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editoriale
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Nell’accezione comune, soprattutto di questi tempi, la parola “crisi” è caricata di valore negativo. Se un quotidiano titola “siamo entrati in crisi” provoca panico e sconforto, al contrario se la prima notizia è “stiamo uscendo dalla crisi” nascono speranza e rassicurazione. In realtà l’etimo della parola “crisi” ci riporta a un momento di decisione. Non a caso, quando non sappiamo cosa fare e dobbiamo scegliere tra due cose in alternativa tra loro, diciamo “sono in crisi”. L’attuale congiuntura economica ha costituito per molte società nel sistema dei media il moltiplicatore della necessità di prendere decisioni. In altre parole ha accelerato processi già in atto che, prima o poi, avrebbero comunque costretto gli editori a confrontarsi con una situazione differente da quella considerata “normale”: in particolare sulla struttura dei propri processi produttivi e sulla natura del proprio rapporto con il pubblico. Si pensi alla televisione: un mondo che, da una struttura basata sul monopolio della tv generalista e della fruizione lineare e semi-passiva dei contenuti, si è evoluto con la presenza contemporanea della tv generalista free, dei canali multichannel free (vuoi tematizzati su target o per tipologia di contenuto), di più proposte commerciali pay, il tutto distribuito su diverse piattaforme tecnologiche che permettono anche una fruizione non lineare del contenuto e una relazione con il proprio cliente/spettatore non più solo statistica come quella, usata sino a oggi, dell’Auditel. In questa situazione, per un editore, intendere “crisi” solo come un problema del conto economico è più che riduttivo e miope: è suicida (ovviamente, nessuno lo nega, è anche un problema del conto economico). Ritornando all’etimologia: “crisi è il momento che separa una maniera differente di essere”. Questa interpretazione è quella di molti interventi di questo numero di Link: da Carlo Freccero che condivide l’opportunità “positiva” insita nella crisi, a Carlo Alberto Carnevale Maffé che propone agli editori un nuovo posizionamento, basato su un ripensamento a 360 gradi del loro operare. Link moltiplica poi gli sguardi sulla televisione nelle sue sezioni, e continua il lavoro sulle illustrazioni di giovani artisti italiani. Buona lettura, Marco Paolini 5
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COVER STORY
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CHE FARE? LA TV DOPO LA CRISI
. .................................... da pag .
con testi di C.
Freccero, P. Ortoleva, G. Paolini, M. Mancuso, M. Vecchia, E. Pucci, C.A. Carnevale Maffé, F. Sarica.
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Crisi. Una parola che da qualche mese riecheggia ovunque. E che colpisce anche la televisione e il sistema dei media. Questa volta, più forte che mai. Perché si sovrappone a cambiamenti di lungo corso che costringono a ripensare ogni aspetto dell’industria tv. La filiera, la produzione, la pubblicità, i contenuti. Allora, la domanda è una sola: che fare? Da 0 a 52..................................................... 15
Prima il porno, poi il resto.................... 153
La semplice, o non così semplice, stesura di una sceneggiatura tv
Ma il porn 2.0 può essere un modello?
di Jeremy
di Antonio
Boxen
Dini
Il processo di scrittura seriale raccontato da un autore nordamericano, tra produttori impazziti e cani zombie in crisi di identità. Tutta la fatica che si nasconde dietro ogni maledetta puntata di un telefilm.
L’industria del porno, si dice, metabolizza i cambiamenti prima degli altri. Vediamo allora come se la sta cavando tra peerto-peer, contenuti amatoriali e modello freemium. Non solo lezioni di anatomia.
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Musica, maestro!. .................................... 22
Il fan patologico.................................... 179
Il nuovo e il sempre uguale
La possessione e il contagio nel fandom
di Aldo
di Violetta
Grasso
Bellocchio
Una nuova rubrica: dove si cerca il nuovo nel vecchio e il vecchio nel nuovo. Prospettive inedite sulla televisione italiana, presentate dal critico tv per eccellenza. Si parte con i “talent”.
Un sano ritorno alla devianza del fan. Dopo le recenti riabilitazioni e la geek coolness di serie e film, Violetta Bellocchio ci sprofonda negli abissi dell’adorazione, tra sfigati, inetti e disadattati.
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L.A. Diary.................................................. 150
I media dopo l’ultimo big bang................ 197
Confessioni dai mercati televisivi
Che cosa cambia e cosa resta quando sfumano i confini
di Aldo
di Francesco
Romersa
Diario malinconico di un professionista agli screenings di Los Angeles. Cosa resta di un mestiere, quello del selezionatore di telefilm, sul viale del tramonto. La vita non è una fiction.
Casetti
Francesco Casetti ci regala un accorato pamphlet che traccia nuove mappe per interpretare i media. Perché il mondo è cambiato, e le vecchie categorie ormai non bastano più.
