Introduzione

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INTRODUZIONE

La storia dice che il concetto di etere fu abbandonato definitivamente dalla fisica nel 1905, allorché Albert Einstein reinterpreta l’elettrodinamica dei corpi in moto alla luce della concezione relativistica dello spazio e del tempo, e contemporaneamente dimostra l’inutilità di ricorrere a un ipotetico ‘mezzo’ per rappresentare gli stati del campo elettromagnetico. Nella teoria della relatività ristretta il campo elettromagnetico appare, infatti, come una realtà ultima e irriducibile. Da allora il problema dell’etere ha perso qualsiasi interesse per la ricerca fisica; ma soprattutto è stato pressoché ignorato nelle moderne esposizioni manualistiche della fisica classica. Al più ci si limita a citarlo quale esemplificazione della presunta tendenza degli scienziati ottocenteschi a far aderire le loro teorie a immagini meccaniche, facilmente visualizzabili, dei processi fisici elementari. La scelta di espellere dal patrimonio della scienza quello che fu uno dei principali protagonisti della fisica dell’Ottocento potrebbe apparire pienamente giustificata, per esempio, se la si giudicasse una conseguenza necessaria di quell’evoluzione degli strumenti interpretativi che accompagna ogni fase di crescita della nostra conoscenza del mondo fisico. In realtà, si è trattato di una scelta dettata dalla riconosciuta validità di due tesi storiografiche che gli scienziati del Novecento avrebbero accolto del tutto acriticamente. Nella prima si sostiene che l’etere rappresentò a lungo il riferimento privilegiato e obbligato nello studio delle leggi dell’ottica, dell’elettromagnetismo e del calore radiante poiché esprimeva più compiutamente di altre concezioni le istanze affermate


12 dalla tradizione ottocentesca del meccanicismo scientifico. Nella seconda, si riconosce che solo in seguito alla rinuncia a far dipendere i propri costrutti teorici dall’ontologia materialistica sostenuta da quella tradizione, la fisica cessò di interrogarsi sulla natura e sulle modalità di azione di un ipotetico mezzo nascosto che permea tutto lo spazio. Da un diverso punto di vista si potrebbe sostenere che il tramonto dell’etere e la sua rapida eliminazione da ogni moderno contesto teorico rispose a precisi criteri di razionalità, specie se a sostegno di tale affermazione si portassero le ben note tesi metodologiche di Thomas Kuhn il quale ha ricondotto il progredire del sapere a una sorta di un’alternanza dialettica tra crisi paradigmatiche e rivoluzioni. Le grandi rivoluzioni scientifiche del secolo scorso – la relatività e la meccanica quantistica –, con la ridefinizione di categorie interpretative fondamentali come spazio, tempo e causalità, demolirono i pilastri sui quali era stata edificata la fisica meccanicistica fin dai tempi di Galilei e di Newton. E come sempre accade con l’avvento di una nuova rivoluzione scientifica, i manuali di fisica furono riscritti, traducendo le conoscenze del passato nel linguaggio imposto dal nuovo paradigma; un linguaggio che, nel nostro caso, poteva fare a meno di riferirsi a effimere sostanze ‘eteree’ dotate di una struttura non meglio precisata. Dovremmo allora concludere che il problema dell’etere ha perso ogni interesse culturale e che tutt’al più potrebbe richiamare l’attenzione di qualche storico della scienza il quale cerca di farlo rivivere con archeologica curiosità, sottraendolo ai crolli rovinosi del meccanicismo ottocentesco? Una risposta a questo interrogativo non potrà mai venire né da chi ha accettato di riscrivere i manuali, né da chi crede che il progresso scientifico lasci dietro di sé un cimitero di morte teorie costruite attorno a problemi rivelatisi a posteriori degli pseudo-problemi e neppure da chi tende a ridurre la vicenda dell’etere a uno dei molti casi storici ad hoc sui quali misurare l’efficacia di qualche teoria della razionalità. Una risposta la si potrà trovare solo dopo aver rifatto all’indietro i tortuosi percorsi che conducono nel vivo dei problemi concreti con i qua-


