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UNO 2007
Master in giornalismo - UniversitĂ Cattolica del Sacro Cuore Milano
foto di copertina Laila Pozzo
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Il mestiere di giornalista. Crepuscolo o alba?
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La stampa e i suoi cannibali di Giacomo Susca
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Come si diventa giornalisti di Davide Galli
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Sulle orme dei cronisti da film di Laura La Pietra
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Il mondo a casa nostra, vite da corrispondenti di Eugenio Buzzetti
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Ultime notizie dal fronte, rischi e censure di guerra di Simona Sincinelli
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Keep on reporting di Alessandro Giberti
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Maledetta pubblicitĂ tutto gira intorno a lei di Daniela Verlicchi
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Un cronista per la scienza di Daniele Montanari
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Spie in redazione, se il giornalista si crede 007 di Pierpaolo Lio
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Ridere senza Cuore di Igor Greganti
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Lo sport si racconta con i numeri di Luca Balzarotti
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Fratelli separati alla nascita di alessandra Farina
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Siamo figli di un Dio minore? di Giacomo Susca
Una produzione Master in Giornalismo a stampa e radiotelevisivo, Almed, UniversitĂ Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Corso di tecniche di impaginazione e teorie del desk Professori Claudio Castellacci e Federico Mininni, coordinamento Tino Mantarro Anno Accademico 2006/2007
3 All’alba degli anni Ottanta, usciva un’inchiesta dal titolo «Il crepuscolo dei giornalisti». A dirigere il coro della polemica era il giornalista Massimo Fini
Il mestiere di giornalista Crepuscolo o alba? Un quarto di secolo più tardi gli studenti del Master di Giornalismo dell’Università Cattolica riprendono i temi della polemica e raccontano il mestiere di giornalista all’alba del terzo millennio
Ventisei anni fa, per l’esattezza: era l’aprile del 1981, il Corriere Medico, quotidiano che faceva allora parte dell’Editoriale del Corriere della Sera, pubblicava nel suo inserto culturale monografico del sabato (a cura di Claudio Castellacci) un’inchiesta dal titolo «Il crepuscolo dei giornalisti», ovvero «Carta stampata: crisi di una professione», illustrata dai disegni dell’allora sconosciuto Franco Matticchio. Qui accanto è riprodotta la copertina dell’inserto. Si partiva da una tesi di fondo, sostenuta dal giornalista Massimo Fini, secondo cui era «opinione diffusa che dopo il ’68 la stampa italiana avesse conosciuto una straordinaria stagione di libertà, di anticonformismo, di indipendenza dal potere politico», ma che questa stagione si fosse, allora, appannata.
I famigerati anni Cinquanta Possibile che i famigerati anni Cinquanta – quelli che lo scrittore e giornalista Oreste del Buono aveva bollato come «i peggiori anni della nostra vita» – erano stati più liberi e più veri di quella «meravigliosa» alba degli anni Ottanta che si stava allora vivendo? Massimo Fini polemizzando con un articolo apparso sull’Unità – in cui si tessevano le lodi di un evoluzionismo giornalistico in cui avrebbe preso corpo un modo nuovo di fare informazione, basato sul gusto della scoperta, dell’indagine, del confronto – scriveva di essere spiacente per coloro che «per propria impostazione ideologica, sono costretti a pensare che la storia evolva costantemente per il meglio fino alla liberazione finale, ma tutto questo non è vero. Non è vero che il '68 abbia coinciso con una maggiore libertà della stampa e dei giornalisti. Nel '68 il conformismo cambiò solo di segno, da destra passò a sinistra». E via di seguito, con tutto un elenco di fatti che dimostravano come la stampa nostrana sarebbe stata «quanto di più prona al potere politico, di meno indipendente, di più conformistico che sia mai stato dato di vedere in Italia».
La stampa house organ della politica Cosa diceva Fini? Che la stampa è l’house organ del potere politico e strumento di consenso («Basta vedere la sequela di interviste ad uomini politici che occupano le pagine dei nostri maggiori quotidiani e settima-
nali»). Che una volta il giornale era il portavoce degli interessi del cittadino e ora è il contrario. Che dal giornalismo è scomparsa la storia, il racconto. Al suo posto ci sono la politica o gli interessi pseudoculturali di una ristretta cerchia di personaggi (e qui citava un’inchiesta di copertina di Panorama dal titolo «Come si divertono gli italiani» dove si scopriva che gli italiani-tipo erano la duchessa Marina Lante della Rovere, la contessina Ilaria Agnelli, il comunista di lusso Lucio Lombardo Radice). L’analisi di Fini era impietosa. Passava dallo spiegare i meccanismi di controllo di un’azienda editoriale, all’accusare di connivenza i sindacati dei giornalisti e dei poligrafici. Perché mai? «Perché l’assistenzialismo ha fatto comodo agli editori e ai sindacati, ma ha assassinato la professione. Si è preferita la sicurezza alla libertà». Con il risultato di aver creato il fenomeno delle concentrazioni che permette a due o tre grandi gruppi editoriali di controllare contrattualmente i giornalisti più prestigiosi e a dettare le condizioni per restare nel giro. «Uscire da uno di questi gruppi significa infatti non avere alternative o averne pochissime, significa rinunciare alla firma, alla notorietà, al denaro per andare a lavorare alla periferia degli Imperi o fra i loro interstizi. Pochi sono disposti a fare questa scelta». Insomma l’equazione di Fini non faceva, già allora, una grinza. Diceva: «Se il giornalista non ha mercato non ha neppure alcuna capacità contrattuale. E non ha libertà». Ma non solo. «Oggi il mestiere è mono-
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polizzato da una burocrazia pseudointellettuale, amorfa, paurosa quanto avida che non vuole correre rischi, che non vuole sorprese e che, per questo, è sostanzialmente disposta a dire sì a tutto».
È arrivata l’epoca del samizdat Non mancava la ciliegina sulla torta su cui puntare il dito, ovvero la neo-nata classe manageriale a cui le aziende – passate da una conduzione familiare a una industriale – avevano affidato le loro sorti. Scriveva Fini: «Al manager, il giornalista scadente [NdA, col senno di poi oggi suggeriremmo a Fini di aggiungere la dizione: «Direttore scadente»] va a meraviglia perché gli permette di essere il vero dominus della situazione». L’ultima annotazione riguardava le «nuove tecnologie» che non erano, in quell’alba degli anni Ottanta, le «nuove tecnologie» a cui penseremmo oggi, bensì si trattava della fotocomposizione che stava rimpiazzando le vecchie linotype a piombo e che già faceva intravedere notevoli risparmi nei costi di gestione, risparmi che qualcuno si illudeva avrebbero favorito la nascita di nuove iniziative editoriali. «Più che una speranza è un’illusione», chiosava Fini. «Per chi ha amato questo mestiere così bello e affascinante è venuta l’epoca del samizdat».
Un coro (pressoché) unanime A questo «j’accuse» si affiancavano, nell’inchiesta, altre voci autorevoli. Giorgio Bocca concordava con Fini che il giornalismo di informazione aveva perso l’appuntamento con l’editoria autonoma, che si era arrivati all’assurdo di un convegno di giornalisti in cui si era teorizzato che dovere del giornalista stesso non era dare le informazioni, ma difendere le istituzioni. Paolo Pietroni, all’epoca direttore del Corriere Medico, il quotidiano che
ospitava l’inchiesta, scriveva che il giornalista, da Piccolo Faraone era diventato Grande Impiegato e che se, all’epoca, avesse potuto ancora scegliere cosa fare da grande avrebbe detto: «Il giornalista, mai». Guido Gerosa intervistava Gianni Mazzocchi, un mito dell’editoria – l’uomo che aveva inventato e creato Domus, Il Mondo, l’Europeo, Quattroruote – che gettava acqua sul fuoco dicendo di non vedere poi così tanta decadenza. «Sono i tempi che cambiano. Certo il giornalismo di trent’anni fa era brillante, ma devo dire che i giornali oggi sono ben fatti tecnicamente. Sono faziosi, ma perché vogliono esserlo». Qual è, dunque, la differenza tra il grande giornalismo di ieri e quello di oggi, chiedeva infine Gerosa a Mazzocchi. «Oggi il giornalismo è stato ucciso dalla televisione. Allora c’era la gioia di poter scrivere e la gioia di leggere. Oggi la gioia di poter scrivere non so se ce l’hanno questi giovanotti; ma la gioia di leggere ce n’è certo ben poca». Gian Franco Vené, inviato di punta dell’Europeo, se la prendeva con i direttori-manager che badano più agli interessi dell’azienda che a quelli del pubblico, confezionando giornali sempre più pieni di opinioni e meno di storie. Che bisogno c’è di buoni cronisti, si chiedeva polemico Vené, in giornali che hanno come unica mira quella di fare opinione? Mario Pasi, critico musicale del Corriere della Sera, ironizzava su quanto erano grigi gli anni Cinquanta e su quanto invece erano belli i nuovi giornali con le loro specializzazioni: dai problemi dei giovani a quelli della donna, dello stomaco, dell’ambiente e così via. «I giovani cominciarono a firmare pezzi ventiquattro ore dopo la assunzione, i titoli migliorarono, così come le foto, la grafica, i contenuti. Ora sì che il giornale è un servizio. Resta un dubbio», si chiedeva però Pasi «perché solo il 7 per cento degli italiani compra un quotidiano?».
I giornali si assomigliano tutti L’intervento di Gianni Mura, inviato di Repubblica, cronista sportivo erede del grande Gianni Brera, era lapidario: «I nostri giornali si assomigliano tutti, invertendo i redattori il prodotto non cambia. Quando abbiamo cominciato noi il sogno era fare l’inviato. Non dico Pechino o Parigi, bastava Parma o Cuneo. Si parlava molto poco di audience e di target. I manager dovevano ancora essere inventati e non se ne sentiva la mancanza. Il nostro è ormai un mestiere di gente seduta. Possibilmente davanti al televisore, specie i direttori. I giornali sono pieni di inviti a accendere la tivù, di programmi tivù, di personaggi tivù, tanto che ci si potrrebbe chiedere a chi conviene che i giornali facciano da cassa di risonanza alla tivù». Solo Natalia Aspesi si tirava fuori dal coro citando come esempio di buon giornalismo le pagine culturali di Repubblica e delle sue prestigiose firme. «A me sembra che poter leggere un bell’articolo al giorno sia già molto». Quello su cui era invece d’accordo con gli altri era sulla classe manageriale. «Quelli sì che sono peggiorati. Mettono insieme delle porcherie che anche l’ultimo giornalaio gli direbbe: dottore non lo faccia; poi fanno un buco enorme, previsto da tutti ma non da loro. Si autopuniscono? Neanche per sogno, dicono: tutta colpa dei giornalisti».
L’inchiesta degli studenti Insomma, queste le premesse. Un quarto di secolo dopo abbiamo voluto chiedere agli studenti del secondo anno del Master di Giornalismo a stampa dell’Università Cattolica di Milano, anno accademico 2006/07, di riprendere il tema e di raccontare oggi il mestiere di giornalista analizzato in dodici suoi aspetti – tanti quanto il numero di studenti permetteva. Il risultato è quello che segue.
«I manager? Mettono insieme delle porcherie che anche l’ultimo giornalaio gli direbbe: dottore non lo faccia; poi fanno un buco enorme, previsto da tutti ma non da loro. Si autopuniscono? Neanche per sogno, dicono: tutta colpa dei giornalisti»
7 Un mestiere affascinante ed emozionante ridotto a misero lavoro impiegatizio. Fenomenologia di una professione in declino
La carta stampata e i suoi cannibali Altro che alba, a ventiseanni di distanza dal suo allarme:“hanno assassinato la nostra professione”, Massimo Fini raddoppia. La colpa della crisi? Sempre della televisione. Ma anche del sindacato e degli editori di Giacomo Susca
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Massimo Fini, le chiediamo un nuovo giudizio venticinque anni dopo il suo perentorio «hanno assassinato la nostra professione». È stato trovato il colpevole dell’omicidio? Torno a ripetere quello che avevo già sostenuto agli inizi degli anni Ottanta. Il declino della carta stampata, anzi, non si è arrestato ma acuito. I responsabili sono diversi, però la prima indiziata resta la televisione. Oltre ad averla uccisa, la tv ha cannibalizzato il giornalismo attraverso i propri contenuti. E questo dispiace perché la stampa non sembra in grado di sfruttare la potenzialità che le appartiene: l’approfondimento delle notizie. Invece i direttori di giornali preferiscono sprecare ogni giorno otto-nove pagine con le chiacchiere della “politica politicante”. Un processo che si era manifestato agli inizi degli anni Settanta la politica ha messo le mani sull’informazione e da allora non l’ha più mollata. Un peccato, ribadisco, poiché tv assassina non può, per sua natura, approfondire. Altro che alba, allora, stiamo assistendo a un definitivo crepuscolo… La chiusura dei giornali tradizionali è probabile, ma tutta da dimostrare. Piuttosto è la che tecnologia ha preso il sopravvento sui saperi e sull’interpretazione dei fatti. Nelle case dei giornalisti non c’è più una biblioteca, solo internet e schermi al plasma. I nuovi media se ne avvantaggiano, però si tratta di una perdita secca per il giornalismo. Se da un lato, infatti, si aprono spazi di libertà – che tuttavia sono inverificabili – dall’altra si
Foto di Laila Pozzo , disegni di Franco Matticcio
rafforzano i vecchi poteri economici e politici che dominano la scena dei mezzi d’informazione. Non possiamo farci nulla, è un trend da accettare così com’è. E le scuole, i master, i corsi di laurea in giornalismo? Si può ancora diventare giornalisti, quando questi sono in via d’estinzione? Non ho mai creduto alle scuole di giornalismo, al massimo hanno qualche utilità per introdurre i giovani nell’ambiente attraverso gli stage. Il nostro è un mestiere che si apprende facendolo; come diceva
qualcuno, è “un mestiere che si fa con i piedi prima ancora che con la testa”. Oggi, grazie al mercato asfittico e al precariato senza garanzie, assistiamo a una selezione al contrario della forza lavoro. Tradotto: i più talentuosi si arrendono e vanno avanti i più scaltri, che molto spesso non sono i più bravi. Mentre gli editori hanno speculato, la responsabilità di tutto ciò è anche del sindacato. Se i giornali non hanno al proprio interno un ricambio generazionale, si finirà come l’Unione Sovietica
che è morta per autosoffocamento. Sbagliato aver difeso in passato qualsiasi posizione, compresi i nullafacenti. Il ’68 aveva un’ideologia di fondo. I giovani non devono imparare dagli adulti. Un’autentica idiozia. D’altronde nelle redazioni si è spenta la passione a insegnare, a far riscrivere dieci volte i pezzi che non vanno. E quindi i ragazzi si ritrovano a imparare un mestiere teorico in laboratori asettici, le scuole, che spesso non hanno nulla a che vedere con la realtà del mercato. Difficoltà che sono alla base del conflitto tra editori e sindacati a proposito del rinnovo del contratto nazionale di lavoro giornalistico, che manca da oltre 800 giorni. Ripeto che ho pochissima stima di quello che fa e sostiene il sindacato. Bisogna ammettere comunque la colpevole intenzione degli editori a non sottoscrivere un nuovo contratto: avere alle dipendenze giornalisti malpagati significa controllare meglio quello che scrivono. L’autonomia professionale è legata alle retribuzioni. Utilizzare i giovani senza assumerli è una canagliata, considerando che spesso i giornali sono oberati da gente, coperta da ogni tutela, che non lavora affatto. E così lavora di più chi sta fuori dalle redazioni, cioè i collaboratori. È condivisibile lo sciopero per questa causa?
Probabilmente è uno strumento utile, a patto che aderisca tutta la categoria. E questo mi sembra negli ultimi mesi non sia accaduto. Vertenza sindacale a parte, qualcuno mette in discussione l’esistenza stessa dell’Ordine. Lei cosa ne pensa? L’Ordine, al momento, serve a ben poco. Inutile l’esame di Stato, perché sei giornalista solo se un editore ti assume. Poi c’è un problema, anche etico, riguardo a chi ha il potere di selezionare chi merita di entrare a far parte della professione. Ma l’etica è caduta da tempo e l’Ordine non ha fatto nulla per riaffermarla. Quanto al potere disciplinare, che dovrebbe giustificarne la sopravvivenza, è soltanto simbolico oltre che pericoloso. Ha parlato di etica. Uno dei nodi fondamentali è il rapporto tra pubblicità e informazione. Oggi tutto è più importante dell’articolo che si scrive, della notizia, a partire dall’aspetto grafico. Assistiamo a un totale piegarsi alla pubblicità, invece noi giornalisti su questo punto abbiamo sempre voluto illuderci del contrario. I giornali nascono e muoiono per gli interessi politici ed economici che ci sono dietro, a causa degli investimenti sempre maggiori che necessitano. Un quarto di secolo dopo l’articolo su Speciale Sabato, purtroppo, questi ele-
menti nocivi sono andati degradandosi e accentuandosi. Che i giovani abbandonino ogni speranza di entrare nel mondo, ormai diventato mitico, del giornalismo? Nonostante tutto, quando il giornalismo può essere fatto davvero è un mestiere così bello e affascinante, perché ti fa vedere il mondo con occhi diversi, che esercita un fascino irresistibile. Per riuscire serve una determinazione feroce e massima disposizione al rischio, compreso il precariato a oltranza. L’importante è non morire sul desk, questo è un lavoro che si fa 24 ore su 24. Evitando di rinchiudersi nelle gabbie dorate delle redazioni. Missione o vocazione? Dovrebbe essere una vocazione. Si dice che il giornalista nasca orfano e muoia vedovo. Purtroppo oggi è ridotto a impiegato. È desolante, lo riconosco. Invece la prima caratteristica del reporter deve essere la curiosità, l’intelligenza selettiva. Le strutture lavorative impediscono di utilizzarle entrambe. Per chiudere: cosa non è cambiato rispetto agli anni Settanta, origine temporale dei mali del giornalismo italiano? Niente è come ieri, a parte alcune (abili) firme. La novità vera sono i nuovi mezzi, anche se la storia insegna che il loro uso è spesso stato impoverente. Il filosofo Umberto Galimberti sostiene che psiche e technè debbano andare insieme, altrimenti si crea uno scollegamento drammatico. Infatti la realtà sociale, rispetto al mondo ricreato sui giornali, appare scollegata. Così come la libertà, agognata sui media del futuro, se fine a se stessa ha poca incidenza sulla vita reale. Io stesso ho creato il mio Movimento Zero tramite un blog, ma poi ho deciso di chiuderlo: si finiva per parlarsi addosso senza costrutto. Ancora oggi è preferibile incontrare la gente in carne e ossa.
10 Nell’ultimo decennio si sono moltiplicate le scuole di giornalismo che ogni anni consentono a circa trecento praticanti di accedere all’esame di Stato
Come si diventa giornalisti Crolla il mito del reporter che si forma solo sul campo, oggi per intraprendere la professione e affrontare le sfide dei nuovi media serve preparazione culturale e deontologica. di Davide Galli Giornalisti si nasce o si diventa? Domanda retorica, questione oziosa. Perché ci si potrebbe chiedere la stessa cosa per qualunque altra professione. E la risposta sarebbe sempre la stessa: le doti, le qualità naturali, l’istinto si possono avere solo dalla nascita, per dono e non per merito. Ma il mestiere e le sue tecniche no, con le inclinazioni hanno poco a che fare. Nel caso del giornalismo, a riprova della necessità di imparare il mestiere, ci sono le istituzioni deputate a questo insegnamento, le scuole. Giornalisti si diventa, dunque? Sì, ma non in un modo soltanto. I giornalisti di oggi, e i giornalisti di domani, si dividono infatti tra quelli formati sul campo, e quelli usciti dalle scuole. La differenza, tra loro, non si intuisce a prima a vista, ovviamente. Nessun marchio sta impresso a indicare questa o quell’appartenenza. Però un dato è sicuro: le scuole di giornalismo negli ultimi anni si sono moltiplicate. Con la conseguenza che si sono moltiplicati anche i giornalisti che in queste si sono formati. Oggi, le scuole esistenti in Italia sono sedici. Ogni anno consentono a 15-20 aspiranti professionisti di accedere all’esame di Stato. Facendo il calcolo, si ricava un totale di quasi 300 potenziali giornalisti «scolastici» all’anno. E il dato è solo provvisorio, destinato presto a crescere. Perché le scuole hanno avuto una vera proliferazione nell’ultimo decennio.
Da qui, una certezza: il futuro del giornalismo sarà sempre più segnato da professionisti di scuola, e meno di campo. Del resto, già oggi la possibilità di svolgere un praticantato in redazione è una rarità, che rasenta il miraggio. Questa situazione, dunque, cosa porterà in più, o in meno, al mestiere del giornalista? Su quali vantaggi i giornalisti di scuola potranno contare nell’affrontare le sfide del giornalismo del futuro? Le sfide dei new media, dell’informazione digitale, delle regole deontologiche che devono confrontarsi con la cultura dell’immagine. Le risposte sono complesse, con spazio per le opinioni, anche divergenti. Per chiarire le idee, per capirne di più, di tutto questo abbiamo parlato con chi, per esperienza presente o passata, di scuole di giornalismo se ne intende. Innanzitutto con Ruben Razzante, direttore della scuola di Potenza, uno dei giuristi che presto metteranno mano alla riforma dell’Ordine professionale. Quindi con due professionisti affermati, con alle spalle diverse esperienze scolastiche: Valeria Palumbo, caporedattrice de L’Europeo, ex alunna della scuola di giornalismo della Rizzoli; e Paolo Perazzolo, caporedattore cultura di Famiglia Cristiana, che ha frequentato l’“Ifg” una decina di anni fa. Infine, con uno studente «fresco» della scuola dell’università Cattolica di Milano, che ha recentemente vissuto un’esperienza di stage insolita e interessante, all’Ansa Pechino.
