Solo un nomepoesia doc

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Soltanto parole….

Mara Torricelli

Raccolta di poesie e racconti

Il documento è una raccolta di poesie, brevi racconti pensieri, ad uso privato. Non contiene “verità”….


Pianto infinito

L’infinito pianto in gola si spezza in scintille. E vola via, lontano, e finalmente in pace, verso sud o verso il tramonto affocato. Ma il grido del merlo paralizza di gioia incantata la cima del mirto. 11 giugno 2012

merlo impatiens

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Portami via Portami via dove i peschi non fioriscono e i fiumi non danno carpe a primavera. Portami lontano perché troppo infinito è il tempo che ci lega. Portami quel verde che si schiude e si muove e sfuma nell’acqua tranquilla del sottobosco. Palude, forse? o corrente lieve, che accarezza l’aria Che sfiora giunchi flessibili e abbraccia l’ombra azzurrata. Portami via, laggiù, nel fondo Sotto le felci al sicuro che sia crepuscolo che sia silenzio. Portami i passi degli uccellini appena nati che appena respirano con piccoli salti silenziosi. Portami via dal sole… Che io veda solo quell’ombra Leggero mormorìo dell’acqua lenta che appena fa gorghi, e appena sospira, verde e tranquilla e preziosa. Che io veda solo un’immagine fioca: la tua anima lieve, quando siede in un vapore di bianco tra l’erba, avvolta da lucciole in gioco. 11 giugno 2012

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Maschera bianca 20 gennaio 2014

Tra gente confusa e chiassosa tu, lenta e discreta t’insinui bianca, priva di lineamenti vuota. Ti muovi lenta con il colpo mortale rosso, di quel fiore alla tempia. Serpeggi, guidi, ti fermi, statuaria… Si cela sotto la tua figura diafana… un poeta? Uno che con profetica canzone declami la sua opera e sparga agli altri emozioni? Nel tuo profondo nascondi quella parte. Superba, sola, piangente. Volare via fra le calli è il tuo unico saluto e l’acqua grigia ti trattiene appena.

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Scivolerò senza ali

Mi pesano gli anni futuri. Scivolerò nell’acqua buia senza rimpianto senza ali. Che occasione! Li vedi, piccola farfalla, i miei giochi d’estate e la mia mano distratta che li cancella? Non sono farfalla come te né tu come me poiché io danzo e bevo e canto e spero e piango e aspetto la cieca mano che interromperà il mio volare Non petali, ma foglie rosse d’autunno sul giardino che parrà vecchio cent’anni, ma bello di una bellezza infinita. Ho affidato ai limoni tutti i morti del cuore, il giallo li cullerà. In questa terra, rimarranno tutte vive le cose che appaiono agli occhi

“Ascolta, i poeti laureati si muovono soltanto…..”da I limoni, E.Montale

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Porta chiusa Io volevo solo darti una vita leggera come una piuma e sorrisi cosÏ forti per lasciartela soffiare nel vento nell’acqua e nel sole. Ma troppo spesso i miei occhi piangono la pioggia delle tue nuvole. Sospirano piano nascosti ai silenzi. Dietro quella porta che non apro mai.

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Il mio paradiso Il mio paradiso non è un luogo perduto nello spazio e nel tempo è qui è ora. Pochi amori sinceri pochi amici fidati e non si dà per scontato il rumore del mare. L'odore della terra bagnata. Voci basse, il fruscio delle pagine di un libro, i colori di un’allegria semplice; raggi di sole caldi sulla pelle. Nel mio paradiso grandi spazi interiori e vasti territori di solitudine, fertile, dove coltivare i pensieri Non sono attese perle rare di felicità, nel mio paradiso. Ma respira forte, il momento presente.

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Preghiera Ricordati di me Signore delle mie ore buie, degli aghi e delle bende e degli odori di cloroformio. Del bianco di ospedale e dei lamenti, e del desiderio di andare a casa, e dell’ascensore che non si apre. Ricordati della mia forza e della mia disperazione. Ricordati del mio urlo e dell’assenza, nelle ore di notte, e dell’attesa crudele di un telefono che non squilla mai. Quante ore signore!, tu le ricordi? Ricordati degli amori rinunciati perché non hai voluto di un ventre sterile di figli mai visti. Ricordati della povertà dei borselli senza una lira gettati con rabbia. E poi ricordati delle lotte, delle porte chiuse, degli inganni, delle beffe. Ricordati quante volte mi hai abbattuto e di quando credevo che fosse finita e invece mi hai rialzato, crudele, ed hai aperto altre porte: un male infinito. Ricordati dell’unica cosa bella che mi ha dato e di quanto mi hai condannato a lottare, per lei. Ricordati delle strade sbarrate e dei lucchetti, dei treni persi 7


delle lettere piene d’amore. Ricordati della condanna alla non bellezza, ad un corpo pesante, ad occhi maschili che non ti vedono piÚ. Ricordati gli sputi, le offese, le calunnie, la gente che ti guarda ridendo. Ricordati dei pianti disperati e quante volte, vigliacca, ti ho detto No, ora no, voglio vivere ancora. Ricordati dei sogni che mi hai dato, di diventare come gli altri: cattiva. I sogni di riscatto. E ricordati dei soldi, tutti i soldi, spesi in preghiere, in lumi accesi. E il tanto per il niente. Ricordati la morte dei miei cari, mai abbastanza crudele per definirla sofferenza. Ricordami di quanto mi hai tolto: amori, figli, salute, perfino i miei cani adorati, e sempre in ore di strazi. Ricordati delle mie orme sole sulla sabbia, tu che avevi detto che saresti stato con me, fino alla fine del tempo. Sei ancora convinto di essere stato tu, il Dio? Quel Dio sulla croce?

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Dormi e ti guardo

Dormi e ti guardo. Sfioro il tuo volto, ascolto il tuo respiro… Mi avvolgi come una melodia... E ti sento ancorata ai fiordi della mia anima dove ogni giorno rifioriscono siepi d’amore. Alle pianure del cuore dove la luna gioca con le notti più scure. Al cielo della mente dove la lampada degli anni verdi ora è fuoco che non sarà mai cenere. Vorrei rubarti le ferite raccoglierle nella mano come perle di mare e poi disperderle... farfalle tra fiori di campo. Dormi e ti guardo. L'alba colorerà di luce i tuoi occhi il tuo risveglio accarezzerà le mie mani come un tempo come sempre e poi qualcosa canterà nel nostro albero immenso di giallo.

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Chiedilo alla vite Mi chiedi di andarmene via. Ma chiedilo alla vite che si aggrappa con forza che scorre che stringe se è facile andare libera al cielo, povero palo svettante Chiedilo ai suoi tralci se è facile non abbracciare qualcosa se la natura ti ha dato le braccia Chiedigli se è facile ignorare il ferro tu, che hai bisogno d’aiuto e di forza. Sì, chiedilo alla vite che il vento di maestrale spezza, se è capace di lasciarsi andare da sola e ignorare la forza, le mani, le braccia, la Natura che ti ha fatto avvolgente e sinuosa e forte, per tenerti. Chiediglielo, se una creatura nata tralcio può diventare aria.

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Notte

Notte di umido e brezza. Scia di luce e corde d’arpa si muovono caute tra cielo e mare. Il fieno con gli accordi minori e i grilli e le lucciole e le civette ridenti e le stelle vibranti di luce e di buio. Notte infinita nell’incontenibile cuore. Musica, accesa, vibrante ma dolce e poi piano più bassa musica di luce pallida e di enorme luna. Cielo di latte e suoni di fiati di zufoli di liuti e flauti dolci. Cielo di stelle brillanti ed archi e nuvole appena di acqua in crescendo. Aloni e ombre in concerto che sfiorano e vanno passano, ridono, passioni e ricordi nel nero infinito ma di luce opaca e vibrante incerta e splendente. Silenzi di suoni impercettibili echi. Futuro e passato nel nero infinito di chiarore e musica e odore di pini. Odore di luna a occidente invadente penetrante ….sorpresa. 11


Solo un nome

"Ti perderò come si perde il giorno - io lo dicevo all'ombra che c'era nel vano della stanzaLa mia memoria ti cercherà per anni e sarà solo un nome una sembianza o niente. Dileguerai, e sarà sempre oblio di noi, nei giorni" Tu guardavi l'aria, fuori, svanita nella luce. Parlavo della pace infinita che sui fiumi stende la sera. Tu non sentivi.

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Attesa

Con un vento che mescola stracci si brucia l’attesa. Passa una foglia e mi guarda annoiata. Poi va. Ritorna il rintocco; il vento lo ruba e ride all'angoscia che cresce. Sbatte una porta. Poi di nuovo il silenzio e la voce che canta e gioca incosciente tra i rami i petali deboli stanchi finiti perduti per terra. Le nuvole passano e guardano. Si specchiano nell'ansia che, piano, trabocca.

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Davanti al tuo tempio si fermano tanti domani. E, di nuovo, vi poso davanti la mia corona.

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Ho abbandonato il mio scudo Ho abbandonato il mio scudo. Non ho più diritto alla vittoria. Ho visto la notte farsi rossa per il sangue e la vergogna. La mia. Non ho più lacrime su questa riva… ho tradito, ho mentito. L'acqua è d'argento come la tua spada. Ma il mio cuore ti sente mentre tu lo trapassi.

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Illusione

"Signore, allontana da me questo calice" Ma il cielo si apriva tra lampi di luce e nero di morte, dietro la croce. E la vita da allora rimase parola. Illusione per sempre.

