La Grafica Digitale

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Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica Diploma Accademico di Primo Livello in graphic design indirizzo comunicazione di impresa Anno Accademico 2012/13 Candidato Manuel Impellizzeri Relatore Gianni Latino Progetto grafico Manuel Impellizzeri Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Pubblicazione composta in Optima Nova, disegnato da Hermann Zapf nel 2002 e in Bauer Bodoni, disegnato da Louis Höll nel 1926. © Copyright 2014 Accademia di Belle Arti di Catania Manuel Impellizzeri Tutti i diritti riservati www.accademiadicatania.com


Manuel Impellizzeri



Indice 0. Prefazione

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1.

Milton Glaser

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2.

Seymour Chwast

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3.

Wolfgang Weingart

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4.

Paula Scher

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5.

Emigre

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6.

April Greiman

76

7.

Neville Brody

90

8.

David Carson

108

9.

Stefan Sagmeister

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10. John Maeda

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11. Bibliografia

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INTRODUZIONE


PREFAZIONE In principio fu l’Art Nouveau ad occuparsi di grafica. L’artista fa della carta la sua nuova tela, l’illustrazione viene accompagnata dall’uso diretto della grafia o da caratteri mobili contraddistinti dalle morbide linee e dai rimandi floreali tipici dello Jugendstil. L’origine della grafica moderna va, invece, ricercata nell’esperienza della Bauhaus di Weimar. Assistiamo a una progressiva eliminazione di tutti gli apparati decorativi, utilizzo di colori fondamentali (rosso, nero e bianco) e ad un’estrema semplificazione delle forme. Grafia e morbide linee vengono sostituite da caratteri senza grazie fortemente leggibili. La bellezza della pagina non viene più desunta dall’aspetto estetico in senso lato, bensì dalla sua organizzazione, dall’equilibrio della sua composizione, dalla sua chiarezza. Si cerca di creare un carattere universalmente leggibile, opera in cui si cimenta Herbert Bayer (1900-1985) che darà alla luce l’Universal nel 1925. Ad ereditare, nel secondo dopoguerra, i dogmi della scuola sovietica e delle scuole tedesche (Bauhaus) fu la cosiddetta scuola di Ulm. Diretta inizialmente da Max Bill (1908-1994), la scuola ripropose la conciliazione di forma e prodotto, mettendo maggiormente in luce il bisogno di privilegiare la corporate image. Nella seconda metà del novecento, attraverso la scoperta prima della foto-composizione e successivamente del digitale, assistiamo a una tendenza eversiva nei confronti della tradizione e del rigorismo di movimenti come Bauhaus, International Typographic Style e scuola di Ulm. Già in America, negli anni ’60, con l’avvento del movimento artistico-culturale della Pop Art, figurano personaggi emblematici come Milton Glaser e Robert Chwast, i quali, con i loro Push Pin Studios, premiano l’idea progettuale al formalismo. Ispirandosi, dunque, all’arte commerciale di stampo pop, attraverso illustrazioni variopinte e uso della grafia, a discapito della tipografia tanto cara allo stile svizzero, creano poster di grande impatto visivo, quasi destabilizzante. Il testo si unisce all’immagine divenendo lui stesso, a sua volta, immagine. Altro esponente che, pur venendone a diretto contatto, dà uno stacco decisivo a quello che è il rigore svizzero dando vita a quella che sarà chiamata New Wave, è indubbiamente Wolfang Weingart. Sebbene vi sia un chiaro intento di distaccarsi dai postulati dello Stile tipografico Internazionale se ne mantengono ancora alcuni caratteri come l’allineamento o l’uso delle griglie. Paula Scher, invece, negli anni ’70, durante la sua formazione, decide di volersi opporre al carattere Helvetica (celebre quanto sarcastica la sua associazione di quest’ultimo a promotore della guerra in Iraq), crea suoi personali font rifacendosi ad oggetti di antiquariato, e tramite l’uso della parole dà vita ad una sorta di mappa semantico-geografica. Sarà, come precedentemente detto, il digitale a contribuire ad una cesura definitiva alle rigide tradizioni del passato. Nel 1984 vede, difatti, luce il primo Macintosh, alla cui rapida diffusione collaborerà Susan Kare, autrice delle famose icone che danno vigore all’acronimo WYSIWYG (what you see it’s what you get) punto forte dell’interfaccia di casa Apple. I creatori della rivista Emigre (e dell’omonima fonderia digitale,

nelle pagine seguenti: H. de Toulouse-Lautrec, Jane Avril, affiche, 1893. P. Scher, Toulouse-Scher, poster, 2001. Macintosh 128K, 1984.

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Emigre fonts), Zuzana Licko e Rudy VanderLans, fanno tesoro del nuovo assistente informatico per dare nuova identità ai caratteri tipografici, sovvertendo la tradizione e diffondendo, attraverso il loro magazine, una cultura grafica avanguardistica. Intanto, April Greiman, allieva di Wolfgang Weingart, porta il New Wave ad una nuova dimensione, ovvero quella digitale, servendosi del Mac non solo come semplice strumento, ma come un vero e proprio assistente che prende parte all’intero processo creativo. Nuovo respiro alla scena grafica degli anni 80 è dato da Neville Brody, il quale, rifacendosi al Costruttivismo russo, Futurismo e Dadaismo innalza il piano della comunicazione a quello del mero intrattenimento. David Carson parla, invece, di morte della stampa, mentre Stefan Sagmeister afferma, con la provocazione che lo contraddistingue, che “stile è uguale a scoreggia” e che l’unico interesse che nutre è quello di colpire emotivamente con i suoi lavori. Nell’ultimo ventennio diverse figure eversive han lasciato e continuano a lasciare la loro impronta in questo settore. Tra tutti ricordiamo John Maeda che, facendo tesoro del meglio di occidente e oriente e servendosi dei suoi studi al MIT, riesce a far convergere grafica ed informatica creando un vero e proprio design autenticamente digitale. Nel corso dell’ultimo trentennio assistiamo, quindi, ad un’evoluzione (e forse anche involuzione) nel campo del design grafico. Se da un lato la nuova tecnologia porta a un progresso e una maggiore rapidità, nonché possibilità, nella produzione di artefatti comunicativi, allo stesso tempo riscontriamo un chiaro ritorno alle origini, ad una cosiddetta “grafica libera”. La tesi si pone, quindi, l’obiettivo di esaminare e tracciare il profilo di questi maggiori pionieri della grafica fuori dalle regole attraverso uno sguardo attento al loro background e alle loro opere.

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MILTON GLASER Solamente pochi designer ricevono come Milton Glaser così grande approvazione dai loro illustri colleghi. Da più di sessant’anni è una delle figure più rinomate internazionalmente e altamente influenti nel design. Abbondantemente produttivo, la sua versatilità come professionista abbraccia parecchie materie nell’ambito del design, incluse grafica, mostre, interni, accessori e prodotti. Ritenuto da molti l’incarnazione del graphic design americano della seconda metà del novecento, Milton Glaser ha tracciato un segno indelebile nella sua professione, la cui presenza e influenza è ritenuta internazionalmente straordinaria. Uomo rinascimentale moderno, Milton è estremamente creativo ed eloquente, uno di una rara stirpe di designer-illustratori intellettuali, che portano una profonda conoscenza e un pensiero concettuale, combinato con una variegata ricchezza di linguaggio visuale, al loro lavoro estremamente creativo e personale.

in alto: Milton Glaser (New York, 1929); Medaglia AIGA 1972; nel 2009 riceve la National Medal of Arts dal presidente Obama. Scatto realizzato dal fotografo Franco Vogt.

Nato a New York nel 1929 da famiglia di origini ungheresi, Glaser sin da piccolo nutrì forte amore verso l’illustrazione. In particolare, fu il disegno di un uccellino su di una busta di carta - realizzato per il piccolo Milton da un cugino maggiore - che segnò una profonda illuminazione nella vita dell’artista: «Realizzai all’improvviso che potevi creare vita – che potevi creare vita con una matita ed un sacchetto di carta – e fu un vero miracolo da quello che ricordo. Sebbene la gente mi dica sempre che la memoria è solo un meccanismo per giustificare il tuo presente, fu come se avessi ricevuto dei segni indelebili e ho compreso di colpo che potevi passare la tua esistenza ad inventare la vita. E non ho mai smesso da allora – a 5 anni, la mia strada era segnata. Non mi sono mai discostato, non ho mai smesso di ambire o lavorare in un modo che mi desse occasione di creare cose che, se fatte bene, destabilizzassero le persone.»1 Vi fu un altro evento che fomentò la sua passione, Milton lo ricorda con tenerezza: «Quando ero alle medie, ebbi l’opportunità di provare i test di ingresso alla Bronx Science, che è una prestigiosa scuola di New York,

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o alla High School of Music and Art, un’altra fantastica scuola. […] Ed avevo un insegnante di scienze che mi incoraggiava molto ad entrare in scienze – ero veramente bravo nelle scienze – e voleva che andassi alla Bronx Science. Ed ero evasivo sull’argomento, perché non volevo dirgli che non sarebbe accaduto. Ma il giorno del test d’ingresso – furono lo stesso giorno – affrontai l’esame d’accesso alla High School of Music and Art. Il giorno successivo andai a scuola, era nel corridoio mentre lo percorrevo, e mi disse, “Voglio parlarti”. Pensai, “Uh-oh – mi ha scoperto, sta per dirmi che ho fatto l’esame sbagliato”. E mi disse, “Vieni nel mio ufficio… Siediti”. E, mentre mi sedevo, esclamò, “ho sentito che hai fatto l’esame per la Music and Art”. Risposi, “Uhm, sì”. E poi si allungò e frugò nella sua scrivania, e tirò fuori una scatola di pastelli Conté – una scatola decorata e costosa – e me la diede, e disse, “Buon lavoro”. Non posso raccontare questo episodio senza piangere, perché è stato un esempio così profondo di qualcuno – un adulto, una figura autoritaria, un uomo sofisticato – che era disposto a mettere da parte il suo stesso desiderio per qualcosa, la direzione che desiderava per la mia vita, e riconoscermi come un individuo che aveva fatto una scelta. E la stava incoraggiando, invece che limitarsi ad accettarla, con questo dono incredibilmente grazioso e generoso. […] In tutto ciò la cosa che ti sorprende sempre è che quel momento – non poteva esser durato più di due minuti – trasformò totalmente il mio modo di vedere la vita, di vedere gli altri, di vedere l’insegnamento, il mio modo di accettare le decisioni del prossimo.»2 L’unico modo per contraccambiare il prezioso regalo ricevuto dal docente fu sicuramente quello di fare un buon lavoro, cosa che gli riuscì a pieno. Iniziò quindi la maturazione artistica di Milton che tra il 1943 e il 1946 frequentò la High School of Music and Art di New York e tra il 1948 e il 1951 la Cooper Union Art School. Nel 1952, studiò come allievo Fulbright all’Accademia di Belle Arti di Bologna vantando l’insegnamento di Giorgio Morandi (1890-1964) la cui più grande lezione impartitagli, come ricorda, fu l’impegno: «Ricordo Morandi che insegnava a un gruppo di ragazze, non studentesse d'arte ma semplici liceali, i rudimenti dell'incisione all'acquaforte. Non avevano idea di cosa lui stesse parlando, ma quello che Morandi riusciva a trasmettere sempre, anche in quell'occasione, era la sua passione e il suo impegno. Ovvero ciò che gli permetteva di entrare in classe, insegnare, uscire, andare a casa e cominciare a lavorare. Poi un pasto frugale e ancora al lavoro. Tutta la sua vita era lavoro. Non desiderava altro. Non voleva sesso, soldi o fama. Tutto ciò che voleva era lavorare. Una grande lezione.»3

in alto: M. Glaser, Bach, poster, 1967. M. Glaser, Mahalia Jackson, poster, 1967. nella pagina seguente: M. Glaser, Bach, particolare del poster, 1967. M. Glaser, Hologram typeface, 1970 ca.

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Rientrato dall’esperienza bolognese, nel 1954 divenne co-fondatore del Push Pin Studio, con base a New York, insieme a Seymour Chwast (1931), Edward Sorel (1929) e Reynold Ruffins (1930). Il Push Pin, così come Glaser, si fece notare per aver rigettato il minimalismo Modernista, che era diventato il “look” predefinito del graphic design dalla metà del secolo. Plagiato invece dalle decorazioni dell’Art Nouveau, egli realizzò poster, cover di cd, copertine di riviste, pubblicità e illustrazioni per libri con uno stile giocoso e


camaleontico. Fu così che nel 1974 aprì la Milton Glaser Inc., suo studio personale. Nel 1975 realizzò ogni aspetto dell’identità visiva del ristorante Windows on the World nonché la progettazione dell’Observation Deck e della Permanent Exhibition per le Twin Towers nel World Trade Center. Questo non fu il suo primo contributo all’iconografia della città: aveva già curato il design della testata della rivista settimanale New York, che contribuì a fondare nel 1968. Milton Glaser si trovava nei sedili posteriori di uno dei tradizionali taxi gialli a Manhattan quando ebbe il lampo di genio che avrebbe segnato la sua vita. Era il 1976 quando venne chiesto al graphic designer Americano di realizzare un logo che avrebbe potuto rigenerare le sorti dello stato di New York. Trasse dalla sua tasca un pastello rosso e iniziò a creare degli schizzi su di un pezzo di carta: prima una “I”, poi il semplice contorno di un cuore, seguito da due lettere, la “N” e la “Y”. Lo schizzo di Glaser conteneva il seme di una delle campagne di advertising di maggiore successo di tutti i tempi – talmente di MILTON GLASER

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in alto: M. Glaser, I Love New York, marchio, 1976. M. Glaser, I Love New York, bozzetto marchio su carta, 1976. nella pagina seguente: M. Glaser, Russian Tea Room Jazz, poster, 1972, M. Glaser, Elvis, poster, 1979. M. Glaser, Saratoga Festival, poster, 1980.

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successo, infatti, che il foglietto strappato contenente la sua idea originale si trova adesso nella collezione permanente del Museum of Modern Art a New York. «Quel piccolo pezzo di carta vale probabilmente almeno quanto un piccolo Picasso»4, racconta Glaser. Dalla segnaletica della London Underground al logo per la Apple, il graphic design del 20esimo secolo permea di cultura popolare. Ma pochi marchi hanno l’onnipresenza dell’ “I [heart] N Y” di Milton Glaser, che possiede l’elegante perfezione di una formula algebrica. Copiato in tutto il mondo, può reclamare il titolo di logo più spesso imitato mai concepito. Oggigiorno, il merchandising ufficiale stampato con il design di Glaser produce più di 30 milioni di dollari l’anno. Stando all’agenzia di New York che ne detiene il copyright, nonché una somma consistente dei profitti, il marchio ha avuto una crescita a due cifre negli anni passati, ed è conosciuto maggiormente soprattutto in Italia e Giappone. Adesso 84enne, Glaser non vede un centesimo delle decine di milioni di dollari annuali ricavati dal suo marchio. «È interessante come questa piccola icona abbozzata, o in qualsiasi modo la si voglia chiamare, è divenuta fonte di un così grande guadagno», afferma. «L’ho realizzata gratuitamente. All’inizio, non possedeva nemmeno il copyright, perché l’idea era di lasciarla usare a chiunque per i primi 10 anni, cosicché avrebbe potuto proliferare ed entrare nella cultura. Ho accettato di farla come lavoro no profit perché ne avrebbe beneficiato lo stato»5. Negli anni Settanta, New York aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. «Il crimine raggiunse il suo più alto livello della storia della città», afferma Robert McGuire, che fu commissario della polizia di New York City tra il 1978 e il 1983. «Vi fu un’epidemia del crack, e alcuni quartieri come il Lower East Side e alcune zone del Bronx erano totalmente corrotte. Avevamo una città fuori controllo. Era il Wild West»6. Nel 1997, a causa di un ampio blackout imperversano vandalismi e saccheggi, generando 4.500 arresti. McGuire afferma che questo era solo il minimo e paragona i suoi inizi come commissario di polizia al “camminare in un tritacarne”. A peggiorare le cose, i fondi della città erano praticamente vuoti. Nel 1975, dopo che il Presidente Ford negò l’assistenza federale per salvare NYC dalla bancarotta, il Daily News andò alle stampe con una prima pagina dal titolo: “Ford alla Città: Muori”. Per combattere la triste pubblicità, il dipartimento allo sviluppo


economico dello stato di New York commissionò all’agenzia pubblicitaria Wells Rich Green di Madison Avenue di realizzare una campagna che avrebbe potuto generare turismo. Il maggior punto di vendita della città era sicuramente Broadway, e poco dopo l’agenzia se ne sarebbe uscita con uno slogan (“I Love New York”; Io amo New York), un jingle del compositore Steve Karmen e una pubblicità televisiva con l’attore Frank Langella. Ma necessitavano ancora di un logo – ed è qui che entrò in scena Glaser. Quando Glaser abbozzò per la prima volta il suo logo “I [heart] N Y” nei sedili posteriori del taxi, racconta: «Mi sentivo eccitato. Il mio lavoro aveva un senso di ineluttabilità. La forma e il contenuto erano uniti in una maniera indissolubile»7. Sviluppando l’idea originaria, Glaser decise di sistemare i caratteri, così che la “I” e il cuore vennero posti sopra le lettere “N” e “Y”. Nel farlo, ammise, potesse esser stato influenzato in maniera subliminale da Love, la scultura d’acciaio dell’artista Pop americano Robert Indiana (1928), che venne mostrata a New York per la prima volta nel 1970. Il lavoro di Indiana presenta, infatti, le lettere “L” e “O” sopra “V” ed “E”. Glaser aveva, quindi, bisogno di scegliere il carattere tipografico delle lettere. Decise di utilizzare l’American Typewriter. «Ma dovetti ri-disegnarlo”, racconta, “perché il carattere attuale è sgraziato, e in senso estetico non funziona bene con la forma del cuore»8. Usare il simbolo del cuore fu un colpo da maestro, come Kate Carmody, un’assistente curatoriale nel dipartimento di design al Museum of Modern Art, spiega: «Oggi rappresentiamo il nostro modo di sentirci attraverso le emoticon e questo era il vero inizio della stenografia che usiamo nei computer», dice. «Inoltre, visto il successo di questo progetto, i tipografi hanno dovuto aggiungere un cuore in ogni carattere»9. Nel 1983, Glaser si unì a Walter Bernard per formare la WBMG, una società di progetti grafici per pubblicazioni con base a New York. Dall’apertura dell’attività hanno realizzato più di 50 riviste, giornali e periodici in tutto il mondo. Tra i tanti impieghi, la WBMG si è occupata anche della riprogettazione di 3 dei maggiori giornali: The Washington Post negli Stati Uniti, La Vanguardia a Barcellona, e O Globo a Rio de Janeiro. Milton realizzò dei progetti architettonici incluso Sesame Place (1981-1983), un parco giochi educativo per bambini in Pennsylvania. Per 15 anni si è occupato della riprogettazione di una delle principali catene commerciali americane, The Grand Union Company, un progetto che comprendeva tutte le strutture dell’azienda, gli interni, e il packaging. È stato responsabile del concept e del design di interni della Triennale di Milano (1987-88), avente come tema “Le città del mondo e il futuro delle metropoli”. Nel 1987 per incarico dalla World Health Organization, Glaser ha disegnato nel 1987 il simbolo e i poster internazionali per la lotta contro l'AIDS. Nel 1933, invece, realizzò il famoso logo per l’opera teatrale, vincitrice del Premio Pulitzer, Angels in America, scritta da Tony Kushner. E la lista va ancora avanti. Nel 2009, Glaser è divenuto il primo graphic designer ad essere onorato della National Medal of Arts Americana, in parte dovuta al successo di “I [heart] N Y”. Egli crede che il logo funzioni a causa

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della tensione che si viene a creare fra l’emotività del cuore e la fredda geometria delle lettere. Ma, aggiunge: «Avviene un’altra cosa, anche. Per capirne il design, devi tradurlo. Prima di tutto devi comprendere che la “I” è una parola completa, poi devi capire che il cuore è un simbolo che esprime una sensazione, infine devi comprendere che “NY” sono le iniziali di un luogo. Sappiamo che il rompicapo in tutta la comunicazione mette in azione il cervello, e i puzzle azionano il cervello. Questo fa sentire tutta la gente bene perché riescono a risolverlo. Inoltre, viene da New York – la capitale dell’universo, giusto? Se fosse nato in Poughkeepsie, sarebbe morto in Poughkeepsie.»10 Un tempo anticonformista nel design la cui arte figurativa nei recenti decenni fu sinonimo del suo tempo, Glaser è adesso l’ampliamente venerato rappresentante della sua professione. Steven Heller, uno dei più influenti critici di design americani, vede così il suo compatriota: «È, forse, il più eloquente dei graphic designer americani, sebbene ‘graphic designer’ sia un termine troppo restrittivo per esprimere quello che fa Milton, e ciò che ha realizzato. Penso che ciò che ha effettuato nel suo lavoro in qualità di designer/illustratore è la pura espressione di un’idea attraverso la forma. Non è solamente uno straordinario esteta e capace di donare forma ai pensieri, ma anche uno dei pochi designer la cui coscienza sociale, senz’altro negli ultimi anni, è stata un fattore stimolante per il genere di lavoro che crea»11. Glaser ha continuato ad espandere la varietà dei suoi progetti, la profusione di stili e eclettismo dell’arte visiva che sono stati fattore chiave del suo caratteristico approccio al design. Sorprendentemente pieni di colori, spesso esotici all’apparenza, e tenendo la qualità di artista puro, molti dei manifesti illustrati realizzati da Glaser, sfumano la distinzione tra graphic design e pittura. Al contrario, il suo lavoro nel type design e nella corporate identity, mostra uguale creatività in forme grafiche più pure. Da più di mezzo secolo, il sempre geniale Glaser è divenuto il più celebrato dei designer americani, creando uno stile Americano di graphic design in continuo sviluppo e notevolmente unico, sempre opponendosi alle restrizioni di qualsiasi categorizzazione formale.

1. M. GLASER, cit. in intervista da The Good Life Project, http://www.goodlifeproject. com/milton-glaser. 2. M. GLASER, ivi. 3. M. GLASER, cit. in articolo-intervista, Intervista a Milton Glaser, http://www.lanciatrendvisions.com/it/article/intervista-a-milton-glaser. 4. M. GLASER, cit. in Alastair Sooke, articolo, Milton Glaser: his heart was in the right place, http://www.telegraph.co.uk/culture/art/art-features/8303867/Milton-Glaserhis-heart-was-in-the-right-place.html. 5. M. GLASER, ivi. 6. R. MCGUIRE, ivi. 7. M. GLASER, ivi. 8. M. GLASER, ivi. 9. K. CARMODY, ivi. 10. M. GLASER, ivi. 11. S. HELLER, cit. in Patrick Argent, biografia sito Aiga, Milton Glaser, http://www.aiga. org/medalist-miltonglaser/, articolo originariamente pubblicato in CSD Magazine (uscita di Agosto/Settembre 1999).

nella pagina precedente: M. Glaser, Aretha Franklin, poster, 1968. in alto: M. Glaser, Law. Blindfolded woman, poster, 1987. M. Glaser, Rights of Man, poster, 1989.

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Milton Glaser Bob Dylan poster, 1999 La silhouette in basso, realizzata da Duchamp, doveva essere rimasta nella mente di Milton quando realizzò uno dei suoi più famosi poster. Gli altri elementi grafici che contraddistinguono l’opera sono sicuramente la forma ed il colore dei capelli e richiamano la pittura Islamica. La silhouette di Duchamp, insieme agli elementi di design del vicino Oriente, produssero uno stile che, ironicamente, oggi viene considerato peculiare dell’America. La bocca corrucciata, il naso a becco e la folta, disordinata chioma a ricci rendono inconfondibile il volto del mostro sacro della musica americana. L’opera è anche un’icona dello stile psichedelico, movimento nato negli anni 60 nell’America dei figli dei fiori, caratterizzato da immagini coloratissime. Milton usa per il poster di Dylan il suo font Baby Teeth (a lato) realizzato nel 1964.

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Milton Glaser Theatre for a new audience poster, 1999 In questo manifesto (pagina precedente), realizzato per il ventesimo anniversario di Theatre for a new audience - una compagnia teatrale specializzata in versioni sperimentali di opere classiche - Glaser presenta uno Shakespeare moderno. Glaser afferma: «Tutti i suoi ritratti derivano da una o due immagini sulla cui autenticità non esiste un accordo generale. Gli unici motivi comuni sembrano essere la fronte spaziosa, la barba, i baffi, e l’ampio colletto bianco. Tutto ciò rende l’interpretazione del ritratto assai libera» presentandonci la figura di un attore di origine asiatica che recita il ruolo di Shakespeare. Ritagliata e composta in rettangoli sovrapposti, l’immagine acquista maggiore dinamicità. La scritta che incornicia il manifesto alterna caratteri classici e non, interpretando lo spirito della compagnia, fautrice di un teatro dal repertorio classico in chiave contemporanea. A destra, il poster del 2005, una statua del Vate a cui sono stati attaccati i numerosi ritratti realizzati nel corso degli anni di collaborazione con l’ente. Milton Glaser Art is Whatever poster, 1996 È lo stesso Milton Glaser a spiegare questo manifesto realizzato per la Visual School of Arts, che aveva assegnato a 10 artisti la realizzazione di 1 poster che esprimesse la propria visione di arte. «Ho pensato di dover usare un cliché visivo del nostro tempo, l’uomo qualunque di Magritte, per esprimere l’idea che l’arte è mistero, continuità e storia. Sono anche convinto che nell’era della manipolazione dei computer, il surrealismo sia diventato banale, un’ombra del suo sé passato. La frase “Tutto è arte” esprime l’attuale inclusione che circonda la produzione artistica, una specie di nozione del “Non è ciò che fai ma il modo in cui lo fai”. L’ombra di Magritte cala nella parte centrale del poster, un evento poetico che avviene quando l’ombra dell’uomo isola la parola cappello, nascosta nella parola “whatever”. Il cappello davanti mostrato nel poster suggerisce come l’arte dovrebbe essere definita: come una cosa in sé, il valore della cosa, l’ombra della cosa, e la forma della cosa. Tutto (whatever)»1. 1. M. GLASER, cit. conferenza TED 1998.

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SEYMOUR CHWAST Sarebbe difficile immaginare il graphic design e l’illustrazione Americani ed Europei contemporanei senza la presenza di Seymour Chwast. Dalla metà degli anni cinquanta, quando l’epoca di Norman Rockwell arrivò al suo termine, Chwast era già conosciuto per il suo stile unico nel disegno. Il suo approccio giocoso ed espressivo al carattere tipografico e al layout furono il perno di una nuova ondata di design basata sul revivalismo – un’alternativa netta al formalismo svizzero dell’epoca. Per oltre 40 anni ha continuato ad avere la meglio sui cambiamenti della moda; oggi la sua arte è persino più potente e varia di quando agli inizi alterò le percezioni di una generazione.

in alto: Seymour Chwast (New York, 1931); Medaglia AIGA 1985. Scatto realizzato dal fotografo Adriano Mauri.

«Se l’idea non prende forma dopo un certo numero di tentativi devi lasciar perdere. Lessi una volta del concetto di pensiero laterale e pensiero verticale. Se scavi una fossa ed è nel punto sbagliato, continuare a scavare più in profondità non ti sarà d’aiuto. Il pensiero laterale è quando vai oltre e scavi la fossa in un altro luogo.»1 Il lavoro di Chwast è presente ampliamente su manifesti, nei libri per bambini e adulti, riviste e pubblicità, il suo punto di forza non sta nell’esecuzione, come molti “sentimentalisti” prima di lui, ma nel concept e nel design. Un senso dell’umorismo seducente sorregge le sue illustrazioni, ed una spiccata comprensione del design tradizionale governa il suo metodo. Chwast e i suoi colleghi del Push Pin aiutarono a reintrodurre i principi di illustrazione e design da tempo separati. Inoltre, contribuì a formulare un nuovo lessico grafico basato su conoscenza, gradimento e riutilizzo degli stili e delle forme passate – cosa che ha avuto effetti a lungo termine sul graphic design. Nato nel 1931 nel Bronx, New York, Chwast iniziò a disegnare seriamente all’età di sette anni, e presto segui lezioni di arte. Divenne pienamente cosciente delle differenze tra museo e street art e sembrò preferire istintivamente il fascino dei tabelloni e delle pubblicità alle opere di Picasso e Mondrian. Influenzato dalla Walt Disney, dai Sunday funnies e dai serial cinematografici, diede vita ai suoi stessi eroi animati, inclusi “Jim Lightning” e “Lucky Day”. La

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in alto: Cooper Union art school, 1950. Push Pin Studio, foto dei membri, 1954 ca.

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sua famiglia si trasferì a Coney Island, dove venne accettato nell’Abraham Lincoln High School. Dall’esterno appariva come una scuola pubblica newyorkese come tutte le altre, ma all’interno era fulcro dell’insegnamento del graphic design. Chwast venne accettato come membro di una élite dal nome “Art Squad”. Questo gruppo di artisti di manifesti e insegne nasceva dal corso di graphic design tenuto da Leon Friend, insegnante di famosi designer come Gene Federico (1918) e Alex Steinweiss (19172011). Fu alla Lincoln che Chwast imparò ad apprezzare i caratteri tipografici, le immagini grafiche e le possibilità della grafica pubblicitaria. Friend credeva che non vi fosse gloria maggiore per un artista di vedere il suo lavoro stampato, e chiese ai suoi studenti di partecipare a tutte le competizioni a cui potevano accedere. Chwast partecipò a molte. A 16 anni, la sua prima illustrazione venne pubblicata in una colonna della rivista Seventeen, la cui direttrice artistica era Cipe Pineles (1908-1991). Questo indottrinamento giovanile nelle arti applicate fu totale e irreversibile. Nel 1948 Chwast entrò nella Cooper Union di New York, immatricolato con Edward Sorel e Milton Glaser, coloro con cui avrebbe fondato il Push Pin Studio. Durante gli anni alla Cooper Chwast venne influenzato dai lavori grafici di Ben Shahn, Georg Grosz, Georges Rouault e Honoré Daumier. La forza concettuale di questi artisti stilisticamente diversi ma dallo stesso spirito si riflesse nella sua stessa propensione verso xilografie espressive. Uno dei primi lavori di Chwast, tuttora provocatorio, è intitolato A Book of Battles, una dichiarazione antiguerra


stampata, rilegata e colorata a mano. L’impegno sociale presente in questo libro diventerà un tema ricorrente. Così come per la sua verve comica, i più diretti antecedenti di Chwast furono André François (1915-2005) e Saul Steinberg (1914-1999), maestri del paradosso e dell’ironia. È tuttora evidente un legame diretto tra il loro stile di fumetto/illustrazione e l’ironia surreale di Chwast. Poiché la Cooper Union in quel tempo era legata ad una moda verso un approccio astrattista, Chwast nutrì più un rigetto che un’accettazione verso quel tipo di istruzione. Comprendere che non poteva dipingere – specificatamente nella maniera vietata – e che non aveva interesse nel creare illusioni fine a se stesse lo spinse verso universi artistici maggiormente accessibili. Al loro secondo anno di scuola, Chwast, Glaser e Reynold Ruffins formarono uno studio chiamato Design Plus. Dopo aver portato insieme al termine due lavori (un flyer per un evento teatrale e un libro per bambini) conclusero la loro collaborazione. Se sarebbe stato impossibile predire i frutti finali della loro collaborazione in Design Plus, sarebbe stato allo stesso modo difficile credere che Chwast avrebbe proseguito nel campo del graphic design dopo il risultato dei suoi primi cinque lavori. Subito dopo essersi laureato alla Cooper Union lavorò per un anno nel reparto marketing del New York Times dove, sotto la tutela dell’art director George Krikorian (1914-1977), Chwast imparò le basi della tipografia e gli vennero dati compiti di design e illustrazione. I lavori successivi, però, non furono così soddisfacenti. Una sfilza di fallimenti iniziarono con un’esperienza alla rivista Esquire dove venne licenziato perché non sapeva creare proposte di layout per i clienti. Infine dopo un periodo al dipartimento d’arte Condé Nast, Chwast intraprese un lavoro freelance, ovvero indipendente. Insieme a Ruffins e Sorel, Chwast creò un’opera promozionale per mostrare ai possibili clienti che le idee erano basilari al design e all’illustrazione così come all’esecuzione. Ne derivò una pubblicazione semi-regolare chiamata Push Pin Almanack. Ispirata al Farmer’s Almanac, ogni pubblicazione presentava disegni, testo e frivolezze con un tema specifico. In quel periodo vi erano altre promozioni pubblicitarie continue, ma nessuna così ambiziosa e creativa come l’Almanak. Portò abbastanza lavoro che Chwast e Sorel (che erano di recente rientrati da degli studi in Italia) decisero di creare uno studio di design che battezzarono Push Pin. Chwast dà il merito a Glaser per aver compreso che uno studio avrebbe offerto una quantità molto maggiore di occasioni per gli individui coinvolti. Nel 1954 era possibile avviare un’attività con un capitale davvero poco cospicuo. L’affitto del Push Pin era basso, ed un telefono a gettoni asserviva i loro bisogni commerciali. Le illustrazioni assegnate per presentazioni educative e proposte per il packaging design fornirono un flusso di cassa rispettabile. Dopo che i salari venivano pagati all’assistente e al segretario, ogni membro dello

in alto: Push Pin Almanack, copertina e alcune pagine, 1954. S. Chwast, A Book of Battles, alcune pagine, 1957.

