stessa parte della barricata aiutava la comunicazione. In più, essendo il periodo in cui circolava un po’ di droga, alcune persone meno affidabili potevano essere facilmente ricattabili. E quest’opportunità veniva sfruttata, senza fare violenza. Se in qualche circoletto anarchico qualcuno
Nella foto in alto: autonomi in manifestazione a Milano negli anni Settanta.
2
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
avesse ventilato aspirazioni “bombarole”, l’avremmo detto. Ne sono sicuro. Perciò dall’inchiesta sulla bomba di Piazza Fontana avemmo la certezza che nessuno dei “nostri” era coinvolto nella storia. Ci furono inchieste della sini stra extraparlamentare sugli ambienti fascisti? Una, quella di Marco Liggini. Era un militante di PotereOperaio, un reporter di razza che cominciò a indagare sui neofascisti romani. Sui suoi primi lavori si formò un pool di giornalisti, e fra loro c’era anche Piero Scaramucci, poi giornalista Raie direttore di Radio Popolare. Il gruppo produsse l’inchiesta collettiva La strage di Stato, che è ancora un volume fondamentale per capire quel fatto. Chi si opponeva alla nostra visione era il Pci, per il quale era inaccettabile l’idea stessa di strage di Stato. E se anche fosse avvenuta non lo si sarebbe potuto rivelare. Però noi volevamo smuovere le coscienze dei comunisti, la nostra sponda naturale. La maggioranza silenziosa, invece, era irraggiungibile. Il 1969 fu anche l’anno di nascita sia del movimento sia del giornale Lotta Continua, uno dei protagonisti della controinformazione. Cosa ricorda di quei giorni? Ricordo il momento in cui l’organizzazione fubattezzata: la leggenda narra di un operaio che davanti al cancello della Fiat Mirafiori gridò “la lotta continua”, dando di fatto il nome al gruppo. Fra i giornalisti che vi lavorarono, molti oggi sono professionisti. Io fui tra i fondatori. Il progetto nacque dall’idea del movimento studentesco di spostare il terreno di lotta dalla scuola alle fabbriche. Per gli studenti si trattava di andare di fronte ai cancelli delle fabbriche, distribuire volantinie organizzare la rivolta. L’ambiente operaio stava conquistando visibilitàdi giorno in giorno: lotte per l’aumento del salario, per il riconoscimento di turni lavorativi più umani e per condizioni di vita migliori. Stavano emergendo forze sindacali in grado di scalzare quelle commissioni interne molto burocratizzate che avevano interesse a lasciare lettera morta le richieste dei lavoratori. In quel contesto era decisivo possedere strumenti di comunicazione, che fossero volantini, fogli, manifesti affissi per strada, periodici o quotidiani. Lc, in un primo tempo uscì
Enrico Deaglio inizia l’attività giornalistica a Roma nel 1969 nella redazione di Lotta Continua. In seguito dirige il quotidiano dal 1977 al 1982.Tra gli anni ’80 e ’90, conduce programmi di inchiesta giornalistica sulle reti pubbliche:Mixer, Milano-Italia, L’elmo di Scipio, Ragazzi del ’99. Nel 1996 fonda il settimanale Diario, che dirige fino al 2008.Realizza anche quattro documentari, tra cui Uccidete la democrazia, sui presunti brogli elettorali alle elezioni politiche del 2006.
come settimanale e dal 1971 come quotidiano. Quali erano le attività svolte dalla redazione di Lc? Concretamente c’era da fare un quotidiano, quindi dare notizie. Bisognava essere la voce del “partito”, anche se in realtà non lo eravamo, almeno non nel senso strutturale del termine. Esistevano però una segreteria, commissioni operaie, un comitato nazionale, gruppi d’intervento, gruppi culturali. Il giornale rifletteva questa organizzazione. L’idea principale era raccontare i movimenti della società, ciò che succedeva alla base, sia per quanto riguarda le lotte, sia per quanto riguarda i temi e le problematiche a cui dare spazio. Proponevamo esempi positivi di “opposizione al sistema” perché eravamo convinti che sostenendo la diffusione di lotte, proteste e scioperi si sarebbe prodotto un cambio di governo. Avremmo ritenuto un successo anche solo far fuori la Democrazia Cristiana. Nella storia di Lotta Continua, quale fu l’inchiesta che riuscì a scalfire il sistema più nel profondo? Quella sulla P2, nel maggio 1976. Avevamo in corso un movimento per autoridurre le bollette della luce. Bisognava andare casa per casa e fare propaganda: il concetto era che la luce doveva essere gratis. Durante una di queste uscite, una giornalista capitò in una casa di Firenze dove una signora le fece delle confidenze su una specie di setta di ultradestra composta da poliziotti. La notizia fu passata ad
Nel maggio 1976 un giornalista di Lotta continua scoprì che una setta segreta di ultradestra si riuniva ad Arezzo. Era la P2 di Licio Gelli
un altro giornalista, Marco Ventura, che seguì la vicenda. E scoprì che in una villa poco lontana da Arezzo c’era un organizzazione eversiva segreta, la P2, alla cui guida c’era un materassaio di nome Licio Gelli. Le tre puntate che pubblicammo furono una bomba. Purtroppo il quarto giorno avvenne il terremoto in Friuli e l’inchiesta fu sospesa, senza avere poi alcun seguito nel futuro. In che modo fu condotta l’inchiesta? La fonte principale fu proprio la signora ascoltata dalla nostra giornalista durante la campagna per la riduzione delle bollette. Poi i giornalisti che se ne occuparono andarono sul posto. Adesempio, per capire chi fossero i frequentatori della villa di Gelli, si presero le targhe delle macchine. In più si mise a fuoco Gelli, la sua fabbrica di materassi e i suoi legami con le alte sfere della politica. Come sono cambiate oggi le tecniche della con troinformazione rispetto agli anni ’70? La differenza macroscopica sta nel grandissimo numero di immagini di cui siamo in possesso. Per esempio, se in occasione della morte di Carlo Giuliani, durante il G8 del 2001, non ci fosse stato quello stuolo di telecamere e fotocamere a riprendere l’evento, per qualcuno sarebbe ancora possibile sostenere che il ragazzo è stato colpito da una pietra, che gli hanno sparato i suoi o altre versioni differenti. Le immagini, al contrario, svelano che a sparare è stato l’agente dei carabinieri, Mario Placanica. In quel caso, bisognava capire prima di tutto se fosse stato preordinato lo scontro tra la polizia e i manifestanti. Molti elementi facevano pensare che quest’ipotesi fosse corretta. Oggi è più facile fare controinformazione? Gli strumenti che si possiedono sono più potenti e decisamente poco costosi. Il problema è che ci si accontenta. Per esempio, posso farmi mandare i verbali di un processo via e-mail. Però tendo a non andare oltre e mi limito agli atti giudiziari, punto e basta. Il modo migliore di fare giornalismo è sempre quello di andare sul posto, sentire le persone, raccontare i luoghi, vederli con i propri occhi. Lì poi può venire l’ispirazione. Sciascia, che realizzò un lavoro di approfondimento sul rapimento Moro e fece parte della Commissione parlamentare d’inchiesta, una volta mi disse: «A me piace guardare delle facce e leggere delle carte». Oggi invece si è perso questo contatto fisico con la materia dell’inchiesta. MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
3
il caso pinelli
Quel giorno in Questura, la falsa pista anarchica Dieci anni di silenzi. Poi Piero Scaramucci intervistò Licia, la moglie di Pino Pinelli. Gli incontri durarono un anno e mezzo. Ne uscì il primo ritratto a tutto tondo dell’uomo accusato della strage di piazza Fontana di Giuditta Avellina e Enrico Turcato
U
UNA CASA AL QUARTO PIANO via
Mondello a Milano. Due cancelli, un giardino, qualche rampa di scale e un ascensore in ferro battuto. Una stanza immersa nella penombra. E poi decine di pipe: Piero Scaramucci ne accende una, la fuma lentamente. Libri, tanti: dodici piani di cultura, storie, retroscena, poesie, saggi, mentre ascolta Radio Popolare. È la sua radio, l’ha fondata nel 1976 per lasciarla nel 2002. In casa Scaramucci i gatti corrono da tutte le parti, saltano sui libri, lisciano con la coda le riviste. Il giornalista ricorda il suo lavoro in Rai quando la controinformazione organizzata esisteva anche nella televisione nazionale sui gironi che lo videro testimone della vicenda di Pinelli. «Con Lotta Continua avevo seguito l’accaduto, ma fui quasi colto alla sprovvista quan-
do Licia mi chiamò per parlare del marito». Poi l’impegno politico, la volontà di non piegarsi ai ritmi della tv di stato, o meglio, di conviverci. Ed ecco la prova tangibile del suo operato. I bollettini di controinformazione che il giornalista pubblicava insieme a un gruppo di giornalisti militanti. Scaramucci li sfoglia, posa la pipa. Esisteva un controllo dell’informa zione? C’è sempre stata, c’era, c’è ancora adesso e probabilmente ci sarà sempre un’informazione che dipende dai poteri politici e che pubblica o censura in funzione del mandato che riceve dal referente politico. In quegli anni qualche quotidiano nazionale faceva controinforma zione? Controinformazione vera e propria no. Però, negli anni ’60, c’era il quotidianoIl Giornofondato da Enrico Mattei, offriva un diverso punto
di vista alle giovani generazioni. Un giornale né rivoluzionario né comunista ma pensato da ottimi giornalisti, interessati ai lettori e ai fatti, anche quelli scomodi. A quali giornalisti si riferisce? Marco Nozza, Guido Nozzoli, Corrado Stajano, Camilla Cederna, Giampietro Testa, Gabriele Invernizzi. Questi giornalisti hanno fatto tutti controinformazione : hanno fatto i cronisti, raccontando anche quelle cose che erano scomode al potere e che altri giornali non raccontavano. Non sempre però riuscivano a pubblicare: a volte venivano censurati. Anche io, nella Rai degli anni ’60 non potevo raccontare tutto. Chi faceva controinformazione? Un’organizzazione della sinistra extraparlamentare che si spendeva in un lavoro di intelligence: arrivavano informazioni sui fascisti, sugli attentati, sulla situazione delle fabbriche, che permettevano di capire come stavano veramente le cose. Nel 1969 la vera controinformazione ancora non esisteva. Lei lavorava in Rai in quegli anni, come era considerato? In Rai ero considerato “la pecora rossa”. Su Piazza Fontana e dintorni mi facevano lavorare pochissimo, mentre mi sono occupato molto del movimento studentesco del 1968 e 1969. Da militante, conoscevo, sapevo, avevo rapporti, partecipavo alle assemblee e potevo raccontare delle cose. Gli altri giornali avevano un approccio diverso: l’importante era non dare troppa importanza a quelle agitazioni studentesche. Scaramucci di cosa si occupava oltre ai movimenti studenteschi? Lavoravo per Il Gazzettino Padano, per il giornale radio Rai e per il Gr nazionale. Qui con le censure del caso, raccontavo di scioperi, sindacati, scontri e manifestazioni. Non erano cose da poco, considerato che, fino a metà degli anni ‘60, in Rai il sindacale non veniva minimamente considerato.. Cosa significava lavorare in Rai ? Nella prima metàdegli anni ’60 dovevi solo scrivere la notizia. Col passare degli anni, lo spazio
Nella foto in alto: un momento del processo al commissario Luigi Calabresi.A sinistra: l’anarchico Pino Pinelli.
4
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
D o v e Milano, notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, quarto piano della Questura di via Fatebenefratelli. Vittime L’anarchico Giuseppe Pinelli. Movente È accusato di essere stato uno degli organizzatori della strage di Piazza Fontana. I protagonisti Giuseppe Pinelli, il commissario Luigi Calabresi e il capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra che lo interrogarono, la moglie Licia Pinelli.
per i giornalisti è aumentato, ma non era facile riuscire a far passare elementi che in giro non circolavano. Io lo facevo mettendo le parole in bocca agli intervistati. La notizia aveva un iter lungo… Sì, ma dalla seconda metà degli anni ‘60, nasce una cosa che noi giornalisti in gergo chiamavamo “il tale e quale”. Tu facevi un pezzo, lo registravi a voce e non te lo toccavano più: rimaneva tale e quale per accorciare tempi e costi. Ovviamente si sapeva che se la notizia non era presentata e detta in un certo modo, non te la passavano e avevi lavorato per niente. Bisognava essere bravi a raccontarla. Come è arrivato in Rai? Quasi per caso. Un amico che lavorava lì mi aveva detto che cercavano dei giovani. Sono andato. C’era Emilio Pozzi e mi ha provato la voce dicendomi che andava bene. Mi hanno messo in mano un microfono e mi hanno mandato in Fiera a Milano per fare un servizio. Sono piaciuto subito e così ho cominciato. Eravamo in cinque. Prima ci pagavano cachet a servizio, poi siamo stati pagati a ore per dei turni redazionali. Dopo 3 anni ci hanno messo sotto contratto. Era il 1961. La sua appartenenza politica le ha creato problemi? Ero in Lotta Continua, dopo nei Quaderni Ros si. Ma sapevo che se volevo raccontare le cose sul servizio pubblico dovevo farlo in un modo. La partita era quella e io me la giocavo. Alla Rai, pur essendoci grandi giornalisti mai capaci di stare zitti come Beppe Viola o Romano Battaglia, c’era sempre un controllo politico democristiano: colleghi che ispezionavano, che spiavano, che riferivano. Con i democristiani un po’ si trattava, un po’ si litigava, ma poi alla fine si arrivava a un compromesso.
In Rai qualcuno faceva controin formazione? Nel 1970, alla Rai di Milano, in via Riva di Villasanta abbiamo occupato una stanza in modo permanente per due mesi e abbiamo prodotto un bollettino interno: Cronaca Della Lotta. Erano cinque o sei pagine quotidiane, micidiali. Lì raccontavamo i segreti della Rai, notizie che ovviamente non sarebbero mai uscite, che riguardavano l’organizzazione del lavoro e la censura. A Milano cosa successe nelle ore successive a quel 12 dicembre 1969? Dopo la strage di Piazza Fontana si fece fatica a capire di chi fosse l’iniziativa anche se intuimmo subito che la bomba era una provocazione. Il 15dicembre è stata una giornata fondamentale: i funerali di stato, la risposta della gente è stata straordinaria. Non ho mai più visto una cosa del genere. La situazione era surreale perché i sindacati, metalmeccanici e Uil su tutti, proclamarono lo sciopero. Poi il 16 dicembre... In quel giorno si seppe che un anarchico era stato arrestato e un altro si era buttato dalla finestra. Si comprendeva che la versione data dalla polizia non era credibile: era folle pensare che quell’anarchico si buttava dalla finestra urlando la fine dell’anarchia. Lìc’è stata paura da parte di tutti. Qui nacque la controinformazione,
La controinformazione è lo strumento per far sapere ciò che il potere ti vuole nascondere
qui iniziammo il lavoro di ricerca. Cosa accadde alla conferenza stampa della polizia? A quella conferenza, avvenuta tra il 15 e il 16 dicembre, in cui vennero incolpati gli anarchici c’erano Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, oltre ad altri giornalisti di spicco. Due giorni dopo Lotta Continua rivelò che non erano gli anarchici ad aver progettato la strage e si andò avanti per mesi cercando di stanare i veri colpevoli. In primavera vennero spedite le prime querele, compresa quella al commissario Luigi Calabresi, che però non voleva andare in aula a testimoniare. Lotta Continua accusava Calabresi di avere affermato il falso per nascondere la verità. Ci furono altri eventi sospetti attor no all’accusa degli anarchici? Il trasferimento dell’inchiesta a Roma. La pratica non convinse nessuno e venne mandata a Roma al procuratore Vittorio Occorsio, dove restò ferma due anni. Era un chiaro tentativo di insabbiamento. Ci chiedevamo: perché se il fatto era accaduto a Milano, bisognava occuparsene a Roma? Ugo Paolillo, il procuratore di Milano, non accettò mai la decisione. A lui venne tolta l’inchiesta immotivatamente. Come definisce la controinforma zione? La controinformazione è lo strumento per sapere ciò che il potere ti vuole nascondere. Saperlo, capirlo e soprattutto farlo sapere agli altri. Cos’era la controinformazione negli anni 70? Fu uno straordinario strumento di cui si dotò la sinistra extraparlamentare, per indagare sulla realtà, per capire come stavano realmente le cose, al di la delle versioni ufficiali che erano troppo spesso devianti, strumentali e di appoggio a strutture eversive, legate al terrorismo. Ogni gruppo si dotò di strutture proprie per indagare, capire, studiare e poi far emergeMAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
5
il caso pinelli
È stata l’intervista più dura di tutta la mia vita. Licia Pinelli è davvero una persona riservata re delle verità. Ci furono delle grandi battaglie politiche, sorrette dalla controinformazione, che fornirono all’opinione pubblica strumenti di comprensione per scoprire segreti che custodiva il potere. Come nacque il primo gruppo di controinformazione? Marco Ligini ed Eduardo Di Giovanni ebbero una dritta dai servizi segreti. La notizia trapelò da qualcuno, feci loro capire le anomalie della strage e la sua possibile matrice fascista. Contemporaneamente a Roma partì l’inchiesta sui fascisti. A Milano un gruppo di cattolici si organizzaintorno a Licia Pinelli. A casa Pinellisi crea un centro di controinformazione consistente: giornalisti, tra i quali Gabriele Invernizzi, avvocati, gruppi della sinistra. Un grande lavoro di inchiesta durato pochi mesi, visto che il libro esce per la prima volta nel giugno del 1970. Lì, abbiamo veramente capito come stavano le cose: tutto era stato organizzato dai fascisti per colpire ingiustamente gli anarchici. Come contribuì Lotta Continua? Con assemblee e riunioni segrete. Si decise di produrre il Bollettino di controinformazione democratica (Bcd) per rendere pubbliche notizie che non trovavano spazio negli altri giornali. Lo distribuivamo per tutta Milano e provincia. Si parlava, si trovavano elementi: quando qualcuno notava una stranezza, o aveva un documento per le mani, o riceveva una confidenza o una telefonata, lo diceva al gruppo. Si partiva da lì. Senza dare troppo nell’occhio. A mio avviso la controinformazione vera e propria nasce lì. Non si rischiavate il posto di lavo ro? Nessuno ha perso il posto di lavoro per aver fatto controinformazione. Certo, era d’obbligo fare attenzione. Non dovevano trovarti con documenti compromettenti in mano, ovvio. Scaramucci, come è arrivato a sapere del caso Pinelli? Chi vi mise
Per sap e rne di più Licia Pinelli e Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia (Feltrinelli,); Camilla Cederna Pinelli. Una finestra sulla strage (Il Saggiatore).