Teoria e pratica, un binomio ormai inseparabile Ruben Razzante: «Nella futura riforma dell’Ordine alle scuole sarà sicuramente riconosciuto un ruolo fondamentale» Sfide future, nuovi media, pregi e difetti del giornalismo attuale. Ma anche la sicurezza che nella prevista riforma dell’Ordine dei Giornalisti, alle scuole sarà riconosciuto un «ruolo fondamentale». Di questo e altro parla Ruben Razzante, direttore della Scuola di Giornalismo di Potenza. Con un occhio di riguardo per ciò che le scuole potranno significare per il futuro della professione. Ruben Razzante, le scuole di giornalismo sono davvero utili? «Il mito del giornalista che si fa sul campo ormai è tramontato. Oggi le esperienze pratiche confermano che le scuole formano in modo molto più completo e globale. Io penso infatti che i giornalisti che escono dal-
le scuole abbiano una cultura generale superiore. C’è un bagaglio di nozioni sempre più necessarie al nuovo mercato dei media, per esempio nozioni di diritto, di economia, di storia. Tutte materie che solo nelle scuole vengono insegnate in modo sistematico. E poi non bisogna dimenticare che chi accede a una scuola di giornalismo deve avere una Laurea, cosa invece non richiesta per chi svolge un praticantato in redazione». Le scuole hanno difetti? «Credo che il limite della scuola potrebbe essere di non coltivare a sufficienza la parte pratica del lavoro, e di dare poco spazio alle attività di laboratorio. Questo potrebbe mettere le scuole in una posizione di inferiori-
tà rispetto alle redazioni. Però dico “potrebbe”, perché a quanto mi risulta questo nella realtà non avviene. Il mio è un discorso solo teorico. Se qualche scuola privilegiasse troppo la teoria sulla pratica sarebbe sicuramente un problema. Ma, ripeto, so che non è così. Anche perché, attraverso il periodo di stage, gli studenti possono avere l’opportunità di perfezionare la loro preparazione sul campo». Negli ultimi anni, la proliferazione delle scuole ha ricevuto però alcune critiche. «La proliferazione delle scuole in realtà verrebbe meno criticata se ci fosse più controllo sui praticantati d’ufficio, i cosiddetti praticantati “abusi-
vi”. Senza questo controllo, è chiaro che le scuole sembrano troppe, perché chi vi esce si va ad aggiungere a precari, collaboratori e professionisti disoccupati. Ma per risolvere questa situazione, penso che le scuole dovrebbero diventare l’unico canale di accesso alla professione. Ovviamente con la Laurea obbligatoria per gli aspiranti giornalisti. A quel punto, le scuole potrebbero essere anche cinquanta, ma le possibilità di occupazione non mancherebbero. Ora, invece, il fabbisogno di mercato non c’è. Forse nel futuro ci sarà di più nell’on-line, nelle web Tv, negli uffici stampa. E per tutti questi media le scuole daranno una preparazione sicuramente più adeguata». Come giudica l’esperienza della scuola di giornalismo creata alcuni anni fa direttamente dalla casa editrice Rizzoli? «Quando le scuole nascono direttamente nelle società editoriali, ci sono rischi di commistioni e interferenze imbarazzanti. Sarebbe meglio se fosse l’Ordine a organizzarle e promuoverle. L’Ordine che, del resto, ha il dovere di vigilare sulla formazione e la professionalità dei giornalisti iscritti». Quale sarà lo spazio riservato per le scuole nella futura riforma dell’Ordine dei giornalisti? «Sicuramente nella bozza di riforma ci sarà un ruolo fondamentale riconosciuto alle scuole. In questo modo
si potrà risolvere il problema della necessità della Laurea per l’accesso alla professione, come è giusto che sia per una professione intellettuale come il giornalismo. Obbligo di Laurea che era peraltro già contenuto all’interno della bozza Siliquini». Secondo lei, ci sono differenze evidenti tra giornalisti di scuola e giornalisti formati sul campo? «Ovviamente non si possono riconoscere così, a prima vista. Complessivamente, però, chi esce dalla scuola ha un bagaglio culturale più robusto, formato da conoscenze che altrimenti uno non imparerebbe mai, soprattutto in un ambiente come il lavoro sul campo. E poi, ciò che risalta maggiormente è che chi ha frequentato una scuola è in grado di analizzare meglio i fatti e sviluppare più senso critico per i fenomeni». E a livello pratico, ci sono differenze? «Sul piano lavorativo, credo che ci sia una miglior capacità di adattamento ai nuovi lavori, in particolare per quanto riguarda i new media. Mentre chi ha avuto esperienze, per esempio, per anni soltanto in cronaca, farà molta più fatica a riadattarsi al nuovo mercato. E sarà forse obbligato a frequentare corsi di aggiornamento. Cosa che invece non dovranno fare gli allievi delle scuole di giornalismo, che saranno preparati ad affrontare anche realtà di giornalismo non tradizionale».
Tutto quello che soltanto una scuola può offrire Palumbo: «Ma genialità e talento sono doti innate»
Nella foto sopra Valeria Palumbo, caporedattrice a L’Europeo, a ventuno anni è entrata nella Scuola di giornalismo della Rizzoli.
«Io sono una grande sostenitrice delle scuole di giornalismo. Ci sono cose che il lavoro sul campo non può insegnare, cose che in redazione nessuno ti spiega. Senza dubbio la genialità e il talento sono doti che uno possiede per natura, ma la scuola è in grado di dare un senso morale, un orgoglio di fondo per la professione». Le parole sono di Valeria Palumbo, da oltre un anno caporedattrice a L’Europeo. Nel 1987 ha vinto uno dei venti posti della scuola di giornalismo della Rizzoli, superando la concorrenza di altri duemilaquattrocento aspiranti giornalisti. E da allora ha cominciato a lavorare stabilmente per Rcs, con il suo primo impiego alla redazione di Capital. Oggi, a distanza di anni, non ha dubbi sull’utilità e l’importanza delle scuole di giornalismo nella formazione dei futuri professionisti. Valeria Palumbo, lei ha frequentato la scuola di
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«Le scuole indispensabili, ma oggi sono diventate troppe»
Giornalismo della Rizzoli, circa venti anni fa. Una scuola che oggi non esiste più. «Io sono entrata nell’87, a ventuno anni, in quella che ai tempi era una scuola di avanguardia. Lavoravamo in desk, su computer connessi in rete, già come nel giornalismo del futuro. Quello è stato il primo vero esperimento di computer in rete». Quali erano i criteri d’ammissione alla scuola? «Venivano ammessi al concorso solo laureati con medie di voti molto alte. Io, a dire il vero, non ero ancora laureata, ma avevo ventuno anni e mi mancavano solo due esami alla Facoltà di Scienze Politiche. Ricordo che per l’ammissione si presentarono quasi duemilaquattrocento persone. Per solo venti posti. D’altra parte, a quei tempi la Rizzoli aveva un turn over di ottantuno giornalisti all’anno. Questo significava che la casa editrice sceglieva, su questi ottantuno, di formarne e assumerne venti di qualità». Come si svolgeva il lavoro nella scuola? «La durata totale era di due anni, intervallati da veri stage. Durante i periodi nella scuola, si faceva molto lavoro pratico, di scrittura e di redazione, più varie lezioni di antropologia, diritto, storia e altro ancora. Poi c’erano anche attività più particolari: per la cronaca nera, per esempio, guardavamo dei film polizieschi, e
poi scrivevamo articoli tratti delle trame dei film». Dove ha svolto gli stage? «Gli stage erano una componente fondamentale della scuola. La mia prima esperienza è stata alla Gazzetta dello Sport, per circa quattro mesi, durante l’estate. Poi sono stata un mese ad Amica. E poi ho fatto altri quattro mesi a Capital, dove sono stata assunta al termine della scuola». C’è qualcosa che secondo lei solo la scuola può insegnare? «Sicuramente ci sono cose che il lavoro sul campo non può insegnare, cose che in redazione nessuno ti spiega. Penso alle tecniche di scrittura: la costruzione delle frasi, le parole da non usare, l’aggettivazione. Poi ci sono le questioni del diritto: questo è un altro dramma per la preparazione giornalistica. Perché queste cose si imparano solo con una scuola. E senza una preparazione globale, si naviga nel vuoto». E qualcosa che si impara solo sul campo? «Credo che una scuola non potrà mai insegnare come si struttura un rapporto di redazione, né come funzionano assunzioni e mobilità. Poi, senza dubbio, la genialità e il talento sono doti che uno possiede per natura, che non si possono trasmettere. La scuola però è in grado di dare un senso morale, un orgoglio di fondo per la professione. E questo è molto
importante: più si è professionisti, meno si è corrompibili. E più si ha la possibilità di entrare nel mondo dell’editoria in modo “puro”». In modo «puro»? «Per chi come me è entrato alla scuola di giornalismo della Rizzoli, non ci sono stati padrini di nessun tipo che spingessero. Chi invece entra nel lavoro in modo sospetto, ha certe lacune che finisce col portare sempre con sé». Dunque una scuola, anche in prospettiva futura, può dare una preparazione più completa? «Penso di sì. Soprattutto può formare professionisti preparati ad affrontare il lavoro su vari mezzi, e creare figure che siano borderline tra stampa, radio e Tv. Chi inizia direttamente sul campo, invece, rischia di chiudere il proprio orizzonte al mezzo che ha praticato per primo». E lo stesso discorso vale anche per il giornalismo on line? «Certamente. Purtroppo è una questione mentale: i giornalisti, da un certo punto della loro carriera, rifiutano i progressi della tecnica. Io stessa ho dei colleghi che rifiutano internet. Però questo è un errore, perché internet è un mezzo con grandi prospettive, non ancora sfruttate a fondo. Anche da questo punto di vista, la scuola prepara per il futuro, per un mondo e una professione che stanno cambiando».
cansi tre scellini, l'operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazi
Per non «appiattirsi sul lavoro meccanico», per avere uno «sguardo che vada al di là della fabbricazione della notizia» quotidiana. E per avere «un profilo deontologico in senso più completo». Secondo Paolo Perazzolo, caposervizio cultura di Famiglia Cristiana, la scuole sono fondamentali per la formazione dei giornalisti del futuro. Anche se forse, adesso, un po’ troppe. Paolo Perazzolo, quando e quale scuola ha frequentato? «Ho frequentato la scuola di giornalismo Ifg, nel biennio ‘96-’97. Sono stati due anni abbastanza impegnativi, ma molto utili». Come era impostato il lavoro? «L’impostazione era quella classica: si abbinava una parte teorica a una pratica. Al mattino c’erano le lezioni teoriche, tenute da giornalisti e docenti. Per esempio si studiava diritto, storia del giornalismo, tecniche di scrittura. Nel pomeriggio, invece, ci si dedicava alla pratica. Venivamo divisi in gruppi, e a turno facevamo lavoro di agenzia, di radio e sul giornale della scuola, Tabloid». C’è un aspetto che ricorda come il più utile per la sua formazione? «Ricordo che un lavoro molto utile era la lettura critica dei quotidiani. Al mattino, sempre durante la prima ora, ogni giorno un giornalista ci guidava nella lettura dei giornali. E questo secondo me è stato importante, perché mi ha insegnato una capacità critica che altrimenti non avrei imparato». Dove ha svolto gli stage? «Il primo l’ho fatto a Famiglia Cristiana. Poi sono stato un mese a Telelombardia. Infine sono stato due mesi ad Avvenire e altri due mesi ancora a Famiglia Cristiana». Ritiene sia stata più importante la parte teorica o quella pratica. «Ovviamente ritengo più utile la parte di stage. Insomma, è stata un’esperienza di giornalismo vero in testate vere. Con il vantaggio, però, di avere alle spalle una salda preparazione teorica». Che cosa dà in più la scuola rispetto alla formazione sul campo? «La cosa in più che può dare la scuola è uno sguardo che vada al di là della fabbricazione della notizia quoti-
diana. Una visione più ampia della professione e delle problematiche che implica. Senza una scuola teorica, mancano i termini di confronto, e il giornalista rischia di appiattirsi sul proprio lavoro meccanico». E dal punto di vista deontologico? «Senza dubbio anche la deontologia è fondamentale. La scuola insiste molto sul profilo etico. E in questo senso forma in modo più completo, come non è possibile che faccia una carriera che si sviluppa solo sul campo». Quali possono essere i limiti di una scuola? «Il limite della scuola è che è una scuola. Perciò ognuna, in quanto tale, dovrebbe cercare di essere il più
cansi tre scellini, l'operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazi
possibile vicina al lavoro di un giornale vero, accentuando il suo taglio pratico. La parte teorica è fondamentale, ma non deve prevalere. Il rischio, altrimenti, è di creare un distacco eccessivo tra formazione e lavoro. Mentre è indispensabile che tra le due cose ci sia un contatto strettissimo». Che differenza c’è tra giornalisti di scuola e non? «La qualità professionale di chi ha frequentato una scuola è superiore alla media. Questi, poi, hanno un background culturale che gli altri non possiedono. In parole povere, hanno uno sguardo che mira più in alto». Parlando di futuro, come cambierà secondo lei la formazione dei giornalisti? «Adesso, purtroppo, la formazione giornalistica vive una fase drammatica, con una proliferazione eccessiva di corsi di Laurea che promettono di far diventare giornalisti. Ma questo è un grave inganno. A mio parere, dovrebbero esistere pochissime scuole, valide come praticantato e con contatti stabili con il mondo del lavoro. Poche scuole in grado di preparare nel migliore dei modi i giornalisti del futuro. Molti corsi inutili, invece, andrebbero eliminati. Perché oggi si sta creando un caos veramente devastante».
Antonio Talia, studente dell’Università Cattolica, ha vissuto un’esperienza formativa particolare
«Tre mesi a Pechino per uno stage all’Ansa» Opportunità che solo una scuola può dare. Esperienze di giornalismo altrimenti impossibili da realizzare. Antonio Talia, attraverso la scuola di giornalismo dell’università Cattolica, ha trascorso i tre mesi dell’estate 2006 in Cina, a Pechino, per uno stage nella sede dell’Ansa. È lui stesso a raccontarci come è andata. «A livello di metodo - dice - la scuola mi ha dato molto, perché in Cina si è trattato di fare un lavoro di agenzia. In questo senso, il corso che mi è servito di più è stato quello di “Tecnica di agenzia”. È stato lì che ho imparato il modo di scrittura e le regole specifiche di un lancio d’agenzia o di un take. Sicuramente la formazione data dalla scuola mi ha permesso di affrontare il lavoro con preparazione. Riguardo all’ambiente di Pechino, soltanto io e il mio capo eravamo italiani. In agenzia lavoravano poi altri due giornalisti cinesi, che però non parlavano italiano. Loro si occupavano di tradurre i comunicati dal cinese all’inglese. Mentre noi li traducevamo, in seguito, dall’inglese all’italiano. Per questo, posso dire che l’inglese è stato fondamentale, molto più del cinese, che ho studiato solo privatamente. La scuola non ti può preparare alle cautele necessarie al lavoro in un Paese con una dittatura. Queste sono cose per cui bisogna imparare a muoversi da soli. Del resto, nel periodo in cui sono stato in Cina non ho mai avuto problemi. Anche se è capitato di battere notizie “fastidiose”».
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15 Dalla finzione cinematografica alla realtà delle redazioni. Come il reporter “cane da guardia” della società è diventato un sedentario impiegato dell’informazione
Sulle orme dei cronisti da film L’ideale romantico del giornalista borsa a tracolla e sigaretta in bocca, mentre prende appunti per strada ha ormai il sapore di un’illusione svanita: i giornalisti trovano le notizie stando comodamente seduti ad una scrivania. di Laura La Pietra
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Siamo cresciuti con un modello di giornalismo alla Woodward e Bernstein, nella speranza di diventare come i due cronisti che smascherarono uno dei maggiori scandali americani: il Watergate. Credevamo che il giornalista potesse essere davvero il cane da guardia della società, così abbiamo inseguito il sogno di diventare cronisti con grande coraggio, voglia di fare, curiosi e desiderosi di giustizia, come Robert Radford e Dustin Hoffman in Tutti gli uomini del Presidente, interpreti dei giornalisti del Washington Post che incastrarono il presidente Richard Nixon, nel 1972. Volevamo essere dei reporter smagati, disposti a sacrificare giorni e notti per riuscire a dimostrare la fondatezza delle nostre intuizioni, per non sottometterci alle logiche malsane di un potere più grande di noi. E il cinema ci ha sempre fatto credere che tutto questo era possibile. Perché la storia ci insegnava, senza andare oltreoceano, che si poteva trarre ispirazione anche da Luigi Barzini o da Indro Montanelli. Con caparbietà abbiamo inseguito un mito, credendolo realtà. E lo era. Ma allora, cinquanta, quarant’anni fa, prima dell’imperante informazione televisiva, prima dei telefoni cellulari, prima di internet e dei satellitari. E solo adesso, entrando nelle redazioni, nelle agenzie, nei quotidiani, nei settimanali ci siamo trovati di fronte quella verità cui finora non volevamo credere. Perché oggi i giornali si fanno con Internet, con gli archivi, con le agenzie. Tra le sette e le otto di sera. I cronisti non immaginano cosa succeda fuori dalla redazione: non sanno se si sono consumati omicidi o se sono avvenuti degli incidenti. Nelle redazioni, alle otto di sera non si è ancora deciso co-
sa verrà pubblicato e il più delle volte si finisce col pescare a piene mani dall’Ansa, a fare ricerche nell’archivio, a fare “copia e incolla” delle dichiarazioni dei politici. «È la fine del giornalismo», si indignano i cronisti. Ma poco si fa per cambiare la situazione. Si contano sulle dita di una mano i giornalisti che in Italia non si sono arresi a questo sistema autoreferenziale in cui i quotidiani riprendono – quando non li copiano – i lanci di agenzia e i notiziari televisivi del giorno prima, appiattendo così le differenze, riverberando a più livelli e con mezzi diversi le stesse notizie, senza aggiungere nulla a quanto già noto. Nella sezione “Cronaca” dei quotidiani nazionali c’è tutto tranne quello che dovrebbe esserci: dalla presentazione di un libro alla polemica, al gossip. Manca ciò che accade alla gente comune, il racconto
della realtà di tutti i giorni. E se si scrive di un tragico evento – il sequestro di un bambino, l’uccisione di una persona – la cronaca dimentica di spiegare la dinamica degli eventi, non risponde ai perché della gente e si affida alle chiacchiere di paese. Non c’è più quella novità e quell’approfondimento che noi giovani sognavamo di fare, affondando nella poltrona di una sala oscura. Il mito si è infranto. Ci siamo svegliati dal sonno. E adesso è giunto il momento che qualcuno risponda alle nostre domande. Prima fra tutte: dov’è finita la cronaca? Che posto occupa nei giornali? E soprattutto: cos’è la cronaca? Il pettegolezzo? Lo spettacolo? E poi, dov’è finito il cronista, ammesso che da qualche parte ancora il giornalista abbandoni la scrivania per raccontare la realtà fuori la redazione? Nelle agenzie? Nei giornali locali? Dove?
Nella pagina accanto il primo articolo dell’inchiesta Watergate uscito sul Washington Post e alcune scene tratte dal film “Tutti gli uomini del presidente”. In alto a destra i due cronisti autori dello scoop Bernstein e Woodward
Il tramonto del modello di giornalismo coniato da Egisto Corradi
No alle scarpe, i cronisti preferiscono il mouse Non sono passati molti anni da quando il celebre inviato del Corriere della Sera Egisto Corradi pronunciò una frase destinata a diventare una sorta di memorandum programmatico per chiunque avesse intenzione di avvicinarsi a questa professione: «Il giornalismo si fa con la suola delle scarpe». Nonostante oggi il mercato delle calzature proponga modelli sempre più comodi e confortevoli, sempre di meno i cronisti escono dalle redazioni. Non si scende più in strada per raccontare cosa accade quotidianamente alla gente comune. E di chi è la responsabilità di questa situazione? Dei giornalisti, sicuramente, ma non del tutto. «Redigere le cronache dalle redazioni non è la massima aspirazione di chi vuole fare il cronista», commentano in modo unanime i redattori di cronaca. E’ un problema che investe tutti i settori dell’informazione: dall’economia alla politica, allo sport: i redattori scrivono quello che viene richiesto loro dai capi e, di solito, la domanda è sedersi davanti al computer e cercare su siti di informazioni italiani e stranieri, blog, forum e archivi di agenzia delle notizie “appetitose” che possano riempire i “buco” presente in pagina. Chi ha lo scrupolo di verificare le notizie lo fa per telefono. Così alla cronaca “battuta sulle strade”, si è sostituita la cronaca “a suon di click del mouse”. Il sistema dell’informazione è cambiato in modo irreversibile, vittima del sensazionalismo e della velocità.