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studio portava a casa 25 dollari a settimana. «In quel periodo poco tecnologico, bastavano davvero pochi soldi per entrare nel mercato. All’inizio non avevamo grandi mire. Necessitavamo semplicemente di uno spazio per svolgere il nostro lavoro indipendente. Non avevamo di certo idea che il Push Pin sarebbe divenuto talmente influente come infine divenne.»2 La strategia di lavoro del Push Pin impiegò tempo ad evolvere. Mentre i membri dello studio avrebbero lavorato insieme nei progetti di design, le illustrazioni editoriali erano individuali. Un impulso comune di allargare i confini dei metodi accettati e unificare design e illustrazione fu la spinta per rinominare e allargare l’Almanack nel Push Pin Graphic. Sin dall’avvio questo periodico visivamente esuberante destò clamore nella comunità di design. Non fu solamente un modo efficace per mostrare i talenti dello studio, ma dimostrò di essere un’influenza portante nel design e l’art direction della fine degli anni ’50 e inizio ’60, in particolare nella convergenza di illustrazione e design. Un marginale, sebbene interessante, sviluppo grafico che attesta l’impatto del Push Pin Graphic avvenne quando Chwast e Glaser inserirono tutte le immagini di una pubblicazione in riquadri con angoli arrotondati. In un paio di settimane i riquadri dagli angoli arrotondati vennero adottati dagli altri designer come motivo nelle riviste e nelle pubblicità. A causa del suo eclettismo, che fu influenzato da stili di design celebri incluse l’arte Vittoriana e l’Art Nouveu, alcuni critici accusarono il Push Pin di contribuire alla fine del modernismo. Push Pin stava, infatti, creando circostanze contemporanee per stili che funzionavano nel passato, preannunciando il Post-Modernismo degli anni Ottanta ma senza reagire in modo preciso alle pratiche e teorie correnti. Chwast ricorda che abbandonò le xilografie negli anni Sessanta perché il vocabolario espressionista aveva perso la sua vitalità. I clienti richiedevano certi aspetti e modi, e Chwast vide come suo ruolo quello di nutrire questo bisogno. Ad esempio, lo stile Vittoriano venne accomunato all’aspetto Push Pin, ma era solo uno di quegli stili che divenivano di moda. Lo stile “roxy” di Chwast (che solo successivamente scoprì essere l’Art Deco) derivava dalle riflessioni grafiche di Steinberg. Piuttosto che imitare il passato, Chwast era più interessato nell’adattarlo, integrandolo e rendendolo contemporaneo. Quello che divenne celebre come lo stile Push Pin – la peculiare ed eclettica unione di illustrazione e design – derivava, secondo Chwast, non da un qualcosa di premeditato bensì dai requisiti stessi dei lavori assegnatigli. Era un desiderio di esprimere nel migliore dei modi il messaggio del cliente in un vocabolario tanto personale quanto accessibile. Sebbene Chwast spieghi che sia lui che lo studio erano stati trascinati dalla svolta pop degli anni Sessanta – colori radiosi e disegni dai contorni stilizzati – una tale affermazione tende a sminuire il valore dei suoi istinti innovatori e dei suoi lavori sagaci. Il Push Pin era all’avanguardia dell’arte popolare. Lo stile dello studio era coerente agli altri cambiamenti nella cultura, e spesso contribuì a rappresentarli visivamente. Questo era chiaro nei vistosi lavori per i mass media, incluse sovraccoperte, cover di dischi, poster, pubblicità e copertine di riviste. Sebbene questa intensa visibilità, il Push Pin era più influente che ricco. Diversamente da

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un vasto numero di società di corporate design che offrivano un numero sempre maggiore e redditizio di corporate identity, il Push Pin svolgeva un lavoro alla volta. Una ragione era dovuta al fatto che la diversa natura del loro lavoro collettivo era motivo di avversione alle regole della corporate image. Il Push Pin diede il meglio in quelle che potremmo chiamare “idee editoriali”. Tra la metà e la fine degli anni Sessanta il Push Pin fu una calamita per designer e illustratori, inclusi James McMullan (1934), Paul Davis (1938), Barry Zaid (1938), Sam Antupit (1932-2003), John Alcorn (1935-1992) e George Stavrinos (1948-1990). Sebbene sicuramente influenzati dalla grande personalità grafica del Push Pin, questi membri contribuirono al lavoro dello studio con il loro stile personale. Questo ambiente di collaborazione è stato un modello significativo anche per altri. La storica mostra al Musée des Arts Decorativs al Louvre nel 1970 sancì l’istituzionalizzazione del Push Pin. Era la prima volta che uno studio di design Americano era celebrato in tale modo. I critici osannarono il Push Pin per il suo essere anticonformista e rimasero sorpresi che un sistema capitalistico li avesse appoggiati. La mostra viaggiò per l’Europa e il Brasile e cifrò l’idea di uno “stile Push Pin”, che non era uno stile così definibile se non come basato su umorismo, gioco e sorpresa. Sotto questi riflettori lo studio era più visibile al mondo che Chwast stesso come individuo. Forse questo deve avergli causato alcune preoccupazioni, i traguardi dello studio furono una grande fonte di fama. Push Pin offrì, e continua ad offrire, varietà, sfida e crescita. Nonostante la sua natura solitaria, Chwast andò avanti con la collaborazione. Tutt’oggi è veramente semplice tirare fuori i suoi contributi al lavoro dello studio negli anni Sessanta e inizio Settanta, come l’eccezionale serie di copertine di libri di Dostoyevsky. Lo stile di Chwast – noncurante dei media – era sempre umoristico e aggressivo senza essere grossolano. Il suo talento è sempre stato dimostrato nella sua abilità di padroneggiare sia cultura popolare che eleganza. Nel 1975 Glaser abbandonò i Push Pin, dando fine a una collaborazione durata 20 anni. Chwast, invece, sentì di avere ancora bisogno e interesse verso lo studio. Continuò come direttore del Push Pin con Phyllis Flood nella carica di amministratore e commercialista dello studio. Insieme crearono una compagnia per diffondere e commerciare una linea di dolci chiamata Pushpinoff. Portando avanti la tradizione del Push Pin, Chwast assunse designer talentuosi, molti dei quali considerarono Push Pin Graphic come una rivista, e lo pubblicarono a cadenza regolare per cinque anni. Le tematiche di vari numeri, inclusi Mothers, the Condesed History of the World, Crime and Food, New Jersey, e Chicken, servirono da sfogo alle ossessioni creative di Chwast così come da vetrina per gli altri membri dello studio. Chwast ha anche intrapreso una rinascita del manifesto tramite i lavori assegnatigli da Forbes Magazine e Mobil. In questi anni venne fondata la Push Pin Press con lo scopo di curare il packaging di libri che attiravano la vivacità di Chwast. Tra i vari curò il design di The Illustrated Cat (la prima onda nella marea di pubblicazioni sui felini), The Illustrated Flower and Robot. Il Push Pin Press venne successivamente sostituito da Push Pin Editions, per

nella pagina precedente: S. Chwast, Push Pin Monthly Graphic, copertina n.31, 1961. S. Chwast, Push Pin Graphic, copertina n.36, 1962. E. Schongut, Push Pin Graphic, copertina n.76, 1978. in alto: Pushpinoff, 1976. S. Chwast, I, Claudius, poster per Mobil, 1977.

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il quale fu co-autore di The Art of New York, Art Against War e Happy Birthday, Bach (che è così stilisticamente ricco e vario nelle sue illustrazioni che presterà servizio alla storia del design come un’opera completa sull’opera di Chwast). Chwast ha sempre nutrito amore verso i libri illustrati per bambini, come ad esempio il suo Tall City, Wide Country, uno di oltre venti libri per l’infanzia che ha sia scritto che illustrato. Nonostante una certa soddisfazione verso la condizione precedente, Chwast era convinto che il Push Pin dovesse divenire più eclettico nel suo operato e allargare il suo campo anche nel design d’impresa, nel packaging e nella corporate. Risale al 1979, ad esempio, la creazione del primo scatolo dell’Happy Meal ad opera di Seymour. Nel 1981 si unì ad Alan Peckolick (1940) per fondare il Pushpin Lubalin Peckolick, successivamente rinominato The Pushpin Group. Lui e Peckolick collaborarono a progetti con una vasta gamma di applicazioni. Con Murry Gelberg in qualità di designer d’impresa, ad esempio, crearono il logo, la segnaletica, il packaging e gli interni di Quotes, una nuova catena di negozi di scarpe. Nel 1984 Chwast è stato inserito nella Art Directors Club Hall of Fame, e nel 1985 è stata pubblicata da Harry N. Abrams una retrospettiva dal titolo Seymour Chwast: The Left-Handed Design. Un famoso illustratore un tempo affermò su quanto riguarda cambiare la sua pratica dalle arti applicate all’arte visuale: «l’illustrazione è un gioco da ragazzi»3. Se ciò è vero allora Chwast ha scoperto la fonte di eterna giovinezza. Sebbene a volte si affidi a stili già testati, ha più scintille di ispirazione e fiammate di genio più potenti che molti giovani colleghi. Nessuno può competere con la sua influenza nell’illustrazione e le sue scoperte nel design. I suoi colori e le sue forme erano avanguardistici quando molti avanguardisti stavano ancora dipingendo con le dita. Ma Seymour Chwast fece tutt’altro che seguire la moda. Il suo impegno nelle pubblicazioni di carattere sociale e politico non si è lasciato trascinare da reazioni ideologiche. E ancora più importante, la sua arte nel lavoro e la sua arte creativa sono rimaste vivaci e pure come la prima volta che poggiò matita su carta.

in alto: S. Chwast, packaging primo Happy Meal, 1979. S. Chwast, Earth Day, poster, 1990. nella pagina seguente: S. Chwast, Nicholas Nickleby, poster, 1982.

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1. S. CHWAST, cit. in Steven Heller, The Left-Handed Designer, Harry N. Abrams, New York 1985, p. 8. 2. S. CHWAST, cit. in articolo di Veronique Vienne, The Push Pin Phenomenon: Glaser, Chwast & Co, http://www.veroniquevienne.com/index.php?rub=article&cat=8&id. 3. S. HELLER, cit. in Steven Heller, biografia sito Aiga, Seymour Chwast, http://www. aiga.org/medalist-seymourchwast/.


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Seymour Chwast End Bad Breath poster, 1967 I manifesti contro la guerra costituiscono alcuni dei lavori più celebri dei Push Pin Studios e di Chwast. Tra questi è del 1967 End Bad Breath, con cui Chwast acquisì maggiore notorietà, disegnato per protestare contro il bombardamento di Hanoi da parte dei B-52 americani. Chwast espresse duramente qui il proprio dissenso nella convinzione dell’inutilità e della crudeltà della guerra in Vietnam, dando un colpo mortale agli effimeri valori della società americana e ridicolizzandone in maniera surreale i simboli. Innanzitutto, egli si fa gioco della celebre figura dello zio Sam, rappresentandolo come una sorta di burattino, essere tronfio, malvagio e stupido, il cui livore viene

reso evidente attraverso lo sgradevole verde acidulo della carnagione. Questi, il cui volto presiede la gran parte del campo visivo a stelle e strisce, spalanca le fauci per mostrare aerei militari, dai tratti simili a quelli di un bambino, intenti a sganciare bombe su villaggi interi, indifferentemente su soldati e civili. Lo slogan dell’affiche che recita “Basta con l’alito cattivo”, e che potrebbe farlo realmente sembrare quello di una pubblicità per un comune dentifricio, colpì la società dei consumi parodiandone i modi e i linguaggi. Il poster mise dunque in discussione l’intero sistema sul quale era retto tutto il pensiero occidentale.

in basso: S. Chwast, War is Good Business - Invest Your Son, poster, 1967. S. Chwast, War is Madness, poster, 1986.

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Seymour Chwast Graphic Novel 2010-2014 Adesso 82enne, Seymour Chwast negli ultimi anni si è occupato della realizzazione di graphic novel di grandi opere letterarie, a cominciare dalla Divina Commedia di Dante Alighieri. «Sono stato in competizione con Gustave Doré» dichiara «sapete, tutte quelle incisioni meravigliose che ha fatto per la Divina Commedia, così ho deciso di fare un libro a fumetti quindi non c’era concorrenza effettiva con il suo lavoro», scherza. Tutto è stato disegnato a mano su carta traslucida e poi scansionato con il computer. Chwast ha affermato di non aver mai utilizzato il computer per disegnare. Egli sente che il computer ha banalizzato la nostra arte in un certo senso e in particolare la tipografia. Ha adattato anche a romanzo grafico i Racconti di Canterbury di Chaucer (2011), l’Odissea di Omero (2012) e da pochissimo Un americano alla corte di re Artù di Twain sempre per i tipi di Bloomsbury. Chwast è stato citato tra le migliori uscite del 2010.

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Wolfgang Weingart Designer e docente, Wolfgang Weingart è celebre per le sue ricerche in ambito tipografico e per il suo insegnamento alla Schule für Gestaltung di Basilea, e per essere colui che, tramite anche il contributo dei suoi studenti, creò un metodo più sperimentale e espressivo della tipografia che influenzò tutto il mondo. Fino al 2004, la stanza G102 alla Schule für Gestaltung in Basilea, Svizzera, ospitava il laboratorio tipografico. La stanza era davvero bella e pulita in maniera impeccabile, con il suo parquet in legno, delle serie infinite di armadi per tipi riempiti con disegni di lettere in condizioni ottime, e tre torchi per stampa di prova. Il muro a nord era in vetro e volgeva la vista ai giardini alla francese e ai campi da gioco di erba della scuola vicina. Era in questa stanza che il tipografo e designer svizzero Emil Ruder (1914-1970), e in seguito Wolfgang Weingart, insegnarono tipografia, non solo agli studenti svizzeri che cercavano di apprendere il settore, ma a un gruppo ristretto di designer che erano emigrati per studiare alla prestigiosa scuola.

in alto: Wolfgang Weingart (Salem Valley, 1941); Medaglia AIGA 2013. Scatto realizzato da Ashley Low.

«Nel 1968, quando ho iniziato ad insegnare nell’Allgemeine Kunstgewerbeschule di Basilea mi era chiaro che dovevo ampliare radicalmente le idee, le teorie e i limiti visuali della cosiddetta tipografia svizzera. […] Fondamentalmente, sono un autodidatta. Ciò mi ha permesso di non seguire mode, movimenti o stili. Tuttavia la libertà che mi sono conquistato reclama una severa disciplina e senso di responsabilità. […] Allora, oltre vent’anni fa, nessuno poteva pensare che questo nuovo approccio visuale e questo metodo sperimentale potessero essere alle origini di quanto oggi è noto come New Wave. Negli ultimi due decenni, sono passati per il corso avanzato di grafica studenti di quasi 25 Paesi, che oggi sono sparsi in tutto il mondo.»1 Weingart nacque nel 1941 vicino al confine svizzero della Germania, nella valle di Salem, dove visse i suoi primi 13 anni di vita. Come egli stesso sottolinea, fu il periodo che lo segnò maggiormente sia come individuo che in ambito lavorativo. In quegli anni la seconda guerra mondiale era in pieno corso, e sebbene ancora troppo piccolo per comprendere cosa stesse accadendo, Weingart ricorda la paura provata come una ferita permanente. In qualità di medico

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del villaggio, la madre di Weingart godeva di privilegi che permettevano loro di vivere più serenamente la grande guerra. Nella primavera del 1948 Weingart si trasferì nel Castello di Salem, dove la madre era stata assunta. Non essendogli permesso di partecipare agli eventi tenuti al castello o di entrare nelle stanze private dove erano ricevute le nobiltà europee, Weingart, manifestando sin dall’infanzia il suo spirito curioso, spiava ciò che accadeva tramite i fori delle serrature che davano alle loro stanze. Nello stesso periodo aveva appena intrapreso le scuole elementari mostrando già un’avversione verso gli studi e una propensione alla manualità. Infatti, ricorda, che l’unico sollievo alle sue giornate era la sua motocicletta che amava armeggiare e che lo mise di fronte anche al suo interesse per l’arte. Gli anni passavano e Weingart cambiava spesso scuole e residenza, viaggiando per il mondo con i suoi genitori. I luoghi visitati gli fecero scoprire il suo amore verso la geografia che manifesterà in seguito nelle sue opere.

in alto: W. Weingart e la sua bici Göppel, 1948 ca. W. Weingart sulla motocicletta Triumph, 1948 ca.

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Nel 1958 si iscrisse ad un corso di due anni in arti applicate e design alla Merz Academy a Stoccarda. Lì scoprì le attrezzature scolastiche per la stampa e, a 17 anni, imparò per la prima volta a comporre i caratteri in metallo. Dopo la laurea, intraprese un tirocinio rigoroso come typesetter al Ruwe Printing a Stoccarda, dove conobbe il designer di case Karl-August Hanke, un ex studente alla School of Design di Basilea. Fu Hanke a divenire mentore del giovane Weingart, facendogli conoscere il design che veniva prodotto fuori dalla Germania, in particolare in Svizzera, dove Ruder, Armin Hofmann (1920) e Karl Gerstner (1930) stavano realizzando lavori che sarebbero stati definiti come Stile Internazionale. Nel giugno del 1961 il Design Institute of Baden-Württemberg in Stoccarda sponsorizzò una mostra di manifesti svizzeri. Weingart rimase sbalordito dal poster Giselle realizzato nel 1959 per il teatro all’aperto al Rosenfeldpark, un lavoro avanguardistico e senza


tempo di Armin Hofmann. La disposizione verticale della parola Giselle, era sfacciata e coraggiosa. Tramite questo manifesto Weingart intuì per la prima volta il significato di unità tra caratteri tipografici e immagine. Sebbene si potesse osservare un forte segno della metodicità svizzera nelle semplici intestazioni di carta da lettera e d’affari che Weingart realizzò durante il suo periodo al Ruwe, il suo lavoro possedeva una spontaneità e una deliberata noncuranza che trascendeva i precetti del design svizzero di quel periodo. Persino in queste prime tappe nel suo sviluppo professionale, l’innata incomprensione di Weingart verso le limitazioni di composizioni perpendicolari nelle composizioni di caratteri in piombo, insieme alle severe norme tecniche e alla disciplina estetica del suo apprendistato e la sua innata natura ribelle, lo portarono a percorrere un approccio maggiormente sperimentale che spesso nasceva persino dal caso. Al 1962, periodo del suo tirocinio, risalgono ad esempio le sue composizioni circolari. Cadutagli sul pavimento una cassetta contenente i caratteri più piccoli presenti in laboratorio (degli Berthold Akzidenz-Grotesk semi bold da 6 punti), mentre li raccoglieva, Weingart pensò di riempire un anello di cartone facendo sì che le lettere formassero un blocco cilindrico coeso. In questo modo, riuscì a stampare entrambe le facce: quella ordinaria con le sagome dei caratteri, e quella inferiore, con la base degli stessi. Tornerà a sviluppare questo procedimento nel 1990, in occasione dell’esposizione all’Institut für Neue Technische Form di Darmstadt. Alla fine dei suoi tre anni di apprendistato, Weingart aveva sviluppato una forte sensibilità verso il legame tra stampa e l’atto del design. Hanke lo spronò a frequentare la scuola di design a Basilea, e Weingart mosse verso la città nel 1963, dove incontrò Hofmann e Ruder e fece domanda per accedere alla scuola di persona. L’anno successivo, Weingart venne iscritto come studente indipendente. Qui Hofmann richiese di svolgere un compito su un semplice tema: la Linea. Weingart capì che invece di disegnare a mano le linee, poteva svolgere l’esercizio utilizzando righe tipografiche di diversa lunghezza e spessore. Sebbene la stampa tipografica sia per sua natura legata a composizioni perpendicolari, Weingart piegò e curvò le righe metalliche e, inchiostrando le parti superiori, stampò delle composizioni. Wolfgang iniziò a vedere nei suoi lavori tutto quello che aveva ammirato nei suoi viaggi: gli stupendi siti archeologici di Baalbek, le costruzioni nell’antica città carovaniera Palmina nel deserto Siriano, o gli insediamenti in argilla nei sobborghi a sud di Damasco. Ogni immagine topografica divenne, quindi, astrazione tipografica. «Fatti con biglietti del treno strappati, fotografie di famiglia, stralci di lingue straniere, forme astratte, o simboli, dai primi collage fino agli ultimi poster svizzeri, ho assemblato i miei montaggi in un tessuto di sogni frammentati, ricordi e impressioni. Il modo in cui ho lavorato e l’azione delle mie forbici rispecchiavano una realtà interiore: disinibita, giocosa, complicata, contraddittoria, e in qualche modo irregolare.»2

in alto: A. Hofmann, Giselle, poster, 1959. E. Ruder, Typographie, copertina, 1967.

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Nell’aprile del 1965 Weingart riprese il suo lavoro con la lettera M, messo da parte nel 1962, quando inventò nuovi simboli che potessero essere combinati con la lettera M e incise le composizioni in blocchi piani di legno soffice. Durante il tirocinio alla Ruwe imparò come creare lettere della dimensione di un manifesto e racconta: «Creando da me le lettere, divenni sensibile alla loro forma ed espressione. La B è un fiore fragile, la Z è un fulmine abbagliante, la L è le tre in punto, la W è un uccello che vola via, e la M è una freccia che punta a se stessa. Io seguì la lettera M, o lei seguì me, per diversi anni.»3

nelle due pagine precedenti: Città Vecchia di Gerusalemme, tetto, 1963. W. Weingart, composizione circolare, base, 1990. in alto: W. Weingart, M-cubo con una stampa della lettera incollata ad ognuno dei sei lati, 1965.

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Le sperimentazioni del ’65 iniziarono con la costruzione di un cubo di cartone sui cui lati Weingart applicò le lettere maiuscole M: le successive fotografie scattate al cubo con la sua Rolleiflex e le manipolazioni sui negativi delle stesse immagini gli daranno l’opportunità di studiare la lettera nelle sue tre dimensioni, cosa precedentemente negata dal semplice utilizzo del legno o metallo dei caratteri tipografici. La ricerca comunicativa legata alla lettera M va oltre la scrittura, trasformandone la funzione principale: la funzione del carattere non è più quella di essere il messaggio ma il mezzo per esprimere un mondo di segni. Procede uno studio strutturale e materico attraverso il quale le lettere vengono assemblate, distorte e lavorate come fossero un “puzzle”, sovrapposte, affiancate, dando vita a composizioni che snaturano l’intento tradizionale della scrittura. Solamente nel 1968 Hofmann e Ruder riuscirono a realizzare il loro ultimo progetto, ovvero quello di creare nella Scuola di Basilea un programma di graphic design avanzato di specializzazione per professionisti, nel quale un gruppo selezionato doveva impegnarsi in intensi progetti multidisciplinari con lo scopo di perfezionare


ulteriormente le loro capacità e ridare vigore al loro interesse verso il design. Con una mossa coraggiosa, Hofmann invitò il 27enne Weingart, che era all’epoca praticamente sconosciuto, a condurre il laboratorio tipografico, quando designer da tutto il mondo si unirono al programma. «In generale la Tipografia Svizzera, e la tipografia della scuola di Basilea, giocarono un ruolo internazionale importante dagli anni cinquanta fino alla fine dei sessanta. Il suo sviluppo, tuttavia, era sul punto di paralizzarsi; divenne sterile e anonimo. La mia visione, fondamentalmente compatibile con la filosofia della nostra scuola, era di dare nuova vita all’insegnamento della tipografia riesaminando i principi assunti della sua corrente pratica. L’unico modo per rompere le regole tipografiche era quello di conoscerle. Imparai questo vantaggio durante il mio tirocinio quando diventai esperto nella stampa tipografica di lettere. Assegnai ai miei studenti degli esercizi che non riguardavano esclusivamente le relazioni del basic design tra disposizione di caratteri, dimensioni e peso, ma li incoraggiai anche ad analizzare in modo critico lo spazio tra lettere per sperimentare i limiti della leggibilità. Scoprimmo che all’aumento della crenatura, le parole o le frasi divenivano grafiche nella loro espressione, e che la comprensione del messaggio dipendeva meno dalla lettura di ciò che avevamo immaginato.»4 «Fui motivato a provocare questa professione tediosa e ad sfruttare al massimo le possibilità del laboratorio tipografico», Weingart continua nella retrospettiva Weingart: Typography – My Way to Typography, edita da Lars Müller nel 2000. Descriveva quindi il metodo sperimentale dell’era: «Accelerato dal malcontento sociale della nostra generazione, la forza trainante della Tipografia Svizzera e la sua filosofia volta alla semplificazione formale stava perdendo il suo dominio internazionale. I miei studenti erano stimolati, stavamo lavorando in qualcosa di differente, e ne eravamo consapevoli»5. Durante i suoi 37 anni di insegnamento, gli studenti di Weingart inclusero April Greiman, Jim Faris, Franz Werner, Robert Probst, Jerry Kuyper e Emily Murphy. Il processo di design che impiegò fu all’apparenza semplice: agli studenti venne per prima cosa richiesto di considerare le dimensioni, peso e stile appropriato delle lettere che volevano usare. Quindi sistemavano il carattere tipografico prendendo ad una ad una le lettere in piombo dal loro contenitore e disponendole fianco a fianco in un compositoio, determinando con attenzione la crenatura, l’interlinea e il margine. Una volta organizzato il compositoio esso veniva stampato in un torchio di prova tipografico e asciugato con del borotalco. Successivamente gli studenti lo tagliavano a metà e ne iniziavano il design. Per eliminare le ombre della carta tagliata e vedere le loro composizioni come un’unica superficie, un pezzo di vetro veniva calato con cautela sulla superficie. Se qualcosa non sembrava corretta – dimensione del carattere, peso, stile – l’intera composizione e il processo di stampa venivano ripetuti. «Nel suo corso venivamo istruiti su ordine, metodo e struttura», ricorda Terry Irwin, dirigente della School of Design alla Carnegie Mellon University, che studiò con Weingart dal 1983 al 1986, «ma

in alto: W. Weingart, University of California at Los Angeles (UCLA), copertina catalogo, 1998.

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non ci teneva lezioni su queste robe. Questo, penso, fu il bello dell’istruzione a Basilea». Gli studenti erano, invece, spronati a intraprendere un processo di ricerca. «Avevi diversi schizzi sul tuo tavolo, e provavi a farci qualcosa, e quindi ci lavoravi su», spiega. «Lui veniva intorno e ti diceva l’impressione che stava dando, quindi cercavi di capire cosa volesse significare. E ci lavoravi ancora un po’ – probabilmente ancora confuso – e lui tornava e diceva, “Sì, meglio”. Ed andava via, E quindi cercavi di capire perché fosse meglio. Ma dovevi capire da solo il “perché” da quei commenti…fu un modo di imparare dall’impatto incredibile»6. Mentre insegnava, Weingart continuò a produrre una quantità formidabile di lavori sperimentali: manifesti come anche design di cover e design per bandi di concorso per la rivista Typographisce Monatsblätter, dove fece parte della commissione editoriale dal 1979 al 1988. Un manifesto del 1976 che realizzò e stampò per il fotografo John Glagola contiene larghe barre argentate che tagliano il nome dell’artista, annunciando il declino dei caratteri della fonderia come vie commerciali ancora percorribili. Sempre del 1976 è un altro manifesto che comunicava una mostra speciale durante la Fiera del Gioiello (Jewelry Fair) alla fiera campionaria di Basilea. Il design si concentrò sulla parola Jewelry in 3 lingue, inclusi alcuni elementi ornamentali con uno sfondo argentato stampato su carta gialla. Come dichiara Weingart: «Argento, ed anche giallo e arancione, erano i miei colori preferiti. Me ne sono reso conto perché quando nel 1970 andai a trovare i designer dei giochi Olimpici a Monaco che avevano utilizzato, per il programma di quell’anno, questi colori, giallo e arancione, anche i colori di Baden, evocarono in me i miei ricordi d’infanzia quando vivevo nel castello di Salem alla fine degli anni quaranta. Quando il Duca di Baden era a casa, la bandiera della regione era innalzata in suo onore; i suoi colori brillanti si spiegavano al vento. Pensavo fosse bellissimo sullo sfondo blu del cielo.»7 La tecnica di Weingart focalizzava l’attenzione sul processo di stampa offset e sulla fotocomposizione, creando un nuovo modo di comporre dei collage. Esplorando le proprietà delle pellicole fotografiche, come ad esempio la sovrapposizione di pellicole positive di testi e immagini, egli creava un modo per integrare tutti gli elementi del progetto. Si rivela fondamentale l’utilizzo della reprocamera per acquisire libertà compositiva soprattutto per quanto riguarda la forma dei caratteri, la loro sovrapposizione, i contorni tramite l’utilizzo di fogli a mezzatinta (controllo delle tonalità e intensità delle immagini); la combinazione delle tecniche per il montaggio delle pellicole, contribuì a trasformare i lavori di Weingart da tipografici a grafici. Anche il metodo del layering viene favorito dall’uso della reprocamera e di pellicole trasparenti. La trasparenza dei fogli da assemblare, permette, difatti, infinite combinazioni di sovrapposizione delle pellicole durante il montaggio e la composizione finale (con la pressa da stampa l’unico modo di sovrapporre le immagini era rappresentato dalla sovrastampa, avendo fasi ben distinte di preparazione e di risultato finale, non visibili sino alla fine).

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Focalizzò la sua attenzione anche sulle texture che presto divennero il suo segno distintivo: la peculiarità venne data da interventi sulla risoluzione delle immagini a mezzatinta (che risultarono a grana grossa), che si crearono quando le pellicole venivano sovrapposte o cambiate l’una con l’atra; questo procedimento diede risultati particolari di texture, ottenendo, ad esempio, il cosiddetto effetto moiré. Weingart inventò quindi un vero e proprio metodo per creare pattern illimitati, chiamato “mother-father system”: una texture puntinata creata dalla sovrapposizione di due differenti sfondi, uno con una gradazione standard in scala di grigio, l’altra con il grigio al 20%. Un esempio tangibile di questo approccio ci viene dato dalle composizioni realizzate da Weingart per la Swiss Poster Advertising Company. Una delle sue più alte produzioni viene rappresentata dal poster commissionato da Bruno Margadant nel 1981 realizzato in quadricromia, con una sovrapposizione dei diversi livelli di colore: lo sfondo dell’immagine presenta la grana spessa e ogni livello di colore differisce per alcune forme del disegno rappresentato, giocando così su pieni e vuoti. I poster realizzati per la Swiss Advertising Company riguardarono quasi sempre la promozione di eventi legati al mondo dell’arte. Il primo manifesto che Weingart realizzò fu per il Kunstkredit e in questo caso gli elementi della composizione vennero inseriti direttamente su una pellicola e trasferiti tramite stampa offset sul piano di stampa; il formato realizzato risultante era quello già definitivo, ovvero la dimensione reale del manifesto; per i lavori successivi invece la dimensione del foglio destinato al collage sarebbe stata molto ridotta e l’adattamento in grande formato relegato al processo di stampa. Tramite la fotocomposizione Weingart conquista maggiore libertà e flessibilità: la tipografia viene così liberata dalla costrizione degli standard di stampa. Nonostante però egli accolga apertamente le nuove tecnologie (alla scuola di Basilea fu introdotto per la prima volta all’utilizzo del Macintosh) e ne riconosca i vantaggi come la semplificazione del processo, la possibilità di lavoro su grandi formati e la libertà di posizionamento degli elementi nella composizione, non smetterà mai di avere una propensione per il lavoro manuale, dichiara infatti: «Dopo più di 10 anni di lavoro con il montaggio litografico della pellicola, iniziai a ripetermi. L’ultimo manifesto che realizzai con questa tecnica fu nel 1983-84 per una mostra in Minneapolis al Walker Art Center, “The 20th-Century Poster”. L’idea che gli strumenti digitali o elettronici sarebbero stati il passo successivo del mio lavoro fu una delusione. Le mie mani e l’esperienza del tatto con i miei materiali sono la fonte del mio piacere e ispirazione creativa. Sono legato alle mie origini di artigiano.»8 Mentre lavorava nei fine settimana al laboratorio tipografico della scuola, Weingart spesso tirava fuori un registratore a bobine, e la musica dei compositori tedeschi – Wagner, Beethoven, Mozart – accompagnava il suo lavoro. Uno dei suoi ascolti preferiti era una registrazione del celebre direttore d’orchestra Bruno Walter (1876-

nella pagina precedente: W. Weingart, John GlaGola, poster per mostra fotografica, 1973. W. Weingart, Jewelry 1976, poster,1976. W. Weingart, 18th Didacta/Eurodidac, poster, 1980. in alto: W. Weingart, Kunstkredit Basel 1980/81, pellicola poster, 1981. W. Weingart, Seeing, Reading, and Learning, n.11 di una serie di 14 copertine per TM, 1971.

