magzine Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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marzo 2012
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ROTTE | PIRATI | MARINAI | CANTON | PORTI REGOLAMENTI | ARMATORI |INQUINAMENTO | INCIDENTI
un mare di merci
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il 90% delle merci viene dal mare
VELENI
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ROTTE
SCENARIO
sommario
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il conto salato degli scambi marittimi
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ricchi, eleganti e sempre online: i corsari del 2000 i grandi disastri degli ultimi cento anni 2
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MARINAI
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PIRATI
NAUFRAGI
nuove tratte verso il Sud del mondo
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sotto coperta tra solitudine e sfruttamento
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CINA
PORTI
ARMATORI
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i moli italiani nelle mani dei cinesi
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REPERTI
chi sono i padroni degli oceani
CRIMINALI
REGOLAMENTI
a oriente la fabbrica del mondo
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i musei segreti sul fondo degli abissi lontano da terra le leggi sono carta straccia
armi e droga, se la dogana è un buco nero MAGZINE 19 | marzo 2012
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scenario
Quel far west delle rotte che aiuta il commercio Gli oceani sono ogni giorno più pericolosi e trafficati, ma l'economia globale continua ad affidarsi al trasporto marittimo. Se le navi si fermassero, i negozi rimarrebbero vuoti di Alessandro Massini Innocenti e Stefania Saltalamacchia
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tto miliardi di tonnellate di prodotti viaggiano ogni anno sulle 50mila imbarcazioni adibite al solo traffico commerciale, suddivise tra cargo, portacontainer, portarinfuse e navi cisterna. Questi vettori trasportano il 90% delle merci di cui estremo oriente, europa e america Settentrionale sono le tre aree di produzione e consumo. Già dalla seconda metà del secolo scorso le merci “pregiate” hanno iniziato a viaggiare per mare su tratte intercontinentali. in precedenza erano soprattutto materie prime, energetiche e non. Con l’ascesa e la diffusione dei container e grazie all’innalzamento tecnologico dei dispositivi di controllo nei porti - veri e propri poli integrati come Singapore, Hong Kong e Shanghai, i numeri del trasporto marittimo sono cresciuti. tra il 2000 e il 2007 il valore del commercio mondiale via mare è aumentato del
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12%. aumenterà ancora, perché questa tipologia di trasporto è in assoluto la più economica. Sulle tratte che uniscono gli Stati Uniti all’asia piuttosto che all’europa il costo della spedizione sul prodotto finale ha in media un’incidenza inferiore all’1%. ad esempio, trasferire dalla Corea del Sud a los angeles un aspirapolvere venduto al pubblico a 150 dollari costa circa un dollaro. il mare è il più battuto dei ‘sentieri’: oltre a rappresentare il fulcro del commercio internazionale, influenza la vita di milioni di persone e gli equilibri diplomatici tra Paesi sovrani. Gli ‘addetti’ alla navigazione stimati dall’agenzia dell’onu imo (international maritime organization), sono circa 1 milione e 300 mila. Provengono soprattutto dai Paesi emergenti, Filippine e india su tutti. negli ultimi anni anche ucraini, croati e lettoni hanno iniziato a rappresentare una buona fetta dei lavoratori del settore. allargando
però la stima dell’imo a tutti i soggetti che viaggiano sulle navi, i numeri salgono alle stelle. ogni anno le persone a bordo, tra addetti e passeggeri, sono addirittura due miliardi. il podio degli Stati che possiedono più navi – oltre 103 mila quelle censite – è composto dalla Grecia, sul gradino più alto con il 16% della flotta complessiva globale, seguita da Giappone e Germania. il giro d’affari del trasporto marittimo e le ripercussioni che ha sui lavoratori del settore hanno convinto l’onu a sviluppare nuovi accordi tra i Paesi membri per cercare di arginare le minacce provenienti da armatori senza scrupoli e della criminalità organizzata. a questo proposito il prodotto più importante della diplomazia è proprio l’imo, nata da una convenzione autonoma sotto gli auspici dell’onu stabilita nel 1959 per lo sviluppo dei principi e delle tecniche della navigazione marittima internazionale. l’imo promuove la progettazione e lo sviluppo del trasporto in mare, per cercare di rendere più sicuri e organizzati gli spostamenti di merci e persone. Ciò che spaventa maggiormente i 170 Stati aderenti al trattato sono i pericoli legati alla sicurezza delle navi, al controllo effettivo sulle merci trasportate, al terrorismo, ai disastri ambientali e alla pirateria. Per sventare tali minacce l’agenzia dell’onu ha previsto regole per prevenire gli abbordi in mare (convenzione Colreg), i requisiti di costruzione delle navi, la formazione e certificazione del personale marittimo (con la convenzione Stcw che prevede che i corsi d'addestramento per i marittimi siano disciplinati da ciascun Paese membro sulla base dei model Courses elaborati dalla stessa). l’imo ha anche adottato la Solas (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare), con la quale sono state definite le regole di sicurezza nonché le dotazioni antincendio, di sopravvivenza e salvataggio sulle navi. la Solas è nata molto prima dell’imo, nel 1914, come risposta alle polemiche che si scatenarono dopo il disastro del titanic del 15 aprile 1912. il problema delle carrette del mare, navi vecchie non in linea con gli standard di sicurezza, sembra essere irrisolvibile. Se sulle rotte tra i Paesi più sviluppati gli armatori
Per saperne di più Rapporti: IMO, International Shipping Facts and Figures; UNCTAD, Review of Maritime Transport. Libri: William Langewiesche, Terrore dal mare (Adelphi); Devi Sacchetto, Fabbriche galleggianti (Jaca Book); Renato Midoro, Francesco Parola, Le strategie delle imprese nello shipping di linea e nella portualità (FrancoAngeli).
prestano particolare attenzione all’età delle navi, lo stesso non può dirsi per le imbarcazioni che compiono, ad esempio, viaggi dall’india alla malesia. le ‘carrette’ più pericolose per l’ambiente sono le petroliere a scafo unico che, in caso di incidente, rischiano di riversare in mare l’intero carico di greggio. le navi possono cambiare identità e battere qualsiasi bandiera convenga loro. le compagnie armatrici spesso preferiscono far sventolare sulle proprie navi un vessillo diverso da quella dei proprietari. l’impiego della bandiera di comodo avviene soprattutto per evitare il pagamento di tasse e ottene-
Il trasporto via terra può coprire solo certe tratte. II mare, invece, assicura la distribuzione globale
re una registrazione più facile. Spesso però a risentirne sono la sicurezza e le condizioni di lavoro dell’equipaggio. naturalmente la nazione che fornisce la bandiera riceve soldi in cambio del servizio: Panama è diventata così la prima nazione marittima sulla terra, seguita dalla liberia. in grande ascesa anche le isole marshall, dove soprattutto gli armatori statunitensi immatricolano le proprie navi. nei container viaggia merce di ogni genere, legata spesso a traffici illeciti, ma l’imo non ha trovato ancora la quadratura del cerchio per uniformare il regime di controlli delle merci a livello planetario. Gli Stati Uniti, colpiti dall’attentato dell’11 settembre 2001, hanno preferito una politica dalla manica “strettissima”. ogni nave che entra nelle acque nazionali statunitensi viene ribaltata come un calzino. Èchiaro che, invece, per alcuni Paesi in via di sviluppo, sia più vantaggioso poter contare sugli introiti pro-
venienti dagli armatori, piuttosto che innalzare il livello di sicurezza della navigazione. Quello della pirateria è un problema nato contestualmente alla nascita del trasporto marittimo. la sicurezza reale per i passeggeri delle navi e per le merci è ben lontana dall’essere raggiunta. Questo anche perché il fenomeno è ai suoi massimi livelli in zone politicamente disastrate, dove i controlli e le misure di repressione sono di difficile applicazione. la Somalia ne è un esempio: messa in ginocchio dalle guerre intestine, è uno dei Paesi in cui il ‘cancro’ della pirateria è in metastasi. la situazione è altrettanto critica in altri Stati dell’oceano indiano. ecco perché creare una rete globale di regole dialogando con nazioni in difficoltà è un’impresa ardua. difficile ipotizzare che in futuro possano esserci rilevanti cambiamenti negli equilibri del trasporto internazionale. Gli aerei, per quanto l’innovazione ingegneristica si stia sforzando di aumentarne la capacità di carico, non riusciranno mai a colmare il divario con i mercantili. il trasporto su rotaia e quello su gomma possono, per ovvi motivi, coprire solo certe tratte. il mare, invece, non ha frontiere né passaggi a livello. i numeri evidenziano che se lo scambio di merci via mare scomparisse ci sarebbe un vero e proprio tracollo dell’economia mondiale. Ci sarebbero danni devastanti anche solo per rallentamenti sensibili nel processo di spedizione. È questo il motivo per cui il trasporto marittimo fa venire l’acquolina in bocca alla criminalità internazionale. MAGZINE 19 | marzo 2012
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rotte
avanti tutta verso Sud di Giulia Destefanis e Rossella Ricchiuti
Ogni anno nove miliardi di tonnellate di merci partono dagli scali di tutto il mondo. Il commercio marittimo non conosce crisi e si espande tracciando nuove rotte che puntano verso i porti di Africa e America Latina
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ono Stati i Container a inventare la globalizzazione: gli scatoloni di acciaio hanno cominciato a solcare i mari negli anni ’50 e da allora non si sono più fermati, anzi sono diventati sempre più carichi e numerosi. Spostando e delocalizzando le merci, a costi molto più bassi rispetto a ogni altro genere di trasporto mai esistito, hanno rimodellato il mondo. lo hanno fatto sull’asse orizzontale, viaggiando lungo linee parallele all’equatore, e si preparano a farlo anche su quello verticale, da nord a Sud, rispondendo alla crescita dei Paesi emergenti. le rotte più trafficate sono, infatti, quelle che collegano l’estremo oriente agli Stati Uniti (11% del totale) e all’europa (9%): da queste autostrade del mare, sempre più affollate nella corsia che dall’est porta ai grandi mercati occidentali, proviene quasi il 90% degli oggetti che ci circondano: i flussi, però, si stanno concentrando verso nuovi poli in africa e america latina, e così gli scambi con l’europa, che oggi rappresentano il 2% del totale, sono «quelli che cresceranno di più nel lungo termine, sono le rotte del futuro», spiega Carlo Merli, amministratore delegato di apm terminals italia. Èd’accordo con lui Marco Simonetti, amministratore delegato della concorrente Contship italia, che aggiunge: «Quella del commercio via container è un’industria che cambia, si adatta alle esigenze e alle variabili del mercato. ma è un’industria che non conosce crisi: cresce in termini percentuali ogni anno, almeno di 5 o 6 punti». «i container e le loro rotte – continua – sono come l’aria che respiriamo: sarebbe ormai inconcepibile un mondo privato del trasporto via mare». Contship e apm sono tra i leader mondiali nella gestione dell’imbarco e sbarco dei container e dei rapporti con le linee di navigazione. apm fa parte del gruppo maersk, il maggiore armatore di navi per container al mondo, che nel 2013 inaugurerà la nave dei record: sarà lunga 400 metri, larga 60, con un pescaggio di 16 metri sott’acqua. Sarà in grado di trasportare 18 mila teu (un teu sta per twentyfoot equivalent unit, ovvero un container da 20 piedi che può contenere fino a 20 tonnellate di merce). Si parla ormai di gigantismo navale: in 20 anni si è quadruplicata la capacità delle imbarcazioni. Si è passati dalle cosiddette navi Panamax, che attraversavano il canale di Panama, alle Postpanamax, troppo larghe per passarlo. È
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grazie a queste navi ciclopiche che il globo sarà sempre più “paese”: le cifre sul traffico di merci, dice Carlo merli, «attualmente parlano di 500 milioni di teu spostati all’anno nei porti del mondo», ovvero qualcosa come 9 miliardi di tonnellate di merci, e queste sono cifre destinate a lievitare. Secondo le previsioni dell’ocean Shipping Consultants limited, società indipendente specializzata in economia di spedizione e sviluppo dei porti, entro il 2015 la movimentazione dei container dovrebbe crescere in estremo oriente del 90%, nelle americhe del 91%, in europa dell'88%, nel resto del mondo del 132%. alla faccia della crisi. Questi numeri hanno volti, e soprattutto luoghi, ben precisi: dopo decenni di predominanza dei porti del nord europa, oggi a trainare i traffici sono i porti cinesi, dotati di infrastrutture all’avanguardia e collegati a un territorio produttivo senza eguali. Spiega ancora marco Simonetti: «la parola chiave è delocalizzazione. Portare un container dalla Cina all’europa costa quanto spostarlo via terra da Genova o la Spezia alla Pianura padana: il costo dei trasporti via mare - continua - è così basso e competitivo che alle aziende conviene produrre la merce in asia e poi importarla. Si arriva a produrre un componente in Cina, portarlo in europa per assemblarlo ad alcune parti, riportarlo in asia per le rifiniture e spedirlo nuovamente verso ovest». la delocalizzazione delle produzioni, con un conseguente traffico sempre maggiore di merci nei bacini asiatici, determina la supremazia dei porti locali: nella lista dei dieci porti più importanti al mondo, ben sei appartengono alla Cina. Shanghai è il più grande dal 2010, quando ha superato Singapore. l’unico porto italiano nella top 50 world container ports, classifica stilata da Worldshipping.org, è Gioia tauro, in quarantesima posizione. dai grandi porti del mondo si aprono le vie che solcano i mari. «le rotte principali - continua Simonetti - sono come ideali tubi che attraversano il mondo. ed è lungo queste direttive che i porti minori devono essere collocati per essere competitivi». Sono diversi i fattori che determinano la crescita o il declino di un porto: oltre alla collocazione sulle linee marittime internazionali, sono fondamentali «il
Per saperne di più Marc Levinson, The box. La scatola che ha cambiato il mondo (Egea); Giacomo Borruso, La containerizzazione: una moderna tecnica per il trasporto combinato delle merci (Del Bianco); Maurizio Bettini, Autostrade del mare. Politica, economia, logistica (Erasmo); Enrico Musso: Città portuali, economia e territorio (Franco Angeli).