Intervista ai responsabili della cronaca di Ansa Milano e della Provincia di Como, Gabriele Tacchini e Giuseppe Guin
Parola d’ordine: «Uscire dalle redazioni» Alla base della professione c’è sempre stato il rapporto diretto e costante con il territorio e i cittadini. Impossibile pensare di fare i giornalisti “a tavolino”, seduti dietro una scrivania Ma dov’è finita la cronaca? Una domanda semplice, forse ingenua. Eppure non esiste in merito un parere condiviso. Molti giornalisti ritengono che la cronaca in senso stretto non ha più motivo d’essere: interessa solo se gli eventi trattati roguardano morti o individui dal passato oscuro. Nel migliore dei casi però, la risposta è un’altra: la cronaca è di appannaggio esclusivo di agenzie e giornali locali, troppo inseriti nel territorio e a contatto con i cittadini per poterne ignorare le esigenze. Forti di queste considerazioni, abbiamo cercato di capire cosa vuol dire oggi vivere di cronaca insieme a Gabriele Tacchini, responsabile di Ansa Milano, e a Giuseppe Guin, capocronista de La provincia di Como. Per i due giornalisti, provenienti da esperienze molto diverse - Tacchini ha iniziato come cronista sportivo nel quotidiano vercellese La Sesia, mentre Guin ha collaborato con il Corriere della Sera e il Corriere del Ticino - , fare cronaca non è riscrivere i comunicati stampa che arrivano in redazione, né limitarsi a seguire gli eventi preparati ad hoc per la stampa. Fare cronaca significa uscire dalla redazione, entrare in contatto con la gente, anda-
re sul luogo in cui accadono gli eventi che diventeranno notizia e ricostruirli con autorevolezza e attendibilità, lasciando spazio a più voci possibili. Come è cambiato il lavoro di cronista rispetto a vent’anni fa? Tacchini: «La tecnologia ha fatto cambiare il modo di lavorare. Anche in agenzia. Ricordo quando si scriveva con la macchina da scrivere o il pezzo veniva dettato ai dimafonisti che lo trasmettevano con le telescriventi. Con i telefonini, i videofonini e Internet è cambiato tutto: il ritmo e il modo di lavorare. Internet, però, non è una fonte per l’agenzia. È un supporto. Alle fonti bisogna andare direttamente, di persona: non si fa il giornalista a tavolino. Un esempio: negli anni ‘70, se accadeva un delitto in una zona periferica buia, non servita dai mezzi, in piena notte si chiedeva al vicino dell’assassinato di fare una telefonata…oggi non è così…». Guin: «È cambiata la tecnologia. Oggi si usano molto Internet, i blog, i forum o i siti di informazione. Le notizie circolano più velocemente. Prima bisognava interpellare molte persone. Ma nella cronaca locale Internet è usato solo come banca di da-
Nelle foto sopra, Giuseppe Guin, caporedattore della cronaca del quotidiano locale La Provincia di Como
ti. È con il telefono che il cronista resta in contatto costante con il territorio. Il cittadino è fonte e protagonista delle notizie. E poi ci sono molti informatori, che dai centri di potere, lanciano l’allarme e mettono in allerta il giornalista». Un ritratto del cronista ideale? Tacchini: «In agenzia si è sempre scelto la rapidità e l’attendibilità. Purtroppo, però, il cronista non è quasi mai presente al momento in cui accade un fatto, così deve ricostruire gli eventi grazie alle sue conoscenze particolari e alle dichiarazioni delle persone che interpelli. Basarsi soltanto su Internet per scrivere i propri articoli, significa produrre qualcosa di monco e parziale». Guin: «Il cronista deve andare fuori. Uscire dalle redazioni. Raccoglie notizie per strada: alla scrivania non si fa cronaca, anche se è quello che fa la maggior parte dei giornalisti. Il cronista deve andare nei bar, nelle strade, al Tribunale, al Comune, nei luoghi della cultura e del potere… Oggi i giornalisti, anche locali, sono invasi da comunicati stampa e da e-mail. Ma il giornalismo è fuori». Nell’era dell’informazione diffusa, che senso ha fare cronaca? Tacchini: «Per chi lavora in agenzia ha un senso profondo. Perché, anche se a volte lo si dimentica, l’agenzia scrive per le altre testate. Ed essere attenti e accurati nella raccolta delle testimonianze è fondamentale perché a rischio è tutto il sistema dell’informazione, qualsiasi ambito consideri, sport, cultura o politica: alla base c’è sempre la cronaca». Guin: «Per fare cronaca non basta dare notizie, bisogna saperle raccontare e scriverle. E il cronista è un narratore. Per fortuna in provincia non si rischia l’appiattimento della cronaca come accade nei quotidiani nazionali che usano le stesse fonti di informazione. La nostra realtà è diversa: le nostre fonti sono le piazze, le strade, le associazioni, le circoscrizioni. Il cronista deve essere in contatto con il territorio e con i cittadini. Una cosa è certa: il lavoro del cronista non è morto».
Il cronista di nera Paolo Chiarelli ricorda il momento in cui capì che stava cambiando il modo di trattare la cronaca al Corriere della Sera
«Le inchieste si fanno in archivio» La risposta del vicedirettore di via Solferino a Fabrizio Gatti stravolse il giornalismo: alla dura gavetta, oggi molti preferiscono la via del “copia e incolla” Sopra via Solferino, dove dal ha sede la redazione del Corriere della Sera
Vorrei avere i soldi per comprare il Corriere e chiuderlo il giorno dopo». Paolo Chiarelli, per quarant’anni cronista di nera del quotidiano di via Solferino, ripete con amarezza questa battuta in voga tra i giornalisti, ma aggiunge: «Chiuderlo per riaprirlo e farlo tornare il quotidiano ideale in cui sono cresciuto». E come non credergli. Nel panorama giornalistico italiano, tra gli anni ‘60 - ‘70, il Corriere della Sera era certamente una delle realtà più stimolanti per i giovani apprendisti: il Corriere era il quotidiano con la Q maiuscola. Ricorda Chiarelli: «Giravano nella redazione della cronaca personaggi eccezionali: da Egisto Corradi a Dino Buzzati, a Indro Montanelli. Noi giovani cronisti eravamo dei privilegiati: ascoltare gli aneddoti di Corradi di ritorno dal Vietnam o da altre zone di guerra era un momento di libidine pazzesco». Ma il fascino non basta per raccontare cosa accade nel mondo: «Il Corriere è stato una scuola», commenta. «Mi è servito come la buona educazione che danno i genitori: la dura gavetta, i quattro anni di attesa per firmare un articolo, la ricerca e la verifica delle fonti, la registrazione accurata delle testimonianze e la competizione con le altre testate sono stati il bagno di umiltà e curiosità che i grandi giornali - nazionali e non - hanno fatto fare ai giovani giornalisti».
Eppure la storia dimostra come spesso anche le macchine e i sistemi che all’apparenza sembrano “perfetti” possono incepparsi. E a poco servono le manutenzioni successive: tornare all’ottimo funzionamento iniziale è impossibile. Così, al Corriere qualcosa fece saltare gli ingranaggi che tenevano insieme il giornale. «Ricordo bene il momento in cui ho capito che sarebbe cambiato il modo di fare cronaca. Nei pressi di Pavia era deragliato un treno e il vicedirettore chiese a Fabrizio Gatti, che allora era al Corriere, di fare un’inchiesta in due puntate sull’evento; ma non per accertare di chi fossero le responsabilità o sapere se fosse un errore umano o se c’erano stati guasti al locomotore. No, il vicedirettore chiese un’inchiesta su cosa pensava la gente del posto. Tu dirai, beh Gatti sarà stato inviato sul posto… Macché. Il vicedirettore gli disse: “Le inchieste più belle si fanno in archivio”. E lo spedì in archivio a cercare vecchie dichiarazioni di passeggeri di treni deragliati in passato, aggiungendo: “Rimpasta antiche situazioni e lamentele”. Il risultato fu che Fabrizio Gatti fece come gli era stato detto, ma non uscì mai la seconda puntata dell’inchiesta. Facile immaginare il perché: l’inchiesta mancava di attualità e di interesse per il pubblico». Fu allora che, secondo Paolo Chiarelli, il giornalismo del maggiore quoti-
diano italiano, si trovò davanti a un bivio: da una parte la via da seguire sarebbe stata quella del “copia e incolla” dall’archivio, dalle agenzie e dai giornali locali; dall’altra la strada del seguire la cronaca in presa diretta, di persona. Nel corso degli anni, sono sempre di più i giornalisti che scelgono la via più comoda e semplice offerta da Internet e dalle agenzie di stampa, che i cronisti che, in nome di un ideale, rifiutano questo modo di fare giornalismo. La cronaca si è sottomessa allo spettacolo e al commento, dimenticando i valori e gli ideali su cui era fondato il Corriere della Sera degli anni d’oro, quel Corriere che aveva raccontato in diretta la strage di Piazza Fontana, che dava del tu al Commissario Calabresi, che arrivava prima e meglio degli altri giornali. «Mai una querela: era questo l’imperativo. Chi ne aveva ricevuta una era guardato male in redazione. Significava che non si era stati rigorosi, nè col fatto nè con le fonti. L’abilità del cronista si misurava sulla capacità personale di entrare in contatto con le fonti. Fare cronaca non significava semplicemente seguire il “giro di nera” o di “bianca”, andare in questura, alla polizia, dai Carabinieri o al Palazzo comunale. Oggi l’unica cosa che conta è che il cronista sia in grado di scrivere un articolo di 60 righe, a partire dai lanci di agenzia a disposizione».
18 Un tempo erano semplici viaggiatori che si trovavano sui fatti, quasi per caso. Oggi, i corrispondenti sono sulle prime pagine dei giornali più importanti e scrivono libri di successo.
Il mondo a casa nostra, vite da corrispondenti Reporter: il mestiere di chi racconta il mondo stando sui fatti. I ricordi e le esperienze dei giornalisti che sono stati testimoni della grande storia e delle piccole vicende. Un lavoro che è cambiato molto, ma che continua ad affascinare di Eugenio Buzzetti
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«Vuoi fare il giornalista, hai una bella laurea a Milano? Non serve, sai quanti sono al tuo stesso livello… Vatti a studiare l’arabo, magari. Fossi un venticinquenne non avrei dubbi: imparare le lingue». È questo per Tiziano Terzani, per trent’anni corrispondente dall’Asia per il Der Spiegel e poi collaboratore per il Corriere della Sera e la Republica, il modo migliore per entrare nel giornalismo con le carte giuste. E il primo requisito essenziale di un futuro corri-
spondente. Per molti giovani che si avvicinano alla professione, il mestiere del corrispondente è, come dice Piero Ottone, editorialista del quotidiano la Repubblica, l’unico lavoro che vorrebbero fare. Il corrispondente è un lavoro che affascina: essere sempre in prima linea, dove le cose accadono. E rappresenta un traguardo professionale. Ma chi è il corrispondente? Come è cambiato il suo lavoro nel corso degli anni? L’arrivo della
Sono sempre di più i libri dei corrispondenti
Dagli articoli al successo editoriale Alcuni titoli sono già dei classici, altri lo diventeranno: i libri dei corrispondenti incontrano il favore del grande pubblico e scalano le classifiche di vendita. Non solo articoli. Tra gli scaffali delle librerie, oggi, sono sempre più i libri giornalistici scritti dai corrispondenti delle testate più importanti. Da tutte le parti del mondo che si trovano sotto i riflettori della cronaca, i libri dei corrispondenti occupano una posizione sempre più preponderante tra le novità editoriali. Alcuni titoli sono ormai dei classici: In Asia di Tiziano Terzani, che raccoglie trent'anni di corrispondenze per il Der Spiegel, i tre libri di Alberto Moravia sull'Africa, o Un'idea dell'India, scritto durante il suo viaggio nel subcontinente, fino ad arrivare ai libri sulla Cina di Federico Rampini,corrispondente da Pechino per la Repubblica, che negli ultimi anni ha documentato lo sviluppo della nuova area geopolitica di Cindia. Tra gli stranieri, da non dimenticare, Cronache mediorientali di Robert Fisk, corrispondente da Beirut per il New York Times, che raccoglie più di trent'anni di corrispondenze dal Medio
televisione nelle case degli italiani ha contribuito come nessun altro evento del ventesimo secolo a modificare il rapporto tra i lettori (trasformatisi nel frattempo in telespettatori) e la stampa. A fare le spese di questo cambiamento sono state per prime le corrispondenze dall’estero che dovevano reinventarsi per attirare la lettura di chi poteva tranquillamente vedere sul piccolo schermo le immagini evocate dai giornalisti inviati nelle zone calde dell’informazione. Superata, quindi, la lunga fase dell’esotismo letterario, le corrispondenze che compaiono sui giornali cambiano registro e mantengono inalterato il loro fascino. La possibilità di compiere errori, anche grossolani, è sempre dietro l’angolo. «Niente è più patetico - dice Lucia Annunziata, editorialista de La Stampa e conduttrice del programma di informazione televisiva In mezz’ora - del giornalista che si precipita in un momento di crisi, scende affannato dall’ultimo jet prima che l’aeroporto chiuda, ha il computer a tracolla, non conosce nessuno e finisce per costruire il suo articolo sul fragile telaio del resoconto del tassista». Gianni Riotta, per anni corrispondente da New York per il Corriere della Sera e oggi direttore del Tg1, propone qualche
Tiziano Terzani con le sue corrispondenze dall’Asia ha rappresentato l’anti Fallaci per eccellenza, nei suoi libri e nei suoi reportage si entra con empatia nelle realtà raccontate
consiglio a chi vuole intraprendere questa professione: «Ai giovani giornalisti consiglierei: scegliete un collega affermato che vi piace e studiatene la scrittura, il modo di usare gli aggettivi, lo stile». Riotta ricorda l’insegnamento impartitogli da Ugo Stille, storico corrispondente da New York per il Corriere della Sera: «Ho imparato la passione fredda della ragione, il giornalismo analitico e raziocinante. Una lezione di indipendenza, di distacco». La difficoltà di affrontare questo lavoro, secondo il direttore del Tg1, non consiste nello svegliarsi presto o nei fusi orari: «È l’accettare di essere cambiato dalla realtà che ti attraversa. Non sei un buon giornalista se, qualunque argomento tu copra, ti scivola sopra come l’acqua sulla lavagna. Maturare in termini di carriera significa allora
sforzarsi di migliorare la propria vocazione sentimentale». Che cosa serve al corrispondente? Quali devono essere le sue caratteristiche, le sue propensioni? E quali gli errori da evitare? Tiziano Terzani non ha dubbi: «Dal punto di vista pratico, toglietevi dai modelli degli altri; dal punto di vista teorico abbiate un solo giudice, la coscienza». Una forte dimensione etica per Terzani è la base per fare un buon lavoro. Non è, però, l’unico fattore: «Il giornalismo non è mettere le scarpe che ti ha lasciato qualcuno o il berretto trovato su una sedia. Il mondo avrà sempre bisogno di questo mestiere che è essere gli occhi, le orecchie, il naso dell’altro che è rimasto a casa». Ma se la continuità con il passato “mitico” della professione rimane, la preparazione personale è diventata, con il passare de-
gli anni, un fattore determinante: «Specializzazione è prepararsi nel senso di fare tanto homework, i compiti a casa, prima di coprire le storie che dovrai raccontare. Un corrispondente ha il passo lento; il suo metro di giudizio si raffina piano. Essere un corrispondente è innestarsi in un Paese, mischiarsi alla gente, andare alle radici e scovare una misura, tirare il filo di una situazione qualche volta complessa». Un giudizio, questo, che riecheggia anche nelle parole un’altra importante firma del Corriere della Sera, Maurizio Chierici, per lungo tempo inviato in America Latina: «Il protagonista di un reportage è l’uomo. Il laboratorio di un giornalista, il centro del suo lavoro, è l’uomo». Una forte dimensione etica della professione però non basta, ammonisce Chierici, se
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Niente è più patetico del giornalista che si preccipita in un momento
di crisi, scende affannato dall’ultimo jet prima che l’aeroporto chiuda, ha il computer a tracolla, non conosce nessuno e finisce
”
per costruire il suo articolo sul fragile telaio del resoconto del tassista
non è supportata da un costante aggiornamento su quanto accade nel mondo: «Mentre tu scrivi, il mondo gira. Le nuove idee, le correzioni soccorrono la superficialità e la fretta a patto di inzupparsi di realtà. Il lavoro del giornalista si trasforma, ricomincia sempre daccapo». Anche Ezio Mauro, direttore de la Repubblica ed in passato corrispondente da Mosca, si sofferma a ragionare sul lavoro del giornalista che vive all’estero e spedisce corrispondenze ai giornali del proprio Paese: «Il corrispondente ha sulle spalle un peso gigantesco. Ha la responsabilità di dare al suo giornale il senso politico complessivo di ciò che avviene là dove lui sta. Deve coprire, spesso, un Paese enorme. Un continente. Che a seconda dei casi produce sistemi di informazione molto diversi. In Russia i fatti li deve, o
li doveva ai tempi miei, cercare con il lanternino. È solo, succede di tutto e tutti i giorni il mosaico va composto con tessere a incastro». La caratteristica fondamentale, allora, di un buon corrispondente, per Ezio Mauro, è la capacità di discernere i fatti importanti da quelli secondari e dare ad ognuno il giusto peso. Per Mauro: «Al corrispondente serve un potente senso critico. È importante che non si faccia prendere dall’elemento romantico della sua impresa. Lui non è partecipe della storia. Come cittadino potrà preferire che vinca Gorbaciov. Ma, come giornalista, nel bene e nel male, deve guardare e registrare». Fare il corrispondente, come si è visto, muta assieme al concetto stesso di informazione. Gianni Riotta elenca alcuni dei cambiamenti che hanno segnato la storia di questa professione: «Il nostro mestiere è stato
Oriana Fallaci, una delle più importante reporter di guerra di sempre, famosa per le sue interviste ai potenti della terra e per lo stile aggressivo, nei pezzi come nella vita. Nella pagina accanto Ryszard Kapuscinski
segnato dalle tecnologie. E le tecnologie rischiano di creare due razze di giornalisti: una da desk, che sta sempre seduta in redazione; e un’altra categoria che esce, gira e trova storie, scrive». Ma sul ruolo che dovrà avere questo tipo di giornalista nel futuro, Riotta ipotizza due diverse possibilità, ovvero la specializzazione e la capacità di spostarsi verso i fatti: «Se devo dire qual è la mia specializzazione, io dico solo: studiare il cambiamento: sociale, politico, tecnologico. Il mio obiettivo è di essere un inviato, un narratore spedito sul confine del cambiamento. In un mondo in cui l’informazione è sempre più globalizzata e costituisce un flusso indistinto, basta collegarsi ad una banca dati on line per non prendere buchi, ma non è questo il valore dell’inviato: Chi è Deng Xiaoping, quanto fuma, come cammina, è un
plusvalore che ottieni mettendo le gambe in spalla. Presto, a mio avviso, viaggeranno come inviati anche i cronisti di cronaca cittadina». Quello dell’inviato non sarà più, dunque, un lavoro legato soltanto alle grandi distanze e ai fatti di rilevanza internazionale, ma anche ai problemi della vita quotidiana dei lettori, affrontati in una prospettiva più completa, e forse anche più globale. L’esperienza dei vecchi colleghi può servire, però, anche come monito a non ripetere alcuni vecchi errori del passato, in cui spesso i corrispondenti anche delle testate più importanti sono caduti. Qualcosa, insomma, anche in questo lavoro, secondo Lucia Annunziata, è finito per sempre: «L’inviato-trottola a largo raggio, quello che un giorno si fa le elezioni nelle Filippine, la settimana dopo è in Bosnia e poi segue le presidenziali americane, rappresenta un modello perdente. Un modello finito. Io elogio il corrispondente che è la talpa cieca che si abitua al buio scavando tunnel sotto la pelle della storia». Un nuovo tipo di inviato. Molto diverso dallo stereotipo secondo cui siamo abituati a immaginarlo e che sempre secondo la Annunziata deve svolgere un compito ben definito: «Ho perfezionato il concetto di inviato d’area. Significa trovarsi sul posto prima degli altri, perché storia e geografia, per te che hai consuetudine, hanno meno segreti. Gli inviati si catapultano a evento compiuto. Certe volte ci vuole un giorno, due, di viaggio. Tem-
po perso. Conta essere vicini alla storia». La capacità di cogliere i cambiamenti, e di starne al passo, è fondamentale: ma, forse si tratta di qualcosa di connaturato al mestiere e non di una novità. Di qualcosa che deve fare parte necessariamente del bagaglio culturale di un inviato, da riscoprire ogni giorno. Non può mancare, infine, quell’attenzione per il particcolare di colore che rende veritiera una storia. Credibile ed umana. È il tocco finale, l’attenzione per il dettaglio, la cra per il particolare che può dare alla corrispondenza il valore di una ver testimonianza. Lucia Annunziata ricorda l’inegnamento che le diede un suo collega più anziano, Giuliano Zincone: «Mi ha insegnato che il giornalismo non è soltanto senso della notizia e deontologia, ossequio alle regole. Lui era di quelli che, dalle tragedie dei boat people che fuggivano dal Vietnam, scriveva: la vecchietta ha una radiolina accesa e cerca di ascoltare la partita di football. Fissare e raccontare il gesto minimo di aggrapparsi ad una radiocronaca ti dice infinitamente di più, sullo spaesamento di un’esistenza specifica, sul trauma di un boat people disperato, che non un imponente affresco socio-politico farcito di aggettivi dissonanti e numeri di statistica». Tagliare anche questo traguardo di indipendenza e maturità non è, però, un obiettivo di facile portata: «Devi metterci grosso impegno. Devi sapere bene cosa vuoi. La tua voce, di cosa si vuole occupare: mafia, politica estera, donne, Terzo Mondo? Prendete l’impegno con un soggetto e mantenetelo, con corenza e passione totali. Vuol dire allacciare un patto forte con la realtà, con quella scheggia o briciola di realtà che diventa te». Non un semplice spettatore, dunque, e neppure solo testimone: seppure non partecipe della storia a cui assiste, il corrispondente deve sentirla propria.