6
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
in contatto? Licia Pinelli mi ha sempre detto che sono stato scelto dalle figlie, che mi avevano visto in tv. In questa storia la mia militanza politica non c’entra nulla. Mi telefonò l’avvocato Bruno Manghi. Fissammo un appuntamento a casa sua. Arrivai lì e la Pinelli mi disse che mi voleva raccontare tutti gli aneddoti legati a quella storia. Immagina quanto ho goduto. Erano passati 10 anni dal caso Pinelli, ma la cosa era ancora attualissima. Fu un classico esempio di controin formazione? Il caso Pinelli fu la prima grande operazione di controinformazione di Lotta Continua. Quando il questore disse nella notte, poche ore dopo la morte di Pino, che «l’anarchico si era buttato dalla finestra al grido della fine dell’anarchia», i più avveduti non ci credettero, ma tentarono di smontare questa versione. Vennero raccolti elementi, testimonianze, documentazioni. La scelta di Lotta Continua fu quella di attaccare apertamente il commissario Calabresi, per indurlo a querelarci e aprire il processo. Processo che infatti si aprì e cominciarono ad affiorare circostanze che contraddicevano completamente la narrazione dei fatti sostenuta dalla questura. Tanto è vero che poi negli anni la figura di Pino è stata riabilitata, tanto che il 9 maggio 2009 il presidente Napolitano ha affermato che Pinelli è stato vittima due volte: di una fine assurda e di un ingiusta infamia sul suo nome. Non dobbiamo dimenticare il contesto di allora, il coro della stampa e non solo quella governativa, ma tutte le testate credevano alla versione ufficiale. Lotta Continua no. Grazie alla controinformazione e all’azione giudiziaria, Lotta Continua andò acaccia di quella verità che glianni hanno dimostrato fondata e sicura. Come si sviluppò l’intervista? Fu l’intervista più difficile di tutta la mia vita. La Pinelli è una persona riservata, abbastanza rigida. Inoltre erano passati ben 10 anni dall’omicidio del marito, anni durante i quali lei si era chiusa in sè stessa. Si assunse la responsabilità di questa vicenda con grande umanità e sensibilità: così decise di parlare. Ma faceva troppa fatica ad aprirsi. L’intervista durò sostanzialmente due anni. Non finiva mai. All’inizio Licia mi diceva pochissime cose, poi sembrava sciogliersi, poi ritrattava, poi voleva modificare ciò che mi aveva detto. A quel punto stava in silenzio per mesie non riusciva a parlare. Tra l’altro batteva a macchina lei stessa le sue dichiarazioni, sbobinava lei, dato che come lavoro batteva a macchina le tesi universitarie. In ogni caso dovevo indagare e fare domande sempre io, altrimenti lei non parlava. Ci vedevamo due o tre volte in una settimana, poi nes-
Le notizie ci sono ancora però i fatti vanno cercati, conosciuti, approfonditi. Da buoni giornalisti suno incontro per un mese. Dopo un anno e mezzo di informazioni, andai in vacanza. In tre mesi scrissi di getto tutto il libro. Con quale schema? Prima di scrivere avevo chiari quattro elementi irrinunciabili: la storia e la vita di Pino, la battaglia di Licia, gli aneddoti riguardanti il caso e come lo aveva vissuto, il rapporto di Licia, lo sviluppo della loro storia. Sono partito da qui e poi mi sono avvalso dell’aiuto di Licia. Si ricordava perfettamente ogni cosa, lei. E si emozionava ogni volta. Non dimentico mai il momento in cui mi raccontò dell’arrivo in casa sua dei giornalisti e della corsa successiva in ospedale. Suonarono alla porta due giornalisti per chiederle commenti sul balzo di suo marito dal balcone della caserma. Lei non ne era a conoscenza, allora. Chiamò in caserma. Le rispose Calabresi: “Ho cose più importanti da fare che avvisarla” le disse. Corse con la suocera in ospedale e nessuno le dava retta. Solo alla fine comprese
Da sapere ! IL CASO: ciò che accadde davvero a Giuseppe Pinelli nella notte tra il 15 e il 16 d i c e m b re 1969 è tuttora oscuro. La sua morte coinvol se forze dell’ordine, organiz zazioni, politici, in uno dei più inquietanti re bus degli anni di piombo. ! Dopo l’esplosione alla Banca dell’Agricoltura di Milano che provocò il disa stro noto come la strage di Piazza Fontana, furono 84 le personalità sospette che la polizia richiamò in questura per i controlli di routine. Tra queste c’era anche Giuseppe Pinelli, noto esponente del movimento anarchico. ! Nato a Milano il 21 ottobre 1928, era un ferroviere di 41 anni, sposato con due figlie. Abitava in via Preneste 2, oltre San Siro e lavorava come fre n at o re allo scalo delle Ferrovie di Po rta Garibaldi: la questura lo aveva schedato come "anar chico individualista".
che Pino era morto e lo rivide disteso su un letto privo di vita, per l’ultima volta dopo la tragedia. La controinformazione oggi, c’è o non c’è? Non esiste. Le notizie ci sono e bisogna solo andarsele a cercare, fare delle inchieste, guardare documenti, carte, immagini, approfondire. Giornalisti che lo fanno ci sono. Travaglio è uno di questi. Il Fatto Quotidiano è un giornale che lo fa molto bene. Si è specializzato nel tirar fuori notizie, fatti, indiscrezioni e poi nell’approfondirle, trovando collegamenti, riferimenti e dando un senso logico all’inchiesta. Dentro le altre redazioni mi sembra che gli editori non siano interessati a questo genere di cose. Più che altro perché i tempi si sono molto ridotti, occorrono articoli più brevi, più veloci, scritti da meno persone. È impossibile realizzare un prodotto di grandissima qualità a queste condizioni e nessuno ti pagherà per fare un lavoro durato mesi, approfondito, lungo. Oggi il vero problema è fare informazione. Oggi forse è tutto ciò che circola in rete, dove c’è molto di falso. Ma anche qualche contro-verità.
Nella foto: il funerale di Pino Pinelli.
! Era stato ri n t racciato venerdì 12 dicembre , da due agenti dell'ufficio politico, cinque ore dopo la strage. Qualche ora dopo, durante l’interrogatorio, l’anarchico si era gettato nel vuoto, p re c i pitando alle 23.50 giù dal quarto piano della questura. Secondo la versione iniziale della polizia, mai confe rm a ta, Pinelli, precipitando, avrebbe gridato l'ormai celebre frase: «È la fine del l'anarchia!». ! LA VERSONE UFFICIALE: I carabinieri dopo averlo trova to, lo portarono in una stanza della questura, per un sup plemento d'interr o gat o rio da parte di Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi. Erano presenti anche tre sottoufficiali della polizia in forza all'Ufficio Politico, un agente ed un uffi ciale dei carabinieri. ! «I suoi alibi erano tutti caduti ed era fortemente indiziato - dichiarò il questo re di Milano Marcello Guida. Nell'ultimo interrogatorio C a l a b resi si era momenta -
neamente allontanato per a n d a re a consultarsi con il capo dell'ufficio politico dot tor Allegra. In quella pausa l’anarchico si era gettato nel vuoto da una finestra semi aperta. Che il commissario C a l a b resi non fosse presente al momento dell’accaduto fu una versione dei fatti mai accertata. ! Nel volo il Pinelli era andato a schiacciarsi contro i rami spogli dell'albero sotto la finestra, nell'angolo sinistro del vasto cortile della que stura. Inutile la corsa all'ospedale Fatebenefratelli. ! Il questore Guida giustificò l’interrogat o rio a Pinelli per la vicinanza dell’anarchico al gruppo del Ponte della Ghisolfa, che in passato aveva organizzato altri attentati. ! Alfonso Mauri, avvocato di Pinelli, ipotizzò un collasso nervoso del suo assistito, dovuto al fatto che la notte p recedente aveva dormito solo per 3 ore . ! Nella stanza erano presen ti quattro agenti della polizia e un ufficiale dei carabinieri, ma non il commissario Calabresi, in evidente con trasto con quanto dichiarato dall'unico testimone, Pasquale Valitutti, p resente in Q u e s t u ra e trattenuto in una stanza vicina. ! Che il commissario C a l a b resi non fosse presente al momento dell’accaduto fu una versione dei fatti mai accettata dagli ambienti anarchici e di sinistra che organizzarono una violenta campagna stampa per iso l a r l o.Alla campagna aderi rono molti esponenti della s i n i s t raitaliana. Calabresi verrà assassinato nel maggio 1972 da aderenti alla sinistra extraparlamentare. ! LA CONTROINCHIESTA: Pinelli non aveva mai pensato al sui cidio: così ri fe rirono i suoi amici. Le prove per incri m i narlo erano insufficienti. La versione del suicidio fu effet tivamente la prima data alla stampa dal questore
Marcello Guida, nella confe renza a cui parteciparono anche Calabresi e Antonino Allegra, responsabile dell'Ufficio politico della que stura. ! L’anarchico Pasquale Valitutti, fermato assieme a Pinelli fornì una versione dif ferente dei fatti. Valilutti infatti si trovava nella stanza adia cente a quella dell’interroga torio e confermò che nessu no, nei 15 minuti precedenti l’accaduto, si mosse mai dalla stanza, nemmeno il commissario Calabre s i . ! La stessa caduta di Pinelli fu anomala: nessun urlo, nes sun segno sulle mani che mostrasse il suo tentativo di aggrapparsi al cornicione. Inoltre, una caduta del corpo di Pinelli in verticale, quindi con nessuna protensione verso l’estern o, era cosa assai poco probabile se fosse stata vera l’ipotesi del suo slancio; slancio peraltro che gli agenti giustificarono con il vano tentativo di tratte nerlo. ! Alcuni organi di informa zione (tra cui Lotta Continua) avviarono delle inchieste per chiarire la dinamica dell’inci dente. Dall’autopsia eseguita nel 1975, si dedusse che Pinelli fu soggetto a un malo re dovuto allo stress da inter rogatorio che avrebbe alte rato il suo senso di equilibrio. ! A distanza di molti anni, diversi esponenti della con troinformazione si occuparo no del caso Pinelli. Camilla Cederna nel 1971 pubblicò “La finestra sulla strage”. ! Anche Piero Scaramucci si accostò al caso, ma in maniera del tutto diversa rispetto a quanto fatto in pre cedenza. Intervistando la moglie, la signora Licia Pinelli, l ’ a u t o redi “Una storia quasi soltanto mia” volle ricostru i re un ritratto dell’uo mo Pinelli a tutto tondo. Gli aneddoti e le rivelazioni di Licia “contro informarono” su cosa accadde in realtà a Pino quella notte a metà d i c e m b re del 1969.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
7
piazza fontana
La Strage di Stato di Marco Billeci e Fabio Forlano
E’ stato uno dei libri che ha cambiato il modo di leggere la realtà,ribaltando la verità ufficiale fornita sulle bombe di piazza Fontana e svelando i nomi di Borghese, Sindona e Marcinkus. Una pietra miliare della controinformazione
S
TRAGE DI STATO ÈILFRUTTO DEL LAVORO DICENTINAIA di militanti di sinistrache,neimesi precedenti e successivi ai fatti di Piazza Fontana, raccolsero informazioni e testimonianze per dare una chiave interpretativa degli eventi alternativa a quella ufficiale. Per ricostruire le vicende del libro è stato necessario ascoltare più di una voce: il Giornalista e il Professore sono due dei tre autori che si occuparono della stesura finale (ancora oggi preferi scono mantenere l’anonimato per garantire il carattere collettivo del lavoro svolto); Bruno Manghi, sociologo, fu uno dei promotori del gruppo nato a difesa della memoria di Pinelli; Aldo Giannuli, storico, è stato consulente della Commissione stragi e della Procura di Milano. Giannuli, inoltre, era amico di Eduardo Di Giovanni, uno degli animatori del gruppo romano di controinformazione. Al momento della strage esistevano già esperienze di controinformazione nel panorama italiano? IL GIORNALISTA:Già daqualche mese esisteva,presso il circolo Turati di Milano, il Movimento dei Giornalisti Democratici per la Libertà di Stampa e la Lotta contro la Repressione. Il Movimento pubblicava ogni settimana il Bollettino di Controinformazione Democrati ca, stampato a ciclostile, per dare uno sbocco alternativo alle notizie che non uscivano sui giornali. Così, al momento della strage eravamo già pronti a tenere botta. Cosa succede dopo Piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli? IL GIORNALISTA: La notte del 12 dicembre, ci fu una riunione al Movimento per capire cosa fosse successo. Erano presenti giornalisti, avvocati, intellettuali, perché già si pensava di lavorare in un modo diverso da quello che ognuno applicava nella propria professione. MANGHI: Io, il Professore e altri, all’epoca assistenti in Cattolica, portavamo a Licia, la moglie di Pinelli, i nostri scritti perché li bat-
Nella foto: i resti della Banca dell’Agricoltura poche ore dopo l’attentato del 12 dicembre 1969 a Milano.
8
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
tesse a macchina. Dopo la morte di Pino, ci siamo stretti attorno a lei e alle bambine. A me è toccato accompagnarla per riconoscere il cadavere e andare in questura a ritirare gli effetti personali di Pino. Ci impegnammo a fondo per ricostruire l’immagine autentica di una vittima che, in quei giorni, veniva descritto dai giornali come una belva umana. IL PROFESSORE: In casa Surrenti-Saba fu messo in piediuna sorta diprimo gruppo di controinformazione sulla vicenda. Il gruppo entrò in contatto con il Movimento dei Giornalisti Democratici. Insieme a loro costituimmo una struttura allargata, utile ad analizzare le notizie e gli elementi raccolti. Contattammo, poi, alcuni avvocati milanesi che ci consigliavano possibili strategie difensive da seguire. Nacque uno dei più significativi centri di resistenza di quegli anni. Come nacque il movimento romano? GIANNULI: Nella seconda metà degli anni ‘60, i militanti dell’Associazione dei giuristi democratici (Agid), alcuni giornalisti di sinistra e i militanti del collettivo musicale Canzoniere dell'Armadioformarono il Collettivo di Controinformazione (Cdc), di cui faceva parte Marco Ligini, il terzo autore del libro, morto nel 1989. Il 12 dicembre il Collettivo aveva già una sufficiente mole diinformazioni per avviare un’indagine sulla matrice fascista della strage. Dopo il caso Pinelli, poi,alcunimagistrati e avvocati, tra cui Edoardo Di Giovanni, dettero vita al Cpg - Collettivo politico giuridico che difendeva i gruppi anarchici. Insieme, il Cpg e il CdC formarono il cuore della controinformazione romana. IL GIORNALISTA: Il caso ha voluto che io fossi amico di Ligini, perché facevamo le vacanze insieme alle Eolie. A Milano si formò così una cupola di tre persone: il Giornalista, il Professore, il Militante, che catalizzavano i dati raccolti e scrivevano materialmente il libro. Com’era strutturato il gruppo di lavoro? IL GIORNALISTA: Al di sotto della cupola c’era una seconda fascia. Un gruppo di esperti che discuteva e filtrava tutto il materiale, sia in fase di raccolta sia in fase di revisione. Alla base c’erano i militanti, soprat-
D o v e Milano, 12 dicembre 1969. Vittim e 17 mort i . Movente L’attentato di Piazza Fontana rientra nell’ambito della “strategia della tensione”. Gruppi estremisti di destra tentarono di destabilizzare il clima politico del Paese. I protagonisti Un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare.