collegamento con un mercato produttivo ricco - spiega Carlo merli - e le infrastrutture per lo smistamento e il trasporto delle merci a terra, la cosiddetta logistica». la situazione dell’italia? «Soffriamo di limiti territoriali - continua merli - come gli appennini e le alpi che rallentano i trasporti, e di limiti logistici: porti strategici come Gioia tauro o taranto non sono efficacemente collegati a terreni di forte consumo come quelli del nord italia e nord europa». l’italia resiste, «perché è ancora un’area importante per il flusso di merci», dice merli, ma perde ogni anno quasi 6 miliardi di gettito iva “regalando” ai porti del nord europa 490 mila container. Così, mentre la porzione nostrana del mediterraneo cresce con fatica, altre aree del mondo conquistano porzioni importanti di traffici: «Stanno fiorendo i porti dell’america latina, quelli dell’estremo oriente, ma anche quelli turchi e africani, in particolare di nigeria, Costa d’avorio e marocco», aggiunge merli. Porti, rotte, merci, mare, terra: l’universo dei container racchiude tutto questo e molto di più. Chissà se il suo inventore, l’imprenditore statunitense Malcom McLean, era consapevole della potenza della sua intuizione. Già nel 1953 calcolò che trasportare le merci sulle navi sarebbe costato il 94% in meno rispetto al prezzo dell’imballo per il trasporto su gomma, costo del container compreso. nel ’56 caricò al porto di newark, nel new Jersey, 55 grandi scatole di
Grazie ai container, anche la bambola Barbie è diventata cittadina globale: i capelli di nylon sono giapponesi, i vestiti cinesi e i pigmenti americani
alluminio su una vecchia petroliera, la ideal-X, che salpò verso Houston dove 55 camion attendevano i container per portarli alla destinazione finale. il viaggio passò inosservato, ma aprì un’era: i vantaggi riguardavano i costi del trasporto su nave, la possibilità di razionalizzare le merci in imballaggi standard, la movimentazione meccanica delle grandi unità. da lì, il successo che conosciamo. Marc Levinson, in The box, La scatola che ha cambiato il mondo, scrive: «negli anni ‘90 addirittura la Barbie perde la sua identità di cittadina americana, trasformandosi in cittadina globale. operai cinesi fabbricano la bambola con stampi statunitensi e macchinari giapponesi ed europei; i lunghi capelli di nylon sono giapponesi, la plastica usata per modellare il corpo è prodotta a taiwan, i pigmenti in america e gli abiti in Cina». Una rivoluzione che, senza lo scatolone magico, non sarebbe mai potuta accadere. la storia dei container è fatta di successi, ma anche di polemiche: tra le critiche mosse, spesso c’è quella della grande quantità di parallelepipedi che rimangono vuoti, occupando navi e rimesse in maniera non produttiva. il fenomeno è visto come una falla del sistema, ma gli esperti si difendono a spada tratta anche su questo fronte: «i container vuoti - spiega ancora Carlo merli di apm terminals - non sono una falla, ma parte del sistema. Sono un costo necessario: non è possibile mantenere un perfetto equilibrio tra gli import e gli export dei porti, è normale che ci siano sbilanciamenti, e quindi contenitori inutilizzati per periodi più o meno lunghi». lo scatolone, intanto, continua a viaggiare. incurante delle polemiche. decenni dopo decenni. e lo fa con qualche paradosso: «Èsingolare, a pensarci, che il container sia in fin dei conti un oggetto così triviale, anacronistico», osserva merli. i progetti per svecchiarlo e farne un concentrato di tecnologia non mancano: «la sfida del futuro - conclude - è trasformare i container in unità intelligenti, informatizzate, dotate di processori e quindi capaci di comunicare in ogni momento la propria condizione e posizione». Solo così l’anziano scatolone avrà una nuova giovinezza. MAGZINE 19 | marzo 2012
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veleni
La scia nera dei cargo Un’eredità avvelenata Il trasporto delle merci via mare continua a crescere, insieme ai rischi per l’ambiente. In un anno 15 navi cargo inquinano come 760 milioni di auto. Un impatto insostenibile di Francesco Collina
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Gni Giorno 90mila CarGo solca-
no gli oceani e attraccano nei porti internazionali. Bastano 15 di queste navi per inquinare in un anno tanto quanto i 760 milioni di automobili circolanti nel pianeta. la causa prima è il bunker oil, combustibile con il quale questi cargo sono alimentati. il bunker è lo scarto derivato da tutte le precedenti tecniche di distillazione del petrolio grezzo al fine di ottenere gas e benzine più efficienti e pulite. Ciò che resta di queste lavorazioni è un residuo così vischioso da essere pressoché solido a temperatura ambiente. all’interno di questo propellente sono presenti enormi quantità di composti dannosi per l’ecosistema e la salute umana, soprattutto zolfo e metalli pesanti. Come tutti i sistemi a combustione, gli enormi motori di 2300 tonnellate che equipaggiano i grandi cargo, producono circa 1,21 miliardi di tonnellate di Co2 in un anno, pari al 4,5% del totale delle emissioni di anidride carbonica mondiale. ogni motore ha una potenza di 109mila cavalli e lavora in media 280 giorni l’anno per tutto il giorno. Se si somma questo livello di inquinamento ai dati sulla crescita del commercio marittimo, che attualmente non conosce soste, il quadro non è incoraggiante. la Cina - solo in parte toccata dalla crisi economica mondiale - continua a riempire il mercato globale con le sue merci. la grande espansione manifatturiera delle industrie cinesi ha incrementato i commerci nelle diverse parti del globo: in tre anni si prevede che l’inquinamento causato da questo tipo di trasportò aumenterà di 350 volte. la sola Corea del Sud ha in cantiere la costruzione di 3.693 nuove imbarcazione nei prossimi anni. la pericolosità delle emissioni prodotte dai cargo è tale che, secondo l’agenzia del dipartimento del commercio statunitense, il
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noaa, 60mila persone muoiono ogni anno a causa delle emissioni inquinanti dovute al trasporto marittimo. Un’ulteriore indagine è stata svolta dal governo svedese che sostiene di spendere 5 miliardi di corone l’anno per la cura delle patologie causate dalle emissioni in atmosfera di monossidi di zolfo ed azoto. Per l’organizzazione marittima internazionale (imo), questi inquinanti sono i principali responsabili delle piogge acide e delle polveri sottili che si rilevano anche lungo le coste. la comunità scientifica internazionale considera i composti chimici direttamente responsabili dell’insorgenza di tumori al polmone, attacchi di cuore ed altre malattie cardiovascolari. Per cercare di ovviare al problema, gli Stati Uniti hanno adottato dal 2009 una serie di leggi che regolano le rotte delle grandi navi da trasporto. a queste navi è vietato avvicinarsi a meno di 230 miglia dalla costa del nord america. Questa soluzione - per quanto ritenuta la più restrittiva al mondo non sembrerebbe, però, risolvere il problema delle emissioni nocive in mare aperto. diminuire la presenza di solfuri nei propellenti, per renderli maggiormente efficienti e puliti, non ridurrebbe che di un terzo le emissioni inquinanti di un singolo cargo; ben poca cosa in un contesto di crescita a doppia cifra dei commerci internazionali. letteralmente una goccia nell’oceano. le coste inglesi, i Paesi baltici e lo stretto di Sicilia sono fra i corridoi più frequentati dai cargo. in tali contesti esistono esclusi-
I motori delle navi cargo producono circa il 4,5% delle emissioni globali di anidride carbonica
vamente normative che regolano il commercio e il trasporto marittimo per le navigazioni lungo le coste, ma nulla che riguardi le grandi navi di trasporto transoceanico. le proposte di legge internazionali ed europee, che fissano i limiti sulla percentuale di metalli pesanti e zolfo presenti nell’olio da combustione per le navi da trasporto sono rimaste sulla carta. l’unica proposta entrata in vigore è del 2007 e regola la percentuale massima di zolfo nei combustibili delle navi in transito dal canale della manica verso il mar Baltico.
Gli incidenti e le politiche ambientali poco incisive continuano a produrre i loro effetti. il mar mediterraneo, che ha un bacino poco aperto agli scambi idrici e conta 584 città, 780 porti turistici e 286 commerciali, ha dovuto affrontare situazioni molto critiche. il rempec di malta (organizzazione interstatale non governativa sull’attività di prevenzione e lotta all’inquinamento marino) nel 2005 ha stimato che 8 milioni di barili di greggio ogni giorno sono transitati lungo le coste. Senza contare che negli 82 principali porti petroli del mediterraneo viene lavorato il 10% di tutto il greggio; la raffinazione di circa 9 milioni di barili insieme allo scarso ricambio idrico e all’intenso traffico, hanno portato la concentrazione del catrame nelle acque a livelli da record: 38 millimetri per metro cubo. il mediterraneo è da questo punto di vista il mare più inquinato al mondo.
l’italia è immersa fino al collo nel catrame residuo delle lavorazioni del petrolio più pesante: gran parte delle materie prime necessarie a produrre energia sono importate; lungo le coste sono presenti 14 porti petroli e 17 raffinerie. non è un caso, quindi, che i più grandi incidenti navali della storia siano avvenuti nei pressi dei porti commerciali. dal punto di vista della regolazione delle rotte marittime, inoltre, la situazione italiana è decisamente meno limpida. non esiste una legislazione organica nazionale che recepisca le direttive europee sull’utilizzo di combustibili più leggeri o puliti. Spesso, solo le tragedie risvegliano dal letargo il legislatore italiano. a scuotere la politica non sono bastati i 198 fusti di materiale tossico inabissati nell’area marina protetta dell’arcipelago toscano lo scorso dicembre. Solamente il clamore mediatico e l’enorme rischio
Per saperne di più Agenzia del commercio del governo statunitense (www.noaa.gov)
ambientale causato dalla nave da crociera Costa Concordia hanno richiamato l’attenzione di parlamento, governo e istituzioni. È del primo marzo di questo anno il cosiddetto “decreto rotte” che fissa un limite minimo di due miglia dalla costa per la navigazione di navi con una stazza superiore alle 500 tonnellate. e se il limite di 230 miglia applicato lungo le coste statunitensi non sembra aver risolto il problema alla radice, non resta che chiederci a cosa serviranno le due miglia italiane.