22 Dai reportage di Russell in Crimea ai giornalisti embedded in Iraq. Cosa in quasi cento anni (non) è cambiato per gli inviati
Ultime notizie dal fronte, rischi e censure di guerra Esposti al pericolo, impegnati a sopravvivere tra eserciti nemici, guerriglia e fuoco amico, sempre alla ricerca di brandelli di verità da raccontare. Fenomenologia di un mestiere al limite. Storie di cronisti attratti dai campi di battaglia. di Simona Sincinelli In principio fu Howard Russell. Nasce infatti con le sue corrispondenze dalla Crimea, pubblicate da The Times nel 1854-55, la figura dell’inviato di guerra moderno: Russell si spinse fino al campo di battaglia, fu il primo a scoprire errori nelle strategie militari e soprattutto a documentare una sconfitta dell’esercito britannico, come accadde nella battaglia di Balaclava. Da allora la figura del reporter di guerra ha subito molteplici trasformazioni, causate e agevolate dall’evoluzione delle tecnologie delle comunicazioni di massa. Ma se il lavoro dell’inviato si è trasformato nel tempo, alcuni problemi sono rimasti costanti: il rapporto con le fonti, con le autorità militari e i meccanismi di censura sempre più sottili e tentaco-
lari. La prima vittima della guerra, si dice spesso, è l’informazione. Del resto di fronte a un conflitto per le autorità politiche e militari diventa assolutamente necessario mobilitare il consenso dell’opinione pubblica, sminuire le sconfitte ed esaltare le vittorie per tenere alto il morale di cittadini e soldati. Questioni che puntualmente si sono presentate anche in occasione dell’ultimo conflitto in Iraq. Con le aggravanti del caso: una guerra impopolare in buona parte del mondo occidentale e un Paese sprofondato nel caos, in cui gruppi criminali e affiliati ad AlQuaeda considerano un obiettivo ogni occidentale, giornalisti compresi. Una situazione che è andata progressivamente degenerando. «All’inizio del conflitto infatti c’era la possi-
Diari on-line: il nuovo volto dell’informazione
Blog d’assalto Da Salam Pax a Lakshmi Chaudhry, il conflitto iracheno raccontato dai civili Maggio 2003. In pochi giorni nascono in Rete un centinaio di blog che raccontano l’offensiva militare Usa in Iraq. Sono diari on line con testimonianze di inviati di guerra, reportage di giornalisti freelance, racconti del soldati al fronte, insieme a commenti di navigatori Internet. A lasciare il segno però sono soprattutto i diari di civili iracheni e in particolare Where is Read, di Salam Pax, che ha lavorato come interprete per giornalisti occidentali, e Baghdad Burning, della giovane programmatrice Lakshmi Chaudhry. Grazie ai loro post è possibile conoscere i problemi della popolazione civile e osservare la guerra dal punto di vista della gente comune. A proposito dell’assedio della città di Falluja Riverband, questo il nickname della ragazza, scrive: «Le persone non hanno da mangiare e bevono acqua contaminata. Ci sono cadaveri per le strade e nessuno vuole correre il rischio di lasciare la propria abitazione per seppellirli. Molti bruciano i corpi in giardino».
bilità di muoversi nel Paese sebbene con tutte le difficoltà del caso», sottolinea Sergio Ramazzotti, free-lance autore di numerosi reportage da Africa, Sud America, Medio oriente, Estremo oriente e in Iraq dopo l’invasione americana del maggio 2003. «Le fonti locali erano assolutamente accessibili e la popolazione era cordiale, ospitale e disponibile a dare informazioni, rilasciare dichiarazioni e a far vedere quale era la realtà quotidiana». Il vero ostacolo era piuttosto un altro. «I marines cercavano di limitare i movimenti di chi non era embedded, rendendo impossibile l’accesso ad alcune zone con la scusa ufficiale che c’erano sparatorie o per altre ragioni di sicurezza. A questo va aggiunta una certa reticenza a rispondere a domande specifiche sulle operazioni in corso e persino a dare informazioni di carattere generale». Dal 2004 però, con l’aumentare delle difficoltà per gli eserciti, il compito degli inviati sul campo si è complicato non poco. «Oggi in questi posti la tutela è inesistente», racconta Barbara Schiavulli, free-lance da otto anni impegnata in teatri di guerra. «A differenza di altre realtà, come ad esempio a Gaza dove ci si può accreditare presso gli israeliani e si rischia relativamente poco, i reporter in Iraq sono un possibile bersaglio. Risulta quindi difficile lasciare l’albergo, girare per strada, incontrare la gente. Quando intendo uscire devo perciò prendere un appuntamento e organizzare percorsi specifici. Ma non basta. Spesso mi vedo costretta a vestire con gli abiti tipici delle donne sciite per non essere riconosciuta come occidentale e a pagare due autisti, in modo tale che non sia possi-
Alcuni reporter di guerra al lavoro durante l’ultimo confitto in Iraq, uno dei più sanguinosi sul fronte della stampa
bile stabilire su quale delle due auto viaggio». A tutto questo si aggiunge il problema della lingua: molti reporter non parlano l’arabo per cui, non solo incontrano maggiori difficoltà nel muoversi e parlare con la gente comune, ma sono anche più facilmente identificabili dai gruppi criminali. Il risultato è che spesso i giornalisti sono costretti a fare riferimento a stringer e producer, abitanti del posto che collaborano con i reporter stranieri, procurando loro le storie, le informazioni e i contatti. Fondamentale è perciò avere uno stringer affidabile e competente, perché da questo derivano le fonti di volta in volta diverse. In ogni caso l’inviato di guerra opera in un ambiente informativo molto ricco: accanto agli stringer ci sono le agenzie di stampa, le testate locali e le televisioni. Insieme naturalmente ai militari.
Gli embedded È quanto accade in special modo per i giornalisti embedded, quelli cioè che si recano in un teatro di guerra al seguito delle truppe del loro esercito o degli alleati. Un modo di lavorare su cui si è molto discusso, con reporter e cittadini divisi tra chi sostiene che per gli embedded, profondamente influenzati dalle autorità militari, sia impossibile sapere come vanno effettivamente le cose e quanti ritengono sia comunque un’occasione per riuscire a conoscere meglio una realtà. «Di fatto molto dipende da qual è l’esercito con cui ci si deve confrontare», ribadisce Barbara Schiavulli. «Se stai con le truppe statunitensi puoi fare qualunque cosa, compreso seguire i medici che vanno a prendere i feriti al fronte. Simile la situazione con gli israeliani, che consentono un facile accesso alle notizie come dimostra l’ultima guerra in Li-
bano, durante la quale sono trapelate molte informazioni talvolta nocive per lo stesso governo di Tel Aviv». Abbastanza complessi sembrano invece i rapporti con l’esercito italiano. Due i motivi: «Da un lato si cerca di tenere i giornalisti lontani dalle azioni militari per dimostrare che i soldati sono impegnati in una missione di pace e non in una guerra, dall’altro c’è l’ossessione a non far capitare nulla ai reporter perché l’omicidio o il ferimento di uno di essi a Nassirya avrebbe provato che la situazione non era affatto idilliaca», chiarisce Oliviero Bergamini, inviato Rai. «Nonostante le numerose difficoltà con cui un embedded si deve confrontare sono comunque convinto valga la pena andare. Sebbene si arrivi sul posto con i militari e si giri scortati dalle pattuglie, si ha comunque la possibilità di vedere le cose in prima persona, parlare con la gente e
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Si cerca di tenere i giornalisti lontani dalle azioni militari
per dimostrare che i soldati sono impegnati in una missione di pace e non in una guerra. Al tempo stesso c’è l’ossessione a non far capitare nulla ai reporter perché il ferimento o l’omicidio di uno di essi a Nassirya
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proverebbe che la situazione non è affatto idilliaca
I costi
farsi un’idea di quale sia complessivamente la situazione nella zona. Naturalmente sarebbe meglio potersi muovere autonomamente ma a Nassirya, per esempio, era oggettivamente difficile, sia per problemi di sicurezza sia per le condizioni climatiche decisamente poco favorevoli, con temperature torride che potevano raggiungere i 50 gradi all’ombra». Certo è che, almeno in un primo momento, pur stando all’interno della base di Camp Mittica era possibile essere informati su quanto accadeva nella provincia di Nassirya. La base italiana era di fatto un piccolo paese e ospitava circa 3 mila persone. Gli inviati erano alloggiati in una parte del campo, dove era stato allestito uno spazio apposito con delle baracche, gli uffici e un dormitoio, non lontano dai reparti operativi, tanto è vero che si potevano vedere le colonne di mezzi uscire per andare in missione. Da questa zona i reporter avevano l’opportunità di allontanarsi e girare per la base, parlare con tutti, dai soldati semplici agli ufficiali. «Era possibile avere informazioni, oltre che dall’ufficio stampa, da chi aveva preso parte direttamente alle operazioni. In questo modo si potevano sfruttare le rivalità interforze per avere maggiori dettagli su quanto stava accadendo», afferma Bergamini.
Le altre fonti E se per gli embedded l’esercito è la fonte di informazione principale questo non significa affatto che sia l’unica a cui poter attingere. Chiaramente il giornalista deve essere abile e saper sfruttare a proprio vantaggio ogni piccola occasione. «Quando andavo in città e incontravo il capo della polizia irachena o i medici di un ospedale cercavo sempre di farmi dare i loro numeri, così da poterli chiamare dall’interno della base. Con il tempo sono inoltre riuscito a procurarmi dei contatti forti, tra cui quello di un giovane collaboratore dell’Associated Press che mi teneva informato e girava immagini per me impossibili da realizzare. Io tuttavia, quando passavo per la città, non lo chiamavo mai per evitare che mi potessero aggredire. In queste situazioni servono sempre attenzione e prudenza perchè uno stringer in fondo può essere chiunque, magari una spia», sottolinea Bergamini. Durante i primi mesi di missione italiana in ogni caso non era nemmeno troppo complesso riuscire a raccogliere testimonianze dirette dei cittadini iracheni. All’inizio le truppe entravano a Nassirya con una certa frequenza e portavano i giornalisti con loro. In queste occasioni i reporter potevano parlare con la gente per
I giornalisti embedded seguono le truppe governative in ogni movimento. Come loro sono esposti a pericoli e sono cotretti a scrivere in condizioni proibitive
strada, chiedere loro un giudizio sull’operato dell’esercito italiano. Questi contatti con gli abitanti del posto sono però progressivamente diminuiti. In seguito all’attentato alla base di Camp Mittica e in misura ancora maggiore dopo la battaglia dei ponti del 2004, i militari hanno stipulato un accordo non scritto, ma di fatto evidente, con le autorità locali per cui non entravano più in città e si limitavano a pattugliarla solo molto superficialmente dall’esterno. E con il passare del tempo gli incontri con i cittadini di Nassirya si sono fatti sempre più sporadici. Non solo. A mano a mano che la situazione sul campo si faceva sempre più critica anche i rapporti tra inviati e militari si sono fatti più difficili. «L’alloggio dei giornalisti è stato spostato in un luogo totalmente isolato e come se non bastasse i reporter venivano accompagnati dappertutto, in mensa e perfino quasi al gabinetto», aggiunge Bergamini. «Era quindi molto complicato riuscire ad attingere a fonti diverse dall’addetto dell’ufficio stampa, il quale, ovviamente, forniva sempre la versione più edulcorata dei fatti. Così, a quel punto, andare a Nassirya diventava una cosa quantomeno problematica, considerando i risultati e la spesa elevata che le testate dovevano sostenere».
Aprile 2003. Le truppe americane entrano a Baghdad.
Un inviato di guerra costa infatti almeno diverse centinaia se non addirittura mille dollari al giorno. Per l’albergo le redazioni devono sborsare quotidianamente tra i 50 e i 300 dollari, per l’interprete tra i 50 e i 200, a seconda del Paese e dei rischi, per l’autista tra i 100 e i 300 e a questo bisogna aggiungere l’assicurazione e lo stipendio degli inviati. Tutte spese che per le televisioni sono ancora più alte che per i giornali, non solo perché serve più personale, almeno due giornalisti e un montatore, ma anche perché bisogna pagare per prenotare il satellite e trasmettere i servizi che vengono a costare tra i 500 e i mille euro ciascuno. Accanto a questo ristretto gruppo di
inviati delle grandi testate, che possono contare su ampie risorse, si è andata così creando progressivamente una fascia bassa di giornalisti di testate alternative, siti internet o freelance. Questi giornalisti arrivano nei teatri di guerra con mezzi di fortuna, con associazioni non governative, viaggiando su pullman o in alcuni casi con l’esercito. «In Iraq sono entrata al seguito degli americani su una jeep kwaitiana senza targa e sempre in auto ero riuscita a raggiungere l’Afghanistan, dove invece altri colleghi hanno preferito varcare la frontiera a piedi con i miliziani dell’Alleanza del Nord», ricorda Schiavulli. Una volta arrivati sul posto poi questi giornalisti lavorano con pochi mezzi a disposizione, cor-
rono i rischi maggiori e sono meno tutelati persino dalle stesse testate per cui scrivono. «Generalmente mi reco in un Paese su incarico di un giornale, so già quindi per chi sto lavorando, dove devo andare e quale taglio dare agli articoli. In ogni caso però sono generalmente io a dover coprire tutte le spese, che mi vengono eventualmente rimborsate solo in un secondo momento», afferma Ramazzotti. «Nei primi anni spendevo addirittura più di quello che guadagnavo», conferma Schiavulli. «Ultimamente invece le cose sono migliorate e oggi riesco abbastanza a contrattare sul prezzo di un articolo, nonostante molto dipenda dalla guerra. In Iraq per esempio c’è una merce di scambio non da poco perché l’argomento interessa e perché io sono l’unica free-lance a recarsi nel Paese. Ad ogni mondo è fondamentale prendere accordi con i giornali prima di partire così da fare un calcolo dei costi da sostenere, dal viaggio all’interprete, e sapere di conseguenza quanti pezzi è necessario far pubblicare per poter coprire le spese e guadagnare qualcosa. Il che solitamente significa scrivere davvero parecchio». Certo le difficoltà non mancano, ma il desiderio di conoscere e documentare gli eventi è troppo forte. «Vado in questi Paesi per raccontare storie anche se è rischioso. Non ci sono testimonianze che valgono una vita, ma se questo è il mio lavoro devo farlo nel migliore dei modi, talvolta rischiando molto», sostiene Schiavulli. A ciò si aggiunge una forte curiosità. «Sono andato in Iraq spinto da una certa rabbia e incredulità per ciò che gli americani si apprestavano a fare, unitamente a un grande interesse per questa guerra che si è senz’altro distinta per la disparità delle forze in campo: da una parte un esercito inesistente dall’altro l’apparato militare statunitense, una macchina estremamente agguerrita e ben organizzata, al punto da riuscire a gestire il conflitto non solo sotto il profilo strategico, ma anche da quello mediatico», conclude Ramazzotti. «Chi si trovava sul posto doveva decidere se stare con i militari o con i civili e una volta fatta questa scelta era impossibile passare dalla parte opposta per guardare da entrambi i punti di vista questo che, come tutti i conflitti, è sempre più spesso percepito nel mondo occidentale come un evento asettico, molto e forse troppo distante perché possa davvero coinvolgerci».
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27 Non solo informazione: nei regimi autoritari la professione giornalistica diventa missione civica. La trasmissione di notizie diventa un pericoloso gioco a due con il potere.
Keep on reporting Giornalismo e privazione di libertà. Quando il reporter sfida censure e divieti dell’autorità in nome della libertà a informare e ad essere informati. Focus sul partito trasversale dei censori internazionali di Alessandro Giberti
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La libertà di stampa e il giornalismo indipendente non cessano di esistere in un preciso, drammatico momento. La loro scomparsa arriva dopo una lunga agonia, fatta di un susseguirsi di piccoli attacchi. Esattamente in questo modo si sta spegnendo il giornalismo libero in Russia». Così, Oksana Celisheva, giornalista e attivista per i diritti umani, denuncia, dalle pagine dell’Independent, la strategia che il Governo di Vladimir Putin sta mettendo in atto per contrastare le voci scomode in Russia. La professione giornalistica in molti Paesi del mondo è un esercizio molto rischioso. Il Commitee to Protect Journalists di New York ha rivelato che Anna Politkovskaja è stata la tredicesima giornalista russa morta per mano di un sicario dal 2000. Secondo Carlo Gallo, esperto di Russia per la società di consulenza sulla sicurezza Control Risks, «casi come quello della Politkovskaja e di
Paul Klebnikov, il direttore di Forbes Russia ucciso nel 2004, potrebbero essere solo la punta dell'iceberg. Di molte altre esecuzioni non si sa nulla. I cronisti locali che indagano sulla corruzione rischiano spesso aggressioni o perfino la morte». L’ultimo caso, in termini di tempo, riguarda Ivan Safronov, giornalista del quotidiano Kommersant, morto il 2 marzo scorso a Mosca dopo essere precipitato in circostanze misteriose da una finestra del palazzo dove viveva. Non si è certi sulla dinamica dell'incidente. Omicidio, suicidio, tragica fatalità. Tutte le ipotesi sono aperte. Ovviamente è importante sapere cosa sia successo esattamente all’ex colonnello delle truppe missilistiche russe Safronov. Ma non è la cosa più decisiva. Il dato più sconcertante è l’abitudine che abbiamo sviluppato a considerare possibile che in alcuni Paesi un giornalista venga arrestato o addirittura ucciso solo in ragione del proprio lavoro.
La storia di Darsi Ferrer, medico dell’Havana che ha scelto la strada della dissidenza
Quando la società civile non si allinea «Siamo cresciuti con il mito dell’uguaglianza, credendoci. Ben presto abbiamo capito come stanno le cose realmente a Cuba, e a quel punto non collaborare con la dittatura è diventato un obbligo morale» «No es fàcil». Il dottor Darsi Ferrer sceglie l’espressione più comune tra gli habaneros per sintetizzare la situazione che vive sull’isola. La sua è una storia particolare. Non è un giornalista e non vuole farlo. Il suo mestiere è un altro. Darsi è un medico. O meglio, era un medico. Ora è un dissidente. Ha perso il lavoro quando ha deciso di non collaborare più con la dittatura. Da quel giorno ha subito minacce, percosse e diversi arresti da parte della polizia politica dei fratelli Castro, la temutissima seguridad social. «Ogni cinque-sei settimane mi arrestano. L’ultima volta mi hanno prelevato da casa alle cinque di mattina. Con me c’era mio figlio di tre mesi. A loro queste cose non interessano: mi hanno portato alla unidad lasciandolo da solo per sei ore. Io non mi faccio intimorire. Continuo a oppormi alla dittatura con ogni mezzo. Presto servizio medico gratuitamente agli abitanti del quartiere dove vivo. Per fermarmi dovranno uccidermi per strada».
In questo, il partito della compressione delle libertà è più che mai trasversale. Nell'annuale graduatoria della libertà di stampa stilata da Reporters Without Borders, nelle ultime 20 posizioni troviamo Paesi molto diversi tra loro per situazione politica, economica e religiosa, ma unificati soltanto dal tratto comune del mancato rispetto delle libertà individuali. Russia, Siria, Arabia Saudita, Iran, Cina, Cuba e Corea del Nord. Questa è la lista nera dei regimi dove è più difficile svolgere l'attività giornalistica. Quali che siano le motivazioni formali addotte di volta in volta da questo o quel regime per giustificare la compressione o addirittura il tentativo di annientamento della stampa libera, il risultato è uno solo. In questi Paesi, come in molti altri, la professione e la vita stessa del giornalista sono continuamente minacciate. Per questo motivo, è completamente inutile operare dei distinguo tra i diversi Stati. E' davvero così importante conoscere le differenti giustificazioni degli ayatollah iraniani o del regime castrista a Cuba? Il risultato è soltanto uno: i giornalisti vengono ostacolati, minacciati e arrestati. Non solo: vengono abbandonati nelle carceri per lungo tempo in attesa di un processo - che, questo sì, sarebbe interessante analizzare dettagliatamente Paese per Paese - la cui sentenza è spesso già scritta. E allora ecco che, di norma, coloro i quali vogliono continuare a esercitare il mestiere di giornalista ma al contempo non disdegnano di continuare a vivere, scelgono l’esilio. Abbandonano la propria nazione, temporaneamente o per sempre, e continuano a occuparsi delle patrie sventure dall’estero. Oppure non si arrendono, spinti dal
Illustrazione di Tahar Zbiri, China su carta, collezione privata
desiderio di continuare a riportare la verità e a informare le persone. In questo caso, il giornalismo diventa quasi una missione, un contratto firmato in bianco e quindi privo di qualsiasi tipo di garanzie. Il giornalista opera una scelta irreversibile, da cui dipenderà il proseguimento stesso della sua vita. Si tratta di una decisione consapevole e, apparentemente, persino controproducente dal momento che operare in un regime chiuso, in cui la libertà di stampa non è garantita, vuol dire non riuscire neanche a diffondere il proprio lavoro. E quindi, per chi si scrive? Per quale
motivo la scelta di rischiare la propria vita diventa una scelta dotata di senso? Evidentemente il giornalista che si trova immerso in un regime da cui viene considerato un nemico, risponde, nell’esercizio della sua professione, a una logica differente rispetto a quella di un collega di un Paese libero. La sua informazione è recepita come controinformazione, come menzogna o come verità scomoda a seconda del punto di vista di chi la riceve. Questo è esattamente il risultato che questo tipo di giornalista vuole ottenere. Informare diventa uno strumento differente. Non si informa so-
lo per mettere a parte di qualcosa. Ma per ottenere un effetto secondario. Spesso l’obiettivo è quello di risvegliare le coscienze assopite delle persone, sia che esse siano all’interno, sia all’esterno del Paese stesso. Il mondo è pieno di esempi in questo senso. Ogni Stato “critico” ha i suoi martiri. Un caso significativo è quello rappresentato da Cubanet.org. Cubanet è un sito internet con base negli Stati Uniti, a Miami. Si avvale di una trentina di giornalisti indipendenti distribuiti un po' in tutta l'isola. Il focus del lavoro di questi giornalisti è proprio ciò che è più inviso al regime dei fratelli Castro. Libertà di opinione, associazione e pensiero. Quasi nessuno a Cuba può leggere ciò che i trenta giornalisti scrivono, dal momento che il regime controlla severamente Internet e gli accessi al web sono, oltreché sottoposti a censura da parte della polizia politica, limitatissimi. Nove giornalisti sono già stati arrestati dal regime. Le pene inflitte severissime. Si arriva fino a 20 anni di carcere. Gli altri però continuano a informare pur sapendo i rischi a cui vanno incontro. Armando Soler è uno di loro. «Scrivere e informare la gente sulla reale situazione a Cuba è un obbligo morale. Noi siamo perfettamente a conoscenza del fatto che prima o poi la polizia ci verrà a prelevare. Ma non possiamo smettere di informare». Interessante è il modo in cui i giornalisti di Cubanet aggirano i divieti del regime. «Dal momento che il regime controlla il web, noi dettiamo per telefono i nostri articoli alla sede di Cubanet, a Miami. Il problema è che anche la polizia lo sa, anche perché noi non lo nascondiamo affatto. Siamo controllati in ogni nostro spostamento. Nessuno può dire con esattezza quando le forze dell'ordine di Castro decideranno di arrestarci. Anche perché non lo fanno a seguito di particolari articoli su materie ritenute sensibili. Tutte le denunce che noi facciamo sono materie sensibili per il regime. Ogni tanto, semplicemente decidono di arrestarci. Questo è tutto». Ma per chi scrivono i giornalisti di Cubanet? «Scriviamo - dice Soler perché non si dimentichi la situazione a Cuba. Scriviamo per chi è interessato a sapere come vanno le cose realmente sull’isola. Ma, in fondo, scriviamo per noi stessi. Per il nostro futuro».
28 Nonostante l’impegno dell’Ordine, la separazione tra informazione e «marchette» è pura utopia. Ma non è sempre stato così. Piero Pantucci e Mirella Moretti (Amica) spiegano cos’è cambiato negli ultimi 20 anni
Maledetta pubblicità, tutto gira intorno a lei Impossibile farne a meno, ma anche tencerla a debita distanza. Così l’informazione diventa spuria e le commistioni sono all’ordine del giorno. In un mercato editoriale che mette al centro le inserzioni, l’etica passa in secondo piano. E anche il ruolo del giornalista.
