INTRODUZIONE
La scoperta delle basi cellulari e molecolari della vita ha caratterizzato l’evoluzione delle conoscenze biologiche di base nel corso degli ultimi due secoli, e ha avuto un impatto formidabile anche sul piano della spiegazione della cause delle malattie e quindi sulla possibilità di sviluppate strategie di prevenzione e cura volte a migliorare la salute umana. Nel corso dell’Ottocento, la cellula viene progressivamente riconosciuta come l’unità strutturale e funzionale fondamentale della materia vivente, e le sue alterazioni morfologico-fisiologiche come prove di malattie. Il perfezionamento delle tecniche di osservazione microscopica consente di caratterizzare i componenti fondamentali della cellula, membrana, protoplasma e nucleo, nonché di descrivere i cromosomi e le modificazioni cui questi corpi nucleari vanno incontro durante la divisione cellulare. Alla fine dell’Ottocento la teoria cellulare è alla base delle ricerche sperimentali sull’origine della morfologia dei viventi e dell’ereditarietà. Le ricerche cominciano quindi a indirizzarsi verso la natura dei costituenti molecolari e del nucleo che possono dar conto della trasmissione ereditaria dei tratti fenotipici, nonché dei processi differenziativi che caratterizzano la costruzione della forma degli organismi. La teoria cellulare, supportata dagli avanzamenti delle tecnologie fisiche e chimiche, stimola le richerche osservazionali e sperimentali a livello citologico e istologico, portando all’affermarsi di uno specifico ambito di studi definito “biologia cellulare”, che nel corso del Novecento si concentra sulle strutture intracellulari e sui processi fisiologici che sono alla base della vita della cellula e delle sue specializzazioni. Si può
12 dire che la maggior parte della fisiologia diventa cellulare, così i biologi cellulari s’interessano di metabolismo, elettrofisiologia e farmacologia in quanto fenomenologie definibili a livello di proprietà della cellula. Studi sulla respirazione, sulla permeabilità delle membrane o sulla tossicità dei farmaci, cominciano a essere quindi condotti su singole cellule con risultati soddisfacenti. Tutto ciò si deve a due principali avanzamenti tecnici: l’invenzione delle culture cellulari, ovvero di una serie di modalità per coltivare e far crescere le cellule in vitro, a pertire dai classici studi Ross Granville Harrison intorno al 1910, e la clonazione quantitativa delle cellule negli anni Sessanta. Se la biochimica e la biologia molecolare cercano spiegazioni chimicofisiche, la biologia cellulare affronta lo studio della vita a livello di organizzazione sovramolecolare: le assemblee molecolari come le membrane e gli organelli, studiate a livello di struttura, biogenesi e funzione, le linee cellulari e la differenziazione cellulare nel corso dello sviluppo. Le conoscenze della biologia cellulare sono state prodotte attraverso lo sviluppo delle tecniche microscopiche, dei metodi di analisi biochimica e degli approcci biofisici a livello di caratterizzazione strutturale e funzionale delle membrane. Sempre nel corso dell’Ottocento l’applicazione sistematica delle strategie d’indagine adottate in chimica e fisica si rivela insufficiente per spiegare il funzionamento degli organismi biologici e l’organizzazione della materia vivente al suo livello fondamentale rende necessario l’impiego di nuovi concetti, metodi e strumenti di indagine. La chimica fisiologica, la biochimica e la fisiologia sperimentale si affermano sempre più nel corso del secolo, come discipline in grado di spiegare le basi strutturali e i meccanismi funzionali delle manifestazioni normali e patologiche della vita. La biochimica prende forma dalle ricerche di chimica vegetale e animale, identificata sino al 1850 con la chimica organica e praticata negli istituti di chimica, e si delinea dallo sviluppo della chimica zoologica e fisiologica, praticata nella seconda metà dell’Ottocento dai medici, dai citologi e dai biologi negli istituti di fisiologia nell’ambito delle facoltà mediche. L’idea che sancisce il successo della biochimica è la rinuncia a ridurre i pro-
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cessi fisiologici a processi chimici indifferenziati, e lo sforzo di utilizzare gli strumenti di analisi della chimica e della fisica per definire a diversi livelli la specificità delle interazioni tra i componenti della materia vivente. La biochimica è la scienza che s’interessa dell’isolamento e caratterizzazione delle specie chimiche che compongono la cellula, e che ne studia le interazioni e trasformazioni che danno luogo al metabolismo. Sebbene il termine “biochimica” sia piuttosto antico (risale all’incirca alla metà dell’Ottocento), la definizione della disciplina è rimasta vaga fino agli anni Trenta del Novecento, quando una serie di sviluppi tecnici e concettuali ha consentito di circoscriverne l’oggetto nei termini sopra esposti e di affrancarla definitivamente dalle diverse tradizioni mediche e scientifiche cui era legata. Le principali linee di ricerca che confluiranno più tardi nella biochimica si consolidano, negli ultimi due decenni dell’Ottocento e nel primo Novecento, in relazione a questioni proprie di altre discipline, come la fisiologia, la medicina, la scienza della nutrizione e la chimica organica. La chimica biologica (o fisiologica) dell’Ottocento si interessa da un lato dei processi metabolici basilari, in particolare della respirazione e della nutrizione; dall’altro, studia anche le strutture interne della cellula e il loro ruolo nella vita cellulare. Il principale ostacolo allo sviluppo autonomo di questa branca della scienza è costituito, in questo periodo, dalla conoscenza approssimativa di tali strutture, in particolare del vasto campo intermedio fra la cellula intera (considerata l’unità del vivente) e la molecola, elemento della chimica. La biochimica diventa disciplina autonoma tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, distaccandosi dall’ambito della fisiologia, a sua volta in forte sviluppo in quel periodo. Negli anni Trenta dell’Ottocento si scoprono gli enzimi responsabili della decomposizione – in particolare la pepsina – ed emerge così il coinvolgimento dei fermenti in diverse reazioni vitali, senza che comunque sia loro attribuito un ruolo importante al di là di qualche funzione nel coordinamento del metabolismo e specialmente dei processi digestivi.