tutto di Lotta Continua e dei movimenti, che producevano controinformazione attraverso la lettura meticolosa della stampa di qualsiasi colore e la ricerca on the road. Cosa succedeva al materiale fornito dalla base? IL GIORNALISTA: Ligini faceva la spola tra le due città, ai suoi viaggi provvedevamo con le nostre poche risorse. A Roma manteneva legami con i suoi contatti nella controinformazione diffusa. Poi saliva a Milano con una valigia piena di appunti e articoli di giornale, ritagliati da mani femminili. Il lavoro del trio è durato circa un mese, il centro operativo era casa mia, dove anche Marco si accampava in una stanza strapiena delle carte. Per mettergliela a disposizione, avevo spostato uno dei miei figli. Vivevamo in uno stato di semiclandestinità. Una delle nostre maggiori preoccupazioni era che Ligini parlasse del libro, perché, per carattere, avrebbe raccontato anche agli avventori dei bar cosa stava facendo. Ogni sera arrivava il Professore, l'ideologo con cui ridiscutevamo tutto il materiale raccolto. Poi, in un’altra stanza, scrivevo i capitoli con la mia Olivetti Lettera 32. Se fosse stato per Ligini non avremmo
La stesura del libro ci ha impegnato circa un mese. Eravamo accampati a casa mia e lavoravamo in stato di semi clandestinità. Fu molto faticoso
mai chiuso il libro perché si immaginava teoremi sempre più complicati senza mai buttar giù una pagina. Io e il Professore eravamo più concreti. IL PROFESSORE:Dopo la scuola passavo a casa del Giornalista, in via Fieno. La versione finale del libro l’ha scritta lui, il capitolo su Pinelli l’ho elaborato io e qualcosa sui gruppi romani l’ha mandata Ligini. A stesura ultimata fu convocata una riunione con il movimento, i giornalisti e politici. Il testo fu approvato ed uscì anonimo. Quali erano le fonti? GIANNULI: L’indagine non si fermava alla grande stampa ma setacciava i giornali minori, la stampa di settore, gli annuari, i bollettini delle associazioni. Non si trascurava nulla: cronache politiche, cronaca nera, annunci economici, necrologi, tutto era scandagliato per cercare possibili nessi. Quale fu il ruolo del movimento nel la raccolta dei dati? GIANNULI: È stato decisivo. Si dette vita ad una struttura di controservizi segreti, grazie all’impiego a tempo pieno di moltissimi militanti. Tante informazionivenivano dai pedinamenti, dal procacciamento furtivo di documenti, da appostamenti davanti alle sedi di destra. I giornalisti e gli avvocati, poi, avevano accesso ad archivi di informazioni riservate. Inoltre, a differenza del Pci, che fino agli anni ’70 non ebbe entrature nella borghesia italiana, molti militanti di estrema sinistra erano figli di deputati, questori, magistrati. E dunque avevano accesso ai salotti importanti. In quali altri ambienti si raccoglievano le notizie? GIANNULI: Molti militanti incarcerati mandavano notizie dalle prigioni. Altre arrivavano dagli esponenti di destra che si convertivano alle idee di sinistra. C’erano anche contatti nelle caserme e tra le diverse aree sottoproletarie: la rete dei lavoratori (specialmente i telefonici) fu fondamentale. Infine i giovani universitari, che avevano una buona conoscenza delle lingue, lavorarono molto sulle fonti estere. Si può parlare di un metodo specifico usato nella pre parazione del libro? IL PROFESSORE: Era un metodo casalingo. Leggevamo e classificavamo tutti i giornali. In quest’azione quotidiana ciascuno aveva compiti precisi, ad esempio con altri io schedavo la stampa: ho costruito un archivio di personaggi, fatti, versioni e dichiarazioni che spesso era messo a disposizione dei giornalisti per i loro pezzi. Il metodo di lavoro si basava sulla discussione interna al gruppo, e non mancavaMAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
9
piazza fontana
Strage di Stato è servito a far crollare un castello di falsità. È successo tutto nel giro di poco tempo no tensioni e contrasti. MANGHI: Ci domandavamo se era plausibile che una notizia fosse legata ad un’altra. Ad esempio, andammo a prendere un articolo di tre anni prima che parlava di una vicenda accaduta in Friuli. C’entrava o non c’entrava con i nuclei di destra eversiva, legati ai servizi deviati? Il metodo voleva dire: cogliere tutti gli indizi che erano già pubblici e collegarli tra loro. In quei giornila stampa produceva un’enormità di notizie e di illazioni. Fondamentale fu l’attività di schedatura. Nel gruppo c’era un grande giornalista, il più anziano di tutti, che aveva fatto la Resistenza ed era stato in Vietnam, un inviato de Il Giornoche conosceva il mondo in maniera straordinaria. Le sue schede erano il retro dei pacchetti di sigarette che lasciava sparsi per casa. IL GIORNALISTA: In gioventù avevo collaborato alla sistemazione dell’archivio della Brigata Garibaldi, la rigorosità del loro lavoro di controinformazione mi servì come modello. Non c’era margine per l’errore. C’erano altri modelli di lavoro? MANGHI: Non eravamo del tutto provinciali. Praticavamo altri paesi e altre letterature che ci davano spunti. La sociologia, in cui alcuni di noi erano immersi, ci dava il polso della società. GIANNULI: «Il livello culturale della nuova sinistra era mediamente alto: molti militanti avevano una formazione universitaria, avevano familiarità con le nuove discipline e con l’economia. Per il Pci la cultura passava ancora per la scuola. Per i movimenti invece andava cercata altrove: in edicola, a teatro, nelle conversazioni. La culturaindiziaria era anche il prodotto di questo humus culturale. La Stra-
Per sap e rne di più AA.VV., La Strage di Stato - controin chiesta (Odradek, 2006); Aldo Giannuli, Giancarlo de Palo, La Strage di Stato vent’anni dopo, (Edizioni associale); Aldo Giannuli, Bombe ad inchiostro (Bur Rizzoli); Luigi Ferrarella, Una strage senza colpevoli. L’ultimo falso di Piazza Fontana (Il Corri e re della Sera, 12 dicembre 2009); SERGIO ZAVOLI, La notte della Repubblica: Piazza Fontana (Mondadori).
10
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
ge di Stato ricalca l’inchiesta investigativa di stampo americano,facendo esplicito riferimento al lavoro di Mark Lane sulla morte di Kennedy, L’America ricorre in appello. A differenza del lavoro di Lane però, La Strage di Stato è apertamente schierato, in questo riprende il modello francese. Si tentò di unificare la tradizione francese e l’investigative journalism, un’operazione che, pur passando sopra molte contraddizioni, da un punto di vista politico è riuscita. Qual’era quest’operazione? GIANNULI: Il tentativo era quello di sviluppare una narrazione unica. Il libro è vissuto come un monoblocco: Pinellibuttato giù, Valpreda incastrato, le bombe dei fascisti. Tutto si tiene. Questa linearità consente un messaggio semplificato ma efficace. IL PROFESSORE: Il libro ha forse il difetto di forzare un’interpretazione troppo allargata deifatti. Cerca di chiudere il cerchio. Ma è un peccato veniale e risponde ad un’esigenza dell’epoca. Come avete trovato l’editore? IL GIORNALISTA: Trovare un editorenon fufacile. Ricevemmo molti no, a cominciare da Giangiacomo Feltrinelli». GIANNULI: Feltrinelli non lo pubblicò perché lo ritenne interessante ma non sufficientemente provato. Adogni modo lui si eradato alla latitanza dal 7 dicembre 1968 e la sua casa editrice era in forte difficoltà. IL GIORNALISTA: Siamo arrivati a Giulio Savelliper esclusione, anche perché noi eravamo tre illustri sconosciuti. Ebbe noie di tutti i tipi, anche dallapolizia. Non esisteva un contratto, ma un accordo tra compagni. La distribuzione avvenne tramite la vendita militante e in libreria. Savelli incassò qualcosa, ma il costo dei processi che dovette affrontare negli anni bruciò gran parte dei ricavi. IL PROFESSORE: Fui uno dei quelli che andarono a Roma a consegnare materialmente le bozze in tipografia. Con nostra sorpresa scoprimmo che si trattava delle stesse officine grafiche in cui si stampava il Giornale d’Italia. Era un ambiente di destra. E gli operai, quasi divertiti dalla cosa, ci dicevano che avremmo fatto una brutta fine. Qualifurono le reazioniall’uscita del libro? GIANNULI:Il libro uscì il 13 maggio del 1970, lanciato dai collettivi con concerti, assemblee,spettacoli . Ebbe una fortuna immediata: le prime 20mila copie sparirono subito, altre 20 mila furono stampate già in luglio. Entro il 1971 esistevano già cinque edizioni e la quinta prevedeva una nuova introduzione in aggiunta ad ogni capitolo. Le ristampe proseguirono fino al 1977. Fino a quell’anno Strage di Stato vendette
Ci eravamo impegnati a mantenere l’anonimato: il libro è il risultato di un intenso lavoro collettivo 500mila copie. La fortuna del libro derivò dalla sua uscita tempestiva e dal suo carattere di inchiesta collettiva. I movimenti lo avvertirono come proprio e si identificarono con esso. MANGHI: Strage di Stato è servito a smascherare una falsità. E lo ha fatto rapidamente. Bisognava comunicare alla gente che era stata commessa un’atrocità indescrivibile, molto lontana dacome ce laraccontavano. Quanto all’accertamento della verità, ahimè, l’impresa era proibitiva, soprattutto perché le istituzioni non collaboravano. Il libro doveva restare anonimo ma così non è stato. Ci furono problemi interni al collettivo? IL GIORNALISTA: Noi abbiamo battuto il libro a macchinae lo abbiamo spedito aRoma, manon siamo stati coinvolti nelle successive fasidi lavorazione, le note le abbiamo lette a libro stampato. I nomi sono apparsi per la prima volta nel 1993, nella versione uscita come supplemento della rivista Avvenimenti. IL PROFESSORE: C’eravamo impegnati a mantenere l’anonimato perchéil libro erail frutto del lavoro di un collettivo. Questo è stato anche uno deimotivi del suo grande impatto emotivo. Nes-
Da sapere ! PREMESSA: ancora ogg i , per molti, la strage di piazza Fontana è un delitto senza colpevoli. In realtà le inchie ste susseguitesi nel corso degli anni, ricostruiscono un quadro preciso: l’attacco fu opera dei neofascisti di Ordine Nuovo, protetti dai servizi segreti, sotto l’occhio della Cia. Non ci sono con danne per gli esecutori mat e riali dell’attentato. Nel 2005 però la Cassazione, mentre assolveva gli imputati nell’ultimo processo, ha scrit to che con le nuove prove emerse Franco Freda e Giovanni Ve n t u raerano con dannabili. I due ordinovisti, però, sono già stati assolti in via definitiva e perciò non più processabili. Un altro membro di On, Carlo Digilio, ha ottenuto la prescrizione, confessando il suo ruolo nella strage.
suno doveva rivendicare la paternità dell’opera. Ecco perché ci siamo incazzati con il gruppo romano. GIANNULI: I milanesi non parteciparono al lancio del libro ma non sollevarono mai polemiche pubbliche. In tutta Italia furono Ligini e Di Giovannia tenere le assemblee di presentazione. Lo stesso Giornalista non partecipò mai alle manifestazioni, sottraendosi alla ribalta. Cosa restò del lavoro di contoinformazione negli anni successivi? MANGHI: Strage di Stato ha risvegliato un’attenzione e ha messo in campo una capacità autonoma dei giornalisti di guardarsi intorno, di investigare. Ha fatto scuola in questo senso. Ma non come modello. Ha spronato molte persone a mettere al servizio di un’informazione corretta i loro talenti e le loro capacità. Com’è proseguita l’esperienza del vostro gruppo? IL PROFESSORE: Continuammo a lavorare dopo l’uscita del libro e ci concentrammo sul caso Feltrinelli. Raccogliemmo informazioni e fummo anche minacciati. Ma non uscì nulla di scritto. Il gruppo si sciolse dopo l’avvento delle Brigate Rosse e del clima di terrore. Le nostre indagini partivano sempre dall’idea che dietro i fatti di cronacadi quegli anni vifosse un disegno preciso. Quel disegno che Marco Ligini, suggerendo il titolo del libro, definì Strage di Stato.
Nella foto: I primi soccorsi in piazza Fontana.
! IL CONTESTO: l’atto fondante della “strategia della tensio ne” è un convegno tenuto dall’Istituto Pollio a Roma nel 1965. Partecipano politici, uffi ciali delle forze armate e dei servizi, militanti di estrema destra e viene per la prima volta affermata la necessità di un’azione terr o ristica di Stato che provochi uno spostamen to a destra dell’asse politico del Paese. Nel 1967, un golpe in Grecia instaura una dittatu ra fascista che segue quelle in Spagna e Portogallo: l’Italia resta l’unico paese democra tico dell’Europa SudOccidentale. ! L’esperimento del centrosinistra, il ’68 e l’autunno caldo confe rmano alla destra l’urgenza di un intervento. Intanto i gruppi neofascisti avviano una tattica di infiltra zione nei gruppi anarchici, oltre a stringere contatti con agenti segreti italiani e stra nieri. Il 1969 è un anno di vio lenze: si contano quasi 200 attentati contro luoghi pubbli ci, sedi della sinistra, istituzio ni: i più grossi sono opera del gruppo fascista di Ordine nuovo. ! LA STRAGE: il 12 dicembre 1969 alle 16.30 una bomba esplode nella Banca
dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, fa 17 vitti me e 88 fe riti. A l t ri tre ordigni dello stesso tipo scoppiano a Roma, un quinto è rinvenuto, inesploso, in piazza della Scala. Subito gli inquirenti si dicono sicuri della matrice anarchica della strage e fer mano oltre 150 militanti. Il 15 dicembre le forze dell’ordine arrestano Pietro Va l p reda e lo accusano, pur senza vere prove, di essere l’autore della strage. La sera del 15, l’anar chico Pino Pinelli, reduce da tre giorni di interrogatori, precipita da una finestra della questura di Milano. Nonostante le palesi incon gruenze, viene accreditata la tesi del suicidio: il ferroviere, si dice, non avrebbe retto di fronte alle proprie responsa bilità nell’attentato. ! LA CONTROINCHIESTA: nel giugno 1970 esce in forma anonima La Strage di Stato, frutto di cinque mesi di ricerche di oltre duecento militanti di sinistra. Il libro sostiene l’innocenza degli anarchici e la responsabilità dell’estrema destra per l’at tentato con lo scopo - sotto l’egida di settori dello Stato di produrre una fascistizzazio ne del Paese. I n o l t re è smon tata la versione del suicidio di Pinelli. Si trovano molti ele menti inediti sulla galassia fascista romana, sul Fronte Nazionale di Borghese, anco ra poco considerato, sui finan ziat o ri dell’ev e rsione (con due nomi all’epoca scono sciuti, Sindona e Marcinkus). I movimenti della sinistra fanno propria la chiave interpretati va offerta dal libro e ne decretano il successo, le suc cessive conferme alle circo stanze descritte (la più cla morosa è il tentato golpe Borghese) ne rafforzano la fama, anche tra l’opinione pubblica moderata. Per la prima volta si diffonde l’idea che la versione ufficiale possa non essere l’unica. ! LE INCHIESTE UFFICIALI: due anni dopo l’uscita del libro la pista nera entra nelle inchie ste ufficiali, anche se non porta ad Avanguardia Nazionale, ma ad Ordine
Nuovo. Un testimone parla di alcuni incontri in Veneto nella primavera del ’69 dove sarebbero stati decisi gli attentati del 12 dicembre. Sulla base di questa e altre prove, i giudici contestano a Giovanni Ventura e Franco Freda - due membri padova ni di On - l’accusa di strage. Gli inquirenti scoprono anche una serie di documenti dei servizi segreti appartenenti a Ventura. A passarglieli è stato Guido Giannettini, giornalista e agente del Sid, che avrebbe pure partecipato agli incontri di preparazione dell’attentato. Emerge così per la prima volta il collegamento tra la strage e apparati dello Stato. ! Giannettini viene imputa to, ma i servizi segreti lo fanno espatriare. Intanto la Cassazione decide di unifica re la pista nera e quella anar chica in un unico processo, spostandolo da Milano a Catanzaro. Gli anarchici sono assolti in tutti i gradi di giudi zio, mentre per Freda, Ventura e Giannettini dal 1977 si alternano condanne e assoluzioni, fino a quella defi n i t iva nel 1987. Alcuni uomini del Sid sono condannati per i depistaggi alle indagini. ! Negli anni ’90 la procura di Milano si trova di fronte a nuove testimonianze che indi cano tre div e rsi autori dell’at tentato, sempre di On veneto: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni. Nel 2001 la corte li condanna a l l ’ e rgastolo, ma ancora una volta in appello la sentenza è ribaltata. Si chiude così l’otta vo ed ultimo processo sulla strage di Piazza Fontana.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
11
spionaggio alla fiat
Agnelli ha paura, Lotta continua attacca Ventisei volumi, più di 354 mila schede. Per venti anni la dirigenza Fiat spiò gli orientamenti politici e la vita privata dei propri dipendenti. Davanti al giudice finirono 77 imputati: poi la prescrizione di Chiara Avesani e Ambra Notari
N
EL 1971 A TORINO, SI DIFFONDE
la notizia del processo contro alcuni dirigenti Fiat per corruzione di pubblici ufficiali e spionaggio. Secondo Enrico Deaglio l’inchiesta di Lotta Continua rappresentò un esempio positivo di controinformazione. Per Daniele Protti,oggi direttore dell’Europeo la controinformazione, avvelenata dall’ideologia, non fu mai buon giornalismo. Negli anni Settanta Protti era direttore del Quotidiano dei lavoratori, giornale di Democrazia Proletaria, terzo foglio della sinistra extraparlamentare italiana. Cosa ricorda dell’inchiesta Agnelli ha paura e paga la questura? DEAGLIO: Tutto cominciò con il processo a Caterino Ceresa, dipendente Fiat, licenziato il 5 marzo 1970, che fece causa per far dichiarare illegittimo il suo licenziamento. Disse: «Mi licenziano con la qualifica di fattorino, ma in realtà ho fatto un sacco di altre cose». La pretura di Torino aprì un fascicolo. Iniziammo a seguire le vicende delle parti, a seguire il caso. Le prime notizie trapelarono dagli ambienti Fiat e dalla Gazzetta del Popo lo, giornale di Torino che oggi non c’è più. La Stampa si teneva abbottonata. La Gazzetta del Popolo, invece, passava qualche informazione in più, tant’è che noi in breve tempo riuscimmo a indicare alcuni nomi. La storia era questa: la Fiat aveva un’organizzazione di spionaggio bella, potente e ramificata, attraverso la quale controllava i suoi operai: se uno era comunista, testa calda, lo licenziava. Per farlo c’era una struttura notevole, che si avvaleva anche di poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi segreti, tutti metodicamente pagati o
Nella foto da sinistra: Alberto Pirelli, Vittorio Valletta e Gianni Agnelli.