S
Sorprende davvero l’interesse di alcuni settimanali italiani per la stoffa a spina di pesce. Inutile domandarsi il perché, o forse troppo complicato. Fatto sta che a sfogliare Style Magazine di novembre, il lettore si imbatte in un pezzo, anzi un un intero servizio, sullo spinato da uomo. A chi serve? È la prima reazione di molti. Tolti i 2 o 300 lettori di Style follemente appassionati di giacche a lisca di pesce, quale valore informativo ha questo servizio? A guardarlo bene, in realtà, offre notizie di prima mano su marche, prezzi e materiali dei completi che mostra, corredati anche di testimonial illustri. Poco meno che un catalogo, insomma. Servizi come quello di Style pongono il problema della presunta separazione tra informazione e pubbicità. Sicuramente lo pone a Franco Abruzzo, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Quella di Abruzzo è una vera e propria «crociata» contro la commistione tra pubblicità e giornalismo. Prima di tutto perché questa fondamentale distinzione è contenuta nella Carta dei doveri del giornalista (oltre che nell’articolo 44 del contratto nazionale di lavoro), sulla quale come presidente dell’Ordine è chiamato a vigilare. Ma soprattutto perché è un convinto sostenitore di un’informazione trasparente e non condizionata da una pubblicità pervasiva. Oltre ad essere il presidente di uno degli ordini regionali più attivi nel processare i giornalisti per questo tipo di illeciti deontologici (l’ultimo caso ha
di Daniela Verlicchi coinvolto Gianni Gambarotta, ex direttore de Il Mondo, condannato alla radiazione per aver accettato 30mila euro da Giampiero Fiorani e Gianfranco Boni della Banca Popolare di Lodi, in cambio della benevolenza del direttore per le rispettive banche), ha promosso varie iniziative anticommistione. Recentemente ha lanciato la cosiddetta «operazione Azimut» per smascherare iniziative, come quella promossa dalla nota società di gestione del risparmio milanese che allestiva le sue conferenze stampa a Dubai per illustrare i risultati della trimestrale, invitando i giornalisti delle principali testate a trascorrere qualche giorno in alberghi a 5 stelle a spese della società. E come Azimut, Max Mara, Power Enterprise, Coin e altre, tutte con il «vizietto» di offrire viaggi-premio in cambio di articoli favorevoli, o meglio, redazionali non pagati. Contro queste invasioni di campo della pubblicità, il presidente dell’Ordine propone di rilanciare ed ampliare le regole deontologiche (soprattutto quelle contenute nel contratto giornalistico). L’obiezione di coscienza, lo sciopero della firma e le dimissioni per lesione della dignità professionale, secondo Abruzzo, potrebbero fare più di molti scioperi per richiamare all’ordine gli editori. Scrive infatti nella relazione finale dell’assemblea generale dell’Ordine del 24 marzo 2005: «La pubblicità costituisce uno dei perni sui quali si regge oggi il sistema dei mass media. Non va demonizzata a patto che,
a tutela primaria del lettore, rimangano tracciati con chiarezza i confini tra le diverse sfere del giornalismo, del marketing e del messaggio promozionale. Nei contratti di lavoro è stata prevista una trasparente separazione tra notizie e pubblicità attraverso rigorose norme di comportamento che oggi vengono sistematicamente eluse o erose». Alla base di questo principio sta la credibilità del giornalismo stesso come fonte d’informazione indipendente e non influenzata, (senza una chiara distinzione tra giornalismo e pubblicità, infatti, chi può garantire che un servizio ben confezionato non sia in realtà il risultato di pressioni multiple da parte degli inserzionisti a supporto di verità a loro favorevoli?). Principi sacrosanti, in teoria, che si trasformano in scomode norme deontologiche da aggirare quando si ha a che fare con i bilanci di aziende editoriali, sempre più simili a forme di groviera senza gli investimenti pubblicitari. Difficile anche per un prodotto «pulito» dal punto di vista della separazione tra informazione e pubblicità contare su un qualche premio in termini di copie vendute. La pubblicità ormai fa parte della macchina editoriale, esattamente come le rotative, la carta o la mente dei giornalisti. Il problema forse è mettere sullo stesso piano tutti questi ingredienti. Ma non è sempre stato così, spiega Mirella Moretti, ex-caporedattrice moda di Amica: «Quindici anni fa non si conoscevano ancora tutte le potenzialità della
Oggi la pubblicità è onnipresente nella città come nei giornali, con una continuità che non conosce interruzioni
pubblicità». C’era un tempo in cui le inserzioni erano merce rara, anche nelle riviste di moda, ricorda Mirella Moretti: «Nel ‘78, quando ho iniziato io ad Amica, le inserzioni bisognava guadagnarsele. Nonostante questo, io mi sentivo molto più libera di adesso nel progettare servizi e reportage». La pubblicità era fondamentale come e forse più di adesso (a causa dell’aumento del prezzo della carta e della crisi degli anni ‘80), ma redazione e ufficio marketing erano due realtà ben separate: «era più facile sperimen-
tare, in quel periodo: io mi sentivo libera di fare accostameni azzardati, ad esempio di mettere delle scarpe gialle sotto la pubblicità di un vestito di Gucci». Ora non più: le scelte dei redattori sono, almeno in parte, etero-dirette. Lo spazio è poco, la pubblicità troppa: bisogna lavorare sui temi che propone il direttore, che spesso sono dettati direttamente dall’ufficio marketing. E come si fa a dire di no al direttore? Mirella Moretti chiarisce il concetto: «Da un punto di vista pratico, nulla è cambiato nel la-
voro giornalistico: solo in certi casi, giustamente condannati dall’ordine, alcune redattrici sono state sanzionate per aver accettato denaro in cambio di pubblicità occulta o vere e proprie campagne pubblicitarie accolte sulle pagine di moda. Ma questi sono casi isolati». I vincoli pubblicitari invece fanno parte della routine informativa di tutti i giornali. Al punto che sono proprio gli inserzionisti pubblicitari a «fare» da traino alle vendite. Un caso per tutti è Velvet, il più recente supplemento di Repubblica: 578 pagi-
30 ne a colori, 41 sponsor precedono il primo articolo della rivista, che, per giunta, parla del trucco e dell’abbigliamento di Bianca Baldi, la top model di copertina. E non è un’eccezione. Il velluto interpretato da 26 famosi stilisti, l’automobile più desiderata dagli italiani e gli ombretti più trendy (con tanto di marche e prezzi, ovviamente): questi i servizi di punta di Velvet. E c’è poco da stupirsi, spiega l’ex caporedattrice moda di Amica. Il supplemento di Repubblica è solo l’ultimo «progetto editoriali ad essere venduto soprattutto agli inserzionisti: i ricavi delle edicole sono secondari» rivela Mirella Moretti. «I marchi più prestigiosi pagano poco la pubblicità, a volte non pagano affatto: sono loro che attirano i lettori». Come nelle vetrine dei loro atelier. Così i giornali diventano cataloghi di moda. E i giornalisti, come produttori di un’informazione indipendente, diventano inutili. Non bisogna generalizzare, però. «I supplementi dei quotidiani sono un capitolo a parte: nascono come contenitori della pubblicità eccedente nel giornale-madre, costano poco e (per ragioni distributive) vendono più delle riviste», ricorda Moretti. «Non che una volta ci fosse una separazione rigida - precisa Piero Pantucci, sindacalista e membro del Cdr di Amica durante la direzione Petroni - ma almeno i confini tra pubblicità e informazione erano percepibili e c’era qualche tentativo di mantenere una certa autonomia da parte dei giornalisti». Pantucci ha condivi-
so con Mirella Moretti gli anni del boom pubblicitario ad Amica, che allora era venduto come supplemento femminile al Corsera. Negli anni’80 la crisi generale dell’editoria e la gestione controllata del Corriere avevano aperto un buco enorme nel bilancio del settimanale. La diffusione non bastava a coprire i conti. Ed è allora che si «scopre» l’importanza della pubblicità. Importanza che col tempo diventa via via più ingombrante. «Il problema principale è quello delle fonti» secondo Pantucci. E il sistema è ormai entrato nella routine informativa: «Quando ad un redattore viene assegnato un servizio, gli vengono fornite anche fonti precostituite (agenzie, comunicati stampa, documenti prodotti dalle aziende e non): materiale molto interessante, intendiamoci, che ha l’apparenza e la sostanza del prodotto giornalistico». Se a questo si aggiunge la cronica mancanza di tempo che regna nelle redazioni e la debolezza di certe posizioni contrattuali (per esempio quelle dei collaboratori o dei praticanti), il gioco è fatto. Il giornalista spesso è soggetto, più o meno consapevolmente, ad una sorta di «moral suasion», denuncia Pantucci, esercitata dal direttore stesso per conto dell’ufficio di pubblicità. «Molto, quindi, è nelle mani del direttore: l’unico della redazione che ha contatti con l’ufficio marketing». Sta a lui, quindi, bilanciare l’autonomia professionale con la necessaria attenzione agli investimenti pubblicitari. Anche dal punto di vista sindacale, secondo Pantucci,
Il New York Times sotto osservazione
Tutto il mondo è paese Se in Italia la separazione tra informazione e pubblicità è un mito, all'estero è poco più che un miraggio In questo caso, la proverbiale esterofilia degli italiani non ha ragion d’essere. Se qui è arduo tracciare una linea di confine tra informazione e pubblicità, all'estero non è più semplice. Basta sfogliare le pagine del New York Times per rendersene conto. Nella pagina oblunga del più autorevole quotidiano newyorkese, le inserzioni occupano quasi tutto lo spazio. È la pubblicità, insomma, a farla da padrona. E questo porta a scelte grafiche quantomeno azzardate, impensabili nei nostri quotidiani, come quella di affiancare due o tre inserzioni a pagina intera. Spesso gli articoli vengono relegati nell'angolo in alto a destra: tre colonne di testo che galleggiano in un mare di pubblicità. Nell’inserto culturale la confusione è persino maggiore. Accanto a un articolo sugli accessori femminili di moda, campeggia la pubblicità di una borsa di Ralph Lauren. Un servizio sui matrimoni di star e subrette è tatticamente inserito tra la foto di un abito da sposa e la pubblicità di un locale per cerimonie. Coincidenze? Quantomeno internazionali.
i tempi sono cambiati: «Una volta avevamo alle spalle redazioni, non dico compatte, ma attente a mantenere una certa autonomia rispetto alla pubblicità. Redazioni che seguivano il sindacato. Ora mi sembra che i giornalisti abbiamo capitolato sui loro principi, soprattutto su quello della separazione tra informazione e pubblicità. Quando si deve combattere per un contratto giornalistico per i collaboratori, la deontologia passa in secondo piano». Inutile nascondersi dietro un dito, secondo Pantucci: la questione è anche di tipo contrattualistico. O di sopravvivenza del mestiere, secondo Mirella Morelli. Con un buon supporto grafico, molto materiale pubblicitario e una mano in grado di mettere tutto questo in forma «commestibile» ai lettori, i giornalisti, sembra, non servono più. E rischiano di essere sostituiti. O lo sono già stati, osserva Moretti: «Le redazioni di molti femminili sono composte solo da due capi-desk e uno stuolo di assistenti che non sono giornaliste e si limitano ad un accurato copia e incolla di materiale pubblicitario». Delle semplici macchine impastatrici che si preoccupano di creare testi giornalistici leggibili e graditi agli editori attraverso gli ingredienti che hanno a disposizione: comunicati stampa e inserzioni pubblicitarie. Per gli editori è molto vantaggioso: meno giornalisti, meno dilemmi deontologici, stesso prodotto, confezionato persino più velocemente. E soprattutto a costi inferiori. La pubblicità scaccia i giornalisti dalle redazioni. Stop, fine, game-over? Fine dell’informazione indipendente? Forse no. Il giornalismo è molto più che un copia-incolla informazioni su una pagina bianca. La ricerca di storie, il confronto di fonti diverse e la contestualizzazione si possono fare anche a partire da scarni comunicati stampa. E il risultato è un prodotto più appetibile al pubblico, e quindi anche agli investitori. Si tratta di scommettere su prodotti giornalistici di qualità che non escludano la pubblicità ma la utilizzino per vendere copie. Di essa l’editoria non può più fare a meno. Ma può resistere ai suoi tentativi di stravolgere il linguaggio e il contenuto del giornalismo. È una sfida. La sfida del futuro.
Non solo alambicchi: oggi la ricerca ha bisogno di una nuova figura di comunicatore capace di declinare il linguaggio dei laboratori in forme di largo consumo
Un cronista per la scienza Trasmettere al pubblico i contenuti delle nuove scoperte sta diventando un compito sempre più difficile. Serve una solida preparazione e la capacità di ricondurre gli specialismi sui sentieri della quotidianità di Daniele Montanari
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Il 23 marzo 1989 il chimico americano Stanley Pons e il collega britannico Martin Fleischmann sconvolsero il panorama mediatico mondiale annunciando di essere riusciti a realizzare la leggendaria “fusione fredda”, uno dei più grandi miti energetici della storia. La notizia era priva di qualsiasi avallo della comunità scientifica, ma per diverso tempo fu lasciata libera di percorrere le praterie dell’informazione con un passo degno dei cavalli dell’Apocalisse. All’apparir del vero, rimediò una sonora caduta che rintronò a lungo nell’imbarazzato circuito dei media: la
sirena dello scoop aveva ammaliato anche specialisti abituati a una lunga convivenza con cautela e approfondimento. Da allora ne è passata parecchia di acqua sotto i ponti: oggi il giornalista scientifico ha a disposizione strumenti di indagine e verifica che dovrebbero scongiurare il pericolo di altre Caporetto informative. La sua figura ha ormai acquistato piena cittadinanza nel mondo della carta stampata: i maggiori quotidiani nazionali ospitano settimanalmente una sezione dedicata agli approfondimenti dei fatti di scienza e diversi
Il cammino della scienza continua ad aprire prospettive affascinanti, su mondi complessi e ancora misteriosi
periodici hanno saputo guadagnarsi l’attenzione dei lettori soffermandosi esclusivamente su queste tematiche. «Al Corriere il giornalista scientifico ha ormai uno status riconosciuto e partecipa alle quotidiane riunioni di redazione», sottolinea Giovanni Caprara, responsabile scientifico del Corriere della Sera. «In televisione invece la situazione è molto diversa: nei sette principali telegiornali manca completamente questo tipo di figura, ed è un’assenza che si avverte». Ma quali sono le sue peculiarità? «Credo che il giornalismo scientifico
32 si distingua dagli altri soprattutto per due motivi», osserva Piero Bianucci della Stampa, ideatore nel 1981 del supplemento TuttoScienze. «Il primo è che dura nel tempo: penso, ad esempio, alla mia intervista del 1982 a Carlo Rubbia, in cui il fisico annunciava la sua scoperta da premio Nobel. Il secondo è che continua ad essere al centro dell’immaginario collettivo: la scienza riesce ancora a stupire e meravigliare la fantasia, non è solo patrimonio di pochi eletti». Sulla stessa linea d’onda Massimo Murianni del mensile Newton che, da laureto in filosofia, pur soffermandosi sulla «necessità di una conoscenza specifica della materia, stimolata dalla curiosità» afferma che «ai fini della comunicazione non sono necessarie competenze da scienziato». Per il giovane Sergio Pistoi, a lungo corrispondente di Reuters Health, con alle spalle un’esperienza da ricercatore biomedico all’estero, il giornalista scientifico «pur non essendo molto diverso dagli altri, dovrebbe avere comunque una preparazione particolare che lo aiuti a familiarizzare con la materia, mettendolo in condizione di distinguere il vero scienziato dal falso». D’altra parte, Caprara sottolinea come rispetto agli altri giornalismi questo richieda «un approccio più preciso e definito alla notizia. Qui, alla fine, non c’è molto da discutere: si rimane sempre sullo sfondo di un’oggettività marcata, che non lascia molto spazio a elementi di contorno. In questo senso, ci potrebbe essere una certa affinità col giornalismo economico». Con cui si condivide anche la sfida della semplificazione, che passa comunque per la competenza: «Bisogna sapere dieci per comunicare uno. Se si ha alle spalle un buon bagaglio di conoscenze, diventa più facile presentare un tema anche complesso in termini giornalistici», osserva Bianucci. L’obiettivo è un’esposizione comprensibile che, pur non svilendo la complessità dei fatti, evidenzi gli elementi umani che fanno da contorno alle scoperte. Con l’avvento di internet, il giornalista scientifico è comunque entrato in possesso di un ulteriore strumento di approfondimento e verifica che ha dato nuovo spessore all’informazione, ridisegnando il rapporto con le fonti. Oggi è possibile, ad esempio, verificare una notizia visitando i siti dei più importanti centri di ricerca o le sezioni ad hoc di testate come New York Times, Bbc ed El Mundo,
che sfruttano al meglio le risorse multimediali. «Internet è un mezzo che permette di arrivare a chiunque, una biblioteca immensa in cui però bisogna saper scegliere con discernimento», commenta Cristina Nadotti, della redazione scientifica di Repubblica.it. Concorda Murianni: «È uno strumento fondamentale, che però può rivelarsi pericolosissimo se non viene gestito con le dovute cautele, specialmente al di fuori dei siti ufficiali», dove spesso si fa soltanto folklore. In ambito scientifico il processo di selezione delle notizie segue logiche che non si distanziano troppo da quelle della comune prassi giornalistica. Secondo Caprara, «si scelgono soprattutto argomenti che possono riscuotere interesse al di fuori dei circuiti specialistici. I misteri delle stelle, ad esempio, che sono di certo più affascinanti dei meccanismi cellulari». D’altra parte, spesso una notizia di richiamo può stimolare il lettore ad addentrarsi in questioni più complesse e prive di particolare appeal. Fondamentale, in questo senso, il ruolo della grafica, come sottolinea Murianni: «Prima si vede, e poi si apprende leggendo: la stampa viene percepita in modo diretto, e l’impostazione grafica dà un istintivo carattere all’articolo, stabilendo spesso il suo destino». A diciotto anni di distanza, la sindrome da fusione fredda sembra ormai soltanto un lontano ricordo. Come precisa Caprara, «dopo avere appreso la notizia da una determinata fonte, bisogna sempre consultare gli esperti del settore, per avere qualche elemento in più che permetta di
verificarne l’attendibilità». L’indipendenza del giornalista, insomma, è garantita dalla sua competenza. Peraltro, conclude Bianucci, «in ambito strettamente scientifico è più facile rimanere indenni da pressioni esterne, a differenza di quanto accade nel settore salute, spesso al centro delle attenzioni delle case farmaceutiche».
Il giornalista medico Negli ultimi anni i rapidi e continui sviluppi della ricerca medica hanno evidenziato la necessità di una nuova figura di comunicatore che, grazie a una solida preparazione teorica, riuscisse a tradurre in termini giornalistici i risultati ottenuti nei laboratori. Se l’attenzione verso la sfera della salute ha raggiunto i livelli attuali, lo si deve in parte anche a chi, sugli inserti dei quotidiani o fra le pagine di riviste specializzate, si è periodicamente incaricato di declinare il tema in forme di largo consumo. Un percorso irto di ostacoli, visti gli interessi che gravitano attorno al settore. Già la Carta internazionale della professionalità medica riconosce infatti che «il giudizio professionale riguardante un interesse primario come la salute dei cittadini può essere influenzato indebitamente da un interesse secondario». Proprio l’esigenza di definire meglio i termini di una corretta opera di divulgazione ha spinto recentemente anche l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia a promuovere l’adozione di una carta deontologica sull’informazione bio-medica che ricalca quella toscana. Il documento è stato preparato in collaborazione con il Gruppo 2003, associazione che riunisce gli
Parla Giorgio Santocanale, segretario e tesoriere dell’associazione
L’Ugis e la sfida della divulgazione «Il giornalista scientifico ha di fronte un compito sempre più complesso. Le scoperte si susseguono con un ritmo frenetico che ostacola l’opera di approfondimento» L’Unione Giornalisti Italiani Scientifici è nata nel 1966, pochi mesi prima dell’International Science Writers Association londinese, con il compito statutario di “facilitare, valorizzare e promuovere l’informazione scientifica e tecnica”. «Allora il compito del giornalista scientifico era più facile, perché le scoperte erano più dilatate nel tempo», nota Giorgio Santocanale, segretario e tesoriere. «Oggi invece va incontro a ritmi frenetici che ostacolano l’opera di approfondimento». Anche nell’era di internet per Santocanale «il principale strumento di lavoro del buon giornalista resta sempre l’agenda personale, fondata su un rapporto di reciproca fiducia con le fonti, che purtroppo a volte può essere tradita, anche involontariamente». Resta quindi una sfida dell’attendibilità in parte ancora da vincere, per continuare a fare presa su «un pubblico comunque sempre affascinato dal cammino della scienza».
scienziati italiani più citati nella letteratura scientifica internazionale. Il presidente Pier Mannuccio Mannucci ha commentato l’iniziativa dicendo che «la questione di offrire un’informazione corretta e trasparente nel settore bio-medico è di grande attualità e di primaria importanza», visto che «la sanità è più che mai sotto esame e una comunicazione errata, sensazionalistica e superficiale potrebbe offuscare tutto quello che di buono i centri di ricerca e di cura hanno fatto finora e stanno continuando a fare». L’ambito, quindi, è inscindibilmente legato a una prospettiva etica. «Qui si svolge veramente una funzione di servizio», spiega Edoardo Rosati, medico e giornalista, consulente scientifico di Oggi e curatore dell’ultima edizione del dizionario Medico del Corriere. «Diamo informazioni che hanno un immediato ritorno pratico e da cui può dipendere la salute delle persone». «Bisogna avere un senso di responsabilità maggiore rispetto a quello richiesto dalla comune prassi giornalistica», gli fa eco Paolo Rossi Castelli di Ok Salute. «Chi scrive di medicina deve avere completa padronanza della materia che sta trattando. Spesso invece se ne occupano persone totalmente digiune di terminologia specialistica, che usano parole a sproposito senza rendersi conto del danno che possono procurare». Deposto l’armamentario retorico, il
giornalista medico vede nel lettore un potenziale paziente in cerca di informazioni che possano aiutarlo a migliorare lo stato di salute. Per raggiungere questo obiettivo, come ricorda Castelli, «spesso bisogna semplificare, che non vuol dire essere imprecisi, ma dire cose esatte in un linguaggio immediatamente comprensibile, arrivando anche a qualche compromesso». L’importante comunque è «mantenersi nel giusto mezzo nell’esposizione delle terapie ed evitare toni trionfalistici che possono alimentare false speranze. Purtroppo, spesso invece la gente costruisce le proprie aspettative su titoli ad effetto che verrebbero prontamente smentiti da una lettura completa degli articoli». Il rapporto con le fonti qui assume una declinazione tutta particolare: «Ci si trova spesso di fronte a medici e professori con una scarsa propensione a comunicare, che devono essere rapportati con un pubblico in cerca di informazioni immediatamente spendibili», nota Rosati. «Ma c’è anche chi incappa nella tentazione di presentare conclusioni certe per guadagnarsi un opportuno ritorno mediatico». Alla difficile opera di mediazione tra studiosi e lettori si aggiungono le insidie del marketing: «Bisogna sempre vagliare l’attendibilità della fonte», sottolinea Castelli. «Gli studi provenienti da università, Cnr, Istituto Superiore di Sanità o comunque pub-
Oggi la ricerca sta sempre più diventando patrimonio condiviso grazie all’opera di divulgazione del giornalista scientifico
blicati su riviste come Nature, Science o il New England Journal of Medicine si rivelano in genere estremamente rigorosi. Aziende e centri privati, invece, tendono spesso a far passare notizie prive di riscontro per favorire la commercializzazione di determinati prodotti: qui entra in gioco la competenza del singolo giornalista e la sua capacità di svolgere un’adeguata funzione di filtro». «Perché si usano così spesso i nomi commerciali delle molecole, quando si ha a disposizione la loro classificazione chimica?», si chiede a questo proposito Rosati, ricordando tante «cartelle stampa su farmaci nuovi poi rivelatisi soltanto vecchi prodotti collocati sul mercato in maniera diversa». Se per strutturare la comunicazione in maniera efficace è senz’altro indispensabile «uno stile accattivante, che strizzi l’occhio al lettore senza indulgere allo spettacolo e sottrarre attenzione alla notizia», anche in ambito medico l’impostazione grafica assume un ruolo fondamentale. «È uno dei settori che si prestano di più all’illustrazione», nota Castelli. «Un’immagine scelta bene riesce a trasmettere l’equivalente di dieci pagine di testo in un tempo infinitamente più breve. Ma può anche spaventare, più o meno inconsciamente. Fra i lettori ci possono essere molti malati, per cui va valutato attentamente il possibile impatto emotivo di una fotografia, evitando di indulgere a coloriture drammatiche».