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1962) che riproduceva la Sinfonia Linz di Mozart nella quale Walter prega i suoi musicisti di condividere la sua padronanza di un determinato passaggio come “brillante”. Può descriversi allo stesso modo la mole di lavoro di Weingart. La sua visione della tipografia incorpora una simile vitalità e ricchezza. Brilla.

1. W. WEINGART, cit. in How Can One Make Swiss Typography?, conferenza illustrata auto-pubblicata, Basilea 1976. 2. W. WEINGART, cit. in My Way to Typography, Lars Müller, Baden 2000, p. 355. 3. W. WEINGART, ivi, p. 233. 4. W. WEINGART, ivi, pp. 269-270. 5. W. WEINGART, ivi, pp. 272. 6. T. IRWIN, cit. in Philip Burton, biografia sito Aiga, Wolfgang Weingart, http://www. aiga.org/medalist-wolfgang-weingart/. 7. W. WEINGART, cit. in My Way to Typography, Lars Müller, Baden 2000, pp. 458-460. 8. W. WEINGART, ivi, p. 471.

in alto: W. Weingart, The Swiss Poster 19001983, pellicola rossa, gialle e blu, 1982. a destra: W. Weingart, The Swiss Poster 19001983 (blue version), poster grande formato, 1982.

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Wolfgang Weingart composizioni circolari 1962-90 Uno dei progetti più interessanti di Weingart è sicuramente quello delle composizioni circolari. Ideato nel 1962, viene sviluppato successivamente nel 1990 in occasione dell’esposizione all’Istitute für neue Technische Form di Darmstadt. Come dice lo stesso Weingart, fu solamente un gioco che lo spinse a lavorare con caratteri metallici disposti in senso circolare; ma fu soprattutto l’ideazione di un nuovo processo tecnico a portare un’inaspettata direzione progettuale. Riempiti degli anelli di cartone con i tipi, facendo in modo che le lettere formassero un blocco coeso di forma cilindrica, Weingart ne stampava entrambe le facce. Molti tipi impiegati, nonché quelli che avevano la funzione di spazio tra una parola e l’altra, presentavano una scanalatura particolare lungo il lato inferiore del corpo metallico, impressione, questa, data dallo stampo: «Tale impronta, che somigliava a un vero e proprio segno, lasciava ripetutamente inconfondibili tracce allorquando stampavo la composizione sottosopra. In fase di stampa, sotto la pressione del cilindro mobile, i caratteri iniziavano a essere sospinti all’interno dell’anello fisso in direzione

del cilindro roteante, finendo coll’ammassarsi progressivamente. Quanto più tendevano verso una direzione tanto minore era la superficie della composizione che veniva a contatto con il rullo dell’inchiostro. L’impressione recedeva gradualmente, creando un effetto cromatico che tendeva dal chiaro allo scuro. Spingendo questo sorprendente risultato un passo più oltre, scoprii un altro modo per ottenere una gradazione di toni, coprendo alcune parti della composizione circolare dopo ogni singola fase di stampa. Lavorando con stencil circolari dalle dimensioni sequenziali, ritagliati dal supporto cartaceo con compasso, iniziai con la mascherina dal diametro più piccolo, che copriva l’intera composizione a eccezione della parte più centrale, e feci la prima stampa. Esponendo una parte più ampia di caratteri con l’aiuto della mascherina circolare, che nella sequenza veniva subito dopo, mandai in macchina la prima stampa una seconda volta e apparve un anello più chiaro. L’originale, che assomigliava agli anelli di crescita di un albero, fu ristampato fino a un massimo di otto volte prima che la carta perdesse resilienza»1.

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Wolfgang Weingart Kunstkredit poster, 1977 Nel poster Kunstkredit (immagine pagina successiva), il messaggio si articola in un mix di livelli stratificati, dove ogni regola sembra essere infranta. Tuttavia, la gran parte del lettering possiede una coerenza sottesa: Kunsthalle, in alto, è allineato con Kunstkredit, con 1976... e con 7. bis...; Basel, in alto a destra, è allineato con Kredit; Staatlichen... con Austellung e così via. La composizione a livelli stratificati operata con metodi fotomeccanici diventerà uno dei topoi più spettacolari della grafica digitale degli anni ottanta. Possiamo ancora notare come alcune parole ri-

saltano su riquadri rettangolari. Questi contrassegni sono pensati per catturare l’attenzione e rimandano ad i filetti della grafica costruttiva degli anni venti (come ad esempio il poster di Bayer per la Bauhausausstellung del 1923). Bisogna però precisare che, se i rettangoli di Weingart focalizzavano l’attenzione su una porzione di testo perché questa emergesse dal “rumore” di fondo, i filetti costruttivi erano ordinati per condurre l’occhio all’interno d’una composizione unitaria e chiara nella forma.

Wolfgang Weingart Inge H. Druckrey intestazione, anni sessanta Tra le varie innovazioni tipografiche apportate da Weingart vi è l’ampliamento della crenatura. Tramite questo processo si movimentava l’assetto tipografico della pagina. Weingart mirava ad attirare lo sguardo in quello che definisce “paesaggio” grafico: «Quando disegnavo l’intestazione per Inge Druckrey [immagine in basso a sinistra], mi ritrovavo immerso in un paesaggio grafico. Invece di spaziare uniformemente le lettere e di allineare il testo come si sforzavano di fare i tipografi, dilatavo le parole al limite della leggibilità. A quel punto non percepivo più il messaggio come una successione lineare di parole, ma lo coglievo all’istante. è per questo che parlo di paesaggio, perché il carattere assumeva una qualità spaziale»2. Negli anni settanta l’aumento della crenatura ha caratterizzato il panorama grafico della produzione weingartiana, fino a divenire stilema negli anni ottanta.

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Wolfgang Weingart Schreibkunst poster, 1981 Il metodo di Wolfgang Weingart può essere paragonato a quello di Herbert Matter (1907-1984), che fu il primo ad utilizzare immagini fotografiche per comporre dei collage, trasformando la fotografia come elemento formale a servizio del progetto grafico, sia che venisse utilizzato, rielaborato in qualità di immagini o come carattere tipografico. Allo stesso modo il metodo weingartiano produce un effetto di rottura rispetto ai metodi precedenti. La sua tecnica focalizza l’attenzione sul processo di stampa offset e la fotocomposizione, sviluppando un nuovo modo di comporre collage. Ad esempio, sfruttando le proprietà delle pellicole fotografiche, come la sovrapposizione di pellicole positive di testi e immagini, crea un modo

per integrare tutti gli elementi del progetto. Il poster Schreibkunst (l’Arte della Scrittura, nella pagina precedente) come racconta Weingart: «richiese circa 40 giorni dal bozzetto al lavoro definitivo, questo manifesto è uno di quelli che ho voluto ristampare a mie spese. Quando lo vidi per la prima volta stampato nella dimensione finale, il pennino gigante era un disastro. Per la versione ristampata ho sostituito la foto dal vero con una semplice sagoma grafica del pennino»3.

1. W. WEINGART, cit. in My Way to Typography, Lars Müller, Baden 2000, pp. 169-171. 2. W. WEINGART, ivi, p. 121. 3. W. WEINGART, ivi, pp. 464-465.

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PAULA SCHER Per più di quarant’anni Paula Scher è stata all’avanguardia del graphic design. Iconica, intelligente e sfacciatamente populista, le sue immagini sono entrate all’interno della tradizione americana.

in alto: Paula Scher (Washington, 1948); Medaglia AIGA 2001. Scatto realizzato dal fotografo John Madere.

Paula progetta con le lettere, comunica con i tipi. La sua produzione libera e variabile richiama, senza perdere in originalità, opere di grandi protagonisti della comunicazione visiva del passato. Nella produzione della designer americana, è quindi possibile rintracciare i legami con la tradizione tipografica. Vengono posti a confronto alcune sue composizioni e scelte di caratteri e celebri configurazioni tipografiche. Dal Futurismo alla Grafica Svizzera, Paula poggia il suo lavoro sulle radici della storia della grafica, le esamina e dà loro nuova vita, producendo quello che, come direbbe il giornalista Russel Baker (1925), è un lavoro “serio” e non “solenne”, obiettivo a cui Paula ha sempre aspirato. Nata il 6 Ottobre 1948 a Washington DC, Paula Scher ha ottenuto la laurea in belle arti nella Tyler School of Art (fu in quegli anni che conobbe Seymour Chwast che poi sposò nel 1973 e, dopo aver divorziato 5 anni dopo, risposò nel 1989) e una laurea Honoris Causa in Belle Arti dal Corcoran College of Art and Design. A partire dal 1991 Scher è stata una dei direttori nello studio di New York della rinomata agenzia di consulenza di design internazionale Pentagram. Avviò la sua carriera come art director negli anni settanta e agli inizi degli ottanta, quando il suo approccio eclettico alla tipografia divenne parecchio influente. Ha avuto conferenze e mostre in tutto il mondo, e la sua carriera da insegnante annovera oltre vent’anni alla School of Visual Arts, insieme alle cariche alla Cooper Union, alla Yale University e alla Tyler School of Art. Ha scritto numerosi articoli su argomenti relativi al design per l’AIGA Journal of Graphic Design, PRINT, Graphis e altre pubblicazioni, e nel 2002 Princeton Architectural Press ha pubblicato la monografia della sua carriera Make it Bigger. «Quando avevo poco più di vent’anni lavoravo nel business discografico, e disegnavo copertine per i dischi della CBS e non avevo idea del lavoro fantastico che avevo. Pensavo che tutti avessero un lavoro come quello. E il modo in cui vedevo il design ed il modo in

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cui vedevo il mondo era quello che mi succedeva attorno e le cose che c’erano nel periodo in cui mi sono avvicinata al design erano il mio nemico. Io odiavo in modo davvero profondo il carattere Helvetica. Pensavo che l’Helvetica fosse in assoluto il carattere più pulito, noioso, fascista e intrinsecamente repressivo e odiavo tutto quello che era scritto e disegnato in Helvetica. Quando ero al college era questo il design più di moda e popolare. Quindi lo scopo della mia vita era fare cose che non fossero fatte in Helvetica. E però fare cose senza l’Helvetica era piuttosto difficile perché bisognava andarsele a cercare. E non c’era molta letteratura sulla storia del design all’inizio degli anni ’70. Non c’era un gran numero di pubblicazioni in materia. Di fatto bisognava andarsene nei negozi di antiquariato. Bisognava andare in Europa. Bisognava andare in giro per trovare cose interessanti. E la mia risposta, come sapete, è stata l’Art Nouveau, o Déco, o la tipografia Vittoriana, o cose che sicuramente non somigliassero all’Helvetica. E ho imparato da sola a disegnare in quel modo, questo nei miei primi anni, e poi usavo queste idee, questi strumenti, in modo piuttosto goffo sulle copertine di album musicali e nella mia attività di designer. Non avevo un’educazione in materia, cercavo solo di mettere insieme i pezzi. Ho mescolato uno stile Vittoriano al pop, e ho mischiato l’Art Nouveau con qualcos’altro. E così ho fatto queste copertine di LP, molto ricche ed elaborate, non per fare la post moderna o la storicista, anche perché neanche sapevo cosa volesse dire. È solo che odiavo l’Helvetica.»1 Paula raccoglie la lezione futurista. Lo spazio della pagina scardinato è il palcoscenico della nuova comunicazione. Tra le avanguardie artistiche la riflessione del futurismo incise con forza nel settore della grafica attraverso una serie di opere e indicazioni non sistematiche, che travolsero l’assetto tradizionale della comunicazione visiva e aprirono la strada alla grafica moderna. La produzione pittorica colse le implicazioni che la vertiginosa accelerazione del tempo della vita moderna con i suoi ritmi dinamici, derivati dalla meccanizzazione, comportavano e li tradusse nel concetto di simultaneità: la struttura statica dello spazio tradizionale composta secondo i fondamenti della geometria euclidea è annullata e reinventata in una raffigurazione sintetica, sospesa nell’attimo della percezione. Con le sue sproporzioni tipografiche, analogie disegnate, l’utilizzo di diversi colori d’inchiostro e l’impiego di “anche 20 caratteri tipografici se occorre” il futurismo portò una rivoluzione tipografica. Le composizioni di Paula sono allo stesso modo caratterizzate da un forte dinamismo. La cultura tipografica della Scher le permette di interpretare in maniera eccelsa gli stili del passato. Esempio ne è Great Beginnings, un libro di piccolo formato interamente tipografico creato nel 1984 in collaborazione con Terry Koppell. Esso raccoglie paragrafi iniziali di famosi racconti dove scelta del font e layout riprendono lo stile del periodo in cui furono originariamente

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scritti. Il libretto venne stampato in due colori e venne spedito a potenziali clienti come promozione del lavoro dei due designer. Le pagine su le Metamorfosi scritto da Kafka nel 1919 e Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij scritto nel 1866, ad esempio, sono impaginate secondo lo stile avanguardista russo: trova riscontro un forte impatto visivo dato da forme geometriche, triade cromatica e composizione obliqua. Della lezione costruttivista rimasero segni anche nella produzione della designer americana nei lavori successivi, come ad esempio nella comunicazione visiva sviluppata per il Public Theater. Sempre al 1984 risale il manifesto per la Swatch Orologi che si rifà esplicitamente al celebre poster di Herbert Matter, creato da questi per una serie di manifesti per l’Ente Nazionale per il Turismo Svizzero. I colori utilizzati, la diagonale, il paesaggio, il simbolo della svizzera, sono tutti elementi che Paula Scher utilizzò per rimandare alla comunicazione di Matter. Il poster scatenò forti polemiche da quell’ala della comunità di designer che credono nella sacralità del modernismo (si racconta che un designer svizzero rifiutò la proposta di candidatura a membro dell’AGI di Paula Scher perché offeso dal suo poster della Swatch). Molti elementi stilistici di questo manifesto, come ad esempio la sovrapposizione di più negativi con il “fuoriscala” e la tecnica del fotomontaggio diventeranno un leitmotiv nella produzione della designer. Nel 1994, come ricorda Paula avvenne la sua esperienza migliore nel panorama della grafica, George Wolfe (1954), direttore di teatro, le chiese di ridisegnare l’identità del New York Shakespeare Festival, successivamente divenuto il Public Theater. Esso non aveva un logo o un’identità, ma possedeva poster molto figurativi dipinti da Paul Daavis (1938). George Wolf era succeduto ad un altro direttore e voleva cambiare il teatro rendendolo più parte della città, un posto che fosse inclusivo. Scher, sulla scorta del suo amore per la tipografia, divenne la voce visiva di un luogo. Ogni aspetto, dalla più piccola pubblicità al biglietto d’ingresso, tutto, era disegnato da Paula. Non c’era un formato o un ufficio interno a cui sottoporre queste cose, per tre anni si occupò di tutto, sia su carta che online, quello che riguardava il design del teatro. L’immagine coordinata del Public Theatre fu estremamente forte, visibile e urbana. Paula sfrutta l’occasione di disegnare a mano caratteri e di distorcere i caratteri digitali per trasformarli in immagini rumorose. Il Public Theatre raggiunse l’apice del successo nel 1996, periodo in cui Paula creò la serie per il musical rap Bring in ‘Da Noise, Bring in ‘DaFunk. Qui combina immagini fotografiche ed un linguaggio tipografico organizzato in modo estremamente libero nello spazio. Ne risultano una serie di manifesti con parole libere e sproporzioni tipografiche, affissi nella frenetica New York. Successivamente, come racconta la stessa Scher: «L’identità del Public Theater fu fagocitata e rubata, rendendo necessaria una mia nuova elaborazione. Così la cambiai in modo che ogni stagione fosse diversa dall’altra, continuando a fare questo tipo di poster, a cui però mancava la serietà che aveva caratterizzato la prima fase del mio lavoro perché erano troppo dei pezzi singoli, a cui mancava quella solidità data dall’intrinseca coerenza di tutti i pezzi»2.

nella pagina precedente: P. Scher, Trust Elvis, poster, 1981. P. Scher e T. Koppel , Great Beginnings, libro, 1984. El Lissitzky, Dlya Golosa, libro, 1923. in alto: P. Scher, Swatch, poster, 1984. P. Scher, Citi, logotipo, 1998.

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Paula Scher ha realizzato corporate identity, packaging per una grande mole di clienti, tra i vari, The New York Times Magazine, Perry Ellis, Bloomberg, Target, Jazz at Lincoln Center, la Detroit Symphony Orchestra, il New Jersey Performing Arts Center, il New 42nd Street, il Giardino Botanico di New York, e The Daily Show With Jon Stewart, The Metropolitan Opera, New York City Ballet, il Moma. Nel 1996 l’identità visiva, ampiamente imitata, del Public Theater vinse l’ambito Beacon Award per aver integrato una strategia di design di corporate. Paula fa tuttora parte del consiglio di amministrazione del Public Theater, e collabora spesso al design del New York Times, GQ e altre pubblicazioni. Della sua collaborazione con architetti Paola racconta: «Nel 2000 […] un mucchio di diversi architetti ha cominciato a chiedermi di progettare insieme a loro l’estetica dell’interno di vari teatri con grafiche ambientali da riportare nella struttura stessa degli edifici. Non avevo mai fatto nulla di simile prima. Non sapevo come leggere le planimetrie e i disegni tecnici degli edifici, non sapevo di cosa stessero parlando, e proprio non mi capacitavo che un lavoro – un singolo lavoro – potesse durare quattro anni perché ero abituata ad un design più “immediato” e quel genere di cura per i dettagli non mi si addiceva proprio. Quindi è stata dura, ma alla fine mi sono innamorata del processo di integrazione tra grafica e architettura perché non avevo idea di quello che stessi facendo. Mi sono detta: “Perché la segnaletica non può stare sul pavimento?”. I newyorkesi camminano guardandosi i piedi. E poi ho scoperto che gli attori e le attrici sono abituati a ricevere suggerimenti dal basso quindi il sistema alla fine sembrava avere senso. I segnali si integravano nell’edificio in modo molto particolare. Giravano gli angoli, salivano sulle pareti, si fondevano con l’architettura dell’edificio.»3 Altro punto focale nel percorso della Scher è sicuramente rappresentato dalla produzione delle sue “mappe” a cui lavorò tra 1998 e il 2010. La designer racconta che nel periodo di intenso lavoro e di «un’esistenza folle fatta di centinaia di riunioni lunghe e senza senso» iniziò a dipingere nella sua casa di campagna delle mappe «fitte, laboriose e complicate»4 che elencavano tutti i posti del pianeta. Le mappe di Paula sono dipinte su tele monumentali (spesso anche oltre un metro e mezzo per un metro). Ogni singola area geografica rappresentata richiama, nei motivi grafici e nei colori, la cultura e la personalità del luogo. Sebbene da lontano potrebbero apparire delle semplici cartine geografiche, avvicinandosi si scopre invece un mondo fatto di nomi di città, codici postali, nomi di province. Un continuum di lettere che insieme formano interi stati e nazioni. Dall’Europa all’Africa, passando per “Manhattan by night”, dagli Stati Uniti “in bianco” o “in rosso”, al mondo intero, “Diurno”

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e “Dark”. Il mondo rappresentato da Paula è un enorme planisfero espressionista e visionario dai colori a volte sgargianti, altri cupi, dai toni accesi oppure misteriosi. Queste mappe sono dei gioielli da esplorare e da leggere in ogni scritta, sebbene, come la stessa afferma, non sempre la collocazione dei nomi è esatta. Paula iniziò ad esporre le sue mappe alla Stendhal Gallery nel 2006, attirando subito l’attenzione di collezionisti privati. Del 2011 è la pubblicazione Maps, raccolta delle mappe a larga-scala di Paula Scher. Nel 2007 Paula venne coinvolta dalla HP nello sviluppo di una campagna di marketing interattiva chiamata “What do you have to say?”. La designer progettò una serie di modelli per realizzare un vasto assortimento di stampati personalizzati, come biglietti da visita, carte intestate e brochure, scaricabili gratuitamente dal sito della Hp. I modelli progettati sono quattro: Bold in Avenir heavy, Modernin Helvetica ultra light, Elegant in Bodoni, Friendly in Century Schoolbook regular ed Edgy in Helvetica ultra light italic. Ne risultano stampati dalla struttura semplice ed elegante, caratterizzati da una forte semplificazione visiva. La scelta tipografica fatta è in sintonia con una tradizione modernista di cui la designer ha respirato le influenze nei primi anni Ottanta quando si cominciò negli Stati Uniti a parlare di “stile Vignelli”. Gli ingredienti che resero riconoscibile la produzione del designer italiano sono pochi, sempre utilizzati con una grande attenzione a proporzioni e dimensioni nello spazio della superficie: l’impiego dei colori rosso, bianco e nero e l’utilizzo di pochi caratteri tipografici, in tutti i suoi pesi, Bodoni e Haas Helvetica. «Nessun modello può sostituire un designer professionista» avverte Paula «ma in ultimo spero che possiamo evitare ad alcune persone innocenti di usare il Comic Sans»5. Paula Scher ed un gruppo di sei progettisti disegnarono l’edizione del 2007 del Publikum Calendar, il calendario pubblicato dall’omonima tipografia di Belgrado. Il tema del calendario era l’ostrogoto. L’occasione di lavorare, come analfabeti, con un alfabeto dal significato e dal suono sconosciuto permise a Paula grande libertà operativa e produsse soluzioni che non sarebbero mai nate in un alfabeto conosciuto, intriso di riferimenti alla tradizione tipografica. A partire dalle somiglianze e le differenze esistenti tra l’alfabeto Cirillico e quello latino le pagine del calendario ne esplorano le possibilità di confronto. Una pagina del calendario paragona i due alfabeti dal punto di vista formale mostrando la metamorfosi del disegno passando dall’uno all’altro alfabeto, un’altra sovrapponendo le lettere, crea forme impreviste; un’altra paragona il verso degli animali nelle due lingue, un’altra ancora rapporta i suoni dei due alfabeti attraverso le onomatopee utilizzate nei fumetti. Il carattere che venne utilizzato è l’Univers che come afferma la designer è «un

nella pagina precedente: P. Scher, Some People, poster, 1994. P. Scher, Net@Work Conference, poster, 2000. in alto: P. Scher, Ballet Tech, poster, 2000. P. Scher, Publikum Calendar, pagine, 2007.

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carattere che non usiamo mai e che in realtà non ci piace, ma che abbiamo apprezzato in questa occasione per la bellezza del disegno delle lettere nella lingua serba»6. La ricerca tipografica che ne deriva, libera da legami tipografici con l’alfabeto latino, pur riferendosi formalmente ad esso, risulta pura ed interessante. Degli ultimi anni sono il restyling del logotipo di Windows nonché di quello di Billboard da parte di Paula e il suo studio Pentagram. Forte dei suoi successi Paula ha ottenuto diversi riconoscimenti prestigiosi: nel 1998 è stata inserita nell’Art Directors Club Hall of Fame, e nel 2000 ha ricevuto il prestigioso Chrysler Award for Innovation nella categoria Design. Ha fatto parte del consiglio dell’AIGA e ne è stata presidente nella sede di New York dal 1998 al 2000. Nel 2001 è stata insignita del più prestigioso riconoscimento professionale americano, la medaglia dell’AIGA, in riconoscimento ai suoi risultati e contributi raggiunti nel campo. È un membro dell’Alliance Graphique Internationale. Il suo lavoro è presente nelle collezioni permanenti del Museum of Modern Art e nel Cooper-Hewitt National Design Museum, a New York; del Library of Congress, a Washington, D.C.; del Museum für Gestaltung a Zurigo; del Denver Art Museum; e della Bibliothèque nationale de France al Centre Georges Pompidou, Parigi.

1. P. SCHER, cit. in Gary Hustwit, Helvetica, film-documentario, 2007. 2. P. SCHER, cit. conferenza TED 2008. 3. P. SCHER, ivi. 4. P. SCHER, ivi. 5. P. SCHER, cit. in Paula Scher Designs Templates for Download from HP, http://new. pentagram.com/2007/08/paula-scher-designs-free-templ/. 6. P. SCHER, cit. in Nada Ray, Paula Scher: Gobbledy -- Gook, video, http://www.youtube.com/watch?v=j1gvDOtwLgU, 2007.

in alto: P. Scher, Windows 8, marchio, 2012. nella pagina precedente: P. Scher, scatto realizzato dal fotografo John Madere, 2010.

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Paula Scher The Public Theater visual identity, dal 1994 La prima identità per il Public Theater venne creata nel 1994, da allora è evoluta negli ultimi 20 anni avendo apportate delle modifiche nel 2005 e nel 2008. Nel 2005 il Public festeggiò il suo quindicesimo anniversario. Lo stesso anno George Wolfe lasciò il ruolo di direttore artistico e subentrò a lui Oskar Eustis. Come parte della campagna pubblicitaria dell’anniversario dell’organizzazione, l’identità è stata ridisegnata utilizzando il font Akzidenz Grotesk. La parola theater alla base del logo venne tagliata, dando ancora maggiore enfasi alla parola public e all’organizzazione intera, piuttosto che ad un singolo luogo (ovvero la struttura del teatro). La nuova identità visiva è stata introdotta nel 2008 con la campagna pubblicitaria delle produzioni dell’Amleto e di Hair ad opera di Shakespeare in the Park. La forma delle lettere è stata ridisegnata attraverso l’utilizzo del font Knockout, ed il logo è passato da un andamento verticale ad uno orizzontale, cosa che lo rende più “architettonico”. Il nuovo sistema utilizza angoli di 90 gradi di una griglia di ispirazione De Stijl, mantenendo la forza dell’originale ma portando maggiore stabilità. Dopo 15 anni era chiaro che l’identità originaria avesse molto potere, e mentre il sistema non può tornare a quel suo stato primordiale, è stato possibile dare energia alla forma. L’identità è un po’ come New York stessa: in costante evoluzione. La densa spaziatura delle lettere del logotipo, così come il loro corpo variabile e la lunghezza leggermente esagerata, fanno riferimento alla struttura della città. È stato questo a rendere il logo particolarmente incline al rinnovo. «Puoi praticamente prendere qualsiasi font sans serif, organizzarlo nello stesso modo e con le stesse proporzioni e sarà riconoscibile come logo del Public», afferma Scher. «Il sistema è stato realizzato per essere flessibile, perché sapevamo che sarebbe stato trattato negli anni da singoli designers»1.

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Paula Scher Bloomberg 2005 Nel 2005 Paula Scher e insieme allo studio Pentagram hanno realizzato la segnaletica, la grafica della struttura e le istallazioni multimediali per le nuove sedi di Bloomberg, azienda che fornisce strumenti software di analisi dei dati finanziari, servizi di dati, e notizie per le società finanziarie e organizzazioni di tutto il mondo. Paula dichiara: «Mi è stato chiesto il sistema di segnaletica e di comunicazione per le nuove sedi di Bloomberg, un palazzo di venti piani a New York. Obiettivo: riflettere l’identità del cliente. Nella sede precedente, c’era una serie di video sui quali scorrevano notizie sui mercati: Bloomberg di questo si occupa, di numeri in sostanza, dunque si identifica con l’informazione. Nel XX secolo informazione significava tecnologia; ma nel XXI informazione significa solo informazione, perché il supporto non è più determinante. Non è la tecnologia che rende contemporanei, ma il pensiero, l’idea, anche il design. Quindi, Bloomberg è se stesso, il suo logo fatto con il carattere Avant Garde di Lubalin. E la tipografia diventa headline del palazzo, enfatizzata per comunicare lo

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spirito, come nei teatri, perché il numero astratto è l’anima di Bloomberg; ma anche per segnalare il percorso, i livelli, le informazioni (le news, il tempo…) su pareti, in sculture tridimensionali, sulle molte trasparenze dei vetri, o animata sugli schermi video»2. Per i caratteri a video è stato creato un font chiamato Bloomberg, unendo le lettere del font Avenir con i numeri dell’Avant Gard. Tra i numeri per, una “o” dell’Avant Garde è stata utilizzata come zero, per creare l’idea di dati di marchio Bloomberg. L’informazione viene contestualizzata attraverso diversi sfondi: verde e rosso comunicano azioni in salita o in discesa, rispettivamente; nero su bianco indica la presenza di news; le previsioni del tempo sono sostenute da immagini di sole o nuvole. Nel palazzo Bloomberg la tipografia si libera in tutta la sua liquidità e si dispiega negli interstizi, occupando spazi irregolari. I numeri dei piani sono letteralmente incastonati nelle angolature, si arrampicano sugli scalini, attraversano le porte come fantasmi di colore. Tipografia interstiziale, i cui pieni e vuoti disegnano traiettorie visive indisciplinate.


Paula Scher New Jersey Performing Arts Center 2001 Il New Jersey Performing Arts Ceter si rivolse a Paula Scher e allo studio Pentagram nel 2001. L’edificio, una scuola di recitazione, necessitava di essere restaurato, ma i fondi erano davvero esigui, solamente 100.000 dollari. Paula dopo aver fatto diversi tentativi su photoshop propose di dipingerlo interamente. E così si fece, l’intero edificio, con persino le condotte dell’aria condizionata, venne dipinto e ricoperto da tipografia. La Scher racconta con ironia: «Ho trovato dei pittori di muri per strada per dipingere le pareti dell’edificio e si sono divertiti tantissimo. Si sono appassionati, l’hanno presa davvero sul serio. Salivano sui lati dell’edificio e mi chiamavano per dirmi che avevo sbagliato qualcosa, che gli spazi tra le lettere andavano rivisti, li spostavano, sono stati bravissimi»3. L’intera struttura esterna diviene quindi una tela che rappresenta la trama di attività che si svolgono all’interno. Le parole (drama, theater, poetry, writing, dance, ecc.) si rincorrono sui muri, i tubi

e i balconi, mostrando il felice interplay delle discipline performative, così come probabilmente vengono a incrociarsi negli spettacoli messi in scena nell’edificio. Un gioioso effetto dirompente viene suscitato dall’enormità delle lettere, fuori la scala abituale. Come dichiara la stessa Paula, lei usa sempre i caratteri in qualsiasi campo stia lavorando. Afferma: «Mi piace costruire le parole. La tipografia è astrazione, cosi come la scrittura: è forma, e le forme portano con sé significati, influenzandoli. Così una scelta tipografica può apparire ilare, seria, arrabbiata»4. 1. P. SCHER, cit. in New Work: The Public Theater, http://new. pentagram.com/2008/06/new-work-the-public-theater-1/. 2. P. SCHER, cit. in articolo-intervista Progetti grafici per l’ambiente, di grande carattere, http://www.ddbo.it/progetti-grafici-per-lambiente-di-grande-carattere, 2006. 3. P. SCHER, cit. conferenza TED 2008. 4. P. SCHER, cit. in articolo-intervista Progetti grafici per l’ambiente, di grande carattere.