12
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
corrotti. Questo venne fuori, e noi pubblicammo. L’opuscolo Agnelli ha paura e paga la que stura è il libretto finale, ma avevamo fatto una campagna enorme. Manifesti, volantini con i nomi delle persone. Lo scalpore fu enorme e gli inviati vennero rinviati a giudizio. Condusse le prime indagini Raffaele Guariniello, pubblico ministero di Torino, persona eccezionale. A quel punto, però, il procuratore disse: «Non si può processare il vertice della Fiat a Torino per motivi di ordine pubblico». Raccolse quindi tutto l’incartamento e trasferì il processo a Napoli. I tempi divennero biblici. PROTTI: Quello dello spionaggio in Fiat fu un caso clamoroso, che nacque dall’ignoranza della storia, uno dei grandi problemi di quella stagione politica. La questione del cosiddetto “spionaggio in Fiat” risale agli anni Cinquanta. Era prassi, ed era noto che dai tempi di Valletta la schedatura degli operai veniva fatta, grazie anche a sovvenzioni Fiat a commissariati. I partiti e il Pci lo sapevano. Lotta Continua fu l’unica, tra i movimenti di sinistra, a diffondere informazioni su questo caso? Perché il Pci scelse di stare un passo indietro? DEAGLIO: In quell’occasione, ci scontrammo con il Pci, perché i comunisti, pur avendo i nomi davanti, non li pubblicarono mai. Dicevano: «Bisogna fare luce, questa è una cosa preoccupante. La democrazia è in pericolo se succedono fatti del genere». E noi: «Ma i nomisono già lì!». I dirigentidel Pci, però, quel passo non lo vollero fare, per motivi facilmente intuibili. Andavano salvaguardati i buoni rapporti con la Fiat. Sarebbe stato un attacco frontale, perché si diceva che, da Gianni Agnelli in giù, tutti avevano dei fondi neri e pagavano poliziotti e carabinieri per spiare e licenziare gli operai. Non era una cosa da poco. Credo che nel Pci si sia sempre pensato che, nel caso di una sollevazione di massa o di una ascesa del parti-
to ai vertici della politica italiana, la società italiana avrebbe potuto reagire violentemente. PROTTI: Lotta Continua cavalcò questa specifica notizia, ma ogni giornale si affezionava alle proprie: gli altri non volevano poi arrivare secondi e quindi non le riprendevano. Si devono ricordare le rivalità che c’erano allora tra i fogli di estrema sinistra, una competizione formidabile. Il terreno da spartirsi era piccolissimo e quando sei in tre, quattro quotidiani, scendi in guerra: una guerra tra poveri. In quel periodo, a Torino Lc aveva un insediamento interessante, era un’organizzazione simpatica: tra i “pallosissimi” comunisti del Manifesto e di Avanguardia Operaia, in tanti sceglievano Lotta Continua, giornale frizzante, contradditorio. C’erano ottime espressioni di giovanilismo non politico, molta attenzione per la musica. Quando poi Sofri si accorse che si stavano coagulando due elementi tremendi - la crescita all’interno di Lc del partito armato e la contestazione delle donne - capì che la cosa non era più governabile. Fortunatamente, però, c’è stata la contestazione femminile: senza, Lcsarebbe diventata un partito armato. Prima Linea è nata lì. Chi erano i finanziatori di Lotta Continua? PROTTI: Tanti signori facevano regali. C’era chi, magari per salvarsi la coscienza, allungava dei soldi. Con l’inizio del terrorismo questo modello è finito, perché molti cominciavano a chiedersi come venissero usati quei soldi. Nelle file di Lc qualcuno pensava che un’inchiesta come questa sulla corruzione e spionaggio Fiat non dovesse essere fatta? DEAGLIO: No, su queste cose non ci sono mai state opposizioni interne. Quanto tempo avete impiegato per ricostruire questa vicenda in modo esaustivo? DEAGLIO: Un anno, più o meno. Quali erano le fonti di Lotta Conti nua? DEAGLIO: Avevamo qualcuno in pretura e in procura. Le fonti erano da una parte all’interno del Palazzo di Giustizia, dall’altra, tra i giornalisti. Non erano documenti rubati. Diciamo che erano passati volontariamente. Un giornalista, poi diventato conosciuto alla Gazzetta del Popolo, ci aveva fornito parecchio materiale.
D o v e Torino-Napoli, anni 1971/1972 Oggetto casi di spionaggio in Fiat e corruzione di pubblici ufficiali I protagonisti Gianni Agnelli, Giovanni Colli, Raffaele Guariniello, forze dell’ordine, Sid Autore Lotta continua, Agnelli ha paura e paga la questura: i documenti dello spionaggio e della corruzione Fiat (Edizioni Lotta Continua).
Fonti principali, comunque, erano gli operai dentro la Fiat. Avevano un ruolo importante, segnalavano le cose. Quando vedevano movimenti loschi in officina, incontri particolari, ce lo venivano a riferire. PROTTI: Le fonti di Lotta Continua, così come quelle del Quotidiano dei Lavoratori, del Manifesto, erano modeste, fonti che esistevano in qualche università e in qualche fabbrica. E poi c’era “il compagno”: quando davi la soffiata al compagno diligente, colto, questo ci lavorava sopra fino a farlo diventare perfetto ragionamento politico. C’erano anche organi istituzionali che passavano informazioni a Lotta Continua, nell’intento di mandarla in avanscoperta. Non si dimentichi, però, che c’è stata controinformazione e disinformazione. Si davano dritte per danneggiare nemici comuni, o facendosi strumenti, oppure per fregare. Ci furono anche parlamentari di altri schieramenti che contribuirono alla causa. Accade e non c’è niente di male. Perché fu solo Lotta Continua a denunciare il reato di corruzione oltre allo spionaggio, mentre gli altri organi d’informazione tende -
vano a tralasciare il primo? DEAGLIO: Credo che gli altri giornali considerassero questo caso un attacco frontale alla democrazia. Un processo e la condanna dei vertici della Fiat per corruzione - una specie di Tangentopoli con trent’anni di anticipo - l’Italianon avrebbe potuto sopportarlo. C’era una sorta di ragion di Stato per cui si poteva denunciare, ma fino ad un certo punto. Consideravano noi dei provocatori perché lo facevamo. Si giustificavano: «Se poi la Fiat chiude, licenzia tutti, alla fine ci perdiamo tutti». Questo è il sistema. Cosa spingeva Lotta Continua a insistere nella denuncia? DEAGLIO:Era per tutelare dei principi, dei valori. Da una parte, l’amore della verità; dall’altra, la soddisfazione per essere noi stessi a scoprire come veramente era fatto il sistema. Le perso-
La Fiat aveva una rete di spionaggio potente e ramificata attraverso cui spiava i suoi operai
ne più impensabili, le meno sospettabili, in realtà erano quelle che passavano la busta al poliziotto e poi si presentavano davanti alle nostre porte per chiedere alla portinaia chi frequentavamo, che tipo di vita avevamo; quelli che poi passavano il bigliettino al caporeparto che provvedeva ai licenziamenti. Era come vivere sotto un regime, lo vedevamo. Tanti dei nostri venivano licenziati per questo motivo. PROTTI: Lotta Continuaera spinta dalla volontà di mobilitare, di sensibilizzare la popolazione. Ci si accontentava di avere fatto una grande manifestazione, di aver riempito le strade di Roma, piazza del Popolo. Il lavoro del cronista, cioè controllare le fonti, scavare, non era una priorità. Nel periodo della controinformazione il controllo delle fonti era molto elastico, superficiale, spesso desunto dall’autorevolezza di chi dava l’informazione, la maggior parte delle volte un’autorevolezza politica. L’informazione ufficiale non aveva bisogno di questa informazione parallela? PROTTI: Noi allora ci sentivamo i protagonisti della storia, eravamo convinti che cominciasse lì. Bisognava, invece, farsi delle domande, avere dei dubbi. Solo ora capisco che grande cosa sia la possibilità di essere smentiti. Su questo periodo storico sarebbe necessario fare autocritica. Non dico che la rivoluzione fosse dietro l’angolo, ma la caduta del sistema sì. La cosa importante era riempire le piazze: è stato un elemento di debolezza intellettuale straordinario. Fermarsi lì fu un errore politico. Arriva Guariniello. Trova le sche dature, parte il processo con Gian ni Agnelli imputato. Come vi siete sentiti? DEAGLIO: Eravamo molto soddisfatti. Abbiamo pensato: «Adesso finalmente si farà un processo e poi si vedrà». La nostra strategia con il Commissario Luigi Calabresi era praticamente identica. MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
13
spionaggio alla fiat
Scrivevamo sul giornale “Calabresi assassino” perchè volevamo indurlo a denunciarci Qual era questo metodo? DEAGLIO: Noi pubblicavamo sul giornale “Calabresi assassino” perché volevamo indurlo a denunciarci. Così fece. Tra l’altro lo fece da privato cittadino, perché i suoi superiori non l’avrebbero fatto. Eravamo entusiasti: quando tu sei un pubblico ufficiale e denunci qualcuno per diffamazione, per esempio un giornale, gli dai ampia facoltà di prova. Il processo Calabresi-Lotta Continua fu esattamente questo: vennero chiamati testimoni, venne fatta la perizia sul corpo di Pinelli, venne fatta la prova col manichino buttato giù. Come Agnelli, anche Calabresi da accusatore divenne accusato. Ma anche in quel caso il processo si interruppe. Poi Calabresi venne ucciso. PROTTI: La cosa più esplicativa, sulla questione Calabresi, la scrisse Adriano Sofri: sostenendo che Lc fece una pessima controinformazione, sottovalutando completamente alcuni dati. L’unico testimone che vide chi sparava a Calabresi ha descritto una persona che è radicalmente diversa da Bompressi, mentre sembrava un identikitdi Nardi. Questa pista venne immediatamente abbandonata, anche dalle autorità costituite. Quando succede una cosa del genere, e tu hai fatto una campagna praticamente invitando ad ammazzarlo, se sai di non essere il colpevole, devi battere tutte le piste, non fermarti attonito. In questi casi devi farti investigatore e cronista. Invece allora eravamo dilettanti allo sbaraglio. Sono stati inventati dei giornali da gente che non sapeva nemmeno cosa fosse un giornale. Una cosa, se vogliamo, eroica. Dal punto di vista informativo, però, l’unico valido è stato il Manifesto, perché aveva fior di professionisti che, anche se con un’impostazione politica, sapevano che bisognava tenere conto che la vita è complessa, che il mondo è complesso.
Per sap e rne di più Luigi Bobbio, Lotta Continua - Storia di un'organizzazione rivoluzionaria, Savelli,1979; Lotta Continua, Agnelli ha paura e paga la questura: I documenti dello spionag gio e della corruzione Fiat, Edizioni Lotta Continua, 1972; Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat.Cronaca di un processo e altre cronache, Rosenberg & Sellier, 1984.
14 MAGZINE 5
| 26 gennaio - 2 marzo 2010
Questo desiderio di andare a fondo a tutti i costi, col senno di poi, può essere stata una delle cause di quel clima di violenza? DEAGLIO:Sapevamo che intraprendendo quella strada saremmo andati incontro ad una situazione rischiosa, che avrebbe scaldato gli animi. Ma non potevamo tirarci indietro: se uno non esce mai di casa, non gli succede niente, è vero. Noi, invece, dovevamo uscire e parlare con la gente, esponendoci in prima persona. Che l’essenza dello stato italiano, delle sue istituzioni, potesse essere così poco riformabile, così poco pronta ad ammettere i propri errori, era una cosa che non ci aspettavamo. Pensavamo avrebbe assicurato i colpevoli alla giustizia. Invece ha reagito, quasi sempre, aumentando il livello di violenza. Questa è la versione che do io. Pci, Mpl, Psi, tra gli altri, nell’otto bre 1971 presentarono diverse interrogazioni in Parlamento riguardo questa inchiesta. Il caso Agnelli arrivò, così, alle Camere. Per voi di Lotta Continua fu una conquista? DEAGLIO:Cisono stati parecchi deputati in Parlamento che hanno sostenuto le nostre iniziative. In particolare del Partito Socialista, molto più libero e aperto rispetto al Partito Comunista. In ogni caso, nel Pci alcuni nostri simpatizzanti c’erano. C’era Umberto Terracini, padre della Costituzione, che ci voleva davvero molto bene, che ci sosteneva come poteva, quindi anche attraverso interrogazioni parlamentari. Era avvocato e aveva preso le nostre difese in numerosi processi. Secondo lui avremmo dovuto diventare la federazione giovanile del Partito Comunista. PROTTI: C’erano certamente alcuni onorevoli che spalleggiavano i movimenti extraparlamentari. Allora come oggi, in tutti i giornali ci sono redattori che hanno rapporti privilegiati con determinati settori. Storia vecchia, purtroppo, che va avanti. Come accolse Lotta Continua la conclusione del processo? DEAGLIO: È arrivata talmente tardi che Lotta Continua si era già sciolta. Mi stupì quello che disse il procuratore Giovanni Colli: il processo proprio non si poteva fare a Torino, ci sarebbero state manifestazioni davanti al Tribunale. Non si poteva portare Agnelli sul banco degli imputati, perché Agnelli a Torino era il benefattore, quello che dava il lavoro a tutti. Molti anni dopo ho incontrato il procuratore, siamo andati a mangiare insieme. Lui è proprio quello che si definisce un reazionario vecchio stampo. Allo stesso tempo era sincero: mi ripeté le stesse identiche cose, mi ribadì che Agnelli non
Noi allora ci sentivamo protagonisti della storia, eravamo convinti che tutto cominciasse da lì poteva essere processato. Noi, poi, il processo a Napoli non l’abbiamo seguito. Le continue sospensioni lo rendevano infinito. Qualche condanna alla fine c’è stata. Alcuni, invece, sono andati in prescrizione, altri sono morti, come Gioia. L’unica a non essersi persa un’udienza dall’inizio alla fine, è Bianca Guidetti Serra oggi è ultranovantenne, amica intima di Primo Levi, persona di grande rettitudine e dotata di un altissimo senso della giustizia, quindi disposta ad assistere le cause dei deboli (ndr. Bianca Giudetti Serra è nata a Torino nel 1919, avvocato penalista dal 1947 al 2001, parlamentare indipendente prima per il Pci, poi per Democrazia Proletaria. Ha seguito tutte le parti civili del processo contro lo spionaggio in Fiat. Ha pubblicato anche un libro sul tema: Le schedature Fiat. Cronaca di un pro cesso a altre cronache, del 1984). Il 23 settembre2009 Antonio Selva tici ha pubblicato sul Giornale un articolo intitolato Il giallo di Lotta Continua. Il giornalista riprende la
Da sapere ! LA MICCIA: Caterino Ceresa. Lo scandalo esplode quasi per caso. Il 24 settembre 1970 Cat e rino Ceresa, un dipen dente Fiat, cita in giudizio la società davanti alla Sezione lavoro della Pretura di Torino perché venga dichiarato ille gittimo il suo licenziamento. Ceresa è stato licenziato come “semplice fattorino”, ma ri t i e ne illegittimo il provvedimento perché le sue mansioni in realtà erano diverse: per anni ha fatto la spia. Nell’ordinanza del pretore Converso, viene accertata la sua attività di spionaggio.
denuncia che il 31 luglio 1988 Mar co Nozza fece dalle pagine del Gior no. Nozza accusò Lotta Continua di tradire i suoi principi facendosi stampare da una stamperia gesti ta da americani, che aveva la sede al medesimo indirizzo della Dapco, l’editrice del Daily American, il giornale degli americani a Roma. Amministratore unico della Dapco era Robert Cunninghm, eminente collaboratore di Richard Helm quando Helm era capo della Cia. Tra i soci, altri agenti Cia. DEAGLIO: Siamo capitati lì per caso, è stato il primo ad acconsentire a stamparci. Non si chiamava Robert, era Frank, un irlandese: lo conoscevo benissimo, era simpatico. Il padre credo fosse della Cia. Gli pagavamo affitto e rotativa. Fu proprio lui a dirci, senza malizia, che c’era, forse in Texas, questa vecchia rotativa, che si poteva comprare a prezzi stracciati. La comprammo: una Goss Community, 4 elementi, che arrivò con i container, e la pagammo a un ottimo prezzo. Non fu la Cia che ci diede la rotativa. Nozza oggi è scomparso. Era un ottimo giornalista investigativo, purtroppo, però, in quell’occasione sbagliò.
Nella foto: sciopero alla Fiat Mirafiori.