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SOMMARIO
editoriale................................................................................................................ 5
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Da 0 a 52.......................................................... di Jeremy Boxen........................................ 15 il nuovo e il sempre uguale.. ....... musica, maestro!. .... di Aldo Grasso. ........................................ 22 Trasmigrazione dei generi: il quiz................. di Matteo Bittanti. ................................ 25 Potere Tween................................................ di Massimo Scaglioni.............................. 34 combat format............................................... di Axel Fiacco........................................... 37 divagazioni semi-serie.............. mad men e…. ........... di Dr. Pira................................................. 46 La vita come una sitcom?.............................. di Bucknasty............................................. 49 Estero. Share e top ten.. ........... Imprenditori…. ....... di Paola Capra........................................... 59 .................................... Vampiri, zombie….... di Ludovica Fonda................................... 61 COVER STORY
che fare? La tv dopo la crisi
Una botta di depressione............................... di Peppino Ortoleva................................ 71 Crisi? Si spende di più..................................... di Emilio Pucci.......................................... 81 Né free né pay. ................................................ di Carlo Alberto Carnevale Maffé. . 89 Cheap is chic?................................................. di Gregorio Paolini................................. 97 1929+1962=2009. .......................................... di Marco Vecchia. ................................. 103 Fidati ancora.................................................. di Federico Sarica................................... 111 La crisi è di serie............................................ di Mariarosa Mancuso......................... 117 Costruiremo una tv sperimentale................ di Carlo Freccero................................. 123
INDUSTRY
A PICCOLI PASSI. ............................................... di Michele Boroni.................................. 133 tv sul web: parola all’hacker................... di Antonio Dini...................................... 140 PROCESSO AL DOPPIAGGIO.................................. di Luca Barra. ......................................... 143 L.a. diary......................................................... di Aldo Romersa...................................... 150 Prima il porno, poi il resto........................... di Antonio Dini....................................... 153 tutte le facce dello switch-off................... di Aroldi, Colombo, Vittadini. .......... 159 Sguardi sul mercato globale.. ..... Rep. POPOLARE CINESE. ..................................................................... 167
SIGHTS
Il fan patologico............................................ di Violetta Bellocchio........................ 179 Visioni laterali..................... tempi ansiosi…......... di Andrea Lissoni................................... 187 monologo su twitter (e tutto il resto).. di Irene Lumpa Rossi.............................. 194 I media dopo l’ultimo big bang....................... di Francesco Casetti............................ 197 Portfolio.. ......................... PIETER VON BALTHASAR..................................................................... 211
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La semplice, o non così semplice, stesura di una sceneggiatura televisiva di Jeremy Boxen
A volte le cose vanno per il verso giusto, dirette all’obiettivo finale. Altre volte tutto va storto, con ostacoli e imprevisti di ogni genere. Caratteristiche di ogni attività umana. Così come della scrittura di un episodio per una serie televisiva. Troppo facile redigere un manuale, il “come si fa”. Più utile fare un elenco di tutto quello che succede al meglio delle possibilità. E poi di tutto quello che di sbagliato può capitare. Cercando, si spera, di trovare un posto lì in mezzo. E scrivere il best episode ever.
traduzione di Maria Acciaro
illustrazioni di Ivan Hurricane
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Canadese di Toronto, è sceneggiatore di numerose serie televisive, tra cui Republic of Doyle, Cra$h and Burn, The Listener, Degrassi: The Next Generation, Instant Star e Falcon Beach, e di alcuni lungometraggi, come Warriors of Terra e 22 Chaser, al momento in produzione grazie al Canadian Film Centre’s Feature Film Project. Nel 2008, il suo cortometraggio Ringtone ha ricevuto il premio speciale della giuria alla prima edizione del Rutger Hauer’s I’ve Seen Films International Short Film Festival di Milano.
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1. Questa serie è solo un esempio che ho inventato per favorire il discorso – non è un vero programma a cui ho lavorato. C’è una serie decente sulla CBC Radio che parla di soldati in Afghanistan, ma, sfortunatamente, non mi hanno mai chiesto di collaborare. 2. Story editor è il termine generico dell’ambiente per un autore che rimane nell’ufficio di produzione settimana dopo settimana, facendosi venire in mente nuove idee e revisionando la sceneggiatura. Man mano che si diventa più importanti, si ricevono titoli più importanti. Quindi l’autore viene promosso da Junior Story Editor a Executive Story Editor, e poi oltre, a Co-Produttore, Produttore, Consulente, Consulente Esecutivo, Co-Produttore Esecutivo, Produttore Esecutivo, Superproduttore Esecutivo delle Figate, o qualsiasi altro termine si vorrà inventare la casa di produzione per rassicurarci sulla validità della nostra scelta professionale. 3. “Rompere la storia” significa sviluppare l’episodio elaborandolo una scena per volta. Sì, “unire” la storia sarebbe un termine più appropriato, ma “rompere” suona molto meglio. 4. Nell’industria c’è un dibattito su cosa sia più importante per noi autori: cibo o soldi. Spesso lavoriamo per settimane senza farci pagare, ma nel momento in cui i produttori smettono di darci da mangiare, chiudiamo i nostri laptop e torniamo a casa.
