Fame!

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NUMERO 0

LUGLIO 2011



P.10 ALEXANDER MCQUEEN

P.4 GAGALOGY P.14 LA CHAPELLE

P.22 IL CIGNO NERO

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LADY|GAGA La Lady del pop 4


«La sua singolare innovazione è stata di rubare, mettendo insieme tutto ciò che ha trovato nella banca dell''immagine culturale. Sottomette la propria persona a un Photoshop in tempo reale, costruisce una creatura che prende da Bowie come da Liberace, da Kylie Minogue e Grace Jones e naturalmente da Madonna. Andy Warhol aveva previsto l'arrivo di creature di questo tipo, fatte di varie parti assemblate e poi idolizzate come una persona intera»

la regina indiscussa della dance-pop degli anni ‘10. Forse la prima, papabile erede dell’immensa Madonna. Lady Gaga ha il physique du rôle della star contemporanea, a prova di anni e di mode. Non troppo bella, non troppo brava, dotata di quel certo nonsoché che fa la differenza. Proprio come Miss Ciccone. Sguardo tosto, fisico asciutto, erotismo impertinente, attitudine androide, eccentricità a gogo e un’insana passione per gli innesti tra carne, plastica e make up. La signorina Stefani Joanne Angelina Germanotta, classe ’86, è una che conosce l’arte del saccheggio e del camouflage: succhiando come una spugna, mixa stili e linguaggi senza altro criterio se non l’amore per l’eccesso. Stra-fare, sempre e comunque. Ma, a ben guardare, è tutto un fatto di look e di fiction. Super-Gaga non è una di quelle giovani bad girl della musica, troppe volte immortalate nella miseria dell’ultima notte di spasso e tragedia. Come l’ex enfant prodige Britney Spears, stritolata dal successo precoce e annichilita dai cocktail di alcol e coca; o come la tormentata Amy Winehouse, icona ribelle del rock al femminile, spolpata viva da anoressia, crack e amori maledetti.

allevando nidiate di mostriaciattoli, figli di quella stessa borghesia fintamente minacciata nei principi e nella forme. Tutta scena. Lady Gaga non fa paura a nessuno. Con quelle canzonette allegre dai testi appena birichini, con quei video impregnati di ingenui simbolismi antisistema, erotismo televisivo e buonismo new age, l’energica Stefani gioca un gioco fin troppo pulito. E a sdoganarla, come se non bastasse, ci pensano pure le alte sfere della moda e dell’arte contemporanea. Se dell’una è una consumatrice bulimica, incastrata fra pratiche multidentitarie e convulse oscillazioni del look, dell’altra si nutre con discreta voracità.

Lei no, non la si coglie mai in fallo: trucco perfetto, abiti impeccabili, lucida, cattiva, tagliente, scintillante. Sempre. Come se vivesse dentro il perimetro irreale di una cover. Un simulacro in carne e ossa Eppure, resta lei la provocatrice per eccellenza. Avversa a ogni regola borghese, “mother monster” impazza su Mtv, blog e social network,

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«“Warhol said art should be meaningful in the most shallow way. He was able to make commercial art that was taken seriously as fine art, to use something simple and shallow and take it to another planet. That’s what I’m doing too. When you listen to a song like ‘Love Game,’ is it communicating my soul to you? No ... I make soulless electronic pop. But when you’re on ecstasy in a nightclub grinding up against someone and my music comes on, you’ll feel soul.”»

Con Francesco Vezzoli, il 14 novembre 2009, la Germanotta ha dato vita a una performance suggestiva in onore del 30esimo anniversario del MoCA di Los Angeles. Un giro di valzer annunciato, quello tra la siculo-americana e il bresciano, ossessivo collezionista di dive. La coppia si è esibita in mezzo ai ballerini del Bolshoi Ballet: mentre lei intonava un’intensa Spea-

WAVE

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U F O D I M A R IK O

chless, davanti a un pianoforte rosa ricoperto di farfalle blu, lui ricamava indefesso, in un castigatissimo total black. Costumi di scena firmati Miuccia Prada, mentre il futuristico cappello di Gaga usciva dall’estro di Frank Gehry. In grande stile anche il trailer, diretto da Jonas Akerlund. Nel 2010 fu la volta del completino di carne indossato agli Mtv Music Video Awards. Carne nel senso di bistecche, materia prima di abito e accessori. Una roba piuttosto disgustosa, MO che mandò su tutte le fuRI

rie gli animalisti e che lei giustificò con frasi dal tono politically correct del tipo: “Se non combattiamo per i nostri diritti ne avremo meno di un pezzo di carne. E io non sono un semplice pezzo di carne”. Una sua foto con un succinto outfit da macelleria finì anche sulla copertina di Vogue Hommes Giappone. A scattarla fu, manco a dirlo, l’eccessivo Terry Richardson. Agli attenti art lover non sfuggì però l’origine colta della provocatoria mise: trattavasi di una citazione di Jana Sterbak, body artista emersa in piena temperie post-human, che nel 1991 creò