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Non pensare all'amore

Cerco di non pensare all'amore. Con i pensieri nel vento cammino la vita. Chiudo le porte e m'incanto davanti a una luce. Invecchio e non riesco a morire. Chiudo inaspettati cassetti che si spalancano traditori. Mi paralizza il colore la musica, il vento. Il ricordo di una carezza mi scuote. Invecchio e non riesco a fermare questo cuore che anela sorrisi.

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Un grande silenzio C'è un grande silenzio in ogni cosa. L'amore scava dentro. Chissà se sarò un falco o una rosa. Tutto attende : figli uccelli fiori notti nebbie inverni o fuochi e stelle. Quando rinascerò questo mese si accenderà. Le nuvole e le ombre rincorreranno il vento per cantarlo e troveranno il sole. Ogni cosa rivivrà.

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Partire come adesso Posso partire come adesso, e mille altre volte ancora senza mai lasciarti. Appartenersi, è cosÏ. Il mio pensiero gioca con le infinite sfumature del tuo verde, e corre, sopra colline dolci abbandonate al sole, una sopra l'altra, di grano appena tagliato, di girasoli, di sconosciuti fiori bianchi che io vedo senza stelo, sospesi in quest'ultima sera. Un volo fermo. Tutto mi parla ancora d'estate. Ma il mio cuore all'improvviso come foglia d'autunno cade.

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Slancio infinito

Il mio slancio è infinito come il mare, come le onde torna e rivive ogni volta senza scalfire lo scoglio. Ti guardo negli occhi e cammino in sogni lontani che ho abbandonato. Visito quelle terre infinite dove i sogni un giorno come conchiglie perdute si sono arenati. Continuo a cercarti ed a affondarmi negli occhi, infinito il mio slancio come il mare che guardi lontano, distratto. E non meno profondo è il mio amore; più te ne dono più ne posseggo, perché entrambi sono infiniti.

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La mia parte migliore Sei tu la parte migliore di me stessa, il limpido specchio dei miei occhi, il profondo del cuore, il nutrimento, la fortuna, l’oggetto di ogni mia speranza, il solo cielo della mia terra, il paradiso cui aspiro. Tu sei il risultato di tutte le immagini che hai dipinto di me stessa. Sei la pace, il mare e la terra, sei il lampo e l’arcobaleno. Tu sei la tavolozza Su cui si plasma il respiro. Tu non sei una figlia: sei la vita.

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Tradurre parole Parola inutile acqua di fonte, di rocce bruciate dal vento. Parole come grani neri, duri martelli. Roccia di lava. E voi vorreste tradurre parole in canzoni?

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Dannati e derisi Orlando ha distrutto la fonte e il poeta lo condanna per sempre. Schegge di roccia volavano al cielo cadevano schizzavano scurivano per sempre le acque. Le limpide acque. Per amore‌ fonte alberi fiori ombra e ferite. Per amore‌ dannati per sempre e derisi. Chi avrà pianto il suo dolore? 6 giugno 2013

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Canzone della giornata

Canzone della mia giornata compagna di ore. I pensieri si riposano e con te calmi, intonati. Dividiamo le ore del freddo e del male ‌.e le ferite di guerra si placano un poco e guardano la meraviglia della culla di note.

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Del mare dicono troppo grande, troppo epico, troppo infinito. Ma l’orizzonte sta in una foglia, oppure in una balugine di schiuma, nel miracolo dell’onda, nell’abbraccio dell’acqua. Dove tutto comincia.

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Ma come è stato

... ma come è stato, come è stato che tutto si è mosso così in fretta che di tutte le cose che ho visto che ho fatto, raccontato, escluso e ripreso …..io ricordi solo tutta quella strada già percorsa, tutta quella terra che ho calpestato senza neppure guardarla. E ora, al termine di mille viaggi tutti sentiti dentro le ossa, cerco, con forza, di ricordarmi del cielo, del chiaro del bello dei colori…. ma mi rimangono solo i miei occhi confusi nei tuoi, le mie membra stanche appoggiate alle tue. E una manciata di terra….

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14 agosto 2016, sulla strada da Asciano a Monte Oliveto. Ricordo della casa d’infanzia, dalla nonna, nella campagna senese.

E il sole brillava di gioia splendeva il finocchio di campo, già scuro. Arido agosto, il sole brillava e splendeva su crete aride e bianche, ricche di buono, di fermo, di antico. Io cercavo l’aria del fieno bruciato dal sole, e vestito, la notte, di un ricordo immortale. La paglia odorosa, le viti accudite… Salivano sul carro ragazzi eccitati ginocchia spellate gonne sdrucite gambe graffiate. E i buoi, che niente sapevano, andavano miti, con acre odore di stalla (lievi ondeggiavano i fianchi). E il campo mezzo tagliato e i cocomeri spaccati da falci, freddati nel botro e i grilli non smettevano mai….. “Ragazzi è tempo di portare il mangiare nei campi!” e noi ci litigavamo l’onore. Oggi, che ho altro onore, non ci sono consolazioni per me, come invece agli alti poeti1, né colori di limoni, né trombe solari. Oggi, il tesoro è trovare la forza di sopportare, qui, e proprio ora, di non cancellarle, almeno, queste parole

1 Riferimento alla poesia di E.Montale, I Limoni, dove si correla l’improvviso apparire del giallo dei limoni (“le trombe d’oro della solarità”.), segno del grigio inverno finito, la consolazione del sole e della bella stagione in arrivo.

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Un bacio infinito Lei solca questa montagna con l’anima di chi capisce e parla. Parole non dette e suoni che non trovano aria, ma fronde, belle e luminose. Parla con gli alberi, li vede, li tocca. Lei non può camminare che a stento ma lì, abbraccia i tronchi. Chiede a loro la forza e la linfa per vivere. “Sono quasi vecchia” -dice- “e le rughe si dipanano piano...” Il faggio ascolta. Infinite radici fremono, sussurrano parole, udibili solo da pochi.. La cullano, raccontano storie: la vita di piogge e di nidi, di rugiade eterne, di gocce d’ acqua. Un faggio, poi un altro, mentre lei li abbraccia. Gli alberi chiedono, curiosi come i bambini! “Io? Io vengo dal mare: d’inverno profuma e d’estate mi abbraccia… mi abbraccia e il mio corpo diventa leggero….”. “E’ amore?”, dicono gli alberi “Si…è amore…. Ma ora voglio abbracciare solo voi…” un tronco e poi un altro, piano Con la sedia a rotelle che si incastra nel terriccio odoroso, nel muschio, lei passa da un albero all’altro. Ecco la vita… Le fronde si abbassano piano fino quasi a toccarla… un bacio infinito.

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Incontro segreto Quassù, non sento il peso degli anni Salgo leggera…calpesto pochi metri Di foglie, di rosso, di profumo… Esala, il tuo profumo dal croco selvaggio e la felce Qui mi sento anch’io parte del mondo. Respiro profondo. Il muschio, la verde borragine antica, il leggero puff dei ricci. Chiudo gli occhi Puff, intorno, pioggia leggera puff. Cerco di indovinare la frasca Io gioco, e cerco di indovinare… Forse ti ha preso quel ramo fremente del moro? Oppure il nobile ginepro silente? Puff…puff…un timido sole di ottobre mi accarezza gli occhi. Sarò sola domani E la strada solita si aprirà, accecante Ma il nostro incontro segreto Guiderà, domani, la mia sedia a rotelle nel mondo?

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la lava

“Da troppo non vedo colori, quaggiù. Solo il nero, il rosso del fuoco, scintille accecanti, schegge impazzite. Senza regola. Sono io, ricordate?” ma gli uomini spalancano gli occhi di paura. “Non temete, sono io!” Ma gli uomini non sentono… “Ho ancora rabbia, esplodo in rimbombo e qualcosa mi rimescola il cuore. Mi infilo in grotte porose, urlo nei cunicoli segreti… Ma ancora regalo: interi fiumi d’acqua brillante odorosa di zolfo, pura di sale… Ma vorrei rivedere l’azzurro, ancora una volta, una sola…” Ma gli uomini si fanno il segno della croce e fuggono. La lava si acquieta di nuovo. Sulla terra, come ben sa, i più piangono di nascosto.

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I Racconti

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Ndr. A chi per l’ultima volta che ha suonato il piano per me.