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EMIGRE Differentemente dalle riviste Underground anni sessanta, i periodici New Wave nati verso la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta non trattano più temi di impegno politico e sociale (in questi anni ormai le tematiche portate avanti dalla protesta politica e sociale degli anni sessanta sono state assorbite dal mainstream, divenendo di massa e di tendenza), ma si pongono come obiettivo quello di opporsi con forza agli ideali razionalisti, minimalisti e modernisti dello Stile Internazionale e del corporate style, ideali ritenuti ormai stagnanti e oppressivi dato l’estrema affermazione nel panorama del graphic design. Lo scopo delle riviste alternative di questo periodo, diviene quindi quello di rompere con ogni regola e convenzione del passato, con l’obiettivo di rivoluzionare il graphic design dal punto di vista formale.

in alto: Zuzana Licko (Bratislava, 1961) e Rudy Vanderlans (L’Aia, 1955); Medaglia AIGA 1997.

Per più di un decennio di disegno di caratteri tipografici e pubblicazione di riviste, Zuzana Licko e Rudy VanderLands, fondatori della rivista Emigre, hanno subito violenti attacchi sia dal serrato establishment di design così come dai loro contemporanei. Nonostante tutto, hanno continuato a perseguire le loro idee e, di conseguenza, sono stati una forza fondamentale nel rivoluzionare l’industria e nel coltivare uno spirito di scoperta. Né Licko né VanderLans avevano programmato di cambiare il volto del design modern. Hanno raggiunto la notorietà in maniera alquanto insolita. Chuck Byrne, designer della Bay Area, che ha osservato da vicino sin dall’inizio le loro carriere, spiega: «Negli ultimi cinquant’anni circa, crearsi una reputazione consisteva in pratica nella vincita di concorsi, avere il proprio lavoro pubblicato, o andare in giro celebrando al mondo quanto fossi grandioso. Ciò che fece dar di matto al sistema fu che Rudy e Zuzana aggirarono questo percorso e divennero famosi semplicemente progettando per questo gruppo internazionale di ammiratori»1. Rudy dichiara: «Insieme a un gruppo di amici artisti pensavamo, ingenuamente, che pubblicare una rivista fosse un modo semplice per mettere in vetrina il nostro lavoro e quello delle persone che ammiravamo. Non sapevamo nulla sulle difficoltà di pubblicazione e distribuzione di un magazine. Dunque procedemmo a pieno ritmo. Chiamammo

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la rivista Emigre perché le persone interne al magazine erano tutte, in senso letterale, emigrati (emigranti). E l’idea del magazine era quella di dare risalto ad artisti, designer, scrittori, ecc. che avevano provato l’esperienza di vivere e lavorare in nazioni differenti. Credevamo che questa esposizione alle altre culture contaminasse il loro lavoro con un sapore unico.»2 Licko nacque nel 1961 a Bratislava, Cecoslovacchia, e si trasferì negli Stati Uniti a sette anni. Suo padre, un biomatematico, le diede accesso ai computer e la possibilità di disegnare il suo primo carattere tipografico, un alfabeto greco, per suo uso personale. Nel 1981 accedette all’University of California nel Barkley come studentessa universitaria. Aveva intenzione di studiare architettura, ma cambiò il suo corso in cultura visuale e perseguì una laurea in grafica delle comunicazioni. Essendo mancina, odiava il suo corso di calligrafia, dove era costretta a scrivere con la sua mano destra. VanderLans invece nacque nel 1955 a L’Aia, in Olanda, e frequentò la Royal Accademy of Fine Art dal 1974 al 1979. Inizialmente deciso a diventare un illustratore, si iscrisse al dipartimento di graphic design. Dopo un tirocinio nello studio Total Design di Wim Crouwel, realizzò corporate identity per Vorm Vijf e Tel Design. Quando nel 1981 venne accettata la sua domanda d’iscrizione al dottorato all’UC Berkeley (University of California, Berkley), si spostò in California, dove conobbe Licko. I due si sposarono nel 1983. Sempre nel 1983, pensando erroneamente di fare domanda per un lavoro al Chronicle Books, VanderLans si ritrovò al San Francisco Chronicle. Fu assunto dall’art director della rivista per creare illustrazioni, design di cover, e grafici. La frustrazione dovuta alle dure richieste del quotidiano lo spronarono a cercare altri sbocchi creativi. Come precedentemente detto, Emigre era stato pensato originariamente come un periodico che facesse da trampolino di lancio ad artisti, fotografi, poeti, e architetti. Il primo numero venne creato nel 1984 da VanderLans e altri due immigrati tedeschi in un formato di 11,5 per 17 pollici. Non essendoci fondi per la composizione tipografica, il testo fu inizialmente composto da caratteri dattilografici che erano stati ridimensionati tramite una fotocopiatrice Xerox. La lavorazione del secondo numero coincise invece col lancio del Mac. Affascinati dal nuovo e sofisticatissimo “giocattolo”, VanderLans e Licko cominciarono subito a esplorarne le possibilità operative. Mentre VanderLans ritoccava disegni e fotografie; Licko, lavorando con un programma di font bitmap, iniziò a creare le font per la rivista. Emperor, Oakland e Emigre furono progettati come caratteri grezzi bit-mappati per adattarsi alle stampe a bassa risoluzione della stampante. Furono usati nel secondo numero, e, dopo che diversi lettori domandarono per il loro acquisto, iniziò dal terzo numero ad inserire pubblicità per venderli. Il terzo numero fu anche quello che portò alla totale digitalizzazione della rivista, esso infatti fu realizzato con due software di nuova concezione, ovvero: MacWrite (antesignano di Word) e MacPaint (antesignano di Photoshop). VanderLans e Licko si definiscono primitivi di una nuova era (The

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New Primitives) e concentrano le proprie energie nella ricerca di un nuovo standard, creato a partire dal computer, senza tentare di forzarlo a riproporre standard passati, l’appellativo rimarca anche il fatto che i caratteri digitali (costruiti negli anni 80 per punti sulla griglia dei pixel) presentavano una fisionomia piuttosto cruda e rudimentale: per l’appunto primitiva. Nel 1987, gli altri fondatori lasciarono Emigre. Lavorando sotto nome di Emigre Graphics, Licko curò caratteri tipografici per lo schermo presso l’Adobe Systems Inc., mentre VanderLans, che aveva lasciato il Chronicle, creò nuove riviste: GlasHaus per un organizzazione di eventi e Shift per la galleria Artspace di San Francisco. Rudy continuò anche la pubblicazione di Emigre mentre Licko creò un maggior numero di font da una geometria semplice e netta, come ad esempio il Matrix e il Modula. Il loro aspetto freddo e razionale serviva a fissare il layout di VanderLans che, invece, era libero. Emigre divenne a tutti gli effetti una rivista di graphic design nel 1988 con la decima pubblicazione, prodotta da studenti al Cranbrook Academy of Art nel Michigan. VanderLans si concentrò su un lavoro che veniva trascurato dalle altre pubblicazioni di design, o perché questo non aderiva ai canoni tradizionali o perché era ancora nelle sue fasi iniziali. Le pubblicazioni, ognuna costruita intorno ad una tematica, avevano ospitato Ed Fella (1938), Rick Valicenti (1951), e David Carson (1952) dagli Stati Uniti; Vaughan Oliver (1957), Nick Bell, e Designers Republic dal Regno Unito, e molti altri che stavano esplorando il nuovo territorio. Diversi articoli e interviste controversi sono apparsi negli anni, creando maggiore dibattito con le altre pubblicazioni di design. Nel 1989, grazie all’abbastanza forte successo commerciale ricevuto, Licko e VanderLans poterono abbandonare il lavoro indipendente e concentrarsi esclusivamente nei loro affari. Emigre che era stato pubblicato con cadenza non regolare, divenne trimestrale. Nel design di Emigre, VanderLans rifiutò formati fissi in favore di strutture di griglie organiche che riflettessero la sua passione verso i contenuti. La composizione digitale della pagina ha offerto a Rudy la possibilità di reinventare il look della rivista ogni nuova uscita. A volte diversi articoli potevano attraversare le pagine contemporaneamente, ogni testo contraddistinto da font, dimensioni, interlinea, e larghezza della colonna, creando come l’impressione di origliare diverse conversazioni contemporaneamente. Variazioni di sfumatura del carattere tipografico all’interno delle frasi creavano come il tono e il ritmo delle parole parlate. In Emigre 19, possiamo trovare invece una digressione descrittiva. Difatti, VanderLans riporta assieme all’intervista con Katherine McCoy (1945), Ed Fella, Scott Makela (1960-1999) e Laurie Haycock, il suono di cani che abbaiano e di bambini che piangono, sottolineando la sua sorpresa nello scoprire l’ambiente caotico e il macello

nella pagina precedente: Emigre, copertina n.1, 1984. Emigre, copertina n.2, 1985. Z. Licko, font Universal, Oakland, Emigre, Emperor, 1984. in alto: S. Kare, disegno in MacPaint 1.0 lanciato nel 1984.

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nel quale è prodotto il graphic design della Cranbrook. Anche il logo della rivista ha attraversato diverse modifiche. Quando il loro lavoro iniziò a ricevere l’attenzione pubblica, venne accusato di diffondere incoerenza visiva, visto come una minaccia agli ideali del Modernismo ed un affronto alla nozione universale di bellezza. Massimo Vignelli (1931) fu il loro critico più clamoroso. Per tutti i primi anni ‘90, accusò la rivista e le font di essere spazzatura, prive di profondità, raffinatezza, eleganza o senso storico. Il testo e la tipografia difficilmente risultavano indecifrabili dal pubblico ideale. Infatti, Emigre era molto attraente e coinvolgente per i suoi lettori, che avevano un alto livello di ricercatezza visiva. “Le persone leggono meglio ciò che leggono più spesso” era divenuto un credo per Licko e VanderLans e venne adottato come motto dai designer bramosi di sfidare i preconcetti del type design e dell’impaginazione delle riviste. Mentre Licko e VanderLans venivano messi alla gogna dai tradizionalisti, alcuni designer che avevano in passato sostenuto il loro lavoro per la sua aggressività iniziarono a disapprovarlo in quanto troppo facilmente riconoscibile, e perciò inutile. La rivista Beach Culture curata da David Carson pubblicò un numero con una frase in copertina che vantava “nessuna font Emigre”, sebbene il logo stesso fosse scritto nel carattere Senator di Licko. Gran parte dell’opposizione iniziale andò scemando non appena gli stessi design e stili dei caratteri un tempo considerati brutti vennero assimilati attraverso la diffusione delle stampe e dei media elettronici. La sensibilità di Emigre aveva raggiunto l’accettazione commerciale tramite divulgatori come David Carson. Non più visto come radicale o unico, il lavoro di Licko e VanderLans otteneva regolarmente lodi da esperti nel campo.

in alto: Emigre, copertina n.10, 1988. Emigre, una doppia pagina del n.19, 1985.

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Nel 1995 Emigre ridusse le dimensioni delle sue pagine in un formato più convenzionale alla rivista e adattò un aspetto principalmente fisso e ripetitivo. Anche i contenuti subirono un cambiamento marcato. VanderLans spiega, «Piuttosto che concentrarsi sulle intenzioni dei designer e sul loro lavoro, abbiamo deciso di ribaltare le carte e vedere che impatto ha questo lavoro sulla cultura»3. Jeffery Keedy (1957), insegnante alla CalArts, che fu affiliato alla rivista per quasi una decade e il cui carattere tipografico Keedy Sans è distribuito dalla fonderia Emigre Fonts, è adesso un collaboratore ricorrente, così come Andrew Blauvelt, professore alla North Caroline State University, e la scrittrice designer Anne Burdick (1962). Alcuni lettori sono stati scoraggiati dal tono accademico, spesso pedante su ciò che considerano diatribe e manifesti piuttosto che articoli. VanderLans è incuriosito da «I lettori che escludono in maniera categorica scritti sul design e critiche di design di qualunque tipo. Molti designer non capiscono come si colleghi a loro e alla loro professione. Come renderlo evidente è una grande sfida»4. Keedy vede come una necessità la nuova attenzione verso teoria e analisi. «Emigre non poteva continuare come una stranezza subculturale, una rivista amatoriale avanguardistica, perché l’avanguardia è finita. Rudy e Zuzana erano nel bel mezzo di un periodo di cambiamento negli anni ottanta e la generazione successiva sta ancora facendo le stesse cose. Non c’è stato nessun altro cambia-


mento esemplare, dunque, semplicemente, non vi è abbastanza materiale nuovo e attraente»5. Anche le font di Licko si sono trasformate specularmente al cambio di contenuti della rivista. Dopo una molteplicità di pubblicazioni, di dingbat a girandola e una versione french-tickler del Modula, ha dato una sua interpretazione a font classiche con Mrs. Eaves e Filosofia, reinterpretazioni del Baskervill e del Bodoni. Ad oggi, tipografi di tutto rispetto riconoscono pubblicamente la validità dei caratteri di Licko. Matthew Carter (1937), medaglia d’oro AIGA nel 1995, dichiarò, «Due idee mi sembrano sostenere l’originalità del lavoro di Zuzana: che lo studio corretto della tipografia riguarda il carattere tipografico, non la calligrafia o la storia, e che la leggibilità non è qualità intrinseca del carattere ma qualcosa di acquisito attraverso l’uso»6. L’autorità di Licko in una professione originariamente dominata da soli uomini e il suo ignorare la pratica tradizionale sono stati un modello per le generazioni di font designer che usavano il computer. Il mercato è stato inondato da imitazioni del suo stile. Dice: «È divertente; quando guardo indietro al mio lavoro durante gli ultimi dodici anni, mi rendo conto che all’inizio mi è stato difficile fare in modo che la gente prendesse il mio lavoro seriamente, mentre adesso ho problemi a farli smettere di copiarlo.»7 Con sorpresa di chi ricorda le iniziali aspre critiche ad Emigre da parte di Massimo Vignelli, nel 1996 ha prodotto il poster promozionale per Filosofia, che ha portato Licko a ritenere che «la volontà di Massimo di collaborare al nostro annuncio riflette l’abilità di Emigre di collegare differenti metodi di lavoro»8. Sebbene molto soddisfatto di essere il primo di una nuova generazione ad essere selezionato per la Medaglia d’Oro Aiga, l’antagonistico VanderLans dichiarava «non sono così abbagliato dal plauso da non rendermi conto che il premio fa parte di uno sforzo organizzato dell’AIGA per attrarre una generazione più giovane con l’intento di rimanere significativa come organizzazione. E io posso apprezzare questo tipo di pensiero. Se credete di avere una valida idea, che l’AIGA ha, allora ha senso provare a venderla a un pubblico più vasto possibile»9. Licko e VanderLans hanno sempre dichiarato di rifiutare la strategia commerciale, sostenendo che principalmente realizzano i loro prodotti per gratificare se stessi. Non hanno mai negato le accuse di autoindulgenza. Infatti, viene ritenuto un motivo di orgoglio. La rivista che si è auto-pubblicata, ha sostenuto da sé i rischi, si è autoproclamata “la rivista che non ha confini”, è stata libera di impegnarsi in ricerca e sviluppo altamente sperimentali. Il fatto che essi abbiano reso le loro passioni in un’azienda affermata internazionalmente è semplicemente un risultato fortunato. Emigre Fonts offre oggi circa 50 famiglie di caratteri tipografici create da circa 20 designer. Il più conosciuto è il Template Gothic di Barry Deck (1962), un riferimento alla scrittura vernacolare, mentre il più celebre è il Mason di Jonathan Barnbrook (1966), inizialmente chiamato Manson. Da un ufficio in Sacramento, Emigre Graphics vende tramite catalogo e sito web anche poster, magliette, e altri oggetti affini. Un’etichetta musicale che venne lanciata nel 1990 è

in alto: Emigre, copertina n.15, 1990. M. Vignelli, It’s their Bodoni, poster promozionale per Filosofia, 1996.

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al momento “inattiva”, come spiega VanderLans. Licko e VanderLans investono tanto tempo e fatica nella parte economica tanto quanto in quella creativa. «Senza il nostro impegno personale nei contratti di licenza, accordi di distribuzione, questioni legali, contabilità, ecc., Emigre semplicemente non sarebbe esistito. Difatti, ci consideriamo tanto imprenditori quanto designers»10. Byrne concorda pienamente, sottolineando, «Chiunque consideri Rudy come un barbaro primitivo che non sa nulla sull’organizzazione delle informazioni dovrebbe dare un’occhiata a qualsiasi modulo d’ordine di Emigre. Sono sempre stati i design più chiari e più concisi per inviare denaro»11. L’aumento della tiratura fa parte di una strategia per attirare inserzionisti. Emigre, che è divenuto celebre per aver sfruttato al massimo i valori della produzione a basso costo, si è convertito interamente al colore con il suo 42esimo numero, che è stato inviato alla mailing list di Emigre che conta 43.000 utenti ed è stato dato in omaggio a chiunque avesse compilato una cartolina di risposta. Keedy ha ritenuto questa una mossa intelligente, che avrebbe permesso di aumentare il bacino di utenti. «Non c’è una grande richiesta del magazine ad oggi, ma credo che questa strategia riuscirà, infatti, a creare questa domanda. Vedo Emigre tra dieci anni come un’ottima, brillante rivista davvero interessante che ha la sua nicchia. Naturalmente, le persone sosterranno che Rudy e Zuzana si stiano vendendo e divenendo mainstream. Sono in un periodo strano adesso, e la domanda è, possono farcela? Penso di sì. Sono sempre stati in cima al mercato, non dietro di esso. Hanno i loro tempi e sono sempre in azione. Questo è l’elemento determinante in tutto ciò che hanno fatto»12. Ma, come hanno più volte puntualizzato VanderLans e Licko, uno dei più grandi ostacoli a cui far fronte nel caso si voglia pubblicare una propria rivista è lo scoglio economico, ed è proprio per ragioni economiche (come l’impossibilità di competere con l’economicità di un medium come il blog) che Emigre magazine, nonostante la produzione e la distribuzione vengano affidate ad un editore esterno, si esaurisce nel 2005 con il numero 69, disilludendo le aspettative di Keedy. Si può concludere riportando nella pagina seguente una lettera inviata da Peter Bilak, co-editore della rivista Dot Dot Dot, a Rudy VanderLans per l’ultimo numero di Emigre.

in alto: “Emigre”, copertina n.69, 2005. Rudy VanderLans con i vari numeri di Emigre, 2005 ca. nella pagina seguente: Peter Bil’ak, foto.

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1. C. BYRNE, cit. in Michael Dooley, biografia sito Aiga, Zuzana Licko and Rudy VanderLans, http://www.aiga.org/medalist-zuzanalickoandrudyvanderlans/. 2. R. VANDERLANS, cit. in HOW Magazine. Intervista di Jenny Wohlfarth pubblicata nel 2003. 3. R. VANDERLANS, cit. in Michael Dooley. 4. R. VANDERLANS, ivi. 5. J. KEEDY, ivi. 6. M. CARTER, ivi. 7. Z. LICKO, cit. in saggio di Michael Dooley pubblicato in Graphic Design U.S.A. 18, 1998. 8. Z. LICKO, cit. in Michael Dooley, biografia sito Aiga. 9. R. VANDERLANS, ivi. 10. Z. LICKO e R. VANDERLANS, ivi. 11. C. BYRNE, ivi. 12. KEEDY, ivi.


«Cara Emigre, Sembra un po’ paradossale che la mia prima lettera inviatati apparirà nell’ultimo numero che verrà pubblicato. Sono stato un tuo fedele lettore sin dai primi anni novanta. Sono cresciuto con la rivista, messa da parte, e tornato sui miei passi diverse volte. Il magazine è stato lodato da molti, ed ha anche ricevuto la sua parte di critica – un segno che è stato davvero importante. Quando iniziammo Dot Dot Dot nel 2000, creammo un numero pilota della rivista che aveva l’obiettivo di tracciare una mappa delle pubblicazioni di design del passato e del presente. Abbiamo raccolto informazioni, una sorta di enciclopedia dei periodici del design, con lo scopo di esaminare le sorti dei nostri predecessori. Oltre a questa enciclopedia abbiamo scritto degli articoli su un paio di riviste selezionate che fossero particolarmente influenti per noi al momento di iniziare un nuovo, a quel tempo totalmente vago, magazine. Emigre faceva parte delle sette riviste selezionate. Un altro era il leggendario magazine tedesco Hard Werken, che fu l’ispirazione di Emigre al suo esordio nel 1984. Senza dilungarci troppo, vedo un legame tra Emigre, Hard Werken e DDD, e penso che se non ve ne fosse stato DDD non sarebbe nemmeno esistito. L’idea di partenza di DDD è stata quella di fare qualcosa che Emigre aveva fatto già da molto tempo: dare ai designer un posto non solo per esprimere le loro idee attraverso articoli inviati, ma anche offrir loro un’opportunità di sviluppare le loro idee visualmente. Ad essere sincero, pensavamo che solamente gli autori si sarebbero occupati del design degli articoli, che fu quello che facemmo almeno sino al nostro secondo numero, dove diventammo despoti nel nostro metodo di design e non abbiamo più dato ai contributori l’occasione di curare nuovamente il design dei propri articoli. Come si giudica una rivista? Dal numero della tiratura di copie? Dalla ricchezza del contenuto? Dalle reazioni dei lettori? Dalla qualità dei testi? Dalla discussione in campo professionale che esso stimola? Emigre ha avuto tutto ciò: non tutto allo stesso tempo però; ma in certe fasi, ha avuto una tiratura più grande dei massimi magazine di settore e pagine riempite dalle reazioni dei lettori. Ha scatenato il dibattito pubblico riguardo la professione. Si è reincarnato diverse volte. Certamente la rivista ha anche avuto le sue crisi di mezza-età, come accade a tutte le cose esistenti. Ma il semplice fatto che un magazine fondamentalmente portato avanti da una sola persona esista tuttora è incredibile. Ad essere sincero, mi sono domandato in passato come sarebbe finito un giorno un magazine come Emigre. Sicuramente ha a che fare con il fatto che so che un giorno la nostra rivista finirà pure. Diversamente dalle altre pubblicazioni con un largo supporto per la pubblicazione, Emigre ha avuto il privilegio di scegliere il momento della sua fine piuttosto che esserne spinto da forze esterne. Richiede un certo tempismo trovare il momento adeguato, provare ciò che il magazine ha ancora bisogno di provare. Sembra che adesso sia giunto il momento. Al solito, attendo con ansia di leggere il chiaro e conciso articolo di fondo di Rudy che di solito è stato più pertinente di diversi contributi più lunghi. E mi domanderò che altre sorprese ci riserverà. Grazie, Emigre, PETER BIL’AK, L’Aia, Olanda»

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Susan Kare icone Mac Apple, 1984 ca. L’interfaccia del Mac si è sempre distinta da quella degli altri personal computer per la sua intuitività. A renderla tale furono soprattutto le icone grafiche che simboleggiano le varie operazioni. Ad averle create fu Susan Kare. Nei primi anni Ottanta Susan, allora artista su commissione per studi e mostre, riceve una telefonata da Andy Hertzfeld (1953), un suo ex compagno di liceo adesso lead software architect alla Apple Computer Inc. Questi sta lavorando ad un nuovo computer e ha bisogno di un artista per mettere a punto la grafica del sistema operativo, Susan accetta. Il primo compito assegnatole fu quello di creare delle nuove font digitali. All’epoca si utilizzavano solamente font monospaziate – ciò con caratteri della stessa larghezza e con uguale spaziatura, come il Courier – che davano come risultato delle composizioni goffe e blocchi di testo disarmonici. Susan crea dunque nuove font proporzionali per rendere la lettura fluida come quella su carta dando ad ogni singolo carattere lo spazio necessario alla convivenza armonica con gli altri e dà loro i nomi di stazioni ferroviarie di Philadelphia. Steve Jobs, che pensa in grande, è in disaccordo è dà alle font i nomi delle “World Class Cities”: New York, Geneva e Chicago. Ormai entrata a far parte del team Apple, viene affidato a Susan il compito di creare le icone che sarebbero dovute comparire su schermo. Nascono il Mac sorridente che appare all’accensione del computer, l’orologino da polso per indicare

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che il sistema sta lavorando, la manina e tutte le icone dell’interfaccia del MacPaint: pennello, matita, secchiello, lazo, gomma e bomboletta spray. Trasforma il cursore del mouse dal bug di Engelbart (1925-2013) – inventore del mouse – alla freccia inclinata che conosciamo oggi. Prende ispirazione da diversi ambiti come geroglifici egizi, giochi dei colleghi geek, ecc. Il simbolo sul tasto “mela” del Mac, ad esempio, è un castello visto dall’alto molto stilizzato che viene usato nei campeggi svedesi per evidenziare un luogo di interesse. Con le sue icone Susan contribuisce a dare un’immagine del personal computer completamente nuova. Il Mac non è uno strumento per addetti ai lavori ma una macchina che può essere utilizzata anche da chi non ha alcuna competenza tecnologica. Susan non è stata la prima a creare icone digitali per un sistema operativo: la metafora della scrivania era già presente sullo Xerox 8010 Star del 1981, ma Susan Kare è riuscita a creare con le sue icone un’esperienza d’uso nuova perché piacevole. Il Mac ha una faccia e un carattere ben preciso e riconoscibile. Per i suoi bozzetti Susan si serviva di album a quadretti: lavorando con i pixel e non avendo a disposizione programmi di grafica, il modo più semplice per pensare era riempire i quadretti uno a uno e poi guardare il foglio da lontano. In riquadri di 30 per 30 pixel, Susan doveva rappresentare concetti anche complessi.


Zuzana Licko Totally Gothic carattere digitale, 1990 Negli anni novanta tra i vari caratteri singolari esibiti dal catalogo di Emigre figurava il Totally Gothic, un carattere dallo stile goticheggiante. La scarsa leggibilità dei caratteri gotici - chiamati per questa ragione black letter (lettera nera) - secondo Licko è dipesa semplicemente dal fatto che per secoli abbiamo letto testi con grazie o lineari: «I caratteri non sono intrinsecamente leggibili; piuttosto è la familiarità del lettore con gli stessi che determina la loro leggibilità. Diversi studi hanno dimostrato che il lettore legge meglio ciò che legge più spesso. La leggibilità è un processo dinamico, dal momento che le abitudini del lettore sono suscettibili al cambiamento. È strano come le lettere gotiche, che oggi consideriamo illeggibili, fossero in realtà preferite dall’XI al XV secolo a molti caratteri umanistici. Allo stesso modo, le lettere gotiche [...] potrebbero diventare un domani le forme testuali preferite»1. È interessante notare come il Fraktur, uno dei tipi più diffusi di carattere gotico, abbia vissuto un vero e proprio revival nel secolo scorso (oggi presente in numerose versioni digitali come il Fette Fraktur). Nel 1933 i nazisti lo adottarono come “carattere genuinamente ariano”, lodandone i ritmi verticali, serrati ed equidistanti che oggi lo rendono quasi illeggibile. Quando nel 1941 i tedeschi si resero conto che quel carattere si leggeva faticosamente nei Paesi conquistati rigettarono il carattere come “non tedesco” e addirittura di “comprovate origini ebraiche”. 1. Z. LICKO, cit. in Lewis Blackwell, I caratteri del XX secolo, Leonardo Arte, Milano 1998, p.147.

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Barry Deck Template Gothic carattere digitale, 1991 Il Template Gothic di Barry Deck è tra i caratteri più celebri, se non il più celebre, di Emigre. Venne presentato nel numero 19 della rivista nel 1991: il titolo della pubblicazione scandiva a grandi lettere “Starting from Zero” (partendo da zero), indicando l’urgenza di un linguaggio digitale che non fosse una ripetizione acritica del precedente. L’intero numero della rivista era dedicato alla questione: “La sperimentazione nel design grafico si risolverà in una semplificazione progettuale?”. In pochissimo tempo il carattere di Barry Deck ebbe un successo clamoroso tanto da guadagnare l’etichetta di “carattere del decennio”. Il suo punto forte era il suo tono informale: da una parte presentava una somiglianza con la scrittura di luoghi “non-tipografici”, come la segnaletica delle lavanderie a gettoni californiane; dall’altra, soprattutto, rendeva espliciti i riferimenti alla fluidità delle configurazioni digitali.

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TEMPLATE GOTHIC BOLD 9/11 Il Template Gothic di Barry Deck è tra i caratteri più celebri, se non il più celebre, di Emigre. Venne presentato nel numero 19 della rivista nel 1991: il titolo della pubblicazione scandiva a grandi lettere “Starting from Zero” (partendo da zero), indicando l’urgenza di un linguaggio digitale che non fosse una ripetizione acritica del precedente. L’intero numero della rivista era dedicato alla questione : “La sperimentazione nel design grafico si risolverà in una semplificazione progettuale?”. In pochissimo tempo il carattere di Barry Deck ebbe un successo clamoroso tanto da guadagnare l’etichetta di “carattere del decennio”. Il suo punto forte era il suo tono informale: da una parte presentava una somiglianza con la scrittura di luoghi “non-tipografici”, come la segnaletica delle lavanderie a gettoni californiane; dall’altra, soprattutto, rendeva espliciti i riferimenti alla fluidità delle configurazioni digitali.


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APRIL GREIMAN Il lavoro di April Greiman ha contribuito a definire una sottocategoria chiamata “Techno Wave”. Difatti, alla New Wave, di cui Weingart viene riconosciuto essere padre, Greiman aggiunge una componente fondamentale, ovvero l’utilizzo del computer, nello specifico il Macintosh. April riflette costantemente sulla materia dell’immagine, sull’esaltazione dell’elemento informatico, video e tipografico, disposti in un’immagine unica attraverso una stratificazione complessa che tende a riflettere la complessità della realtà, o almeno la molteplicità e multimedialità di essa.

in alto: April Greiman (New York, 1948); Medaglia AIGA 1998.

«Il foglio di carta non è semplicemente un neutro contenitore di simboli, ma uno spazio che viene attraversato dagli stessi. L’occhio procede, salta, lo percorre all’interno e all’esterno: è il luogo in cui le relazioni vengono instaurate, non semplicemente comunicate.»1 Nata nel 1948, durante il baby boom americano e cresciuta a New York, April Greiman sin dalla nascita dimostra un animo curioso, fomentato da una famiglia dove la curiosità veniva incoraggiata e l’avventura era all’ordine del giorno. Greiman poté vantare eccellenti modelli in suo padre, sua madre, e nella sua zia Kitty, una donna forte e indipendente che aveva danzato con le Ziegfeld Follies e che fece dell’eccellenza la priorità della sua carriera. April ricorda sua madre come un’autorità calma e con i piedi per terra, mentre suo padre come un uomo curioso, esploratore vagante che era facilmente distratto da qualsiasi cosa interessante attraversasse il suo sentiero; in maniera affettuosa, lo chiamava “il bizzarro astronauta” perché era sempre perso nello spazio della sua stessa immaginazione. I vicini soprannominavano la sua famiglia “I Greiman Volanti” (Flying Greimans) giacché stavano sempre con lo sguardo all’insù, alla ricerca di fenomeni interessanti. Ballerina professionista nella Fred Astaire Dance School di New York, Renee Greiman, madre di April, si esibiva in televisione e insegnava, spesso assumendo la piccola April come compagna di ballo. Di conseguenza, racconta April, sa ancora come fare il chacha, il mambo, il tango, il merengue, il fox trot, la rumba e il limbo. Ma probabilmente il più importante insegnamento ricevuto dalla madre deriva dal suo motto spesso ripetuto, “April, you can’t fake the cha-cha”. Sin da piccola, Greiman apprese che completezza

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e dedizione erano elementi fondamentali nell’arte. I suoi studi di design iniziarono poco dopo che decise di andare alla scuola d’arte e fece domanda alla Rhode Island School of Design. Sebbene fallì miseramente nella parte della prova di disegno, che le richiedeva di disegnare un paio di vecchi stivali, il presidente di ammissione le fece notare che il suo portfolio era forte nella grafica e le consigliò di fare domanda al programma di graphic design al Kansas City Art Institute. Nonostante non avesse idea di come si dovesse definire il graphic design o quale fosse il suo significato, accolse il suggerimento e riuscì ad entrare nel corso. Alla KCAI, April venne introdotta alle regole del Modernismo da Inge Druckrey (1940), Hans Allemann (1965), e Chris Zelinsky, tutti quanti istruiti all’Allgemeine Kunst Gewerbeschule di Basilea. Stimolata da questa esperienza, andò a Basilea per la specializzazione. Vantando agli inizi degli anni ’70 docenti come Armin Hofmann e Wolfgang Weingart, April indagò a fondo lo Stile Internazionale, così come le sperimentazioni personali di Weingart nello sviluppo di un'estetica che riflettesse meno la cultura Moderna e rappresentasse più una società post-industriale mutevole. Greiman dichiara infatti: «Molte persone hanno contribuito al mio progresso, specialmente i miei professori alla Basel Kunstgewerbeschule, Armin Hofmann e Wolfgang Weingart. Un contrasto perfetto: l’intenso, calmo, riduttivo approccio di Hofmann e l’additivo, complesso, emozionale approccio di Weingart. Ero impressionata dal fatto che nel corso di Hofmann si poteva passare un semestre studiando un dettaglio, mentre nel corso di Weingart si poteva lavorare contemporaneamente su venti variazioni dello stesso tema.»2

in alto: A. Greiman da giovane. W. Weingart, Seeing, Reading, and Learning, n.6.7 di una serie di 14 copertine per TM, 1971. nella pagina seguente: A. Greiman, Art Direction, copertina, 1978. A. Greiman e J. Odgers, Cal Arts Brochure, 1978. A. Greiman, China Club, 1981.