scandalo alla National Gallery del Canada per via del suo Vanitas: Flesh Dress for an Albino Anorectic, indossato e poi lasciato marcire tra le sale del museo. Un anno dopo, ecco Gaga alle prese con l’estetica japan, minimale e aliena di Mariko Mori. Alla cerimonia per i 53esimi Grammy Awards arrivò a bordo di una lettiga, novella Cleopatra della Via Lattea racchiusa in una navicella-cocoon. Il bozzolo, incubatore simbolico per la sua anima mutoide, era quasi identico a quel Wave Ufo che la Mori, in un mix di spiritualismo dell’Est e overdose tecnologica occidentale, aveva presentato nel 2005 alla Biennale di Venezia. Tornando al 2010, ecco un’altra collaborazione doc. Lady Gaga e Terence Koh, affermato artista canadese di origini cinesi, sensibile a estetiche e tematiche punk, omosex e porno in salsa concettuale, si sono esibiti in un club di Tokyo, accompagnati da un pianoforte progettato su misura. Koh, per intenderci, è uno che ha placcato d’oro le sue feci e le ha vendute per 500mila dollari. Uno che con l’eccesso ci va a nozze. Pare infatti che con Gaga sia stato subito amore. I due compaiono anche nel video 88 pearls, intenti a contare delle perle dentro una ciotola, mentre lei indossa un costume ispirato a una scultura di lui tratta dal progetto Boy By The Sea. E se Vezzoli e Koh ci sono riusciti, c’è chi brama di poter coinvolgere l’ambita Lady in un proprio progetto. Uno di questi è Spencer Tunick, che l’aveva invitata a partecipare alla sua grande adunata “nudista” davanti al Teatro dell’Opera di Sydney. Se lo immaginava già, quel corpicino esile e tonico, in mezzo alle altre centinaia di corpi qualunque. Pare però che Gaga abbia cortesemente declinato l’invito. Ed era più che ovvio: confondersi con la massa anonima? Roba che non s’addice a una primadonna come lei. E come non citare, infine, la mitologica Orlan, sacerdotessa di modificazioni corporee a colpi di chirurgia plastica? Da lei la spericolata ragazza avrebbe recentemene tratto ispirazione, presentandosi con degli spigolosi innesti facciali sot-

tocutanei, assai simili a quelli dell’artista francese. Ma la domanda è: “ci è o ci fa”? Il sospetto è che ci sia il trucco: una perturbazione fisionomica temporanea e posticcia, magari con protesi intercambiabili da abbinare di volta al volta al look della serata. In ogni caso, a forza di fare incetta d’arte contemporanea e di frequentare stilisti pazzeschi – la sua prima esperienza da modella è di poche settimane fa, con Terry Mugler che l’ha voluta in passerella – Wonder Gaga, già direttore creativo di Polaroid, ha trovato lavoro pure come giornalista: è lei la nuova esperta d’arte e moda ingaggiata da V Magazine. Immancabile la manovra di marketing, che affida l’illustrazione della sua nuova rubrichetta a un concorso per i fan più creativi. Milioni di fan, pazzi di lei. Perché, alla faccia degli intellettuali che storcono il naso e dei bigotti che si scompongono, Gaga vince premi, calamita folle, ingolfa le pagine della stampa e si fa pure corteggiare dall’artworld che conta. E tutto questo essendo se stessa, ovvero niente di particolare: una sfilza di maschere senza volto, per muoversi con scioltezza fra i comandi del grande tritacarne mediatico. Il video di Born This Way, apripista dell’omonimo album atteso per il 23 maggio, inizia con un lungo preludio onirico, visione utopica che preannuncia la genesi di un mondo libero e privo di pregiudizi. Conturbante cosmo-

gonia dark-freak, imbevuta di fantascientifiche visioni postumane. Nulla di nuovo. A parte il fatto che questo dovrebbe essere un videoclip, e che però assomiglia a qualcos’altro. Ma a cosa? Divertissement cinematografico? Videoarte? Bieco diletto per ragazzini? Gaga, a colpi di talento e ruffianeria, tesse la trama del suo bad romance, strapazzando le categorie per risputarle in forma di un irresistibile blob. Cibo per le masse, ma non solo.

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“How do I make pop, commercial art be taken as seriously as fine art? That’s what Warhol did. How do I make music and performances that are thought-provoking, fresh and future? We decide what’s good and, if the ideas are powerful enough, we can convince the world that it’s great.

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Dopo la morte di Re Jackson e la sopraggiunta fiacca di una Madonna cinquantenne, il pop si incarna in questa esacerbazione schizoide e patinata di una postmodernità che non smette di finire, e che finendo continua a eccedersi, tra collassi ed exploit.

Non ci resta che attendere la prossima mossa della warholiana Lady. Magari salta fuori un’altra eccellente liaison performativa. Con uno come Matthew Barney, per esempio. Eresia? No, è la storia infinita della società dello spettacolo, allegra, irriverente e spietata deriva circense: venghino signori, venghino…

Helga Marsala

LADY GAGA: ALL’ASTA L’ORINATOIO DEL SUO ALTER EGO JO CALDERONE

Diverso tempo fa Lady Gaga ci aveva stupito con un’altra delle sue improvvisazioni, si era infatti travestita da uomo per un servizio fotografico su Vogue con lo pseudonimo di Jo Calderone. Ebbene, ora l’orinatoio di Jo utilizzato per il photoshoot diventa… un’opera d’arte! Incredibile Miss Germanotta: così come fece Duchamp all’inizio del ‘900, la Lady del trash decide di mettere all’asta

il gabinetto di Jo Calderone. L’oggetto è stato prelevato dal set del servizio fotografico per essere ‘trasformato’ in opera d’arte e l’iniziativa ovviamente è piaciuta a molti, sostenitori e non. L’orinatoio è stato donato dalla cantante alla mostra Inside/Out tenutasi a Londra qualche giorno fa. L’opera ha fatto bella mostra di sé accanto ad

un pezzo dell’artista canadese Terence Koh, amico personale di Lady Gaga. Sull’orinatoio di Jo Calderone, la star di Alejandro ha fatto incidere la seguente frase: ‘I’m not fucking Duchamp, but I love pissing with you‘, che più o meno significa ‘Non sono quel fott*to di Duchamp, ma mi piace pi**iare con te‘. Bonjour finesse…

Francesca Rendano

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Savage Be


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“When you see a woman wearing McQueen, there’s a certain hardness to the clothes that makes her look powerful. It kind of fends people off.”