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naufragi
Un secolo di incidenti di Giacomo Segantini
A cento anni dal naufragio del Titanic, in mare si muore ancora. I disastri sono provocati da tempeste, errori umani e tecnologie obsolete. Ma la principale causa degli affondamenti è il senso di sicurezza del capitano
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re miGlia al larGo della CoSta di miami, a 15 metri di profondità, c’è un luogo chiamato neptune memorial reef, un mausoleo sottomarino dove le ceneri di molti amanti del mare sono tumulate all’interno di sculture barocche. eccentrico, certo, ma simbolico, perché gli oceani già conservano le spoglie di migliaia di persone. Persone che probabilmente avrebbero preferito sepoltura di altro tipo e, soprattutto, molto più tardiva. Gli incidenti navali sono antichi quanto la civiltà marittima stessa e, nonostante secoli di evoluzione tecnologica, il mare rimane tuttora un ambiente che l’uomo non riesce a dominare: gli ultimi dati dell’International Maritime Organization parlano di 2.350 morti nel solo 2009. il 15 aprile di quest’anno ricorrerà il centenario del disastro più famoso dell’era moderna, quello del titanic, nel quale morirono 1.503 persone. Sebbene sia passato un secolo, ancora oggi affiorano nuove teorie sulle cause: la più recente individua in un particolare allineamento tra luna e sole la causa della marea che ha portato l’iceberg in rotta di collisione con il transatlantico. teorie che spesso lasciano il tempo che trovano, ma che dimostrano l’interesse suscitato dai disastri navali. ad essi, in particolare a quelli del ventesimo secolo, ha dedicato un libro Giancarlo Costa, giornalista ed esperto di vita marittima: «la costante è unica per tutti i disastri, valeva cent’anni fa e vale ancora adesso: l'uomo». il problema, spiega, è l’eccessivo senso di sicurezza. le grandi navi sono tutto meno che maneggevoli: «anche quando lanciate a tutta velocità - il momento in cui il timone reagisce meglio - se si vira il timone "tutta barra a sinistra" passano 35 secondi prima che la nave cominci a spostarsi». escludendo gli affondamenti bellici, un altro degli incidenti più noti del ventesimo secolo è legato indissolubilmente al nostro Paese. Stiamo parlando dell’andrea doria: costruito nei cantieri ansaldo di Genova, questo transatlantico era il fiore all’occhiello della nostra flotta. il viaggio inaugurale avvenne nel 1953, lo stesso anno in cui uno dei primi traghetti “ro-ro” (roll-on/roll-off), il Princess victoria in servizio dalla Scozia all’irlanda del nord, affondò nel mare in tempesta con 133 passeggeri a bordo. l’andrea doria era considerata lussuosa, moderna e sicura, ma ciò non le impedì, il 25 luglio del 1956, di entrare in col-
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lisione con la svedese Stockholm davanti alle coste dell’isola di nantucket, in massachusetts. a causa della nebbia e dell’errata lettura dei radar, la nave della Swedish America Linecolpì in pieno la fiancata del transatlantico italiano uccidendo 46 persone. Questo si inclinò dal lato opposto rendendo inutilizzabili molte delle scialuppe di emergenza. «Fino all’incidente del titanic - spiega Giancarlo Costa - le leggi non imponevano neanche un numero di lance di salvataggio sufficiente per tutti i passeggeri. il regolamento venne cambiato, ma ce ne vorrebbero almeno il doppio dato che molte, in un naufragio, risultano sempre inutilizzabili». Si potrebbe pensare che il trend degli incidenti abbia visto da allora un sempre minor numero di vittime ma purtroppo non è così. Annus horribilisè stato, ad esempio, il 1987, con due sciagure particolarmente funeste. la prima è stata quella del traghetto inglese Herald of Free enterprise: prima della partenza per dover dal porto belga di Zeebrugge l’equipaggio dimenticò di chiudere i portelloni di prua. nonostante condizioni atmosferiche non sfavorevoli il carico di zavorra a prua, unito alla velocità, fece imbarcare grandi quantità d’acqua in poco tempo. la nave si inclinò e, poco dopo, si capovolse. le vittime furono 193, la maggior parte per ipotermia. la seconda, considerata il più grave disastro navale in tempo di pace, è quella della doña Paz, il “titanic d’oriente”. vecchio traghetto passeggeri di fabbricazione giapponese, la doña Paz stava navigando verso manila dopo aver imbarcato migliaia di passeggeri (di cui almeno 2mila non registrati). intorno alle 10 di sera del 20 dicembre 1987 la nave si scontrò con la petroliera vector, che trasportava oltre 8mila barili di benzina. la collisione provocò un incendio e una gigantesca esplosione. Per la commissione d’inchiesta quella notte persero la vita 4.047 persone. i sopravvissuti furono solo 24: uno di loro raccontò che la benzina aveva continuato a bruciare a ridosso della superficie del mare. ancora, secondo le testimonianze, molti giubbotti di salvataggio erano rimasti in scompartimenti chiusi a chiave e l’equipaggio non aveva coordinato in alcun modo l’evacuazione. a completare il quadro furono poi le acque teatro dello scontro, infestate dagli squali. nonostante
Per saperne di più Giancarlo Costa, 2010: Dal Titanic all'Andrea Doria. Storie di naufragi del XX secolo (Gribaudo); William Langewiesche, 2005: Terrore dal mare (Adelphi); Kenneth C. Barnaby, 2006: I più importanti disastri navali (Mursia).
numerose mancanze a bordo della doña Paz, la colpa della strage ricadde sulla vector: il personale di bordo fu giudicato non qualificato, e, soprattutto, la nave cisterna navigava senza licenza. Per Giancarlo Costa quello del lavoro dell’uomo di mare è diventato un problema: «È ormai un mestiere per chi non ha alternative, spesso intrapreso da persone poco qualificate, più basato sulle conoscenze che sulla ricerca di effettiva competenza». l'incidente del doña Paz è poco noto al pubblico del nostro paese a causa della distanza geografica. lo stesso, però, non si può dire di un disastro avvenuto nei nostri mari: quello della moby Prince, noto per il bilancio in termini di vite umane e, soprattutto, per essere stato uno dei più gravi sotto il profilo ambientale. Costruito nel 1967 in Gran Bretagna, nel 1986 questo traghetto passeggeri entrò a far parte della flotta italiana nav.ar.ma. il 10 aprile 1991, uscendo dal porto di livorno, entrò in collisione con la petroliera agip abruzzo. tonnellate di combustibile si riversano sul traghetto e, quando il comandante ordinò "indietro tutta" per disincagliarsi, le scintille provocate dallo sfregamento delle lamiere fecero scoppiare l'incendio. i passeggeri furono radunati in una sala al centro della nave dotata di porte e paratie tagliafuoco, ma le fiamme si diffusero dalla prua e in poco tempo circondarono la sala. a morire furono in 140, molti per le esalazioni di monossido di carbonio. «la stagione dei disastri ambientali era cominciata nel 1967, con
La legge impone che le scialuppe siano sufficienti per tutti i passeggeri In un naufragio, tuttavia, molte sono inutilizzabili. Ne servono il doppio
l’incidente della torrey Canyon», racconta Costa. Questa petroliera liberiana si arenò al largo della Cornovaglia per un errore nell’inserimento del pilota automatico, e riversò in acqua tonnellate di combustibile. il governo inglese fu costretto a far bombardare la nave dalla raf nel tentativo di bruciare una chilometrica chiazza d’olio. il 1989 era invece stato l’anno della exxon valdez, incagliatasi sulla scogliera del golfo di alaska. l’incidente fu il primo a colpire l’immaginario collettivo per il grave impatto ambientale: morirono migliaia di animali e un intero ecosistema fu irrimediabilmente compromesso. ma è il 1991 l’anno “nero” per l’italia: a poche ore dall’incidente della moby Prince, infatti, si verificò un’esplosione sulla petroliera amoco milford Haven, ancorata nel golfo di Genova, durante un’operazione di travaso. la nave bruciò e, 4 giorni dopo, affondò al largo di arenzano, con parte del carburante che a tutt’oggi continua a inquinare parte della costa tra Genova e Savona. nel resto degli anni novanta i disastri navali non sono certo mancati: il giornalista americano William langewiesche, nel libro Terrore dal mare, racconta due casi molto gravi. il primo è quello dell’estonia, traghetto passeggeri ro-ro affondato tra tallin e Stoccolma nel 1994, insieme a oltre 800 vittime. a causa della cattiva manutenzione delle cerniere il portellone anteriore si era aperto durante la navigazione . l’avaria non fece che amplificare il già imponente rollio causato dal maltempo e portò al capovolgimento della nave in pochi minuti. l’altro episodio è quello dell’erika, la petroliera che nel 1999 si spezzò in due davanti alle coste della Bretagna riversando una marea nera sulle spiagge francesi. nonostante battesse bandiera maltese, la nave apparteneva ad armatori italiani, così come era italiano il certificato di autorizzazione alla navigazione, rilasciato dal rina, il registro italiano navale. entrambi furono condannati insieme all’azienda petrolifera total a un risarcimento milionario, e la sentenza è stata confermata anche dalla corte d’appello nel 2010. Una class action nei confronti del rina è attualmente in corso anche per l’incidente dell’al-Salam Boccaccio 98: nel febbraio del 2006 questo traghetto di fabbricazione italiana con a bordo 1.400 persone affondò nel mar rosso dopo un incendio. anche in questo caso tra le cause principali c’è la scarsa manutenzione. i naufraghi recuperati furono 388, ma quasi mille morirono o risultarono dispersi. «nella maggior parte dei casi - conclude Giancarlo Costa - alla base c’è un insieme di concause dettate dalla distrazione dell’uomo. Quando qualcosa non funziona si fa finta di niente. ma in mare bisogna sempre essere pessimisti». MAGZINE 19 | marzo 2012
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pirati
Kalashnikov e cellulare I corsari nell’era del web Nel 2011 hanno attaccato 439 navi e incassato 160 milioni di dollari. Un marinaio sequestrato dai pirati somali racconta la lunga prigionia tra pesca, partite a carte e jogging in coperta di Gabriele Russo
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ette meSi Con i Pirati, comunican-
do con gesti e un inglese stentato, provando a comprendere le ragioni dell’ennesimo sequestro avvenuto al largo della costa orientale africana. Vincenzo Ambrosinosperava di sopravvivere e di accorciare giornate infinite assecondando il volere dei carcerieri, curando i loro parenti, allenandosi con loro in palestra e pescando tutti insieme, di tanto in tanto, come si fa con i vecchi amici. nato a Procida 45 anni fa, vincenzo è uno degli 802 marinai caduti nelle mani dei corsari nel 2011. Secondo l’international maritime Bureau, lo scorso anno i pirati hanno attaccato 439 imbarcazioni conquistandone 221. il 21 aprile 2011 la rosalia d’amato, nave mercantile lunga 225 metri di proprietà della compagnia Perseveranza Spa di napoli, viaggiava a circa 350 miglia marine a sud-est dell’oman, nell’oceano indiano, quando è stata attaccata. «erano da poco passate le quattro del mattino, quando dal ponte abbiamo avvistato un peschereccio sospetto. neppure il tempo di verificare la sua identità e sono partiti
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due barchini con sei persone a bordo. i pirati hanno iniziato a sparare e sono saliti servendosi di rampini. Ci hanno puntato fucili e pistole e costretto a inginocchiarci. Gridavano di non muoverci e, per intimorirci, sparavano in aria». ambrosino e i suoi 20 colleghi (15 filippini e cinque italiani) hanno visto così concretizzarsi l’incubo di ogni marinaio. Proprio in quelle acque yemenite, dove ogni anno si registrano sempre più attacchi. Proprio nelle mani dei pirati somali, divenuti ormai maestri nell’attaccare navi di qualsiasi dimensione. Più della metà dei tentativi di sequestro messi in atto lo scorso anno sono imputabili a loro. ormai, i pirati non si accontentano più dei pescherecci che transitano di fronte alle loro coste e sono in grado di attaccare navi di enormi dimensioni, come la rosalia d’amato, distanti fino a 2mila chilometri dalle loro basi. «abbiamo trascorso sette mesi con i loro fucili puntati sui nostri volti - continua ambrosino -. Uno dei sequestratori parlava inglese e più volte abbiamo cercato di comprendere cosa li spingesse alla pirateria. dai
nostri dialoghi stentati è apparso chiaro il motivo: gli enormi pescherecci occidentali, operando nelle loro acque, li hanno privati della loro risorsa più importante, la pesca. Uno sgarbo reso ancor più intollerabile dalle drammatiche condizioni economiche in cui versa da ormai molti anni la Somalia». dilaniata da decenni di sanguinose guerre civili, la Somalia non ha un governo centrale dal 1991, anno dell’uscita di scena del dittatore Siad Barre, al potere dal 1969. È composta da sei Stati che godono di grandi autonomie e dal Somaliland, repubblica del nord che, pur non avendo mai ottenuto il riconoscimento da parte della comunità internazionale, agisce come Stato indipendente dal 1993 e rivendica un ampio territorio al confine con il Puntland. «non appena hanno preso possesso della nave, i pirati si sono trasformati in ladri di polli e hanno razziato tutto: panni, computer, orologi, preziosi, macchine fotografiche. mi hanno tolto persino la fede salvo poi, qualche giorno dopo, chissà per quale motivo, restituirmela. Un gesto umano del tutto inaspettato». Quel giorno ambrosino ha recuperato, con la fede nuziale, anche la speranza di rivedere presto sua moglie e i suoi due piccoli bimbi. la convivenza con i pirati somali non è semplice, ma non ci sono alternative ed è necessario fare di necessità virtù. «abbiamo instaurato un buon rapporto con i sequestratori. dopo i primi giorni di panico e terrore, amplificati dal fallimento dei due tentativi di liberazione messi in atto da una nave militare turca, abbiamo siglato un accordo: avremmo accettato qualsiasi richiesta pur di sopravvivere. Siamo stati noi, tramite l’apparato di bordo vhf, a convincere la nave turca ad allontanarsi. la nostra vita era in pericolo. Con il passare dei giorni, la situazione si è tranquillizzata e i pirati portavano a bordo amici e parenti malati di tubercolosi, tifo o malaria. li curavamo e, in cambio, ottenevamo qualche razione di cibo in più, le carte per giocare sotto coperta, la dama o gli scacchi. a volte ci allenavamo insieme in palestra e facevamo qualche corsetta al loro fianco in coperta. abbiamo persino salvato due di loro da annegamento certo. erano caduti in acqua da un peschereccio lì vicino». l’equipaggio è la merce di scambio dei pirati. ai quali non interessa altro che il
Per saperne di più Massimo A. Alberizzi, Carlo Biffani e Guido Olimpio, Bandits (Fuoco edizioni); Domenico Ambrosino, L’isola sequestrata (Massa Editore); Augusto Meriggioli, Il ritorno dei pirati (Fratelli Frilli Editori)
riscatto. nelle stive della rosalia d’amato, mai toccate dai sequestratori, c’era soia imbarcata in Brasile e diretta in iran. «i pirati vogliono solo i soldi e la cifra richiesta dipende da due variabili: il carico, prezioso come il petrolio o comune come la soia, e la nazionalità dei membri dell’equipaggio. Su quella nave, battente il tricolore, c’erano sei italiani. il nostro Paese ha peso nella scena internazionale e, in più, non consente l’imbarco di guardie armate. Per questi motivi hanno deciso di attaccarci». nell’ottobre 2011 il governo italiano, sollecitato da un’opinione pubblica ferita dagli otto sequestri di navi battenti il tricolore, ha parzialmente rivisto le regole. dietro compenso, gli armatori possono oggi chiedere il supporto di quei “nuclei militari di protezione” saliti agli onori della cronaca con il soprannome tipico dei soldati del reggimento San marco: marò. Come rilevato dal più recente rapporto in materia di pirateria marittima del Consiglio di Sicurezza dell’onu, altri Paesi hanno scelto soluzioni differenti. Gran Bretagna, Spagna, danimarca e norvegia permettono, ora, l’imbarco di guardie di sicurezza private armate. l’egitto ha già però chiarito che non consentirà il transito nel canale di Suez di imbarcazioni con guardie armate a bordo. «Quando i pirati ci hanno attaccato non eravamo nelle condizioni di reagire e difenderci. È per questo che continuano a sequestrare navi e a chiedere riscatti sempre più alti». one earth future è la fondazione no-profit statunitense che, dal 2010, ha lanciato il progetto Oceans Beyond Piracy. dal rappor-