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ome fa uno sceneggiatore a passare da una pagina bianca alla prima bozza di un episodio di una serie televisiva? Che sia un dramma di un’ora o una commedia di mezz’ora – e le ho provate entrambe – c’è un sistema, un metodo quasi burocratico, di scrittura per la tv. Ne esistono alcune varianti ma, almeno per quanto riguarda le sterminate lande del Canada, uno sceneggiatore che si è formato da un lato del Paese può sedersi con uno che lavora dall’altro e sapere cosa fare. L’aspetto importante da tenere a mente, tuttavia, è che il sistema funziona solo in alcuni casi, mentre in altri è solido quanto una barchetta di origami durante un uragano.
Un sistema che funziona
Quando tutti gli sceneggiatori e produttori rispettano il processo e sono competenti, le cose vanno così. 1. L’incarico: vengo assunto come autore per una serie televisiva che mi stimola tantissimo. È una nuova serie drammatica di un’ora sui soldati canadesi in Afghanistan1. La serie è originale, divertente e ricercata. Sono stato assunto in veste di story editor2, e il contratto mi garantisce due sceneggiature. 2. La redazione: mi siedo in una stanza con altri sei story editor con vari livelli di esperienza alle spalle. Uno di questi è lo showrunner. Lui, uno sceneggiatore esperto, ha creato la serie, ne possiede la visione creativa, ed è sua responsabilità assicurarsi che tutti i dipartimenti coinvolti nella produzione si attengano a questa visione. Ci sediamo intorno a un grande tavolo, in una stanza con tanto spazio sulle pareti su cui attaccare le nostre idee. Questa è la redazione. Dato che si tratta di una nuova serie tv, passiamo molto tempo a discutere di ogni personaggio principale, pensando a come svilupparli nel corso della stagione. Decidiamo l’ordine in cui saranno scritte le prime 13 puntate in base alla gerarchia della stanza, e scopro che il mio primo episodio sarà il terzo. Ci sono modi diversi per creare le storie dei vari episodi. A volte, l’autore ha già ben chiaro cosa scriverà. A volte, lo showrunner ha già in mente le storie che vuole vedere nella serie. A volte, la storia emerge naturalmente dalle nostre chiacchiere in redazione, mentre improvvisiamo come musicisti jazz, le nostre menti che vibrano in armonia creativa. La mia idea per questo episodio nasce da un incontro che abbiamo avuto con un soldato in pensione, che ci ha raccontato la sua esperienza in Afghanistan. Prendo uno dei suoi racconti di vita vissuta e vi aggiungo un colpo di scena drammatico, in modo da trasformarlo in un conflitto che si adatta al nostro personaggio principale. La premessa piace allo showrunner, e anche agli altri autori. Da questo momento iniziamo a “rompere la storia”3. Dalle 9.30 del mattino alle 5.30 di sera lavoriamo insieme. Ci concentriamo sul mio episodio prima di passare al successivo. Ogni autore nella stanza contribuisce con idee creative, sorprendenti. A volte imitiamo la voce dei personaggi mentre ci recitiamo le scene a vicenda. Ci sono tante risate. Lo showrunner guida la discussione e fa in modo che la storia che sta prendendo forma rispecchi la sua visione della serie. Ci prendiamo una piccola pausa a metà giornata per il pranzo, ma per farlo non lasciamo l’edificio. Invece di uscire, la compagnia di produzione compra il pranzo per noi, ed è allo stesso tempo sano e delizioso. Il morale è alto4. Altro sulla struttura: c’è un sistema per tenere d’occhio le varie idee per l’episodio. Nel momento in cui siamo d’accordo su una battuta, la scriviamo 16
su un foglietto e lo attacchiamo sul muro nella colonna che rappresenta l’atto in questione. Le schede sono di vari colori, e ne usiamo uno diverso in base a ogni singola trama. Questo ci permette, al primo sguardo, di vedere il ritmo dell’episodio nella sua interezza, cioè nella trama e nelle sue sottotrame, il che rende tutto più efficiente. E poi i colori sul muro sono carini. Dopo un paio di giorni, abbiamo creato un episodio di una serie televisiva sul muro, con le nostre schede colorate, e sappiamo che è fantastico. Il produttore esecutivo, colei che ci ha assunto e che ci paga gli stipendi, arriva in redazione. Io le propongo l’episodio, accompagnandola attraverso la storia aiutandomi con le schede colorate sul muro. Lo adora. Ottengo il via libera per il passo successivo. 3. Il soggetto: mentre continuo a partecipare al lavoro redazionale, aiutando a “rompere” l’episodio successivo, scrivo un soggetto che sintetizza, in una pagina, l’idea generale dell’episodio. Lo adora. Ottengo il via libera alla stesura dell’outline. 