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li gli scienziati del passato, indipendentemente da qualsiasi credo epistemologico, confrontavano le loro costruzioni teoriche e mettevano alla prova le rispettive abilità sperimentali. E sarà una risposta tanto più convincente, quanto più chi vorrà compiere tale percorso – per esempio, seguendo le tappe segnate dagli autori dei capitoli di questo volume – accetterà fin dall’inizio di sostituire i propri pregiudizi con alcune domande. L’etere fu davvero il fedele interprete di concezioni meccanicistiche, e in particolare i fisici dell’Ottocento lo utilizzarono quale intermediario tra le leggi della meccanica e le leggi dell’ottica e dell’elettromagnetismo al fine di soddisfare le loro esigenze riduzionistiche? L’etere fu sempre rappresentato in chiave di un modello meccanico, ricavato per via analogica da branche della fisica matematica applicate allo studio delle proprietà meccaniche dei fluidi e dei solidi? Si può infine sostenere che l’etere dimostrò la sua utilità unicamente in una fase di maturazione di alcuni settori della fisica in quanto consentiva di far fronte alle limitate conoscenze che allora si possedevano riguardo alla realtà degli elementi microscopici della natura? Bisogna risalire a Newton per rintracciare le origini della fisica dell’etere. Newton descrisse una realtà nella quale i corpi materiali interagiscono attraverso forze a distanza e su questa base poté costruire la teoria della gravitazione senza dover ricorrere a qualche mezzo intermedio che assicurasse la continuità dell’azione. Ma fu proprio il fondatore della meccanica a richiamare l’attenzione dei fisici dell’epoca sul mezzo di azione, quando comprese l’etere tra i problemi che non ricevevano alcuna risposta all’interno del suo imponente edificio teorico, e che egli affidava quale eredità scientifica ai suoi successori. Nelle famose Queries, aggiunte alla seconda edizione dell’Opticks, Newton parlava, infatti, sia pure in forma ipotetica, dell’esistenza dell’etere come di un mezzo fluido che con i suoi movimenti e le sue deformazioni avrebbe aiutato a comprendere la propagazione della luce e del calore nello spazio. L’etere di Newton era pur sempre dotato di una struttura particellare, il che assicurava che anche a livello microscopico agissero forze intersti-


14 ziali del tutto simili a quelle gravitazionali, e di conseguenza non venisse meno quel dualismo forza-materia sul quale poggiava la sua visione del mondo. II Settecento sviluppò fedelmente il programma newtoniano, senza tuttavia arrivare a chiarire se le forze a distanza fossero tali solo in apparenza. Piuttosto esso popolò lo spazio di nuovi eteri ed effluvi nella speranza di trovare nel contesto della meccanica delle particelle suggerimenti utili riguardo alla natura dell’elettricità, del magnetismo e del calore e una spiegazione delle numerose leggi the in questi settori della fisica cominciavano ad essere scoperte. La ripresa, in senso ottocentesco, del problema dell’etere coincise con l’affermazione della concezione ondulatoria della luce, dovuta principalmente ai contributi di Thomas Young in Inghilterra e di AugustinJean Fresnel in Francia. Dall’esame di alcuni fenomeni connessi alla polarizzazione della luce emerse progressivamente il carattere trasversale delle onde luminose; questo contribuì a rafforzare l’ipotesi dell’esistenza di una forte analogia tra le proprietà della luce e le onde elastiche dei corpi ponderabili. Sarà necessario attendere la sintesi teorica operata da James C. Maxwell nel 1862 per riconoscere nella luce un fenomeno elettromagnetico; all’epoca di Fresnel sembrava indubbio che la luce dovesse essere considerata come un processo vibratorio di un mezzo elastico e inerte che riempie tutto l’Universo. L’etere luminifero fu ricostruito in un laboratorio teorico dove fisici e matematici si servivano di raffinatissimi strumenti formali per individuare le proprietà di una sostanza ideale da cui dedurre le leggi dell’ottica. Fresnel, Cauchy, Challis, Green, Stokes, MacCullagh, considerarono di volta in volta l’etere come un solido quasi elastico, un fluido, un solido ordinario, un mezzo continuo dotato sia delle proprietà di un solido sia di quelle di un fluido, nel tentativo di stabilire le particolari caratteristiche di elasticità dell’etere, richieste dal fenomeni ottici, che fossero compatibili con le leggi della dinamica. L’accentuata tendenza alla modellizzazione, presente nella fisica dell’etere nella prima meta del-