! Scattano le indagini. Nel periodo delle fe rie estive, con Torino vuota e gli uffici Fiat semideserti, il pretore Raffaele G u a riniello a sorp resa si pre senta all’ufficio Servizi Generali per una perquisizio ne: salta fuori un intero archi vio di “schede” con notizie sulla vita privata di dipendenti Fiat o aspiranti tali, ma anche di politici o sindacalisti non legati all’azienda. ! Ci sono poi fascicoli detta gliati con i nomi e il compenso annuo per i “collaborat o ri esterni”: una fitta rete di infor mat o ri appartenenti a polizia, carabinieri e uffici comunali, che fornivano alla Fiat notizie riservate coperte dal segreto d’ufficio, dietro compensi in denaro. Tra questi, ad esem pio, il tenente Colonnello dei Cara b i n i e ri Enrico Stettermajer, capo del Sid in Piemonte. ! L’archivio segreto è tenuto da funzionari Fiat alle dipen denze dell’ex colonnello ed ex agente dei servizi segreti del l'esercito Mario Cellerino: 26 volumi, 354.077 “schede” per spiare gli orientamenti politici e la vita intima di uomini e donne, prima di deciderne l’assunzione o la destinazione. ! LE SCHEDE: L’inizio della schedatura risale al 1949. Quali erano le informazioni ritenute utili dall’ufficio di Cellerino? Ad esempio, C.E. nel 1954 era descritto come “ex partigiano, incensurato politicamente e penalmente, i s c ritto al Pci, attivista, è il pro pagandista più attivo dello
stabile dove abita”. R.I. nel 1963 “è simpatizzante Pci. Reputazione: cattiva, è ritenuto dall’opinione pubblica un omosessuale”. ! Tra il 1967-71 le schedature aumentano e il linguaggio si adatta ai tempi. Nel 1968, F.V. è schedato così “Reputazione pessima; trattasi di capellone”. ! Nel ’70 per aggirare il divieto posto dallo Statuto dei lavoratori di effettuare indagini sulle opinioni politiche dei lavoratori, viene usata l’espres sione convenzionale “idoneo o non idoneo a lav o ri di caratte re collettivo”. ! Si scoprono schede anche sul conto di donne, dipendenti o parenti di schedati. A differen za degli uomini a quasi tutte è riservato un giudizio sul com portamento morale-sessuale: C.M, 1949,“è nubile e madre di una bambina di quattro anni. Simpatizza per i partiti di sini stra. Conduce vita piuttosto libera”. La scheda di L.M., 1970, rende noto che sua madre è “passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato desi derare per la condotta morale e civile, e ha avuto anche un aborto”. Le valutazioni “di facile comando” o analoghe riguar dano solo le donne. ! Le spie forniscono dettagli precisi di vita quotidiana e mostrano di essere a cono scenza delle ricadute concrete della schedatura nelle scelte degli schedati: nel 1951 F.D.“è impiegata da alcuni anni alla Fiat, ha conosciuto il marito durante il periodo partigiano e sono entrambi comunisti. Il
marito è impiegato all’Anpi di Torino, ma guadagna poco e viene mantenuto dalla moglie. Si ritiene che egli abbia abban donato l’incarico nel timore che la propria moglie, incarica ta presso la direzione generale della Fiat, potesse essere eso nerata dall’impiego in conse guenza dell’attività politica da lui svolta nell’Anpi”. ! LA REMISSIONE DEL PROCESSO: Il 3 dicembre la Corte di Cassazione sposta il procedi mento a Napoli, di fatto favo rendo gli imputati e sottraen dolo all’attenzione dei cittadini torinesi. Si temono disordini visto che si profilano respon sabilità a carico di massimi d i rigenti della Fiat e della forza pubblica. Questo proces so è uno tra i primi casi nei quali il tri bunale ha permesso non solo ai singoli lavoratori, ma anche ai sindacati di costi t u i rsi parte civile, f o rnendo ai giudici importanti prove. ! Lotta continua pubblica i nomi di poliziotti e carabinieri a libro-paga Fiat: non è solo spionaggio aziendale, ma sistematica corruzione di forze dell’ordine. Riporta anche la notizia di un “vertice” ad Antagnod tra il presidente della repubblica, Saragat, Agnelli e il procuratore gene rale di Torino, Colli. ! LE SENTENZE: Il 20 febbraio 1978 il processo a carico di 77 imputati si chiude con senten za del tri bunale di Napoli: con dannati quasi tutti, c o rru t t o ri e corrotti. L’11 luglio 1979 la c o rte d’appello di Napoli con fe rma la sentenza, ma i reati vanno quasi tutti estinti per prescrizione.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
15
giorgiana masi
Uno sparo tra la folla di Giulia Dedionigi, Carlotta Garancini, Tancredi Palmeri
Il12 maggio 1977 Giorgiana Masi viene uccisa durante una manifestazione. I Radicali affidano il caso all’ avvocato Boneschi e accusano il governo:«A sparare è stata la Polizia; quel giorno a Roma si cercava il morto a tutti i costi»
L
UCA BONESCHI SI DEFINISCE OGGI “l’unico impu-
tato” della vicenda Masi. Avvocato milanese, difensore di Valpreda nel processo di Piazza Fontana, a partire dal gennaio del 1978, insieme a Franco De Cataldo, rappresentò civilmente la famiglia Masi nell’indagine. Quando l’istruttoria si concluse, nel 1979 con l’archiviazione, un giornale pubblicò, riprendendola dall’Ansa, una dichiarazione di Boneschi, critica nei confronti del giudice istruttore, il quale aveva poi denunciato l’avvocato per diffamazione. All’epoca dei fatti, Boneschi era stato eletto alla Camera dei Deputati nel Partito Radicale, ma si dimise per affrontare il processo a Perugia. Nel libro del 2004 Roberto Franceschi: processo di polizia, Boneschi afferma: «Chi scrive non sa quando finirà, né come. E talvolta sorride pensando alla fatica e ai sacrifici fatti in nome di Giorgiana, che l’hanno portato, pur non volendolo, a essere l’unico imputato di questa vicenda. Ognuno tragga la morale che preferisce: e se qualche studioso volesse ripercorrere il processo, chi scrive ha tenuto le carte per vent’anni e le conserverà ancora, finchè non sbiadiranno del tutto». Come si è trovato a rappresentare civilmente la famiglia Masi? Sono subentrato a Oreste Flamminii Minuto, un avvocato di Roma, perché il patrocinio della famiglia Masi era stato assunto dal Partito Radicale che aveva chiesto a Franco De Cataldo, conosciutissimo avvocato romano, e a me, che in quel momento stavamo costituendo il centro Calamandrei, di assumere la difesa della parte civile al posto di Flamminii. In casi di questo genere come si muove la difesa? L’aspetto sostanziale di un processo civile non è tanto la condanna dei colpevoli, che è una soddisfazione morale, quanto il risarcimento del danno che ha un aspetto sostanziale. Nel processo Masi era complicato dimostrare qualsiasi cosa perché, non essendo stato trovato il proiettile, era un’impresa disperata risalire all’arma. Il
Nella foto: una rara immagine di Giorgiana Masi.
16
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
nostro tentativo è stato quello di ricostruire una situazione di probabilità. Il giudice ha ritenuto invece che non fosse possibile individuare il colpevole in nessun modo. Il fatto che la prima perizia del la Procura fosse “superficiale”, ha favorito la vostra contro perizia? Quando gli abbiamo fatto vedere i primi risultati, il nostro perito ha intuito subito che non potevano essere veritieri e ha fatto le sue prove con le vertebre di un maiale. Ha potuto verificare come la pallottola indicata nella perizia non potesse trapassare la colonna vertebrale della Masi e quindi doveva per forza trattarsi di una pallottola blindata sparata da un’arma molto più potente e da una distanza notevole. Purtroppo l’elemento che avevamo a disposizione per la contro perizia era solo il cadavere. C’erano anche i vestiti; poi, a un certo punto, non si sono più trovati. Se si fosse sparato a bruciapelo sarebbe rimasto un tipo di alone sul vestito che invece non c’era: bisognava aver sparato almeno a una certa distanza, a parecchi metri. Giocavamo su quello per sostenere che il colpo doveva essere partito dalla polizia, non da uno dei ragazzi che correvano vicino a Giorgiana. Quando subentrò la nuova difesa, pose immediata mente l’attenzione al Libro Bianco. Non gli era sta to dato il giusto peso nella fase precedente del pro cesso? In una prima fase la famiglia era stata assistita in condizioni precarie: il materiale all’inizio non era disponibile. Con le foto e con le registrazioni delle comunicazioni delle forze dell’ordine volevamo dimostrare che i colpi sparati quel giorno non potevano che partire dalla polizia. Secondo il giudice, invece, c’erano altri scenari, oltre a quello poliziesco, di gruppi non identificati che potevano aver sparato. Come avete recuperato il materiale fotografico rac colto nel Libro Bianco? La raccolta delle testimonianze, soprattutto quelle fotografiche, era
D o v e Roma, 12 maggio 1977. Manifestazione pacifica del p a rtito Radicale. Vittime Giorgiana Masi, studentessa 19enne, viena uccisa da un colpo d’arma da fuoco alla schiena. Movente Secondo i Radicali si tratterebbe di una vera e propria strage di Stato: il Gove rno cercava il morto per sedare il clima di rivolta. I protagonisti Il partito Radicale si affianca alla famiglia nominando gli avvocati di parte civile Boneschi e De Cataldo. Il deputato Cicciomessere redige il Libro Bianco che smonta la versione ufficiale del governo.
stata fatta nei mesi successivi alla tragedia da Roberto Cicciomessere del Partito Radicale. C’era stato qualche giornale che aveva pubblicato le prime foto e da lì si è potuto risalire ad altre fonti. L’importanza dei giornalisti è proprio questa. Se riescono ad avere dei documenti, li mettono insieme, li pubblicano, e se ne viene a conoscenza. Il lavoro del Messaggero può avere agevolato non tanto il processo, quanto l’aspetto politico. Davanti a un Ministro che afferma che la polizia non ha sparato, la pubblicazione di queste foto, con poliziotti in borghese e armati, smentisce le dichiarazioni ufficiali. Inoltre, le foto mostrano come i poliziotti non fossero vestiti in modo qualunque: avevano il tascapane, dunque erano il prototipo dell’Autonomo del 1977. Il Partito Radicale ha giocato tutta la sua campagna sulla supposizione che quel giorno il Governo avesse cercato a tutti i costi il morto. Avete pensato di chiedere ai giornalisti, ai passan ti, ai manifestanti e ai poliziotti di offrire le loro testi -
C’erano molti poliziotti travestiti da autonomi mischiati alla folla. Erano armati, e sparavano ad altezza d’uomo: lo dicono le foto
monianze anche durante il processo? Prima di tutto avevamo chiesto che venissero interrogati tutti gli agenti che si trovavano sul ponte. Questo era stato fatto in parte, ma gli interrogatori erano stati abbastanza sbrigativi. Avremmo potuto certamente richiamare giornalisti e passanti in aula ma, ai fini del processo, non so quale utilità avrebbe avuto. Era molto più interessante, invece, analizzare le comunicazioni e gli spostamenti della polizia, e determinante avere le foto per dimostrare che le forze dell’ordine avevano sparato. Infine era necessaria la perizia balistica per dimostrare che l’arma non era quella indicata in un primo tempo. Siete riusciti ad avere facile accesso alle fonti? Avete mai subito tentativi di depistaggio? Da questo punto di vista il giudice aveva lavorato bene, erano tutti atti acquisiti e depositati. Un vero e proprio depistaggio c’è stato nel processo di piazza Fontana. Però, anche su quella vicenda, nonostante le prove fossero state distrutte, si è riuscito a ricostruire, con quello che rimaneva delle due bombe, il tipo di borsa, il tipo di timer e il tipo di esplosivo utilizzati. Da parte dell’opinione pubblica c’era attenzione sul l’omicidio Masi? E da parte del Parlamento? Alcune immagini ritraggono l’aula vuota nei momenti cru ciali. C’era moltissima attenzione da parte della gente, il fatto aveva colpito l’opinione pubblica, soprattutto a Roma perché la manifestazione era nata come atto pacifico. Del resto, in Parlamento, il Partito Radicale, anche se non sta simpatico a nessuno, è riconosciuto come una forza politica assolutamente non violenta. Quanto ha contato allora sull’esito finale della vicenda il fatto che, ad essere protagonisti, fossero i Radicali? I Radicali in quel momento avevano quattro parlamentari. Era una piccolissima forza che aveva sconvolto il Parlamento: allora le Camere si reggevano su partiti non così contrapposti come si poteva credere. Come reagì la famiglia Masi in questa fase istrutto ria? La famiglia Masi era costituita da padre, madre, Giorgiana e sorelMAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
17
giorgiana masi
Non credo che il caso verrà riaperto. Anche la sorella della Masi è lontana da quei giorni la. Ho lavorato soprattutto con la sorella che è quella che ha seguito l’indagine e che, soprattutto, mi ha molto sostenuto nel processo che ho subito io. Oggi i genitori di Giorgiana sono morti, la sorella c’è ancora, ma ha scelto la sua vita, lontano da quei giorni. Da dove nasce il processo che Lei ha subito per diffamazione? Quando il giudice archiviò l’indagine, espressi un giudizio sulla sua decisione, che non derivava da un dissenso sull’esito dell’inchiesta. Contestavo che la Procura non avesse fatto il suo dovere avendoomessoalcuniaccertamenti che, secondo me, si dovevano fare. Questo pensiero fu travisato dalla stampa e ricevetti una querela per diffamazione. Il processo Masi ha un futuro? Credo poco alla possibilità di ricostruire a trent’anni di distanza una verità attendibile. La maggior parte delle persone che potrebbero sapere probabilmente non ci sono più, sono morte o sono molto vecchie. È passato troppo tempo. Negli archivi di Stato si potrebbero trovare delle notizie sconosciute, ma sarebbero delle conferme alle ricostruzioni già fatte, non sarebbero delle sorprese. Cossiga dice di sapere il nome del l’assassino:da avvocato, ma anche da protagonista della vicenda, è giusto dirlo o non dirlo, e perché non dirlo? Sono sempre rimasto scettico. Se una persona che è stata alla presidenza della Repubblica, che è stata Ministro degli Interni, che dice di sapere e che tuttavia non rivela, probabilmente ritiene che ci sia un segreto di Stato da nascondere. Quindi, ritorniamo all’ipotesi che, se c’è qualcuno da proteggere, non è certo un ragazzo aspirante terrorista . Non posso avere alcuna stima di questa persona. Oggi, se capitasse un episodio del genere, chi si occuperebbe di scri -
Per saperne di più Il Libro Bianco su Giorgiana Masi, (Fondazione Calamandrei, 1979); Lidia Ravera, Il compleanno di Giorgiana, in Ordine Pubblico (Fahrenheit 451); Daniele Biacchessi, Roberto Franceschi. Processo di polizia, (Baldini Castoldi Dalai)
18
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
vere il Libro Bianco? Per fortuna recentemente non sono capitati fatti simili, ma il Partito Radicale è ancora pronto a rispondere e a reagire. E la stampa? Credo nella funzione della stampa, anche se sono molto critico. Su piazza Fontana, se non ci fossero stati alcuni giornalisti molto determinati a capire cos’era successo, ci sarebbe sicuramente voluto più tempo per arrivare a una verità, magari non giudiziaria, ma almeno politica. Però, per esempio, in questi mesi, per la strage di piazza della Loggia, è in corso il processo a Brescia. Se ne parla pochissimo o non se ne parla per niente. Perché, secondo Lei? Perché si pensa che non interessi all’opinione pubblica. Probabilmente i giornali locali ne parlano, quelli nazionali ne parleranno se uscirà una sentenza, ma non c’è il cronista che riporta giorno per giorno le fasi del processo. Interessano di più vicende come quelle di Garlasco o di Perugia: fatti di cronaca nera che alzano le vendite dei giornali. Nel caso Masi siete stati lasciati un po’ soli? Il caso Giorgiana Masi era veramente difficile. Il Messaggero ha continuato a seguire il caso anche dopo l’archiviazione, occupandosi anche del mio processo, nel quale ero imputato insieme al direttore della testata Vittorio Emiliani. Forse, se ci fosse stato il processo Masi, ci sarebbe stata più attenzione al caso o qualche giornalista in più disposto ad indagare. Chi oggi mette a frutto quella lezio ne sulla controinformazione? Leggo con grande attenzione gli articoli di D’Avanzo che sono una miniera di informazioni su come va un certo argomento o su come lo vede lui stesso. Forse, per ragioni di lavoro sono sempre cauto su quello che leggo: non ci credo mai al cento per cento. Mi capita per lavoro di conoscere alcuni argomenti e di leggere sui giornali informazioni che non sono assolutamente attendibili. Oggi, il giornalista tende più a mettersi all’interno delle situazioni e poi a raccontarle: ed è questo il tipo di inchiesta che si fa oggi. I giornalisti tendono a essere più organici rispetto al potere? Come in tutte le professioni ci sono giornalisti molto organici al potere e giornalisti che lavorano con una notevolissima autonomia intellettuale. Piazza Fontana, per esempio, è stato un avvenimento talmente dirompente e gestito così male dall’autorità pubblica che ha suscitato proprio la curiosità e l’indignazione di parecchi giornalisti. Le versioni di Valpre-
Cossiga dice di sapere chi ha sparato alla Masi, ma non lo vuole rivelare. Vorrei sapere perché da colpevole e soprattutto quella di Pinelli che si butta dalla finestra, erano talmente rozze, che in pochi ci hanno creduto. Alcuni sono stati molto cauti, altri hanno cercato di vederci chiaro e hanno cominciato a scrivere articoli che hanno portato pian piano l’opinione pubblica a dubitare della versione ufficiale. Scesero in campo giornalisti di primaria importanza come Stajano, Cederna, Pansa, Paolucci, Gandini, e testate come l’Unità e la Stampa. Qual è il rapporto dei giornalisti con la Magistratura? Non mi sembra che ci siano giornalisti portavoce della Procura della Repubblica, come si dice da tante parti. Anche un giornalista come Travaglio è in realtà una persona che ha una notevolissima capacità di documentarsi. Tuttavia, non immagino il magistrato che si rivolge al giornalista. Al contrario vedo il giornali-
Da sapere scelte editoriali di molti gior nali che, dopo le reazioni di Cossiga, hanno aggiustato il tiro tacendo verità via via emerse. Si salva solo il lavoro svolto dal Messaggero. A rinforzo di questa pubblica zione il gruppo Radicale, il 5 novembre 1977, rende pubbli co un filmato della manifesta zione: è questa la prova defini tiva che Cossiga ha mentito in Parlamento.