to sui costi economici causati dalla pirateria emerge un’elevata crescita dei guadagni dei sequestratori. Se nel 2008 il riscatto medio era di 1,1 milioni di dollari, nel 2011 è salito a 4,97 milioni. lo scorso anno si è registrato un nuovo record: ad aprile sono stati pagati 13,5 milioni di dollari per liberare la petroliera greca irene Sl. il giro d’affari, nel 2011, è stato di 160 milioni di dollari con un costo per l’industria mondiale, secondo l’oef, stimabile intorno ai 6,6 miliardi di dollari tra assicurazioni, sicurezza, nuove rotte e aumento della velocità delle navi per scongiurare un attacco. «i pirati si sono resi conto che riescono facilmente non solo a conquistare il controllo delle navi, ma anche a ottenere il riscatto. l’enorme attenzione che i media dedicano a ogni sequestro è controproducente. Grazie a internet, i sequestratori vengono a conoscenza della pressione che l’opinione pubblica esercita sugli armatori affinché paghino il riscatto per salvare la vita dell'equipaggio. alzano così la posta in gioco convinti della possibilità di incassare sempre più soldi. i pirati somali non sono poveri pescatori. Si tratta di gente informata. Sono stati loro a dirci che Berlusconi si era dimesso!». niente uncino né gamba di legno. nien-
Niente uncino, né gamba di legno. I pirati somali si vestono con abiti griffati e si informano online
te benda sull’occhio né pappagalli sulla spalla. i pirati somali si discostano dall’immaginario letterario e hollywoodiano per vestire panni e vezzi dei popoli occidentali. «Un mio collega li ha ribattezzati “i pirati del duemila”. C’era chi si vestiva con una magliettina e i pantaloni eleganti. immancabili, poi, gli occhiali da sole e il cellulare. il tutto, ovviamente, con il fucile in mano. Sono i pirati dei tempi moderni, ragazzi di oggi in tutto, anche nella corsa al dio denaro. Probabilmente il loro stipendio non è molto consistente, ma sufficiente per vivere senza grossi problemi. la vera povertà è un’altra cosa e non li riguardava». Gli armatori, il più delle volte, cedono al ricatto e pagano. Preparano grossi pacchi contenenti milioni di dollari in banconote da cento, li caricano su piccoli aerei da turismo e ordinano di lanciarli nei pressi della loro nave. anche per liberare la rosalia d’amato l’armatore, Giuseppe D’Amico, è stato costretto ad aprire il portafoglio. nonostante le smentite della società, a Procida si parla con insistenza di sei milioni di dollari finiti nelle tasche dei pirati somali. Cifra confermata anche da un funzionario della polizia somala e dall’oef. «era il 25 novembre. Sopra di noi è apparso un aereo da turismo dal quale, appesi a piccoli paracaduti, sono stati lanciati due pacchi finiti in mare e prontamente recuperati. i pirati ci hanno messo a terra, sempre puntando verso di noi le loro armi, proprio come nel giorno dell’arrembaggio. Così come erano saliti, 219 giorni prima, così se ne sono andati». ambrosino e gli altri venti membri dell’equipaggio della rosalia d’amato sono quindi potuti tornare a casa sani e salvi. Secondo il rapporto obp, 24 loro colleghi, lo scorso anno, non sono stati fortunati allo stesso modo. Secondo il monitoraggio dell’associazione maritime Security review, otto imbarcazioni e 231 marittimi sono oggi nelle mani dei pirati somali (dato aggiornato al 31 marzo 2012). MAGZINE 19 | marzo 2012
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marinai
Gli sfruttati delle onde di Cosimo Lanzo e Denis Rizzoli
Per dodici ore di lavoro al giorno un marinaio guadagna 2.200 euro. Ma il contratto copre solo sette mesi su dodici. Ecco come sopravvivono i marittimi che tengono in piedi il commercio mondiale. Un’esistenza di fatica e solitudine
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i imBarCano PenSando di vedere il mondo e si ritrovano in una prigione chiamata nave. Sono i marittimi, la manodopera invisibile che, ogni giorno, lavora lontano dalla vita e della regole che ci sono a terra. il loro settore vanta salari tra i più miseri. nel 2001 nei Paesi Ue la spesa per la forza lavoro nel settore marittimo pari al 12,8% dei costi complessivi, uno dei livelli più bassi tra i diversi ambiti produttivi. i loro contratti di impiego sono stilati secondo criteri esclusivamente commerciali e il loro tenore di vita è strettamente legato al pregio della merce che trasportano: se si tratta di petrolio la paga è buona, se di farina, invece, è infima. Una situazione che la crisi economica ha reso più feroce. lo racconta Agostino Salsa, marittimo da quando era ragazzo: «Un tempo si salpava perché si guadagnava in un mese quello che un operaio otteneva in tre. adesso il salario è di molto inferiore a quello di un lavoratore di terra. tutti ci siamo detti “lo faccio per dieci anni, metto da parte un po’ di soldi e smetto”. Poi ti accorgi che quello è il tuo lavoro e che non riesci a trovare altro. va a finire che non smetti più». dopo dio, il comandante. la nave mercantile ha, come in una caserma, un rigido sistema gerarchico. Ci sono il comandante, il primo, il secondo, il terzo di coperta o di macchina, il nostromo, il cuoco, il cameriere, il ragazzo di cucina, l’elettricista e altre figure professionali. le relazioni sociali a bordo si basano su un modello disciplinare molto rigido e fortemente segnato dallo stile che il comandante impone. l’obiettivo è l’esecuzione immediata dell’ordine, per fare in modo che le merci arrivino al porto intatte e puntuali. Questo bisogno di efficienza si riflette anche negli aspetti più basilari dell’interazione sociale, come la lingua parlata a bordo: è il pidgin English, un inglese marittimo, un linguaggio semplice e dai numerosi termini tecnici, ottimo per lavorare ma pessimo per fare amicizia. Sulle navi con equipaggio di più nazionalità l’inglese marittimo è l’unica lingua con cui è possibile farsi capire, ma comunque con un rischio: «Più lingue convivono, più aumentano le probabilità che scoppino conflittualità tra gruppi dovuti alla scarsa conoscenza delle convenzioni sociali altrui. Per questo anche i giochi e le barzellette vengono limitati», spiega Devi Sacchetto, docente di Sociologia del lavoro e autore di Fabbriche galleggianti, una delle più autorevoli indagini compiute in italia sul mondo dei marittimi. «Si formano
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gruppi tutti della stessa nazionalità - dice Salsa - e al loro interno ci sono enormi pregiudizi sulla base della regione da cui si proviene. Un po’ come da noi tra settentrionali e meridionali». oltre alla lingua, c’è il difficile rapporto con gli spazi abitabili a caratterizzare la vita del marinaio. l’immagine della nave come spazio di libertà si scontra con una realtà in cui la sensazione del marittimo è di essere segregato nella cabina. «Sul ponte descrive Salsa - ci sono alloggi, gli uffici e la sala comandi; sulle navi grosse da carico ci sono anche altre aree per il tempo libero. il problema, però, è che si resta sempre dentro il ponte. Si è confinati in questo spazio». Quando si esce dalle cabine, poi, il movimento a bordo è solo verticale, su e giù per le scalette. il mercato del lavoro marittimo è dominato dagli armatori. a partire dagli anni ’70, i cambiamenti che hanno investito il settore sono stati numerosi. Grazie alle bandiere di comodo (le Foc, ovvero Flag of Convenience) è possibile imbarcare personale proveniente da qualsiasi Paese. il sistema di occupazione può essere quindi suddiviso in due segmenti. il primo è costituito dalle navi che battono una bandiera dei 23 Paesi ocse, solitamente rispettosi delle regole, con buone condizioni di lavoro e con personale della stessa nazionalità della bandiera. il secondo segmento è relativo alle navi occidentali con bandiera di convenienza e da navi che realmente provengono da Paesi non appartenenti all’ocse (circa un centinaio di Stati). Secondo l’international transport Workers Federation (itf), il sindacato internazionale dei marittimi, «sulle navi battenti bandiere di comodo vengono spesso negati i fondamentali diritti umani: gli armatori non sono obbligati a rispettare gli standard sindacali minimi e riescono a pagare meno la forza lavoro». Un’alternativa più virtuosa è il cosiddetto secondo registro, un registro navale che affianca quello ufficiale di ogni singolo Stato. Consente di assumere manodopera extracomunitaria con regolare con-
Per saperne di più Devi Sacchetto, Fabbriche galleggianti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai (Jaca Book); Stephen Roberts, Peter Marlowe, Shipping casualties and loss of life in UK merchant shipping, UK second register and foreign flags used by UK shipping companies (Marine policy); Inail, Secondo rapporto Pesca.
tratto e permette di godere delle agevolazioni di natura fiscale in caso si assumano lavoratori comunitari. il personale di bordo viene selezionato dalle agenzie di reclutamento che, secondo Sacchetto, non sono altro che la lunga mano degli armatori. il loro obiettivo è quello di abbassare la capacità contrattuale del singolo marittimo andando a pescare i lavoratori nei Paesi meno sviluppati. «So che nei Paesi dell’est ti iscrivi a un’agenzia e ti chiedono di pagare una quota. lo spacciano come costo per corsi di formazione, ma in realtà paghi per lavorare. Se non paghi è difficile trovare
Quello del marittimo è un mestiere pericoloso anche nel Regno Unito: il rischio d’infortuni è 26 volte più alto di quello registrato sulla terraferma
un posto», spiega Salsa. Un marittimo di un Paese extracomunitario guadagna 1.270 euro, mentre un europeo firma contratti per circa 2.200 euro. ma la paga è per le mensilità di lavoro effettivo, ovvero circa sette mesi e mezzo l’anno: quando si sta a casa, a riposo, nessuno paga. «Si potrebbe accedere a un’indennità di disoccupazione, ma molti non la chiedono per non andare in pensione molto più tardi. nel nostro contratto, infatti, sono previsti contributi per dieci mesi l’anno anche se lavoriamo solo sette mesi e mezzo. richiedendo l’indennità si perdono questi contributi extra», precisa Salsa. le ore di lavoro dei marittimi dovrebbero essere otto al giorno per cinque giorni settimanali, dal lunedì al venerdì. in realtà, secondo indagini svolte dall’itf, tutti lavorano sette giorni alla settimana. Solo un quarto lavora otto ore al giorno: la maggioranza si posiziona tra le otto e le dodici ore, mentre i rimanenti addirittura superano le dodici ore. dopo il turno, infatti, un marittimo deve svolgere i normali lavori di manutenzione, come la pittura delle pareti o la cura degli impianti antincendio. attività che, con la riduzione degli equipaggi a causa della crisi, erodono sempre di più le ore di riposo. tra i marittimi le cause di morte non sono cambiate significativamente negli ultimi 20-30 anni. Secondo lo studio sugli incidenti a bordo delle navi britanniche condotto da Stephen roberts e Peter marlowe dell’università di Cardiff, quello del marittimo è il mestiere più pericoloso del regno Unito: tra il 1976 e il 2002, il rischio era di quasi 26,2 volte superiore rispetto a quello affrontato dai lavoratori di terra. adesso la situazione è più rassicurante, sebbene il pericolo rimanga piuttosto elevato, anche in italia: stando al secondo rapporto Pesca redatto dall’inail, nel periodo 2004-2008 il rischio di infortuni nel settore marittimo è di 2,4 volte superiore rispetto alla media europea.dal rapporto inail sugli incidenti nel 2010, poi, risulta che il 3,8% dei marittimi ha subìto un infortunio: «Si tratta di un dato paragonabile ai mestieri su terraferma più pericolosi», sottolinea Agatino Cariola, direttore attività istituzionali inail/ex ipsema. «a differenza degli incidenti su terraferma - prosegue Cariola - quelli marittimi hanno però un periodo di degenza più lungo perché gli infortunati non possono ricevere terapie di primo soccorso in ospedale, ma devono accontentarsi di cure di fortuna». Una delle principali cause di incidente è l’affaticamento, dovuto MAGZINE 19 | marzo 2012
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marinai all’eccessivo carico di lavoro, che provoca un logoramento della forma fisica e della lucidità mentale. inoltre bisogna considerare la quantità e la qualità delle ore di riposo. la sicurezza può essere messa a repentaglio anche dall’abuso di alcool, che sembra essere molto diffuso tra i marittimi. «Secondo alcuni studi, tale pratica è dovuta non solo all’isolamento dei marinai dalla normale vita sociale - sottolinea Sacchetto - ma anche a una sorta di selezione in entrata. l’occupazione attrarrebbe infatti individui con particolari caratteristiche sociali e di consumo». il rischio d’incidente della forza lavoro comune è doppio rispetto agli ufficiali. i giovani sono una categoria a rischio: pagano lo scotto dell’esperienza, oltre al fatto di essere personale poco formato e dotato di attrezzature inadeguate. Un tempo il momento più atteso per l’equipaggio era l’attracco. le navi restavano ferme fino a una settimana e i marinai potevano riposare e ristabilire un contatto con la terraferma. adesso invece l’attracco significa solo maggiore fatica. «le operazione di scarico e carico durano quattro, cinque ore, e poi si riparte», dice Salsa. Questi ritmi sono l’effetto delle innovazioni tecnologiche nei porti e sulle navi. trent’anni fa, sul totale ore che un armatore doveva mettere in conto per trasportare la merce, il tempo trascorso in un porto poteva assorbire il 50%, mentre oggi si attesta al 13 per cento. inoltre, per fornire più servizi a navi sempre più grandi, le autorità portuali hanno costruito enormi infrastrutture automatizzate, lontane dai centri abitati. Come a rotterdam, dove il porto dista 60 chilometri dalla città. «Si lavora solo di più a causa anche di molte procedure burocratiche; molti di noi preferiscono restare al largo perché l’attracco in porto è solo lavoro in più. non si riesce nemmeno a scendere dalla nave. di solito mandiamo uno di noi a comprare le cose per tutti gli altri», rivela Salsa. Può accadere anche che il comandante non conceda lo shore-pass, il permesso di scendere a terra. tutto questo aumenta il senso di solitudine e di frustrazione di marinai e ufficiali. i porti, però, non sono tutti uguali. i migliori sono quelli nord-europei e australiani, dove c’è una forte presenza dei sindacati e la possibilità di far valere i propri diritti. Qui i marinai vengono accolti dai Seamen’s club, in cui si può respirare l’atmosfera del pub di città e si può staccare dal lavoro, anche se l’unica compagnia rimane quella di altri marittimi. argomento a parte invece sono i porti statunitensi dopo l’11 settembre 2001. in seguito alle nuove legislazioni sulla sicurezza, le navi devono notificare il proprio arrivo con quattro giorni di anticipo (fino a qualche anno
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fa ne bastava uno solo). i marittimi in arrivo devono farsi fotografare e lasciarsi prendere le impronte digitali e, senza visti in regola, non possono scendere a terra. lo shore-pass, però, è diventato difficile da ottenere anche in europa. in italia, per esempio, libanesi, pachistani, siriani e cingalesi sono sottoposti a un doppio controllo. il capitano deve prima inviare la lista dell’equipaggio all’agenzia marittima, che ha l’obbligo di farla arrivare almeno 48 ore prima dell’arrivo della nave alla polizia di frontiera e al ministero degli interni. il viminale, infine, decide con un alto grado di discrezionalità se approvare o meno la discesa dell’equipaggio. i pochi mesi in cui si ritorna a casa dalla propria famiglia sono il momento più atteso. eppure, anche questo periodo tanto desiderato si rivela traumatico: l’isolamento costante nel quale vivono i marinai, infatti, crea difficoltà nel riallacciare legami affettivi e sociali, prolungando il senso di solitudine anche
sulla terraferma. il marinaio si sente così estraneo in casa sua, si sente un’eccezione perché la lontananza ha causato vuoti, assenze dal normale ritmo che accompagna chi resta. «Se hai un bambino piccolo torni che non ti riconosce, anche perché probabilmente non c’eri neanche quando è nato», racconta Salsa. al ritorno ci sono momenti di festa e di eccitazione che sospendono il normale tempo di vita della famiglia. ma dopo qualche settimana, quando il nucleo famigliare torna alla quotidianità, il marinaio si accorge che non c’è posto per lui. Con il passare del tempo, si comincia ad avere il sospetto che ci si senta indesiderati a casa propria. «Ci siamo sentiti dire “vattene” dai nostri bambini perché eravamo degli estranei per loro - conclude Salsa - e a quel punto cerchi di cambiar vita, cerchi di imbarcarti su navi che fanno viaggi brevi, vicini a casa. Se non ci riesci, non vedi l’ora di imbarcarti di nuovo e il lavoro diventa la tua unica vita».
