Modernità delle rovine la rovina come paesaggio industriale

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Questa pubblicazione è stata finanziata con i contributi della Scuola di Dottorato in Architettura - Teorie e Progetto, dell’Università “Sapienza” di Roma, coordinata dal Prof. Antonino Saggio.

Gli autori tengono a ringraziare il Prof. Lucio Altarelli per il prezioso aiuto e per aver ideato e seguito la stesura di questo volume in ogni sua parte, oltre al Prof. Antonino Saggio, che ha sempre sostenuto e incoraggiato il lavoro seminariale sotteso alla redazione del libro. Gli stessi desiderano ringraziare ancora i Proff. Pier Federico Caliari, Orazio Carpenzano e Franco Purini, per i contributi forniti.

La modernità delle rovine Temi e figure dell’architettura contemporanea a cura di Stefano Bigiotti e Enrica Corvino

Presentazione di Antonino Saggio Introduzione di Lucio Altarelli © 2015 Prospettive Edizioni Editrice dell’Ordine degli Architetti PPC di Roma e Provincia Piazza Manfredo Fanti, 47 - 00185 Roma tel. 06/97604531 www.prospettivedizioni.it - info@prospettivedizioni.it

Comitato dei referee Massimiliano Cafaro, Federico De Matteis, Donatella Fiorani, Laura Forgione, Filippo Lambertucci, Valerio Palmieri

Ordine degli Architetti PPC di Roma e provincia

Tutti i diritti riservati Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni. Progetto grafico e impaginazione di Stefano Bigiotti e Enrica Corvino ISBN 978-88-98563-26-5

Stefano Bigiotti Enrica Corvino Elnaz Ghazi Erika Maresca Elisa Morselli Leopoldo Russo Ceccotti Marco Spada

Contributi di Pier Federico Caliari Orazio Carpenzano Franco Purini


INDICE

PRESENTAZIONE Antonino Saggio, La linea bianca tra teorie e progetto

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INTRODUZIONE Lucio Altarelli, Il linguaggio delle rovine

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Manifesti Composizione dei manifesti Enrica Corvino, La rovina come sottrazione Stefano Bigiotti, La rovina come dimensione ctonia Marco Spada, La rovina come paesaggio industriale Leopoldo Russo Ceccotti, La rovina come abbandono Elisa Morselli, La rovina come macerie Erika Maresca, La rovina come habitat Elnaz Ghazi, La rovina come palinsesto

30 34 38 42 46 50 54 58

Contributi Pier Federico Caliari, Rovina e modernità. Dialettica dell’Illuminismo Orazio Carpenzano, Fantasticare la rovina Franco Purini, Il nuovo e tre forme dell’antico

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Selezione bibliografica Indice dei nomi

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La rovina come paesaggio industriale

Marco Spada

La fine della città industriale ha generato la fine del paesaggio produttivo; le periferie urbane, un tempo luogo della creazione di beni e servizi, si sono trasformate in aree in cui, a macchia di leopardo, si è generato un paesaggio di abbandono e silenzi. La rovina fisico morfologica segue anche la desolazione di senso della periferia, delle case e degli uomini che abitano le case. L’alienazione della periferia industriale appare mutata: non influisce più sull’uomo-macchina, come parte del processo di produzione, ma colpisce gli altri, coloro che non fanno parte del meccanismo di produzione superstite, e ne sono stati tagliati fuori. La presenza di fabbriche attive accanto a quelle dismesse genera solitudine ed angoscia in chi identificava la propria vita nel proprio lavoro; in questo senso gli studi di Alessandro Coppola sulle città in contrazione e di Leonardo Benevolo sulla Fine della Città hanno aperto la via a nuove interpretazioni dello spazio industriale, sia esso dismesso o meno. Le rovine della civiltà di capitale, sorta sulle ceneri dell’industria pre-bellica, all’indomani della capitolazione, sono oggi le vestigia di un sistema di produzione che, entrato in crisi alla fine degli anni ’80 sotto i colpi del Thatcherismo, sta generando un nuovo tipo di società, profondamente lontana dalle istanze sociali, politiche ed economiche della fabbrica e isola l’individuo in una solitudine sociale che ha portato ad un sistema di produzione basato, come sostiene il sociologo Sarantis Thanopoulos, su parametri quantitativi astratti e in quota parte avversi all’appagamento dei nostri desideri. La solitudine di senso segue la solitudine dell’iconografia. La fabbrica, luogo del monumento, privo di spazio pubblico trova un suo contrappunto nel Campo Marzio di Giovan Battista Piranesi, in cui il tessuto, composto esclusivamente da luoghi pubblici, annulla lo spazio pubblico. È la fabbrica. Il luogo della comunità che produce e per assurdo concentra senza unire. Non più i monumenti di Roma, quindi, si stagliano nello spazio compresso di spazi e volumi del Campo Marzio ma, ovviamente fuori d’ogni scala, i capannoni e gli impianti, ancora attivi ma già configurati come rovina, dell’impianto siderurgico ILVA di Taranto. La rovina non è quindi solo abbandono del manufatto. I luoghi in rovina possono essere ancora attivi, generare lavoro, ma senza la caratteristica positiva 42