! IL CASO: Il 12 maggio 1977, il Partito radicale, nella ri c o r renza della vittoria del re fe rendum sul divorzio, organizza una manifestazione non vio lenta per la raccolta delle firme su altri otto re fe rendum. La manifestazione viene vieta ta, ma molte persone, alle tre del pomeri ggio, affluiscono in piazza Navona. ! Le forze dell’ordine allora bloccano tutti i punti di acces so e non lasciano passare né i giornalisti né i parlamentari : anzi, alcuni, come Pinto, ven gono malmenati, mentre a molti cronisti viene sottratto il p r o p rio materiale fotografico. Per tutto il pomeri ggio le forze dell’ordine fanno uso di lacri mogeni e armi da fuoco. Agenti in borghese si sono “travestiti” da Autonomi e si sono mischiati alla folla.
sta andare dal magistrato, per ottenere informazioni da lui. Ha qualche ricordo significativo cha la riporta a quegli anni? La strage di piazza Fontana mi ha cambiato sicuramente la vita. La mattina del 12 dicembre 1969 Valpreda era nel mio studio. Mi ha sconvolto che tre giorni dopo lo abbiano arrestano e indicato come il “mostro” di piazza Fontana. È stata una reazione assolutamente spontanea e priva di qualunque interesse personale pensare subito a difenderlo, convinto che non c’entrasse niente. Oggi ho 70 anni, allora ne avevo 30 ed ero un avvocato alle prime armi, soprattutto non esercitavo il penale, ma il civile-commerciale. Quando hanno iniziato a mettere in galera gli amici mi sono detto: «Qui bisogna attrezzarsi in modo diverso». Per il penale non venivamo pagati neanche un po’. Anzi, a volte ci rimettevamo di tasca nostra. Tutta Piazza Fontana è “nata” per passione.
Nella foto: Francesco Cossiga,all’epoca ministro dell’Interno.
! Alle 20.30 Giorgiana Masi, una studentessa manifestante, viene colpita da un colpo d’ar ma da fuoco, sparato paralle lamente al terreno, che le tra passa una vertebra, l’addome, e le esce dall’ombelico. Giorgiana si trovava all’imboc co di Porta Garibaldi, a Trastevere: quando arriva all’ospedale è già morta. Sul ponte allora si scatena l’infe r no: alcuni reagiscono, formano b a rricate, tolgono benzina dalle auto e poi le incendiano. ! È difficile ricostruire quelle sei ore perché emergono, sin dal primo minuto, due veri t à diametralmente opposte. Ciò che si sa per certo è che c’è un cadavere e che, nelle stes se circostanze di tempo e luogo, sono state fe rite altre tre persone: Elena Ascione e F.L., due manifestanti, ed il carabiniere Francesco Ruggero. Questi i fatti. ! LA VERSIONE UFFICIALE: I l ministro degli Interni Cossiga, per tutto il giorno irrintraccia bile, parla della manifestazio ne solo l’indomani. Pur dando atto ai Radicali di non pratica re la violenza, attribuisce gli s c o n t ri tra “ e s t remisti facino rosi” e nega sia l’uso di arm i da fuoco da parte delle forze dell’ordine sia la presenza degli agenti in borghese.
Inoltre, in Camera dei deputa ti, si affe rma che la Masi sia stata colpita all’addome. ! Tutta l’aula è unanime nella condanna dei radicali che hanno indetto una manifesta zione vietata e che,quindi, sono i responsabili di quanto è acca duto. Nel corso delle giornate successive però, complici la pubblicazione di foto e filmati e sotto la pressione dei Radicali, la versione ufficiale cambia continuamente: p rima gli agenti in borghese non c’era no; poi c’erano, ma non erano armati; infine erano armati, ma non sparavano. ! IL LIBRO BIANCO: Il 12 luglio 1977, contro la linea di Cossiga esce un dossier del partito Radicale, edito due anni dopo dalla fondazione Calamandrei, che si è assunta il compito di difendere in giu dizio la famiglia Masi. Il libro documenta, con moltissime fotografie e 62 testimonianze, la presenza incontrovertibile di poliziotti in borghese ri p resi con le pistole in pugno. Non c’è traccia delle molotov di cui avevano parlato le forze del l’ordine. Vengono ri t ratti anche molti altri ragazzi fe riti che non erano ri c o rsi alle cure in ospe dale. Ma, soprattutto, è docu mentato come le forze dell’or dine, al termine della giornata, fossero tornate sul luogo della sparat o ria per ripulirlo dai bossoli. ! Parte integrante del libro, poi, sono le conv e rsazioni ste nografate delle Camere al fine di smontare la linea del gover no, tacciata di superficialità. Infine, sono ri p o rtate anche le
! ITER PROCESSUALE: Il 13 mag gio viene aperto un procedi mento. Il pubblico ministero dispone una perizia medicolegale e balistica sul corpo di Giorgiana e sui due feriti. L’anno dopo la difesa passa agli avvocati Boneschi e De Cataldo. Il loro lavoro si basa soprattutto sul Libro Bianco, su nuove perizie e sulle comuni cazioni delle forze dell’ordine via radio. ! A complicare il lavoro dei legali, però, è un ritrovamento “misterioso”: cinque giorn i dopo l’uccisione di Giorgiana un netturbino ri t r ova nei giar dinetti di piazza Augusto Imperatore un sacco di iuta contenente due pistole mitra gliatrici, un mitra, una baionet ta, delle munizioni e una Smith & Wesson che, secondo il giu dice istruttore, poteva effettiva mente essere stata adoperata per colpire le tre vittime. L’8 maggio 1981- era prossimo il 12 di maggio - arriva la richiesta con sentenza istrutto ria di proscioglimento. La sen tenza del giudice D’Angelo ricorda che: «Nessun colpo risulta esploso dai carabinieri né dalla polizia né dal pers o nale in borghese». ! IL CASO MASI OGGI: A paga re finora è stato solo il questo re di Roma Migliorini, rimosso dall’incarico a fine dicembre 1977. Al Corriere della Sera del 25 gennaio 2007 l’ex Ministro dell’Interno aveva dichiarato di essere una delle cinque persone a conoscenza dell’identità dell’assassino. Ad oggi molti sostengono che, in quel 12 maggio 1977, si cer casse a tutti i costi il morto e che, in fondo, anche questa sarebbe stata una strage di Stato.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
19
fausto e iaio
Un dossier sull’eroina pagato a caro prezzo Fausto e Iaio, giovani militanti del centro sociale Leoncavallo, vengono uccisi il 18 marzo 1978. Pochi giorni dopo, un gruppo di amici si mette a indagare. Vent’anni dopo la magistratura conferma la loro tesi di Salvo Catalano e Andrea Legni
C
HIUNQUE VOLESSE CAPIRE cosa
sia stata la controinformazione a Milano deve incontrare Umberto Gay, una vita da giornalista a Radio Popolare. «Negli anni ’70 fare controinformazione significava essere militanti e conoscere a fondo il territorio, viverlo». Gay ha cominciato a sedici anni e non ha più smesso. Nel suo racconto c’è tutta la Milano degli anni ’70: i volti dei protagonisti, le tensioni e le violenze, le granitiche certezze dell’essere militanti, l’impegno politico che, col tempo, si fonde con la vocazione per il giornalismo. Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento Moro, nel contesto di un’Italia blindata, un gruppo di fuoco di matrice neofascista uccide due ragazzi diciottenni, Fausto e Iaio. Umberto Gay non li conosce personalmente, ma un luogo li accomuna: il centro sociale Leoncavallo. Un luogo che coincide con un ideale, con un impegno di vita. Gay ha 21 anni e non è ancora giornalista, ma è responsabile del gruppo della controinformazione di Avanguardia Operaia. La sera stessa dell’omicidio inizia quindi un lavoro colletti-
vo di ricerca e di indagine che porterà, dieci anni piùtardi, alla pubblicazione dellacontroinchiesta. «Quello che era successo era talmente enorme che nessuno di noipoteva restare indifferente. Il nostro lavoro aveva un solo obiettivo: la ricerca della verità». Come nasce la controinformazio ne? L’origine va cercata nel mondo delle fabbriche. Il primo grande esempio fu rappresentato dal professore Giulio Maccacaro, medico e biologo che, insieme a Luigi Mara, sindacalista del movimento Medicina Democratica, si occupò della Montedison di Castellanza. Negli anni ’60 Maccacaro e Mara iniziarono a produrre dati di informazione sull’ambiente, sulla chimica, sulle condizioni di salute degli operai in Italia, analizzando il tutto da un prospettiva interna, cioè quella della fabbrica. Poi però, con il ’68 e negli anni ’70, l’atmosfera cambiò. Furono anni fertili per lo sviluppo della con troinformazione? In quegli anni si vivevano grandi dinamiche come lo sfruttamento in fabbrica, le lotte dei
lavoratori, le mobilitazioni studentesche. Molti giovani iniziavano ad immaginarsi la vita in maniera diversa. Il meccanismo iniziale che ha mosso il concetto di controinformazione era guardare all’informazione ufficiale con occhio critico, trovare un’alternativa al telegiornale della sera, non per partito preso, ma perché era oggettivamente l’organo dello Stato. E se nello Stato ci fosse stato qualcosa che non andava, non poteva essere certo il Tg lafonte diinformazione adatta a raccontarlo. C’era un movente politico-culturale: la ricerca della verità. Perlacontroinformazione si posso no definire delle fasi storiche? Penso sia importante distinguere tra i decenni ‘50,’ 60 e’ 70, perché sia il livello d’informazione che lo scenario politico erano diversi. Negli anni ‘50 e ‘60 non esisteva una controinformazione che riusciva a esprimersi pubblicamente. Tuttavia il Pci era una struttura enorme e aveva un apparato di controinformazione da fare spavento. Essere sopravvissuti a vent'anni di dittatura fascista voleva dire aver avuto alle spalle strutture di informazione, sicurezza, che dovevano gestire l'esistenza di un partito clandestino. Negli anni ‘50 e ‘60 neanche il Pci si permetteva di tirare fuori delle verità alternative. Nel 1978, l’anno dell’uccisione di Fausto e Iaio, non eravate ancora giornalisti. Cosa facevate?Avevate avuto altre esperienze di giornali smo anche se non professionale? Nel 1978 avevo 21 anni e facevo controinformazione già da cinque. Anche Fausto e Iaio morirono per aver fatto controinformazione. Fare controinformazione al centro sociale Leoncavallo significava, ad esempio, occuparsidel traffico di eroina a Milano. In quel periodo, in via Vetere c’erano ogni sera centinaia di persone a bucarsi. Avevi paura in quella zona. Erano i giovani a essere colpiti da quel fenomeno, giovani di sinistra che conoscevi, tuoi amici. Nel vostro lavoro d’indagine arri vate ad affermare con certezza che Fausto e Iaio furono uccisi proprio a causa del famoso dossier sul traf fico di eroina a Milano. Come e
Nella foto da sinistra: Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio.
20 MAGZINE 5
| 26 gennaio - 2 marzo 2010
D o v e Milano, via Mancinelli - 18 marzo 1978. Vittime Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Iaio) uccisi da un gruppo di cinque neofascisti legati ai Nar. Movente I due giovani partecipavano alla realizzazione di un dossier sullo spaccio di eroina nella zona di Lambrate-Casoretto. I protagonisti Di fronte alle mancanze delle indagini ufficiali, un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare inizia un lavoro di controinformazione per accertare la verità. La controinchiesta viene pubblicata nel 1988, in occasione del decennale della morte di Fausto e Iaio.
quando siete arrivati a questa con clusione? L’inchiesta su Fausto e Iaio fu presentata da Radio Popolare nel 1988, dieci anni dopo l’omicidio. Alle spalle c’era un decennio di lavoro. La sera stessa dell’omicidio capimmo che quello che era successo era di un’enorme gravità per due motivi: accadde due giorni dopo il sequestro di Aldo Moro con tutta l’Italia blindata; in secondo luogo, ad essere stati colpiti erano due ragazzi del centro sociale più importante di Milano con una rete di migliaia di militanti. Due che fondamentalmente non contavano nulla, due ragazzini di diciotto anni come altri centomila. E lo dico con affetto. Io, che ero responsabile della controinformazione per Avanguardia Operaia, immediatamente, quella sera parlai con uno dei responsabili dell’Autonomia e uno del Movimento Lavoratori per il Socialismo. Capimmo subito che era un grande mistero. Non conoscevamo personalmente Fausto e Iaio, ma sapevamo che Fausto era all’interno di un gruppo di lavoro particolare, quello del dossier sull’eroina: un libretto con foto, informazioni e indirizzi degli spacciatori che, da quel momento in poi, sarebbero stati riconosciuti e indicati pubblicamente. Un lavoro di controinformazione rischioso per un ragazzo di 18 anni. Non era un lavoro particolarmente difficile perché, a differenza di adesso, dal boss al consumatore i passaggi erano tre. Ce l’avevi sotto gli occhi se stavi nel territorio. Tuttaviaera rischioso perché tirare fuori un dossier del genere, con un centinaio di nomi, avrebbe dato fastidio a molti. Capimmo subito che era questa la pista da seguire. Non poteva essere infatti un’aggressione fascista capitata per caso al Leoncavallo di
sabato sera, non poteva essere una vicenda personale di uno dei due ragazzi. La matrice doveva essere per forza di destra ma con l’avallo di chi gestiva il traffico di droga. L’intuizione iniziale fu subito quella giusta. Non eravamo veggenti, ma avevamo alle spalle dieci anni di pratica di controinformazione sul territorio. Tuttavia, fare un dossier in mancanza di un’indagine ufficiale o in presenza di indagini deviate, era complicato. Infatti passarono dieci anni prima della pubblicazione. Dopol’omicidio, come si strut turò il gruppo della controin formazione? All’inizio tutta la sinistra extraparlamentare mise al lavoro della gente sull’omicidio di Fausto e Iaio, ognuno per i fatti propri: Lotta Continua, Quotidiano dei Lavoratori e un giornale che si chiamava La Sinistra. Ma furono indagini di breve/medio termine. Dopo il primo anno si creò una specie di coordinamento. Fu un lungo e lento lavoro di ricerca e di verifica: magari per mesi non portavamo a casa niente, poi subentrava improvvisamente qualche novità. Ad esempio, poteva capitare che ad una manifestazione alcuni nostri atteggiamenti venissero graditi dalle forze dell’ordine. Questo ti permetteva di riuscire a parlare con un commissario di zona e chiedergli se certi personaggi erano ancora presenti sul territo-
Denunciai Corsi perché volevo essere querelato. Era l’unica possibilità per riaprire il processo
rio. Bisognava ascoltare non solo i militanti ma soprattutto la gente comune. Il negoziante, la signora, lo spazzino che passa ogni giorno dallo stesso punto e di quel luogo sa tutto. Oltre ai contributi spontanei che, nel caso di Fausto e Iaio, furono molti. È un mestiere che abbiamo raffinato giorno per giorno giungendo a denunciare nomi e cognomi. E quando, dopo dieci anni, la magistratura riaprì seriamente l’inchiesta i nomi alla fine furono gli stessi. Non furono rinviati a giudizio, come sta scritto nella sentenza, «nonostante la particolare quantità di indizia carico degli imputati». Per noi fu comunque un successo, perché nessun altro evento di controinformazione in Italia è mai arrivato tanto vicino alla verità. Tuinvece,nel2000,unnomel’haifat to: Mario Corsi. Dodici anni dopo la pubblicazione dell’inchiesta. Perché dopo così tanto tempo? Lo denunciai pubblicamente quando ho capito che non c’era più niente da fare. Volevo farmi querelare. Era l’unico modo per riaprire il processo, perché si sarebbe dovuto accertare se la mia accusa era fondata. Per questo feci quella conferenza stampa. E infatti Mario Corsi, tutt’ora mitico dj di una radio romana, dopo un’ora da quella denuncia minacciò querela. Che però non arrivò mai, su consiglio dei suoi avvocati. Il lavoro di controinformazione seguiva un metodo strutturato? Le inchieste possono essere di due tipi: o poliziesche/giudiziarie, o giornalistiche. Noi non facevamo né le une né le altre. Essenziale era avere una rete sul territorio. Per territorio intendo case, strade, luoghi di lavoro e di aggregazione, fabbriche. Con alle spalle una rete d’informazione alternativa, che all’inizio era solo sociale ma che poi divenne sempre più politicizzata, avevamo antenne disseminate sul territorio. Nessuno aveva il bisogno di essere nominaMAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
21
fausto e iaio
Non eravamo giornalisti, ma dei semplici militanti. Era l’unica motivazione che dava forza al lavoro to giornalista. I gruppi di militanti andavano ad accendere queste antenne: rappresentanti politici, sindacato, intellettuali, il lavoratore cimiteriale che scava la fossa, quello che lavora all’obitorio, il poliziotto di sinistra o il magistrato, ogni potenziale voce alternativa. Alla fine eravamo in grado, nel momento in cui si verificava un fatto, piccolo o grande che fosse, di muovere sempre la stessa macchina. Come facevate a procurarvi infor mazioni riservate? Prendiamo un esempio. Nel caso di un procedimento penale tra le parti in causa c’è anche l’avvocato di parte civile, che rappresenta i famigliari delle vittime. Questo è l’unico estraneo alla macchina giudiziaria ad aver accesso alle carte. In quel periodo, nel caso di un fatto penale con caratteristiche politiche era facile che l’avvocato scelto dalle vittime fosse tendenzialmente vicino a chi faceva un lavoro come il nostro. L’avvocato era per noi l’unica possibilità di avere accesso alle carte . In ogni caso è buona norma verificare anche ciò che è scritto sui documenti ufficiali. Ci puoi raccontare un caso in cui siete riusciti ad ottenere delle infor mazioni importanti per la vostra inchiesta su Fausto e Iaio? No. Vi ho detto dello spirito che teneva unito il nostro lavoro, della creazione di strutture che man mano si specializzavano, della verifica costante, del rapporto col territorio, del moltiplicarsi delle fonti anche al di fuori dell’ambiente militante. Sui metodi concreti non posso dirvi altro. Qualunque cosa vi venga in mente va bene, tranne toccare la vita umana.