Semplicemente la mostra dell’anno. Preparatevi a fare la fila. Io non me ne sono pentita (tanto più che l’attesa è tra le gallerie di pittura e scultura del più grande e ricco museo americano). La mostra è dedicata a Lee Alexander McQueen, figura romantica e innovatrice della moda e del fashion system, morto suicida l’11 febbraio del 2010. The Costume Institute, uno dei diciassette dipartimenti che compongono il Metropolitan Museum of Art, il gigante della cultura espositiva americana, non è nuovo a iniziative forti, destabilizzanti, provocatorie. Ma anche se sono uscita frastornata dalle immagini aggressive, dai suoni strazianti e lugubri, e se sono ancora scioccata dai volti coperti dei manichini e da alcuni marchingegni che McQueen chiamava scarpe e accessori, devo dire che è una mostra ben fatta, con un suo chiaro fil rouge, i suoi momenti di pausa e di poesia. Insomma oserei dire che è una mostra ‘scientifica’. L’intera esposizione – curata da Andrew Bolton – è costruita sulla personalissima interpretazione di romanticismo di McQueen, che si considerava un “romantico eccentrico”: nelle sue collezioni esplorò l’individualismo, lo storicismo, il nazionalismo, il primitivismo, naturalismo. La carriera di McQueen viene presentata, in ordine cronologico (ovviamente si va per “stagioni” secondo l’ormai familiare lessico fashion), a partire dal suo esordio con alcuni pezzi provenienti dalla collezione intitolata “Jack the Ripper stalks his victims” con cui si guadagnò la “graduation with distinction” nel prestigiosissimo Central Saint Martin College of Art and Design di Londra, nel 1992. Pezzi di sartoria, dove il taglio dell’abito rivela già la sua cifra espressiva. All’epoca della sua graduation Alexander McQueen aveva appena 23 anni, ma il suo curriculum mostrava già una forte determinazione: abbandonata la scuola all’età di 16 anni, fa apprendista-

to in varie sartorie londinesi, poi passa ai costumi per spettacoli teatrali, poi va nello studio londinese di uno stilista giapponese e a vent’anni vola a Milano da Romeo Gigli. E poi torna a scuola. Un percorso esemplare, la cui motivazione si ritrova in una delle frasi che introducono la mostra: “You’ve got to know the rules to break them. That’s what I’m here for, to demolish the rules but to keep the tradition”. E così l’abito sartoriale è stravolto, tagliuzzato, strapazzato, e ne viene fuori un taglio da maestro, che McQueen raccontava, veniva costruito prevalentemente in 3D (cioè addosso alla modella o al manichino) guardando la figura di profilo, perché è di profilo che si vede il meglio e il peggio del corpo – qui inteso femminile – ossia rigonfiamenti, curve, stacchi… Ancora in questa prima stanza, che inutile dirlo, fornisce un po’ di training prima del salto nelle collezioni vere e proprie, capisco anche l’origine di un vecchio mio pantalone Gucci (nel 2000 McQueen vende il 51% della sua azienda a Gucci Group per una cifra mai resa pubblica) che mi lasciava sempre un po’ troppo ‘scoperta’: si tratta del “bumster”, il pantalone a vita bassissima, che mostra la fine della spina dorsale e che doveva allungare all’estremo il torso esaltando la bellezza di chi lo indossava. La sala dopo è un tripudio di sete nere: “Romantic Gothic” esalta il lato sadomasochista di McQueen, quello un po’ perverso e a tratti macabro, ma anche la sua eccezionale capacità di plasmare l’abito. L’allestimento di questa stanza merita una nota a sé, per le luci basse e le intriganti specchiature settecentesche a parete. Sulla perete di fondo hanno infilato alcuni abiti (con stampe tratte dai pittori più amati dallo stilista: Jean Fouquet, Hans Memling, Jean Hey) in vere e proprie vetrine con piedini, come se si trattasse di un vaso di porcellana o di un uovo Fabergé.

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a stanza successiva, intitolata “Cabinet of curiosities” è costruita esattamente come un gabinetto delle curiosità, con scomparti grandi e piccoli e una miriade di oggetti in vista. Ci si accalca tutti a capire cosa si ha di fronte, come si potrebbe indossare un cappello “orientale”, un orecchino con zampe di gallina, un bustino di cozze…e poi ci sono i video delle sfilate e una musica inquietante. Ecco, forse però, è la stanza che meglio dà conto di quanto McQueen pensasse a 360 gradi, di come curasse ogni dettaglio, dai copricapo (o meglio i “nascondi” capo -tutti quelli in mostra sono di Guido Palau che assieme a Philip Treacy e Shaum Leane fornivano accessori e quant’altro servisse per le performance di McQueen-) alle scarpe. Mi sono fermata a seguire un paio di video relativi alle sfilate: niente a che vedere con le tradizionali

sfilate, neppure con le più stravaganti o irriverenti che possono venire in mente. Si tratta di vere e proprie art performaces che costituivano, raccontano i più stretti collaboratori di McQueen, il cuore dell’atto creativo, l’ispirazione della collezione e non vice versa. Mi è piaciuta molto quella in chiusura della collezione “No. 13” (primavera/estate 1999) con la modella Shalom Harlow che “danza” mentre due robot industriali ‘made in Italy’ spruzzano colore sul suo bellissimo abito bianco (mi ricorda la pubblicita’ di qualche anno fa della Citroen Xsara….). E’ considerato un “truly iconic moment in fashion”, e non fa che esaltare l’abito, semplice e geniale. Ci sarebbe altro da raccontare su questa stanza (in cui c’entra persino Harry Potter) ma passo alla successiva, dedicata al “Romantic Nationalism” e alla passione per la storia di McQueen,


“I’m a romantic schizophrenic.” alle sue radici scozzesi, e alla sua avversione alla monarchia a causa della sua violenza contro la Scozia. Al di là di questo aspetto, devo dire che questa sezione della collezione appare come una delle più mettibili. McQueen mostra una maturità nel mescolare i tessuti, i colori, i volumi che dà ben ragione del suo successo internazionale che lo portò, nel 1996, dritto alla maison parisienne di Givenchy come successore di John Galliano (passato a Dior..il resto e’ cronaca di questi giorni). Ho fatto di nuovo la fila. Stavolta per ammirare in tutta la sua placida beltà l’ologramma con Kate Moss e poi l’abito bianco col volto coperto con cui la discussa modella sfilò all’indomani

dello scandalo coca. La sala dopo è un po’ enigmatica. Dentro una scatola con un fondo a specchio sono allestiti tre manichini: cambiano le luci, cambia quello che si vede e d’amblé tutto si oscura e ci si ritrova proiettati sulla vetrina dell’installazione. Ha a che fare, capisco dopo, col concetto della bellezza, con le nostre aspirazioni e con l’origine della bellezza…Ecco, forse uno dei pochi appunti che si può fare all’esposizione è che non spiega abbastanza, e punta più – com’era del resto tradizione di casa McQueen – nel provocare una qualche reazione. Sono sicura che le cuffiette avrebbero aiutato in tal senso, ma stavolta, mio malgrado, ne ho fatto stupidamente a meno.