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Quella che Weingart fece conoscere ai suoi studenti era la New Wave, un movimento più intuitivo ed eclettico, rispetto alla rigida organizzazione e neutra oggettività della griglia, che scosse il design. Aumento della crenatura, modifica dei pesi del carattere tipografico o dello stile all’interno della singola parola, e uso di composizioni oblique furono esplorati non come mero piacere stilistico, ma con l’impegno di rendere più significativa la comunicazione attraverso i caratteri tipografici. Nell’arco di dieci anni, l’impatto di Weingart e dei suoi studenti era evidente ovunque: questo tipo di estetica era stata assimilata e imitata, con l’intento originario alla lunga dimenticato o conosciuto solo da pochi. Greiman fu una di quelli che non dimenticò il proposito della New Wave. Nel suo lavoro, continuò ad esplorare il significato della tipografia e iniziò a sperimentare modi per alterare i due spazi dimensionali della pagina e riconfigurarla come un continuum spazio-temporale di tre – e quattro – dimensioni. Per il suo primo lavoro dopo essersi spostata a Los Angeles, Greiman assunse Jay-


me Odgers (1939), che aveva precedentemente fatto da assistente a Paul Rand, per scattare una serie di fotografie. Questi si offrì di portarla nel deserto. «Death Valley?» chiese April. «Suona abbastanza desolato». Ma in poche ore rimase sedotta dal panorama. «Il deserto è il suo stesso mezzo di comunicazione», racconta. «Mentre la maggior parte dei processi avvengono ad un livello microscopico o invisibile, il deserto rivela la sua evoluzione nella sua stessa esistenza. Sento come, se per la prima volta, i miei occhi siano spalancati al processo di evoluzione, alla crescita, al cambiamento»3. Poco dopo questa esperienza, invece, i due formarono insieme una partnership creativa destinata a durare 4 anni e produrre un lavoro molto incisivo. Tra i progetti meritevoli di menzione si ricordano un poster del 1979 per il California Institute of the Arts di cui Odgers si occupò nella direzione artistica e nella fotografia, gli annunci pubblicitari del China Club Restaurant and Lounge nel 1980, e un poster, creato nel 1982, per le Olimpiadi del 1984. Quando il California Institute of the Arts (CalArt) le propose di condurre il corso di graphic design nel 1982, April si impegnò ad esplorare l’insegnamento del design e ottenne anche accesso ai mezzi di digitalizzazione e video più avanzati. Si applicò a fondo nell’insegnamento così come nei nuovi media, passando il suo tempo libero ad approfondire il campo digitale con lo scopo di indagarne il potenziale nella creazione di immagini. Iniziò ad usare video e computer analogici per produrre ibridazioni, combinando diversi elementi all’interno dei nuovi media. Greiman aveva intuito che il campo del graphic design stava rapidamente cambiando e l’emergere di nuove tecnologie sarebbe presto stato integrato nella pratica quotidiana del design. Nel 1984 tentò con successo di cambiare il nome del dipartimento in Visual Communications, ritenendo che il termine “graphic design” sarebbe stato troppo restrittivo per i futuri designer. Alla fine di quell’anno, con il suo boom economico, decise di fare marcia indietro e divenire una studentessa piuttosto che un’insegnante, per studiare l’effetto della tecnologia nei suoi stessi lavori. Tornò, dunque, alla sua sperimentazione a tempo pieno e acquistò il suo primo Macintosh. «Il Mac è un vero colpo di genio: lo strumento del Caso. Molto più che un semplice mezzo per visualizzare le idee, è il primo strumento veramente intelligente, in quanto interviene nel processo creativo.»4 Sempre nel 1984, April realizza un poster per Ron Rezek (1946) dal titolo “Iris Light” che rappresentò bene il suo innovativo uso del linguaggio video e dell’integrazione della tipografia New Wave con elementi di design tradizionali. Questo lavoro incorporava un fotogramma video che all’epoca significava fotografare la schermata del filmato utilizzando una fotocamera 35mm per “congelarne” il frame. Iris Light rappresentò una svolta nel lavoro di April: fu la sua prima creazione ibrida facente uso della tecnologia digitale che Greiman considerò un successo concettuale ed estetico. Del frame del video, racconta: «invece di sembrare una pessima fotografia, l’immagine risultò gestuale. Somigliava ad un dipinto; catturò l’essenza della luce»5. In questo caso, la tecnologia video si integra-

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va con l’idea di luce: la luce della schermata video unita alla luce del flash produssero un’immagine dove la forma corrispondeva al contenuto. La tipografia New Wave Californiana di Greiman insieme al suo design, prodotto dall’ibridazione di media di diversa natura, stava destabilizzando il Modernismo da un paio di anni quando April sferrò, in un numero di Design Quarterly, un assalto ancora più vigoroso alle credenze e ai preconcetti di ciò che costituiva il design nel 1986. Pubblicato dal Walker Art Center, edito da Mildred Friedman, e rivolto a un pubblico internazionale di design, ogni uscita di Design Quarterly affrontava un tema specifico. Greiman non era semplicemente l’argomento della 133esima uscita, ma fu pure invitata a realizzarne il design e a mostrare il suo lavoro. Greiman vide Design Quarterly #133 come un’occasione non solo per presentare il suo lavoro digitale ma per porre una domanda maggiore sul lavoro e il medium: Does it make sense? (Ha senso?) Citando Wittgenstein (1889-1951) sull’argomento, April rispose con una conclusione del filosofo: «ha senso se tu gli dai senso». Racconta, «Amo questa idea che esiste anche in fisica – che l’osservatore è l’osservato, e che l’osservato è l’osservatore. Gli strumenti e le tecnologie iniziano a decidere cosa e come vedi le cose, o come il risultato sia prevedibile. Queste idee riportano la ragazzina in me, quella purissima curiosità»6. L’opera di Greiman sfidò l’idea stessa di rivista. Invece che la sequenza di 32 pagine, modificò il formato in un poster che si dispiegava in quasi 1 metro per 2. Nella parte anteriore c’è una foto di Greiman digitalizzata, corpo nudo fra livelli di immagini e testo che interagiscono. Nella posteriore, fotogrammi del video di atmosfere spaziali ricche di colori sono disseminate di riflessioni e accorate notazioni sul processo digitale – uno sfondo virtuale composto da testo e immagine. Oltre a considerare se le tecnologie digitali “avessero senso”, il poster per Design Quaterly sembra come incarnare la disillusione di una nazione ferita nel profondo dalla guerra in Vietnam e plasmata dalla crescita di femminismo, spiritualismo, culto orientale, archetipi Junghiani, e simbolismo onirico. Does It Make Sense? fu anche un’incredibile prodezza tecnica. Integrare i frame dei video digitalizzati e i caratteri in formato bitmap agli albori del Macintosh e MacDraw (antesignano di Illustrator) fu estremamente difficile. I file erano talmente grandi, e i mezzi così lenti che doveva mandare il file in stampa quando lasciava lo studio la sera e questo sarebbe stato pronto solo al suo rientro al mattino. Un giorno, dopo che fu arrivata allo studio e stava assemblando le immagini, fu chiaro che mancava una parte consistente del lavoro. Per qualche ragione, il suo corpo non venne stampato, sebbene tutto il resto fosse presente. Mentre i dettagli tecnici dell’assenza del corpo rimasero irrisolti, il successivo ripresentarsi nelle pagine portò con sé un ulteriore problema – a April non piaceva l’aspetto del suo seno destro. Il processo di riproduzione l’aveva appiattita e le luci erano strane. Così, in quello che dovrebbe essere il primo seno sostituito in MacDraw; clonò e ruotò il suo seno sinistro piazzandolo nella parte destra del suo corpo. Prima della comparsa di Does It Make Sense? molti designer consideravano i caratteri tipografici bit-mappati e il linguaggio figurato

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non solo non ortodosso ma inaccettabile, troppo lontano dalla pulita, meticolosa precisione dello Stile Internazionale. Il computer stesso era visto come freddo e non amichevole, parecchio costoso, e come simbolo della scomparsa del buon design. Ma, dopo la pubblicazione di Design Quarterly #133, molti diffidenti si sentirono obbligati a riconsiderare il ruolo del computer nella pratica del design. La volontà di Greiman di porre la domanda, e piazzarla al centro della comunità di designer, innescò innumerevoli dibattiti su computer, contesto e creatività. Greiman ricorda con piacere di aver ricevuto una chiamata da Massimo Vignelli appena dopo che egli vide il poster. «Ho solo una domanda», disse. «Dove prendo l’altro lato?»7 Un chiaro indicatore del cambio di rotta intrapreso da April dal freddamente classico all’intensamente personale, poetico, e digitale, e in particolare il passo da gigante che ha audacemente fatto in un mondo conosciuto per essere principalmente per uomini. «Penso di essere un trait d’union unico tra due generazioni: la mia formazione è stata improntata alla Scuola svizzera, e sono andata a Basilea dopo la laurea. Così, tra le altre cose, ho imparato a comporre caratteri tipografici. Adottato, dopo una formazione 'artigianale' come questa, il Mac, di primo acchito, uno strumento piuttosto scioccante.»8 Come lei stessa dichiara, April si vede come un ponte tra la tradizione Modernista e le future generazioni di designer. Considerato

nella pagina precedente: A. Greiman, Warner Records, poster, 1982. A. Greiman, L.A. Olympic Games, poster, 1984. A. Greiman, Iris Light, poster, 1984. in alto: A. Greiman, Does It Make Sense?, lavorazione su MacDraw, 1986.

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la sua istruzione classica ricevuta alla KCAI e gli studi di specializzazione con Hofmann e Weingart a Basilea, possiede le conoscenze e le competenze della tradizione Modernista. Ma è anche sostenitrice della nuova estetica, difendendo sia l’estetica visuale che concettuale, così come le nuove tecnologie dai detrattori. «Secondo la tradizione del graphic design nel 20esimo secolo, devi essere o un grande tipografo, o un designer-illustratore, o un grande designer di manifesti. Oggi siamo davanti alla motion graphic, il World Wide Web, e ad applicazioni interattive». Il mondo è cambiato e April è sicura che dobbiamo aprirci a nuovi paradigmi, nuove metafore, ad un’essenza completamente nuova del design: «Non si tratta solamente di graphic design. Non abbiamo un nuovo nome ancora»9. Non si può però affermare che quello di April sia stato un progetto grafico dal carattere elitario: sono molte le influenze della cultura pop che era ancora presente a fine anni '70 e che sfociarono poco dopo nel cosiddetto stile Memphis. Sin dall’inizio della sua carriera, la Greiman si scosta come abbiamo sottolineato dagli elementi più palesi dello Stile Internazionale per andare incontro ad una cultura grafica più “americana” e meno “svizzera”, molto vicino al Pop, dove le immagini sono montate sui retini dei pixel nello stesso modo in cui Lichtenstein (1923-1997) aveva utilizzato i punti di colore nel realizzare i suoi quadri. Continuerà a portare avanti questo suo approccio anche nei lavori successivi attraverso uno sguardo trasversale tra una cultura alta e una di massa tipicamente americana, quella della saturazione del colore, pesi in contrasto, grandi forme. Un’ottica che viene definita del “pieno” e che spesso si traduce in un caos della pagina e confluisce verso un pubblico così aperto che va dagli utenti del ristorante China Club a quelli del Walker Art Center di Minneapolis. E che fa anche ampio uso del simbolismo, tra gli elementi più diffusi: l’uovo orfico, la fenice, la sezione aurea e la spirale. April Greiman è direttrice di uno studio fondato nel 1976 e attualmente chiamato, Made in Space. Racconta: «All’inizio c’ero solo io, un assistente, ed un contabile part-time. Adesso è un gruppo di dieci persone e più, e molto più lavoro. Allo stesso tempo, sono attivamente coinvolta in tutto quello che produciamo e continuo a porre l’accento sulla sperimentazione, l’esplorazione di nuovi strumenti, e l’espressione di un obiettivo personale come la nostra

nella pagina precedente: A. Greiman, Sci-Arc, Changing Concepts of Space in Architecture and Art, poster, 1986. in alto: A. Greiman, Pikes Peak Big Fishy, 1994. A. Greiman, LAICA Fashion Show + Clothing Sale, poster, 1996.

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ragione di essere. […] Quando ho cominciato, io ero la mia stessa produzione part-time. Alla fine, con un po’ più di membri e l’inclusione di tecnologia video e informatica, lo studio si è evoluto in un organismo più complesso. Io sono ancora il capo. Io incontro ancora i clienti, definisco il problema e, con loro, sviluppo il concept. Creo ancora lo schizzo inziale utilizzando la mia penna Stabilo, colori Prisma, oppure il computer, quindi lo passo all’assistente che continuerà a svilupparlo con me»10. E spiega ancora: «Non assumo più graphic designer. L’idea di diversi designer che lavorano in un isolamento visivo non è più attuale. Assumo collaboratori che sono specializzati nei loro campi – un web master, un researcher, un production artist – a seconda del progetto»11. Dunque, in questo studio ogni collaboratore è un esperto nel suo campo, con Greiman che è il nodo di giunzione. Con l’intento di estendere la sua ricerca nelle nuove tecnologie e image generation, Greiman ha fondato i Greimanski Labs come diramazione concettuale del Made in Space. Descrive il laboratorio come un luogo per la ricerca e l’esplorazione nello sviluppo di immagini a scopo non commerciale e progetti. Noncurante del cliente, il laboratorio lavora in diversi media andando dalla fotografia tradizionale ai nuovi strumenti e tecnologie. April, membro dei bizzarri Flying Greimans parla con entusiasmo del suo progetto a larga-scala, Inventing Flight, originariamente chiamato A Century of Flight. Ha collaborato con un team di esperti per sviluppare un metodo attivo al progetto piuttosto di fissare la nozione di volo nel passato. Per l’evento – una festa in onore dei 100 anni del volo che si svolse in Dayton, Ohio, nel 2003 – Greiman, fatto tesoro della sua passione per la scienza e la tecnologia, ha approfondito ogni dettaglio della storia del volo. La commemorazione è stato un evento particolarmente significativo per April in quanto rimanda ai primi periodi in cui si cercava di portare informazioni nello spazio e alla rivoluzione dell’informazione. «Amo

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quando si chiude il cerchio come in questo caso», dice. «Tutto è collegato, e crea questa meravigliosa curva di interconnessioni»12. Allargando ulteriormente il già vasto campo del suo lavoro, Greiman spesso collabora con architetti su spazi e ambienti, con il suo maggiore contributo per quanto riguarda colore, finiture, e materiali. Considera queste collaborazione a tre – e quattro – dimensioni come un ulteriore aspetto di ibridazione, nel quale valuta idee di integrazione reciproca tra costruzione e ambiente, interni ed esterni. Tra gli architetti con cui ha collaborato può annoverare nomi come Emilio Ambasz & Associates, Will Bruder Architects, Frank O. Gehry & Associates e RoTo Architects. Greiman vede l’ambiente come un’opportunità per esplorare in tempo reale i suoi interessi personali nei confronti di colore, mito, simbolismo, e spazi. Dalle sue ricerche al ruolo di punta della New Wave Californiana fino al suo lavoro avanguardistico nei media digitali e nelle ibridazioni, Greiman diviene un esempio per le generazioni future di designer, spronandoli ad essere disposti a porre le domande di cui necessitano risposta.

1. A. GREIMAN, cit. Liz Farrelly, April Greiman, Thames&Hudson, Londra 2000, p. 7. 2. A. GREIMAN, cit. in Hybrid Imagery: The Fusion of Tecnology and Graphic Design, Watson-Guptill, New York 1990, p. 156. 3. A. GREIMAN, cit. in biografia sito Aiga, April Greiman, http://www.aiga.org/medalist-aprilgreiman/. 4. A. GREIMAN, cit. Liz Farrelly, p. 12. 5. A. GREIMAN, cit. in biografia sito Aiga. 6. A. GREIMAN, ivi. 7. M. VIGNELLI, ivi. 8. A. GREIMAN, cit. in Max Bruinsma, April Greiman - The way of The Mouse, in http:// maxb.home.xs4all.nl/items-greim-eng.htm. 9. A. GREIMAN, cit. in biografia sito Aiga. 10. A. GREIMAN, cit. in Hybrid Imagery, p. 156. 11. A. GREIMAN, cit. in biografia sito Aiga. 12. A.GREIMAN, ivi.

nella pagina precedente: A. Greiman, Shaping the Future of Healthcare, poster, 1987. A. Greiman, Inventing Flight, poster, 2003. A. Greiman, The Great Park, branding, 1987. in alto: A. Greiman, scatto realizzato dal fotografo John Madere, 2010. A. Greiman, Samitaur Constructs, poster, 2002.

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April Greiman Vertigo logotipo, 1982 Esempio di libera espressione è l’identità visuale dello studio di April Greiman. La composizione si articola su più livelli, uno sfondo bianco nel quale fluttuano forme semplici e in primo piano il testo di memoria weingartiana con diverse crenature. Le figure geometriche elementari che lo compongono (triangolo e cerchio) e i caratteri lineari sono tipici ingredienti delle avanguardie costruttive e della poetica modernista. Si tratta, tuttavia, di una riconfigurazione dal carattere postmodern, un insieme eterogeneo e poco armonico. I sette segni che compongono la parola Vertigo non sono correlati in un tutto coeso, ma ogni singolo segno ha una propria identità costituendo così sette motivi grafici assolutamente individuali che sono allineati lungo una linea obliqua. Vertigo, diversamente dalle composizioni di stampo modernista che sono generalmente unitarie, è una sorta di Frankenstein tipografico. Allo stesso modo di Greiman, Alan Fletcher (19312006) ripropone nel suo celebre poster Desi-

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gners Saturday (anche questo del 1982) la tipica triade cromo-geometrica di matrice bauhausiana in una celebrazione molto giocosa. Spiega Fletcher: «Mi chiedevo quali fossero i tre colori più scontati: i colori primari. E quali fossero le tre forme più noiose: il triangolo, il cerchio e il quadrato. E cos’altro ci poteva essere di noioso: il grigio. Allora ho trasferito questi ingredienti in un party: ed ecco il Designers Saturday»1. In Greiman però le figure geometriche non sono semplici forme da usare, ma nel suo operato ricade sempre riferimento al simbolismo. Parlando ad esempio dell’identità visuale del suo studio spiega: «Il quadrato giallo rappresenta la terra; il triangolo verde il fuoco, e anche la natura dinamica di una triade; l’ovale rappresenta la sacralità e il sé»2. 1. A. FLETCHER, cit. Beril McAlhone e David Stuart, A Smile in the Mind, Phaidon, Londra 2001, p. 164. 2. A. GREIMAN, cit. in Hybrid Imagery: The Fusion of Tecnology and Graphic Design, Watson-Guptill, New York 1990, p. 22.


April Greiman CalArts poster, 1978 Questo poster pieghevole (a lato), emblematico della New Wave, dà forma ad un ambiente immaginifico, caratterizzato da una profondità illusoria, ad una realtà ingannevole tramite la tecnica del collage. Tecnica molto cara ad April Greiman e che utilizzerà spesso nei suoi lavori, come nella cover per Wet (in basso) del 1979, coloratissima con carte giapponesi, particolari nascosti e gradienti. Nel manifesto per CalArts, il gioco illusionistico viene enfatizzato dalla mano, che sembra reggere l’intera composizione, e dal fascicolo, che si apre fuori del campo. Ma tutti gli elementi - la matita, la sfera, il cono, il rullino, gli omini danzanti, ecc partecipano in modo dinamico alla creazione di quella realtà ingannevole che rende interessanti e sorprendenti i cocktail dinamici di Greiman. La tecnica del collage, risalente alle sperimentazioni fotografiche del primo Novecento, è stata abbondantemente praticata fino ai nostri giorni. Lo stesso Wolfgang Weingart, maestro di April Greiman, ne ha fatto spesso utilizzo nei suoi lavori, come già aveva fatto in passato Hebert Matter nel suo celebre poster della Schweiz.

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April Greiman Does it Make Sense? poster pieghevole, 1986 È sicuramente l’opera più celebre di Greiman. Le venne commissionata da Mickey Friedman per il Design Quaterly che le lasciò totale libertà progettuale. Greiman realizza quindi questo suo auto-ritratto creato elettronicamente e stampato a bassa risoluzione. Esso è uno dei primi collage digitali realizzati da Greiman interamente col Mac: un mix articolato di scritte, ideogrammi, immagini bitmap e texture informatiche. In alto a sinistra troviamo la presenza della spirale (uno dei simboli che ricorrono più frequentemente nelle opere di April); sulla destra ricorre invece un cerchio con una barra orizzontale che ricorda il marchio della London Underground; in basso a destra due elementi quadrettati rivelano la griglia dei pixel; le due immagini più grandi nella parte inferiore sono invece dei frame di filmati. Lo stesso mix di design digitale e collage (costruttivo) lo ritroviamo nel poster per SCI-ARC (Istituto di Architettura della California meridionale) del 1992 che è possibile vedere qui in basso.

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April Greiman You Turn My Turn poster, 1983 April Greiman ha elaborato un suo stile West Coast – una iconografia ibrida – a partire dalla sperimentazione weingartiana, pur sempre mantenendo legami con la tipografia svizzera ma fortemente orientato verso linguaggi elettronici video-digitali. Non a caso qui emergono registri di stampa in quadricromia, i pixel del monitor e un garbuglio di piani stratificati. Il poster qui a lato è ibrido non solo nel senso della sua iconografia: possiamo inserirlo a metà strada tra uno stile post-svizzero e una schermata digitale frammentata. L’organizzazione del testo rimanda al rigore della tipografia modernista in maniera chiara, ma facciamo anche riscontro di una convulsa mescolanza postmodern: scritte oblique, sovrapposte, capovolte, forme spezzate, curve, accavallamenti cromatici, figure geometriche, simboli, elementi casuali ecc. Non da meno, è da notare la volontà di April di ampliare i due spazi dimensionali della pagina per riconfigurarla in un continuum spazio-temporale tridimensionale. April Greiman Objects in Space poster, 1999 Alla fine degli anni novanta, in questo poster per la Selby Gallery, molto simile all’omonimo per AIGA dello stesso anno, non troviamo più traccia della scuola svizzera nemmeno nell’allineamento del testo. Il carattere digitale assume una fisionomia fluida, aliena dalla tradizione tipografica. Si delinea una grafica totalmente informatizzata, oltre che nel processo, anche pure in termini figurativi. Questo risultato è ottenuto attraverso l’utilizzo di scritte curve, sovrapposte, opalescenti, dinamiche e figure plastiche, sfumate. Sebbene sia stampata su carta, osservando questo poster si riceve come l’impressione di stare assistendo ad una schermata in evoluzione, le cui immagini si avviluppano e si dissolvono in un miscuglio amorfo e indefinito. Il testo si comporta esattamente come un’immagine: dinamica e impattante; il titolo viene addirittura presentato capovolto, sfumato e corre da destra a sinistra, come se dal fondo cercasse di oltrepassare il fondo e uscire verso lo spettatore.

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NEVILLE BRODY Figura di spicco degli anni Ottanta, non solo nell’ambito della grafica ma anche della moda e della comunicazione visiva in generale, Neville Brody può considerarsi padre di uno stile geniale e “fuori dalle regole” che venne successivamente duplicato in maniera smodata da colleghi e mass media. Un creativo perennemente insoddisfatto dai riscontri ottenuti dal pubblico e dalla errata interpretazione delle sue intenzioni. La massa, infatti, si limitò semplicemente ad emulare il suo stile non carpendo e applicando quelli che invece sono stati da sempre i suoi obiettivi prefissati: offrire il suo lavoro come esempio di una mentalità nuova improntata sull’autenticità e rendere le persone più creative, attive e responsabili. Il suo spirito ribelle e anticonformista si fece interprete della tendenza underground, nata alla fine degli anni Sessanta, dando vita ad una comunicazione di rottura e di provocazione, distante dai canoni imposti dallo Stile Svizzero. Ogni segno, ogni carattere utilizzato o la sua crenatura, tutto viene attentamente studiato ed ha uno scopo, persino quelli che sembrerebbero refusi sono in realtà scelte stilistiche. L’audace noisy graphics (grafica rumorosa) di Neville nasconde dunque un lavoro di progettazione meticoloso e organizzato accuratamente. Traendo inspirazione dalle avanguardie del passato e dal movimento Punk di fine anni Settanta, Neville Brody partecipò alla rivitalizzazione del graphic design, castrato dal rigorismo modernista, attribuendogli un nuovo ruolo: non più semplice cornice discreta e pulita, neutro contenitore, ma mezzo di comunicazione che partecipa insieme al contenuto alla resa del messaggio. Contenuto e forma cooperano all’unisono dando adito al mantra di McLuhan (1911-1980) secondo cui “il medium è il messaggio”.

in alto: Neville Brody (Londra, 1957).

Nato il 23 aprile del 1957, Neville crebbe nel Southgate, un quartiere a nord di Londra situato tra il vicino West End di Londra con le sue sgargianti illuminazioni al neon, e la pianeggiante contea di Hertfordshire. Durante gli anni scolastici, Neville Brody studiò arte a livello avanzato, secondo l’approccio estetico delle Belle Arti. «Non ricordo momenti nella mia vita in cui avessi intenzione di fare altro. Sin da quando ho coscienza di me, ho cercato di fare arte o pittura»1. Di conseguenza, nel 1975, la sua vena artistica lo condus-

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se a frequentare un corso base di Belle Arti all’Hornsey College of Art, un tempo famoso per le sue agitazioni di fine anni Sessanta (in seguito, unito all’Enfield Technical College e all’Hendon Technical College, assume il nome di Middlesex Polytechnic, infine divenuta l’attuale Middlesex University). Neville ebbe la sensazione di trovarsi in un ambiente chiuso ed inibitorio poiché l’istituto non lasciava spazio a dissenso, trasgressione e sperimentazione, tanto che nel tempo non era emerso alcun movimento studentesco. L’Hornsey College dopo aver contrastato le agitazioni situazioniste del 1968 si era riservato esclusivamente alla formazione degli studenti con l’unico obiettivo di dare loro un eccellente livello di preparazione. L’aria che si respirava nell’ambiente non era adatta a sviluppare quei concetti alternativi che fermentavano nella mente di Neville Brody. Sentiva che il mondo delle Belle Arti era divenuto elitario interessandosi solo ad un mercato specifico d’esposizione; l’Hornsey College non aveva fatto altro che contribuire ad alimentare in lui questa sensazione. Brody mirava ad altri scopi che la semplice conoscenza della tradizione delle Belle Arti, era più interessato a comprendere le immagini quotidiane che lo circondavano: percependo una graduale

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alienazione della figura umana all’interno della comunicazione di massa, voleva comprendere il processo di comunicazione dell’arte commerciale, svelando il meccanismo ingannatore, stravolgendolo. Desiderava creare una nuova forma d’arte popolare più personale e meno invadente, riuscendo comunque a rapportarsi ad un pubblico ampio da rendere consapevole e attivo. «A questo punto feci una grossa scelta, se continuare nelle Belle Arti, oppure intraprendere la Grafica. Sentivo che le Belle Arti fossero divenute elitarie e avrebbero richiamato solamente un mercato d’arte specifico; il mio periodo alla Hornsey non fece nulla per dissipare questa sensazione, così pensai che la Grafica avrebbe offerto possibilità migliori. Pensai “perché non puoi portare un approccio da pittore all’interno del mezzo stampato?”. Volevo rendere le persone più consapevoli piuttosto che meno, e con il design che iniziai a produrre, ricercavo l’idea di un design che rivelasse e non nascondesse.»2 Nell’autunno del 1976, Brody intraprese al London College of Printing (LCP) un corso universitario di 3 anni in grafica. Qui girava voce che il college sfornasse persone in grado di scrivere manualmente una pagina di testo che apparisse come stampata a macchina – diversamente dagli appariscenti graffiti che coloravano il sottopassaggio dalla stazione metropolitana al college. Ma sebbene l’LCP desse un’eccellente preparazione al mestiere, Brody sentiva di trovarsi in un ambiente repressivo e deleterio. I suoi insegnanti accusavano il suo lavoro di essere “non commerciale”, ancora una volta preferendo strategie economiche “sicure” alla sperimentazione. Intanto, nel 1977, il Punk Rock stava iniziando ad avere grande effetto sulla vita di Londra e ciò gli fornì il giusto catalizzatore per dare vita alla sua idea di design grafico. «Andai all’LCP perché aveva fama di essere il college di graphic design più duro in Europa, non duro nella difficoltà, quanto nella completezza. Sentivo che se volevi reagire a qualcosa, dovevi impararla totalmente, ma l’LCP non mi stava dando nulla se non dolore. Il punk mi prese velocemente, e mi diede la sicurezza di cui avevo bisogno. Ciò che fece davvero questo fu Pink Flag degli Wire, e in particolare ciò che dicevano allora – che dovresti inseguire un’idea, farlo, stop, poi andare alla successiva.»3 Completò gli studi universitari, assecondando il più delle volte i dettami didattici, totalmente distanti dai suoi ideali, consapevole che i suoi lavori avrebbero dovuto prendere una piega diversa ogni qual volta che risultavano, invece, efficienti per gli insegnanti. La sua insoddisfazione per la lezione universitaria fu compensata dalla carica esplosiva del movimento Punk contemporaneo e dall’interesse per le avanguardie storiche, in particolare Dadaismo, Futurismo e Costruttivismo. Come il Dadaismo, Neville nutriva il bisogno di sviluppare un’arte di pura invenzione, che si allontanasse dagli schemi tradizionali e

nella pagina precedente: N. Brody, logotipo personale, 1987. El Lissitzky, carta da lettera, 1920 ca. in alto: N. Brody, “Torchsong”, pubblicità per rivista, 1984.

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in alto: A. Rodchenko, Pro Eto, copertina, 1923. N. Brody, titolo per The Face, 1985. nella pagina seguente: N. Brody, Just like Everybody, cover per 23 Skidoo, 1987.