La condanna a morte dei piccoli marinai Ogni anno migliaia di bambini sono ridotti in schiavitù dietro la promessa di istruzione e lavoro. Da questo inferno, Hazika è riuscita a fuggire e a raccontare al mondo la sua storia di Bianca Senatore
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l riCordo dei SUoi Giorni da pic-
cola schiava del mare è cicatrizzato sul braccio: un solco profondo sul polso sinistro è quel che resta di giorni tra nausea, lavoro e violenza su una nave piena di topi e di altri “legni d’ebano” come lei. Hazika ora ha 24 anni, lavora e vive in un paese del sud italia, ma non sul mare. il passato è cancellato, certo, ma col mare ha ancora un rapporto controverso. Fino a 10 anni Hazika ha vissuto con la madre e i fratelli a Gouna, nella parte nord del Camerun. Poi un giorno sono arrivati due uomini eleganti, si sono presentati come imprenditori e hanno offerto alla famiglia pochi dollari, per portare via la ragazzina, farla studiare, scommettere sul suo futuro e farla poi lavorare in un’azienda nascente. nessuna discussione, la decisione è presa in pochi minuti e Hazika viene prelevata come un pacco e portata via. da quel momento la vita cambia e non ci sono più oggi, ieri, domani. il tempo è scandito solo dalla fame e dalla sete. Hazika viene condotta a douala, messa in una stanza minuscola con altri bambini e lasciata al buio. la porta si apre solo quando arriva un compratore che sceglie e porta via la sua “merce”. alla fine restano in pochi nella capanna: lei, altre due ragazzine più grandi e cinque maschi. in blocco vengono raccolti da un signore elegante che li sfama e li disseta. Sorride, sembra gentile e la piccola Hazika si sente quasi sollevata. a douala viene imbarcata su un mercantile dove ci sono una trentina di ragazzini che lavorano come marinai per 18 ore al giorno. Sono oltre un milione i minori venduti ogni anno, circa sei bambini vengono rapiti ogni mese. Sono portati via dalle famiglie soprattutto ragazzine tra i 6 e i 17 anni. Solo nel Benin, secondo l’Unicef, ogni anno circa 50 mila bambini sono vittime di tratta. non mangiano e non bevono, ma van-
no su e giù per la nave, caricano e scaricano pesanti casse. Siccome sono leggeri li fanno arrampicare sulle scalette in ferro per effettuare manovre. Hazika viene obbligata a pulire le cucine e i bagni ed è oggetto di tutte le viscide attenzioni e le violenze dell’equipaggio. li chiamano “pezzi di carbone nella stiva” e ogni volta che attraccano a un porto vengono rinchiusi, per evitare che scappino. Una volta, ricorda Hazika, due ragazzini come lei sono morti e i loro cadaveri sono stati buttati in mare. dopo 24 ore sono stati sostituiti da altri due bambini, comprati in un porto del niger. non c’è scampo, non c’è futuro, pensava, convinta di morire su una nave e finire mangiata dagli squali. ma un giorno, dopo l’attracco a lomé, in togo, Hazika viene portata giù dalla nave e venduta come domestica. il suo status di schiava non cambia, solo che ora lavora in un campo e vive nel fango finché una notte un ragazzo più
grande decide di scappare e la porta via con sé. Camminano per giorni, nascondendosi e salendo abusivamente su qualche sgangherato autobus, fino ad arrivare in Costa d’avorio. dopo due anni, Hazika ha mille cicatrici ed è sottile come una canna di bambù. ma le ferite e i soprusi le hanno fatto conoscere il mondo così bene che sa difendersi, sa capire le intenzioni negli occhi liquidi degli uomini e anche delle donne asciutte e feroci. il mare la reclama e con un senso di nausea s’imbarca su una nave che da San Pedro risale lungo l’atlantico seguendo le coste dell’africa, la Costa dei semi tra liberia e Sierra leone, e la Costa del vento, tra Guinea, Gambia e Senegal. a bordo non sono più solo in 30, ma in centinaia: bambini marinai schiavi, contadini, piccole prostitute, tutti evasi dalla prigionia. dopo quasi un anno in giro per il nord africa, Hazika è sbarcata in Spagna, dove ha vissuto fino all’età di 18 anni. Poi è arrivata in italia, dove ha lavorato prima come cameriera, poi come venditrice ambulante. ora i suoi fianchi sono rotondi e le braccia sono muscolose e forti come quelle di una mamma che prende in braccio la sua piccola per molte ore al giorno, perché lei, tre anni, non vuole proprio camminare.
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armatori
affari d’oro sugli oceani di Francesca Sironi
C’è un settore in Italia che non è in crisi: quello delle navi da trasporto. Più della metà delle merci esportate viaggia per mare. Un mercato votato all’estero che impiega quasi 40mila persone e fa affari soprattutto con ferro e carbone
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iamoPiCColi, mainmareCidiFendiamoBene. anche se non possiamo competere con il ruolo che la Grecia detiene ormai da duemila anni nel settore nautico, in italia il mare è un business di rilievo. la nostra flotta conta 1.664 navi, con quasi 18 milioni di tonnellate di stazza lorda trasportate in tutto il mondo. Una piccola flotta che è in continuo aumento: +6% di imbarcazioni e +10% di tonnellaggio nel 2010 rispetto all’anno precedente, cifre che ci permettono di vantare l’undicesimo posto nella classifica mondiale degli armatori. in controtendenza con il resto dell’economia italiana, nel settore nautico i lavoratori si cercano e non si trovano, soprattutto quelli con la giusta formazione: ad oggi gli armatori italiani sono a caccia di 15mila giovani marinai. naturalmente non è un mondo tutto rose e fiori: ci sono inchieste per corruzione, condanne per danni da amianto, buchi di bilancio che rischiano di portare al lastrico tanti piccoli risparmiatori, come nel recente caso deiulemar. i servizi nel trasporto marittimo rappresentano un investimento sicuro da decenni, nonostante la crisi: nel 2011 il settore ha registrato un più 10% di traffico a livello mondiale, con 958 milioni di tonnellate di stazza lorda a spasso fra gli oceani. la Grecia domina il mercato, con 202 milioni di tonnellate di portata. «i greci, a differenza dei tedeschi, sono armatori “puri” - ha spiegato Giuseppe Bottiglieri, armatore napoletano, al Sole24ore -. Sono loro stessi a investire nelle navi, che rimangono di loro proprietà fino a quando decidono di venderle. Così evitano di speculare con navi terze a noleggio e di rischiare in fondi d’investimento». i noleggi sono l’anello più debole del mercato. troppe barche in acqua e fluttuazioni di prezzo sulle merci causano un vero e proprio crollo di valore. Una rinfusiera Capesize (una nave con una portata che arriva a 210mila tonnellate) viaggiava nel 2008 a 200mila dollari al giorno. oggi per la stessa nave non si possono chiedere più di 7mila dollari: il rischio è ritrovarsi fermi in porto per sempre. il trasporto merci rimane comunque un mercato in crescita, soprattutto per mare. i minerali di ferro e carbone rappresentano insieme il 60% del trasportato nel mondo. la crescita della domanda nell’ultimo decennio è dovuta al 90% a queste due merci. i minerali di
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ferro (la merce in assoluto più trasportata) sono sempre più concentrati in poche nazioni. da australia e Brasile ogni anno prende il largo oltre il 60% delle esportazioni mondiali, che arrivano soprattutto in Cina, cui fa capo il 70% delle importazioni. in italia il primato è dei prodotti petroliferi, con 227 milioni di tonnellate trasportate nel 2010. Siamo però primi al mondo per numero di navi traghetto, sia per il trasporto merci sia per quello di passeggeri, e abbiamo la prima flotta di navi da crociera dopo le cosiddette bandiere di comodo. l’importanza del settore nautico nel trasporto merci del nostro Paese è indiscussa: le esportazioni dall’italia viaggiano per il 53% via mare, contro il 15% su gomma. le importazioni viaggiano quasi esclusivamente via nave, come avviene per esempio col petrolio. i nostri principali partner commerciali marittimi sono, in ordine, la turchia, la libia, la russia, l’egitto e la Spagna. la primavera araba nel maghreb e la rivoluzione in libia sono state la causa, nell’ultimo anno, della caduta del 3,5% del mercato del traffico su navi ro-ro, nonostante continui ad aumentare il volume totale delle tonnellate di merci trasportate. Particolarità della flotta italiana è il fatto che il 96,5% delle nostre navi fa capo a soggetti a capitale tutto o prevalentemente privato: con la dismissione della tirrenia la presenza dello Stato nel settore è praticamente scomparsa. non parliamo nemmeno di imbarcazioni troppo “anziane”: il 68% delle navi ha meno di dieci anni e il 43% meno di cinque. il primato, tra gli armatori, lo detiene il Grimaldi Group, fondato nel 1947 dalla famiglia napoletana che dà il nome all’azienda e che ne detiene ancora la guida. Con un fatturato che supera i due miliardi e mezzo di euro l’anno, la Grimaldi ha potuto negli ultimi anni avventurarsi in una politica di espansione internazionale e oggi controlla, fra le altre, la Finnlines finlandese, la minoan lines e la svedese aCl. oltre alle linee, il business dei Grimaldi è anche nei porti: Civitavecchia, Palermo, valencia, dakar, lagos, amburgo e da ultimo
Per saperne di più Alcuni dati Istat: http://www.istat.it/it/archivio/51906 Il sito della Confederazione Italiana Armatori: http://www.confitarma.it Il sito della Confederazione italiana Trasporti: http://www.confetra.it Il sito del Grimaldi Group: http://www.grimaldi.napoli.it
Barcellona sono solo alcuni di quelli di cui ha il 100% o una quota della partecipazione. Peccato però che costruisca le sue navi in Cina o nel Sud est asiatico, come d’altronde fanno praticamente tutti gli armatori europei. «nei mari - sostiene Paolo d’Amico, presidente di Confitarma, l’associazione di categoria degli armatori - confrontarsi con una concorrenza molto accanita è inevitabile: si tratta di mercati aperti, non solo nominalmente ma nei fatti, alla competizione delle imprese marittime di tutti i Paesi. vi sono più di 100mila navi mercantili di oltre 150 nazioni che operano nei traffici internazionali trasportando qualsiasi tipo di merce». Queste cifre, di volumi e trasporti, hanno una ricaduta diretta sull’economia del nostro Paese in termini di posti di lavoro. a fine 2010 erano 37mila gli occupati a bordo della flotta italiana, di cui il 60% italiani o europei, mentre il restante 40% da extracomunitari. nell’arco dell’anno su questi posti ruotano più di 50mila persone, che l’inps definisce “gente di mare”. Per ogni cinque marinai in viaggio, poi, un professionista rimane negli uffici di terra. Bisogna poi considerare l’indotto, che genera oltre 100mila ulteriori posti di lavoro. ma
La nostra flotta conta 1.664 navi per un totale di quasi 18 milioni di tonnellate di stazza lorda trasportate in tutto il mondo
la fame di specialisti non si sazia: nel 2010, il mercato europeo ha assorbito più di 236mila diplomati degli istituti tecnico-nautici, ma alle imprese mancano ancora 110mila dipendenti. «l’elevato livello tecnologico raggiunto dalle navi - spiega Paolo d’amico impone la presenza a bordo di professionisti preparati in grado di controllare colossi che possono raggiungere anche i 300 metri di lunghezza». la burocrazia, però, blocca le navi italiane. Secondo una stima di Unioncamere, nel 2009 il peso della burocrazia si è tradotto in 16,6 miliardi di mancati introiti per le imprese, una media di circa 12mila euro l’anno per azienda. «Questi numeri - lamenta Paolo d’amico – raddoppiano nel nostro settore. Per la consegna di una nuova unità costruita in un cantiere estero le lentezze burocratiche costano all’armatore più di 100mila euro a nave». da due legislature sono bloccati nelle stanze di montecitorio alcuni disegni di legge che puntano a semplificare la normativa. in Grecia, di converso, gli sgravi fiscali per gli armatori sono sanciti da una legge costituzionale, che protegge la misura anche dalle pressioni dell’Unione europea. Sebbene le vele degli affari siano spiegate, anche gli armatori hanno un conto aperto con la giustizia: la deiulemar di torre del Greco, per esempio, deve rispondere ai cittadini inferociti in merito al rischio di svalutazione delle loro obbligazioni (il valore totale si aggira intorno ai 600mila euro); gli armatori Barbaro, invece, sono indagati per frode fiscale e riciclaggio internazionale dalle autorità olandesi e italiane. Secondo gli inquirenti, i Barbaro, storici armatori palermitani, avrebbero contabilizzato un acquisto di sei navi dalla Corea del Sud che non sarebbe mai avvenuto, così da detrarre costi non sostenuti per oltre 20 milioni di euro. a Pozzallo, in provincia di ragusa, per la prima volta la giustizia ha imposto ai costruttori americani dei traghetti di risarcire per danni alla salute dovuti all’amianto a bordo alcuni marittimi. la sentenza è arrivata a febbraio, ma secondo gli avvocati presto potrebbero aprirsi altri otto fascicoli su casi di marinai colpiti da asbestosi.