Si passa poi al “Romantic Primitivism” dove McQueen fa un uso massiccio di pelli animali e di animali interi in una audace sperimentazione di materiali ‘organici’. In questa sezione, dove il volto dei manichini é coperto da maschere in iuta, si trova un altro dei miei abiti preferiti, l’Oyster Dress, della collezione Irere (primavera-estate 2003): resto abbagliata da come strati e strati di seta color avorio si sovrappongano leggeri in una sorta di moto circolare perpetuo...una finitura elegantissima, raffinata. La leggerezza, ebbe modo di dichiarare lo stilista, l’imparò da Givenchy. La sezione “Romantic Naturalism” é introdotta da una sorta di carta da parati (non sono riuscita ad appurare la sua natura ma credo sia proprio carta da parati) con disegni delicati su sfondo bianco che a prima vista sembrano fiabeschi poi, nel dettaglio, lo sono molto meno e non so neppure io che nascondano. Una serie di abiti ispirati all’oriente – il kimono giapponese era una sorta di sua fissazione – altri con fiori veri, e altri ancora dalle forme arrotondate sui fianchi immettono nell’ultimo spazio espositivo dedicato all’ultima sua collezione, “Plato’s Atlantis” (primaveraestate 2010). Qui i manichini sono inguainati in tessuti tecnici con squame traslucide madreperlate che si ancorano sulle ormai leggendarie “Armadillo”, scarpe icona, un po’ dolmen un po’ scarpetta da ballo (e trovano ispirazione nelle scarpette da ballo, sulla punta). Lo sfondo é una composizione di forme e colori, una sorta di summa di archetipi grafici. Fissandolo un po’ ci ho visto anche forme del nuoto sincronizzato (in cui pare si cimentasse anche un giovanissimo McQueen). La mostra finisce così, un po’ come la sua vita, come un racconto di colpo interrotto. Nel catalogo (45 dollari – bella la coper-

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tina) si trovano tutte le foto degli abiti in mostra e qualche interessante intervista ai suoi collaboratori. «Per me è stato un vero stilista, in termini di creatività e originalità: se fu eccellente nel taglio e nella costruzione, ha utilizzato gli abiti che creava anche per comunicare concetti complessi, ed è questo che spero la

appassionare e far discutere sia chi lo criticava per i suoi eventi-show e l’eccesso di parossismo che chi ne amava la complessità sartoriale e artistica che sfidava convenzioni, forme e identità continuando a innovare e affascinare, fino alla fine.

GOD SAVE MCQUEEN

mostra riuscirà a trasmettere» dichiara il curatore Andrew Bolton. Sarah Burton, presente alla serata inaugurale d’apertura della mostra, è ora alla guida della maison e con successo tramanda lo stile del maestro, tanto che perfino Kate Middleton ha scelto una creazione McQueen per il più seguito ed emozionante matrimonio reale. Il ritratto di questo eroe romantico è completo e complesso e continua ad

La nuova linea di foulard firmata da Sarah Burton per la maison Alexander McQueen ha un nome molto particolare, “God save McQueen”, nome ironico che gioca con lo slogan reale della madre patria del grande stilista scomparso e allo stesso tempo gli rende omaggio anche e soprattutto con la scelta che Sarah Burton fa di realizzare una linea che comprenda sia un fascino più romantico, un tocco femminile che ovviamente risale a lei, sia lasciando spazio a simboli e atmosfere gotiche in cui i teschi simboli dell’estro dark di Alexander McQueen tornano a ricordarci di questo stilista di talento la cui impronta la sua maison non ha dimenticato. Del resto questo è un po’ l’anno delle collezioni Alexander McQueen, ricordiamo che l’abito da sposa di Kate Middleton è appunto una creazione Sarah Burton, così come le scarpe, settore quello delle calzature McQueen che non conosce mai crisi perché è sempre tra le prime scelte delle celebrity, proprio per il suo stile eccentrico e per questo di grande impatto. Babette Pauthier dirige il video che presenta la collezione primavera/estate 2011 di foulard Alexander McQueen, una collezione che spazia tra temi e tessuti diversi: teschi, farfalle e i colori della bandiera inglese sono tra i motivi più interessanti, accanto alle scritte “God save McQueen”.

Diana Cesi



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avid LaChapelle è unico. Il suo stile, riconoscibilissimo, ne ha fatto uno fra i più affermati fotografi di glamour, moda, spettacolo. Fino al 6 gennaio Palazzo Reale di Milano gli ha dedicato una grande retrospettiva: 350 opere (dai ritratti delle star del mondo dello spettacolo come Leonardo Di Caprio e Uma Thurman a un cicloinedito ispirato ai capolavori michelangioleschi della Cappella Sistina) e una rassegna video e videoclip musicali realizzati da LaChapelle per rockstar come Elton John e Robbie Williams. In occasione dell’appuntamento milanese, Gianni Mercurio - curatore assieme a Fred Torres dell’esposizione - lo ha intervistato. Fame propone integralmente quella conversazione, per conoscere da vicino la complessità dell’ispirazione e delle tematiche del famoso fotografo americano.

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mostra non c’era bisogno di aspettare un anno intero. Sai, giocavamo a lavorare, a produrre arte. Allora una mia foto costava 400 dollari, e nessuno la comprava. Non si poteva vivere così.