Umberto Gay nasce a Pinerolo (To) nel 1957. Giornalista, dal 1981 è redattore di Radio Popolare, dove si occupa di cronaca giudiziaria e, in particolare, delle grandi organizzazioni criminali e mafiose e della lotta armata. È stato consigliere comunale a Milano per Rifondazione Comunista dal 1990 al 2000 e consigliere regionale dal 2000 al 2005. Per sap e rne di più AAVV, Fausto e Iaio.Trent’anni dopo (Costlan); Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio (Baldini Castoldi Dalai).
22
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
Per esempio, si parla di una moto sospetta vista mentre si allontana va dal luogo dell’omicidio. Come avete ottenutoquell’informazione? La moto fu vista da una militante di Lotta Continua che quella sera si trovava casualmente in piazza Aspromonte intorno alle 20 e constatò un fatto strano. Vide una moto arrivare veloce e fermarsi davanti a una pizzeria. Vide il passeggero scendere, strappare un cartone che copriva la targa ed entrare in pizzeria mentre la moto si allontanava. La ragazza non sapeva che avevano appena ammazzato Fausto e Iaio a un chilometro di distanza. Ma era buona norma che una militante riferisse un fatto strano come questo al gruppo della controinformazione. Questo fatto è emblematico per capire come funzionasse il meccanismo delle fonti. In cosa si differenziava il lavoro di inchiesta rispetto alle indagini dei giudici e della polizia? Si sono mai intrecciatio sovrappostiidue piani? Non eravamo poliziotti ma in realtà dovevamo usare metodi di ricerca assolutamente identici a quelli della polizia. Un’intervista poteva diventare un interrogatorio, un’indagine poteva essere avvalorata da una fotografia o da un pedinamento. Avevamo a che fare con gente che metteva bombe, accoltellava, uccideva, spacciava. Tu sei solo un cittadino, un militante politico, la tua motivazione è solo questa ed è la forza di tutto. Sulla base di questo si costruisce una rete di persone, possibili fonti, che ti riconosce e decide di aiutarti. Altrimenti non hai nessun tipo di potere; noi non avremmo mai potuto fare indagini o interrogatori. Non eravamo autorizzati né intenzionati a fare questo, anche se poi è successo. La controinformazione non nacque da un’idea di giornalismo di sinistra alternativo, ma come strumento di autodifesa, di difesa o di attacco politico. Hai conosciuto i giudici che si sono occupati in questi anni dell’omici dio di Fausto e Iaio? Che rapporti hai avuto con loro? Il primo pm, Armando Spataro, oggi a capo dell’antiterrorismo a Milano, ebbe subito l’intuizione giusta, come noi. Tant’è che fu lui ad ordinare le uniche intercettazioni del fascicolo, effettuate negli unici due bar dove andavano fatte. Vennero fuori degli elementi interessanti, ma le indagini si fermarono. Il caso di Fausto e Iaio è l’unico omicidio politico nella storia del dopoguerra dove non si è indagato fino in fondo, dove non c’è stato un confidente o un pentito. Si sono alternati dieci magistrati, ma nessuno è mai stato messo nelle condizioni di lavorare seriamente. Un giorno andai da uno dei migliori, il giudice istruttore Graziella Mascarello, un personaggio ecce-
Serviva una persona che stesse nell’ombra per coordinare il lavoro: i compagni scelsero me zionale. Aveva cento fascicoli sulla sua scrivania. Mi indicò quello su Fausto e Iaio e mi disse: «Come faccio a dedicarmi a loro mentre gli altri fascicoli riguardano tre morti di due giorni fa?». Ecco, non c’era la volontà di trovare i colpevoli. Tutto questo era scientemente voluto. Se è vero che, come dicono anche le carte processuali, tutto si basava sul giro di droga nella zona Casoretto-LeoncavalloLambrate-viale Padova-viale Monza, vuol dire che, se le indagini fossero proseguite, si sarebbe andati a toccare i “mammasantissima” che hanno avallato l'operazione. Il vostro documento è stato acquisi to dalla magistratura? Ad un certo punto la magistratura fermò le indagini. Fu il giudice Guido Salvini a riaprire il caso e a rimettere insieme i pezzi del puzzle, prendendo spunto anche dal dossier che viene anche citato nelle carte processuali, ma senza farlo diventare atto giudiziario. Hai mai ricevuto minacce per que -
Da sapere sospettare, quali esecutori materiali dell'omicidio, di Mario Corsi, Massimo Carminati e Claudio Bracci.
! IL CASO: Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (detto Iaio), giovani militanti del centro sociale Leoncavallo, furono uccisi con otto colpi di pistola la sera di sabato 18 marzo 1978 in via Mancinelli da un gruppo di cinque aggressori. All’epoca Fausto e Iaio stavano partecipando a un’inchiesta sul traffico di eroina a Milano. ! Il progetto coinvolgeva div e rsi gruppi della sinistra extraparlamentare milanese. Fausto, in particolare, indagava sullo spaccio nel quartiere Lambrate, raccogliendo infor mazioni e testimonianze e registrando il materiale raccol to su nastri audio. Un’attività che lo aveva molto esposto nel quartiere e, verosimilmente, reso inviso ai trafficanti. L’omicidio dei due ragazzi scosse profondamente la città, tanto che ai loro funerali si radunò in piazza San Materno una folla di 100 mila persone.
sta storia? No perché il mio è stato un lavoro molto sotterraneo. Quando crei una struttura del genere ci deve essere soltanto una persona che conosce tutti e che deve rimanere più nascosto possibile, per tutela delle fonti e del materiale. Oggi può esistere un lavoro di con troinformazione analogo? Apparentemente no. Non viene più fatta informazione militante, o controinformazione nel senso di metodo giornalistico. In realtà, però, sono le esigenze ad essere cambiate: mentre in passato si faceva informazione contro quella ufficiale, adesso c’è più libertà di espressione e di stampa. Quindi quello he serve non è controinformazione quanto piuttosto semplicemente informazione. Ma bisogna muoversi, andarla a cercare. Altrimenti c’è un sistema che ti permette di parlare delle mutande del presidente dello Zimbabwe anche stando seduto su questa sedia. Si può fare controinformazione senza essere partigiani? Lo dice il termine stesso. Devi essere contro qualcosa.
Nella foto: un manifesto appeso dai militanti al Centro Sociale Leoncavallo.
! LA CONTROINCHIESTA: ha ini zio immediatamente dopo l’omicidio, coinvolgendo va ri gruppi della sinistra extrapar lamentare. Viene resa pubbli ca nel 1988, in occasione del decennale dell’omicidio. Primo obiettivo della controin chiesta è stato quello di dimo strare che si trattava di un omi cidio politico, in risposta alle p rime dichiarazioni della Questura che aveva parlato di un regolamento di conti tra spacciatori. ! In dieci anni di lavoro la controinformazione giunge a conclusioni importanti, affer mando che «l’omicidio venne deciso da coloro che nella zona Lambrate-CasorettoPadova diri g evano lo spaccio della droga ed erano collega ti a settori della destra terro ristica», individuando nella “Brigata Anselmi” (formazio ne terr o ristica romana legata ai Nar), il gruppo responsabi le dell’omicidio e spingendo si a individuare un’apparte nente ai Nar come «uno dei killer di Fausto e Iaio». Pur evi tando di fare il nome di que sta persona (indicata come “Alfa”), essa viene resa iden tificabile tramite un’accurata descrizione.
! MAURO BRUTTO: Cronista di nera per il quotidiano L’Unità, Mauro Brutto, subito dopo l’omicidio di Fausto e Iaio, ini zia a occuparsi del caso. La sera del 15 novembre ’78, mentre si trova in via Arquà (a pochi passi da via Mancinelli) per parlare con alcuni testi moni, degli sconosciuti su una moto lo affiancano ed esplo dono alcuni colpi in ari a . Dieci giorni dopo, il 25 novembre, mentre attrav e rsa via Murat, dove si suppone dovesse incontrare un informatore in un bar, viene investito. Secondo la testimonianza di una signora che ha visto la scena, quando Brutto esce dal locale, una Simca bianca part e di scatto e lo investe. L’impatto dell’urto non è tremendo (per questo si crede che si dovesse trattare di un secondo avverti mento), ma Brutto viene sbal zato nella corsia opposta della strada, dove una seconda auto (estranea all’agguato) lo tra volge uccidendolo. La Simca bianca non verrà mai ri t r ovata, mentre la borsa che Brutto aveva con sé verrà ri nvenuta vuota. ! LE INDAGINI UFFICIALI: Dopo 22 anni d’indagini, nel 2000, l’inchiesta della magistratura viene definitivamente archi viata dal Gip Clementina Forleo. Alcuni punti che emergono nel decreto di archiviazione vanno però a confermare l'impianto com plessivo della controinchie sta. Si parla infatti di «signifi cativi elementi indiziari a carico della destra ev e rs iva» romana. In part i c o l a re gli indizi portano la Forleo a
! M a rio Corsi è l’indiziato “Alfa” già identificato dalla controinchiesta: otto ex mili tanti dell’ estrema destra lo accuseranno dell’omicidio negli anni seguenti, ma questo non verrà ritenuto sufficiente per il ri nvio a giudizio da parte del giudice Forleo. Claudio Bracci e Massimo Carminati sono affiliati ai Nar romani. In particolare Carminati è una figura parti colarmente ambigua: esperto di armi ed esplosivi e legato alla Banda della Magliana, si ritiene che fosse uno degli anelli di congiunzione tra ter rorismo nero e servizi segreti deviati ed è stato condannato a nove anni di reclusione (insieme a Licio Gelli e altri m e m b ri dei servizi) per aver cercato di depistare le indagi ni sulla strage di Bologna. ! ANOMALIE NELLE INDAGINI: Nel corso delle indagini si sono verificate div e rse stranezze, le quali rendono necessari o valutare l'ipotesi (per altro da più parti paventata) che vi sia stata a qualche livello, all'inter no dei servizi o nelle forze dell'ordine, la volontà di inqui nare le indagini. ! Un berretto sporco di san gue ri t r ovato sul luogo del delitto non è stato mai analiz zato e dopo qualche tempo scompare dai reperti. ! Dopo l’omicidio, ignoti si introducono a casa Tinelli uti lizzando le chiavi di casa e tra fugano solamente i nastri sui quali Fausto registrava i risulta ti delle indagini sullo spaccio: all’epoca, gli effetti personali di Fausto, tra cui le chiavi di casa, erano ancora custoditi dalla polizia. ! Sempre dal decreto di archiviazione del 2000 emerge che il 23.10.1979 agenti della Digos di Roma perquisiscono la casa di Mario Corsi trovan do alcuni documenti ma, anzi ché sequestrarli, li consegnano alla madre di Cors i , invitando la a liberarsene.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
23
genova, g8
Pallottole di pietra di Fabrizio Aurilia e Gregorio Romeo
Carlo Giuliani muore il 20 luglio 2001 in piazza Alimonda. Ma gli eventi di quel pomeriggio e delle altre giornate di Genova restano nell’ombra.L’indagine del gruppo Pillola Rossa evidenzia le contraddizioni dell’inchiesta ufficiale
S
CUOLA DIAZ, CASERMA DI BOLZANETO, piazza Ali-
monda. Dalle giornate del G8 2001 quei luoghi di Genova sono diventati il perno di un flusso costante di informazione e controinformazione, la nuova trincea, scavata fra le pagine di internet, che ha cercato di ricostruire gli scontri fra manifestanti e forze dell’ordine. Franti, robusto e adulto a sufficienza per aver vissuto in strada la militanza dagli anni ’70 fino ad oggi, non intende rivelare il suo vero nome per opportunità e sicurezza. Lui più di altri ha lavorato per quattro anni, fino al 2005, alle inchieste giornalistiche online che provano a restituire chiarezza agli episodi del G8. Fino al colpo di pistola che uccise Carlo Giuliani, documentato attraverso i testi e le immagini del sito Pillolarossa. Dalla tempesta di articoli apparsi soprattutto su Indymedia, Franti e la “crew” di Pillolarossa hanno separato il grano dal loglio, raccontando e mostrando con precisi fotogrammi i minuti convulsi del 20 luglio 2001, in piazza Alimonda. Quale idea originaria ti ha portato ad analizzare, così in profondità, le giornate del G8 di Genova? Ho partecipato in prima persona al G8, da manifestante, ed è stata un’esperienza sconvolgente, che mi ha segnato. Dopo le giornate di luglio ho impiegato molto tempo a realizzare cosa fosse successo, a dirimere la confusione. Ritornato a Genova dopo sei mesi faticavo a riconoscere le strade, era come se i muri odorassero ancora di lacrimogeni. Non riuscendo a dare una spiegazione logica a tutta quella violenza ho sentito la necessità di comprendere fino in fondo gli eventi. Durante i cortei di protesta si aveva la percezione del rastrellamento, le forze dell’ordine sembravano impazzite, come se cercassero una resa dei conti definitiva con il movimento. Probabilmente, dopo la vittoria della destra alle elezioni politiche, i carabinieri respiravano un’aria diversa, di piena legittimazione. Un atteggiamento che, in anni di militanza e inchieste su episodi simili, non mi
Nella foto: Carlo Giuliani pochi attimi prima di essere ucciso.
24
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
era mai capitato di riscontrare, neppure negli anni ’70. Come hai organizzato l’inchie sta? Complessivamente ho indagato dal 2001 al 2005, pubblicando numerosi articoli apparsi su Indymediae poi ordinati su Pil lolarossa, dove si parla nello specifico della morte di Carlo Giuliani. In seguito, anche in virtù delle informazioni raccolte, sono diventato consulente del processo che riguarda i fatti di strada. A quel punto ho smesso di scrivere per evitare ogni possibile conflitto di interesse. Quali sono state le principali difficoltà? Vivo in Veneto e all’epoca del G8 avevo un lavoro nel pubblico impiego. Mi sono licenziato, e con la liquidazione ho finanziato l’inchiesta, senza nessuna testata, neppure indipendente, alle spalle. Inizialmente lavoravo su un’ipotesi, che ancora molti coltivano, ma che io dismetto in quanto priva di indizi, e cioè che a sparare non fosse stato Placanica, ma un carabiniere intoccabile che si voleva proteggere. Questa mi sembra una tesi fuorviante, anche perché la gravità del caso Giuliani risiede soprattutto nella violazione del corpo commessa dai carabinieri, quando il giovane, agonizzante, viene finito a colpi di pietra. Ti spostavi spesso? Per un periodo ho fatto avanti e indietro dal Veneto a Genova, raccogliendo nomi, circostanze, fatti, e cercando di verificare ogni episodio. Frequentavo spesso la segreteria legale del Genoa Social Forum, avendo accesso a diversi atti processuali - comunicazioni audio della polizia, informative ufficiali degli scontri - che incrociano e confrontano. Che ruolo ha avuto internet? Ho navigato tantissimo su internet, spulciando vari forum e tessendo contatti online, con giornalisti e fonti provenienti dagli stessi ambienti delle forze dell’ordine. In questi casi è necessario lavora-
D o v e Genova, venerdì 20 luglio 2001, primo giorno di lavori del G8. Vittime Carlo Giuliani, 23 anni, manifestante no-global, morto a seguito di un colpo di pistola esploso dal carabiniere Mario Placanica. Movente Secondo gli antagonisti la morte di Giuliani è stata il frutto di una violenza ingiustificata delle forze dell’ordine. I protagonisti Pillola Rossa Crew ha pubblicato on-line svariate inchieste sui fatti del G8 di Genova. L’orrore in Piazza Alimonda indaga soprattutto gli istanti successivi allo sparo.