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trovasse forme espressive nella varietà di materiali e tecniche. Ne condivide l’intenzione di stimolare sensazioni pure e dirette, l’insoddisfazione (che confluisce in un rifiuto del sistema artistico) per gli ideali della società contemporanea, il costante tentativo di creare un design nuovo coincidente con la vista stessa e non separato da essa, qualcosa che fosse frutto dell’esperienza personale e non un sempre stimolo dettato dall’emozione. Il futurismo influenzò il lavoro di Brody più per la sua sperimentazione tipografica che per la sua filosofia, rappresentando un modello di progettazione pro-tecnica. I futuristi abbracciavano le nuove tecnologie dell’epoca e rappresentavano la società moderna attraverso concetti di dinamismo e ritmo, con aggressività comunicativa, rompendo le regole convenzionali di arte e comunicazione. Allo stesso modo, accogliendo tecniche di progettazione contemporanea, egli sperimentò un approccio innovativo: come i futuristi sostenevano il principio delle parole in libertà come strumento di comunicazione, Brody si allontanò dalle norme verbali e visive, applicando alla tipografia concetti che pittori e scultori applicavano alle altre arti, come ad esempio le linee di forza e l’energia dinamica. I suoi Dirty Faces, rappresentazione della natura fluida e metamorfica del carattere digitale, con il loro caos comunicativo altamente espressivo, ricordavano le prime poesie visive (Apollinaire, Mallarmé) e la scrittura di futuristi e dadaisti, comunicando anche la carica rivoluzionaria delle sperimentazioni Punk degli anni Settanta. Un altro stile che ebbe grande influenza sul lavoro di Neville Brody fu il Costruttivismo, soprattutto nei fotogrammi di Laszlo Moholy-Nagy (1895-1946) e nelle sperimentazioni tipografiche di Alexander Rodchenko (1891-1956) ed El Lissitzky (1890-1941). Brody apprese da Moholy-Nagy che la comunicazione non doveva essere subordinata a valori estetici assunti a priori: i caratteri, ad esempio, non dovevano essere costretti all’interno di una forma prestabilita. Altro concetto importante che accomuna i due artisti era legato alle capacità espressive che poteva raggiungere la tipografia, accogliendo i nuovi mezzi di composizione: bisognava adeguare la comunicazione tipografica alla nuova epoca tecnologica senza rifiutare l’innovazione. Inoltre, la nuova grafica doveva insistere su alcune strategie compositive: si doveva basare sul bilanciamento dei contrasti tra i vari elementi visivi, il colore, lo spazio, il verticale, l’obliquo e l’orizzontale, il multicolore con il grigio. A Rodchenko, Brody deve l’abilità di porre in relazione perfetta l’immagine fotografica e la tipografia, integrandole in maniera equilibrata: servendosi della variabilità delle dimensioni del carattere, dell’uso di immagini e di forme simboliche, comunica una narrazione documentaria di tutta l’informazione, fornendo al mes-


saggio una perfetta immediatezza. Neville riconosce di aver ricevuto influenza anche da Pioneers of Modern Typography di Herbert Spencer (1820-1903), e dal lavoro fatto dalla rivista Campo Grafico durante gli anni Trenta – specialmente dal designer Max Huber (1919-1992). La sperimentazione che Campo Grafico fece nel mezzo stampato divenne ancora più espressiva se ne si considera il contesto. Attilio Rossi, l’editore della rivista dal 1933 al 1935, scrisse più tardi: «Fu a nostro vantaggio che rappresentammo una precisa e cosciente etica in avversione al Fascismo. Eravamo contro l’idea di stampa moderna, un mezzo di comunicazione altamente efficace, usato per diffondere menzogne»4. Appena diplomato, dopo una breve quanto odiata parentesi alla Stiff Record, diventa autore della grafica di gruppi famosi come i Cabaret Voltaire e i 23 Skidoo, e come art director di etichette discografiche come la Fetish Record cura la linea grafica di album di artisti punk indipendenti. Nel 1981 diventa art director della rivista The Face, portando la sua sensibilità punk-ribelle e le sue innovazioni grafiche ad una rivista orientata al consumatore, modificando

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l’orientamento artistico, l’immagine e le font utilizzate: «Non avevo mai pensato nemmeno nei miei sogni più audaci di lavorare nelle riviste, mai. Ho sempre avuto a che fare con le immagini – con il carattere tipografico, ma come parte integrante del processo di produzione dell’immagine. D’un tratto, con The Face, mi dovetti confrontare con le questioni tipografiche. Nei miei primissimi lavori per la rivista, stavo ancora cercando di orientare il design attraverso l’uso dell’arte figurativa, inserendo disegni realizzati a mano […] Di colpo ero costretto a cercare di ottenere lo stesso impeto emotivo attraverso l’uso della tipografia. Odiavo i caratteri tipografici. Provavo un senso di frustrazione, perché stavo cadendo nella trappola di usare i tipi come chiunque altro. Pensavo che la tipografia fosse un campo noioso in cui lavorare, sovraccarica di tradizioni che respingevano il cambiamento.»5 Il carattere deve essere, quindi, usato per scatenare una reazione e un sentimento interiore e perciò deve essere adattato alla sensibilità del proprio tempo. Pertanto, le regole create da un’altra generazione per un diverso ordine sociale devono essere modificate per il presente. Brody parla di tipografia organica come qualcosa sempre in evoluzione e in cambiamento. Nei lavori di Brody il segno si libera di ogni sua sovrastruttura per diventare astrazione e gesto, immagine pura. Per quanto riguardava l’uso del carattere, introdusse, ad esempio, disegni fatti a mano per ottenere lo stesso effetto di immediato coinvolgimento emotivo che provoca un’immagine. La disinvoltura con la quale gestiva i caratteri gli procurò molta fama e ammirazione nel pubblico, e com’era logico che accadesse, il suo lavoro fu richiesto soprattutto dalle riviste di tendenza. Egli dà il merito al suo metodo di lavoro all’assenza di studi nell’ambito tipografico, dichiara infatti: «Al college, avevo rifiutato gli studi sulla tipografia, praticamente senza pensarci nemmeno. Trovavo la materia incredibilmente noiosa, e diedi per scontato fosse una pratica per la perfezione intellettuale, non una per la comunicazione emotiva. Mi spaventava l’utilizzo dei caratteri quindi, perché mi sentivo – e continuo a sentirmi per diverse ragioni – totalmente incompetente nella tipografia. Poiché non ho ricevuto l’insegnamento tradizionale, mi sento come se, in qualche modo, non fossi un vero tipografo. Ma questo è stato anche un vantaggio – non sono stato legato ad alcuna tradizione. Quando iniziai a lavorare a The Face, non avevo alcun rispetto per le tradizioni tipografiche, perché non ne capivo nulla. Ma capivo quello che mi stava intorno – provavo ammirazione per la tipografia di dadaisti, futuristi, e Rodchenko.»6 The Face fu nominata “La Bibbia degli anni Ottanta”, un manuale di stile da cui trarre esempio ed ispirazione. L’estremo talento di Neville Brody gli permise, in seguito, di lavorare come grafico e art director per altre riviste come New Socialist, City Limits, Lei, Per Lui, Actuel, Arena e di curare il rinnovamento della grafica dei giornali inglesi The Guardian e The Observer. Nel 1988 la casa editrice Thames&Hudson pubblicò la prima delle due monografie di Neville Brody, The Graphic Language of Neville

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Brody che diventa libro best seller di grafica in tutto il mondo. Insieme alla pubblicazione della monografia, venne allestita una mostra itinerante dei suoi lavori al Victoria and Albert Museum, attirando più di 40.000 visitatori prima di fare il tour in Europa e Giappone. Nel 1989 co-fondò con il typedesigner tedesco Erick Spiekermann (1947) la fonderia digitale FontShop e nel 1990 creò il progetto Fuse. Quest’ultima si presenta come un “nuovo medium per mettere in risalto le nuove possibilità della tipografia digitale” e offrire una valvola di sfogo ai designer che intendono sfidare le tradizionali regole che governano forma e funzione della tipografia. Egli indaga, quindi, non l’evoluzione della tipografia pre-digitale, ma il modo in cui i caratteri digitali vengono ad assumere configurazioni iconiche sempre più cangianti. Ne «la rivista del futuro – com’è stata battezzata Fuse – forma e sagoma sono molto più importanti di grazie e dettagli tipografici»7. Nel 1994 fondò il Research Studio che in breve tempo acquisisce grande rilevanza in campo grafico, diventando punto di riferimento e fonte per chiunque lavori nel graphic design.

nella pagina precedente: N. Brody, New Order, copertina The Face, 1983. N. Brody, Vive, copertina, 1985. N. Brody, Photography as Performance, poster, 1986. in alto: N. Brody, Seven Songs, cover per 23 Skidoo, 1987.

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Research Studios è una rete di studi grafici che si espande in tutto il mondo, con uffici a Londra, Parigi, Berlino, Barcellona e le sedi di rappresentanza sono a New York e Tokyo. Il primo studio fu fondato a Londra nel 1994 da Neville Brody con il socio in affari Fwa Richards. Da allora molti graphic designer hanno lavorato nello studio di Londra. Alcuni di loro hanno persino stabilito studi che ora fanno parte della rete di Research Studios. Per esempio nel 2001, Lionel Massias aprì il Research Studios di Parigi e Sandra Steinebrunner, a quel tempo direttore di produzione a Londra, entrò a far parte dello studio di Lionel. Nel 2002 Jason Bailey e Daniel Bork, ex designer senoir allo studio di Londra, si trasferirono in Germania e aprirono il Research Studios di Berlino. Dopo aver avviato lo studio di Parigi, anche Sandra Steinebrunner si unì a loro e tuttora gestisce il Research Studios di Berlino. Research Studios si occupa della grafica e della comunicazione visiva, dalle singole commissioni alle strategie più complesse di campagne globali. Offre valide e diversificate competenze e una profonda consulenza, tenendo in considerazione le esigenze e servizi del cliente, che va dalle multinazionali alle imprese locali. L’agenzia è rinomata per la sua particolare e ineguagliabile capacità di inventare linguaggi visivi applicabili a diversi settori, dall’editoria alla cinematografia. Ha lavorato anche per il packaging di prodotti, si è occupata di web design per clienti quali Kenzo e BBC, di identità aziendali per clienti quali Homechoice e di grafica su schermo per clienti quali Paramount Studios, produttori dei film della serie Mission Impossible. Tra gli altri clienti annovera Don Perignon, Nike, Adidas, Macromedia, Disney, Sony. Sempre nel 1994 esce la sua seconda monografia The Graphic Language of Neville Brody 2 che raccoglie tutti i lavori dopo il 1988. Nel 2006 rinnova la linea grafica del quotidiano The Times ideando per l’occasione un nuovo font, il Times Modern che sostituisce l’originario Times New Roman, utilizzato dal 1932. 1. N. BRODY, cit. Jon Wozencroft, The Graphic Language of Neville Brody, Thames and Hudson, Londra 2001, p. 5. 2. N. BRODY, ivi, p. 5. 3. N. BRODY, ivi, p. 5. 4. A. ROSSI, cit. in Campo Grafico, Electa Editrice, Milano 1983. 5. N. BRODY, ivi, p. 15-18. 6. N. BRODY, ivi, p. 18. 7. N. BRODY, cit. Jon Wozencroft, The Graphic Language of Neville Brody 2, Thames and Hudson, Londra 2001, p. 30.

in alto: N. Brody, A Report from the Bunker with William Burroughs, copertina,1982. a lato: Dalla copertina di JON WOZENCROFT, The Graphic Language of Neville Brody, Thames & Hudson, 2001. nella pagina seguente: N. Brody, City Limits, copertina n.118, 1984.

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Neville Brody logotipi neo-costruttivisti logotipo, 1985-86 Parecchi loghi di Neville Brody degli anni ottanta sono caratterizzati da forme geometriche e impatto visivo riconducibili a quelli del Costruttivismo russo. Ăˆ il caso della copertina del CD Parliament (1985), simile ad uno scudo araldico con lettere modulate geometricamente; della copertina del cd CD Go-Go (1985) che presenta la triade cromatica costruttivista (rosso, bianco e nero) nonchĂŠ un lettering proiettato in diagonale che richiama la dinamica di El Lissitzky; della testata logo della rivista laburista New Socialist (pagina

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accanto) con caratteri disegnati da Brody. Ancora, il logo Red Wedge (1985), che rappresenta una piramide rovesciata tra due cubi, fa chiaro riferimento sin dal nome stesso al cuneo rosso del celebre poster di El Lissitzky, Colpisci i bianchi col cuneo rosso (1920), che presenta due figure geometriche elementari cariche di forte simbolismo politico: il cuneo rosso della Rivoluzione e il cerchio bianco delle forze zariste (figura in basso a sinistra).


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Neville Brody The Face 1985-86 The Face è una delle riviste più imitate negli anni ottanta, divenuta icona del ventesimo secolo. Lo stile che presenta Brody è conosciuto col nome di noisy graphics (grafica rumorosa) o eclettismo post-punk o ancora manierismo eccentrico. Ma nulla nella pagina era lasciato al caso, ogni singolo segno serviva a cercare una risposta emotiva o a dare un’espressione figurativa dell’idea. La testata presenta la A-triangolo isoscele che svolge la funzione di calamita percettiva; da notare anche il titolo che viene risaltato tramite un aumento della crenatura (una trovata già introdotta da Weingart). Gli stessi titoli degli articoli presentano caratteri sui generis. Spesso, infatti, Brody realizzava interi alfabeti che corrispondessero emotivamente al contenuto dell’articolo, caratterizzati da un mix di costruttivismo e suggestioni contemporanee (moda, cinema, musica, ecc.). Come dichiara Brody stesso, il contenuto viene a coincidere con lo stile. Tra tutti, spicca l’articolo su Andy Warhol (n.59, marzo 1985). La grande W di Warhol è in realtà la M ritagliata e capovolta dell’articolo su Madonna del numero precedente. Insieme alla grande “M-W” furono ritagliati parte del testo sottostante e addirittura un pezzo della foto di Madonna. Sebbene a molti lettori questo apparse come un errore o uno scherzo, era in realtà un modo per riflettere la maniera di Warhol di adoperare materiali riciclati. Allo stesso modo la ripetizione della figura di Warhol rimanda alla serialità delle sue produzioni artistiche, da pensare ad esempio alle Marilyn, mentre il cerchio e il segno “+” alludono sottilmente alla sfera sessuale di Warhol.

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Neville Brody Fuse 1991 Nel 1991, Jon Wozencroft (1958) e Neville Brody lanciarono un esperimento unico: Fuse, una pubblicazione annuale presentata in una scatola di cartone contenente una rivista stampata con articoli relativi alla cultura tipografica, un floppy disk con quattro font e quattro poster che utilizzavano quegli stessi font. Nel bel mezzo della rivoluzione della information technology e appena prima di internet per le masse, questa produzione è stata una pietra miliare per il graphic design contemporaneo e una nuova forma di publishing (si sarebbe detto multimediale a quel tempo). Fuse venne descritta da Creative Review come la “rivista del futuro”, riferendosi con questo appellativo all’idea che la forma è stata progettata specificatamente per il contenuto, che a sua volta era uno strumento per la creazione di nuovi contenuti potenzialmente disparati. Ogni uscita aveva un tema specifico – Codes, Religion o Por-

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nography – attorno al quale venivano creati font, articoli e poster. L’alfabeto ha iniziato così ad essere considerato – insieme con la tastiera del computer – come un medium creatore di senso digitalmente codificato e l’antologia rende omaggio a FUSE agendo come un’efficace forma di tutela di quel seminale approccio. A parte i due redattori sono stati coinvolti diversi radicali innovatori dell’epoca, come Peter Saville (1955), David Carson, Erik Spiekermann, il collettivo Tomato e molti altri designer appassionati nel dar vita a nuove finestre concettuali tra la macchina e la pagina stampata. L’estetica degli anni novanta è facilmente riconoscibile – si pensi ai flyer techno ad esempio. Nel 2012 è uscita una retrospettiva edita da Taschen contenente i 20 numeri di Fuse inclusi 10 poster in formato A2 e i font scaricabili.


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Neville Brody Research Studios 1994 Nel 1994, insieme al socio d’affari Fwa Richards, Brody avviò i Research Studios a Londra. Da allora gli studios hanno aperto a Parigi, Berlino e si pianifica di aprire un ulteriore studio a New York. La clientela proviene da ogni media, dal web alla stampa, dal retail e l’environmental design alla grafica animata ed il title design. Tra i clienti più rinomati, nel 2000 Kenzo si è rivolto agli studios per realizzare il sito web di un profumo (ancora senza nome) che stavano creando. Dall’avvio della collaborazione, lo studio finì per occuparsi anche di altri aspetti del prodotto. Ri-disegnarono la confezione del nuovo profumo, realizzarono la pubblicità per la stampa e aiutarono inoltre Kenzo a dare un nome al suo prodotto: Flower by Kenzo. Questo è divenuto il prodotto più venduto della compagnia da oltre 10 anni, nonché il profumo più venduto in Francia nel 2000. Un’altra parte importante del loro lavoro per Kenzo Perfumes è stato il design degli arredi dei negozi in collaborazione con Matthias Bengtton e Sam Buxont.

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Neville Brody Blur carattere digitale, 1992 Definito un “bastone geometrico per quanto con aspetto indistinto”, la Fontshop International, che lo produce, lo chiama invece “amorfo”. Le forme fluide del Blur corrispondono alla fluidità della scrittura digitale, nonché la liquidità del supporto su cui questa si struttura: lo schermo. Le curve morbide del Blur, aliene dalle tradizionali proporzioni della tradizione tipografica, tendono a lasciare cogliere un’espressione figurativa. Sebbene non si possa dunque trovare la perfezione del dettaglio tipografico di un Didot o di un Garamond, il carattere di Brody allude alla velocità con cui le informazioni si configurano sui monitor o con la quale le immagini si susseguono sullo schermo. «Ecco, appunto, la ragione della sfocatura del carattere Blur che avrebbe fatto, sì, inorridire Monsieur Garamond, ma che oggi affascina i ragazzini per i quali il massimo interesse è lo schermo di un telefono cellulare su cui inviare e leggere messaggi sms»1. Jon Wozencroft si domanda: «Ora che la tipografia è intrattenimento, nell’arte e nella pubblicità, quale ruolo dovrebbe avere? Trasmettere un’emozione? E in questo caso, quale emozione? E si arriverà a liberarla fino a sviluppare un linguaggio astratto, com’è accaduto novant’anni fa con l’arte moderna?»2. 1. Cfr. C. CASTELLACCI e P. SANVITALE, Il tipografo mestiere d’arte, il Saggiatore, Milano 2004, p. 30. 2. J. WOZENCROFT, The Graphic Language of Neville Brody 2, Thames and Hudson, cit. p. 50.

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DAVID CARSON Pochi grafici hanno incarnato lo stile di un intero decennio come ha fatto David Carson per gli anni Novanta.

in alto: David Carson (Corpus Christi, 1952).

«Credo molto nell’emozione del design, e al messaggio che viene trasmesso prima che qualcuno cominci a leggere, prima che riceva il resto delle informazioni; qual è il responso emozionale che ha di fronte al prodotto, la storia, il dipinto, qualunque cosa sia. Questo aspetto del design è ciò che mi interessa maggiormente.»1 Nato nel 1955 in Texas, sin da piccolo, David ha una vita frenetica vivendo, ancora prima di iscriversi al college, in Florida, Ohio, Colorado, Puerto Rico, North Carolina, California e Indie Occidentali. Alla fine degli anni ’70, David, divenuto surfer professionista, si classifica al nono posto tra i surfer migliori al mondo. È, invece, del 1977 la sua laurea in Sociologia all’Università di San Diego con il massimo dei voti, come preme ad egli stesso sottolineare. Negli anni successivi intraprende la carriera di insegnante. I suoi unici studi relativi al mondo della grafica risalgono ad un workshop di graphic design nel 1980 della durata di due settimane all’Università di Arizona e, nel 1983, ad un workshop di tre settimane tenuto in Svizzera che poteva annoverare tra gli insegnanti Hans-Rudolf Lutz. Quando nel 1982 chiuse il primo magazine a cui lavorò (Action Now), David tornò ad insegnare sociologia. Poco dopo aver ottenuto il lavoro part-time gli venne, però, offerta la possibilità di curare il design di un mensile di skateboard di imminente uscita Transworld Skateboarding, fu lo skater-artista Stacy Peralta (1957) che propose Carson per il lavoro. David se ne occupò (dal 1983 al 1987) nel tempo libero, dopo la scuola, la sera e nei fine settimana. Si trattava di una rivista amatoriale, con oltre 200 pagine a colori sovvenzionate perlopiù dalla pubblicità, contuttociò l’editoriale – testi e immagini – fu in gran parte prodotto dagli skater. «È stata una grande occasione per sperimentare»2, dice il designer, che fu capace di accontentare un pubblico desideroso di nuove idee impegnandosi a non ripetersi mai nel design di nessuna prima di copertina.

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In questi anni maturò il suo atteggiamento dubbioso verso ogni preconcetto formale. Dal 1989 al 1991, Carson si occupò della rivista Beach Culture, definita 'Il più grande messaggio progressista in bottiglia sin dalla Seconda British Invasion' dal New York Times. Sebbene per alcuni il titolo Beach Culture potesse essere un ossimoro, in realtà, il magazine fu uno dei più innovativi della storia, a giudicare dai suoi circa 150 design awards, insieme al mix radicale di contenuti del magazine che conquistò fanatici sostenitori ma lasciò anche molti (pubblicitari inclusi) disorientati, se non fortemente irritati. Inizialmente, Carson fu coinvolto in un progetto indipendente, l’art direction di Surfer Style, una pubblicazione annuale di Surfer, che non era altro che un semplice catalogo di pubblicità di vestiti sostenuto dall’advertorial. Tuttavia, l’editore Neil Feineman e Carson erano di diverso avviso: cambiarono il nome, il contenuto, la periodicità e riuscirono a lanciare Beach Culture in un’iniziale ondata di recessione del sovrareddito. La rivista non riuscì a reggere: si andò impoverendo uscita dopo uscita, arrancando per sei pubblicazioni nell’arco di due anni prima di chiudere definitivamente. In questo arco di tempo, tuttavia, Feineman fece da pioniere ad un’innovativa miscela di ottime capacità redazionali su cultura anticonformista, utilizzando il surf come metafora piuttosto che come modello fisso per l’editoriale. Tale libertà e ispirazione, incoraggiarono Carson ad esplorare ulteriormente le potenzialità della comunicazione della stampa, puntando ad un pubblico che cercasse simili stimoli. Erano là fuori, ma dovevano lavorare duro per trovare la rivista, dato l’interesse degli editori nel soddisfare i più tradizionali pubblicitari e lettori. Carson non era, tra l’altro, ignaro delle difficoltà finanziarie del magazine. «Ero senza un soldo. Non potevo permettermi un’auto», racconta, che è più o meno l’equivalente di un Californiano bianco del sud senza gambe. «Prendevo il treno per arrivare all’ufficio di Beach Culture e poi camminavo per più di un’ora e mezza per essere lì»3. Successivamente alla chiusura di Beach Culture, venne chiesto a Carson dalla società madre, Surfer Publications, di occuparsi del suo titolo di bandiera. Il re-design gli permise di applicare il suo metodo radicale ad una rivista piuttosto conservatrice, strappando via le convenzioni compassate di un titolo vecchio 33 anni che muoveva su uno stile anni ’70. Mentre David dovette combattere per fare adottare le sue idee all’epoca, bisogna notare come elementi del suo lavoro da allora furono copiati durante la stampa del magazine. Per tutte le novità della sua direzione artistica, gli editori dovettero accettare la capacità di comprensione che il designer aveva per la materia trattata: i suoi anni da surfer professionista gli diedero credenziali incontestabili per comprendere la tematica affrontata. Nel 1992, da una sede situata a Los Angeles, Marvin Jarrett lanciò Ray Gun (nome che fa riferimento a un verso in una canzone di David Bowie e, involontariamente, legato al cambiamento di nome di New York proposto agli inizi degli anni ’60 dall’artista Claes Oldenburg).

nella pagina precedente: D. Carson, Beach Culture, pagina, 1990. in alto: D. Carson, Transworld Skateboarding, pagina, 1986. D. Carson, Transworld Skateboarding, copertina, 1985 ca.

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Originariamente Jarret assunse il team che lavorò in Beach Culture composto da David Carson e l’editore Neil Feineman, anche se Feineman abbandonò dopo una manciata di numeri. La rivista, a cadenza mensile, non diede vita soltanto ad una nuova opera di musica e stile (music+style) attraverso il testo scritto, ma attraverso la sua direzione artistica portò un contenuto rivoluzionario: oltre alla singolare idea di Carson sul layout, diede spazio ai più grandi illustratori e fotografi, oltre a fornire una piattaforma di lancio per i nuovi talenti. Un’importante sezione fu Sound of Print, dalle 6 alle 8 pagine ogni pubblicazione riservate ad illustrazioni dei lettori o testi di canzoni: in tale maniera, Raygun ebbe vita in qualità di rivista popolare di belle arti, insieme alla parte dedicata alla scena musicale. La forza della direzione artistica come contenuto sfida la nozione di design come mera forma, come un contenitore di immagini e parole. L’aspetto di Ray Gun non fu uno stile: fu il cuore del contenuto della rivista. Il magazine crebbe rapidamente fino ad una circolazione di oltre 120.000 copie, con distribuzione internazionale. USA TODAY tuonò: 'Può indurre nuovamente i giovani a leggere'. «Non ho avuto un insegnamento classico nell’ambiente. Nel mio caso non ho mai imparato cose che non mi servissero effettivamente. Facevo solo le cose che per me avevano senso. In realtà stavo solo sperimentando. Quindi quando la gente cominciò ad arrabbiarsi io non capii assolutamente il perché. Dicevo “qual è il problema? di che state parlando?” e fu solo parecchi anni dopo che qualcuno mi spiegò, probabilmente meglio di come lo posso spiegare ora, che praticamente c’era questo gruppo che investiva tempo a cercare di organizzare le cose, e a portare avanti un sistema...e vedeva me arrivare e buttare tutto dalla finestra. Cosa che posso anche avere fatto, ma non ho cominciato così e non era certo il mio piano. Solo molto dopo ho imparato termini come Modernismo e questo e quello. La rivista Ray Gun era veramente molto sperimentale, era completamente sperimentale, provavamo un sacco di cose per ogni uscita e molte di queste funzionarono...e molte altre no. Non guardavo mai le prove di stampa, quindi spesso c’erano errori, erroracci su cui qualcuno scriveva interi trattati perché usavo caratteri neri su una foto di stivali neri, e roba così.»4

in alto: D. Carson, Beach Culture, copertina, 1990. D. Carson, Ray Gun, copertina, 1994. nella pagina seguente: D. Carson, Beach Culture, copertina, 1990.

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“Non si può non comunicare” è il credo di David Carson che cerca di esplorare l’intera gamma di espressione possibile all’interno della pagina. Il lavoro si è spostato ad un’integrazione di parola, immagine e medium, cercando di forgiare una nuova modalità di lettura lungo successioni di pagine. Dall’ancora non maturo lavoro per Transworld Skateboarding al più recente Ray Gun, vi è un’evoluzione da un unico visual e piena libertà verbale, ad una posizione di, talvolta, astrazione grafica. Sempre più segni e colori esistono non come elementi che costituiscono o compongono immagini e frasi, ma producono direttamente emozione come segni e colore. Essi non sono metafore, ma sembrano aver vita oltre una spiegazione razionale.


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in alto: D. Carson, Hot for Teacher, doppia pagina da Raygun, 1994.

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Questo tipo di approccio può esser letto come tendente alla condizione che l’artista Mark Rothko (1903-1970) aveva in mente quando affermò: «Non sono interessato alla relazione tra colori, forme o qualunque altra cosa… Mi interessa solamente esprimere le semplici emozioni dell’uomo – tragedia, estasi, sventura e così via…Quelli che piangono di fronte ai miei quadri, fanno la stessa esperienza religiosa che ho fatto io mentre li dipingevo…E se tu… sei scosso soltanto dalle loro relazioni tra colore, allora non hai capito!»5. Le forme astratte, celebrandone il processo, si connettono anche al lavoro di pionieri come lo stampatore tedesco Hendrik Werman (1982-1945), o i dadaisti, soprattutto Kurt Schwitters (1887-1948). Tuttavia, mentre loro producevano principalmente un’unica opera o delle edizioni limitate, queste pagine vengono presentate in un medium di comunicazione di massa. Sebbene Carson non reclami di possedere una grande preparazione, essendo maggiormente preoccupato a lavorare in maniera intuitiva, il suo operato risuona di riferimenti all’arte. Questa somiglianza non è voluta: il suo metodo sembrerebbe voler rifiutare fonti, nel caso in cui ne fossero percepite. Eppure, allo stesso modo secondo cui non si può non comunicare, non puoi fuggire dalle condizioni di questo luogo e tempo. Di fronte all’alfabetizzazione visiva del pubblico, e armato degli strumenti di un cambiamento radicale nella tecnologia di stampa che ha fuso testo e immagine in un solo linguaggio digitale e reso il designer il compositore tipografico, fu a nostra disposizione l’opportunità di gettare via le convenzioni insite nella produzione di riviste e creare design al confine della nostra cultura visuale. Il fatto che l’edicola non sia satura di queste pubblicazioni radica-


li, sperimentali, sempre mutevoli non è semplicemente dovuto al conservatorismo degli editori. Le riviste per cui Carson ha lavorato non sono della o per la massa totalitaria: sono, piuttosto, prodotti destinati a particolari sotto-culture. Sebbene ciò, sfidano le aspettative dei pubblicitari, fondamentali per il successo di una rivista. La dipartita di Beach Culture dopo sei numeri sempre più scarni non fu solamene dovuta al guadagno ottenuto, bensì gli inserzionisti rimasero destabilizzati dall'estremo mix editoriale e al modo in cui esso veniva espresso. Anche Ray Gun dovette lavorare duro a volte per trovare inserzionisti che si sentissero a loro agio con la sua posizione irremovibile, nonostante una tiratura che sarebbe sembrata valesse la pena raggiungere. Ma questa freddezza da parte del mercato americano sembrò sciogliersi, a giudicare dalla crescita dei clienti inserzionisti nello studio di Carson. «Qualche anno fa mi era stato chiesto di fare una conferenza a Sacramento. Il tema era il coraggio, e mi hanno chiesto di parlare di quanto sia coraggioso essere un grafico. E mi sono ricordato di questa foto di mio padre, che collaudava gli aerei, e mi aveva detto che quando firmi per diventare collaudatore, ti dicono che c’è dal 40 al 50% di possibilità di morire sul lavoro. Rispetto alla maggioranza dei lavori è molto alta come percentuale […] Mi sono messo a pensare ad alcune delle decisioni che devo prendere del tipo: serif invece di san-serif. E per la maggior parte non mettono a repentaglio la vita. Perché non sperimentare? Perché non divertirsi un po’? Perché non mettere un po’ di sé stessi nel lavoro?»6 In tutte queste riviste Carson ebbe il ruolo di art director e designer, essendo responsabile non solo del layout delle pagine, ma supervisionando anche la commissione del materiale grafico e stabilendo ogni regola nel design delle pubblicazioni. Certamente, è l’assenza di regole che contraddistingue queste pagine. Molte delle strutture conosciute e pratiche di progettazione di riviste sono state rimosse o ricreate. Al posto di una griglia, la struttura sottostante su cui si basano molti layout di magazine, qui le pagine hanno una forma libera, ognuna di essa è una nuova tela su cui sono applicati caratteri tipografici e immagini. Ed invece di una limitata e costante gamma di caratteri tipografici, tendono ad essere inseriti ogni pubblicazione di Ray Gun nuovi caratteri, non come simbolo di novità ma allo scopo di trovare nuova espressione al nuovo contenuto. Invece di chiedersi “Perché cambiare?” la domanda diviene “Perché non farlo?”. E, a volte, persino cambiare è ostacolato dal limitare notevolmente la scelta del carattere, allo stesso tempo manipolandolo in maniera così espressiva che i vecchi caratteri tipografici sono visti sotto una nuova luce. Mentre la maggior parte delle riviste voleva che i suoi lettori sapessero cosa aspettarsi, sapessero dove guardare e come leggere tra la pagina, le pubblicazioni di Carson stabiliscono una differente relazione con il lettore. Nel 1995 Lewis Blackwell redasse The End of Print (La fine della stampa), successivamente ampliata nella sua seconda edizione del 2000. Essa non è soltanto una monografia di David Carson, ma

in alto: D. Carson, Raygun, copertina, 1993. D. Carson, Raygun, pagina, 1993.

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anche la più venduta della storia, che pur parlando della fine della stampa ha venduto oltre 200.000 copie ed è stata stampata in 5 differenti lingue. Da questa abbiamo fatto ampio riferimento nella stesura dei contenuti concernenti l’operato di Carson. Il titolo è dichiaratamente provocatorio: da una parte rappresenta la “fine della stampa”, intesa in questo caso come “morte della tipografia”; dall’altra parte, denuncia il nascere di un nuovo linguaggio dettato dall’influsso dei media digitali, che stanno riconfigurando la comunicazione e influenzando drasticamente anche la grafica editoriale. Michael Joyce (1954) nel suo stile di scrittura caratteristico afferma: «...quello che si sta annusando non è l’effluvio dell’inchiostro, bensì l’odore della perdita: l’odore delle torri in fiamme o dei sigari degli uomini nel salotto. Presto, per cortesia - è arrivato il momento. Siamo alla fine dell’età della stampa; il tempo del libro è finito. Il libro è un piacere oscuro come l’opera o le sigarette. Il libro è morto - lunga vita al libro»7. Fin dal titolo, Fine della Stampa, Carson ha chiarito l’obiettivo decostruzionista del suo lavoro. Il testo è stato chiamato «il colpo di grazia alla tipografia gutenberghiana». Eppure, sebbene non abbia una laurea in Grafica ma solamente in Sociologia, è stato insignito del titolo di “Maestro Tipografo” da Typography, una pubblicazione legata alla rivista Graphic di New York. Per comprendere cosa intenda egli riferendosi a “morte della tipografia” bisogna prestare attenzione al significato della parola “tipografico”. Quest’ultimo termine sta ad indicare la scrittura per tipi, ovvero la scrittura attuata per mezzo di caratteri mobili, cioè quelli in metallo. Ciò rende l’espressione “tipografia digitale” un ossimoro, così come “tipo digitale”. I caratteri su schermo non possono essere quindi considerati tipografici, bensì digitali. La stampa tipografica diviene così un sistema meccanico oggi in declino e la monografia The End of Print allude proprio a questo. Per David la tipografia è morta, ma solo quella dei tipi. Diversamente, la tipografia digitale è più viva che mai, lontana dai caratteri mobili in metallo e dalle insidie dettate dai mezzi di stampa ormai obsoleti. All’interno di The End of Print questo pensiero viene rimarcato da una lettera che l’autrice Jessica Helfand (1960) scrive alla figlia Fiona. Presentiamo a seguire un estratto:

in alto: D. Carson, poster per Microsoft, 1998.