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porti
I terminal italiani parlano mandarino Gli operatori di Cina e Singapore controllano i maggiori porti container italiani. Investendo danno lavoro, ma minacciano di andare via se non miglioreranno le condizioni di esercizio di Giuliana Grimaldi
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a Cina Si È PreSa i Porti italiani, i
più interessanti del mediterraneo per accedere al ricco mercato europeo. Su un totale di 134 noli di diverso tipo che il nostro Paese possiede ben cinque grandi terminal commerciali sono oggi gestiti da società cinesi e singaporiane. Si tratta di taranto, trieste, venezia, Genova e napoli. il tct terminal Container di taranto è in mano alle società evergreen e Hutchinson che gestiscono il molo polisettoriale in regime di esclusività, con una concessione di 60 anni. evergreen è una compagnia di navigazione taiwanese, attualmente la quarta maggiore compagnia di trasporto container al mondo. Hutchinson, il secondo leader mondiale, è controllato dal tycoon di Hong Kong li ka Shing, l’uomo più ricco della ex colonia britannica. il gruppo Hutchinson Whampoa ha interessi in vari settori, controlla in italia anche la H3G nel settore della telefo-
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nia mobile e in europa ha acquisito terminal inglesi e olandesi, in particolare l’immenso porto di rotterdam. la evergreen è presente anche a trieste, dove ha inglobato la flotta del lloyd triestino il cui brand oggi non esiste più. i cinesi sono presenti a napoli attraverso Conateco, una joint venture tra Coscos (filiale italiana della cinese Cosco China ocean Shipping Company) e msc mediterranean Shipping Company dell’armatore italo-svizzero Gianluigi aponte che è attualmente la seconda compagnia di gestione di linee cargo a livello mondiale. Genova voltri e il terminal vecon di venezia sono stati ceduti nel 1998 al gruppo Psa Port of Singapore authority. Partendo dal suo core business di Singapore, questo terminalista puro ha investito oltre che in italia, anche in Cina (nei porti di dalian, Fuzhou), asia meridionale e nord europa (anversa).
ma non ci sono soltanto i cinesi tra gli investitori privati nei porti del Bel Paese. il maggiore terminalista europeo, il gruppo tedesco eurokai, ha acquisito partecipazioni azionarie nei terminal italiani di la Spezia e Gioia tauro che nel 1999 sono sfociate in una vera e propria acquisizione della società Contship italia. il medcenter Container terminal di Gioia tauro è detenuto oggi per il 33% da Contship, per un altro terzo da apm terminal (società della danese maersk), e per il restante 33% da til terminal investment limited (società riconducibile a msc). nel portafoglio di Contship italia ci sono anche il 50% della società di gestione del darsena toscana Container terminal tdt di livorno, la concessione per il porto di trasbordo di Cagliari, la società di trasporto intermodale Sogemar e interessi nei porti di Salerno e ravenna. nel complesso, soltanto uno dei dieci terminal container italiani con un traffico superiore ai 300 mila teu/anno, il terminal Sech di Genova, risulta non essere sotto il controllo di una società estera; e un altro, il terminal darsena toscana di livorno, è ancora controllato al 50% dalla Compagnia Portuale. Come rileva Sergio Bologna, grande esperto di portualità, l’ingresso di società straniere nei porti buoni di casa nostra era inevitabile: «i terminal italiani, con concessioni di lungo termine nuove di zecca, con canoni concessori relativamente modesti, con un costo del lavoro contenuto se paragonato ai porti del nord europa, un retroterra rappresentato da un mercato di consumo di 65 milioni di persone e da un sistema manifatturiero tra i più forti del mondo, erano assets di grande valore ambìti da multinazionali del mare che cercavano di espandersi in un mercato emergente come il mediterraneo». le rotte est-ovest sono oggi le più importanti: nel 2008 i traffici da oriente a occidente hanno rappresentato il 41,9% del totale mondiale; il 13,4% solo sulla direttrice transpacifica tra nord america e Far east e il 12,3% sulla rotta Far east-europa. nel 2009, nei porti italiani sono transitati 470 milioni di tonnellate di merci, di cui 40 milioni di tonnellate di merci da e per l’estero. Poca cosa, se si fa il confronto con il pri-
Per saperne di più Francesco Russo, I porti container italiani nel sistema euro-mediterraneo (Franco Angeli); Renato Midoro, Claudio Ferrari, Francesco Parola, Le strategie degli ocean carrier nei servizi logistici (Franco Angeli); Bernardino Quattrociocchi, Economia del mare e processi d'internazionalizzazione (Franco Angeli). http://www.informare.it http://www.assoporti.it http://www.worldportsource.com
mo porto europeo e sesto a livello mondiale, rotterdam, che dal 2004 in poi movimenta più teu della somma dei principali porti italiani, ma abbastanza per fare delle banchine tricolori degli approdi molto interessanti per i terminalisti internazionali. Laura Ghio, docente di logistica marittimo-portuale all’Università di Genova, spiega che i porti di casa nostra giocano un ruolo molto importante nel mediterraneo: «Si tratta di un mare strategico perché è al servizio degli scambi intra area e perché è il varco che mette in contatto l’asia con i mercati del Sud e del Centro europa. Sia i porti gateway (Genova, la Spezia, livorno, napoli, venezia, trieste), sia i porti di transhipment (Gioia tauro, taranto, Cagliari) hanno forti capacità attrattive anche per le grandi navi, nonostante questi ultimi subiscano forti pressioni da parte dei nuovi entranti nel mercato mediterraneo». Secondo uno studio di ocean Shipping Consultants, entro il 2015 i flussi futuri di container ammonteranno nell’area mediterranea ad almeno 66 milioni di teu. «adesso - spiega Carlo Vaghi, docente di metodologie di valutazione delle infrastutture di trasporto all’Università Bocconi - il capitale lo detengono i cinesi e la maggior parte dei manufatti che usiamo arriva dalle loro fabbriche. È normale che vogliano gestire la catena produttiva completa». Pechino, del resto, siede su una montagna di dollari che ha accumulato grazie ai surplus commerciali degli ultimi decenni e sta quindi approfittando della crisi per fare shopping nel nostro Paese.
l’ingresso degli stranieri nei nostri porti è ormai fatto compiuto, ma era davvero inevitabile? in un certo senso sì. Come ricorda Sergio Bologna nel suo studio Le multinazionali del mare: «la storia della moderna portualità inizia nel nostro Paese con l’approvazione delle legge 28 gennaio 1994, numero 84; legge che, da un lato ha portato alla ribalta la figura del terminalista, dall’altro ha messo in luce una carenza del sistema capitalistico italiano». dal 1994 il porto è stato riorganizzato radicalmente, si è passati da una governance pubblica dei porti a un modello landlord: ai vecchi enti e consorzi autonomi, sono subentrati nuovi soggetti, in particolare l’autorità Portuale (ap) e le imprese terminalistiche. «noi italiani non avevamo operatori in grado di rappresentare punti di riferimento e attrazione di linea - spiega Renato Midoro, docente di economia e gestione delle imprese marittime dell’Università di Genova -. a lungo non abbiamo avuto una politica dei trasporti e della logistica. i grandi gruppi di trasportatori globali, invece, avevano risorse economiche e competenze per effettuare quegli investimenti che la politica non era riuscita a realizzare». il problema, a questo punto, è un altro.