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35 L’inchiesta della magistratura milanese sul caso Abu Omar ha scoperchiato un fenomeno che si credeva estinto con la fine degli anni di piombo
Spie in redazione, se il giornalista si crede 007 Il caso “Betulla/Farina” è solo l’ultimo esempio di cronisti invischiati in rapporti “perversi” con i servizi segreti. Una triste spy-story all’italiana che ha messo in luce i pericoli e le difficoltà di auto-regolamentazione della categoria di Pierpaolo Lio
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In un paese dove è stata inventata la parola “dietrologia”, che è poi assurta allo stato di scienza, dove l'ombra di servizi segreti deviati ha accompagnato l'intera storia repubblicana e dove la fama dei giornalisti non è mai stata delle migliori, lo scandalo Sismi-Farina è suonata come la conferma dei timori e dei sospetti della gente comune. Il più grande scandalo nei rapporti “pericolosi” tra giornalisti e 007 prende avvio il 6 luglio 2006, nell’ambito dell’inchiesta della magistratura milanese sul caso del rapimento di Abu Omar, l’imam della moschea di viale Jenner. La extraordinary rendition dell’imam venne eseguito da un drappello di agenti della Cia con l’appoggio e la copertura del Si-
smi, il nostro servizio segreto militare agli ordini del generale Nicolò Pollari. Sui giornali di quel giorno appare il nome “Betulla”, nome in codice del giornalista Renato Farina, vicedirettore del quotidiano Libero, che ha lavorato, come poi ha egli stesso ammesso, per conto di Pio Pompa, a capo dell’ufficio riservato del Sismi di via Nazionale 230, a Roma, dedito al “dossieraggio” di svariate personalità del mondo politico, giornalistico, industriale e della magistratura italiana. La fonte “Betulla” ha lavorato, retribuito con assegni per un totale di settemila euro, come informatore per questa centrale di spionaggio occulta, pubblicando finti dossier fatti ad arte per screditare Romano Prodi, pubblicati su Libero, e
Approvata alla Camera l’ultima Riforma dei Servizi Segreti
Nuove regole per i James Bond Da oggi sedi di partito, di sindacato e giornalisti professionisti saranno “off limits” per i nuovi Sismi e Sisde. Per legge Sismi e Sisde vengono sostituiti da Sie (Servizio di informazione per la sicurezza esterna) e Sin (per la sicurezza interna), che devono rispondere al presidente del Consiglio. L’attività delle due strutture è coordinata dal Dis (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza), che prende il posto del Cesis. Aumentano i componenti del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi (Copaco) e sono vietate “operazioni improprie” nei confronti di partiti, sindacati e giornalisti professionisti. Sono alcune delle novità della riforma dei Servizi Segreti, approvata alla Camera, che prevede la possibilità per l’agente di commettere reati, ma solo previa autorizzazione. Rischia invece fino a 10 anni di carcere chi usa illegittimamente archivi dei Servizi o ne istituisce di “alternativi”, mentre il magistrato che viene a conoscenza di attività di intelligence deve informarne il premier per sapere se è presente il segreto di Stato che, comunque, non può superare i 30 anni.
cercando di ottenere informazioni sullo stato dell’indagine condotta dai pubblici ministeri Armando Spataro e Ferdinando Pomarici sul rapimento Abu Omar, attraverso una finta intervista. La risposta dell’organo di autogoverno della professione, l’Ordine dei giornalisti, è stata la sospensione per dodici mesi di Farina/“Betulla”. «Renato Farina ha strumentalizzato la professione giornalistica», afferma Franco Abruzzo, presidente dell’Odg della Lombardia. «Ponendosi al servizio del Sismi, con il quale, almeno dal 2004, ha mantenuto un rapporto costante. Così facendo, ha compromesso la sua dignità e quella dell’Ordine al quale appartiene. Ha piegato l’esercizio della libertà di stampa a fini estranei ai doveri di indipendenza e autonomia, lealtà e buona fede, osservanza delle leggi e rispetto dei lettori propri di chi svolge una funzione di pubblico interesse, qual è quella del giornalista. Con questo comportamento Farina ha violato il Contratto nazionale, la legge professionale, la Carta dei Doveri e la legge 801 del 1977 sui servizi segreti». La gravità della vicenda è confermata da Falco Accame, esperto di 007 ed ex membro della Commissione Difesa. «Il caso SismiFarina è gravissimo. Di una gravità superata soltanto dai rapporti che si instaurarono tra agenti segreti e magistrati nell’epoca
Spie e giornalisti sono da sempre protagonisti delle pellicole hollywoodiane, in questo modo sono entrati nell’immaginario collettivo
della P2». Ma alla condanna formale dell’operato dell’ex vicedirettore de Il Giornale prima e di Libero poi, non è seguita la pena massima: la radiazione. Secondo Abruzzo, questa possibilità sarebbe stata eccessiva. «Come abbiamo scritto nella motivazione del procedimento contro Farina», spiega Abruzzo «il Consiglio ha valutato sia la personalità di Farina, che era incensurato sul piano deontologico, sia il prezzo devastante che lo stesso ha già pagato sul piano dell’immagine e della credibilità dopo l’esplosione dello scandalo. Nella moderna società dell’informazione, i mezzi mediatici sono in grado di incidere profondamente sul decoro e sulla dignità di una persona. La sanzione massmediatica è più incisiva e affittiva oggi della stessa pena o della stessa sanzione disciplinare soprattutto quando il protagonista è un professionista». Il caso Farina, però, non è isolato nella storia della stampa italiana, dove sono stati diversi i casi di rapporti non consoni tra spie e giornalisti. Come ricorda Gianni Barbacetto nell’articolo “La guerra segreta del Supersismi”, apparso sul numero del 14 luglio 2006 di Diario, «l’Italia ha la me-
moria corta e ha dimenticato il lungo elenco di giornalisti venduti ai servizi: da Giorgio Zicari, capocronista de il Corriere della Sera, a Guido Giannettini, da Mario Tedeschi a Giorgio Torchia, dagli uomini de il Borghese a quelli de il Secolo d’Italia, fino a Guido Paglia, oggi alto dirigente Rai, ieri autore di scoop impossibili (riuscì a scrivere del ritrovamento di un arsenale di armi dei “rossi” a Camerino il giorno prima che fosse “scoperto” dai carabinieri)». Sembra difficile, quindi, trovare soluzioni per un problema che può essere esiziale per il processo democratico di uno stato. «La legge che hanno infranto i nostri Servizi e l’ex giornalista di Libero è del 1977», ricorda Accame, che fu tra coloro che la prepararono «e, all’articolo 7, primo comma, vieta ai giornalisti di collaborare con i servizi segreti e, agli agenti segreti di assoldare giornalisti. Una legge che, però, come si è visto, è servita a poco ed è facilmente aggirabile. Il problema è che non c’è un vero controllo sulla nostra intelligence, che fa ciò che vuole. Infatti, per controllare, bisogna conoscere, ma troppo spesso chi è deputato a controllare non ha alcu-
na idea della materia. Dobbiamo prendere esempio dai nostri colleghi anglosassoni che alla legge fanno seguire adeguati controlli. Bisogna istituire veri comitati di controllo e fornire al Copaco, la commissione parlamentare sui servizi segreti, un nucleo di investigatori, magari ex dipendenti di Sismi e Sisde, al servizio della legge che operino per scoprire se e quando gli 007 procedono fuori dalla legalità. Invece, la nuova riforma allo studio della commissione continua sulla nostra tradizione di poco controllo ed efficacia». Da parte di molti, compreso la Fnsi, il sindacato nazionale dei giornalisti, sono arrivate pesanti critiche all’Ordine per la poca severità adottata nel caso. «Delibere come quella dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che prevede la scandalosa e ridicola sospensione per 12 mesi di un giornalista reo confesso di aver collaborato (retribuito) con il Sismi, delegittimano di fronte alla categoria e all’opinione pubblica lo stesso ruolo e la funzione dell’organismo di autogoverno deontologico dei giornalisti. Renato Farina», sostiene Paolo Serventi Longhi, segretario generale della Fnsi, «andava radiato dall’Ordine e non sospeso per 12 mesi. A questo punto occorre che i giornalisti italiani riflettano seriamente su una istituzione che, in questo caso, tende a giustificare comportamenti inaccettabili di iscritti. L’istituzione ordinistica ha un senso solo se tutela l’interesse colletti’o dei cittadini e dei tanti giornalisti che fanno onestamente il loro mestiere, senza “stipendi” corrisposti dalle fonti». Il problema, quindi, del rapporto, spesso perverso, tra giornalisti e fonti, specialmente nel caso dei Servizi segreti, è non solo un punto dolente per il giusto funzionamento dello Stato e per il rispetto delle istituzioni democratiche, ma è anche una minaccia alla credibilità della professione e delle sue forme di autogoverno, già in crisi per altri motivi.
36 A più di dieci anni dalla scomparsa dello storico settimanale la satira resta confinata in spazi angusti, in mezzo alle altre notizie. Per chi quel giornale l’ha diretto la colpa è della tv.
Ridere senza Cuore Serra: «La satira è forte solo quando riesce ad esprimersi in testate e gruppi di lavoro. Ma oggi gli autori restano distanti gli uni dagli altri e vanno a guadagnarsi la pagnotta in tv, dove al massimo possono dedicarsi alla comicità» di Igor Greganti
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Nel marzo del 1992 viene assassinato a Palermo l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Poco dopo un settimanale titola: «Come John Lennon. Lima ucciso da un fan impazzito. L’ennesima tragedia dello show-business». A salutare così «l’indimenticabile autore di Hey Giulio e Lady Madonia» sono quelli di Cuore che raccontano a loro modo, e forse meglio di altri, a circa centomila fedelissimi lettori un fatto di cronaca tipicamente italiano, al confine tra parlamento e lupara. Per loro c’è il tempo per scrivere un’altra prima pagina memorabile: «Scatta l’ora legale. Panico tra i socialisti». Poi Cuore chiude i battenti e i suoi stravaganti redattori, da Michele Serra a Vincino a Ellekappa, si distribuiscono nelle testate “serie”, sancendo la morte dell’ultima delle riviste satiriche. Con la fine di quello storico settimanale «di resistenza umana», così si
definiva, nato a sua volta sulle ceneri di Tango come inserto de L’Unità e morto come giornale autonomo nel 1996, si è spenta anche una tradizione italiana, il giornalismo satirico, che tanti fogli ha dato alla penisola, da quelli anticlericali tra l’Otto e il Novecento, al Bertoldo e al Marcaurelio costretti a fare i conti col regime fascista, al Candido di Guareschi nel dopoguerra, fino alla satira corrosiva, colpita continuamente da denunce e censure, dei redattori de Il male, che visse a cavallo degli anni ’80. Oggi, dieci anni dopo la chiusura dell’ultimo giornale satirico a diffusione nazionale, che arrivò a toccare le 170mila copie in piena Tangentopoli, che fine ha fatto il giornalismo satirico? O meglio, quali spazi ha ancora a disposizione il giornalista satirico? Mentre in Francia, ad esempio, il suddetto può contare ancora sulla resistenza ultradecennale di due contenitori importanti come i settima-
Esce da Rizzoli un volume che ripercorre i cinque anni dello storico settimanale satirico
Il passato che fa Male Vincino: «Fu un’esperienza irripetibile e stupenda. Eravamo liberi di scrivere e colpire chi volevamo. Riuscimmo a far arrabbiare l’intero arco politico italiano». Rizzoli ha voluto ricordare i cinque anni terribili della satira italiana riportando alla memoria degli italiani l’avventura de Il Male, il settimanale che fece arrabbiare tutto il mondo politico italiano con le sue vignette feroci. Il Male fu fondato da Giuseppe Zaccaria nel febbraio del 1978, amava mischiare la realtà con il falso. Questo settimanale resterà nella memoria degli italiani anche grazie ai numerosi falsi delle prime pagine dei quotidiani italiani. Tra le prime pagine false de Il Male c’è quella del Bild del 29 febbraio 1980 che anticipa di nove anni la caduta muro di Berlino, con tanto di gente che entra ed esce dalla porta di Brandeburgo. La sua satira si scontrava spesso con il dolore delle tragedie della politica italiana e con la morte dei grandi statisti di allora. Tutti ricordano che i repubblicani acquistarono centinaia di copie de Il Male, per poi bruciarle, dopo che il settimanale aveva titolato sulla morte di Ugo La Malfa paragonandola alla scomparsa di una tartaruga. Nel caso del rapimento Moro, il settimanale fu duro e impietoso riproducendo l’immagine dello statista nelle mani delle Br intento a lavare i piatti o mentre si scusa con gli italiani perché nelle istantanee delle Brigate rosse non indossava abiti Marzotto.
nali Le canard enchaîné e Charlie Hebdo, quest’ultimo ancora al centro di forti polemiche in patria per aver pubblicato le sfortunate vignette danesi su Maometto, in Italia la satira a mezzo stampa vive nelle rubriche e nelle vignette sparse qua e là sulle diverse testate. In spazi ben delimitati, quindi, e accanto a pezzi di pura cronaca o editoriali. «Di questi tempi - spiega uno dei fondatori del Male, Vauro Senesi che, come altri suoi colleghi vignettisti che provengono da quell’esperienza, disegna oggi per un quotidiano, Il Manifesto - un direttore di un giornale quando decide di mettere su una vignetta lo fa con un atteggiamento conformista, considerandola niente più che un orpello, da inserire in pagina solo perché anche i suoi concorrenti ce l’hanno». Per fortuna, però, e Vauro ne è convinto, «una volta concessole anche un piccolo spazio, la satira riesce con la sua forza ad allargarsi e a diventare una voce. Anche la vignetta, infatti, è un modo per fare informazione, perché stimola la capacità critica del lettore e lo avvicina alla lettura del resto del quotidiano». Ma sui giornali italiani, oggi, non ci sono solo i vignettisti a offrire un buon bicchiere di satira. Una certa dose la concedono anche alcuni giornalisti, le cui rubriche, da L’amaca di Michele Serra al Bonsai di Sebastiano Messina, entrambe su La Repubblica, alle Bananas di Marco Travaglio su L’Unità, spesso diventano per il lettore veri e propri luoghi di culto quotidiani. «La satira è una manipolazione linguistica - racconta Michele Serra -. Chi legge deve intendere fin dalle prime righe che il testo è satirico, e non ha pretese né di obiettività, né di cronaca, anzi è fortemente sogget-
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tivo. È un’allegra e tendenziosa distorsione della realtà». Tuttavia, nonostante la peculiarità del suo linguaggio, più vicino alla soggettività dell’arte che all’oggettività della cronaca, il giornalista satirico svolge un’importante funzione politica, nel senso più ampio del termine. «La buona satira - continua Serra - è soprattutto quella capace di far emergere le storture e i difetti, non solo dei singoli politici, ma di un’intera epoca, con i suoi consumi, le sue maniere e le sue manie». E il giornalista satirico, in fondo, è il primo dei moralisti. Per l’ex-direttore di Cuore, difatti, «il giornalista che scrive in forma satirica non fa altro che utilizzare una forma di pudore personale, una sorta di antidoto che gli permette di sconfiggere la retorica». Se qualcosa non va e lui ne vuole parlare, «piuttosto che salire sullo scranno del censore di turno, preferisce imboccare il
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terreno dell’imprevedibilità e della sorpresa, che è quello della satira». Da sempre quest’ultima, inoltre, ha l’obiettivo di impallinare il potere e chi lo rappresenta. Per spiegarlo in parole semplici e crude: «Tra un politico e un giornalista satirico deve intercorrere lo stesso rapporto che c’è tra la vittima e il suo killer». La pensa in questi termini Marco Travaglio, che aggiunge: «Colui che fa satira deve far ridere e far incazzare. Deve rappresentare uno strumento di controllo, l’arma di difesa del cittadino comune nei confronti del potere. Senza limiti, se non quelli del codice penale e senza appartenere ad alcun partito. Esistono solo due comandamenti: assumere il proprio punto di vista e da quello sparare, con la penna, a chiunque passi a tiro. Se il politico si complimenta e ride, hai fallito». Oggi, secondo Michele Serra, pro-
Nella pagina precedente alcune copertine del settimanale satirico Cuore diretto da Michele Serra
prio la mancanza, da qualche anno ormai, di un importante giornale di satira testimonia che il ruolo del giornalista satirico è in crisi. «Le vignette godono ancora di buona salute - spiega - ma la satira scritta sta male. Questa, infatti, dimostra di essere forte solo quando riesce ad esprimersi in vere e proprie testate e gruppi di lavoro, come successe con Cuore anni fa». Le cause di questa crisi? «Credo che sia la tv - prosegue Serra - a sottrarre energie alla nascita di un nuovo giornale di satira. Molti autori satirici oggi per portare a casa la pagnotta lavorano in tv e non riescono a dedicarsi ad altri progetti. Con l’ulteriore distorsione che la tv odierna assorbe completamente la satira nella comicità e le fa perdere il suo linguaggio». Travaglio è ancora più diretto. «In tv di satira non ce n’è più, è stata sterminata. Si rifugia nei teatri e nei pic-
In alto alcune copertine del settimanale satirico livornese Il Vernacoliere
coli spazi che coraggiosamente le concedono alcuni giornali. Tuttavia, è proprio nel momento in cui le libertà vengono compresse, e anche il giornalismo serio diventa accondiscendente e non fa il suo mestiere, che la satira svolge una vera attività di supplenza dell’informazione». Su Internet, intanto, che non si fa mancare nulla, vivacchiano una decina di siti e blog satirici. D’altronde, fu proprio su un portale, che Lia Celi, reduce dall’esperienza con Michele Serra & Co., decise di trasferire nel 1997 un pezzo del suo Cuore, che resiste tuttora. Un’altra realtà dura a morire nel panorama della stampa satirica italiana è certamente il Vernacoliere. A dirigerlo ed editarlo è sempre lui, Mario Cardinali, che il mensile livornese lo ha conosciuto anche sotto un’altra veste. Nel 1961, infatti, lo fondò col nome di Livornocronanca. Era un pe-
riodico di controinformazione, ma nel 1982 arrivò la svolta e il giornale divenne Livornocronaca – il Vernacoliere, un mensile satirico scritto per tre quarti in vernacolo livornese. Nome e identità che resistono ancora in una testata che è certamente la più sboccata d’Italia, e che, nonostante la volgarità manifesta, vende tra le quaranta e le cinquantamila copie, non solo a Livorno, ma anche in altre regioni del centro-nord. Al Vernacoliere lavorano più di venti persone, tra redattori, collaboratori e vignettisti, la maggior parti dei quali nella vita svolge professioni di tutto rispetto, dal musicologo alla filosofa. Ma è l’assoluta e voluta mancanza di rispetto a trovare sfogo, invece, nelle pagine delle settimanale. E nelle locandine che lo pubblicizzano. Non raggiungono certo tutte le edicole, ma quando si trovano non si può fare a meno di leggerle. Febbraio 2007:
«Troppi veleni per aria. Appello der Governo. Bisogna scurreggià di meno. Anche dall’intestino sortano tanfate dannose per l’ambiente». E ancora: «Busce cià un cardano ner cervello. S’è fatto le lastre ma ‘un si vole operà. E ‘ntanto séguita a bombardà». Pieno di parolacce e delle sue classiche notizie inventate e paradossali, arricchito, però, anche dalla presenza di alcuni editoriali seri, scritti dal suo direttore, il Vernacoliere detiene un record che lo pone completamente fuori dalle regole dell’editoria moderna, ma nella tradizione dei giornali satirici: vive senza pubblicità. Anche su Cuore, del resto, solo una volta apparve una reclame: era il giorno del lancio della Fiat Punto. Il settimanale bolognese pubblicò gratuitamente una pagina intera per la Renault Clio, che protestò a lungo per indebito utilizzo del marchio.