n.1 Non sono andata via, stanotte. Ho dormito nella Buca delle fate, lì dove l’odore di ginepro e malva si mescolano con la salsedine, e dove il rosmarino selvatico si avviluppa all’odore dei pini che schiudono la corteccia di notte. Di notte quando l’umidità di infinite goccioline dell’aria si infiltrano in pietre antiche, ancora non scoperte di denso e aspro odore di muffa e di passato. In piena notte, si schiudevano i fiori notturni alla luce della luna e l’acqua dell’aria abbracciava la terra in gocce piccolissime e invisibili. Che profumi nell’aria! Così mi sono alzata in volo, tra il mare e la cima dell’acropoli, mentre tutti dormivano e il nostro passato giaceva amato e protetto nei pochi sassi ritrovati. Una volta questo passato illustre aveva creato una città splendida immersa nel verde…Lì, rari fuochi si alzavano dalle cime degli alberi etruschi. I sacerdoti dell’unica città sul mare, impareggiabile per bellezza, compivano sacrifici: bruciavano rami vergini e incensi, e acri resti di interiora di animali innocenti. C’era gioia e serenità: il fumo sottile si alzava diritto e la brezza del mare si fermava. Il nostro capo, il Lucumone Lars, alzava le palme e non sorrideva mai: cercava di cogliere i misteri lontani di luci arcane… e quel senso profondo del fumo che si alzava diritto. Un tempo nella Buca delle fate, dove ho dormito stanotte, le fanciulle del luogo ballavano fino all’alba. C’erano radure nei boschi e ragazzi giovani con gli occhi di fuoco e i sorrisi ammiccanti che preparavano banchetti e falò. Le ragazze guardavano la Luna, a cui erano devote e poi il Fuoco, loro padre. Il Fuoco, in un’isola di fronte chiamata Elba, forgiava monete che rendevano questa terra forte e robusta, più nobile e più bella e più proterva di tutte le città della Tuscia. Tutta la notte i ragazzi hanno ballato senza stancarsi, nei loro costumi del colore del mare e i calzari allacciati. E tutto si accordava a quel ballo: i padri, le madri, la città intera dormivano come cullate e protette. La gioventù è simbolo di potere e di continuità, chiunque ne abbia è più forte. Stanotte mi è sembrato di rivedere quelle danze alla luce lunare: ero diventata leggera e volavo in una corrente più fresca, ascensionale, verso il mare vaporoso e turchino. Volevo trovare un punto, un punto soltanto, dove il sole rosso e incredibile si era gettato nel mare quando, arrivando, l’avevo visto sparire, nascondendosi dietro la rocca, intento a mantenere il segreto. Mi portavano in alto strane correnti, mentre io volevo scendere giù e vedere almeno uno dei pesci argentati che non sai se fanno rumore passando o guizzano solo in prossimità della luna tagliata che c’era stanotte. 32


E lì è successo: in un guizzo, mi è sembrato di rivedere nel buio pieno di voci del bosco incantato, una nuvola di vesti e di veli e un movimento accompagnato da canti leggeri e timbri di gioia…. erano loro! Erano le fanciulle etrusche della nostra città, per un attimo tornate a rivedere la luna, ad accendere il fuoco, a festeggiare una musica. Avevano sentito una musica (la tua, le tue dita sul pianoforte davanti al mare) ed erano uscite. E ora scivolavano rincorrendo le note. E nelle note si erano perse. Sono corsa verso di loro “eccomi”, avevo gridato. La danza si è fermata di colpo e lo stupore si leggeva sui giovani visi. Ho sorriso anch’io, per vincere la loro timidezza. Una ragazza dagli occhi di carbone, allora si è avvicinata a toccare la mia veste e presto anche gli altri si sono affollati d’intorno. Mi guardavano, mi toccavano appena la pelle e subito ritiravano la mano ridendo. Occhi smarriti, occhi curiosi. Domande silenziose nei volti. Paura, stupore. Chi ero? E così ho dovuto raccontare, ho dovuto spiegare chi ero, e cos’erano quelle note di musica e perché. Ho parlato a lungo….SI sono seduti ai miei piedi. Gli occhi bevevano le parole, in silenzio. Anch’io avevo paura. Con toni pacati, con calma, facendo amicizia con i loro occhi, misurando le parole, ho parlato. Ho detto che non ero della loro essenza e loro non erano carne… Ho raccontato piano, molto piano, di cos’è oggi il mondo, poche cose, leggere. E ho parlato ancora…. finché i grandi occhi neri non si sono riempiti di lacrime. Non ho detto di eserciti nemici che li avrebbero cancellati ed ho trascurato anche tutto il male che c’è: ho detto solo quel tanto che basta…. E’ bastato questo: raccontare cos’è stato per me quella musica per farli arrivare a frotte, gli occhi bagnati e i visi tesi all’ascolto. Da dietro gli alberi, ancora e ancora mi venivano intorno, i più timidi, i più diffidenti. Ho detto ai giovani maschi che se ne stavano ammassati in disparte (già con lo sguardo fiero guerriero) che il mondo per l’eternità avrebbe sentito parlare di loro, e che loro, proprio loro che sapevano mimare e ballare e cantare così bene alla Luna, avrebbero dato vita ad una cosa che si chiama teatro: un gruppo di loro sarebbe un giorno sfilato nel Circo Massimo nella città che chiamano Roma, nel tempo chiamato V secolo avanti cristo (sguardi sperduti…..) seguito da uno stuolo di giovani plebei dai muscoli gonfi. Loro sarebbero stati ”gli ister”, come sono stati per sempre chiamati, “venuti dall’Etruria” e avrebbero danzato e ballato di fronte ad un popolo variopinto e disarmonico, rozzo e dedito alla guerra e alla risata volgare, che non conosceva niente, né danze, né mimo, né musica. Ma solo le armi. 33


E da allora gli attori si sarebbero chiamati istrioni e la loro arte non avrebbe mai fermato la gloria. Mi hanno ascoltato increduli ma un filo di orgoglio e tremore passava già negli occhi di brace, grandi, immensi. E così, con una morsa nel cuore, per allontanare la paura da occhi che già capivano che era finito, che era già tutto finito, li ho presi per mano: -“ascoltate” ho detto Qualcuno suonava, eppure era tardi. Suonava ancora. Nonostante il primo chiarore appena avvertito dell’alba. Note di un pianoforte che scendevano da lassù, dalla torre su in alto nella città vicina. E a poco a poco la loro paura è mutata, gli occhi sono tornati ridenti, le mani hanno ripreso un poco alla volta, a volare. Ce l’avevo fatta. Ho battuto le mani con loro, incitandoli, e ho mosso le braccia danzando. Qualcuno ha sorriso e ha trascinato anche gli altri nel movimento armonioso Finalmente, avevo vinto la loro paura, avevo impedito che facessero la domanda terribile…. Invece quel momento è passato, e abbiamo riso insieme, in un girotondo infinito.. E io ho spiegato che erano solo note rimaste lì, da sole, rimaste nell’aria. Ed ho indicato loro la torre merlata, Populna (o Populonia, come ora si chiama) colore dell’oro nel cielo stellato, dietro di loro. Le note avevano già riempito la valle e avevano insidiato le grotte, penetrato le pietre e le mura intatte, rimbalzato su tombe segrete coperte per sempre di rovi anche ad est, dove il grande porto manda le navi nell’isola sacra, e infine arrivate agli occhi assopiti dei giovani dalle carni abbronzate e frementi di vita. E allora ho deciso…. sarei rimasta con loro per sempre. Ecco perché mi troverete solo qui, voi forestieri. Ho deciso: proprio stanotte: mi hanno portato dal Lare e hanno intonato una preghiera alle stelle. Finalmente, via dalla vita, ho pensato. Ma non era il momento per me. No, mi hanno risposto. Pochi secondi e ho avuto il responso: mi hanno detto solo stanotte, finché il sole non sorge. Devi tornare nella tua vita, hanno detto. Ma io voglio restare e lasciare qui la mia sepoltura che nessuno scoprirà, per tanti anni. E quando sarà, a lui io vorrei raccontare che è stata la musica che ha accompagnato la mia anima in aria a indirizzarmi fin qui.

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Ma arrivava già l’alba e le mani si staccavano dalle mie. Già mi sembrava che i loro volti fossero più lievi, trasparenti, pieni di una polvere sfumata di tanti colori quanti quelli che Eos, gelosa, lascia cadere sulle cose del buio. Ed era lieve, leggera come una libellula rosa. Era il momento degli addii. Allora ho voluto che il mio saluto fosse di gioia, perché mi sembrava che non rimanesse altro che il ridere . Ho cercato parole particolari, difficili, difficili come solo le parole lo sanno. Ma non le trovavo e ad ogni istante il cuore era più gonfio e gli occhi bruciavano. Poi sono stati proprio loro, i ragazzi, ad aiutarmi: delle mani gentili hanno preso le mie e un flauto ha fatto uscire note incredibili di un’ armonia e una scala perfette. Arretravano insieme, nel bosco, si ritiravano come nebbia al mattino…piano, senza farmi del male. Addio, ho detto. E mentre ci guardavamo ancora una volta, ho continuato a sorridere e a danzare con loro. Stringevo le ultime mani che scivolavano indietro, e danzavo, senza sentire la fatica o il peso del corpo. Ho danzato e danzato, finché non li ho più visti. Ed ero leggera: avevo dei veli di un verde marino notturno che fluttuavano appena, nell’aria. Da lontano, sembravano le cime dei boschi.