del lavoro: dalla Civiltà delle Macchine di Leonardo Sinisgalli, in cui il lavoro e il patto sociale tra lavoratori e imprenditori erano alla base del progresso, sono passati secoli. La ciminiera, simbolo fallico del potere dell’industria è abbattuta. Una ciminiera può sempre riprendere a funzionare, ma quando è demolita e conformata come rovina, non può generare altro lavoro o speranza. La Venere degli Stracci, di Michelangelo Pistoletto, guarda in silenzio i rifiuti della modernità, come fiori su una lapide: macerie delle fabbriche, gettati ai piedi dei Moloch industriali. Il paesaggio non parla più, la prospettiva, schiacciata, non permette più di distinguere se il fumo che esce dalle ciminiere è causato dall’attività della fabbrica o dal misero rogo di uno squatter. Il paesaggio in rovina può essere redento, un fotogramma de Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni lo ricorda, un bambino gioca con una condotta al di fuori di uno stabilimento chimico, senza paura. La madre lo vede, lo solleva, e insieme vanno via. La redenzione della fabbrica, attraverso l’arte e nuovi criteri di definizione del paesaggio, è simboleggiato da una scultura senza nome di Nicola Carrino: un poliedro di acciaio, saldo, piantato solidamente a terra, occupa uno spazio misurabile, concentrato, generato sicuramente dal caos delle ciminiere, delle torri e dei capannoni. La scultura è muta, e mostra il tocco sapiente dell’uomo, che modella la massa informe e liquida e la rende base solida, su cui poggiano i piedi la madre e il bambino. Davanti a loro, il gazometro di Oberhausen, con il suo tetto forato, ricorda il Cenotafio di Newton di Étienne-Louis Boullée, altro oggetto sublime per eccellenza, in cui alla misura della terra si affianca la misura del cosmo, il numero irrazionale, l’ampiezza infinita. Non più quindi la speranza, ma la certezza che, dal paesaggio muto e ostile, possa nascere un nuovo paesaggio, un nuovo significato del territorio. Il paesaggio industriale diventa fatto urbano contemporaneo, si affranca dallo stigma iniziale del luogo di produzione votato ad un funzionalismo esclusivamente numerico, ma diventa oggetto formale, parte di un tessuto morfologico che non è soltanto paesaggio in alzato, ma diventa parte del tessuto urbano, con un sistema di relazioni spaziali e visuali, con giochi di pieni e di vuoti, con significati intrinsechi alla propria natura di fatto urbano. La foresta di ciminiere in rovina genera città. Non si tratta più di osservare la fabbrica con le caratteristiche di un oggetto di archeologia. Non è il manufatto di una civiltà assente: le rovine dimostrano la necessità di trattare il tessuto come un oggetto della memoria, più simile al resto del Castello di Berlino da cui Karl Liebknecht proclamò la Repubblica, che non al Mausoleo romano, vestigia della Civiltà delle Macchine, da cui il paesaggio, inesorabilmente, discende.

1 - Giovanni Battista Piranesi, Campo Marzio dell’antica Roma,veduta parziale, 1762. 2 - Stabilimento Siderurgico ILVA, Taranto, 1965. 3 - Michelangelo Pistoletto, Venere degli Stracci, scultura, 1967. 4 - Michelangelo Antonioni, Deserto Rosso, fotogramma, 1964. 5 - Jürg Steiner, Gasometro, Oberhausen, 1993. 6 - Nicola Carrino, Untitled, scultura, 2014. 7 - Mario Sironi, Paesaggio Urbano, 1927. 8 - Fritz Lang, Metropolis, fotogramma, 1927. 9 - Athanasius Kircher, Turris Babel Sive Archontologia, 1679. 43


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