4. L’outline: anche se sono in redazione tutti i giorni, mi prendo una settimana per scrivere l’outline dell’episodio. L’outline consiste semplicemente nel trasformare gli appunti sul muro in scene dettagliate su carta, scritte in un linguaggio televisivo appropriato, ma senza dialoghi. L’outline va allo showrunner. Lo adora. Mi suggerisce di aggiungere un po’ di azione in una scena e di tagliarne un’altra in due parti, in modo da aiutare il ritmo. Sono felice di apportare i cambiamenti. L’outline va al produttore esecutivo. Lo adora. L’outline va ai dirigenti del network. Lo adorano. Nel corso di una conference call tra i dirigenti, il produttore, lo showrunner e me, concordiamo una serie di dettagli che cambierò procedendo con la sceneggiatura. Ottengo il via libera alla stesura della prima bozza. 5. La prima bozza: Per scrivere la prima bozza mi prendo due settimane lontano dalla redazione. Essenzialmente, tutto quello che devo fare è aggiungere uno strato di dettagli a ognuna delle scene dell’outline, e mettere i dialoghi. Nel momento in cui mi siedo a scrivere la prima bozza della sceneggiatura, la maggior parte del lavoro duro è fatta. Questo vuol dire che ho abbastanza tempo libero per fare il bucato, passare l’aspirapolvere, pranzare con gli amici, passare un po’ di tempo con la mia fidanzata e scrivere articoli per le riviste italiane. Finisco la prima bozza. Ognuno dei cinque atti è esattamente della lunghezza prevista e l’intera sceneggiatura non è né troppo corta né troppo lunga – le sue 52 pagine si tradurranno alla perfezione in 42 minuti e 45 secondi di meravigliosa televisione. Ogni scena è commovente e avvincente, ricca sia di momenti drammatici che di sorprendenti svolte narrative. Ogni atto termina con un colpo di scena talmente coinvolgente da inchiodare il pubblico al televisore, tanto che non vedrà l’ora che finisca la pubblicità per sapere cosa succederà dopo. Otterrà sicuramente molti riconoscimenti. La prima bozza va allo showrunner e al produttore esecutivo. La adorano. Chiedono alcune modifiche ai dialoghi che condivido perché rendono i mo-
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Il sistema funziona solo a volte, altre è solido come una barchetta di origami durante un uragano.
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musica, maestro!
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È professore ordinario di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano, ed è editorialista e critico televisivo del Corriere della Sera. Ha condotto la fortunata serie radiofonica A video spento (198993) ed è stato direttore della programmazione radiofonica della Rai. Fra le sue pubblicazioni: Storia della televisione italiana (Garzanti, Milano 1992-2004), Enciclopedia della televisione (Garzanti, Milano 1996-2008), Che cos’è la televisione (con M. Scaglioni, Garzanti, Milano 2003), Fare storia con la televisione (Vita e Pensiero, Milano 2006), La tv del sommerso (Mondadori, Milano 2006) e Buona maestra (Mondadori, Milano 2007). È direttore del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) dell’Università Cattolica.
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Aldo Grasso
Dove si cerca il nuovo nel vecchio e il vecchio nel nuovo.
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le E!): solo performance. Bisogna ricordare però che il talent show ha radici antiche: al suo stadio embrionale debutta sulla tv italiana nel 1956, in prima serata. Primo applauso diventa da subito un appuntamento di quelli da non perdere. Davanti alle telecamere sfilano volti nuovi, sconosciuti di talento, aspiranti divi televisivi che si cimentano in esibizioni valutate dal pubblico con quello che Enzo Tortora genialmente battezza applausometro. Le richieste di partecipazione al programma sono moltissime, e testimoniano che l’immagine di un primo pubblico “passivo” tramandata da molta storia della tv deve essere rivista alla luce di un primitivo desiderio di interazione. Sin dalle sue origini, il medium non ha rappresentato solo una “finestra sul mondo”, ma anche una “ribalta”, un’occasione di partecipazione. La conduzione di Primo applauso è inizialmente affidata a Tortora e alla diva Silvana Pampanini. Presto però si capisce che quel che funziona al cinema può non andare bene in tv: per condurre un varietà servono qualità diverse, disinvoltura di fronte alla telecamera, buona padronanza della grammatica ita-
om’è imprevedibile la tv! Fino a poco tempo fa cercava con affanno gente comune, sconosciuti senz’arte né parte, campioni dell’anonimato e adesso invece cerca solo talenti, possibilmente naturali. Come insegna American Idol, come insegnano tanti altri talent show. Negli ultimi 30 anni la tv generalista ha “inventato” tre grandi generi: il talk show, il reality, il talent show. Da una costola del reality è nato il talent, che paradossalmente ha il compito di riportare la professionalità in tv, dopo anni in cui sono salite alla ribalta molte persone “senza mestiere”, al più fenomeni da baraccone. Il talent show, la cui forma iniziale risalirebbe alle gare nei college, ha avuto la sua consacrazione al cinema con Fame, che, a sua volta, ha dato origine all’omonima serie tv, vera matrice di tutti i format del genere: X Factor, American Idol, Pop Idol, Popstars, Amici. In Italia, per ragioni economiche, il talent si trasforma in una sorta di lungo reality, con serate interminabili, liti continue, giudici che rubano spazio ai concorrenti. In America niente dibattiti, niente dietro le quinte (riservati ai siti internet e al cana-