re molto con gli archivi. Il pezzo sui periti del processo, i cui riscontri hanno determinato il “non luogo a procedere” per Placanica, ha comportato grande impegno e alla fine l’inchiesta mette in dubbio la credibilità professionale dei funzionari nominati dalla magistratura. Inoltre ho usato, grazie all’aiuto di un amico giornalista, l’archivio Ansa, ricostruendo la carriera degli ufficiali dei carabinieri protagonisti negli scontri. In questo modo ho scoperto un inquietante filo rosso che dalla Somalia - dagli atti di violenza perpetrati dalle truppe italiane nel ’93 e sui quali ha indagato la giornalista Ilaria Alpi - porta fino a Genova. Molti nomi di militari sono sovrapponibili. Lavorare per tutto questo tempo è stato faticoso, anche finanziariamente. Ma ne è valsa la pena, posto che tutto è iniziato da una profonda necessità personale di chiarezza. Oltre a te, chi ha curato le indagini scrivendo e rac -
Dopo sei mesi Genova odorava ancora di lacrimogeni. Capire cosa fosse successo quel giorno era diventata una necessità
cogliendo informazioni? Diverse persone. Comincio e finisco l’inchiesta da solo, ma nel cuore delle indagini il gruppo arriva a contare 10 volontari al lavoro. Si tratta di alcuni militanti del social forum, collaboratori di Indymedia, giornalisti tradizionali. Abbiamo cercato di illuminare ogni segmento di quei giorni, dalla scuola Diaz alla caserma di Bolzaneto, dalla morte di Carlo alle violenze in strada. Anche la rete ha fatto in modo che l’inchiesta diventasse collettiva: il forum di Indymedia ha ospitato le testimonianze di persone di tutti i tipi, compresi ex ufficiali dei carabinieri. Hai attraversato almeno due stagio ni di controinformazione. I nuovi strumenti a disposizione come hanno cambiato il metodo di lavoro? Negli anni ‘70 condurre da soli, o parzialmente in autonomia, un’indagine simile non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. Con la quantità di informazioni reperibili su internet, invece, i margini per il lavoro individuale crescono. In più, ho cercato di usare la rete per rendere efficace e divulgabile tutto il materiale raccolto e prodotto. Ho usato le debolezze degli algoritmi dei motori di ricerca per fare in modo che gli articoli venissero visualizzati fra le prime voci online. L’obiettivo è fare in modo che chiunque, cercando informazioni su Genova, possa trovare facilmente la nostra narrazione. In ogni caso, non è cambiata la sostanza delle inchieste: lavorare con i documenti ufficiali rimane essenziale, e per trovare il punto debole delle carte bisogna leggerle in profondità. Ricordo quando sul finire degli anni ‘70 riuscii a discolpare una ragazza arrestata per brigatismo. Solo con lo studio approfondito degli atti processuali – verbali, cronologie, rapporti – è stato possibile trovare la falla e dimostrare la sua innocenza. In seguito, un senatore del PCI sollevò il caso in parlamento, portandolo alla ribalta e velocizzando lo scagionamento della ragazza innocente. Allora, in un certo senso, si lavorava all’ingrosso. I magistrati accusavano i militanti elevando la soglia, per cui, se rubavi un’auto ti imputavano il dirottamento di un aereo. Indagare per ristabilire le proporzioni era il nostro pane quotidiano. MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
25
genova, g8
Il complottismo deve stare fuori dal lavoro di indagine. È un balsamo utile per semplificare Quali difficoltà “esterne” hai incontrato nel corso dell’indagine sul G8? Nessuno ci ha messo i bastoni fra le ruote. Ciò che percepisco come prima difficoltà, l’autentico limite al lavoro di controinformazione, è il fatto che a pochi interessa sapere cosa è successo davvero. Perfino fra i militari citati nei nostri testi, nessuno ci ha denunciato per calunnie. Per loro è più importante non sollevare il passato. Solo una volta, nel corso della testimonianza davanti al giudice, il comandante dei carabinieri Giovanni Truglio ha cambiato espressione: ho visto i suoi occhi mutare lamentandosi delle “brutte cose” scritte contro di lui su internet. La sua smorfia faceva emergere il colpo subìto. Quello è stato un momento di soddisfazione, ma sul piano giudiziario i capi delle forze dell’ordine non pagheranno mai per quello che hanno fatto. La speranza è che gli storici, fra una decina d’anni, rileggendo le inchieste e gli atti, diano una versione dei fatti corrispondente alla realtà. La vittoria non sarà giuridica e si potrà avere, sotto il profilo dell’immagine, quando i figli dei responsabili delle violenze, navigando sulla rete, troveranno la verità su ciò che hanno compiuto i loro padri. Spesso la controinforma zione parte da presupposti ideologici. Questo elemento non rischia di essere un limi te per inquadrare la verità dei fatti? La controinformazione è per definizione ideologica, dal momento che scatta sempre da un torto subìto. Nessuno impegna le proprie energie, la sua vita, alla ricerca di qualcosa in cui non crede. Gli eventi devono colpirti anche emotivamente. Io riformulerei la domanda: “un ego ingombrante, l’innamorarsi delle proprie idee, è un ostacolo per le controinchieste?”
Per saperne di più Haidi Giuliani, Giuliano Giuliani, Antonella Marrone, Un anno senza Carlo, (Baldini Castoldi Dalai, 2002); Enrico Deaglio, Mario Portanova, Beppe Cremagnani, Fare un golpe e farla franca (video documentario, Luben Production, 2008).
26
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
Sì, questo è un enorme ostacolo, ed è un limite che ho sempre incontrato. Negli anni ho capito che bisogna essere spietati con la propria logica, applicando sempre il rasoio di Occam: l’ipotesi più semplice è, molto spesso, quella più vera. Per questo io detesto le tesi complottiste. I problemi che talvolta avevo anche con utenti di Indymedia nascevano dalla necessità di far capire che le tesi improbabili andavano lasciate fuori dalla porta. Il complottismo è un balsamo che si utilizza per semplificare quando diventa difficile seguire e comprendere la concatenazione degli eventi, e con questo atteggiamento non si arriva da nessuna parte. Direi che il complotto è la pietra tombale delle controinchieste ed infatti io rifiuto l’idea che dietro le violenze a Genova ci fosse un precostituito disegno governativo. Fornisco un altro esempio. Noi non disponiamo del fotogramma in cui i carabinieri colpiscono Carlo Giuliani con un sasso, un’immagine che forse esiste ma che non è venuta fuori. Tuttavia, seguendo ogni episodio minuto dopo minuto, è conseguenziale ritenere quell’epilogo il più plausibile. Se c’è qualcuno che ha una spiegazione più semplice, riguardo la comparsa della pietra accanto al corpo di Carlo e riguardo l’evidente ferita sulla sua testa, io sono disposto ad accettarla. Dal tuo lavoro di controinforma zione quale panorama, quale visio ne generale emerge? Cosa ha determinato le violenze del G8 di Genova? La mia tesi, circostanziata negli articoli dell’inchiesta, è che esista, fra le forze dell’ordine - e specialmente entro l’Arma dei Carabinieri - un gruppo di militari capaci di dialogare col potere politico da pari a pari. Un fronte di pretoriani che non risponde a nessuna regola, vive nell’impunità e che né i partiti né altre forze organizzate hanno facoltà di limitare. Come se la sovranità dello Stato fosse circoscritta. Scorrendo nomi e cognomi delle gerarchie militari è impossibile non notare la presenza di personaggi con trascorsi risalenti alla strategia della tensione. Finita la prima repubblica, scomparse le forze politiche di riferimento, si determina uno spartiacque che rende ancor più autonomo questo gruppo, le cui attività di violenza sono state riscontrate dalla missione in Somalia fino al G8 di Genova. Diverse carte processuali sostengono esplicitamente che nel luglio del 2001 la gestione dell’ordine pubblico è stata disastrosa. Molti responsabili, protagonisti di violenze, depistaggi e omissioni nell’assenza di un intervento giudiziario, hanno perfino fatto carriera nei ranghi dell’Arma. Durante quelle giornate è stata messa da parte l’idea del
Durante il G8 le forze dell’ordine sembravano impazzite, senza alcun riferimento o controllo controllo “dialogante” dell’ordine. Era come se gli scontri dovessero prevedere vincitori e vinti. Dagli anni ’70 fino alla comparsa delle “tute bianche” c’era stata un’evoluzione, in Italia come nel resto del mondo, nella gestione dei cortei, che escludeva la violenza fra manifestanti e forze dell’ordine. A Genova, invece, riappaiono i provocatori nascosti fra i conte-
Da sapere ! IL CASO: Luglio 2001, Genova sotto assedio. È la domenica del 15 luglio 2001. Una postina si inerpica per via Manunzio, dietro alla stazione di Brignole. Poco dopo le 10 consegna un pacco al coman do dei Cara b i n i e ri di San Fruttuoso al carabiniere Stefano Storri . Questi apre la busta: c’è una fiammata e una forte esplosione. Il carabiniere cade a terra ustionandosi occhio e mano destra. È il p rimo fe rito a lasciare il campo di battaglia del G8 di Genova. ! I gruppi aderenti al Genoa Social Forum, impegnati a manifestare contro la legittimi tà del vertice degli otto gran di, sono più di 700. All’aeroporto di Genova-Sestri Ponente sono state installate batterie di missili terra-aria per paura di attentati dall’alto. ! LA SOSPENSIONE DEI DIRITTI DEMOCRATICI: LA MORTE DI CARLO GIULIANI: È difficile pen s a re che l’uccisione di Carlo Giuliani sia stata l’estrema conseguenza di un errore logistico delle forze dell’ordi ne. Venerdì 20 luglio, nel p rimo pomeri ggio, 300 cara binieri con blindati cercano di raggiungere piazza Giusti, dove un gruppo di dimostranti violenti sta assaltando alcuni esercizi commerciali.
statori e l’omicidio di piazza Alimonda, seppur non premeditato, rientra in una filiera per cui sparare e uccidere viene contemplato. La mia valutazione, rispetto al futuro, è negativa. Le istituzioni, di fronte a tali, oscure, contraddizioni, volgono lo sguardo altrove. In questo contesto nessun movimento di protesta contro lo status-quo potrà liberamente opporsi al conglomerato di potere politico/militare che io ho definito una vera e propria “bestia nera”.
Nella foto: il corpo di Carlo Giuliani senza vita in piazza Alimonda.
! Per raggiungere il luogo degli scontri, le forze dell’ordi ne avrebbero dovuto operare una manovra di aggiramento abbastanza complessa, per evitare di incrociare il corteo autorizzato delle Tute Bianche. Ma i carabinieri, non cono scendo la città, sbagliano stra da posizionandosi davanti al gruppo di contatto form ato da giornalisti e parlamentari . ! Sono le 14.55 quando parte la prima carica della giorn ata: è l’azione che farà degenerare ogni cosa. Il corteo deve retrocedere fino all’incrocio con via Caffa: la via che porta a piazza Alimonda, dove cadrà Carlo Giuliani.A questo punto la manovra si fa più “militare” e strategica. Dalle vie laterali iniziano delle cari che di accerchiamento che
provocano un deflusso di molti manifestanti in via Caffa. ! Poco prima delle 17 in piaz za Alimonda si trovano il tenente colonnello dei carabi n i e ri Giovanni Truglio e il vice questore aggiunto Adriano Lauro: le massime cariche di pubblica sicurezza presenti quel giorno a Genova. Lauro è l’ufficiale che accuserà un manifestante di aver tirato un sasso e causato la morte di Giuliani. Alle 17.15 dalla cen trale operativa (per la prima volta) viene dato ordine di attaccare i manifestanti. Il vice questore Lauro chiede al tenente colonnello dei carabi n i e ri Truglio se “se la sentisse, in considerazione del loro notevole numero, di fronteg giare i manifestanti. Questi rispose affe rm ativamente” (cit. deposizione di Lauro in Commissione parlamentare d’inchiesta). ! Segue una poderosa carica che i manifestanti respingono, c o s t ringendo polizia e carabi n i e ri a retrocedere. Il Land Rover defender dei Carabinieri con a bordo M a rio Placanica, 20 anni, rima ne bloccato da un cassonetto. Viene attaccato da una quindi cina di no global con pietre, bastoni e un estintore. ! Carlo Giuliani nell’atto di scagliare l’estintore contro la camionetta viene colpito da uno dei due colpi esplosi dalla Beretta 92 di Placanica: sono le 17.27. Giuliani cade a terra in fin di vita. Le forze dell’ordi ne ri p rendono immediata mente il controllo della piazza e circondano il corpo di Giuliani.
! MAGGIO 2003: PLACANICA STRALCIATO, FU LEGITTIMA DIFESA: M a rio Placanica è stato inda gato per omicidio. Il 5 maggio 2003 il procedimento sulla morte di Carlo Giuliani è stato archiviato dal Gup Elena Daloiso accogliendo la richie sta del Pm Silvio Franz, che aveva chiesto l’uso legittimo delle arm i , e la legittima dife sa.“I lunghi e complessi accertamenti tecnici – è scritto nelle 48 pagine dell’ordinanza – hanno consentito di ritenere provato che il Carabiniere Placanica ha agito in presenza di causa di giustificazione che esclude la punibilità del fatto”. ! LA CONTROINCHIESTA DI PILLOLA ROSSA CREW: Giuliano Giuliani, p a d re di Carlo, ha commentato: “Non chiedeva mo la condanna di Placanica, ma che si andasse a un dibat timento. Invece ho il sospetto che si voglia nascondere la verità”. È questa la verità che Pillola Rossa Crew, nell’anoni mato, ha cercato in questi anni. Il non luogo a procedere impedisce di fatto il dibatti mento delle istanze prodotte dalla parte lesa. Il gruppo, grazie ad alcune perizie e alla collaborazione della famiglia Giuliani, ha scritto una serie di articoli sui fatti del G8. ! Attrav e rso un’analisi della documentazione audio-video, degli atti e dei reperti, Pillola Rossa evidenzia le responsabi lità delle alte cariche di pub blica sicurezza presenti quel giorno a piazza Alimonda. Confuta la verità ufficiale del “proiettile deviato dal sasso”, e propone la tesi dell’accani mento delle forze dell’ordine, con l’utilizzo di una pietra, sull’agonizzante Carlo Giuliani. Secondo Pillola Rossa Giuliani sarebbe stato colpito in fronte con una pietra. L’archiviazione di Placanica sarebbe funzionale non tanto a salvare l’ormai ex carabiniere di leva, quanto ad evitare che durante il processo si acquisiscano prove per l’acc e rtamento delle responsabilità dei ve rtici di Carabinieri e Polizia di Stato, in quello che Pillola Rossa chiama “una scelta militare che spazza via ogni principio di legalità”.
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
27
una definizione 2 | daniele protti
Controinformazione, la scuola dei dilettanti Scarso controllo delle fonti, approssimazione, il limite fortissimo dell’ideologia. Per Daniele Protti, direttore de l’Europeo, la stagione dei libri bianchi è una cattiva pagina del giornalismo che sarebbe meglio archiviare di Chiara Avesani e Ambra Notari
os’è la controin formazione? La controinformazione è una parola che risponde a una stagione politica di questo Paese. In quegli anni veniva usata perché composta da due elementi. Uno è “informazione”, l’altro è “contro”. Prevaleva il “contro”: la cosa più importante era denunciare. L’informazione non aveva quello che poi abbiamo imparato - non tutti - a perseguire come regola, cioè il controllo delle fonti. Ma la denuncia non è parte integrante della buona informazione? Qual è, per chi vuole fare informazione, l’obiettivo prioritario? È raccontare le informazioni che si riescono a raccogliere, non fare una denuncia. Nel voler denunciare c’è qualcosa di precostituito, perché si ha già in mente il colpevole. È un confine molto labile, specie quando sei un militante. Quando ero diret-
C
28
tore del Quotidiano dei lavora tori, il giornale di Democrazia Proletaria, hanno ucciso Peppino Impastato. Noi abbiamo subito etichettato la cosa come “scandalosa manovra della destra”, sottovalutando moltissimo il fenomeno mafioso. Non cercavamo la verità, l’importante era fare campagna politica. Invece la battaglia più efficace la fai quando metti in relazione ambiente mafioso e ambiente politico. La controinformazione non incrociava le fonti? No, l’approccio ideologico era un limite. Il lavoro del cronista è controllare le fonti, scavare. La controinformazione invece ha avuto un ruolo importante per mobilitare, portare la gente in piazza, indignare. Ancora oggi molti sessantottini faticano a fare autocritica, non riescono a riconoscere che è stata una sconfitta storica di proporzioni bibliche. La vera controinformazione, per esempio dopo la strage di piazza Fontana,
MAGZINE 5 | 26 gennaio - 2 marzo 2010
l’hanno fatta alcuni giornali non di sinistra, i cosiddetti “giornali borghesi”. Il nome di Giannettini, tra gli altri, l’ha fatto l’Europeo. (ndr. Guido Gianettini è imputato nel processo per la strage di piazza Fontana quando si comincia a battere la pista della collaborazione tra Servizi segreti e movimenti di estrema destra. Appartenente al Sid, esperto di tecniche militari, viene condannato all’ergastolo con Freda e Ventura. La Cassazione annulla la sentenza, proscioglie Giannettini e ordina un nuovo processo). Anche oggi, formazioni come Forza Nuova o altre di estrema destra hanno materiale genuino, ma di parte. Oggi chi fa controinfor mazione? Sono dei singoli, i bravi giornalisti. Non ci sono testate o forze. Dico Stella e Rizzo perché su ogni cosa indagano e studiano. Quindi la controinfor mazione in fondo è solo buona informazione? Certo. È informazione. Perché deve essere contro? Tutta l’informazione è contro qualcuno e a favore di qualcun’altro. Guai a innamorarsi della parola “contro”. Non credo alla teoria di una regia occulta per cui le cose accadono a causa di un regista, un grande fratello. La lettura deve essere complessiva, senza avere già una verità in testa. Se l’informazione fosse fatta come si deve, non ci sarebbe bisogno della controinformazione. Infatti, per fortuna, non c’è più da tempo. La controinformazione è stata un’autoesaltazione.
Rivista quindicinale realizzata dal Master in Giornalismo dell’Università Cattolica - Almed © 2009 - Università Cattolica del Sacro Cuore direttore Matteo Scanni coordinatori Laura Silvia Battaglia, Ornella Sinigaglia redazione Fabrizio Aurilia, Giuditta Avellina, Chiara Avesani, Lorenzo Bagnoli, Valerio Bassan, Marco Billeci, Raffaele Buscemi, Salvo Catalano, Francesco Cremonesi, Giulia Dedionigi, Tiziana De Giorgio, Viviana D’Introno, Fabio Di Todaro, Tatiana Donno, Roberto Dupplicato, Fabio Forlano, Carlotta Garancini, Ivica Graziani, Andrea Legni, Floriana Liuni, Cristina Lonigro, Pierfrancesco Loreto, Alessia Lucchese, Daniela Maggi, Paolo Massa, Daniele Monaco, Michela Nana, Ambra Notari, Tancredi Palmeri, Cinzia Petito, Simona Peverelli, Gregorio Romeo, Alessia Scurati, Luigi Serenelli, Alessandro Socini, Andrea Torrente, Enrico Turcato, Roberto Usai, Cesare Zanotto, Vesna Zujovic amministrazione Università Cattolica del Sacro Cuore largo Gemelli, 1 20123 - Milano tel. 0272342802 fax 0272342881 magzinemagazine@gmail.com
progetto grafico Matteo Scanni service provider www.unicatt.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 81 del 20 febbraio 2009