14 Dopo decenni di discussioni sulla natura chimica degli enzimi, il loro rapporto con la funzione cellulare complessiva e le funzioni biologiche attribuibili agli enzimi, a partire dagli anni Venti del Novecento, si registra un rapido sviluppo della disciplina in termini teorici e sperimentali, coronato da una messe di notevoli risultati, come la definizione della natura chimica delle proteine e degli acidi nucleici, la descrizione dei cicli metabolici e delle compartimentazioni fisico-biochimiche della cellula. Dagli anni Quaranta ai Sessanta, gli studi di biochimica tendono a convergere con una parte della moderna genetica e della citologia, costituendo una delle radici della biologia molecolare. La biologia molecolare nasce intorno alla metà del Novecento dalla confluenza progressiva di diverse branche della biologia all’epoca in rapido sviluppo, in particolare la biochimica e la genetica. La biologia molecolare fiorisce, per così dire, nella terra di nessuno al confine tra le due discipline, mutuando concetti e tecniche da entrambe, oltre che da diverse altre discipline biologiche come l’immunologia, la chimica-fisica, la microbiologia. Il nucleo della nuova disciplina è però organizzato intorno agli interrogativi che la tradizione genetica e quella biochimica avevano generalmente tralasciato: da un lato il problema della natura chimica del gene (di quale materiale chimico fosse fatto), dall’altro la questione del significato biologico dei processi di sintesi proteica e del metabolismo in generale. Tali problemi emergono già nei primi decenni dell’Ottocento, ma la conoscenza delle strutture cellulari è ancora approssimativa e la tecnologia disponibile non consente un’analisi fine dei processi di formazione di proteine. Un contributo decisivo in questa direzione viene dallo sviluppo di procedimenti che consentono di individuare con precisione i costituenti cellulari e dall’introduzione nella ricerca biologica di tecniche e strumenti derivati dalla chimica e dalla fisica. Sino agli anni Venti del Novecento non è dimostrata l’ipotesi della natura macromolecolare delle proteine e degli acidi nucleici, che dalla maggior parte dei chimici e dei biochimici venivano considerati aggre-
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gati colloidali. L’invenzione dell’ultracentrifuga, l’applicazione alle molecole biologiche dell’analisi diffrattometrica ai raggi X, l’invenzione della cromatografia su carta e gli sviluppi concettuali della chimica organica consentono di stabilire che le proteine e gli acidi nucleici sono strutture polimeriche macromolecolari. La maggior parte dei biologi ritiene, sino alla seconda metà degli anni Quaranta, che i geni siano proteine. La scoperta della struttura a doppia elica del DNA consente di stabilire in modo definitivo la natura chimica del gene. Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, prima ancora che venga riscoperta l’opera di Mendel ed emerga il concetto formale di “gene”, diversi citologi e biologi sperimentali elaborano la nozione che l’”ereditarietà” consiste nella trasmissione, lungo la linea germinale, di una sostanza “chimicamente definita”, contenuta nel nucleo cellulare e in grado di trasportare da una generazione all’altra le caratteristiche specifiche dei diversi organismi. Nel corso degli anni Quaranta si scopre che i concetti della genetica possono essere applicati anche ai microrganismi, e lo studio delle trasformazioni ereditarie dei ceppi batterici mostra che tali fenomeni sono associati al trasferimento di acido deossiribonucleico, ossia che il DNA, come dimostra Oswald T. Avery e collaboratori nel 1944, e definitivamente Alfred Harshey e Martha Chase nel 1952, è la sostanza di cui sono fatti i geni. L’individuazione delle caratteristiche chimico-strutturali del DNA è solo il primo passo nella spiegazione delle proprietà biologiche di questa macromolecola. Watson e Crick capiscono il significato della loro scoperta, che spiega in modo semplice la replicazione dell’informazione ereditaria, nonché le basi molecolari delle mutazioni e delle ricombinazioni, e che implica quasi automaticamente che la sequenza delle basi possa rappresentare la specificità del messaggio ereditario trasmesso dai geni ed espresso fenotipicamente a livello della struttura delle proteine. Il problema è, a quel punto, stabilire come avviene la replicazione dell’informazione codificata nella sequenza, quale sia la forma del codice in cui è scritto il programma genetico, e in che modo la sequenza specifica di basi nucleotidiche viene tradotta in una sequenza specifica di amminoacidi.