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l’Ottocento, non fu certo il prezzo richiesto da qualche filosofia meccanicistica imperante. Così, nella seconda meta del secolo, la nascita del moderno concetto di campo fu il risultato di un processo che vide affermarsi nei fisici la consapevolezza che l’etere luminifero non era assimilabile a nessuna delle sostanze materiali conosciute e che quindi dovesse essere necessaria la demeccanizzazione del mezzo di azione. L’elasticità posseduta dall’etere, e quindi la sua energia potenziale, non potevano essere il prodotto di distorsioni e compressioni come avviene nei solidi ordinari. L’etere andava perciò spogliato degli attributi particellari assegnatigli da Newton. L’etere assumeva lo status privilegiato di sostanza perfettamente continua e, contemporaneamente, si compiva un passo decisivo verso la differenziazione teorica, e anche ontologica, tra l’etere e la materia. Tale differenziazione si consolidò con le ricerche sperimentali sull’elettromagnetismo di Michael Faraday, le quali mostrarono che lo spazio privo di materia, oltre a fornire un qualche supporto alla propagazione nel tempo di effetti the si trasmettono a distanza, come la gravitazione e la luce, è capace di azioni fisiche. Faraday affidava il controllo rigoroso delle sue ipotesi a una originalissima metodologia di indagine mentale piuttosto che all’uso dei tradizionali procedimenti di matematizzazione dell’esperienza. Per questo, egli non costruì alcun modello formale del mezzo e nel suo approccio al problema dell’etere vediamo riflettersi direttamente l’evoluzione delle sue concezioni dell’elettricità e del magnetismo. L’assegnazione di un’autonomia concettuale all’etere, per Faraday, non dipendeva dalla possibilità di elaborare nuovi metodi di giustificazione dinamica delle sue proprietà, ma dall’acquisizione di una realtà fisica indipendente da parte delle linee di forza mediante le quali il mezzo è concepibile come intermediario tra i corpi materiali, nella produzione dei fenomeni elettrici e magnetici. L’etere di Faraday fu dapprima particellare, quindi il prodotto delle forze spaziali emanate da atomi puntiformi à la Boscovich e, solo in seguito all’assegnazione di proprietà magnetiche allo spazio vuoto e alla scoperta del fenomeno della


16 rotazione del piano di polarizzazione della luce prodotta da un campo magnetico, egli si convertì all’idea, già formulata da William Thomson, dell’etere come entità continua e non materiale. Attorno alla metà del secolo l’etere era stato completamente dematerializzato e nella fisica inglese sull’avvenuta assimilazione dell’etere luminifero al campo elettromagnetico si innestò un programma di ricerca orientato verso la rifondazione del concetto di materia all’interno di una visione della realtà che sembrava ricollegarsi direttamente alla reazione leibniziana contro la fisica di Newton. L’etere è la sostanza primordiale, perfettamente omogenea, continua e semplice e la materia con i suoi atomi è il prodotto dinamico-strutturale di tale sostanza. Fu, proprio la sintesi di processi apparentemente distinti, messa in evidenza dal fenomeno della rotazione magneto-ottica, a orientare la ricerca di quella che potremmo definire come la prima teoria di campo unificata della storia della fisica. In questo fenomeno intervengono, infatti, relazioni tra l’etere luminifero continuo, le linee di forza elettriche e magnetiche e i costituenti atomici della materia. Thomson sostenne che la rotazione della luce era il risultato di una reazione elastica che si produce nell’etere per effetto dell’interazione tra il sistema vibrante del mezzo e gli elementi spiraliformi che formano la materia. Egli contrappose al dualismo newtoniano tra particelle e forze agenti a distanza l’idea “atomistica” della materia formata da strutture vorticose all’interno dell’etere e formulò per la fisica inglese l’ambizioso progetto di una teoria che riuscisse a fornire, su questa base, un’interpretazione unitaria dell’elettromagnetismo, della gravitazione, della teoria cinetica dei gas e della radiazione spettrale. Sebbene Thomson, agli albori del nuovo secolo, dovette ammettere che l’atomo-vortice non era riuscito a risolvere il problema del moto relativo dell’etere e dei corpi ponderabili e che ora questo problema si era trasformato in una nube che proiettava un’ombra minacciosa sul futuro della scienza, il programma inglese non fu un programma sterile che finì per essere schiacciato sotto il peso dei complicatissimi modelli meccanici da