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«Al momento si fa un po’ di confusione. Molta gente pensa che la stampa sia morta. Ma è importante chiarire una cosa: la stampa non è morta, sta solo dormendo […] “S” non è esattamente “5” e “l” non è esattamente “1”. “1 L0V3 U” non è esattamente “I LOVE YOU” […] La lettura non morirà mai […] Ma la stampa non dovrà necessariamente trasmettere le informazioni […] La stampa è rinata, risorta in modo pressoché irriconoscibile. Non si può dire che sia morta, è semplicemente mutata in qualcos’altro.»8


Anche rifuggendo il funzionalismo, così come gli eccessi di teorizzazione, Carson non è indifferente o inconsapevole rispetto alle conseguenze pratiche del suo modo di fare tipografia o impaginare. Per esempio in termini di fruibilità. Facendo riferimento a una notazione di Katherine McCoy (1945), ha ricordato in un’intervista con Design Taxi come «le cose che ricordiamo meglio sono quelle che leggiamo lentamente, o che ci richiedono un po’ di tempo»9. Possiamo quindi affermare che David Carson e chi come lui ha esplorato nuovi metodi per la comunicazione cartacea, hanno semplicemente estetizzato il punto della questione: raffigurare con la grafica il cambiamento storico dei mass media rinnovando lo stile della stampa. Il punto nevralgico, difatti, è sempre lo stesso: il design grafico deve essere un contenitore trasparente del messaggio o piuttosto divenire parte del messaggio stesso? Rimarcando il celebre motto del sociologo canadese Marshall McLuhan, anche per Carson, che ricordiamo essere prima di tutto un sociologo, e che dedicherà anche una pubblicazione a McLuhan (The Book of Probes): «il medium è il messaggio»10. Mentre molti critici hanno definito il lavoro di Carson come semplice “anarchia comunicativa”, altri come Poynor hanno centrato il punto della questione delineando il fatto che questi grafici invece di rifiutare la nuova comunicazione e preoccuparsi di difendere i vecchi stili della grafica tentando invano di farli rivivere e di combattere con armi vecchie una sorta di battaglia contro le nuove tecnologie, loro le hanno abbracciate e si sono messi a esplorarle per comprenderne le potenzialità e metterle al servizio della stampa. Il lavoro di questi grafici più che essere inteso come un lavoro di rottura dovrebbe rappresentare una giunzione, un legame con la nuova epoca che era inevitabile che si manifestasse in una forma diversa da quella in cui si è manifestato. Questo per dire che il rinnovamento stilistico di una certo tipo di comunicazione oltre che una scelta da parte dei grafici era una vera e propria necessità da parte del mezzo di comunicazione. Negli ultimi anni, Carson ha allargato il suo campo di lavoro al cinema e alla televisione, curando la regia di pubblicità e video. Ha diretto le pubblicità per il lancio di Lucent Technologies. Per il suo cortometraggio The End of Print ha lavorato con William Burroughs. Carson ha anche collaborato con il professor John Kao della Harvard Business School per la realizzazione di un documentario dal titolo Art and Discipline of Creativity (Arte e Disciplina della Creatività). La campagna mondiale del marchio Microsoft nel 1998, e la pubblicità di Giorgio Armani (Milano) in tutto il mondo sono opera sua. Ha partecipato ad altre campagne promuovendo i computer della Apple, i monitor della Samsung. Il Centro Internazionale di Fotografia (New York) ha dichiarato Carson “Designer dell’anno” per il suo uso della fotografia e del design. La rivista Print ha definito il suo lavoro “Brillante”, mentre USA Today lo ha descritto “visualmente splendido”.

in alto: Peter Spacek, logo per tavoletta da surf realizzato su richiesta di Carson. D. Carson, Emigre, copertina, 1993.

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L’American Center for Design per la sua esposizione “100 Show” del 1995 ha scelto otto pezzi tra i lavori di Carson, più di quanti ne abbia selezionati dagli altri studi di Design degli Stati Uniti. La rivista I.D. ha scelto Carson per la sua classifica dei “Designer più innovativi d’America”. La pubblicazione di graphic design Emigre ha dedicato un numero intero a Carson, l’unico designer americano che abbia avuto un tale riconoscimento nella storia della rivista. Tra i suoi clienti maggiori si contano: Fox Television, Pepsi, PackardBell, American Airlines, Kodak, US West, Ray Ban, Xerox, Individual, British Airways, Cuervo Gold, American Express, Citibank, Gannet Outdoor, Glendal Federal, Levis, Lotus Software, MTV, la Fondazione “Magic Johnson” per la lotta contro l’AIDS, Mitsubishi, Nations Bank, Nike (Europa, Asia e USA), Prince, Sony, Suzuki, Warner Bros., gli snowboard Burton e le tavole da surf Rusty.

1. D. CARSON, cit. conferenza TED 2003. 2. D. CARSON, cit. in Lewis Blackwell, The End of Print: The Graphic Design of David Carson, Laurence King, Londra 2000. 3. D. CARSON, ivi. 4. D. CARSON, cit. in Gary Hustwit, Helvetica, film-documentario, 2007. 5. D. CARSON, cit. in L. BLACKWELL. 6. D. CARSON, cit. conferenza TED 2003. 7. D. CARSON, cit. in Lewis Blackwell. 8. J. HELFAND, cit. in Lewis Blackwell. 9. D. CARSON, cit. in intervista Conversation with David Carson, http://designtaxi.com/ article/100699/Conversation-with-David-Carson/. 10. M. MCLUHAN, Gli Strumenti della Comunicazione, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 9.

nella pagina precedente: D. Carson, Ray Gun, pagina, 1994. in alto: D. Carson, Ray Gun, doppia pagina, 1994. D. Carson, NYC, poster, 1994.

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DAVID CARSON Be Young, Have Fun, Drink Pepsi réclame pubblicitaria, 1992 La scrittura di Carson è indubbiamente una scrittura metaforica, che rappresenta il contenuto del messaggio – anzi l’oggetto vero e proprio – attraverso particolari suggestioni figurative. Ricordiamo, infatti, che egli è un sociologo e condivide l’idea di McLuhan secondo cui il medium è il messaggio e che quindi il medium non è neutro contenitore, ma contribuisce ad esprimere il messaggio con la sua stessa natura. In questo caso, la disposizione e la sagoma atipiche delle parole esprimono visivamente l’oggetto in questione, in questo caso la bottiglia o la lattina di Pepsi. Questo procedimento ricorda molto le opere di Apollinaire (1880-1918) e dei poeti visivi che sfruttavano i calligrammi, piccoli componimenti poetici creati per essere guardati e contemplati oltre che per essere letti, ottenuti tramite la disposizione di parole in modo non convenzionale per creare degli effetti figurativi. È il caso de Il pleut (1916) di Apollinaire, dove le lettere sgocciolano a mo’ di pioggia, ma anche il caso di molti futuristi, dadaisti e altri avanguardisti. Si tratta di una modalità espressiva piuttosto diffusa nel Novecento, fino alle composizioni di Bradbury Thompson (1911-1995), che fa uso di righe tipografiche, non più lettere disegnate individualmente, alla maniera di Apollinaire – Rain Rain Rain (pioggia pioggia pioggia) – nelle sue Westvaco Inspirations del 1958. Così Bob Noorda (19272010) in Confezioni e impermeabili Pirelli 1960-61. Che si tratti di poesia visiva o di strategie pubblicitarie, l’intento è quello di esprimere “a parole” più di quanto queste riescano a rendere linguisticamente, una modalità perfettamente congruente oggigiorno con l’emersione di una scrittura fluida.

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DAVID CARSON manipolazioni testuali 1994-2000 I testi di Carson sono spesso “irriverenti”. Ad esempio in Raygun n.25 del 1995, un articolo contenuto all’interno continua in copertina, cosa che accade per la prima volta nella storia. Le stesse pagine di The End of Print sono un campo di sperimentazione veramente straordinario. Figurano doppie colonne diversamente dimensionate, appiccicate e sfalsate, righe scoscese, crenature esagerate, interlinee sovrapposte, parti testuali coperte da immagini e viceversa, blocchi di testi che si leggono dal basso verso l’alto, ecc. Ovviamente la presenza di queste sperimentazioni rende la lettura dei testi spesso tortuosa; ma tiene a specificare Carson stesso – il “lettore” delle sue riviste è abituato a immagini cinetiche e si compiace di cogliere la pagina con un colpo d’occhio, sgravato dal peso della lettura convenzionale. Così per quanto il testo possa essere stravolto, Carson indaga il concetto stesso di co-

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municazione, che non aderisce necessariamente a quello di leggibilità, ma spesso vi si discosta, traducendosi nella capacità di produrre sorpresa e di scuotere il lettore. La distorsione del testo ha già dei precedenti però, non costituendo quindi un fenomeno recente. Negli anni trenta, già Alexey Brodovitch (1898-1971) aveva inserito nelle pagine di Bazaar blocchi di testo non convenzionali ravvivandone le pagine. Ad esempio, si può notare la disposizione dell’articolo Paris 1935, che è figurativamente en pendant con la silhouette alla sua sinistra, o ancora di The Consensus of Opinion in cui accade la stessa cosa. Ma ormai, con la diffusione degli strumenti elettronici, la manipolazione e la conseguente distorsione del testo, è divenuta prassi diffusa. Ne sono un esempio i testi per Raut di Ales Najbrt (1962).


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DAVID CARSON tipografia “a-tipografica” 1990-94 Se già in Beach Culture il testo viene presentato con un valore marcatamente figurativo e viene adoperato maggiormente come collage pittorico che come tramite neutro della lettura, in Ray Gun si va oltre: con l’articolo su Brian Ferry (del 1994) si conduce una polemica ancora più radicale, il testo viene presentato su due colonne tipografiche del tutto illeggibili, con tanto di allineamento a bandiera a sinistra e capoverso. L’illeggibilità deriva dall’utilizzo dello Zapf Dingbat, un “carattere tipografico” puramente figurativo, dove le lettere si presentano come fossero simboli stellari, Lewis Blackwell lo interpreta come «la personale reazione di Carson al testo noioso»1, lo stesso Carson parlando dell’articolo su Ferry dichiara: «Quando lo lessi per impaginarlo era come uno dei tanti che avevo letto, era tipo “ragazzi, che palle, che noioso” mi girai tutti i miei caratteri - che all’epoca dovevano essere centinaia e centinaia e che per quello che conta lo sono ancora - non ne trovai uno che sembrava centrare la mia noia e il mio disgusto su questo articolo. E alla fine arrivai in fondo e c’era il Dingbats, che ovviamente ora è lo Zapf Dingbats ed

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è quindi letteralmente l’ultimo. E io pensavo “beh, è noioso e non vale la pena leggerlo, perché non farlo con lo Zapf Dingbats? È un carattere!”. Così impostai tutto in Dingbats, è un carattere vero, puoi selezionare tutto e farlo in Helvetica o qualcos’altro se vuoi e sarai in grado di leggerlo. Non ne varrebbe la pena, non è proprio ben scritto»2. Rudy VanderLans, uno sperimentatore al cubo, alla domanda «Cosa ne pensa di Ray Gun e della scarsa leggibilità di quella rivista?», risponde: «I caratteri sono per definizione leggibili. Se qualcosa è illeggibile, non si tratta di lettere. Non esistono lettere illeggibili e non si può parlare di illeggibilità». Ma conclude: «Non bisogna confondere la leggibilità con la comunicazione»3. E l’articolo di Carson, sebbene sia del tutto illeggibile, comunica.

1. L. BLACKWELL, I Caratteri del XX secolo, cit., p.152. 2. D. CARSON, cit. conferenza TED 2003. 3. R.VANDERLANS, Interview with Rudy VanderLans, in www. emigre.com/VanderLans.php.


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STEFAN SAGMEISTER Stefan Sagmeister, designer intrigante nonché forte motivo di ispirazione, è conosciuto per i suoi lavori spesso non convenzionali e provocatori che alterano lo status quo e indagano quale sia il ruolo del designer nella società. Uno scaltro prestigiatore stravolge la regola, spezza i confini del decoro, calpesta le tradizioni e i tabù e altera la percezione della gente. Stefan Sagmeister da tempo incarna questa figura da “cattivo ragazzo”. Il suo approccio globale e irriverente al graphic design ha cambiato la storia della progettazione degli ultimi anni, distruggendone l’estremo razionalismo, grazie all’utilizzo di cose “fatte in casa” e di elementi organici, spostando la sua ricerca estetica ai limiti del brutto. Rompendo le regole, ha istituzionalizzato un certo tipo di approccio DO IT YOURSELF che serpeggia nella progettazione da almeno quarant’anni, ma che in passato non riceveva quasi mai l’approvazione della comunità grafica, e quindi del pubblico. Il designer austriaco ha centrifugato molte delle tendenze artistiche e culturali degli ultimi decenni (dal punk alla body art) ricavandone un linguaggio visivo di grande potenza e di grande rigore compositivo (anche se non apparente), scegliendo con cura i clienti e i progetti a cui lavorare. Da tempo, Sagmeister, il cui motto è “Stile = Scoreggia”, sostituisce lo stile con l’idea. I suoi lavori sono radicati in immagini destabilizzanti e aforismi auto-rappresentativi. Con apparente semplicità, Sagmeister muta forma – come i migliori prestigiatori sono avvezzi fare – assumendo diversa pelle, difatti, il suo lavoro ha spostato, e parecchio, il confine tra graphic designer, art director, artista e illustratore, andando a creare l’ibrido moderno e intrigante del Graphic Artist.

in alto: Stefan Sagmeister (Bregenz, 1962); Medaglia AIGA 2013. Scatto realizzato dal fotografo John Madere.

Nato a Bregenz, Austria, nel 1962, Stefan Sagmeister era il figlio minore dei proprietari di un’azienda venditrice di abiti al dettaglio. Frequentò la scuola di ingegneria locale, una scelta dettata maggiormente dal desiderio di fare qualcosa di differente dai due fratelli maggiori, i quali erano andati alla scuola aziendale ed erano divenuti venditori di abiti come i genitori. Ma la scelta di Stefan non si rivelerà appropriata: era uno studente negligente e non interessato agli studi del corso, decise quindi, al terzo anno della

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scuola di ingegneria, di trasferirsi in un college in Dornbirn, una città vicina. Qui era presente una piccola pubblicazione trimestrale di sinistra chiamata Alphorn. Stefan non si lasciò scappare l’occasione di prendere parte al gruppo editoriale. Lavorando alle illustrazione e all’impaginazione della rivista, Stefan prese consapevolezza del suo talento nella grafica, imparò rapidamente la tecnologia a sua disposizione e iniziò a dar voce alla sua grande inventiva che era stata soffocata nella scuola di ingegneria.

in alto: S. Sagmeister, primi 30 anni. S. Sagmeister, Ronacher, poster, 1984. nella pagina seguente: S. Sagmeister, dollaro-biglietto da visita a Lucia Belci, 1988 ca. S. Sagmeister, 4A’s, poster, 1991.

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Alphorn fu un’esperienza allo sbaraglio, ma allo stesso tempo Stefan ne trasse un insegnamento inestimabile. A causa di ragioni economiche, la rivista presentava titoli con testi scritti a mano (mancavano troppe lettere nei fogli di caratteri tipografici trasferibili Letraset avuti in donazione) ed era anche rilegata manualmente quando il budget non permetteva la stampa di fogli più grandi da piegare. Spesso, le pagine che emergevano dal colore rilasciato dalla stampa offset di Alphorn erano illeggibili e le persone presenti nelle fotografie irriconoscibili. Dettagli ritenuti non importanti in quanto il contenuto di Alphorn era dato dal materiale che infiammava il gruppo editoriale se non dai suoi lettori. L’esperienza con Alphorn diede modo a Sagmeister di essere coinvolto nell’organizzazione di concerti rock e jazz, nonché di realizzarne i manifesti, utilizzando stampanti professionali. Il poster che ebbe maggiore impatto fu, senza dubbio, per un numero di Alphorn sull’anarchia: Sagmeister convinse i suoi compagni di scuola a stendersi sul pavimento scolastico disposti in modo da formare


la lettera “A” all’interno di un cerchio e li fotografò dal tetto dell’istituto. All’età di 19 anni, dopo essersi diplomato a Dornbirn, Sagmeister si spostò a Vienna deciso ad entrare all’Angewandte. Venne, tuttavia, rifiutato in quanto non abbastanza capace nel disegno dal vivo. Frequentò quindi per un anno una scuola di arte privata dove si impegnò ad imparare a disegnare dalla natura, cosa che gli permise di accedere all’Angewandte l’anno successivo. Qui Stefan ebbe come docente Paul Schwarz, un seguace di A.M. Cassandre, il graphic designer ucraino i cui manifesti Art Deco influenzarono lo sviluppo della grafica del secolo. Ma, tuttavia, ad entusiasti studenti New Wave agli inizi degli anni ’80 – in un periodo in cui i dogmi Modernisti venivano sgretolati da movimenti maggiormente sperimentali, in particolar modo dagli USA e dalla Svizzera – i manifesti geometrici di Cassandre avevano poca presa, ma erano l’unico insegnamento che gli veniva dettato da Schwarz. Nel 1982, il fidanzato della sorella lo mise in contatto con lo Schauspielhaus, popolare teatro moderno di Vienna, e il direttore Hans Gratzer decise di utilizzare alcuni manifesti di Sagmeister e altri compagni di scuola per i suoi spettacoli, dando vita al collettivo di artisti denominato Gruppe Gut. Essi realizzarono sostanzialmente riletture in chiave punk di locandine classiche e in particolare, nel 1984, una serie di manifesti per salvare dalla demolizione lo storico Ronacher Theater. Nel 1987 Stefan ricevette una borsa di studio dal programma Fulbright per studiare al Pratt Institute di New York. Fu in questo periodo che emerse l’umorismo che caratterizzerà molti dei suoi lavori successivi. Emblematico il caso in cui una sua fidanzata dell’epoca gli chiese di farle dei biglietti da visita, ma a patto che non venissero a costare più di un dollaro l’uno: Sagmeister prese alla lettera l’indicazione e stampò nome e indirizzo della ragazza su banconote da un dollaro. Nel 1990 fu costretto a ritornare a Vienna per far fronte agli obblighi del servizio di leva, che assolvette sotto forma di servizio civile presso un centro per rifugiati. Sono di questo periodo i poster per il Nickelsdorf Jazz Festival. Fu nel 1991 che Sagmeister, allora 29enne, venne assunto dall’agenzia pubblicitaria Leo Burnett con sede a Hong Kong. Durante questo periodo Stefan si occupò, tra gli innumerevoli lavori, di un manifesto per la cerimonia dei 4A’s Advertising Awards (1992): realizzò un’illustrazione rifacente alla tradizione cantonese dove i quattro uomini raffigurati nella prima immagine accennano ad un coro, secondo tradizione, mentre nella seconda hanno i pantaloni abbassati e mostrano il sedere “Call for Entries”, rimando all’assonanza tra “A’s” e “ass” che significa, appunto, sedere. L’opera destò parecchio scandalo tanto che alcune agenzie boicottarono la manifestazione e suoi giornali com-

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parirono numerose lettere di protesta. Rientrato a New York nel 1993 e ottenuta la sua green card, inizia a lavorare per la M&Co. di Tibor Kalman (1949-1999), riuscendo così a realizzare un suo sogno. Forse la cosa più importante che fece Kalman fu incoraggiare la creatività tormentata di Sagmeister: «Tibor era sempre felice e pronto a saltare da un campo all’altro: corporate design, prodotti, urbanistica, video musicali, film documentari, libri per bambini e editing di riviste venivano tutti affrontati sotto il mantra, “Devi fare tutto due volte. La prima volta non sai cosa stai facendo. La seconda sì. La terza volta è noioso»1, racconta Sagmeister.

in alto: S. Sagmeister, business card personale, 1994. S. Sagmeister, Blue, poster, 1994 ca.

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Dopo che M&Co si sciolse inaspettatamente, quando Kalman si trasferì a Roma per curare la rivista COLORS di Benetton, Sagmeister decise quindi di aprire uno studio per conto proprio (La Sagmeister Inc.), e lo fece seguendo uno degli insegnamenti di Kalman, ossia tenere l’organico al minimo: se stesso; un/una designer (si sono succeduti: Hjalti Karlsson, Martin Woodtli, Jan Wilker) e uno/una stagista. Il suo primo lavoro consistette nel curare la propria immagine aziendale. Nacque così il marchio della Sagmeister Inc., una “S” cerchiata, nonché il biglietto da visita contenuto in una custodia di acrilico: esternamente è possibile vedere solo il marchio; quando si estrae il biglietto è possibile leggere le generalità. L’idea dei livelli correlati tra loro sarà poi ripresa da Sagmeister in molti dei suoi lavori successivi. Negli anni che seguono si occupò dell’immagine di vari clienti, dalla catena di negozi di jeans del fratello in Austria (dal nome Blue, per cui rifacendosi al dadaismo, userà come palette di colori l’arancione e il nero) fino al Museo Guggenheim e alla Time Warner. Iniziò, quindi, a specializzarsi nella creazione di cover per CD. «Provavo maggiore piacere nell’incontrare i miei eroi musicali piuttosto che sedermi in incontri con un direttore marketing, cosa


che feci molto prima di aprire il mio studio specializzato»2, racconta Sagmeister. La rivista I.D. che alla fine degli anni novanta fu la sostenitrice più accanita di Sagmeister, scrisse che i suoi «lavori di CD packaging sono ciò che la poesia è alla prosa: filtrati, intensi, abili, suggestivi, e del tutto compiuti. I suoi propositi hanno raggiunto nuovi standard». «Ero in delle rock band terribili quando ero quindicenne, sedicenne, diciasettenne, e che credo che quell’esperienza mi avvicinò alle copertine degli album musicali. Essenzialmente andai alla scuola d’arte per merito delle cover degli album. Ho probabilmente fatto parte dell’ultima generazione che faceva tutto a mano, quindi, disegnavamo i caratteri da 10 punti con un pennellino. In generale ero abbastanza annoiato, guardare tutti quei libri di carattere e decidere ogni volta quale scegliere per un certo progetto semplicemente non sembrava una cosa interessante da fare. Quindi ogni tanto ci capitava una copertina per un cd e cominciammo a farci i nostri caratteri. Credo fosse per esempio una copertina per Lou Reed. Dopo questa, la tipografia disegnata a mano esplose e molti altri progetti uscirono su quella linea e in tutti i modi possibili. In modi più seriosi e divertenti. Una volta un dipendente mi dipinse un carattere sulla pelle per un poster di una conferenza. Il carattere in una singola istantanea, raccontava la storia della sua nascita, del processo con il quale era stato creato in una maniera elegante e immediata. Stranamente quella tipografia divenne molto conosciuta all’interno della comunità dei designer, ovviamente qualcuno pensava facessimo solo quello, ma per fortuna non era vero.»3 Lavorare per i suoi divi della musica – Mick Jagger, Lou Reed, David Byrne e Jay-Z tra questi – permise a Sagmeister di creare materiali grafici unici basati sulla personalità dell’artista. Fece uso di giochi

in alto: S. Sagmeister, biglietto di invito per l’apertura del suo studio, 1994.

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di packaging e stampa che facevano ricorso a tagli laser, fustellature, costruzione di modellini ed altro ancora, ma gli acuti, eleganti ed eclettici concept furono il motore che portò al risultato, tanto da ottenere due Grammy Awards per le sue opere. Tra questi, nel 1994 progettò la grafica per l’album Mountains of Madness di H. P. Zinker sfruttando alcuni principi fisici del colore: attraverso la plastica rossa del CD è possibile intravedere il volto tranquillo di un signore, ma una volta estratto il libretto si scopre che la copertina interna non è quella che sembra e lo stesso signore è ritratto mentre grida infuriato. Quest’opera portò a Sagmeister la prima nomination ai Grammy Award, nonché una forte visibilità. Riprenderà la tecnica utilizzata nella sua monografia Made You Look. Nel 1995 diede invece inizio alla collaborazione con David Byrne, disegnando la copertina per una raccolta di canzoni. Tale collaborazione venne rinnovata due anni più tardi quando Sagmeister realizzò la copertina di Feelings (qui l’ex leader dei Talking Heads è riprodotto

in alto: S. Sagmeister, The New York Times Magazine, copertina, 1998. nella pagina seguente: S. Sagmeister, Lou Reed, poster, 1996.

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come se fosse Big Jim). Nel 1996 fu la volta di Lou Reed con la copertina dell’album Set the Twilight Reeling: in questo caso dalla plastica blu semitrasparente del CD si intravede il primo piano dell’ex Velvet Underground, ma una volta estratto il libretto si scopre che il volto emana raggi da un occhio e la copertina è gialla e verde, un rimando appunto alla “twilight” del titolo dell’album. Nel rispettivo manifesto pubblicitario, che annunciava l’uscita dell’album, titoli e parte dei testi delle canzoni furono scritti sul viso. Il 1996 fu anche l’anno in cui Segmaister iniziò a realizzare i manifesti per l’AIGA (American Institute of Graphic Arts). Nel primo manifesto, relativo ad una serie di dibattiti, fotografò due lingue di bovino in erezione l’una al cospetto dell’altra (Fresh Dialogue). Anche in questo caso l’ambiguità dell’opera fu motivo di polemiche, ma essa era tesa a rappresentare il dibattito tra organico (le lingue, il rimando al paroliberismo di Marinetti con caratteri scritti a mano) e digitale, a cui tendeva tutta la grafica del periodo. Nel secondo, del 1997 e relativo alla conferenza biennale che si teneva a New Orleans, sono raffigurati dei polli decapitati che corrono nella prateria all’imbrunire (But, Hurry!). Il lavoro più celebre, divenuto successivamente icona della grafica del decennio, lo realizzò nel 1999: il manifesto, relativo ad un ciclo di conferenze al campus universitario di Cranbrook nei pressi di Detroit, lo autoritrae nudo. Le scritte vennero incise sulla pelle con un coltello. Anche quest’opera è riconducibile ad una certa estetica punk che ricorda l’autolesionismo di Sid Vicious. Tuttavia,


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almeno in questo caso, il pathos viene stemperato dal fatto che Sagmeister stringe nella mano una scatola di cerotti. Il manifesto doveva in qualche modo simboleggiare la sofferenza che si deve patire prima di poter partorire un progetto. Su questo manifesto è inoltre possibile leggere l’aforisma “stile=scoreggia”, rappresentativo della maniera di concepire la grafica da parte di Sagmeister: da un lato perché egli è orientato a privilegiare i contenuti a scapito della forma; dall’altro perché se un concetto può venir espresso in varie forme alternative, allora Sagmeister sceglie quella meno eufemistica. Tale presa di posizione radicale va contestualizzata nella fine degli anni novanta dove il dibattito al riguardo (Big Idea vs. Style) era particolarmente sentito. Lo stesso Sagmeister ha rivisto il proprio punto di vista qualche anno più tardi. Sagmeister si imbatté in una differente visione del futuro durante un viaggio a Seoul, Sud Corea, nel 2003: l’mp3 nei dispositivi portatili. Dopo esser rientrato a New York, egli sostituì il corso di record-packaging in cui insegnava per Designer as Author M.F.A. alla School of Visual Arts con un altro corso, sostenendo che in 2 anni o meno il CD non sarebbe più stato attuale – e così anche il suo design. Fu il momento per Sagmeister di reinventare la sua professione. Nel 2008, occuparsi di altri tipi di corporate e lavoro nei media sarebbe stato automatico e fruttuoso, ma invece, la sua mossa successiva fu un’azione senza precedenti di temerarietà personale: annunciò un anno sabbatico da tutto il lavoro commerciale, e si rifugiò a Bali. «Ho uno studio di design a New York, ogni sette anni lo chiudo per un anno per portare avanti qualche piccolo esperimento, cose altrimenti difficili da fare durante il regolare anno lavorativo. Nel nostro anno sabbatico non siamo disponibili per nessuno dei nostri clienti. […] È un periodo fantastico e molto dinamico. In origine avevo aperto lo studio a New York per riunire le mie due passioni, la musica e il design. […] Ad un certo punto mi sono reso conto che, come per moltissime altre cose nella vita che mi piacciono, tendo ad adattarmici. Ma con il tempo, finiscono per stufarmi. E certo, nel nostro caso, le cose che facevamo iniziavano a somigliarsi tutte. […] Così decisi di chiudere bottega per un anno. […] Ho pensato che potesse essere utile togliere cinque anni da quelli della pensione e disseminarli lungo gli anni lavorativi.»4 Indubbiamente uno degli aspetti del suo lavoro è riservato alla solidarietà e all’impegno civile. Sagmeister appartiene all’associazione no-profit Business Leaders for Sensible Priorities, che ha lo scopo di ridurre le spese militari del Pentagono per investire maggiormente nell’educazione. Nel 2012, quattro anni dopo il suo viaggio a Bali, Sagmeister ha attuato un altro considerevole cambiamento nella sua vita professionale: ha sostituito la “S” con una “&” nel marchio del suo studio. L’aggiunta dell’allora 25enne Jessica Walsh come collega d’affari venne annunciata con un’altra solita provocazione di Sagmeister. Quasi 20 anni prima, Sagmeister aveva posato completamente nudo in una cartolina promuovendo la sua nuova azienda, Sag-

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meister Inc. L’annuncio del nuovo cambiamento si rifaceva a quell’immagine, mostrando un ritratto nudo del duo (Walsh in piedi su di una pila di riviste vicino a Sagmeister) con la didascalia: “Diciannove anni dopo la fondazione di Sagmeister Inc… Stiamo rinominando la società in Sagmeister & Walsh”. In precedenza art director associate in Print magazine, Walsh aveva mandato una mail a Sagmeister, celebre per la sua generosità, per ricevere dei pareri sul suo portfolio e sulla sua carriera. Dopo aver sfogliato 5 minuti il suo lavoro disse, «Quando vuoi venire a lavorare per me?» Si licenziò da Print il giorno successivo. Dopo la sua esibizione nel 2008 alla Deitch Projects, prestigiosa galleria di arte contemporanea di New York, Sagmeister ha focalizzato il suo lavoro sul maggiore impatto del design – cambiare le percezioni e possibilmente il comportamento. I suoi clienti gli hanno dato la possibilità di allargare il suo linguaggio visuale, ma le mostre e i video gli permettono la libertà di lavorare per se stesso. The Happy Show, mostra del 2012 di Sagmeister all’Institute of Contemporary Art di Philadelphia, fu il risultato derivante da questa separazione dalla pubblicità. Non realizzò idee di qualcun altro; piuttosto, diede agli spettatori la brezza di camminare nella mente del designer mentre cerca di incrementare la sua felicità attraverso la meditazione, terapia cognitiva e farmaci psicoattivi attraverso delle ricerche tipografiche interattive di natura digitale e analogica sulle sue “regole per sopravvivere”. Questo sembra il percorso che sta intraprendendo, almeno per adesso. «Seguo la direzione che sembra più interessante, ed ha il giusto compromesso tra novità e familiarità», afferma Sagmeister. Ma “seguire” è un termine interessante. Se Sagmeister seguisse non sarebbe a capo di tutto ciò, o la personificazione del prestigiatore, o l’uomo di così tante massime. Non è un seguace, ma un leader, quanto meno per soddisfare la sua stessa agitazione. «Se è qualcosa di troppo nuovo mi viene l’ansia», ha dichiarato Sagmeister, «se troppo famigliare mi annoia»5.