40 Viaggio tra le trasformazioni del giornalismo sportivo degli ultimi vent’anni. Le testimonianze di Italo Cucci e Gian Paolo Ormezzano
Lo sport si racconta con i numeri Nel dopo Brera tramonta il gusto per il racconto: schemi e cifre sostituiscono la scrittura immagignifica. Cresce la specializzazione ma viene meno la critica di Luca Balzarotti
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Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo, cominciava così la cronaca di una partita di Coppa Campioni in Ungheria. «Budapest e l’ansa del Danubio fra rive illuminate da tremolanti ceri per i morti. S’indovina la città estenuata sotto la Cittadella che fu dei turchi»: era la metà degli anni Settanta. Trent’anni dopo, dello stile di Brera e della scuola di giornalisti che a lui facevano riferimento - riuniti sotto l’etichetta dei “brerini” - non ci sono più tracce. Il gusto per il racconto si è attenuato, i reportage narrativi che facevano da cornice alle cronache degli eventi sportivi sono pressoché un ricordo. Se con Brera il mestiere del giornalista sportivo veniva paragonato a un autore di romanzi, oggi questa professione assomiglia sempre più al lavoro di uno scienziato: le figure retoriche e i barocchismi hanno lasciato spazio a tecnicismi e a un lessico che procede per numeri e schemi. A spiegare l’evoluzione del mestiere degli ultimi vent’anni è Italo Cucci,
ex direttore del Guerin Sportivo, il più antico settimanale sportivo italiano, e autore di Tribuna Stampa, un’opera in cui Cucci riassume la storia del giornalismo sportivo. «C’è un momento storico in cui abbiamo abbandonato il modello di Brera per seguire la strada di un addetto ai lavori, un allenatore che parlava per ore in televisione con numeri, schemi, lavagne», spiega Cucci. «Si tratta di Arrigo Sacchi che a fine anni Ottanta è stato ingaggiato dal presidente del Milan, Silvio Berlusconi». L’ex direttore del Guerin Sportivo vede nel 1989 l’inizio del dopo Brera, segnato dal passaggio da un modello di giornalista narratore a uno più tecnico. Nel ciclismo, ad esempio, il gusto per il racconto rendeva autentici romanzi le cronache delle più importanti corse a tappe. «Ricordo di aver vissuto delle tappe dove una pozza d’acqua era sufficiente per ispirare una cronaca» racconta Gian Paolo Ormezzano, per anni il cronista di riferimento di parecchi Giri
Nella foto a destra Gianni Brera insieme al numero dieci del Milan e della Nazionale degli anni Settanta, Gianni Rivera. Il giornalista pavese aveva ribattezzato il talentuoso calciatore rossonero “Abatino”
Il direttore più giovane della storia del giornalismo e autore di diversi romanzi
Brera e i «brerini», una lingua che ha fatto scuola «Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l’8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po». Basterebbe l’incipit dell’autobiografia di Brera per capire l’inventiva e la padronanza della lingua dello scrittore che più di tutti ha influenzato il giornalismo sportivo italiano. Fu il più giovane direttore della storia del giornalismo: all’età di 30 anni fu chiamato a dirigere La Gazzetta dello Sport. Oltre alla Gazzetta Brera scrisse anche sul Giorno, sul Giornale, sul Guerin Sportivo e sulla Repubblica inaugurando uno stile che ha fatto scuola non solo nel campo sportivo, tanto che fu coniato il termine spregiativo “brerini” per quei giornalisti che si rifacevano al suo stile senza lo stesso talento linguistico. I detrattori, invece, lo classificarono come un grande “paroliere”. Brera abbinava competenza sportiva a una penna da scrittore e amava cimentarsi nei romanzi: nel 1978 Il corpo della ragassa venne adattato per il cinema da Alberto Lattuada e diretto da Pasquale Festa Campanile.
d’Italia. «Oggi invece una pozza d’acqua ha senso solo se ci annega dentro un bambino. Con l’avvento della televisione, la cronaca sportiva sarebbe rivalutata solo se la scrivesse Hemingway, solo che i poeti oggi mancano. Gli stimoli che avevamo a raccontare e a “inventare”, quelli che hanno dato avvio al giornalismo immagignifico delle grandi cronache ciclistiche, non ci sono più. La televisione ha ucciso il racconto e ci ha indotto a scrivere in modo sensazionalistico, ad aumentare le interviste che fino a dieci anni fa non erano così diffuse. A utilizzare gli sportivi come testimonial pubblicitari». La popolarità della televisione ha indotto anche i giornalisti del-
la carta stampata a vincere la timidezza delle telecamere e a utilizzare il piccolo schermo come vetrina pubblicitaria di se stessi: apparire per farsi conoscere ed essere apprezzato dal lettore. Da questo punto di vista anche la crescente popolarità di internet ha offerto un’opportunità in più di dialogo con il pubblico: sui siti dei quotidiani sportivi e delle principali testate i giornalisti della carta stampata aprono finestre di dialogo con i lettori. Il giornalista sportivo, oggi, non è più legato a un medium come negli anni Ottanta, ma passa con disinvoltura dalla carta stampa, alla televisione, al web. Negli anni dello specialismo imperante, sta paradossalmente sparendo
la figura del critico, sostituita da calciatori, ciclisti o automobilisti a fine carriera. Secondo Cucci questa tendenza è un altro segnale dello «scadimento del mestiere: quando i giornalisti sportivi hanno bisogno di commentare chiamano ex giocatori che con la lingua italiana non hanno propriamente un bel rapporto. Oggi si va alla ricerca dello specialismo e si salta la mediazione del racconto. Il risultato è sotto gli occhi: basta vedere quante copie si leggono oggi. Prima la Domenica Sportiva faceva un’audience del 20%, oggi non riesce a raggiungere questo risultato nemmeno sommando gli spettatori di Controcampo. Fanno ascolti le dirette, anche quando non hanno la te-
lecronaca. Significa che l’appassionato è competente e non ha più bisogno della mediazione che prima era impensabile. Al di là della televisione, di internet e delle evoluzioni tecnologiche è questa la più grande differenza tra oggi e ieri». Rispetto agli anni Ottanta, i lettori sono diventati più competenti e lo sportivo cerca nel giornale la conferma delle proprie idee. Tanto che il giornale si è trasformato in un foglio di bandiera sul modello del Foglio o del Riformista: «Il rapporto tra giornalista e lettore è cambiato. Non sei più tu a fornire l’opinione, ma ti dicono: “complimenti la pensa come me”. Siamo stati prevaricati persino dai lettori e dagli spettatori».
42 Come si lavora in un settimanale sportivo? Andrea Aloi, direttore dello storico Guerin Sportivo, racconta l’evoluzione di una professione sottoposta a continui condizionamenti
«Il giornalista sportivo, embedded e calciofilo» La carta stampata assorbe le trasformazioni della televisione dove il calcio la fa da padrone. Negli ultimi anni i medialavorano a stretto contatto con una società e dipendono dalla cortesia di un addetto stampa Andrea Aloi è direttore del Guerin Sportivo, il primo settimanale sportivo. Di cosa si occupa un periodico che tratta di sport? «Un settimanale di sport come il Guerino oggi punta molto sulla fotografia di qualità. Il fermo immagine delle azioni più significative degli eventi trasmessi sul satellite. E poi l’approfondimento, soprattutto verso il calcio estero che fino a poco tempo fa veniva trattato in modo superficiale. Oggi il giornalista sportivo deve sviluppare competenze sui campionati europei». Quale aggettivo qualifica meglio il giornalista sportivo oggi? «Sicuramente calciofilo: basta guardare cosa era prima la Domenica Sportiva e cosa è diventata ora. Questo perché l’80% della diretta sportiva è calcio. Il fatto che in tv si consumi essenzialmente calcio ha indotto giornalisti, direttori ed editori a pensare che solo il calcio faccia vendere, dimenticando che i primi giornali sportivi sono nati grazie al ciclismo. La televisione ha reso l’informazione più pigra: la carta stampata va solo a rimorchio della tv, a discapito dell’approfondimento. Oggi manca il coraggio». Perché manca il coraggio? «Subiscono la pressione di chi esercita potere sulla stampa: l’addetto stampa, i dirigenti di un grande club e lo sponsor cercano di creare loro stessi informazione scavalcando la professione. Se fino a qualche anno fa cercavano di condizionare o indirizzare l’informazione, oggi invece sono loro a co-
municare quello che va detto. C’è poi un secondo aspetto: chi si occupa per tanti anni della stessa società tende a esserne condizionato». Si lavora come l’inviato di guerra? «Esatto: quanto è successo in Iraq vale anche per lo sport, dove il giornalista è diventato embedded a una squadra: viaggia insieme, si muove sullo stesso aereo, dipende dalla cortesia dell’ufficio stampa di una certa società. Tutto è molto più burocratizzato: le interviste vengono concordate e l’addetto stampa controlla quello che scrive il giornalista. Anche il giornalista si trova immischiato in una serie di vincoli che lo por-
tano ad avere un tono espressivo più neutro, per non urtare nessuno. La vivacità e la vis polemica è venuta meno per non bruciarsi delle oppor-
tunità importanti». Con Calciopoli i giornalisti sportivi non hanno fatto bella figura: molti sapevano ma non dicevano. Si è trattata di un’occasione persa per la stampa? «Certamente. Moggi aveva dei poteri molto forti sulle testate: poteva cercare di mettere in cattiva luce un giornalista, poteva impedire a un giocatore di andare in tv causando una perdita di ascolti e quindi di soldi. Finché Moggi e Giraudo erano ai vertici della Juventus, i giornalisti che “davano fastidio” erano costretti a seguire le cronache di altre società sportive: diversi colleghi sono stati allontanati dalla Juventus». A livello di scrittura, quali sono stati i cambiamenti più significativi degli ultimi anni? «La televisione ha fatto dell’informazione sempre più uno spettacolo e ha condizionato la professione: sui quotidiani o sui settimanali si tende ad andare a rimorchio della televisione, con un’informazione più breve e spettacolare: la cronaca è più commentata rispetto a prima. Il giornalista deve ricordarsi di essere innanzitutto un cronista. Oggi, invece, si dimentica troppo spesso il ruolo di testimone a favore di quello dell’interprete. La scrittura si è uniformata, ma verso il basso: è venuto meno l’aspetto letterario della scuola di Brera anche se rimangono firme di qualità, come Gianni Mura e Roberto Beccantini».
A sinistra, la copertina di un numero del settimanale sportivo interamente dedicata al calcio.Nella pagina a fianco, durante una tappa alpina del Giro d’Italia, Fausto Coppi chiede l’intervento dei meccanici per liberare la catena della bicicletta dal fango
44 Roberto Beccantini, caporedattore della Stampa, traccia un ritratto del giornalista sportivo. Un’analisi dettagliata di come si lavora oggi
«Il segreto è creare il proprio pubblico» Il lettore si sente rappresentato da una firma e non più dal giornale: ecco perché è sempre più importante ritagliarsi spazi di visibilità in televisione e aprire blog di commento sul sito della testata per cui si scrive Roberto Beccantini è giornalista professionista dal 1952. Prima di diventare caporedattore della Stampa ha lavorato per anni come inviato ed è un testimone autorevole di come è cambiato questo mestiere. «Il più grande cambiamento è stato introdotto dalla televisione. Prima degli anni Ottanta, l’inviato era il centro dell’evento, oggi è la periferia. L’inviato era depositario della verità, quello che diceva era oro colato e la cronaca dell’evento era l’oracolo. Penso ai mondiali del Settanta, alla storica Italia Germania. La partita l’avevo vista, ma tutto ciò che è successo intorno l’ho letto dai giornali. Oggi si lavora in modo diverso: c’è un continuo scambio tra chi è sul posto e chi segue l’avvenimento dalla redazione ed è fondamentale lavorare in tribuna stampa con il supporto della televisione». Se dovesse trovare un aneddoto per fotografare questa trasformazione… «Nella cronaca degli sport internazionali si riesce a fotografare meglio il cambiamento: negli anni Settanta e Ottanta, a Tuttosport e poi alla Gazzetta dello Sport, sono stato il primo ad occuparmi di calcio estero. Allora per avere la cronaca di Inghilterra San Marino ero in contatto telefonico con l’addetta stampa di San Marino che era a Wembley. Oggi o sul satellite o su internet trovo in tempo reale tabellino e marcatori». Questo a livello tecnico. Per quanto concerne il linguaggio, invece? «Dopo Gianni Brera, che ha introdotto il gusto del racconto, c’è stato un evento nel calcio che ha modificato il lessico del giornalista sportivo. Si tratta dell’avvento di Arrigo Sacchi sulla panchina del Milan: era il 1988 e da allora siamo passati da un linguaggio “slow food” a uno “fast food”. Un’ulteriore accelerazione al fenomeno è stata impressa dalla riduzione del formato dei giornali: se prima il pezzo standard era di 80 righe oggi si è ridotto a 60 massi-
Nella foto qui sopra Roberto Beccantini, inviato ai Mondiale in Messico del 1970, ha raccontato per la Stampa la storica Italia Germania (4-3). Qui a destra Gigi Riva abbraccia Gianni Rivera, autore del quarto gol azzurro
Nella foto alla pagina a fianco Beckembauer esce dal capo dopo il fischio finale con la spalla destra lussata
mo. Nessuno fa più la cronaca di un evento: prevale lo “spogliatoio”, cioè l’atmosfera di un evento, le reazioni dei protagonista». Come si induce il lettore a farsi leggere? «Rispetto a vent’anni anni fa, bisogna essere più bravi a crearsi un pubblico: ecco perché, anche per chi scrive, è importante apparire in video, aprire un blog su internet. Chi va in edicola non compra il giornale, ma il “suo” giornalista di riferimento e il giornalista cerca il dialogo con il lettore: confronta la propria opinione con quella dello sportivo».
dell’atleta di parlare. Oggi è molto più difficile perché la società organizza l’evento, sceglie una persona al giorno ed è la stessa per tutti i giornalisti». Spagna 1982, Germania 2006: 24 anni di telecronaca… «La telecronaca è cambiata: da Martellini del Mondiale spagnolo a Caressa di Berlino il tono è molto più gridato. Sono cambiati i vocaboli, il ritmo, il volume: tutto è più strillato. C’è più voglia di apparire con la propria voce». Quali conseguenze ha provocato l’effetto internet?
Con il proliferare di addetti stampa personali, che difficoltà si incontrano a ottenere le interviste dagli atleti? «Risulta sempre più complicato: una volta andavi al campo d’allenamento e la possibilità di avere o meno l’intervista dipendeva dalla voglia
«Internet è un grande archivio, ricco di contenuti. Indubbiamente ha cambiato la professione e ha offerto una possibilità in più per farsi conoscere: io stesso sul sito della Stampa ho una mia rubrica, cosa che non avrei mai ipotizzato vent’anni fa, quando ero inviato».
46 Cosa fanno, come lavorano e cosa pensano del mestiere i photoeditor Dalle “discussioni” con i giornalisti ai problemi con i fotografi e i pubblicitari.
A loro immagine e somiglianza Contribuiscono alla creazione del giornale, solo che anziché dei testi si occupano delle immagini: sono i photo-editor. Con i giornalisti hanno imparato a condividere tutto, anche la crisi che ha investito la professione. di Alessandra Farina
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Essere assunti direttamente con la qualifica di caporedattore: capitò a Giovanna Calvenzi, entrata in Rizzoli nel 1981 nel periodo d’oro della professione del photo-editor. Calvenzi oggi è un’istituzione non solo fra le mura rizzoliane, dove ha costruito una carriera come redattrice iconografica tra le più invidiate in Italia, ma anche fuori. Per i giovani che si affacciano al mestiere. Allieva del mitico Amilcare Ponchielli, il primo in Italia ad assumere nel 1979 la qualifica di photo-editor per l’allora Gruppo Editoriale del Corriere della Sera, e prediletta da Paolo Pietroni, geniale inventore di testate di successo targate Rizzoli come Max, Sette e Ok Salute, venne assunta ad Amica in un periodo in cui i periodici esplodevano insieme all’interesse dei lettori per le pagine patinate e le immagini eccentriche e curiose. Di lei si ricorda che ebbe il fegato di dire al suo primo direttore, che poi era Pietroni: «O caporedattore, o niente». Correva l’anno 1985. «Fu Ponchielli a dirmi che dovevo strappare una carica alta se volevo essere ascoltata dal resto della redazione», ricorda Calvenzi. Per fortuna era quello che pensava lo stesso Pietroni.
Quei pazzi anni 80 Dopo aver ideato nel ‘79 l’Area S (S come salute): quattro mensili e un quotidiano dedicati alla salute, Paolo Pietroni prende nell’81 la direzione di Amica con il compito di svecchiarla. Il femminismo è morto. Al governo c’è Bettino Craxi, sono gli anni della Milano da bere e dell’ultimo, fol-
le Andy Warhol. Pietroni è l’uomo giusto al posto giusto. Colto, raffinato, appassionato di cinema e di teatro (era diplomato all’Accademia dei Filodramm atici di Milano, compagno di corso di Mariangela Melato), sa anche interpretare i gusti popolari. È autore del bestseller Sotto il vestito niente, scritto con lo pseudonimo di Marco Parma. Gli anni Ottanta sono anni di sperimentazioni in cui si guarda oltre i confini nazionali in direzione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. I periodici vendono bene ed esplode, legato al marketing, il fenomeno della pubblicistica di settore. I nuovi investitori pubblicitari, tra cui stilisti e case cosmetiche, reclamano spazio. Le aziende editoriali sono in fer-
mento. C’è bisogno di idee nuove e nuovi strumenti per raccontare il decennio che si sta aprendo. Nell’85 Pietroni inventa Max, una testata che racconta gli eroi, i “massimi”: vero compendio dell’estetica del decennio. È il polo dell’Essere, opposto al polo dell’Avere, a cui fanno capo riviste come Capital, il cui primo direttore è Paolo Panerai. «Pietroni crea un’epopea americana made in Italy», ricorda Claudio Castellacci, componente della redazione originaria di Max. Nelle foto ricorrono i primissimi piani e i dettagli, ripetuti su più pagine come in un gioco di specchi. Sguardo neobarocco, lo definì il semiologo Omar Calabrese. È lo stile della rivista statunitense Interview,
Amilcare Ponchielli è il primo ad assumere la qualifica di photo-editor in Italia, nel 1979, per l’allora Gruppo Editoriale del Corriere della Sera.
Imparare il mestiere tra bottega e Università
Photo-editor si diventa Corsi di specializzazione e scuole di fotografia: oggi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Anche se non esiste un percorso definito per entrare nella professione C'è chi ha frequentato una scuola di fotografia tipo la Bauer di Milano, come Antonietta Corvetti. Chi ha preso una laurea in lettere e poi ha lavorato come assistente di un fotografo, come Giovanna Calvenzi. Chi si è specializzata in storia dell'arte ed è approdata alla carta stampata quasi per caso, come Livia Corbò. Unica certezza: un percorso preciso per diventare photo-editor non c'è. Fino a qualche anno fa, il mestiere si imparava soprattutto in un'agenzia fotografica; oggi esistono corsi di specializzazione anche all'interno delle università e delle scuole di giornalismo. Il Dams di Bologna, ad esempio, è stato uno dei primi corsi di laurea ad attivare insegnamenti specifici, sia teorici che pratici. Al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, invece, i corsi di fotografia sono inseriti all'interno del curriculum di regia cinematografica. Con il boom delle scuole di comunicazione e di giornalismo, infine, la fotografia è entrata a pieno titolo fra le materie d'esame.
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Se il photo-editor gode dei diritti della professione - che
come si sa sono numerosi e fanno gola a tanti - deve essere consapevole anche dei suoi doveri. È di qualche mese fa la
notizia che la Reuters ha licenziato il capo dei photo-editor per il Medio Oriente, dopo aver scoperto che alcune immagini
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erano state grossolanamente ritoccate
divenuta famosa per la scioltezza e informalità delle interviste. A Max lavorano fotografi importanti che poi passano alla moda, come Aldo Fallai che diventa poi il preferito di Armani. «Sono anni fertili», commenta Calvenzi. «L’esperienza più entusiasmante per me è stata senz’altro Sette (supplemento settimanale del Corriere della Sera, nato sempre per impulso di Pietroni nell’87, ndr). Fu vero fotogiornalismo, un po’ come lo fu Epoca negli anni 50». Proprio per il suo lavoro per Sette Giovanna è premiata a Parigi nel 1990 con l’onorificenza Droit de regard come migliore photo-editor d’Europa. Il periodo è divertente e frenetico. «Stringevamo accordi con agenzie internazionali. Realizzavamo servizi con testate straniere. Non puntavamo all’edicola. Avevamo grande libertà. Seguivamo la logica del supplemento, che è quella di dare lustro e visibilità alla casa editrice. Potevamo fregarcene, ad esempio, della “guerra della gnocca” che imperava sulle altre testate. E pure della televisione. A Pietroni non è mai interessata. A lui piacevano il teatro, la poesia, la psicoanalisi».
Senza contratto Oggi la vita è diventata più dura sia per i giornalisti sia per i photo-editor. Sono tempi in cui «gli editori assumono “ricercatori iconografici” perché a questi non devono fare il contratto da giornalista e possono affidare mansioni di segreteria, così risparmiano», spiega con amarezza Giovanna Calvenzi, che attualmente lavora a Sportweek, il supplemento del sabato della Gazzetta dello sport. E pensare che «c’è grande richiesta
di addetti all’immagine e che le persone che vogliono fare questo lavoro sono in aumento». A un maggior numero di scuole specializzate e corsi specifici fa da contraltare la sclerosi del mercato del lavoro. «L’ipotesi di far crescere i ricercatori iconografici e trasformarli in photo-editor è bloccata dal fatto che gli editori non vogliono concedere contratti. Palleggiano i giovani con contratti ridicoli che ne limitano le responsabilità. A Grazia, ad esempio, hanno assunto due photoeditor, ma con mansioni di segreteria o poco più». A chi sceglie di passare dieci ore al giorno davanti a un computer a guardare foto e a rispondere al telefono per mille euro al mese e nessuna certezza contrattuale – dopo una laurea e corsi di specializzazione in semiotica della fotografia – non resta dunque che sperare che lavorare con Calvenzi porti bene, come è stato per tante nuove leve, tra cui Marco Finazzi, oggi photo-editor di Vanity Fair e tra i migliori in circolazione. Giovanna Calvenzi l’ha conosciuto all’agenzia Grazia Neri e l’ha voluto con sé a Specchio, supplemento della Stampa, un’altra creazione di Pietroni. «In agenzia faceva esattamente il tipo di lavoro che avrei fatto io», ricorda. «Sceglieva le foto e ci metteva qualcosa di suo. Una manna per i giornali, a cui fa comodo lavorare con agenzie serie e qualificate che ti risolvono tutti i problemi alla fonte, così a loro basta tenere una segretaria che si intenda di fotografia». Scaricare il lavoro sulle agenzie, alleggerendo le redazioni, «è la stessa logica dei services» che hanno decimato i gior-
La tendenza in atto è di eliminare i photo-editor dai giornali così come i giornalisti.
nalisti all’interno delle aziende editoriali. «La tendenza in atto è di eliminare i photo-editor dai giornali, così come i giornalisti», conclude Calvenzi. Contratto scaduto, scioperi e vertenze sindacali sono questioni familiari anche ai photo-editor. «Il problema delle aziende editoriali è che non assumono giornalisti. La difesa degli interessi del photo-editor è la difesa degli interessi dei giornalisti», afferma Livia Corbò, photo-editor di Amica. «L’immagine è una notizia. Il photo-editor sceglie e seleziona notizie. È un giornalista a tutti gli effetti. Anche chi si occupa di ricerca iconografica dovrebbe esserlo. Peccato che gli editori non ci sentano. Le sembra giusto? Giusto è che chi si occupa di immagine sia giornalista».