Tra i dieci maggiori porti commerciali italiani, solo il genovese Sech sfugge all’avanzata straniera
in un contesto globale sempre più competitivo, un terminal container o si allinea a certe performance o chiude. È quanto di recente accaduto a Cagliari, dove msc è andata via trasferendo le proprie rotte al Pireo, oppure a Gioia tauro, dove maersk, prima compagnia al mondo di trasporto marittimo, ha cancellato le propria presenza. Come sottolinea laura Ghio, i porti di transhipment sono più attaccabili: «Fanno solo trasbordo di contenitori verso altra destinazione marittima e la concorrenza di scali vicini più economici è forte. in particolare i porti nordafricani di trasbordo (Port Said e tanger-med, ndr) hanno conosciuto nell’ultimo lustro un vero e proprio boom». l’operatore Hutchinson, per esempio, potrebbe “fuggire” verso il più competitivo e moderno porto di Barcellona, chiudendo del tutto il terminal container di taranto. «a novembre la proprietà ha annunciato 160 licenziamenti - spiega a.Z., un dipendente di lunga data della tct -. la motivazione era troppo assenteismo. Probabilmente la proprietà è abituata a standard lavorativi diversi da quelli italiani: pensa che le persone siano macchine che non si possono mai ammalare; ma chi lavora sotto la pioggia e il freddo delle banchine si ammala e l’assenteismo alla tct è sempre stato nella norma». Hutchinson non sta collaborando al buon esito della trattativa sindacale in corso; la sua ultima mossa, il dirottamento sul Pireo di due linee che equivalgono al 30% del totale dei traffici di taranto, farebbe pensare a un disimpegno dalla Puglia. «Se Hutchinson ed evergreen abbandoneranno taranto per Barcellona - continua a.Z. - a pagarne le spese potrebbero essere non solo i 552 dipendenti di tct, ma anche le altre aziende che traggono lavoro dalla sua presenza. almeno mille famiglie si troveranno in mezzo alla strada e i lavori di ampliamento del porto di taranto, al momento bloccati per colpa della vertenza, non verranno mai realizzati». MAGZINE 19 | marzo 2012
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cina
tutto parte da Canton di Matteo Battistella e Chiara Daina
È il porto simbolo della globalizzazione, una fiera commerciale grande come 160 campi da calcio. Mentre la Cina compra interi pezzi del continente nero, gli africani colonizzano l’eldorado del mercato
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Canton transitano più di un milione di tonnellate di merci. Se dovessimo stiparle in container lunghi sei metri, ne servirebbero 34mila. Canton (Guangzhou in lingua cantonese) è il quarto porto più grande della Cina e il settimo nel mondo, si affaccia sul delta del Fiume delle perle e, per volume di traffici che muove, ha sviluppato intorno a sé una vera e propria fabbrica globale. luxottica, de longhi, Piaggio e vibram spa (leader mondiale nella produzione di suole in gomma) sono solo alcuni dei marchi italiani che passano da qui. il capoluogo della provincia meridionale del Guangdong genera la quota più ampia dell’intero Pil cinese: nel 2010 ha raggiunto 700 milioni di dollari, e qui il reddito pro-capite è di circa 10 mila dollari, contro i 7.400 della media nazionale. la fortuna di Canton sta nell’altissima concentrazione industriale, in particolare nei settori chimico, tessile, edilizio, calzaturiero, pellettiero e metallurgico, che valgono il 30% delle esportazioni di tutta la Cina. Hong Kong è il primo destinatario, in termini di volume, delle merci spedite da Canton, ed è seguita da Stati Uniti, Giappone e Germania. la bilancia commerciale pende dal lato delle esportazioni (56 milioni di dollari circa, contro i 51 milioni del valore delle importazioni), e i fornitori privilegiati rimangono tutti asiatici (Giappone, taiwan, Corea del Sud e malesia, dai quali si acquistano soprattutto beni strumentali, prodotti ottici e combustibili minerali). Questo quadrante del dragone, però, non è attraente soltanto per la sua compulsiva attività industriale: due volte l’anno tutta la scena è occupata dal Canton fair, la più grande esposizione commerciale della Cina (e forse del mondo), che, oltre a vantare il più ricco assortimento di prodotti, conta il più alto numero di visitatori stranieri e di contratti di compravendita conclusi. nella sessione aprilemaggio del 2011, tanto per dare un’idea, alla Canton fair i 24.415 espositori registrati hanno occupato 58.699 stand e hanno interagito con 207.103 acquirenti esteri, con i quali hanno siglato contratti per quasi 36,86 miliardi di dollari. vetrina indiscussa della modernità, Canton vive nei chiaroscuri del suo stesso successo. da tre anni sempre meno cinesi sono disposti a lavorare qui, per i privati aprire un’azienda sta diventan-
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Gni Giorno nel Porto di
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do un sogno proibito e pagare piccole tangenti per garantire l’imbarco delle merci è diventata una pratica all’ordine del giorno. il perché lo spiega Laura Bertolini, 28 anni, da un anno a Canton dopo quattro trascorsi a Shanghai. Con il marito drini, albanese, si occupa di export verso l’italia e l’albania e della logistica per le imprese che vogliono investire lì. Il miracolo industriale di Canton è a rischio? l’aumento del costo del lavoro costringe molte fabbriche a spostare la produzione in periferia, al centro o al nord della Cina, dove il prezzo della mano d’opera è ancora competitivo. la crisi impedisce ai datori di lavoro di alzare le buste paga del 5% ogni anno, come stabilisce la legge, e la gente preferisce ritornare nelle campagne, dalle famiglie. inoltre, il porto di Canton è quello che applica le tasse più onerose perché, sorgendo sulle acque dolci di un fiume, anziché sul mare, è sottoposto a controlli contro l’inquinamento dell’ambiente e a spese per mantenerlo pulito. Qual è il profilo dello straniero che si trasferisce a Canton per fare affari? Prima di arrivare qui ho vissuto a Shanghai, e posso dire che ho sperimentato due modi diversi di lavorare e di essere stranieri. Chi si trasferisce a Shanghai di solito è dipendente di compagnie multinazionali oppure, come succede ultimamente, si trasferisce qui per cam-
La forza di Canton sta nel suo polo industriale, nel quale si produce il 30% delle esportazioni di tutta la Cina, per un valore di 700 milioni di dollari
biare vita o arricchire il proprio curriculum. Si tratta di profili qualificati, come manager, architetti, designer e così via. a Canton, invece, lo straniero è di solito un libero professionista e gestisce un’azienda tutta sua. Qui ci sono mediorientali, russi, kazaki, indiani e anche molti africani, tanto che i cinesi hanno soprannominato Canton “Chocolate city”. Sono qui per trarre profitto dalla febbre da esportazione del dragone: la Cina, oltre ad acquistare materie prime, sta conquistando fette di mercato sempre più ampie per prodotti di scarsa qualità, che sono più abbordabili di quelli occidentali. negli ultimi tempi le autorità cinesi rilasciano con più difficoltà i visti ai businessman africani (che per questo motivo sono spesso senza documenti), perché puntano ad accogliere migranti con alte competenze. La comunicazione tra culture diverse è allo stesso tempo il cuore e il problema del vostro mestiere. Che tipo di difficoltà avete riscontrato? il cliente italiano è più diffidente di quello albanese. non vuole assumersi il rischio che qualcosa possa andare storto. Con gli albanesi, invece, è più facile fare affari, ma in caso di imprevisti è più difficile
che scendano a compromessi: hanno ancora una mentalità antica. Su cosa si focalizza il business di un’azienda come la vostra? Ci dedichiamo principalmente all’esportazione, perché avere un libretto di importazione è difficile. alcuni riescono con merci come il vino e altri prodotti alimentari, pagando tasse onerose però. noi per il momento ci limitiamo ad esportare all’estero accessori in acciaio, alluminio, linee di produzioni, ceramiche, piastrelle e poi facciamo ricerche di mercato per aziende italiane. Verso quali porti sono dirette le merci che fate imbarcare a Canton? approdano a durazzo con destinazione Kosovo o altre città albanesi, o a taranto, da dove proseguono il viaggio per l’albania. Spediamo container anche a le Havre, in Francia e al Pireo di atene. Quanto costa spostare un container? dipende dalle sue dimensioni: la merce viaggia su container da 28, 58 e 68 metri cubi. il primo costa all’incirca 1.400 dollari, ma si tratta di un prezzo indicativo, perché segue le fluttuazioni dei mercati: con la crisi siamo scesi a 1.200 dollari. Poi, ogni tanto, c’è un’ulterioMAGZINE 19 | marzo 2012
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regolamenti
re tassa da pagare, che, scherzando, la chiamiamo la corruption fee. alcuni prodotti sono diventati difficili da esportare, come le materie prime (soprattutto l’alluminio) e i semilavorati. Bisogna quindi trovare un forwarder che aiuti i container a lasciare il porto, cioè un’agenzia di spedizione cinese incaricata di garantire, tramite una xiaofei, ovvero una “mancia”, che la merce lasci il porto. Quantotempoimpieganoicontainer ad arrivare a destinazione? Ci vogliono dai 20 ai 25 giorni. Per le spedizioni di merce fragile (per esempio le deco-
Per saperne di più Don Claudio Burgio, 2011: Non esistono ragazzi cattivi (Paoline); Michel Foucalult, 2011: L’emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto e controllo (VoLo); PIetro Raitano, 2011: Il mestiere della libertà. Dai biscotti alla moda, le storie straodinarie dei prodottti made in carcere (Altraecomonia); Gin Angri e Fabio Cani, 2011: Ex carcere. Viaggio fotografico nell’ex carcere di San Donnino a Como (Nodolibri).
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razioni a led o gli schermi elettronici), quando non riusciamo a riempire un intero container usiamo il trasporto aereo, che richiede dai 3 ai 5 giorni. in questo caso il prezzo al chilogrammo è di dieci dollari fino ai 20 chili, e scende a 10 o addirittura a 5 dollari per carichi via via più pesanti. La Cina è famosa per i prodotti contraffatti: avete avuto esperienze con questo genere di merci? nei mercati di elettronica, pelletteria, orologeria e hardware si trovano tantissimi prodotti di grandi marchi falsificati, addirittura gli accessori e meccanismi per porte e finestre di ditte europee. Spesso originali e copie non si distinguono, viene taroccato anche il marchio. Col tempo i cinesi hanno imparato a copiare design e meccanica italiani e tecnologia tedesca. ora il prodotto taroccato è concorrenziale con quello italiano: nei Balcani, come anche in molte altre aree, ai clienti non importa che il marchio sia finto. Quali sono i settori che tirano di più nella provincia di Canton? Senza dubbio la chimica, il calzaturiero, ma anche l’acciaio e l’edilizia, che trovano una valvola di sfogo anche nel mercato locale, dove c’è una vera e propria corsa alla cemen-
tificazione. le “città invisibili” qua non sono un metaromanzo, ma una realtà tangibile. Per sostenere la crescita del Pil, sembrerebbe che Pechino continui a incoraggiare questa pratica. È così? Sì. Secondo un’inchiesta del programma Datelinedella tv australiana Sbs, ci sarebbero 64 milioni di appartamenti fantasma in Cina. veri e propri monumenti all’eccesso che non risparmiano neppure la provincia di Guangdong, come per esempio il centro commerciale di dongguan, uno dei più grandi al mondo, dove da anni non passa un’anima. Fiore all’occhiello di Canton sono le fiere. Il settore è in continua crescita? anche le fiere sono legate alle oscillazioni del mercato internazionale. le ultime due sono state abbastanza monotone, l’economia in crisi non ha contribuito a portare innovazioni significative nei prodotti proposti. Canton rimane comunque una grande fiera a cielo aperto, quattro-cinque padiglioni sono aperti tutto l’anno e per un occidentale che viene a Canton la prima volta è sempre uno spettacolo indescrivibile.
Lontano dalla costa il regno dell’anarchia Le regole della navigazione nascono soltanto nel Novecento, ma in mare prevale ancora il caos. Tra bandiere di comodo, confini incerti e lotte per conquistare le risorse sottomarine di Valeria Castellano e Gianluca Veneziani
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ltrelalinea dell’oriZZonte c’è qualcosa che non si lascia sottomettere: la matrice delle onde, la distesa anarchica e senza confini del mare aperto». Queste parole, scritte da William langewiesche in Terrore dal mare, sono la fotografia del diritto marittimo, un mondo lasciato a lungo senza regole. Per secoli, infatti, l’unica legge fondamentale dei mari è stata la libertà di navigazione: nessuno Stato poteva impedire o intralciare l’uso degli spazi marini da parte di navi di altre nazioni. la seconda guerra mondiale spinge i Paesi a ridisegnare il quadro. Prima con la Conferenza di Ginevra (1954) e poi con la Convenzione di montego Bay (1982) vengono fissati dei limiti e stabiliti alcuni concetti fondamentali. il primo è quello di “mare territoriale”: ogni Stato è sovrano sulle acque che toccano le sue coste fino a una distanza di 12 miglia. il secondo è quello di “zona economica esclusiva”: ogni Stato ha il diritto di sfruttare le risorse del mare, sia biologiche che minerarie, fino a 200 miglia. Questi principi, tuttavia, vengono ancora facilmente disattesi. «a 30 anni dalla Convenzione di montego Bay - spiega Maria Clelia Ciciriello, già docente di diritto internazionale marittimo all’Università di tor vergata di roma - i regolamenti sui mari mostrano qualche segno di invecchiamento, perché disciplinano una situazione ormai superata. Per esempio, non tengono conto di alcuni fenomeni, come quello della crypting jurisdition (giurisdizione occulta). Gli Stati oggi tendono a superare i confini territoriali e a spostarsi verso il largo, governando gli spazi di mare aperto. È la dimostrazione che i mari non sono più solo luoghi per navigare, ma bacini di risorse, soprattutto energetiche: gli Stati se ne impadroniscono, per poi sfruttarle». Questa situazione di “anarchia control-
lata” è favorita dalla normativa internazionale. la Convenzione di montego Bay, per definire le acque non soggette al controllo diretto di alcuno Stato, usava il termine classico di “alto mare” (art. 86 ss). Su queste aree si applica ancora il vecchio principio della libertà: tutti gli Stati hanno uguali poteri. ogni nave soggiace soltanto alle regole dello Stato di cui ha la nazionalità; solo quella nazione ha il diritto di governare, regolare, punire ciò che avviene all’interno del convoglio. inoltre, come prevede la Convenzione delle nazioni Unite del 1986, deve esistere un legame sostanziale tra la nave e lo Stato (genuine link). Un’imbarcazione può essere immatricolata nei registri di una nazione soltanto quando nella sua proprietà, o nel suo equipaggio, c’è un numero di cittadini di quello Stato tale da assicurare il controllo del Paese sulla nave. Spesso però, nelle acque internazionali, le navi non fanno capo ad alcuna nazionalità riconoscibile. «tra imbarcazioni che
battono “bandiere di comodo” e altre che arruolano nel proprio personale di bordo una quantità prevalente di marinai stranieri - continua la professoressa Ciciriello - il concetto di “navi nazionali” è diventato molto fluido. Bisogna comunque distinguere tra Stati di bandiere ombra che riescono ad avere il controllo sulle navi e Stati cui sfugge del tutto questa giurisdizione: sono questi ultimi a subire i maggior danni. va detto anche che utilizzare bandiere di comodo conviene soprattutto agli armatori: in questo modo possono pagare meno tasse, godere di tutele previdenziali e beneficiare di immunità che altrimenti non avrebbero». ancora più preoccupante per il controllo degli Stati sulle imbarcazioni è il fenomeno della pirateria che «minaccia sia le navi nazionali che gli interessi della comunità internazionale». nonostante l’estensione dei regolamenti, insomma, certe dinamiche dei commerci marittimi continuano a eludere la sorveglianza degli Stati. Una tendenza figlia della natura stessa del mare, da sempre sfuggente, per estensione, materia e moto, a ogni concetto di cittadinanza o di territorialità. diceva Carl Schmitt: «la terraferma appartiene a una mezza dozzina di Stati sovrani, mentre il mare appartiene a tutti o a nessuno. Questa è la legge fondamentale».