1 Premio Costa degli Etruschi. Concorso Nazionale di narrativa “Lars, l’etrusco”.

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N2 Era stanca, ma non lo disse. Andò avanti. Aveva percorso un lungo tratto di spiaggia, senza rendersene conto. Fra poco sarebbe calata la sera. Il cielo già perdeva di trasparenza. Per il solo piacere di spingersi oltre, penetrò nella desolazione delle dune che ne ospitavano altre, scavate nelle facce dei pescatori che accomodavano le reti. Si fermò vicino al mare, dove il fosso versava la sua acqua opaca, soffocata dai moscerini. Dove il vento aveva trascinato le pigne dei pini che si piegavano disperati. Si piegavano fuori dalla pineta erosa dalle corrente, e stavano chini sulle onde del mare, quasi a resistere fino all’estremo sul baratro. La pigna caduta, invece si divertiva: rotolava fanciullescamente, e giocava ad andare e venire con le onde bambine. Un gioco infinito. Lontano, si vedeva il faro. Un tempo aveva segnalato gli approdi alle acque scomparse; ora si ergeva dimenticato, offuscato dalla nebbia a perdita d'occhio. “Custodisce ancora segreti-pensavaquella nave di punici pieni di anfore e profumi, piene di ori etruschi, mai trovata”. Laggiù, nel mare, la nave era nei suoi occhi. Laggiù, felice per sempre, tra suoni attutiti e coralli a mascherare i tesori. I pesci colorati come fiori alle finestre. Laggiù, finalmente al sicuro. Si sedette su una scaletta di legno corroso, mangiato dal sale, che da anni nessuno saliva più, ed ebbe la sensazione di isolarsi in una marea di sabbia bianchissima, caduto ogni contatto con la realtà. Intensamente,-in un punto di sé a cui non avrebbe saputo dare un nome, ma sapendo che non si trattava né di cuore né di anima, se essa esiste, ma di un qualcosa di indefinito che assume in noi, a volte, contorni sfumati eppure difficilmente sopportabili…. pensò al bianco. A questo colore quando si impadronisce della vita, e la svuota, la svena. Il bianco che soltanto 1'estate assume, in certi trapassi di fuoco, è il colore più feroce e terribile. Rivide quel volto pallido, a volte scavato. Tante volte aveva cercato di leggerlo e scoprirlo, e le sembrava allora che si animasse e parlasse di tutte le cose che lei non aveva mai sentito dire. E allora i tratti diventavano dolci, e i profondi occhi, scuri. Lampeggiavano passione. E ora, invece, quelle rughe erano mute, come nei giganti di pietra delle isole Egee. Gli occhi dei pescatori la guardavano, incuriositi, tutti azzurri -o così le sembrava- come il mare. Lei cercava di allontanare dalla mente le parola della tristezza, quelle giornaliere. Fredde come roccia, e chiare come un bollettino di guerra. Avevano scandito i minuti, come previsto, senza pietà, senza miracoli. Però non poteva scordare che era stato bello. Bello, come una cometa d'estate. Per questa ragione ora si era spinta in un punto tanto remoto, tanto lontano da tutti, - e poi avanti nel molo, dove il mare è più profondo, e nero nella sera avvolgente…-per dimenticare tutte le comete che avevano attraversato la sua vita.

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Sull'acqua, attirati dai ricordi come esche, arrivavano i gabbiani, richiamati dalle prime ombre. Tra le tamerici un passerotto disperso stonava i suoi richiami assecondando le dissonanze del creato, che lui solo intendeva. Intorno, nonostante uno squarcio di arancio che oscurava tutto il resto, era una sera come tante, senza tracce di sole sul mare. E mentre il giorno moriva a modo suo, con una scia di sangue invisibile che si perdeva dietro, lei aveva la sensazione che anche tutto il resto del mondo non sarebbe piĂš riuscito a nascerle dentro. Poi, forse, sarebbe stata la prima a calpestarlo. Un mondo non consumato dalle attese e dalle comete terrene : finalmente consapevole spettatrice, chiuso il teatro, solo di se stessa.

1 Premio Concorso Nazionale Rizzoli news. “L’anima e le cose�.

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La cartomante. N4

Rosanna vende illusioni. Intorno al tavolo puoi immaginare una nuvola impalpabile dove, sotto 1'ipnosi del sonno, puoi dare vita ai tuoi desideri. Il pudore li racchiude, all'inizio, con mani a coppa. Poi, piano, le dita si schiudono. Rosanna ha gli occhi penetranti. Non sai se quello che ti fa dischiudere sono i suoi occhi profondi o un sorriso che non capirai mai se è divertimento o partecipazione. In silenzio, nel grande salone, sento distinti tutti i rumori della vita, intorno. Cerco di sfuggire all'indagine dei suoi occhi e mi raccomando alle tende che il vento gonfia ogni tanto, piano. Dai vetri non coperti dalle tende vedo un lievitare di verde. Ci sono alberi, aria, rumori, fuori. I merli piangono quando ci sono io, ma Rosanna ride e dice che non piangono, cantano. Cantano le gioie dell'amore. Lei risponde, spesso, con lo stesso fischio e intreccia un dialogo con loro in cui io mi sento del tutto tagliata fuori. Per me, piangono. Rosanna ride tranquilla delle mie elucubrazioni mentali, e non ha paura di perdersi nei miei meandri. Eppure, i miei meandri fanno paura. Ma quello che mi attrae in lei, non è il sorriso di chi sa quello che tu non sai ed ha in mano il potere di saperlo, e nemmeno il fascino della vita complicata che dicono di lei. Quello che mi attrae è 1'intelligenza. Forse la magia è la mente, e l'intelligenza è la forza di farla muovere. Dentro, la mia mente è come una piantina che riceve acqua vicino a lei. Fuori, sono una disperata come le tante donne che vedo avvicendarsi al suo tavolo tondo. Debole, per pagarsi le illusioni o una voce amica che ti dice che andrà come vorresti. Forte - e così perduta - di esserne cosciente. Le carte sul tavolo, hanno lunghe storie da raccontare: ai lati sono consunte da divenire un tutt'uno con le sue dita. Hanno le sue rotondità e l'odore d'incenso della sua mano. Sul legno marrone i segni colorati diventano tracce di una mappa segreta: il tesoro dei bambini che non si trova, gli indizi di un archeologo di una regione perduta. Batte il cuore senza rintocchi quando lei legge delle cose incomprensibili che non sai legare a quei segni. Il miracolo, il misticismo negato ai profani di un tempo perduto... e il futuro e il presente si spiegano come papiri antichi, e tutto diventa possibile, chiaro, evidente. Il Fante di fiori "c'è la Ruota di Fortuna!" Stupida io che ho dubitato, stupida a non vedere nel senso dell'assurdo che non t’impedisce di pensare a perché un'altra volta c'era, ma non c'era, non era quello il suo posto per essere letto così. Mille ghirigori s’intrecciano e confondono, perché la confusione è il caos, e da quel caos, come nella vita, nasce un ordine che solo pochi sanno accettare. Poi, le cose non accadono - o qualche volta sì, ma le dimentichi - e speri sempre che ti dica che, invece, accadranno. 38


D'altra parte le carte, si sa, cambiano coma la vita. E non si saprà mai quale delle due fa muovere l'altra. La guardo, mentre cammina o si muove. Lei non sa che la guardo, anche se non la vedo. Non so perché, ma anche ai suoi gesti, o dal rumore rispettoso dei tacchi a spillo, posso capire molto di lei. Quando siamo lì, sedute, siamo due mondi ricchi a confronto. Mentre mi parla, io parlo con me stessa e cerco di capire cosa in realtà pensi di me: simpatia ? - e allora gioco la parte del giullare per farmi accarezzare l'anima - oppure "pietà" ? - e allora il solito silenzio, il mio silenzio di sempre, mi schiaccia. Poi, quello che lascio fuori, spesso, bussa alla porta. Allora la guardo disperata e vorrei urlare aiutami, ti prego, lotta tu contro questa cosa che ho dentro. Mentre lei parla, io continuo a raccontarmi senza dirlo, e la racconto. La solitudine, per chi ce l'ha, è un abisso dove tutto si perde. E gli dei, o dio, sono già caduti giù da un pezzo. Finché la prostituzione dei giorni mi darà dei soldi pieni di microbi tra le mani, mi comprerò ancora queste illusioni. Poi, forse le conterò un giorno. Premio Giuria“Lanx Satura”, Roma, Rocca di Papa.

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N5

17 gennaio 1988- 15 giugno 1988. In sei mesi di Ospedale, dopo l’incidente, chi avrebbe potuto capire che fra dolori di ossa rotte e frantumate, di tentativi vani di muovere il corpo, ci fosse posto per innamorarsi?

Qualcuno ha detto che le cose accadano quando uno non se le aspetta. Perché è più debole. E le armi sano a terra, lo scudo a riposo. Proprio in quei sei mesi d'ospedale si sono incontrati, entrambi indifesi, entrambi deboli. Entrambi destinati, poi, per tutta la vita, a leccarsi le ferite. E' successo subito, appena lui è entrato nella stanza, con la sua divisa sicura, una divisa che ti doveva guarire. E’ successo subito, appena l'ha guardata. Fisso, per un istante infinito che ha fatto girare la gente, diritto negli occhi. Lei ne aveva avuto il presentimento. Il timone già spezzato, nelle sue mani. Poi, giorni di complicità e di paura , terribile ed eccitante, mentre fuori dalla porta il mondo scorreva, i campanelli suonavano e arrivava il mangiare. Loro rimanevano lì, isolati da tutto. Con la vita che prende la complicità ansiosa di arrivare alla mattina dopo. "L'amica di sempre", fuori della porta, sulla sedia a rotelle fa “la guardia”, come dice lei, con la solita tenerezza. Ma ovviamente non c’è niente da “guardare”, anche se gli ospedali ortopedici di lunga degenza, sono abbandonati da Dio. Sussurri, messaggi in silenzio, regali che lui le porta per quelle ore di distacco, occhi e mani. Mani che infine la rialzano dalla lunga immobilità. Mani che la rimettono in piedi. Stampelle che si trasformano in carezze, appoggi che diventano corpi che si sfiorano. Contro il mondo, contro tutto. Senza pensare. Ma esiste anche un' “altra”, ovviamente. Quella che occupa il posto nel mondo… e allora lei scrive, e parla al niente, come se l’ “altra”, quella vera, sentisse. Sta diventando un'abitudine, il batticuore. Sposati senza matrimonio, tutti i crucci della clandestinità, senza che l'istante intimo compensi. Situazione di gente debole, sleale, pronta all'intrigo, nel cuore a pezzi fino alle briciole. Poi, la primavera: i fiori sbocciano come fucilate, alle spalle. Aiuto, dov'è l'inverno? Scattano i piccoli cassetti inconfessabili, finora in letargo. Ho compassione di questi ciechi e vani maneggi che sono, a vari gradi di stupidaggine, quelli di molti. Ponzio Pilato è chi si lava le mani, e ti getta nelle braccia di un altro. E per l'altro, o l'altra, nemmeno una parola, un po’ di comprensione. Quale vita agghiacciante è questa? Ogni gesto con l'altra "vera" sarà stato bugiardo, o a metà per coprire un interesse vero, se c'è. Gli incontri, stuzzicanti e vili. Una storia segreta per 40