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meno lecitamente in tutto il mondo, dando vita a numerosissimi remake. L’adattamento italiano è, come spesso accade per il genere del telequiz, più “casereccio”: si insiste sul comico, da un semplice concorrente si tira fuori un personaggio perché gli spettatori si possano affezionare alle sue vicende. È così che Il Musichiere consegna alla storia della tv un campione, Spartaco D’Itri, cameriere romano che vince per 15 settimane e lascia scritto nel testamento di voler essere sepolto con la fascia da campione. Ma la fortuna di Name that Tune in Italia non si ferma al Musichiere: il gioco di punta di Sarabanda, quiz musicale preserale di qualche anno fa, ripescato nell’estate 2009, prevede proprio due concorrenti che si sfidano per riconoscere il titolo di sette motivi, di crescente difficoltà, dai loro attacchi e in un tempo limitato. Ma gli anni del boom sono ormai un lontano ricordo, la magia dell’appuntamento rituale settimanale si è stemperata nell’indistinto del flusso giornaliero, è difficile affezionarsi a concorrenti sempre più coatti e l’esibizione della valletta di turno dà la misura del tempo che è irrimediabilmente passato dai fasti di Name that Tune.
liana per non cadere nel ridicolo (resta memorabile l’uscita della conduttrice: “Speriamo che l’applausometro sali, sali …”). Così la Pampanini lascia e Tortora resta solo a fare da mattatore alla serata, agghindato in uno smoking verde pisello, a caccia di dilettanti allo sbaraglio per offrire loro la barbarica gioia di cimentarsi davanti alle telecamere e di poter esibire, dal giorno dopo, il marchio “Direttamente dalla radiotelevisione”. Capita poi che per alcuni i sogni diventino realtà: grazie a Primo applauso comincia la sua carriera artistica un giovane orologiaio di Milano, Adriano Celentano. Corsi e ricorsi della storia, più di cinquant’anni dopo la prima esibizione televisiva del Molleggiato tra i dilettanti allo sbaraglio, Claudia Mori, sua moglie, entra nella giuria del talent X Factor. In tv nulla si crea e nulla si distrugge. Nel 1957, dal centro di produzione Rai di via Teulada, va in onda Il Musichiere, un quiz musicale scritto da Garinei e Giovannini, condotto da Mario Riva. L’idea è quella di fare da contraltare ai quesiti accademici di Lascia o raddoppia? e dar vita a un appuntamento settimanale leggero, che affidi alla canzonetta un ruolo euforizzante e aggregante. Il meccanismo di base del gioco che entusiasma di più il pubblico è questo: l’orchestra suona poche note e i due concorrenti, in scarpe di tela (“gentilmente offerte dalla televisione italiana”), scattano dalle terribili sedie a dondolo e corrono verso una campana: chi scuote per primo il batacchio ha diritto a rispondere e riconoscere il motivo proposto. È il 1957 e il patrimonio culturale condiviso della nazione comprende più canzonette che cultura alta: così il pubblico a casa tifa, si immedesima, può giocare a sua volta nei bar e nei cortili in cui le famiglie che già possiedono la tv tengono corte bandita. Il Musichiere è direttamente ispirato a un programma popolarissimo della televisione americana, Name that Tune (e non è il solo format che la premiata ditta Garinei & Giovannini importa). Rodato prima in radio, il quiz passa poi sul piccolo schermo, dove va in onda per diversi anni. Due concorrenti, una melodia da indovinare: un’idea molto semplice che, in una fase in cui il mercato dei format era ancora puro far west, viaggia più o
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trasmigrazione dei generi: il quiz LINK 8 Product
Nel futuro dei videogame c’ è la televisione di Matteo Bittanti
In tutte le case, contemporaneamente, lo spettatore sta davanti alla tv. Sembra la classica descrizione del couch potato, e invece stiamo parlando di videogiochi. Meglio, di una forma a cavallo tra il videogame e il piccolo schermo. Perché le console di ultima generazione possono farci partecipare – davvero! – ai quiz televisivi. Rispondere correttamente alle domande per sconfiggere altri giocatori, in altre case. Ci sono persino i conduttori. Una nuova puntata del nostro viaggio nelle ibridazioni videoludiche.
illustrazioni di Ivan Hurricane
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Svolge attività di ricerca sui videogiochi presso la Stanford University e la University of California, Berkeley. Insegna Game Studies presso il California College of the Arts. Dopo la Laurea in Filosofia e comunicazioni sociali, ha ottenuto un Master of Science in Mass Communications presso la San José State University a San José, California e un dottorato in Nuove tecnologie della comunicazione presso lo IULM di Milano. Ha scritto e curato numerosi libri e saggi sui videogiochi, in italiano e in inglese. Vive a San Francisco.