Diritti e doveri Se il photo-editor, però, gode dei diritti della professione - che come si sa sono numerosi e fanno gola a tanti -, deve essere consapevole anche dei suoi doveri. È di qualche mese fa la notizia che Reuters ha licenziato il capo dei photo-editor per il Medio Oriente, dopo aver scoperto che alcune immagini del conflitto israelo-libanese, scattate dal fotografo free-lance Adnan Hajj, erano state grossolanamente ritoccate. Quanto fanno i nostri photoeditor per vigilare sui fotografi e sulla loro correttezza? Qual è il loro ruolo nell’educazione giornalistica del fotografo? Quali problemi etici solleva la tecnica digitale che permette di manipolare le immagini con molta più facilità? L’etica ai tempi di Photoshop non preoccupa molto Calvenzi, che nega di operare manipolazio-
ni «se non a livello estetico». Schiarire, scurire, tagliare sì, ma non di più. «Nello sport non sarebbe possibile neppure volendo, dato che l’evento sportivo è sotto gli occhi di tutti». Più delicata la situazione per chi lavora nei femminili, come Livia Corbò. «Il problema maggiore riguarda gli stilisti e i marchi, e lo avvertono soprattutto le giornaliste della redazione moda e bellezza. Bisogna evitare le sponsorizzazioni. Occulte o inconsapevoli. È vero che i giornali sono pagati dalla pubblicità, ma quella deve avere i suoi spazi. Quando ero a GQ, in
Condè Nast, abbiamo fatto una lotta contro l’invadenza della pubblicità e abbiamo ottenuto che nei publiredazionali fosse scritto “informazione pubblicitaria”. Prima si scriveva “GQ promotion”, ma non si capiva, si confondeva con un servizio. La commistione pubblicitaria d’altra parte è ineliminabile. È la natura del giornale. Dolce & Gabbana, ad esempio, hanno ritirato la pubblicità dal Sole 24 Ore dopo che era uscita una recensione poco benevola sul loro nuovo ristorante. Gli investitori possono ricattare i giornali».
Associazione dei redattori iconografici
Nel nome del Grin Per far fronte alle esigenze e alle necessità della professione è nato il Grin, l’associazione dei redattori iconografici. «La prima lotta», racconta Antonietta Corvetti, photo-editor di Psicologie Italia di Hachette Rusconi, «è stata quella di far riconoscere il lavoro dei photo-editor a livello giornalistico. Da qualche anno, infatti, l’ordine di Milano consente anche a noi di dare l’esame di Stato a Roma. Altri obiettivi sono far conoscere nuovi fotografi, discutere dei problemi dei diritti d’autore. A volte invitiamo alle nostre riunioni i direttori dei giornali». Dal Grin è partita anche la richiesta di inserire corsi di fotogiornalismo nei programmi delle scuole dell’Ordine, perché, dice Giovanna Calvenzi «c’è sempre da parte dei giornalisti che scrivono la presunzione di sapersi arrangiare. E la fotografia resta vittima di un falso assioma: quello di essere la semplice riproduzione della realtà».
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51 Piero Pantucci, membro del Cdr del gruppo Rcs, ci aiuta a interpretare il delicato passaggio dagli anni Settanta a oggi: e i giornalisti si riscoprono più «soli»
Siamo figli di un Dio minore? Senza contratto da oltre 800 giorni, nel «muro contro muro» con gli editori s’intravede la crisi del rapporto che lega la categoria al Sindacato unitario. di Giacomo Susca
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Cosa lega i professionisti dell'informazione - i giornalisti - al sindacato unitario, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, dopo un secolo di storia? Apparentemente un rapporto particolare, dovuto alle peculiarità stesse dell'organismo di rappresentanza, caratterizzato più di altri dalla cifra intellettuale, l'indipendenza e l'autonomia. Strumenti che troppo spesso, di recente, si sono rivelati armi a doppio taglio nello svolgimento della sua principale missione, cioè quella di rivendicazione contrattuale. Secondo diversi osservatori il tallone d'Achille della Fnsi è la sua effettiva rappresentatività rispetto a coloro che dovrebbe difendere. «In Lombardia, “Capitale dell'editoria” - fa notare Alberto Comuzzi, consigliere tesoriere dell'Ordine dei Giornalisti lombardo - risultano iscritti al sindacato circa 5mila giornalisti: in pratica il 20 per cento sul totale tra professionisti, pubblicisti e praticanti. Solo il 5 per cento di loro partecipa regolarmente alle elezioni dei propri rappresentanti. Sono numeri che gli editori conoscono molto bene, e che costringono a riflettere su quanto il sindacato sia ancora affidabile e credibile agli occhi della categoria». Discutere dei punti di forza e dei limiti del sindacato è divenuta una questione di scottante attualità, visti gli sviluppi (in realtà, mancati) della delicata vertenza sul rinnovo del Contratto nazionale di lavoro giornalistico. Una «soluzione soddisfacente» è stata invocata niente meno che dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante un suo intervento pubblico al premio SaintVincent di giornalismo (settembre 2006). Sull'home page del sito inter-
net della Fnsi (www.fnsi.it) campeggia una laconica scritta: «Senza contratto da…E il conteggio va avanti: 300 giorni, 400 giorni, 500 giorni. Al momento in cui si scrive si è superato il giro di boa dei 800 giorni». Ma nulla lascia presagire una conclusione imminente della vicenda, considerato il «muso duro» mostrato a oltranza dagli editori. Inevitabile, dunque, se si vogliono indagare gli scenari futuri della professione, cercare di comprendere cosa è cambiato nelle dinamiche che regolano i rapporti tra i giornalisti e i propri rappresentanti sindacali. Il giornalista e filosofo Massimo Fini, ventisei anni fa sulle pagine di Speciale Sabato dedicato al Crepuscolo dei giornalisti, faceva notare come a partire dagli anni Settanta, il sindacato aveva reagito alla formazione di concentrazioni editoriali spesso «incoraggiandole», allo scopo di «salvare, nell'immediato, i posti di lavoro» permettendo che «un grande gruppo fagocitasse nel suo ventre il piccolo o il medio giornale in difficoltà economica». Una visione definita «miope» da Fini, che ha contribuito a favorire le distorsioni tipicamente italiane del mercato dei media e sul piano della libertà di stampa, e che - addirittura avrebbe «assassinato la
Origini e funzioni della Fnsi Le origini del fenomeno associativo tra giornalisti italiani risalgono al lontano 1877, quando cominciarono a formarsi numerose associazioni a base territoriale - la più importante delle quali la romana Associazione stampa periodica italiana (Aspi). La Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) fu costituita, però, nel febbraio 1908 a Roma su iniziativa delle più prestigiose personalità dell’informazione dell’epoca, tra cui Alberto Bergamini, direttore del Giornale d’Italia. La funzione principale era quella di rendere la categoria più unita e indipendente dal potere politico nella lotta per i diritti civili e sociali. Nel 1911 fu firmato il primo Contratto nazionale di lavoro giornalistico, proprio nel cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Dopo gli anni del Fascismo, con il ritorno alla libertà, la Fnsi fu rifondata nel 1944 come «libera associazione fra le associazioni regionali dei giornalisti», che può agire nell’ambito dell’articolo 39 della Costituzione (libertà dell’organizzazione sindacale). Ancora oggi la Fnsi è il sindacato nazionale unitario dei giornalisti italiani e ha tra i suoi scopi principali: la difesa della libertà di stampa, la pluralità e il pluralismo degli organi d’informazione, la tutela dei diritti e degli interessi morali e materiali della categoria. L’attività prevalente della Fnsi, dunque, è quella di stipulare contratti collettivi di lavoro e di assicurare ai giornalisti l’assistenza sindacale anche in collaborazione con le Associazioni regionali di stampa e le strutture sindacali aziendali (Comitati e fiduciari di redazione). Nel Consiglio Nazionale della Fnsi sono presenti, a titolo consultivo, giornalisti designati dalle confederazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil e Cisnal) in virtù di un patto di alleanza stipulato nel 1948, con il quale le altre organizzazioni sindacali hanno riconosciuto alla Fnsi la rappresentanza esclusiva degli interessi della categoria giornalistica. Diversi organi ne definiscono la struttura operativa. Il Congresso Nazionale, con tutti i poteri deliberanti, si riunisce ogni tre anni con la partecipazione di circa 200 delegati dei giornalisti professionisti e 100 delegati dei delegati dei giornalisti pubblicisti eletti nell’ambito delle 19 associazioni federate. Il Consiglio Nazionale, organo deliberativo a cui è affidato il compito di realizzare le decisioni e le deliberazioni congressuali, è composto da 56 consiglieri professionisti e 28 pubblicisti eletti in parte direttamente dal Congresso Nazionale e in parte dalle delegazioni delle associazioni regionali; del Consiglio Nazionale fanno parte di diritto, a titolo consultivo, gli ex presidenti ed ex segretari nazionali della Federazione insieme con altre figure titolari di ruoli e responsabilità negli enti della categoria. Il presidente, che può essere un giornalista professionista o pubblicista, è espressione dell’unità della categoria, è eletto direttamente dal Congresso Nazionale e ha la rappresentanza legale della Fnsi. La Giunta esecutiva, organo di governo sindacale, eletta dal Consiglio Nazionale, è composta da 9 giornalisti professionisti e da 4 pubblicisti. Il Segretario nazionale, giornalista professionista, è eletto dalla giunta esecutiva fra i suoi membri e ha la responsabilità e la guida operativa del sindacato. Su proposta del Segretario Nazionale la Giunta nomina il Direttore della Fnsi che ha la responsabilità degli uffici. Il Segretario nazionale può essere affiancato da uno o più vicesegretari nazionali eletti tra i componenti della giunta esecutiva. Tra gli Organi statutari vi sono inoltre la Conferenza nazionale dei Comitati e Fiduciari di redazione, organo consultivo che riunisce rappresentanti sindacati eletti in tutte le testate e la Consulta dei Presidenti delle associazioni regionali.
52 L’esercito dei precari marcia sul Web Tra le pagine del sito Il Barbiere della Sera free lance, collaboratori e stagisti si confrontano sui disagi di chi vive fuori da ogni tutela. Voci di aspiranti giornalisti «a tempo determinato» L’Italia, una Repubblica fondata sul lavoro. «O sugli stage?». Se lo chiedono i precari dell’informazione, che hanno trovato un terreno di confronto/scontro nella Rete. Si sono moltiplicati, infatti, i siti internet che ospitano gli sfoghi e le confessioni dei giovani (o ex tali) aspiranti giornalisti. Il più noto a chi frequenta il mondo dei media è sicuramente Il Barbiere della Sera (www.ilbarbieredellasera.com), a metà strada tra il blog, il forum e la bacheca di servizio. Sulle sue pagine, nella sezione «Sempre meglio che lavorare?», si rincorrono gli sfoghi, le denunce, i consigli di free lance, collaboratori esterni, «abusivi», sostituti, praticanti e stagisti. L’indistinto popolo della «ritenuta d’acconto» ha trovato così un appiglio per il dialogo. E, a giudicare dal numero e dalla frequenza degli accessi, l’iniziativa riscuote un certo successo. La diatriba sul rinnovo del Contratto nazionale è rimbalzata anche tra i «post», gli interventi, sollevando una serie di questioni che meriterebbero di essere prese in considerazione dai rappresentanti della categoria e dagli stessi editori, che qui qualcuno chiama ancora «i padroni». Qualche esempio? Scrive un tale dal nickname Bandolerostanco: «Se non si riesce a chiudere il contratto la colpa è anche del numero eccessivo di scuole di giornalismo…Il risultato è stato il moltiplicarsi di un sottoproletariato di giovani cronisti, disposi a lavorare per poco o niente pur di far esperienza». Replica Laura: «Se l’accesso alla professione fosse contingentato e soltanto in questo modo si potesse fare il giornalista, (laurea + scuola), non sarebbe una cosa impossibile smaltirli. Anzi, tutti troverebbero occupazione perché la selezione la farebbero proprio gli istituti di formazione». CParker, di professione caposervizio, propone invece un’originale forma di astensione dal lavoro: «Se un giorno le decine di collaboratori decidessero di fermarsi, cosa succederebbe? Senza preavviso per i redattori, uno “sciopero dei telefonini”. Tutti spenti per un paio di giorni…». Un ragazzo pubblicista da tre anni chiede aiuto ai lettori: «Un contratto non me lo fanno, e pagare pagano poco. Le scuole costano. Come faccio a diventare praticante?». Intanto un gruppo di «precari e precarie dell’informazione» ne approfittano per pubblicizzare il lancio di City of gods, «il primo free & free press - ovvero libero e gratuito» distribuito in 50mila copie a Milano due giorni prima di Natale. Un giornale, un’esperienza questa, tutt’altro che virtuale.
53 professione». Una professione che sopravvive ancora nonostante abbia attraversato ben due tempeste tecnologiche: l'avvento del pc nelle redazioni e la nascita di Internet. Di certo, però, non si avverte più quella “presenza ingombrante” del sindacato. La visione assistenzialista sembra oggi entrata decisamente in crisi. Piero Pantucci, membro del Comitato di redazione di Rcs e componente della giunta Fnsi negli anni Ottanta, legge tra le pieghe dell'attuale impasse sul contratto vecchie e irrisolte diatribe. «Sono due i nodi fondamentali. Il primo consiste nella tendenza, da parte degli editori, al depotenziamento contrattuale dei dipendenti. E in ciò la situazione non si scosta molto da altri settori economici». In termini quantitativi, la Fieg (Federazione Italiana Editori di Giornali) ha tutta l'intenzione di evitare che il costo del lavoro giornalistico cresca del 5-6 per cento a fronte di un'inflazione che si aggira attorno al 2 per cento. Sul fronte opposto, il Comitato di redazione di Repubblica sostiene che l’obiettivo reale degli editori sia quello di tagliare gli stipendi del 30 per cento. «Il secondo punto, specifico per il mondo dell'informazione, è che gli imprenditori mirano a spogliare i giornalisti dalle guarentigie sindacali, mediante ricambi del personale e flessibilità estrema». Riguardo a una possibile via d'uscita, Pantucci non usa mezze misure: «La contrattazione, di per sé, è vista come un nemico dagli editori. Il sindacato fa bene a insistere sugli aspetti economici come entità delle paghe base, durata dei rapporti di lavoro, riduzione del precariato, ma non deve dimenticare traguardi per nulla secondari come garantire il rispetto dell'autonomia, la valorizzazione e la crescita professionale, moderne forme di previdenza e sopratutto la centralità delle redazioni di fronte a direttori ed editori in quelle decisioni che hanno un impatto sull'azienda». Compiti previsti, peraltro, dall'articolo 34 del Contratto. «Ecco, almeno in questo - continua Pantucci - il sindacato non deve abbandonare la strada intrapresa proprio negli anni Settanta. La vera sfida è perciò aggiornare gli obiettivi alla realtà dei nostri giorni». Il contesto attuale presenta, però, un problema alla radice. «I giornalisti sono troppi! - riassume Pantucci con una battuta-. In ogni caso, fare sindacato oggi rimane difficile perché l’oggetto del contende-
re ha una forte valenza politica. E poi, non bisogna dimenticare che la natura del prodotto editoriale non la decidono certo i rappresentanti Fnsi. È vero, nel decennio a cavallo tra ‘60 e ‘70 si sono fatte battaglie per mantenere in vita testate di tutti i tipi, al di là degli orientamenti politici e delle possibilità di reale “sopravvivenza” sul mercato. Non è più così, in Italia ci si è accorti che la stampa non è il “Quarto potere”, semmai il singolo giornalista è una funzione del potere. E con questo bisogna convivere». L’impressione è che lo scontro tra potentati si sia acuito proprio negli ultimi mesi, quando l’assoluta inconciliabilità degli interessi di giornalisti ed editori, per niente risolta da un Governo che fatica a svolgere la funzione di arbitro, è sfociata in tre giornate consecutive di sciopero nelle testate a stampa e radiotelevisive. Dal 22 al 26 dicembre, in concomitanza con le festività natalizie, i banchi delle edicole sono rimasti vuoti (o quasi) per 5 giorni. Non era mai successo nella storia del Paese. Sedici, invece, sono state le astensioni dal lavoro da giugno 2005, data di apertura della nuova vertenza. Sorge il sospetto che lo strumento dello sciopero non sia più così efficace per dirimere le controversie. «Purtroppo è così - ammette Pantucci -. Ciò si deve anche alla scelta, che reputo sbagliata, di alcuni direttori che hanno preferito astenersi e far uscire comunque i giornali che dirigono. In passato, lo sciopero minava sul serio gli equilibri delle imprese editoriali e li costringeva a sedersi al tavolo della contrattazione con atteggiamento costruttivo. Ma all’epoca la categoria era più unita, oggi al contrario si moltiplicano le forze centrifughe». Viene il sospetto che organismi come i macro sindacati confederati (Cgil, Cisl, Uil), oppure autonomi, alla fine possano rivelarsi interlocutori maggiormente qualificati in sede di contrattazione. «A questo deve aggiungersi il fatto che la componente di destra, all'interno della Fnsi, è solo una debole minoranza». Se l'informazione vuole sopravvivere alla frammentazione tipica del nostro tempo, la “ricetta” è fin troppo semplice. «Se vogliamo che il sindacato non si riduca a un “nobile feticcio” - è la via d'uscita indicata da un suo stesso membro - noi giornalisti dobbiamo assolutamente mostrarci più uniti di quanto lo siamo oggi».
Se la stampa è in agonia, l’imperativo è esplorare il mondo della convergenza
Il futuro è multicanale Raffaele Fiengo: «Sbagliato difendere antiche posizioni, i giornali aprano le porte ai nuovi modelli» «Siamo arrivati al punto che i giornali, per non morire, devono cambiare». Raffaele Fiengo, ex membro del Comitato di redazione del Corriere della Sera e sindacalista di vecchia data, allarga il punto di vista sulla questione a quanto accade oltre confine. «È in atto una trasformazione senza
precedenti, sia di natura tecnologica sia di contenuti. Muta, di conseguenza, la collocazione dei giornalisti all’interno dei grandi gruppi multimediali. Le regole contrattuali ne risentono giocoforza». Durante il suo intervento agli stati generali della categoria, lo scorso novembre a Roma, Fiengo ha fatto riferimento a un dossier apparso ad agosto 2006 su The Economist e dal titolo emblematico: «Who killed the newspaper?». Uno studio ha calcolato che negli Stati Uniti l’ultima copia di un quotidiano cartaceo sarà probabilmente venduta nei primi mesi del 2043. La morte della stampa sopraggiungerà per mancanza di lettori, e la risorse pubblicitarie testualmente «seguiranno questi ultimi fuori dalla porta». L’assassino, sempre secondo la ricerca americana, risponde al nome di Internet. «Negli Usa – spiega Fiengo – il giornalismo di qualità ora abita nel Web, perché si sono privilegiate politiche di trasferimento di know how dai canali tradizionali a quelli crossmediali alternativi. Le redazioni centrali hanno gradualmente demandato alle redazioni internet, sfruttando le potenzialità comunicative delle cosid-
dette continuous news, ossia le notizie in costante sviluppo e aggiornamento. Questo comporta diversi cambiamenti sul piano dell’organizzazione del lavoro e delle garanzie per il personale. Basti pensare a adeguati meccanismi di turnazione per garantire alle redazioni dell’on line una copertura di circa 20 giornalisti 24 ore su 24». Il panorama italiano sembra privilegiare ancora la versione cartacea al mezzo digitale, eppure Fiengo è convinto «che si sta andando nella stessa direzione anche da noi. Lo hanno dimostrato Corriere.it e Repubblica.it in occasione di eventi che hanno sconvolto il normale flusso dell’attualità». In concreto, qualcosa si muove anche in Italia specie nel rapporto con i lettori. «Oggi non è più una stravaganza vedere pubblicata in prima pagina una foto scattata, magari con il cellulare, da un cittadino comune. Sempre più di frequente, poi, i blog sono utilizzati come fonte da testate autorevoli. Nuovi modelli di giornalismo, mi riferisco al citizen journalist o «reporter diffuso» secondo l’infelice traduzione italiana, stanno facendo il loro ingresso nel sistema. Senza considerare quello che, per ora, sta entrando dalla “porta di servizio dell’informazione”: la costante ascesa della free press in termini di popolarità e di diffusione è un esempio tangibile». Fiengo conclude facendo appello al senso di responsabilità di giornalisti ed editori nel rispondere alle sfide dell’informazione, in un futuro che è già domani. «Le aziende editoriali muovono ingenti capitali e interessi ramificati in eventi e attività parallele, che spesso sono connesse solo in parte con l’informazione in senso stretto. Nel caso di Rcs, per il solo anno 2006, si è parlato di qualcosa come 4,5 miliardi di vecchie lire». Prima che la ragion di mercato soffochi pluralismo e posti di lavoro, «fermo restando la difesa del lavoro qualificato, in sede sindacale bisognerà ragionare su posizioni innovative. E non incorrere nel grave errore compiuto in passato: difendere ciecamente ciò che, invece, è destinato a scomparire».