l'immaginazione di una donna è sempre vincente, è quella a cui pensa. All' “altra”, alla donna "vera" si cerca di non pensare, di non immaginarla. E lui? Lui spesso è solo un maledetto "allumeur" che si interessa ad una donna solo quando è una preda disponibile e poi-poi al dunque, non la vuole. Però poi lui è con te...ma perché continua a dire che l'altra è la donna della sua vita? Per cosa? Solo per la comodità spinosa di una strada segnata. Se la donna "vera" fosse importante, ci sarebbe l'impulso di dire tutto. Non "confessare" in attesa di punizione, ma "mostrarsi" per come siamo. E forse in quel momento scoppierebbe una scintilla ( o la comprensione) o il colpo di una pistola. D'altra parte, l'Amore è rischio, non un caffé nella pausa. L'Amore vero non finisce perché ci pongono degli ostacoli. E mi viene a mente la donna che nel Vangelo chiede a Gesù a chi apparterrà nell'aldilà l'uomo che nella vita ha sposato una seconda donna. Gesù si sdegna, pensa che la donna voglia metterlo in difficoltà per malizia. Ma forse è solo una donna in ansia, innamorata di un uomo sposato, e spera, almeno nell'aldilà, un accordo senza strazi, stratagemmi, dilemmi. Un amore celeste. In terra, però, lo devo ancora vedere. Di solito, in terra, i più piangono di nascosto.

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N6 17 gennaio 1988- 15 giugno 1988. In Nella stessa stanza, lei e “l’amica di sempre”, parlano, con gli occhi, come facevano da bambine. I pensieri, rimangono nelle mani come chicchi di polvere. Li guarda...

Mercoledì, mattina. Talvolta non mi sembra di essere diversa da queste vecchie che vivono di ricordi. Solo, non riesco a ricordare il pianeta, il paese in cui li ho vissuti. Diventerò anch'io una vecchia piena di ricordi da raccontare come questi squallidi uomini che passano le loro serate a parlare della Resistenza ? ....Mi perdo ancora una volta nel mare, nelle tempeste. Ma il ricordo della Guerra di Troia è cosi vago, così incerto in questi problemi di ora, che non so più veramente se c'ero anch'io. Non mi hanno mai detto di essere una mitomane. Certamente qualcosa deve essere accaduto, ma mi è sfuggito. Un improvviso dirottamento che non ho colto. Domani, ancora una volta. Aspettare Domani, come è sempre stato, come è per tutti coloro che non hanno domani. A noi che ci hanno insegnato ad aspettare, pazientemente. Quante volte mi hanno detto "domani". Aspettare come brave persone. Come Renzo, o Lucia che non ha mai avuto fretta di niente. Domani perché la frustrazione sia più forte, più feroce, più palpabile. Sono stanca. Mi sento come i Troiani ingannati dal cavallo. Mi sembra. che la mia debole roccaforte sia andata in fumo, distrutta da una calda primavera di tanti anni fa. Ho fatto appena, in tempo a scappare dall'ultima delle torri prima che precipitasse. Ho ancora dentro di me il fragore delle pietre spaccate, le urla, i morti. E' tutto dentro di me. E ora sto qui, in questo letto come Ulisse sulla sua zattera, sola e raminga, a viaggiare cercando un'Itaca a cui aggrapparsi. Ma qual è la mia Itaca ? A volte mi piace raccontar storie, incredibili balle grosse come una casa, poiché non c'è niente al mondo di più inebriante che trasformare la realtà grezza e cruda plasmando gli aneddoti più banali e gli avvenimenti più innocui, facendone delle storie sensazionali da raccontare a tutti. E guardare gli occhi di chi non ti importa che ci credono. Il mio viaggio si ferma ancora. Mi sento perduta un'altra volta e sento la mia Itaca sempre più lontana. Non so più dove andare, dove dirigermi. Non conosco più la rotta di casa. Non volevo morire prima di essere arrivata in fondo, di aver capito qualcosa. A volte mi sveglio con questo pugnale infilato qui, nel fianco destro. Se cerco di toglierlo mi sento strappare tutto, dal cervello alla spina dorsale. Poi sale 1'odio (o è amore? no, no, è odio), odio per una divisa diversa per una faccia diversa, per un problema tuo che io non ho. Odio per tutto 1'odio che uno ha di se stesso. L'ironia dell'autodisprezzo che porta a disprezzare gli altri. Così come in tutte le guerre, anche in questa, la morte, forse, è una liberazione... E il nostro silenzio, che non serve più a riavvicinarci gli occhi...il nostro silenzio, il nostro pazzo silenzio di ogni giorno, è la vera conflagrazione di questa guerra.

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Stesso giorno, notte fonda. Non mi ero mai accorta di come le armi di ogni persona siano destinate a restare sempre le stesse, come quelle di certi guerrieri. Io però a poco a poco ho deposto le armi, e questo è stato il mio solo mutamento possibile. Priva di difese, come un guerriero troiano sotto le mura in fiamme, ho fatto uno scambio col destino, e ho ottenuto in cambio il dono della preveggenza. Così mi trovo spesso sola a parlare con la mia voce: il massimo. Di più, altro, non ho voluto, non ho ottenuto. All'occorrenza posso dimostrarlo e stupire la gente, ma chi? Questi visi estranei che con insolenza e soggezione a volte circondano il mio letto? Ci sarebbe da ridere se fosse il momento: la mia tendenza a giustificarmi e poi a trionfare avrebbe dovuto estinguersi un po’ prima di me. Non ho ancora visto abbastanza. Di questi mesi di ospedale, di questa gente che soffre, più di me, quanto me. Non voglio parlare più. Tutte le speranze e tutte le abitudini sono bruciate. Deserti i luoghi dell'anima da cui potrebbero rinascere. Per me, non ho più compassione che per gli altri. Non voglio dimostrare più nulla, o almeno credo. Lunedì, ore 16 Se a tentoni oggi vado a ritroso lungo il filo della vita che arrotolato dentro di me; salto gli anni delle illusioni -gli ultimi- ; gli anni eroici e sfortunati dello studio; quelli rabbiosi e contorti di sofferenza dell'adolescenza; alla bambina...e qui rimango impigliata nella parola. Nell'immagine bella. Sono sempre stata legata molto alle immagini, forse anche più che alle parole. In ultimo, sono sicura, non ci saranno più parole, ci sarà un'immagine. Prima delle immagini, le parole muoiono. Allora ho paura della morte. Come sarà….? La debolezza avrà il sopravvento. Il corpo imporrà il dominio sul pensiero. Con un violento spintone la paura della morte tornerà facilmente ad occupare tutte le posizioni che ho strappato alla mia ignoranza, alle mie speranze, al mio forte orgoglio, alla mia ansia, alla mia vergogna. Riuscirà con facilità a spazzar via anche il proposito per il quale ho trovato la formula: non voglio perdere la coscienza fino alla fine. Un sogno. Intorno c'era freddo e buio. Aprì gli occhi a fatica, sbatté forte le palpebre ma non riuscì a distinguere niente oltre quel buio fitto. Capì che era adagiata a terra. Sfiorò con le palme delle mani il suolo. Era duro, polveroso e freddo. Allungando le braccia toccò delle pareti fredde di roccia. Una roccia dura, umida. Aveva delle scanalature taglienti in cui colava una specie di sudore freddo. Un brivido le scosse tutte le ossa in un tremito convulso. Cercò di alzarsi, ma anche il soffitto, basso, era di roccia. Più levigata, ma altrettanto fredda e umida. Nello sforzo di alzarsi le sembrò che le mancasse 1'aria. Ma si, non c'erano aperture. Il buco nero in tutto era largo non più di un metro. Ora poteva percorrerlo con le mani. Si fermò. Il petto bruciava per la progressiva mancanza d'aria. Cercò di frugare dentro al cervello ma non trovò niente. Si riaccucciò al suolo duro e polveroso. Ad un tratto capì...un buco, nero e perso nell'universo. Il silenzio accecava il cuore e spaccava 1'anima. Ebbe la lucida, completa consapevolezza della solitudine, dell'isolamento. Ma si, ecco, il contrappasso, la punizione. Aveva sognato tutta la vita un buco nero, perso nell'universo, in cui nascondersi. Si lasciò andare a terra. La progressiva mancanza d'aria bruciava i polmoni e faceva battere più forte il cuore. 43


Nessuno l'avrebbe mai trovata, né avrebbe mai capito. Un ultimo pensiero le attraversò la mente : chissà in quale punto lontano della galassia navigava quel buco nero. Ma era poi cosi importante saperlo? Lasciò che quel buio senza soluzione, pian piano, le entrasse nel cuore. Insieme ad un languido, progressivo senso di sfinitezza. Si lasciò andare, finalmente, al riposo. Abbassò la testa e i capelli si sparsero al suolo. L'ultima immagine furono i suoi capelli biondi, sulla terra nera.

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N7 La nascita, dove tutto comincia. O finisce.