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criminali
Un mare d’illegalità di Antonio NAsso
Da Gioia Tauro a Bari, da Venezia ad Ancona, i porti italiani sono un tassello importante delle grandi rotte del commercio clandestino. Un affare da miliardi di euro che ruota intorno ad armi, droga e rifiuti
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annoni da GUerra, viagra “cinese” e false Ferrari, ma soprattutto una pioggia costante di cocaina, marijuana, sigarette e rifiuti di contrabbando. esattamente come avviene per gli scambi legali, anche il mercato globale del crimine utilizza il mare come porta d'ingresso privilegiata nel nostro Paese. in parallelo, e spesso sovrapposto, alle rotte e ai carichi ufficiali. nei porti italiani passano ogni anno più di un milione di container “sospetti”: in parte sono destinati al mercato europeo, in parte al consumo interno della penisola. il giro d’affari della merce illegale vale diversi miliardi di euro e quasi sempre è collegato alle grandi organizzazioni criminali internazionali, che utilizzano i diversi scali a seconda della convenienza rispetto alle rotte e alla possibilità di far entrare più o meno facilmente i loro carichi clandestini. i flussi paralleli disegnano una vera e propria mappa dell'illegalità con merci, rotte e destinazioni precise, come emerge dai dati sul 2011 raccolti ed elaborati dall'agenzia delle dogane: «di solito - spiega Edoardo Mazzilli, responsabile dell'ufficio investigazioni - le merci illegali sono nascoste in mezzo a carichi dichiarati: in un container da 40 piedi si possono stipare anche 40mila chili di merce all'apparenza più che legale. Quando si aprono i container, però, oltre le prime file di scatole ci sono piccoli cunicoli nei quali sono nascosti prodotti di contrabbando». il porto più battuto dalle guardie doganali è quello di Gioia tauro, noto per essere al centro del commercio di cocaina (354 chili sequestrati in un anno) proveniente dal Sud america, in particolare da Colombia, ecuador e Panama. Gioia tauro è l’hub principale della polvere pura destinata alla Spagna e al nord italia (verso Savona e Bologna), ma lo scorso anno è stata superata da livorno (dove sono sbarcati almeno 1.200 chili di coca cilena) e da la Spezia (974 i chili intercettati in arrivo dalla repubblica dominicana). il mercato della polvere bianca vale in europa 33 miliardi di dollari, nel 2009 era alimentato da 20 milioni di consumatori di età compresa tra i 15 e i 64 anni, e la sua espansione non si arresta grazie al prezzo sempre più abbordabile delle dosi, come certifica l’Unodc, l’agenzia dell’onu per le droghe e i crimini. in dieci anni in italia il costo al grammo è passato dai 135 euro del 1999 ai 99 del 2009, mentre nel resto d'europa tra il 2006 e il 2009 si è dimezzato, passando da 120 a
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60 euro. tra il 1998 e il 2006, così, il consumo è raddoppato ed è giunto a quota 123 tonnellate l'anno. Bari è invece la capitale adriatica dello smistamento di marijuana proveniente dall'albania (1.424 chili confiscati nel 2011) e destinata a Firenze, taranto e napoli. «l’eroina - aggiunge mazzilli - è stata ormai soppiantata dalla cocaina. Solitamente arriva pura, oltre che a Gioia tauro, anche nei porti dell'adriatico. la marijuana, invece, sbarca dall'albania ad ancona e Brindisi». «non possiamo controllare ogni singolo camion o container che arriva in porto - continua il responsabile dell’ufficio investigazioni dell’agenzia delle dogane - sia perché non basterebbe tutto l'esercito italiano schierato (e noi siamo solo 9mila), sia perché così si ucciderebbe ogni tipo di commercio via mare. operiamo analizzando i profili di rischio calcolati da un nostro ufficio ad hoc, basandoci sui Paesi di provenienza, sul tipo di merce, sulle ditte coinvolte e su segnalazioni nazionali o internazionali. il tutto viene inserito in un database informatizzato in cui ogni merce è classificata con un codice attraverso il quale è possibile ricostruire lo storico di ogni singolo carico e di ogni singola spedizione». a ogni tipo di merce illegale, infatti, è associato un livello di rischio legato al Paese d'origine. ovviamente le organizzazioni criminali sono rapidissime nell'abbandonare una rotta “storica” e cambiare tutto anche in 24 ore: «Quando la risposta delle forze dell'ordine “chiude” di fatto un porto ai loro commerci illeciti - spiega mazzilli - loro ne trovano un altro, e di solito cercano di mandarlo in tilt sommergendolo di container, ben sapendo che noi non possiamo controllarli uno per uno». anche e soprattutto nel caso dei traffici di droga, però, vale l’adagio “fatta la legge, trovato l'inganno”: in alcuni porti, come per esempio quello di dubai e in molti lungo le coste asiatiche, le navi container partite da un Paese possono “cambiare nazionalità” e ripartire come provenienti dal porto di transito. «Si tratta di vere e proprio “lavande-
Per saperne di più Giorgio Pietrostefani, Geografia delle droghe illecite: guerra alla droga: droga alla guerra (Jacka Book); Alfredo Mantovano, Miliardi in fumo: sviluppo, prevenzione e contrasto del contrabbando (Manni); Ministero degl Interni, Rapporto sulla criminalità (www.interno.it); United Nations Office on Drugs and Crime, World Drug Report 2011 (www.unodc.org)
rie” dei documenti di carico - sottolinea mazzilli - in cui una nave di qualunque provenienza, dopo una sosta di un paio di giorni, può ripartire con i dati di provenienza modificati. in questo modo si cerca di aggirare le nostre valutazioni di rischio, perché è ovvio che se un carico di vestiti arriva dalla Cina scatta un campanello d'allarme, ma se invece il Paese d'origine appare più “tranquillo” ci sono meno controlli». tra i Paesi più attivi nella contraffazione delle bolle di spedizione ci sono gli emirati arabi, che per questo motivo risultano il principale esportatore in italia di merci contraffatte: da loro proviene il 72,7% di quanto sbarcato e intercettato nel 2011, mentre al secondo e terzo posto ci sono la Cina, con il 20,9%, e la Grecia, con il 4,6%. e proprio dagli emirati sono arrivati sempre a Gioia tauro quasi 22 milioni di pillole blu clandestine contenenti il sidenafil, il principio attivo del viagra. a vivere una nuova primavera, poi, è il contrabbando di tabacchi: il traffico di “bionde” aveva avuto il suo apice negli anni ‘90, nella zona
«Non possiamo controllare ogni singolo container che arriva in porto. Non basterebbe l’esercito italiano schierato e noi siamo solo novemila»
intorno a napoli, e adesso è tornato a fiorire alla volta del mercato europeo. lo scorso anno, nei porti della penisola sono stati sequestrati quasi 10 milioni di pacchetti di sigarette, provenienti da Grecia ed emirati arabi e diretti soprattutto ad ancona (2 milioni e 400mila pacchetti), Goia tauro, Brindisi e Cagliari (circa 1 milione ciascuna), e venezia (700mila). Sottobanco passano stecche di lm, tradition, Gold Classic e richman, tutti marchi rari e poco diffusi in italia. «Questi carichi - specifica mazzilli - transitano nel nostro Paese e proseguono verso il nord europa, soprattutto la Gran Bretagna, dove i tabacchi hanno prezzi molto elevati per le accise. È lì, dunque, che i trafficanti di tabacchi realizzano rilevanti margini di guadagno». a essere contrabbandati, poi, ci sono anche i profilattici: nel 2011 carichi per 3,5 milioni di pezzi provenienti dalla Cina sono stati intercettati a Gioia tauro, da dove sarebbero ripartiti per l'albania. i porti italiani, poi, sono attivi anche nella movimentazione dei rifiuti illegali: sempre nel 2011 a venezia sono passate almeno 3.290 tonnellate di metalli provenienti dalla russia e destinati a Brescia, mentre a Genova sono state sequestrate più di mille tonnellate di rifiuti plastici destinati alla Cina. nella mappa dell'illegalità marittima nostrana non mancano ovviamente i casi eclatanti, come la Ferrari “made in China” da 3 milioni di euro sequestrata a venezia nel 2008 e i 4 cannoni da guerra trovati lo scorso anno ad ancona su un camion polacco proveniente dalla Grecia e diretto in Belgio. Sul fronte delle merci contraffatte, infine, gli ufficiali dell’agenzia delle dogane hanno sequestrato quasi 30 milioni di pezzi solo nel 2011. Un dato importante ma in calo, che segnala un nuovo e preoccupante trend: «Soprattutto per quanto riguarda i vestiti di contrabbando conclude mazzilli - oggi si utilizzano porti di Paesi europei che per minor efficienza (ma anche nel tentativo di lucrare sull'economia criminale) sono più facili da “bucare”. e non si tratta solo dell'est europa, ma anche di alcuni importanti Paesi fondatori della Ue». MAGZINE 19 | marzo 2012
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REPERTI
i tesori degli abissi Sul fondo degli oceani si nascondono i resti di oltre tre milioni di navi. Tra localizzazione e recupero, le operazioni costano fino a centomila euro al giorno. Così i relitti preziosi sono gli unici a tornare a galla di Paolo Frediani
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Utta la teCnoloGia
utilizzata per il recupero relitti nasce in ambito oil & Gas. Per sollevare una nave affondata è necessario imbragare lo scafo, creando lo spazio necessario attraverso delle pompe che risucchiano acqua e detriti, e poi riportarlo in superficie con la gru di una motonave. oppure, ci sono altri sistemi di invenzione più recente: «Spesso - spiega l’ingegner Marco Bartolini, titolare della nirvana offshore, specializzata in servizi e tecnologie per lo studio dei fondali marini - si riempie l’imbarcazione con dei palloni d'aria. Se si riesce a creare lo spazio necessario, è un sistema molto efficiente: un litro d'aria sott'acqua può sollevare una tonnellata». «Un'altra tecnologia ormai disponibile -continua - consiste in navi semisommergibili capaci di contenere l'imbarcazione da recuperare. Queste possono immergersi, posizionarsi sotto il relitto, e poi riemergere». individuato il relitto, entrano in azione i rov: robot sottomarini comandati a distanza capaci di scendere sino a quasi 5mila metri di profondità. dotati di telecamere e pinze, possono spostare oggetti, effettuare tagli e saldature. dopo secoli sott'acqua, il legno delle imbarcazioni diventa estremamente fragile, ed è forte il rischio di frantumare lo scafo. Così, spesso ci si limita a recuperare il contenuto dei relitti. alle volte, le navi ed il loro carico sono facilmente accessibili, ma la lentezza della macchina
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Periodico realizzato dal master in Giornalismo dell’Università Cattolica - almed © 2009 - Università Cattolica del Sacro Cuore
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direttore matteo Scanni coordinatori laura Silvia Battaglia, ornella Sinigaglia
pubblica lascia via libera ai tombaroli del mare che si arricchiscono saccheggiando i fondali. riportare sulla terraferma una nave affondata, inoltre, può costare da alcune decine di migliaia a oltre centomila euro per ogni giorno di ricerca, e può richiedere settimane. Per lo più i recuperi avvengono in caso di tragedie, quando si debbono salvare vite umane, ripescare corpi, evitare danni ambientali. in questi casi infatti, paga lo Stato. anche relitti di immenso valore storico e archeologico spesso vengono lasciati sui fondali, accessibili solo con spedizioni subacquee. non mancano, però, le eccezioni: nel 1998 al largo di Gela è stato scoperto un mercantile greco del 500 a.C. recuperato definitivamente nel 2008 con una motonave normalmente utilizzata nella raffineria locale. la società americana specializzata in operazioni ad
alta profondità odissey marine exploration entro la fine dell’anno conta di portare a terra il carico di due navi inglesi affondate nella prima metà del novecento: 230 tonnellate d’argento, per un valore di quasi 200 milioni di euro. la prima difficoltà da affrontare in questa caccia al tesoro d’acqua fonda è l’individuazione dello scafo. a volte i ritrovamenti avvengono per caso, nel corso di spedizioni subacquee con tutt'altri fini. altre volte sono frutto di ricerche mirate che possono richiedere anni. Un esempio? nonostante i suoi 240 metri di lunghezza, la corazzata roma (gioiello della marina italiana durante la seconda guerra mondiale affondata nel 1943 dall'aeronautica tedesca) non è ancora stata ritrovata. Un insuccesso che non ha mancato di alimentare polemiche e leggende.
redazione matteo Battistella, Giuseppe Borello, Francesca Bottenghi, enrico Camana, luciano Capone, valeria Castellano, Francesco Colamartino, Francesco Collina, alessandro Cracco, Stefano de agostini, michele d’onofrio, Chiara daina, Giulia destefanis, danilo elia, arianna Filippini, Giacomo Galanti, Simone Giancristofaro, Giuliana Grimaldi, Cosimo lanzo, alessandro massini innocenti, Francesco mattana, Giovanni naccarella, antonio nasso, Chiara Panzeri, luca Pierattini, rosa ricchiuti, denis rizzoli, eleonora rossi, Gabriele russo, Stefania Saltalamacchia, alessio Schiesari, Giacomo Segantini, Bianca Senatore, Francesca Sironi, matteo Sivori, linda Stroppa, andrea tundo, Gianluca veneziani, vittoria vimercati amministrazione Università Cattolica del Sacro Cuore largo Gemelli, 1 20123 - milano tel. 0272342802 fax 0272342881 magzinemagazine@gmail.com
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