1. S. SAGMEISTER, cit. in Steven Heller, biografia sito Aiga, Stefan Sagmeister, http:// www.aiga.org/medalist-stefan-sagmeister/. 2. S. SAGMEISTER, ivi. 3. S. SAGMEISTER, cit. in Gary Hustwit, Helvetica, film-documentario, 2007. 4. S. SAGMEISTER, cit. conferenza TED 2009. 5. S. SAGMEISTER, cit. in Steven Heller.

nella pagina precedente: S. Sagmeister e Hjalti Karlsson, IDEA, copertina, 1997. S. Sagmeister, Feelings, cover cd, 1997. S. Sagmeister, Adobe Design Achievement Award, poster, 2003. in alto: S. Sagmeister, biglietto di invito per rinnovamento studio, 2012.

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Stefan Sagmeister Sagmeister poster AIGA, 1999 Per quanto il poster con il pollo acefalo e Fresh Dialogue siano di forte impatto, il poster più noto di Sagmeister e, sicuramente, anche uno dei più scioccanti è probabilmente quello per la conferenza ospitata alla sede di Detroit dall’AIGA nel 1999 dove il designer si presta a una serie di incisioni sul busto. La trovata può essere intesa come una sorta di manifesto dei periodi d’ansia, di lotta e di dolore, e fu abbastanza sconcertante. Un anno prima Sagmeister aveva sperimentato già l’incisione di una piccola porzione di testo sulla propria pelle per il progetto Whereishere, e riteneva, erroneamente, che ripetere l’operazione su scala più ampia non fosse un grosso problema. Sagmeister si ritrovo così alle 9 del mattino dello stesso giorno del servizio fotografico con una lama in mano davanti allo specchio, incapace di praticare una sola incisione. Le ragioni erano dovute alla difficoltà nell’incidere al contrario rispetto a ciò che vedeva riflesso sullo specchio e nell’incidere accuratamente. Chiese dunque aiuto a Martin Woodtli, un tirocinante svizzero che stava nello studio da qualche tempo lavorando per Sagmeister. L’operazione risultò parecchio delicata in quanto bisognava incidere nella giusta profondità ma comunque minime da non causare danni, inoltre, circa a metà, le piccole ferite cominciarono a fare davvero male. Sagmaister dichiara che iniziò a nutrire dubbi ma non avendo altre idee, non poteva tornare indietro. La parte più dolorosa venne alla fine, quando Wootli incise intorno alla zona pelvica piccoli elenchi di collaboratori. Le incisioni che scomparvero dopo uno o due mesi, ricomparvero inaspettatamente in una spiaggia balneare. Non appena i raggi solari stimolarono la melanina, Sagmeister notò che la traccia del suo nome emergeva in rosa sulla superficie del suo petto.

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Stefan Sagmeister Casa da Música 2007 Casa da Música è stata costruita nel 2005 dall’Oma (Office for Metropolitan Architecture) di Rem Koolhass per onorare la nomina di Porto quale “Capitale Europea della Cultura 2001” ed è ad oggi la principale concert hall del Portogallo. Sagmeister venne invitato a creare l’identità visiva della nuova istituzione, sebbene, come egli stesso dichiara, non avesse alcuna intenzione di utilizzare la forma architettonica nella configurazione del logo, dopo aver assistito ad una conferenza di Rem Koolahss comprese che era inevitabile. Casa da Música infatti spicca per la sua presenza scultorea, enfatizzata dagli angoli e dalla multi sfaccettatura della superficie esterna. Sagmeister stesso spiega l’identità dinamica: «Compresi che l’edificio stesso era un logo. Lo coprimmo con una maschera, lo esaminammo a fondo, lo guardammo da tutti i lati. Ovest, nord, sud, est, dall’alto e dal basso. Lo colorammo in maniera molto semplice chiedendo ad un amico di creare un software, il “Casa da Música Logo Generator”. È connesso a uno scanner, ci si mette dentro un’immagine, ad esempio l’immagine di Beethoven e in un secondo il software genera il logo di Beethoven della Casa

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da Música. Quando bisogna disegnare un poster di Beethoven, risulta molto pratico perché l’informazione visiva del logo e il poster vero e proprio in pratica coincidono. Quindi coincideranno sempre a livello concettuale, naturalmente. […] anche internamente funziona allo stesso modo per il presidente o il direttore musicale e i loro ritratti Casa da Música finiscono sui loro biglietti da visita. […] Si può prendere la forma e renderla tipografica, si più farla crescere sottopelle, si può creare un poster per un evento per famiglie davanti alla struttura o un rave al di sotto o un programma settimanale o servizi educativi»1. Il cuore del progetto è dunque il “Casa da Música Logo Generator”, software che permette di ricavare da qualsiasi immagine una palette di 17 colori da applicare ad ogni diversa faccia delle proiezioni che formano i sei loghi. Oltre a permettere combinazioni cromatiche quasi illimitate, il software riesce così a ottenere, in maniera semiautomatica, una perfetta armonia cromatica fra il logo e le immagini con cui esso interagisce.


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Stefan Sagmeister Things I have learned in my life so far 2008 Things I have learned in my life so far è una raccolta di 15 fascicoletti inseriti in una custodia fustellata. Modificando l’ordine dei fascicoli, cambia anche la copertina. Nei volumetti sono raccolti alcuni lavori di Sagmeister e il suo studio basati su aforismi e tradotti in forma tipografica usando i più diversi oggetti, dai ramoscelli ai cartelli stradali. Questo lavoro di Sagmeister basato sul testo si adatta bene al lavoro di artisti come Lawrence Weiner e Jenny Holzer, che usano anche aforismi e frammenti di testo per esprimere, o attraverso sfumature poetiche o imperativi di comando, le idee con lo scopo di incoraggiare la riflessione individuale e l’azione collettiva. Con i Typographic Billboards Sagmeister trasporta quindi il suo diario personale sui muri delle città. “Trying to look good limits my life” è una delle frasi che annota sulle pagine del diario ed è anche un progetto visivo intitolato Art Grandeur Nature 2004. Cinque grandi pannelli inseriti in un’area verde; su ogni manifesto un frammento della proposizione, una specie di cartolina di sa-

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luti sentimentali lasciata nel parco. «Mio nonno è cresciuto in una casa zeppa di saggi consigli di vita incorniciati e appesi alle pareti», racconta il designer austriaco ricordando la propria infanzia, «uno di questi pannelli, che ancora è rimasto sui muri del corridoio della nostra casa in Austria, dice pressappoco: ‘Questa casa è mia, e nello stesso tempo non è mia, ma non apparterrà nemmeno al secondo proprietario, e nemmeno al terzo, quindi ditemi, amici, di chi è questa casa?’. Ho seguito questa tradizione, utilizzando le parole che esprimono quel poco che ho imparato nella vita, e ingigantendole nello spazio»2. Progetti simili, successivamente raccolti in “Things I have learned in my life so far”, sono apparsi a Parigi e nell’estremo Oriente. Con la fiducia totale dei committenti ha ‘sparato’ nei parchi, sulle facciate dei palazzi, ai piedi di monumenti, gli altri concetti: “Everything I do always comes back to me”, “Helping other people helps me”, “Low expectations are a good strategy”.


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Stefan Sagmeister Mountains of Madness CD, 1995 Il packaging di “Mountains of Madness” per Zinker è uno dei primi CD progettati da Sagmeister, destinato ad avere una sequenza straordinaria di successi. L’ispirazione irruppe nella mente del designer durante un incontro con un pedone newyorkese. In sintonia con l’affermazione di Plastzgumer secondo cui i testi delle canzoni erano tutti connessi al fatto che New York porti alla pazzia, Sagmeister ricorda: «Durante il mio primo viaggio a New York, osservai un signore molto distinto che attraversava la quattordicesima strada. Assomigliava notevolmente a mio nonno, quindi cominciai a fissarlo: cosa che in Austria non è considerata cattiva educazione, ma che qui è tale da far perdere completamente il controllo»3. A contrassegnare la custodia del Cd è quindi la metamorfosi dallo stato placido a quello funesto. L’uomo calmo stampato in verde appare sotto la custodia, mentre quello arrabbiato in rosso, emerge nel momento in cui il fascicoletto viene estratto. Come dichiara Sagmeister: «Ho visto questa tecnica in metropolitana. Stavo seduto vicino ad una ragazzina con un libro di matematica che utilizzava un filtro rosso per vederne le risposte. Pensai che probabilmente avrebbe funzionato anche

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con le fotografie»4. A quel tempo, tuttavia, e fino al 1995, la custodia standard dei CD presentava un dorso nero opaco. Per poter funzionare, però, il progetto per Zinker necessitava di un dorso trasparente per il nome della band e anche una tonalità rossa che corrispondesse al colore Pantone corretto. Ma la casa discografica non era intenzionata a sborsare i soldi per le correzioni dei colori, così Sagmeister si offrì disponibile a pagare la differenza, avvertendo la potenzialità del progetto di aumentare la richiesta di lavori in ambito discografico per il suo studio. L’investimento ebbe i suoi frutti e il progetto ricevette una nomination ai Grammy. Lo studio rimase talmente soddisfatto di questa nuova tenica che decise di usarla anche sei anni più tardi per la monografia di Sagmeister “Made you Look”, nonché in parecchi altri lavori come ad esempio il packaging per il CD di Jay-Z o quello di Lou Reed. 1. S. SAGMEISTER, cit. conferenza TED 2009. 2. S. SAGMEISTER, cit. in Things I Have Learned in My Life So Far, Harry N. Abrams, New York 2008. 3. S. SAGMEISTER, cit. in Peter Hall, Sagmeister, Booth-Clibborn, Londra 2004, p.192. 4. S. SAGMEISTER, ivi, p.194-196.


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JOHN MAEDA Da più di una decade, il designer John Maeda è conosciuto come il rappresentante di una nuova generazione di designer il cui lavoro non si limitava solo all’uso di computer, ma aveva anche compreso i cambiamenti concettuali prodotti dall’informatica stessa.

in alto: John Maeda (Seattle, 1966); Medaglia AIGA 2010. Scatto realizzato dal fotografo David O’ Connor.

«Andai al MIT, studiai matematica, ma ebbi questa meravigliosa opportunità, perché i computer cominciavano in quel momento a utilizzare la grafica […] Era un momento in cui un ragazzo poteva stare da entrambe le parti […] Feci un programma di impaginazione in passato, e quello era il mio primo passo nell’immaginare come queste due parti siano divertenti da mescolare.»1 Maeda ha scritto un libro sull’argomento dal titolo Design By Numbers nel 1999, nel quale invita i lettori ad esplorare 'le tante possibilità offerte operando nel grezzo medium informatico'. Il libro ha influenzato tantissimi designer più giovani, incluso Casey Reas (1972), professore dell’UCLA, che attribuisce alla pubblicazione di Maeda il suo impegno nella creazione del linguaggio di programmazione Processing. Sebbene Maeda tenda ad essere considerato un designer “digitale”, ha esplorato abbondantemente le frontiere – e le possibilità – di vari modelli espressivi, dalle penne ai computer, e la sua fama, fino a poco tempo fa, era costruita sulla sua propensione verso il pensiero innovativo e la sua ostinazione nel rendere l’informatica accessibile a tutti. Per questo suo impegno, Maeda ha ottenuto numerosi riconoscimenti, sia nazionali che internazionali: nel 1999, fu scelto da Esquire come una delle persone più importanti del 21esimo secolo; è stato nominato dalla rivista I.D. come uno dei personaggi più influenti nel campo del design per l’anno 2005; nel 2009 è stato “ammesso” nell’Art Director’s Club Hall of Fame di New York; nel 2010 ottiene, invece, la Medaglia AIGA. Dal 2008 Maeda è divenuto noto per essere il nuovo presidente della Rhode Island School of Design, un ruolo che ha accettato quel giugno e intrapreso a settembre, quando, come egli stesso ricorda, la nazione, non solamente l’università, fu pronta al nuovo, al cambiamento e ad una rinnovata prospettiva. Tenuto conto della sua età e dell’assenza di esperienze amministrative ai massimi livel-

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li dell’educazione didattica, Maeda fu, in un certo senso, una scelta sorprendente per il prestigioso ruolo alla RISD. Osservato come Barack Obama, pure lui giovane e guidato da una passione verso il rinnovamento, prese anche posto giusto pochi mesi dopo, la percezione di Maeda che il suo nuovo lavoro fosse in parte dovuto ad un profondo cambiamento nello spirito dell’epoca sembrava esatta. Dopo aver trattato Maeda e leggendo il suo lavoro, specialmente Maeda@Media (un libro pubblicato nel 2000, scritto sul suo stesso percorso creativo), è chiaro che egli presta attenzione ad ogni aspetto mutevole della percezione nazionale. Nato a Seattle nel 1966, Maeda rifiuta la rigida categorizzazione come artista e designer, e il suo metodo verte nel distruggere continuamente qualsiasi pratica che rischia di divenire minimamente abituale o ripetitiva. Allo stesso tempo, Maeda loda con franchezza un raccolta di valori fondamentali, molti dei quali ha scoperto nel tempo e si sono radicati nella sua gioventù.

in alto: J. Maeda, schizzi progetto Shiseido, 1995. J. Maeda, Morisawa 8, poster, 1996. nella pagina seguente: J. Maeda, Shiseido, poster, 1995.

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Il padre di Maeda possedeva una fabbrica di tofu, e aveva modellato una particolare dedizione per l’artigianato e il lavoro duro che Maeda afferma solo successivamente – appena riscoprì il vantaggio di perfezionare le proprie capacità – riconobbe come prezioso. Aiutò spesso suo padre con la fabbrica di tofu e iniziò ad esplorare l’informatica per aiutare il lavoro della piccola impresa. Questo contribuì a spingere Maeda verso l’informatica, e finì per studiare ingegneria elettrica e informatica al MIT, dove ottenne la laurea in


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entrambe le discipline. Successivamente si spostò in Giappone, dove studiò arte e design, ottenendo un dottorato in Design dall’università di Tsukuba dove, come dichiara, “riscoprì mente, carta e penna”. «Ero uno studente in informatica all’inizio e ho scoperto il design più avanti. E c’era questa persona, Muriel Cooper. Era schizzata. Aveva esattamente lo spirito della TED [Technology Entertainment Design, conferenza annuale dove i maggiori protagonisti del “pensare” e del “fare” sono invitati a raccontare le proprie idee in presentazioni di massimo 18 minuti], e ha mostrato al mondo come ridare bellezza al computer. Lei è molto importante nella mia vita, perché è stata colei che mi ha detto di lasciare il MIT e di andare alla scuola d’arte. È stato il miglior consiglio che abbia mai ricevuto. Quindi sono andato alla scuola d’arte per merito suo. È scomparsa nel 1994 e sono stato richiamato al MIT per cercare di continuare il suo lavoro, ma è molto difficile.»2

in alto: J. Maeda, Paul Rand, poster, 1996. J. Maeda, The New York Times Magazine, copertina, 1999. nella pagina seguente: J. Maeda, .Too Mona, poster, 1994. J. Maeda, Seibu Summer, calendario. J. Maeda, Current Developments in Mathematics, poster, 1998.

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Maeda tornò al MIT per fondare Aesthetics and Computation Group, uno studio di ricerca, nella metà degli anni 90, dove fu capace di riunire insieme tutti I suoi principali interessi – informatica, ingegneria, arte, artigianato e pensiero – nel suo stesso lavoro e nella costruzione del terreno di studio del suo nuovo gruppo di ricerca. ACG sviluppò una serie di concetti chiave, articolati in brevi video, di cui Maeda produsse il primo dal titolo Elements of Reactive Form. Tramite frammenti di testo e una dimostrazione di un’applicazio-


ne dinamica di disegno, il video cattura il potere e la seduzione di forme che reagiscono all’utente, dando vita in uno dei primi lavori di Maeda dal titolo Reactive Graphics (scritto per MdN Magazine). ACG e il risalto che diede al design informatico divennero una fonte per idee importanti scoperte solamente adesso altrove. I membri del gruppo includevano, oltre a Casey Reas: Ben Fry, partner di Reas nella creazione di Processing e un esperto nella visualizzazione delle informazioni, e la designer Elise Co, co-fondatrice della marca di design e tecnologia Aeolog e insegnante sia nell’Art Center College of Design sia all’Università del Sud California. Sebbene Maeda sia stato un designer e un insegnante eccezionale, la sua autorità rivoluzionaria a livello nazionale e internazionale può essere anche relazionata ai suoi scritti. Ha spesso collaborato con giornali e riviste – ad esempio, ha valutato i principi di design della Apple in uno scritto per l’Huffington Post del 2009 – e spesso collabora con il sito della RISD. I suoi testi, soprattutto Creative Code: Aesthetics + Computation e il più o meno recente Le Leggi della Semplicità offrono una lista di linee guide per aiutare a semplificare la complessità. Le Leggi della Semplicità testimonia inoltre gli stimoli che Paul Rand ebbe su Maeda; Maeda conobbe il libro di Rand Thoughts on Design quando era uno studente laureando al MIT, e la chiarezza, l’accuratezza e la forza di questo testo lo avvilirono e ispirarono allo stesso tempo. Come egli stesso dichiara, oltre a Rand, altre due figure hanno contribuito fortemente alla sua formazione: Ikko Tanaka (1930-2002) e Bruno Munari (1907-1998). «Quand’ero in Giappone – sono andato in una scuola d’arte in Giappone – mi trovavo in una situazione favorevole, perché in qualche modo ero collegato a Paul Rand. […] E anche Ikko Tanaka è stato un mentore molto importante nella mia vita. Il Paul Rand giapponese. Ha disegnato la maggior parte delle icone giapponesi come il marchio Issey Miyake e Muji.»3 «Quando mi trovai a Tokyo visitai una sua (di Munari, ndr) mostra e mi colpì così come mi aveva colpito Paul Rand, ma a un livello diverso, più intuitivo e viscerale. Rand per me era il designer per antonomasia, mentre Munari era più un’artista […] Credo che Rand mi abbia trasmesso l’idea di struttura, mentre Munari quella del gioco e del divertimento. Per molti aspetti sono due personaggi simili, ma direi che Munari è più gioco che struttura, mentre Rand è più struttura e poi gioco.»4 Anche a capo di un’università, Maeda continua a rimarcare il valore di creatività e innovazione, non solo per gli artisti ma per noi tutti. Nel quadro dei finanziamenti federali volti ai programmi di educazione creati per sostenere l’apprendimento in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica (conosciuti comunemente come “STEM”), Maeda insiste nel bisogno di aggiungere una “A per arte” nel gruppo, creando STEAM. «Aggiungere l’arte richiede un differente modo di pensare,» egli dice, notando che l’uso sia del lato destro che sinistro del cervello è necessario per essere davvero produttivi e innovativi. Difatti, per Maeda, l’innovazione non deve essere considerata semplicemente in termini strumentali, ma con

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riferimenti alle idee e alle persone. «Abbiamo bisogno di un pensare umano»5, Maeda insiste. Nel giugno 2010, Maeda ha scritto un articolo, pubblicato sulla rivista Forbes, intitolato La tua vita nel 2020. In esso, egli offre un grande resoconto di ciò che rappresenta, come designer, insegnante e leader. Maeda argomenta che arte e design saranno i pilastri della cultura nel futuro prossimo, mentre la tecnologia perderà la sua posizione prominente. «Dunque, cosa prenderà il posto della tecnologia?” domanda lui, e risponde: “Inizia con arte, design e te»6. È del 2011. Invece, la sua ultima pubblicazione: I segreti del Leader (Redesigning Leadership). Difatti, dal 2008, anno in cui è divenuto presidente della RISD, Maeda ha dovuto interrogarsi su cosa significasse occupare questo ruolo. Da artista che, saltando tutti i passaggi consuetudinari, si trova ad essere rettore di un’università così prestigiosa, ha cercato di capire come conservare la sua posizione da leader senza far scemare la creatività che lo contraddistingue. Dichiara «La domanda è come poter continuare a mantenere vivo il motivo per cui sono stato inserito nella collezione e, allo stesso tempo, essere qualcosa di diverso? Non voglio essere un fiorellino rosa in una collezione di blocchi di cemento. Devo capire come diventare un blocco di cemento rosa»7. Maeda annovera tra i numerosi clienti: Cartier, Chanel, Google, Philips, Reebok, Samsung, Shiseido e Sony tra tutti. Maeda si è, sicuramente, unito al suo maestro Rand come figura iconica nel mondo del design. Come ha scritto Paola Antonelli, curatrice del design al Museo di Arte Moderna di New York in un articolo del New York Times del 2007: «Ciò che lo rende estremamente influente non è solo il suo enorme talento artistico, ma la sua capacità di estendere una rigorosa filosofia del design, basata su semplicità e chiarezza, al più importante strumento del processo di design contemporaneo, il computer»8. Altri designer, incluso Steven Heller e Nicholas Negroponte, celebrano il talento e la creatività di Maeda, e spesso evidenziano la sua posizione sulla semplicità.

in alto: J. Maeda, Technology (Ecology), poster, 1996. J. Maeda, Large Soup, 2002. nella pagina seguente: J. Maeda, Sunflowers, 1998.

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1. J. MAEDA, cit. conferenza TED 2008. 2. J. MAEDA, cit. conferenza TED 2007. 3. J. MAEDA, cit. conferenza TED 2007. 4. J. MAEDA, cit. in intervista di Hans Ulrich Obrist, John Maeda. Interview Back to the future #04, http://www.klatmagazine.com/design/john-maeda-interview-back-to-the-future-04/8028, originariamente in Klat #035. J. MAEDA, cit. in Holly Willis , biografia sito Aiga, John Maeda, http://www.aiga.org/ medalist-johnmaeda/. 6. J. MAEDA, cit. in J. Maeda, Your Life In 2020, http://www.forbes.com/2010/04/08/ john-maeda-design-technology-data-companies-10-keynote.html, 2010. 7. J. MAEDA, cit. in intervista di Hans Ulrich Obrist. 8. P. ANTONELLI, cit. in Alice Rawsthorn, John Maeda: Rethinking technology and the digital revolution, http://www.nytimes.com/2007/05/04/style/04iht-design7.1.5567585.html, 2007.


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LE LEGGI DELLA SEMPLICITÀ Ad oggi è il libro di Maeda più venduto. Come egli stesso afferma: «Ho voluto scrivere questo libro perché volevo comprendere la vita. Io amo la vita. Amo essere vivo. Mi piace osservare le cose. La vita è una questione importante, penso, in termini di semplicità, perché si cerca di semplificare la vita»9. Maeda ci mette così di fronte ad un decalogo per avere una vita più semplice, presentiamo qui brevemente le dieci leggi così come le riporta l’autore: 1 - RIDUCI (Il modo pio semplice per conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata) – Il modo più elementare per semplificare un sistema è rimuovere alcune sue funzionalità. Il dvd di oggi, per esempio, ha troppi pulsanti se tutto ciò che desiderate è guardare un film. Potrebbe essere una soluzione togliere quelli di riavvolgimento e di avanzamento rapido, quello di espulsione e così via, fino a lasciarne uno soltanto: quello della riproduzione. 2 - ORGANIZZA (L’organizzazione fa sì che un sistema composto da molti elementi appaia costituito da pochi) - Se si cerca un successo definitivo nell’addomesticare la complessità, diventa necessario adottare uno schema valido di organizzazione. In altre parole occorre chiedersi “che cosa va con cosa?”. 3 - TEMPO (I risparmi di tempo somigliano alla semplicità) - In qualità di “uomo occupato” che cerca di preservare il proprio equilibrio mentale, ho una certa familiarità con l’obiettivo di “rimpicciolire” il tempo. Sono uno di quelli che si slaccia le scarpe e toglie il portatile dalla borsa prima di raggiungere il banco dei controlli di sicurezza all’aeroporto, contando di passare alla stessa velocità di un discesista olimpico. 4 - IMPARA (La conoscenza rende tutto più semplice) - Avete mai provato ad avvitare una vite nel verso sbagliato? Il problema di dedicarsi all’apprendimento di un compito è quello di avere l’impressione di perdere del tempo, una violazione della terza legge. Siamo perfettamente consapevoli dell’approccio “mi tuffo a capofitto, non leggo le istruzioni, lo faccio!”. Ma, in fin dei conti, questo metodo spesso richiede più tempo che seguire le istruzioni. 5 - DIFFERENZE (La semplicità e la complessità sono necessarie l’una all’altra) - Personalmente, non amo in modo particolare il colore rosa, ma mi piace quando si presenta come una sfumatura di luminosità in un mare di un monotono color verde oliva. Il rosa appare come vistoso e vibrante rispetto ai colori scuri e uniformi di ciò che lo circonda. Sappiamo apprezzare meglio qualcosa quan-

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do lo mettiamo a confronto con qualcos’altro. 6 - CONTESTO (Ciò che sta alla periferia della semplicità non è assolutamente periferico) - C’è qualcosa di intrigante nel modo in cui i nostri occhi e le nostre mani lavorano di concerto. Immaginatevi seduti davanti a un tornio da vasaio, curando ogni dettaglio con grande concentrazione. Tutto ciò che conta sta accadendo davanti a voi, sulle punte delle vostre dita, ed è tutto compreso nel vostro ristretto campo visivo, il telefono squilla, o il campanello suona, e il controllo viene meno a causa dello sfondo che travolge la ribalta. Per fortuna, notate che la pentola sul fornello sta bollendo o scoprite di avere un taglio sulla mano. 7 - EMOZIONE (Meglio emozioni in più piuttosto che in meno) La semplicità può essere considerata sgradevole. Prendete mia madre, che nutre un disprezzo assoluto nei confronti di tutto ciò che abbia un colore neutro o una forma minimalista; vuole fiori fatti con luci al neon, rane ricoperte di gioielli e altre irrinunciabili decorazioni. Quando si parla di estetica, per lei ciò che conta è il luccichio. 8 - FIDUCIA (Noi crediamo nella semplicità) - Immaginate un dispositivo elettronico dotato di un solo pulsante privo di etichetta. Premendolo completereste il vostro compito. Volete scrivere una lettera a zia Mabel? Premete il pulsante. Clic. La lettera è stata spedita. Sapete con assoluta certezza che è stata inviata e che esprimeva esattamente ciò che volevate. Questa è la semplicità. E non siamo lontani da una tale realtà. 9 - FALLIMENTO (Ci sono cose che non è possibile semplificare) Quando si prova a semplificare, c’è sempre un Rof (tasso di redditività del fallimento), che consiste nell’imparare dai propri errori. Un buon artista, o un qualsiasi altro membro della classe dei “creativi’, quando affronta un fallimento sfrutta l’evento negativo per cambiare completamente prospettiva. 10 - L’UNICA (Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo) - La semplicità è estremamente difficile da afferrare e molte delle sue peculiarità sono implicite (si noti che, in inglese, la parola implicit è contenuta in simplicity).

9. J. MAEDA, cit. conferenza TED 2007.

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John Maeda Dynamic Form anni novanta Mentre Maeda stava realizzando la cover di un libro dal titolo Dynamic Form, creò un piccolo programmino che “dipingesse” l’immagine di copertina tramite l’addensamento di 10.000 parole. Dunque il titolo Dynamic Form – per l’appunto forma dinamica – è conformato da diecimila minuscole scritte dynamic di colore viola su fondo giallo, due colori complementari contrastanti, che si risolvono in una rappresentazione unica. Maeda ne illustra la formazione tramite due grandi “A” formate da un ammassarsi di scritte helvetica (nel carattere Helvetica).

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In questi lavori entra in gioco la quarta dimensione, il tempo, irrompendo su carta stampata. Maeda dichiara: «Questo processo m’interessa più del libro stesso e mi spinge a creare suggestioni visive in uno stile programmatico»1. Il processo attuato da Maeda è un’estensione della tecnica digitale, capace di creare composizioni grafiche (immagini e parole) mediante l’accostamento e/o la sovrapposizione di pixel. Dallo stesso filone concettuale deriva il simbolo dell’infinito realizzato da Maeda nel 1994.


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John Maeda Reactive Books 1994 L’abstract dal sito di Maeda concernente i Reactive Books spiega: «Il computer è una tela multi-dimensionale, che si manifesta come luce proiettata o superficie stampata, sulla quale possiamo esercitare completo controllo espressivo in uno o due modi. Innanzitutto, attraverso alcuni mezzi fisici diretti, come mano-a-mouse, dove c’è corrispondenza diretta tra i nostri gesti e la modifica sulla tela. Questo approccio è il più vicino al processo tradizionale di espressione visiva – applicare pigmenti alla carta tramite interazione fisica col mezzo – ed è di conseguenza il più naturale dei modi. Poi, vi è un modo di esprimersi decisamente non fisico chiamato computazione, dove un programma, definito da un programmatore/artista, istruisce in maniera esplicita la tela su dove e come applicare pigmenti virtuali su se stessa. L’artista non attua contatto fisico con il medium, a parte il processo di scrittura su computer delle istruzioni del programma. Nella mia ricerca, ho cercato di colmare lo stacco tra espressione computazionale e non computazionale realizzando un lavoro basato su stampa che illustra un legame col passato mentre ab-

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braccia il futuro. […] La serie Reactive Book mostra un unione tra i miei lavori nei mezzi digitali e stampati»2. Tra tutti, particolarmente meritevole di attenzione è il quadrato reattivo, che si risolve nella performance di dieci quadrati che rispondono interattivamente a una serie di comandi vocali. Il quadrato realizza composizioni grafiche accattivanti tramite il suono prodotto dalla voce di chi ne fruisce visivamente. Il titolo originario era Ode to Malevich, un chiaro riferimento al Quadrato nero su fondo bianco (1913) del suprematista russo (pagina seguente in basso a sinistra). Maeda scrive: «La sua [di Malevich] determinazione ad abbandonare ogni decorazione guardando a forme elementari, come un quadrato, ha ispirato il mio lavoro sui quadrati neri»3. Il libro è probabilmente ispirato anche alla pittura suprematista di El Lissitzky, che per primo già negli anni venti aveva ideato il libro elettronico: «Il libro si fa strada verso il cervello attraverso gli occhi, non attraverso le orecchie [...] Con la bocca si può solo parlare, invece le possibilità espressive del libro sono multiformi»4 (pagina seguente in basso a destra).


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John Maeda scrittura digitale anni novanta Nel 1993 Maeda disegna il Tangram typeface, reinterpretato poi dinamicamente nel 1998 per celebrare il lancio della InterMedia Design Association in Giappone. Tutte le 7 parti geometriche del tangram vengono utilizzate in ogni lettera. Di conseguenza le sette parti che compongono ogni lettera mutano variamente nel passaggio da un segno all’altro, mentre il testo prende forma fluidamente. Spiega Maeda: «La traduzione di una figura statica in una forma dinamica si risolve spesso in una brutta idea, a meno che la prima non sia stata sviluppata con qualche grado di variabilità»5. Maeda utilizza dunque le computazioni del mezzo elettronico per dare luogo ad un linguaggio autenticamente digitale, espressivo e

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dinamico. Troviamo altri esempi di questo processo in Tap, Type, Write (1998) un’applicazione informatica dove le lettere compongono, volteggiano, si capovolgono in uno spettacolare gioco alfabetico o ancora nel caso della réclame Absolut Vodka (simile ai calligrammi apollinairiani) o come in Absolut Maeda. 1. J. MAEDA, maeda@media, Thames and Hudson, Londra 2000, p.27. 2. J. MAEDA, cit. in http://www.maedastudio.com/rbooks/. 3. J. MAEDA, cit., p. 115. 4. EL LISSITZKY, "Il nostro libro", in S. LISSITZKY-KÜPPERS (a cura di), El Lissitzky, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 352. 5. J. MAEDA, cit.,p.277.


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in alto: S. SAGMEISTER, "Cose da fare prima di morire".

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RINGRAZIAMENTI «Quello che a noi è costato dieci o quindici anni di lavoro, a voi deve costarne uno o due. Ma solo a condizione che noi riusciamo a dare a voi un metodo, un sistema, un’esperienza così libera, così aperta a nuove conquiste che vi metta assolutamente a vostro agio. In altre parole, è l’insegnante che deve essere a disposizione degli allievi.» ALBE STEINER

Apro con questo aforisma di Albe Steiner poiché incarna a pieno il modus vivendi del mio docente e relatore, Gianni Latino. È a lui che vanno i miei ringraziamenti più sentiti. Devo a Lui e alla sua disponibilità nel condividere il suo sapere, nella grafica come nella vita, la realizzazione di questa tesi. Ringrazio i miei famigliari tutti per avermi sostenuto e per aver compreso le mie passioni. Grazie a chi ha retto le mie mille ansie e agitazioni. Grazie per aver creduto in me e per continuare a farlo…



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