Un filo di impercettibile respiro sale al cervello vacillante che sta per spengersi. Questa è la morte, non si torna indietro. Finalmente, la morte. C'è brulichìo nero, qualche lampo guizza e si sfa nella polvere di un chiarore lontano. Vede, ma cosa non lo sa. Non ha corpo, non ha sostanza, spessore. Il buio si condensa, lo soffoca, lo schiaccia con la prepotenza dell'immobilità. Senza lacrime, piange. Un grido lacerante squarcia il tempo: un grumo di sangue che sussulta come può, senza gola nè orecchie, e il grido dopo un attimo, ritorna. Laggiù, in un letto, svanisce il suo corpo rigido. Accanto, qualcuno continua ad urlare, mentre si agita e ansima. All'improvviso una voce chiara e forte dice "E' una bellissima bambina". D'un tratto capisce. Dunque, non il bagliore di un breve ritorno alla vita, sopra alla stanza a guardare i volti intorno al letto desolati. Ma uno sbaglio, un terribile sbaglio. Una caduta tra mostri. Da una piccola fessura spalancata esce un suono strozzato: la sua voce, mentre mani enormi battono il grumolo di carne che, suo malgrado, con disperazione, ha cominciato respirare. Dunque un neonato, scivolato giù fra presenze sconosciute, fra sorrisi compiaciuti che non vuole. Per fortuna, le sembra che la morte subito dopo ritorni. Ma lo dicono quasi subito: non è morte, è sonno. Non morte, ma sonno.... All'ombra di un frusciante fiocco rosa sulla culla, lascia andare un sospiro soffocato d'angoscia. Sotto i sorrisi degli altri, si prepara, stringendo i piccoli pugni, a ricominciare tutto da capo.

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Radio Faro Cap.1 N8

A Diego Pretini, Quella volta che ho intervistato Baglioni Lettera a Diego, ex alunno, ora giornalista impegnato in un giornale di grido, a Milano. Un giorno che mi ha ricercato perché gli raccontassi qualcosa della mia vita, di cui è una delle poche persone a non saziarsi mai. In cambio mi ha -sicuramente per affettoriconfermato la sua gratitudine per “ciò che gli ho insegnato” negli anni di scuola…

La macchina sembrava singhiozzare più che andare, su quella strada alternativa all’autostrada (non c’erano i soldi per pagarla) che poi sarebbe diventata invece con un bel po’ di lavori e di rifacimento del manto stradale la SGC Firenze-Livorno Porto. Ma allora era ancora una strada col selciato mezzo rovinato, e noi con la 1200 scalcinata e piena di ingombranti attrezzi: un registratore grande con lunghi cavi, dei microfoni dolby e stereo ultimo grido di quelli che si riprendevano le voci da venti metri “Inutile” avevo detto io, per un’intervista andava benissimo il mio registratorino Philips, ma i miei compagni di entusiasmo, pensavano che così fosse più importante. In effetti la Radio era tutto per noi. E se non avevi certi strumenti certo era più difficile entrare dalla porta della “stampa” quando andavi ad intervistare un personaggio famoso. Non erano venuti volentieri per Baglioni. Erano gli anni in cui andava di moda il rock duro, e Baglioni era caduto nella fase dello smelenso. Alla Radio lo chiedeva solo il pubblico femminile, casalinghe e qualche fidanzata. Ce n’è voluto di tempo e di coraggio perché Baglioni si rifacesse un’immagine. Sono così fiera di lui ora. “Hai già pensato cosa gli chiedi?” Valerio guidava così, cantando o battendo il tempo, sempre. Ta pum pum ta ta pum pum pum, sul volante sul cruscotto sulle sue gambe. Poi senza aspettare la mia 46


risposta (lo sapevo, faceva sempre così) “vedrai che non ti risponde. Non c’ha mica nulla da dire, cosa vuoi che ti dica ‘io quando ho scritto “solo” mi sono ispirato a quando ero solo!!!’ “ e poi rideva. Ma Valerio era stato con me quando avevo intervistato Guccini, Pierangelo Bertoli e gli altri. Era con me quando al Palasport di Milano avevano fischiato e contestato apertamente De Gregori che, dopo la scissione dei cantautori della schiera di Tenco, non riuscivano ad essere coerenti con le idee di non allineamento alla macchina del consumismo. Ci son voluti anni a de Gregari, e l’aiuto di Dalla, per uscire da quell’esperienza. Erano tempi difficili. Tempi in cui Bennato cantava “Sono solo canzonette” prendendosela contro chi avrebbe voluto catalogarlo e incastrarlo anche dal punto di visto politico, oltre che discografico, pagando così anni e anni di dischi appena venduti se non ad una schiera ristretta di appassionati, sempre giovani. Ora le cose sono cambiate, il mercato è diverso, i “cantautori” non esistono più. erano legati al ’68 e poi agli anni 70. La storia è cambiata. E la nostra Radio Faro non esiste più da trent’anni. “Tu cerca di arrivare in tempo” gli dicevo sempre. In tempo per poter entrare giù insieme alla stampa e convincere il servizio d’ordine che tutto il nostro ‘strumentario’ era in regola. Il Palasport quando arrivammo, quella sera, non era chiassoso Valerio guardava divertito: “vuoi vedere che non c’è nessuno?- ta pum pum ta ta- da ridere no?” Figurati, dico io. Figurati. Ma penso. Il periodo non era dei migliori per Baglioni. Vicende familiari, un incidente. Ma “Alè-òhòh” veniva fuori bellissima, e il pubblico partecipava, sempre. Era quel grido. Era il grido che era fatto apposta per prendere. Forse il fatto che fosse nato in uno stadio non era casuale, era un grido fatto per trascinare gli animi. Figurati, -penso-forse è perché piove. Arriveranno. Il servizio d’ordine ci mette in una grande stanza. Ci sono personaggi illustri di grande testate e il gruppo chiassoso dei “radiofonici”, come ci chiamano. Ci guardano dall’alto in basso, ma non mi importa. Mario Luzzato Fègiz, (che poi ho conosciuto ed è una persona piacevolissima, ed ha presentato un LP di Branduardi meglio di un poeta) ora è in mezzo ad un capannello di gente, avvolto nella sua nuvola di sigaro. Valerio si tuffa fra loro “Uh, guarda, guarda! Hai visto chi c’è…” Lascia tutti gli strumenti ai miei piedi e corre verso il gruppo. Anche ora, dopo vent’anni ha ancora quell’entusiasmo da bambino quando lo incontro. Io ascolto. Come mi capita spesso, faccio silenzio. Silenzio. Mi astraggo. Cerco di capire, mi guardo intorno: alle parete sono ammucchiate panche da spogliatoio. C’è fumo nell’aria che si addensa in alto. Dei suoni si intrecciano, forti. Accordi di chitarre colpi di batterie modulate sui toni del “do” in diverse scale. E rumori ovattati di gente, di passi. Si ammucchiano tutti in alto, vicino a delle finestre sottili, orizzontali, azzurre del colore della sera. Dove sarà? mi chiedo. Esco. Qualcuno mi dice “Guarda che non puoi uscire ora o stai dentro o stai fuori” “Va bene” dico. Ma intanto quello si è girato perché un gruppo chiassoso (Radio One) vuole entrare discutendo i loro permessi. Scivolo fuori e prendo un corridoio scuro. Spingo una porta e salgo qualche scalino. In realtà no so dove sto andando assolutamente, mi guida un istinto che non so. Cammino astraendomi dai suoni, dalle voci, dai rumori. Una voce.. Arriva da una porta anonima. tinta di verde, uno sgabuzzino, non un camerino (i camerini, c’è una freccia, sono più su). Eppure la voce la conosco… 47


Una voce bassa…”noi ci perdemmo..” poi ricomincia “noi ci perdemmo dietro…dentro, noi ci perdemmo sotto…”qualche accordo appena accennato e una porta socchiusa. Lo so, c’è lui. Spingo la porta piano. “Per me ci sta bene “dentro”, dico ” Chi sei?” “Nessuno” Nessuno, come disse Ulisse a Polifemo. Sorride. “Che ci fai qui” “Sono per la Radio..” “Non è l’ora….” “Non voglio un’intervista, ho preso la porta sbagliata e ti volevo dire che per me ci sta bene “dentro”. China di nuovo la testa sulle corde. Il naso è aquilino e i capelli folti, ma lo sguardo è quello di ora. serio. Ha una felpa blu, leggera e dei bluejeans. “E lungo il Tevere che andava lento lento noi ci perdemmo..dentro…l’ombra..il rosso..” “…di un tramonto..” dico sicura. Mi guarda appena e sorride. ”E lungo il Tevere che andava lento lento/ noi ci perdemmo dentro il rosso di un tramonto/…fino a gridare i nostri nomi…” “..contro il vento…” “fino a gridare i nostri nomi contro il vento <tu fai sul serio o no?>..” La canzone si intitolerà “Con tutto l’amore che posso”, una poesia. Una di quelle a cui ha lavorato più a lungo, nel 70, nel 75, e anche allora nell’82, ancora non si accontentava delle parole. Le parole, tutto o niente in una canzone…*. Quanti minuti? Due tre cinque dieci? Arrivano dei passi, delle voci. Sono in due, entrano stupiti e arrabbiati: ”Via via, le interviste si fanno dopo. Via” Mi spingono fuori, potevo essere uomo donna, di trenta, cent’anni, non importava. Ci guardiamo quello che è possibile nei secondi che ci mettono a mandarmi fuori. “Grazie” mi sussurra. Appena un sorriso. “Mi chiamo Mara” riesco a dire. Che gliene importa? “sono di Radio F…” Che importa…. Poi al concerto tutto va nello stesso modo. A vent’anni a diciotto a venticinque, è uguale, tutto ti sembra il Paradiso. Non mi sono mai montata la testa, né quando ho conosciuto dei personaggi, né quando, per la mia insaziabile sete di sapere ho fatto cose che con l’archeologia con il greco e con il latino non c’entravano nulla. Quando sono andata a Roma e ho preso un diploma di Radiofonia, che tengo chiuso nel cassetto, (pochi mesi dopo quest’episodio), nessuno sapeva che avevo anche una laurea in lettere classiche che avevo la specializzazione in archeologia che avevo scavato in qua e là o che avevo un diploma di istruttore di atletica leggera preso al Coni. In ogni posto sono io e sono diversa. E non è detto che tutti debbano sapere di tutto. Al concerto si registrano le canzoni con gli apparecchi che Valerio piazza sotto il centro master perché si senta meglio. Lui canta, come al solito, e trascina alla fine quel suo alé-ho ho che dà titolo al concerto. Fa anche delle dediche: ce n’è una anche per chi gli ha suggerito delle parole.. La vita è un mistero senza fine grande. E io ho avuto tante emozioni. 48