Il tuo primo incontro con Warhol? Ho incontrato Andy a un concerto degli Psychedelic Furs al Ritz, un locale notturno di New York. Mi disse: «Vieni a trovarmi, portami i tuoi lavori». Intanto quelli di “Inteview”, che erano venuti a vedere la mostra da 303, mi invitarono a lavorare per loro. Con Mark Ballet, che era l’art director, e Paige Powell, e Wilfredo Rosa-

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Da ragazzo dipingevi e disegnavi, però hai presto scelto di esprimerti con la foto. Agli inizi degli anni Ottanta la scena era invece prevalentemente in mano alla pittura. Con rare ma importanti eccezioni, come Mapplethorpe o Cindy Sherman. Proviamo a ripercorre la tua storia degli esordi. Io ho iniziato facendo foto ed esponendole nelle gallerie. All’inizio non lavoravo per le riviste: volevo esporre nelle gallerie. La mia prima mostra fu in una galleria che si chiamava 303, che con me aprì, era il 1984. Pochi mesi dopo feci lì la mia seconda mostra. Per fare un’altra

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“Then I got this idea in my head that magazines were like a gallery and if you got your magazine page ripped out and someone stuck it on their refrigerator, then that was a museum – someone’s private museum.”

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do siamo andati alla sede di “Interview”.

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Eri eccitato all’idea di poter lavorare con Andy, oppure pensavi a un momento di passaggio della tua vita? “Interview” era la rivista con la R maiuscola, l’unica che mi interessasse. Era lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. “Interview” era il giornale su cui si doveva appariBY re. Se uno voleva sapere cosa succedeva HA nel mondo, il mondo dell’arte e della M B cultura pop, guardava “Interview”. Era il centro del mondo. Lavorare per quella rivista era il massimo. All’improvviso le gallerie non mi servivano più, non guadagnavo più i soldi per vivere vendendo foto nelle gallerie. Mi sembrava che tutto fosse più spazioso. Mi misi in testa che le riviste fossero come gallerie, e che se qualcuno strappava la pagina della rivista su cui stava una foto e l’attaccava sul frigorifero, ecco, quello era il museo, il museo privato di qualcuno. Cominciai a lavorare per chi potevo, e a fare quante più foto potevo, lavoravo giorno e notte. Lavoravo con questo stile esasperato. Ma di stile non sapevo un bel niente. Non ci pensavo. Erano le cose che mi attraevano. Facevo quello che mi interessava e mi attiravano il colore, il senso dell’umorismo, la sessualità e la spontaneità. Era tutto molto intuitivo. Non pensavo mai: «Ecco, questo è lo stile…».

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centinaia di immagini si fermi e SBAM! Io mi immaginavo una pagina bianca su cui potevo fare tutto quello che volevo. E questo mi dava ispirazione, così mi venivano le idee. Cosa ci voglio mettere qui, ora? Ci mettevo le mie ossessioni, le cose a cui pensavo: le cose che avevo in mente. Riuscire a tirarle fuori e a metterle su una pagina era per me una liberazione e un successo, anche perché altri si sentivano vicini a quelle idee, si creava come una rete di rapporti. Cominciò così, e poi tutto a un tratto il mio scopo era fotografare quanta più gente potevo per ricostruire il mondo della cultura popolare e il mondo in cui vivevamo. Per registrarlo, e per vedere fino a che punto potevo spingere la gente e le situazioni.

LA C H A P EL L E

A un certo punto nelle tue foto sei passato dal bianco e nero al colore. Il momento in cui passai al colore fu quando mi resi conto di non avere l’HIV. Fu come togliersi un peso di dosso, per-

ché quando avevo diciannove anni avevo visto il mio primo compagno morire di AIDS; lui ne aveva ventiquattro, per anni pensai che sarei morto nello stesso modo. Tutto era in bianco e nero all’epoca, per me, non riuscivo a pensare a colori… prendevo ogni cosa terribilmente sul serio. Le mie prime immagini di quel periodo sono in bianco e nero, sono cupe e scure; per sei anni sono andato avanti così, in camere oscure a New York. Era il 1984, lui morì quella primavera; stavamo insieme da tre anni a New York, nell’East Village. Per me fu uno shock: dal momento che il mio ragazzo era morto pensavo che sarei morto anch’io. Allora la gente moriva molto alla svelta, non come adesso. Ora la gente vive sempre più a lungo. Negli anni Ottanta, quando qualcuno prendeva l’AIDS se ne andava all’improvviso e non c’erano neanche i test per individuare l’HIV. Tanta gente ricorda gli anni Ottanta come un’epoca divertente, la New Wave, le discoteche. Si

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Il tuo lavoro è molto eclettico. Pensi che esista uno “stile-LaChapelle”? Uno fa quel che gli piace, e poi ecco che spunta uno stile. La gente rimette insieme tutto quanto e decide che quello è il tuo stile. Ma un giorno ti svegli e sei felice, un altro invece sei triste, un giorno ti svegli e sei arrabbiato… se sai tradurre tutto questo nel tuo lavoro, ed esprimere i tuoi sentimenti, allora sei un artista. Io non vedevo nessuna differenza tra fare il fotografo e fare l’artista. Non tracciavo confini. Se qualcuno pensa che la mia sia arte, benissimo, ma io lascio che sia la storia a decidere. In fondo le mie foto sono state fatte per delle riviste. Per delle riviste, mi spiego? Sono state fatte per attirare l’attenzione, perché chi sfoglia

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LADY GAGA BY LA CHAPELLE


“Il mio modo di fotografare è molto istintivo, preferisco basarmi sulle mie emozioni, anziché su un approccio intellettuale nei confronti della persona con cui lavoro, adoro giocare con lei per costruire insieme una storia fotografica. Da queste decine di foto che scatto, spesso ne scelgo una sola. Il punto centrale del mio film ideale con un inizio, una parte centrale e una fine. La mia idea è quella di creare ricordano tutte le cose positive. I giovani di oggi non si rendono conto che in continuagli anni Ottanta a New York furono un inzione.”