LINK 8 Product Trasmigrazione dei generi: il quiz
1. Si veda M. Bittanti, “Xbox Love”, su Link 6. News from Everywhere.
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introduzione dell’ultima generazione di console Nintendo, Microsoft e Sony ha coinciso con una ridefinizione della nozione di videogame. Con Wii e DS (e, più recentemente, DSi), Nintendo è riuscita nella difficile impresa di ampliare e diversificare il bacino di utenza, proponendo una forma di intrattenimento che si rivolge non solo – o meglio, non tanto – agli appassionati, già familiari con le convenzioni e le idiosincrasie del medium, ma a una tipologia di consumatore finora poco interessata a videogiocare: adulti, anziani, pubblico femminile. Questo obiettivo è stato raggiunto attraverso una strategia di rinnovamento che ha investito tanto l’hardware quanto il software. In primo luogo, Nintendo ha dotato le sue nuove console di innovative interfacce di controllo capaci di tradurre i movimenti fisici dell’utente in corrispondenti azioni sullo schermo, abbassando la soglia di ingresso e le competenze minime per poter fruire un videogioco. Non a caso, già a livello estetico, il controller Wii, denominato WiiMote, emula il design dei telecomandi televisivi, mentre DS e DSi prevedono l’utilizzo di un pennino e dell’ormai ubiquo touch-screen. In secondo luogo, ha sviluppato nuovi generi – per esempio, i fitness game – che si collocano all’intersezione tra il divertimento elettronico e le pratiche ricreative non squisitamente “digitali”. I risultati non si sono fatti attendere, con oltre 50 milioni di Wii e oltre 100 milioni di DS vendute. Cifre che i concorrenti invidiano. Per converso, Microsoft e Sony hanno adottato una strategia differente, finalizzata a trasformare la console nel portale di accesso all’intrattenimento tout court grazie a servizi che sfruttano la banda larga per convogliare on demand nelle case film, serie tv, musica e altri contenuti digitali. Con i network Xbox Live (Microsoft) e PS Network (Sony), la console diventa un potente set top box in diretta competizione con l’offerta televisiva via cavo e satellitare. Non solo. Le console offrono contenuti digitali di ogni tipo: slideshow fotografici, news e perfino informazioni meteorologiche. Il sofisticato servizio di digital delivery di Xbox Live1 consente di creare palinsesti dinamici, passando facilmente dall’interazione ludica a momenti di ascolto e di visione, in una fruizione multitasking che la televisione tradizionale non è (ancora) in grado di offrire. Durante l’ultima edizione dell’Electronic Entertainment, tenutosi a Los Angeles nel giugno 2009, Microsoft ha annunciato importanti novità per il servizio Live, tra cui l’aggiunta di applicazioni come Facebook, Twitter e Last.Fm. Questi siti si aggiungono al canale Netflix, popolare servizio di video on demand che vanta oltre dieci milioni di abbonati negli Usa, con cui gli utenti possono dare vita a NetFlix parties, cioè fruire e commentare film simultaneamente, in un cinema virtuale, usando i loro avatar. Netflix Live sarà poi affiancato dal servizio di download Zune, equivalente Microsoft di iTunes. Tutte le nuove applicazioni – distribuite a cadenza semestrale – vengono scaricate e installate automaticamente quando l’utente si collega a Xbox Live, rendendo il processo di aggiornamento indolore o, come dicono gli americani, idiot-proof. Sony sta lavorando a un progetto simile con Home, il mondo virtuale di PlayStation 3, utilizzato da circa 8 milioni di utenti a livello mondiale (di cui 3,5 in Europa). E ha annunciato l’introduzione di un servizio di cinema on demand attraverso il PlayStation Network anche in Europa (dopo l’ottimo successo riscosso negli Stati Uniti). Previsto per novembre 2009 nel Regno Unito, Germania, Francia e Spagna e nei primi mesi del 2010 in Italia, il video store di Sony consentirà agli utenti di noleggiare e/o acquistare film in formato standard o in alta definizione. I 26