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esso partoriti. Molti dei concetti che si affermarono nella fisica del Novecento trovarono proprio nelle teorie di Thomson e di Joseph Larmor un fertile terreno di maturazione. James Clerk Maxwell è il fondatore della teoria elettromagnetica della luce e a lui si deve la scoperta delle equazioni del campo elettromagnetico. Ma in Maxwell mancava una teoria della struttura dell’etere e delle sue modalità di interazione con la materia che gli permettesse di assegnare un’autonomia concettuale all’idea di campo. Il fisico scozzese utilizzò, specie nelle sue prime memorie, modelli meccanici che riempivano lo spazio di un fluido in movimento all’interno di tubi a sezione variabile circondati da linee di forza. In realtà egli, come la maggior parte dei fisici inglesi, non attribuiva a questi modelli “di lavoro” alcuna funzione esplicativa; al più essi dimostravano la possibilità dell’esistenza di alcuni costrutti mentali utili a guidare processi di matematizzazione dell’esperienza. Maxwell tuttavia non andò oltre una generica e vaga considerazione dell’etere come caso limite di un dielettrico materiale, i cui stati siano definibili come una successione di polarizzazioni di particelle. In tal modo egli riproponeva superate strutture corpuscolari e, in mancanza di una chiara visione fisica dell’attività dell’etere, la sua teoria non riusciva, in particolare, a dare alcuna spiegazione della classe dei fenomeni elettromagnetici che avvengono nei corpi in movimento. I più attenti e fertili interpreti dell’eredità maxwelliana furono i fisici della scuola continentale i quali sfrondarono il pensiero di Maxwell da ogni contaminazione modellistica e lo collocarono all’interno di un programma di ricerca che pur ammettendo che l’etere fosse “qualcosa” distinto dalla materia, non intendevano costruire una teoria di campo della materia. La teoria di Maxwell fu completata con una teoria della carica elettrica: l’etere venne così spogliato di ogni residuo attributo meccanico e la materia di ogni proprietà elettromagnetica. Erano gli elettroni, gli atomi di elettricità, non un’ipotetica sostanza continua, l’elemento di mediazione tra la materia e l’etere. L’etere poteva