cubo. Pensavo che il mio tempo nel mondo fosse limitato. Lavoravo sodo, ma con questo peso sulle spalle, e ogni volta che mi sentivo male, ogni volta che tossivo, ogni volta che mi trovavo un livido, pensavo «Ecco, ci siamo». Alla fine trovai il coraggio di fare il test, ma sapevo che nei primi anni Ottanta i dottori non sapevano bene cosa fare, infatti lo feci solo negli anni Novanta e scoprii di non essere positivo all’HIV. Mi tolsi un peso. Fu allora che cominciai a lavorare con il colore, che cominciai a traboccare di colore. Se ci ripenso lo vedo con chiarezza. Allora non mi resi conto di cosa mi stava succedendo, che quella era la mia reazione, ma se guardo indietro nel tempo vedo bene che cominciai a usare il colore nello stesso periodo in cui mi resi conto che sarei sopravvissuto. Mi sentivo come le mie foto. Penso che il mio scopo fosse di offrire una specie di via d’uscita dalla pesantezza dell’epoca in cui vivevo e del mondo in generale. Volevo fare foto meravigliose che portassero chi le guardava in un altro mondo, più allegro. Cominciai con quest’idea.

E poi? Ma poi si cambia: e io non sono più quello che ero allora. Si cresce, si impara e si cambia, e si spera di far meglio il proprio lavoro, e di evolvere come essere umano. Io spero di aver fatto proprio questo. Oggi ho obiettivi diversi da quelli che avevo quando ho cominciato a fotografare, e i miei obiettivi continuano a cambiare. Penso che qualcuno avesse ragione quando ha detto: «Sai, penso di essere uno work in progress»; io penso che siamo tutti work in progress. In questo momento mi sembra di essere all’inizio della mia carriera, all’inizio di un modo tutto nuovo di lavorare, di vedere le cose e di vivere. Mi viene da dire che mi sento ancora un volta come se stessi iniziando qualcosa di nuovo. Il tuo legame con la cultura pop è dichiarato. Dopo il surrealismo, la Pop Art è la corrente più longeva della storia dell’arte. Come pensi che si sia modificato il pensiero pop in questi ultimi quarant’anni? Il pensiero pop influenza oggi la stragrande maggioranza degli artisti... Per me, Pop Art ha sempre significato accessibile, che arriva alla gente, che tratta di cose interessanti e importanti per la gente. Le cose sono cambiate, le idee sono cambiate nel corso del tempo, e il pop è diventato sempre meno un movimento e

sempre più una forma d’arte: come c’è la musica, la pittura o le arti visive, c’è anche la Pop Art. È arte che arriva alla gente, e i metodi che usa per arrivare alla gente sono cambiati nel corso degli anni. È vero che negli anni Ottanta, con Keith Haring, c’è stata una boccata d’aria completamente nuova. Io penso che oggi pop significhi qualcosa di diverso da ciò che significava in origine. È diventato un termine così importante che davvero riassume in sé tutta la categoria. Non è più solo un movimento, è una categoria dell’arte.

Nel tuo lavoro ritroviamo, mischiati, elementi onirici di memoria surrealista e scene di quotidianità straordinaria. Fai una specie di iperrealismo di sapore magrittiano in cui l’assurdo è un aspetto concreto della vita contemporanea, una specie di irreality show… Molti dei surrealisti erano degli anarchici. Credo che Magritte fosse un artista anarchico come i punk rock, e che si facesse domande caratteristiche di un certo tipo di artista: «Cos’è l’arte?», al limite dell’arte concettuale; «Questa è arte?», cose così. Io sono avido d’arte in generale. Ho studiato e amato l’arte. Non so se si può definirlo studio, ma fin da bambino ho desiderato diventare un artista, a ogni costo. Non volevo diventare una specie di uomo d’affari. E questo mi faceva sentire autorizzato a non finire la scuola, a non seguire le lezioni di matematica in classe, perché fin da molto piccolo sapevo che sarei diventato un artista. E sapevo che tutta la roba che mi insegnavano a scuola non mi sarebbe servita. Amavo l’arte, e leggevo e studiavo tutto quello che potevo. Ho amato l’opera di Michelangelo fin dall’inizio della mia attività, e a essa mi sono sempre ispirato. So che pare strano, perché io sono quello che faceva le foto a Lil’ Kim, a Pamela Anderson e a Paris Hilton, ma io mi limitavo a registrare il mondo in cui vivevo, e gran parte di quelle foto erano lavoro, semplice lavoro per me, e lo facevo come sapevo e potevo. A questo punto ormai ho detto tutto quello che volevo dire in termini di cultura popolare sulle riviste, e voglio lavorare solo per le gallerie, come ho cominciato nel 1984 alla galleria 303. Volevo lavorare solo per le gallerie, e ora ricomincio da capo. Vedremo se funziona, se la gente capirà. Per me ora è l’unica cosa da fare. Non sono più innamorato delle idee che avevo cinque o dieci anni fa. Dal 1995 al 2005 ho tentato di fotografare quante più persone potevo, punto e basta. Volevo registrare tutto. Avevo iniziato con l’idea di fare a ogni persona la foto che definiva la sua vita. Al passaggio del millennio, tra il 1999 e il 2000, ho tentato di fotografare il decennio e le ossessioni di quella cultura, della nostra “Se dovessi fare una foto cultura e del nostro tempo, e di metterle sulla al Papa - cosa molto improbabile a meno che pellicola. Anche se si trattava di fantasie esagerate, lui non mi chiami per quello era quanto succedeva una foto tessera - lo nel mondo.

ritrarrei mentre si Lavori molto per committenza, una lava i denti.” condizione a cui l’artista moderno non è mai stato legato. Ma realizzi anche dei lavori in maniera autonoma, solo per rispondere a una tua esigenza personale. Ho intitolato il libro Artisti e Prostitute perché tutti quanti siamo stati un po’ entrambe le cose.