film a noleggio potranno essere visionati sulla console domestica (PS3) o su quella portatile (PSP), mentre quelli acquistati potranno essere trasferiti a piacimento dall’utente da una piattaforma all’altra. Nel primo caso, gli utenti hanno 24 ore a disposizione per visionare il film oppure 14 giorni dalla data di download, al termine dei quali il film verrà cancellato automaticamente dal disco fisso. Per correre ai ripari, Sky in Inghilterra e Canal+ in Francia hanno di recente stretto accordi di collaborazione con Microsoft per distribuire contenuti anche attraverso Xbox Live. L’accordo con Sky consente agli utenti inglesi di Xbox Live di fruire contenuti televisivi in diretta – tra cui le partite di calcio della Premier League. Non tutti i canali del pacchetto saranno immediatamente visibili su Xbox Live, ma Microsoft ha reso noto che l’offerta iniziale ne includerà “dozzine”. Inoltre, gli utenti potranno creare virtual party room per chattare e commentare i programmi in diretta. Analoghe manovre in Francia, dove il gruppo Canal+ offrirà via Xbox Live i servizi on demand di tre canali (Canal+, CanalPlay, Foot+). L’offerta dovrebbe arricchirsi di altri contenuti nei prossimi mesi, ma già dall’autunno gli abbonati a Xbox Live possono vedere circa 6.000 programmi, tra cui 3.000 film ed eventi sportivi – tra i quali il calcio transalpino, inglese, spagnolo, tedesco e italiano. La risposta di Sony non si è fatta attendere. L’azienda nipponica ha stretto un accordo con la BBC in Gran Bretagna per offrire i programmi del network in streaming su PlayStation3. Il lettore iPlayer sarà disponibile gratuitamente nel PlayStation Network. Altre reti europee che appariranno presto su PS3 sono RTVE, Antena 3, laSexta e ZDF. Non solo: l’11 giugno scorso, l’azienda nipponica ha ufficialmente introdotto in Australia ed Europa VidZone, un’applicazione gratuita per PlayStation3 che aggiunge un portale videomusicale alla già ricca offerta di contenuti digitali (film, serie televisive eccetera). Con VidZone gli utenti possono accedere a migliaia di videoclip e creare playlist in modo semplice e intuitivo. Visibili in streaming, i video arricchiscono la scelta di intrattenimento trans-ludica della console Sony, ponendosi in diretta competizione con i canali musicali, MTV in primis. In aggiunta agli oltre 13.000 video disponibili, VidZone offre interviste esclusive, performance (registrate e in diretta) e speciali tematici. La natura interattiva del servizio consente ai provider di conoscere in tempo reale e in modo accurato le scelte di fruizione degli utenti, così da offrire servizi – e banner pubblicitari – sempre più personalizzati. VidZone è disponibile in Gran Bretagna, Francia, Australia, Spagna e Italia. Gli aggiornamenti automatici, gratuiti, hanno cadenza settimanale e prevedono esclusive mondiali: per esempio, la prima ufficiale del nuovo video dei Prodigy, “Take Me to the Hospital”. Stando ai dati rilasciati da Sony, ad agosto 2009 gli utenti avevano scaricato più di un milione di contenuti e visionato oltre 100 milioni di videoclip online. In aggiunta a questi fenomeni di convergenza transmediale, i publisher stanno sistematicamente adattando generi e format televisivi per il medium videoludico: una tendenza evidente soprattutto nel caso dei giochi musica-
LINK 8 Product Trasmigrazione dei generi: il quiz
La console diventa un potente set top box in competizione con la tv via cavo e satellitare.
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LINK 8 Product Trasmigrazione dei generi: il quiz 2. Si veda M. Bittanti, “Play”, su Link 7. Mash-up Television.
li 2, dei fitness game e del quiz. Qui, una forma di intrattenimento televisivo caratterizzata da un’interattività relativamente debole viene riconfigurata per un contesto altamente interattivo come il videogioco. Esempi paradigmatici sono 1 vs. 100 (Microsoft) e Buzz! (Sony).