Non parlerò del pezzo che viene fuori dall’intervista, perché l’intervista è comune: l’artista si mette da una parte e tutti fanno delle domande. Certo un pezzo per il giornale radio del giorno dopo e uno special per la mia rubrica sui cantautori ci viene. Ma non è quella che io intendo per intervista. Non fu certo quella che venne fuori l’intervista che mi rimase. E’ stato così anche per altri… Eugenio Bennato all’inizio del Concerto, trovato sempre con il mio fiuto, mentre si concentrava, rimase attratto dall’idea di parlare fuori dagli schemi, ma era preoccupato di far bene il concerto e aveva molto bisogno di concentrarsi. Alla mia educata insistenza mi disse: ”Preferisci che faccia male il concerto o che ti parli ora” mi sembrò un discorso molto amichevole. Ricordo ancora a distanza di vent’anni il linoleum del palazzetto di Pisa e la striscia di plastica rossa e bianca che divideva la gente dal cantante. Allora non c’erano tutte queste misure di sicurezza ed era tutto molto più approssimativo e più vero Dopo, però, mi parlò a lungo, soprattutto del suo rapporto col fratello Edoardo, come volevo io. Pierangelo Bertoli invece è stato l’unico che è stato col pubblico dall’inizio alla fine, con lui non c’erano problemi di sorta. Forse ti ascoltava anche se avevi dei problemi ed era capace di consolarti per essere lui stesso inchiodato per sempre in quella sedia a rotelle da dove ha scritto canzoni bellissime….. Però così non finisco più di raccontare…e tu non hai tempo di leggere tanto. Mi fermo, dunque. Se vuoi una volta posso ancora raccontarti tutto quello che ancora c’è: la mia collaborazione –breve ma intensa- con Radio Blu, di Roma, il cui direttore Franco La Torre, era figlio di quel Pio La Torre ucciso dalle “Brigate Nere” negli Anni di piombo…e dall’eccitazione di farsi ascoltare dalla “capitale”...Della stretta di mano poderosa di Guccini. Di come si rilegano insieme i nastri dopo averli tagliati nelle grandi “pizze” dei registratori professionali… Di come si fa un articolo per un giornale radio e come si fa un intervista…. Poco i confronto al fatto che poi, però, non so dirti da dove si possa prendere la gioia di vivere.

*la vita è adesso nel vecchio albergo della terra e ognuno in una stanza 49


e in una storia di mattini più leggeri e cieli smarginati di speranza e di silenzi da ascoltare e ti sorprenderai a cantare ma non sai perché la vita è adesso nei pomeriggi un poco freschi che ti viene sonno e le campane girano le nuvole e piove sui capelli e sopra i tavolini dei caffè all’aperto e ti domandi incerto chi sei tu sei tu che spingi avanti il cuore ed il lavoro duro di essere uomo e non sapere cosa sarà il futuro sei tu nel tempo che ci fa più grandi e soli in mezzo al mondo con l’ansia di cercare insieme un bene più profondo e un altro che dia respiro e che si curvi verso te con un’attesa di volersi di più senza capir cos’è e tu che mi ricambi gli occhi in questo istante immenso sopra il rumore della gente dimmi se questo ha un senso la vita è adesso nell’aria tenera di un dopocena e musi di bambini contro i vetri e prati che si lisciano come gattini e stelle che si appicciano ai lampioni milioni mentre ti chiederai dove sei tu 50


sei tu che porterai il tuo amore per cento e mille strade perché non c’è mi fine al viaggio anche un sogno cade se tu che hai un vento nuovo tra le braccia mentre mi vieni incontro e imparerai che per morire ti basterà un tramonto in una gioia che fa male di più della malinconia ed in qualunque sera ti troverai non ti buttare via e non lasciare andare un giorno per ritrovar te stesso figlio di un cielo così bello perché la vita è adesso adesso…..

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Radio Faro Cap.2 N8 Il cursore per il piatto di sinistra è già alzato. Nello studio c’è solo lei, con la grande cuffia, e il riflesso rosso della scritta on-air fra i dischi. Ancora un paio di canzoni prima della pubblicità. delle 23. "Sorry seems to be hardest world"... E' un supplizio riascoltare questi vecchi brani in una serata dolce e struggente come questa. E' primavera ormai. All'improvviso, come sempre, e sembra ieri... Il telefono suona e qualcuno cha non hai mai visto ti dice che il programma è buono e quella canzone gli ricorda lei, che è lontana e perduta per sempre. E non può mancare una richiesta per Eric Clapton. Va bene, va bene. Cercherò questa canzone che desideri ascoltare. Ma non parlarmi dei tuoi problemi, sconosciuto ascoltatore. Stasera non ho voglia di vendere sorrisi. Non stasera. Le stelle bruciano. Quando torno a casa, tardi, la sera, la luna la bevo. E mi entra nel cuore a trasandarmi l'anima insieme a questi profumi di primavera. Quando ho iniziato a lavorare in questa Radio non avrei mai pensato che sarebbe diventata la mia unica ragione di vita. Non immaginavo di passare qui tutte le sere ad alzare ed abbassare i cursori all'infinito, ed immergersi nelle musica per non pensare a nient'altro. Se solo non ci fossero serate come questa... vedere la luce rossa del telefono che lampeggia e sentire ogni sera tante persone che ti ringraziano della compagnia che riesci a tener loro viaggiando in modulazione di frequenza. Persone che desiderano parlarti, raccontare le loro cose e dirti che sei brava, che dalla voce devi essere giovane e sicuramente bella, vorrebbero tanto conoscerti, magari ti incontrano per la strada e non sanno chi sei...o forse andate a ballare nello stesso locale? Impossibile, io non vado a ballare. Non più. Ancora il telefono. Sei tu. "Come stai?" Non meglio dell'ultima volta che ci siamo parlati. "Stasera sei fantastica, il programma è ottimo" Lo so, come sempre. Silenzio. Devo cercare questo disco di Clapton. "Sto bene", dico senza tono. Invece sto malissimo, ma è inutile parlarne. La gamba è peggiorata, l'articolazione sembra. ormai completamente andata. Non c'è niente da dire, perché mi tieni qui al telefono a pensarci? Chiedermi come sto ti fa sentire meno colpevole? Soffrire per le mie dure parole ti renderà la vita più accettabile? "Non tenere la linea occupata se non hai niente da dire" Sbatto giù la cornetta. Quante volte mi hai parlato senza dirmi quello che volevo sentire? Anche quella sera quando spingevi l'acceleratore per parlare solo di te stesso... E difficile fare i conti con la propria memoria. A volte è più difficile che pensare. Devo annunciare il prossimo brano "Wonderful tonight".. "Una notte meravigliosa"...questa. Calda e profumata come quella notte. I primi accordi si sfaldano nell'aria di un ventilatore tra le pile dei dischi e il mixer. E' in questa musica la mia vita. Ti sbagli se pensi di soffocare i tuoi rimorsi spingendo la mia sedia a rotelle nel parco. 52