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O almeno io lo sono stato, ho lavorato per le persone e ho cercato di manifestare le mie idee, ma ogni situazione è diversa dalle altre. Tutti quelli che lavorano con me sanno che devono lasciarsi un po’ andare e lasciare che io metta in pratica le mie idee. Penso che le persone più stimolanti da fotografare siano gli artisti, perché sono più sensibili alle installazioni visive e alla carica di significato che le opere visive hanno. È molto più faticoso lavorare in proprio, da soli, perché non ci sono limiti e si può fare tutto quello che si vuole. Avere un parametro o un limite è sempre più facile. Si lavora all’interno del limite, magari lo si forza e si oltrepassa la linea, ma quando i limiti non ci sono proprio è più difficile. Bisogna riflettere. È più stimolante.

Qual è il processo creativo alla base del tuo lavoro, cioè: la tua modalità di lavoro è più analitica e si struttura progressivamente sulla base di un progetto o procedi per intuizioni? A causa della natura del mio lavoro e della quantità di foto che ho fatto nel decennio tra il 1995 e il 2005, della velocità necessaria per costruire le inquadrature, e poi scattare, lavoravo in pratica ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Eravamo sempre occupati a costruire un altro set. Lavoravamo sempre. Non c’era molto tempo per architettare strategie. E non ce n’era il motivo. Non c’era il tempo di pensare. Era come una macchina intuitiva, che si muove di continuo. E dunque non c’era il tempo di riflettere su quello che stavamo facendo o sul suo significato o sulla manipolazione dell’immagine di una persona. Si trattava di tentare di fare foto che riassumessero una persona, in modo che guardando la foto di qualcuno, senza conoscerlo, si potesse dire chi era. La mia idea era che, se facevo una foto a qualcuno e anni dopo, o chissà quando, quello fosse morto, se qualcun altro avesse voluto sapere chi era quella persona, bastava che prendesse le fotografie, e loro gli avrebbero raccontato chi era. Era un modo di fare fotografie spontaneo e intuitivo, piuttosto che metodico e cerebrale. Eravamo fotografi ad alta velocità e ad alta produttività. Ora si può guardare quanto abbiamo fatto e capire cosa significa, credo che quando si lavora in quel modo intuitivo e alla fine ci si guar-

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da indietro, si vede il significato con un po’ più di chiarezza.

In uno dei tuoi ultimi lavori ti sei ispirato alla Cappella Sistina. Perché questo riferimento all’arte classica, la narrazione e la figurazione in chiave contemporanea si sono inaridite? Mi ha sempre affascinato l’idea del sublime. Per lo più il momento sublime si trova in natura. Molto raramente un’opera d’arte fa sentire la presenza di Dio. Molto raramente succede, l’impatto profondo tipo: «Oh Dio, ci deve essere altro, oltre questo mondo». A me questo succede, per esempio, quando vedo la Cappella Sistina. Al giorno d’oggi è difficile, perché nella Cappella Sistina c’è sempre folla e rumore. C’è una confusione incredibile, ma se si riesce a prescindere da ciò, e a vedere l’opera, è un momento che ispira timore reverenziale. Nell’arte è molto difficile raggiungere il sublime. Ma a volte momenti così si verificano. Quando si spalancano le porte del concetto di eternità, per esempio alla morte di una persona cara, di fronte alla diagnosi di un cancro, quando nasce un bambino, davanti a una calamità, la gente si chiede «Ma un Dio c’è? ». Ci si pongono queste domande, è un’occasione di illuminazione. A volte può verificarsi per mezzo di una sinfonia e a volte quando si vede da vicino una grande opera d’arte. Fin da bambino sono stato affascinato da Michelangelo. Se si parla di pop, ecco, lui è l’artista pop per definizione. È l’unico artista riconosciuto in tutto il mondo. Davanti all’immagine di una mano, quella della creazione di Adamo, tutti sanno dire il nome dell’artista che l’ha dipinta. E questo è molto vicino alla definizione di pop, cioè essere popolare: tutti conoscono Michelangelo. In qualche modo la sua opera è abbastanza ampia, arriva all’intelletto di tutti, anche ai bambini, che uno appartenga al mondo dell’arte oppure no. Mette in comunicazione l’idea di un mondo dell’arte e di un mondo “mondo”. Le mette in comunicazione davvero, perché guardando l’opera di Michelangelo si guarda il mondo. Non è il mondo dell’arte, è “il mondo”, è l’umanità. C’entrano i concetti di eternità, quelli di illuminazione e il concetto di «Ma un Dio c’è?». Come è stato possibile creare qualcosa di tanto bello? Penso che l’intento di Michelangelo fosse questo. La bellezza dell’uomo era la prova dell’esistenza di Dio. Credo


che Michelangelo cercasse di comunicare questo. C’è il bello, rappresentato da Raffaello, e c’è il sublime, che è Michelangelo: toglie il respiro.

E il diluvio in Cathedral? La società contemporanea sembra volersi confrontare sempre di più con la spiritualità e perfino con la religione: per paura, bisogno di riferimenti forti, segno di appartenenza, Anche gli artisti, in modo personalissimo, spesso eretico… In generale penso che la gente cerchi l’illuminazione. Penso

che l’arte sia il riflesso della vita. Se la gente nella vita cerca illuminazioni e risposte alle proprie domande, lo stesso succede nell’arte. Penso che viviamo in un’epoca di incredibile flusso di comunicazione, con canali che danno notizie attivi ventiquattro ore su ventiquattro, e vediamo le atrocità della guerra nel mondo, un mondo dove vive sempre più gente. Vediamo più da vicino il lato oscuro della natura umana, e questo mette in discussione la nostra esistenza. Perché siamo qui? A che scopo? Sono tutte domande esistenziali, le stesse domande che anche ogni artista si pone. Non credo che il postmodernismo, ad esempio, abbia risposto a domande di questa natura, o anche solo che se le sia poste. Ritengo che la ricerca metafisica sia la ricerca dell’illuminazione. La gente cerca risposte al perché il mondo è così com’è. Quando ci si avvicina molto al volto della sofferenza, e al nichilismo e alle tenebre, davvero ci si domanda qual è lo scopo, e perché siamo qui. Davvero si arriva all’idea esistenziale di quale sia il significato della vita. Io penso che se a quella domanda ci possono essere delle risposte, esse passano dall’arte e da un artista che può rivelare o accendere una specie di luce, cioè di illuminazione. Abbiamo appena attraversato un’era di tale confusione e un periodo di tale sconvolgimento, un vero e proprio terremoto nel mondo. Lo abbiamo visto, non si può evitare: deve succedere, il pendolo dovrà oscillare in un’altra direzione. Dovremo vedere la luce che brilla su questa concezione di scopo, lo scopo della vita. L’illuminazione arriverà: e se non viene dall’arte non so da dove possa venire. Non verrà certo dalla CNN. Verrà da un artista.