16 Mentre la ricerca fondamentale completa il quadro di conoscenze empiriche sul codice genetico e i meccanismi molecolari e biochimici di controllo dell’espressione dei geni, negli anni Sessanta si comincia a immaginare la possibilità di utilizzare alcuni sistemi biochimici scoperti a livello della capacità dei batteri di riparare gli errori di replicazione o di salvaguardare la specie-specificità del materiale ereditario, ingegnerizzare dei microrganismi e dotarli di qualche nuova funzione, per fini di ricerca o commerciali. Tra il 1967 e il 1970: si ottiene la duplicazione del DNA in provetta da parte di Arthur Kornberg, l’isolamento di un gene da una cellula da parte diJonathan Beckwith e la prima sintesi di un gene, collegando una base nucleotidica all’altra, da H. Gobind Khorana. Alla fine degli anni Sessanta diventano disponibili gli enzimi di restrizione che consentono di tagliare il DNA in punti specifici, e negli anni Settanta vengono inventati metodi per ricombinare le sequenze e per analizzarle nella loro composizione specifica. In altri termini si mettono a punto e commercializzano le procedure operative per ricombinare i geni, replicarli mediante clonaggio e caratterizzarli sulla base della sequenza specifica delle basi nucleotidiche. La tecnologia del DNA ricombinante e le altre tecniche di manipolazione e caratterizzazione del materiale genetico hanno progressivamente egemonizzato l’interesse dei biologi molecolari, facendo ritenere a qualcuno che la biologia molecolare si va inaridendo e riducendo a un insieme di tecniche per raccogliere e classificare dati empirici. L’emergere dell’ingegneria genetica ha certamente accentuato la specializzazione dei ricercatori, e ridotto l’interesse per la dimensione teorico-speculativa della ricerca biomolecolare; tuttavia, l’immaginazione tecnologica che sta alla base di queste procedure utilizza creativamente proprietà che sono insite nella materia biologica e il loro progresso appare strettamente collegato alla crescita delle conoscenze fondamentali. La dimostrazione più chiara di ciò è probabilmente rappresentata, oltre che dai problemi di utilizzazione delle biotecnologie in ambito medico, dall’evoluzione degli obiettivi e delle frontiere concettuali del Progetto Genoma Umano (PGU). Partito con l’assunto
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schematico che a ogni funzione biologica (normale o patologica) possa essere associato un gene in qualcuna delle sue varianti sequenziali, l’attenzione del PGU si è progressivamente spostata, a livello degli aspetti strutturali, sulla variabilità individuale e a livello degli aspetti funzionali, sull’espressione genica (dal genoma al proteoma) e sui meccanismi biochimici che la controllano. Alla fine degli anni Sessanta cominciano a manifestarsi i limiti dei modelli sperimentali utilizzati sino a quel momento dai biologi molecolari per comprendere l’organizzazione strutturale e funzionale del DNA. Infatti, si scopre che l’organizzazione delle sequenze di basi nucleotidiche nel DNA di cellule eucariotiche è diversa rispetto alle cellule batteriche. In tal senso, si concepiscono i primi modelli di controllo dell’espressione genica che vanno oltre quello dell’operone, scoperto da Jacob e Monod. La tecnologia del DNA ricombinante svela, nel corso degli anni Ottanta, l’impressionante articolazione e differenziazione dei meccanismi di regolazione dell’espressione dei geni nelle cellule eucariotiche. Attraverso la ricombinazione sperimentale del genoma è possibile far luce anche su aspetti dell’organizzazione del materiale genetico assolutamente nuovi e impensabili fino a quel momento. Lo studio della segnalazione intracellulare e dei meccanismi epigenetici sta disvelando un universo problematico che prefigura nuove sfide sperimentali e teoriche per la concettualizzazione dei rapporti tra il genoma e i meccanismi biochimici che ne regolano l’espressione funzionale. I saggi raccolti in questo volume ricostruiscono l’evoluzione dei concetti, delle teorie e dei metodi che hanno caratterizzato l’evoluzione straordinaria delle conoscenze scientifiche sulle basi cellulari e molecolari della vita nel corso degli ultimi due secoli. Con uno sguardo conclusivo che ripercorre sia la più recente storia dell’impegnativo problema delle origini della vita, sia la discussione, che ha radici antiche e molte articolazioni moderne sulla definizione naturalistica di vita. Gilberto Corbellini