18 essere così definito unicamente mediante le grandezze fisiche del campo elettromagnetico; mentre l’azione elettromagnetica delle particelle materiali si spiegava unicamente con il fatto che esse trasportano cariche elettriche, ed era espressa dalla forza di Lorentz. Ciò che differenzia i fisici continentali, e Lorentz in particolare, dai fisici della tradizione inglese non è il loro grado di adesione a una visione meccanicistica del mondo che si esprimerebbe attraverso l’uso più o meno accentuato dei modelli dell’etere. Le loro teorie pur riferendosi al medesimo contesto empirico si collocano all’interno di programmi di ricerca orientati in direzioni opposte. Per i primi, il problema dell’etere coincide con l’individuazione delle proprietà fisiche di cui è dotato lo spazio quando in esso sia presente un campo elettromagnetico. Per i secondi, si tratta di costruire una teoria generale in cui lo spazio assume un’autonoma caratterizzazione fisica – l’etere continuo e non materiale esteso a tutto l’Universo, di cui parlava Thomson – da cui far dipendere le proprietà elettriche, magnetiche, gravitazionali dei corpi. Lorentz difese l’etere in quanto non riuscì a spogliarlo del suo ultimo attributo meccanico, l’immobilità; in particolare non sembrava aver compreso che il livello di realtà messo in luce dallo studio dei fenomeni elettromagnetici era divenuto incompatibile con i concetti newtoniani di spazio e tempo assoluti. Quei concetti non erano assimilabili a forme a priori della conoscenza del mondo fisico, ma erano essi stessi concetti fisici definiti all’interno di una particolare teoria scientifica. Lorentz difese l’etere identificandolo con un sistema di riferimento inerziale privilegiato, quello appunto dove l’etere è in quiete e dove sono valide le equazione di Maxwell-Lorentz, senza rendersi conto che in tal modo il suo edificio teorico accoglieva un’asimmetria tra i vani sistemi inerziali alla quale, come mostrerà Albert Einstein, non corrispondeva alcuna asimmetria nell’apparato sperimentale. Quello di Lorentz fu l’ultimo, serio tentativo di difesa della visione newtoniana dell’Universo. Egli ammise l’esistenza di un riferimento


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privilegiato anche di fronte all’esperimento di Michelson-Morley, il quale dimostrava l’impossibilità di rilevare il moto assoluto della Terra, anche per fenomeni del second’ordine; per far questo doveva però supporre che i regoli in moto rispetto all’etere subissero un effetto di contrazione molecolare. Einstein ebbe il merito di portare alle estreme conseguenze il programma continentale; una volta ammesso che l’etere non è altro che il campo elettromagnetico e che il campo non rappresenta gli stati dinamici di un ipotetico mezzo, ma è dotato di una realtà fisica indipendente, l’etere diviene un’ipotesi vuota. Di conseguenza, il problema dell’etere elettromagnetico si trasforma nel problema della costruzione di una geometria dello spazio-tempo coerente con il postulato della costanza della velocità finita della luce e con il principio relativistico per cui le equazioni del campo sono valide in tutti i sistemi inerziali. La relatività ristretta dimostra le ambiguità implicite nella difesa del concerto di etere all’interno dell’elettrodinamica dei corpi in moto; ma fu proprio Einstein a riconoscere che nel 1905 la fisica non aveva chiuso definitivamente i conti con il problema dell’etere. Egli affermava, infatti, che negare l’etere significherebbe ammettere che «lo spazio vuoto non possieda alcuna proprietà fisica», il che peraltro è contraddetto da alcune implicazioni della teoria della relatività generale. In un certo senso, Einstein riconosceva in tal modo che la teoria della relatività doveva trovare una risposta ai problemi che avevano caratterizzato per diversi decenni il programma di ricerca della fisica inglese. Concludendo, il 5 maggio del 1920, una conferenza tenuta in onore di Lorentz, Einstein affermava: «La nostra attuale rappresentazione del mondo riconosce due realtà che, pur essendo legate da un nesso causale, sono sul piano logico completamente separate l’una dall’altra: queste sono l’etere gravitazionale e il campo elettromagnetico o, chiamandolo in un altro modo, spazio e materia. Si otterrebbe naturalmente un progresso considerevole se si riuscisse a riunire in un’unica rappresentazione il campo gravitazionale e il campo elettromagnetico. Solo allora


20 l’èra della fisica matematica, inaugurata da Faraday e da Maxwell giungerebbe a un risultato soddisfacente. Allora scomparirebbe l’opposizione etere-materia e tutta la fisica diverrebbe, con la teoria generale della relatività, un sistema di idee coerente analogo a quello della geometria, della cinematica e della teoria della gravitazione». Sandro Petruccioli


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