Gianni Mercurio

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The

“I had the craziest dream last night. I was dancing the white swan.�

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TRAMA

Nina Sayers è una ballerina del New York City Ballet che sogna di diventare protagonista in un importante spettacolo. La madre, un’ex ballerina di scarso successo, è iperprotettiva e la costringe ad allenamenti estenuanti. Quando il direttore Thomas Leroy le affida il ruolo di protagonista ne “Il lago dei cigni”, Nina dovrà sostenere una dura prova che metterà a repentaglio il suo fragile equilibrio emotivo e psicologico.

RECENSIONE

Definire “Il cigno nero” come un film sul balletto sarebbe fuorviante. L’ultima fatica del talentuoso regista Darren Aronofsky rappresenta un incubo che trascina la protagonista in un estenuante e devastante percorso dove realtà e sogno si sciolgono in un’antitetica entità. La storia racconta, in apparenza, la vita che si svolge dietro le quinte di molte compagnie teatrali e di ballo: rivalità, ambizioni, discussioni, invidie e gelosie. Eppure, Aronofsky non è interessato nel seguire queste storie di quotidianità, intende invece scrutare la fragile personalità della protagonista. Conduce lo spettatore in un tortuoso viaggio attraverso visioni che lasciano dubbi sull’effettiva realtà di quanto accade: verità o finzione? Allo scopo, è determinante la presenza degli specchi: se è facile trovarli negli ambienti del ballo, il regista li riproduce ovunque può, come, ad esempio, nel caso di un finestrino della metropolitana nel quale la figura della protagonista ricrea la sua immagine riflessa. Il soggetto

del film è, appunto, il doppelgänger, un argomento spesso trattato in letteratura e nel cinema, ma sempre intrigante. Il doppio inteso come “gemello maligno”, la parte oscura, nascosta a noi stessi. Sono proprio le immagini a raccontare la storia, perché i dialoghi vengono, di proposito, regalati in secondo piano. Aronofsky non spiega nulla esplicitamente, non approfondisce molti aspetti (in particolare, il rapporto con la madre e i motivi che spingono la protagonista a grattarsi fino a provocarsi dolorose ferite) lasciando, così, nelle mani dello spettatore, tra dubbi ed incertezze, diverse chiavi di lettura sui comportamenti della protagonista. Aronofsky stupisce ancora una volta: amalgama dramma e thriller psicologico (con terrificanti momenti horror) creando un’atmosfera ipnotica ed indefinita che calamita lo spettatore. Nina Sayers è una ragazza ingenua, sessualmente repressa ed intrappolata in un corpo adulto ancora non maturato nelle emozioni. E’ una talentuosa ballerina di New York, dalla tecnica impeccabile. Nina è il perfetto “cigno bianco”, candido e puro. Ma il ruolo di protagonista de “Il lago dei cigni” di Chajkovsky è duplice, impone l’interpretazione del “cigno nero”. Spinta da Thomas Leroy, direttore della compagnia, Nina deve lasciarsi andare, deve aprirsi a quella parte di sé che ha dimenticato durante la sua ostinata ricerca della perfezione tecnica. La sua vita è condizionata da una madre, ex ballerina di scarso successo, apprensiva e soffocante (una Barbara Hershey da brividi!) che la tratta come una bambina. Non a caso, Aronofsky ci mostra la sua stanza dai colori pastello piena di peluche e un carillon, con una ballerina che volteggia su sé stessa, suona una musica

dolce che, nel prosieguo della storia, assume toni inquietanti. Nina ha trascurato i rapporti con l’altro sesso per troppo tempo, perdendo contatto con le emozioni. Sarà la nuova ballerina Lily, interpretata da Mila Kunis, attrice qui irresistibile per l’istintiva sensualità, a farle scoprire il piacere ed il sesso. Sconvolgente, ma non fuori luogo, la scena di sesso lesbico Kunis - Portman, perché descrittiva di un tappa della metamorfosi in cigno nero della protagonista. Nina Sayers ha, infatti, il corpo di Natalie Portman, alla sua migliore prova. Non solo esplicita senza sbavature le due identità di Nina, ma sfodera fisico e caratura da étoile. Notevole anche Vincent Cassel, attraente ed ambiguo direttore della compagnia. Del cast è anche Winona Ryder che, nonostante il poco spazio a disposizione, fa notare la sua presenza. La colonna sonora de “Il cigno nero” è di alta qualità, ovvio considerando le meravigliose musiche che fanno da sottofondo all’arte del balletto. L’aspetto tecnico più interessante è il trucco realizzato da Judy Chin. Di grande impatto visivo, con una cura particolare nel contorno occhi. La make up designer ha lavorato sull’evolversi del personaggio passando dai colori leggeri, quasi invisibili, iniziali fino all’argento-nero che ne enfatizzano l’aspetto maligno. Intenso, devastante, ossessivo, “Il cigno nero”, pur ricordando il cinema oscuro e psicologico di De Palma e Polanski, è la perfetta sintesi del cinema di Aronofsky: delirante come “Π - Il teorema del delirio”, disperato come “Requiem for a dream”, fantastico come “The fountain L’albero della vita”, affranto come “The wrestler”.

Swan

Amos Gitai



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