N9 Ottavo Padiglione, Ospedale di Livorno. C'è animazione all' ottavo padiglione, quello dei matti. Gli ospiti sono agitati come se si preparassero a un colpo grosso. Il "cieco" va e viene, scruta l'orizzonte delle finestre e annuncia che questa volta sarà fondo come la notte e più strampalato che mai. Ciascuno si aspetti il suo miracolo. E guarda me, come fossi la predestinata. Lui sa leggere nel vento, oltre che nella luna, bisogna prestargli fede. Infatti subito dopo arriva un nebbione grande e scuro, un nebbione fuori stagione. Quando ci invade, le stanze e le finestre diventano grigie, ci raggruppiamo tutti. Non per paura -in manicomio non si ha paura- ma perché non si sa da dove viene. Qualcuno apre la finestra e lo annusa e dice che viene dall'isola, nel mare qui davanti " perché nell'isola un manicomio non c'è...” ma nessuno lo ascolta. Il nostro infermiere- che chiamiamo “Capo-Bianco” dice che stasera fa discorsi senza capo né coda. Poi, ci chiude la finestra. Ma il nebbione ormai è entrato dentro. Tutti ci camminiamo nel mezzo col fiato sospeso, qualcuno sottobraccio ad un altro, con la paura improvvisa di qualcosa, di sbattere magari contro il proprio nemico o i propri morti, che con la nebbia tornano a mettere piede sulla terra, o di sbagliare un incrocio finendo lontano, forse nei canneti della Valle Benedetta, dove dicono che si perdono le anime che non vogliono essere ritrovate. Così si procede chiamando a caso un nome, il primo che viene, solo per farsi riconoscere dalla voce e far intendere a chi di dovere di tenersi alla larga. E nei nebbioni di quest'isola è tutto un aggirarsi di gente che in realtà non cerca nessuno, ma continua ad invocare il proprio fantasma. Ci si sfiora. Ci si chiede "Chi sei ?" Mani toccano altre mani. E, di colpo, ci si arresta su due piedi, perché, di fronte, e col sesto senso dei nebbioni si sa che si tratta proprio di quello per cui ci batteva il cuore. Allora, zitti, zitti, si fanno passi all'indietro, o laterali, ci si dilegua. In mezzo al nebbione, quel sintomo mi prende, immenso come l'invisibile del mondo che mi circonda, tutto solitudine e silenzio costellato di richiami remoti e assurdi... lui è lì, a qualche metro da me, lo sento. Come sento che, poco prima, è stata la sua voce a scandire il mio nome. Tendo il braccio. Avanzo cauta, lentamente, a tentoni. Sfioro una mano anch'essa all'altezza della mia. La sua. La percorro. Avverto il cerchio freddo di un anello -la sua fede nuziale- nel calore del palmo aperto che per un momento si lascia esplorare. Ma è un attimo. E’ sera e Capo-Bianco annuncia che è ora di dormire. Il nebbione è passato ed ha lasciato un senso di freddo e una luce vitrea dove mi appare, oltre le luci della città, un enorme albero che spicca contro il chiarore azzurro e diffuso delle luci. Sotto, una. figura che dà le spalle. Chissà perché penso: è lui che sta guardando verso il mare, dentro il tramonto. E' lui. che sta pensando, come me, a quell'incontro di un istante, l'unico che ci sia stato concesso nella vita... Resto con questa felicità da nulla: di avergli finalmente toccato la mano. La mia sola prova certa della sua esistenza.

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N10 Lo psichiatra Quando la maniglia si muove con un' ovattato rumore stridulo, capisci che sta per cominciare. Forse anche i cristiani di Roma antica, seduti su zoccoli di muro marcio e maleodorante, fissavano un catenaccio che si muoveva rumoroso, prima o poi. Certo, la porta non è dignitosa. La prima volta, entrata nella sala vasta e con pretese di una punta di solennità, 1'ho scambiata per la porta di un infimo sgabuzzino, cosi nascosta dietro l'ultima anta della massiccia libreria scura. Mai fidarsi delle apparenze. Uno stanzino vuol dire scope a riposare, saponi e detersivi, cose buone e tranquille -affettuose- della nostra vita quotidiana. Ma quello che sta dietro alla porta non si adatta a nessuno di questi epiteti nemmeno un poco. In un attimo succede 1'avvicendamento. Qualcuno esce, e se gli occhi del dottore ti guardano vuol dire che non hai sbagliato orario e tocca a te. Nel breve tratto di strada prima di sedersi per fortuna non c'è tempo di pensare. Le prime volte, quando entravo, il dottore mi chiedeva sempre: "Come sta?" -non è che davvero gli interessasse come stavo (una volta ha risposto ad una signora che diceva di sentirsi tanto male da non potersi muovere, di prendere un taxi) anzi, come sto è forse la cosa che gli importa di meno in assoluto. Chiedere 'come sta?' è un modo per cominciare, per rompere il ghiaccio - poi da quando un giorno gli ho risposto "bene, e lei?" ha smesso. Forse ha capito che era meglio passare subito alla seconda fase. La seconda fase comincia con uno scrutarsi discreto e silenzioso ma vicendevole. Per fortuna il telefono suona quasi subito e così, mentre il dottore risponde, in vantaggio sono io. Quando è al telefono, io credo di ispirargli battute psichiatricamente disgraziate ma che, con mia enorme sorpresa, guariscono lo stesso, come una dose massiccia di Laroxyl. Quando guizza quella luce negli occhi capisci che lo sventurato ignaro, dall'altra parte del filo, sta per ricevere un colpo velenoso. Intanto, gli oggetti intorno aspettano con me. Spesso, io e loro ci parliamo. So che avrebbero tante cose da dire, so che trasudano tensioni, pianti, confessioni. Magari quello che -rare volte- ho colto negli occhi del dottore : un briciolo mal celato di preoccupazione vera. Loro, gli oggetti, sono sempre gli stessi, come me. Il tavolo è “sgomentosamente” vuoto e sterile. Quando c'è il dottore, lo accompagna un'agenda con i fogli che si svolgono in alto, e una penna. Sulla penna ci sarebbe molto da dire. Anche la penna è sempre lei da sette anni. Il dottore la tiene ritta in senso verticale con il pollice e 1'indice delle due mani. Si appoggia con gli avambracci alla scrivania, alza la penna, e si concentra con tutti e due gli occhi su questo obiettivo. Così gli occhi si incrociano e le pupille si riuniscono ai lati del naso. E' un gesto che ci ricorda bambini. Immagino quale deve essere stata la sua infanzia, perché anche lui deve averne avuta una. Lo immagino seduto sui calcagni a tirare sassi in un cortile, e due pupille grandi che spuntano da sotto un tavolo della. grande cucina, ancora troppo alto. Nel volto, il dottore ha mantenuto dei tratti infantili , il carattere invece si è indurito in una serie infinita di autodifese. Immagino spesso lo scontro tra questi tratti infantili e il mondo. Forse si può 54


pensarlo come un uragano di venti del sud su un'isola dove infuria sempre la primavera. Ma il film finisce e non si saprà mai se è passato l'uragano o si è distrutta la primavera. Nello studio, i minuti passano con i colpi di martello che il dottore dà alla mia anima, ma non si sentono, fuori. L'oppressione della stanza, spesso mal areata, mi sembra una giusta punizione al muro troppo duro da rompere. Eppure, tante volte lo guardo, e mi sembra impossibile che non capisca. Poi, fra un'occhiata e 1'altra alla sveglia, penso che anche lui mi senta: io sono di là dal muro e sto picchiando, anch'io. Ma dentro alla stanza penso che, forse, senta solo le nostre battaglie a parole. I nostri dibattiti filosofeggianti, i nostri sillogismi velenosi, si arrampicano all'anima come edera al muro. E sono una storia a parte. Da soli, riempirebbero un libro. Da lui ho imparato i proverbi delle favole di Fedro e di Esopo, le frasi bibliche e i proverbi popolari, con cui ama accompagnare le sue graffianti deduzioni. Mentre la mia mente si affanna a tradurre il latino e il greco delle citazioni, immagino la casalinga frustrata con licenza elementare alle prese con il "Nolui sumere acerbam". Meno male che ho studiato! I primi tempi, ricordo che volevo assolutamente esser considerata una matta diversa. Il pensiero che mi paragonasse alla casalinga frustrata che paga i suoi sfoghi - quella che dice dicevo prima- mi faceva rabbrividire. Poi, quando ho capito che, forse, mi pensava anche peggio, ho smesso di tremare. E così, per un meccanismo incomprensibile, ho nascosto le mie piaghe sotto strati e strati di panni sporchi. E quando, dopo battaglie sfinenti e non volute, tante volte mi sono trovata con le spalle al muro - e i panni sporchi caduti- ho letto anche un lampo di pena, dentro agli occhi. Ma è raro. Di solito, il dottore è come "il ricordo" di una nota canzone, non consola. Però, ha i suoi indicibili sistemi per far girare questo mondo sfaccettato di una miriade di specchi inclinati che mandano bagliori colorati. E spesso, per un attimo, credo di vederla anch'io, una faccia che brilla. Con quella, tante volte mi frusto dentro fino al sangue. E mi lascio frustare. Ma l'importante è non dirlo a me stessa, altrimenti il martello pesa troppo per essere tenuto in mano. Poi, un ultimo sguardo alla sveglia. "Ne riparliamo la prossima volta" è il sigillo finale che chiude il discorso -anche quello sempre uguale, da tanti anni-. Quello che c'è dopo, è l'imbarazzo, nella fretta di uscire. Mi alzo, e per la prima volta avverto il peso del mio corpo, sulla poltrona. In quell'istante, mi sento la poltrona, con il peso del mio essere schiacciante -tutto peso specifico e niente levitazione- e nient'altro. Mentre ti accompagna alla porta, il dottore ha spesso lo strano disegno di un sorriso addosso. Ma difficilmente ti senti sollevata da quel sorriso -una volta, una signora al telefono ha chiesto se era possibile che la cura antidepressiva fosse la causa dei suoi disturbi intestinali. Con lo stesso sorriso, ma proprio lo stesso, ha risposto che gli risultava che questi due organi fossero in parti diverse del corpo umano Senza che i piedi tocchino terra -ma non per la gioia- mi avvicino alla porta. Di solito, il dottore mi precede. Dice arrivederci con gli occhi che bruciano le ultime briciole di quell'ora. Poi, ti dà la mano. Ma neppure questo è un gesto normale : tutto il braccio gli rimane attaccato al corpo, e, dal corpo, esce, timida, la mano -come a chiedere scusa di essere al mondo- Un gesto da prete, non da psichiatra. Quando ho capito che il mondo è una gabbia di matti, e lì siamo dentro, mi sono consolata. 55


In un attimo io saluto le cose amiche, e sempre ferme, che stanno dalla mia parte. Non chiedo per quanto tempo ancora le rivedrò -ho sempre paura che mi rispondano che è per poco-. Quando esco, dalla porta vedo gli occhi degli altri che cercano il dottore. Lui è là . Io, giro le spalle ed entro in un'altra gabbia. Mentre mi allontano, un istante prima che la porta si chiuda con il solito rumore stridulo, sento dire dietro di me "Come sta?". Poi la porta si chiude.

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