1 vs. 100: dall’“idiot box” all’Xbox
1 vs. 100 (o 1 contro 100, com’è conosciuto in Italia) è un quiz show di origine olandese sviluppato da Endemol, trasmesso in oltre 20 paesi del mondo. In Italia è andato in onda su Canale 5 dal 7 maggio al 22 settembre 2007, e poi dal 10 dicembre 2007 al 13 gennaio 2008, nella fascia preserale, condotto da Amadeus. Il meccanismo è semplice e accattivante: come suggerisce il titolo, un concorrente ne sfida altri 100 (il cosiddetto “mob” in inglese, il “muro” nella versione italiana) per portare a casa il montepremi in palio. Il concorrente e i 100 avversari devono rispondere a una serie di domande che prevedono tre opzioni di risposta. Per ogni avversario che risponde erroneamente il prescelto guadagna dei soldi: dai 50 euro per la prima domanda fino ai 1.000 euro dalla decima in poi: per esempio, se il prescelto risponde correttamente alla domanda da 50 euro, guadagna 50 euro per ogni avversario che avrà dato la risposta sbagliata, eliminandolo dal gioco. Dopo ogni risposta esatta il concorrente può decidere se interrompere la sfida, conservando il montepremi vinto fino a quel momento, oppure continuare a giocare contro il muro, passando alla domanda successiva. Se invece lo sfidante risponde in maniera errata, la somma da lui accumulata viene spartita tra i concorrenti del muro ancora in gioco. Il concorrente può ritirarsi, nel caso in cui decida di non rispondere a una domanda, ma deve accontentarsi del 25% del premio accumulato. La versione televisiva contempla una modalità di interazione debole per mezzo degli SMS: i telespettatori possono infatti inviare a un numero a pagamento un messaggio testuale con il proprio telefono cellulare, suggerendo la risposta a una domanda. Per incentivare la partecipazione remota del pubblico, a ogni puntata viene estratto un vincitore tra i partecipanti, che ottiene 500 euro in gettoni d’oro. Nell’estate del 2009, Microsoft ha introdotto in Nord America e in Inghilterra la versione interattiva di 1 contro 100 attraverso il network Xbox Live. Sviluppato da Manuel Bronstein, 1 vs. 100 è il primo di una serie di prodotti finalizzati a ridurre il gap tra l’esperienza televisiva e quella videoludica attraverso un canale di Live denominato Primetime. Attualmente in beta, il gioco è disponibile in due versioni: 1 vs. 100 Live e 1 vs. 100 Extended Play. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un ibrido che concilia in modo efficace le dinamiche fruitive del videogame con il format televisivo. La versione Live è presentata da un host “reale” – Chris Cashman per la versione statunitense, James McCourt per quella inglese – ma interfaccia, gameplay ed estetica sono rigorosamente videoludici. Invece di optare per il fotorealismo Microsoft ha scelto di ricorrere a un’estetica cartoon, utilizzando gli avatar introdotti con la New Xbox Experience. La fruizione di 1 vs. 100 non richiede costi aggiuntivi rispetto all’abbonamento
Si coinvolge un consumatore finora poco interessato a videogiocare: adulti, anziani, donne.
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annuale di Xbox Live Gold (50 dollari negli Stati Uniti, 50 euro in Italia) ed è supportato dagli introiti pubblicitari (Sprint e Honda hanno investito oltre un milione di dollari per sponsorizzare la prima stagione). Il gioco è relativamente semplice. L’utente scarica e installa l’applicazione con Xbox Live e partecipa alla competizione in diretta. La durata del “programma” è di circa trenta minuti che si ripetono nel corso della settimana (dal lunedì al giovedì) nel caso di 1 vs. 100 Extended Play, di due ore invece (il venerdì e il sabato) per la versione Live. La tipologia di fruizione segna una svolta rispetto alle forme di videogame tradizionali, che prevedono un consumo libero, svincolato da griglie o “palinsesti”, per lo meno nell’accezione single player (nel caso degli MMOG, i giochi multiplayer che si svolgono in mondi persistenti – per esempio, World of Warcraft – la situazione è assai diversa, dato che molte quest, missioni ed eventi presentano una temporalità non negoziabile). Le regole del videogioco seguono da vicino quelle del quiz show televisivo, con alcune varianti. Presentata da Jen Taylor in versione preregistrata, la versione Extended Play è più semplice e limitata: ogni giocatore lotta contro gli altri con la speranza di guadagnarsi il diritto di partecipare allo show “ufficiale”, 1 vs. 100 Live. Un utente – “The One” – compete contro 100 altri avversari che formano “The Mob” (letteralmente, la gang), mentre il resto dei giocatori va a costituire “The Crowd” (“la folla”). Il concorrente può vincere fino a diecimila Microsoft Points, che vengono automaticamente aggiunti al suo borsellino virtuale, mentre i vincitori del muro possono ottenere, nel caso in cui riescano a eliminare The One, i codici per attivare dei giochi per Xbox Live Arcade. Analogamente, i tre migliori giocatori della 29
combat format
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Rendere competitivi i format nel contesto digitale di Axel Fiacco
Ogni italiano è il migliore ct della nazionale di calcio. E ogni italiano saprebbe cosa fare per migliorare i programmi che vede in tv. Qualche volta, prende carta e penna: raccoglie alcune idee, butta giù un progetto, lo manda a contatti reali o immaginari. Peccato che anche questo sia un mestiere. E che non tutte le grandi idee diventino grandi programmi. Tocca fare i conti con i (tanti) vizi e le (poche) virtù dell’industria televisiva. A cominciare da questi cinque punti. Per scrivere un format a prova di bomba.
illustrazioni di Ivan Hurricane
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È responsabile editoriale di MTV Italia. Insegna Analisi dei format televisivi presso l’Università Cattolica di Milano. È autore del libro Capire i format. Che cosa sono, come funzionano, come si progettano (Editori Riuniti, Milano 2007).
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ire che il futuro scenario multipiattaforma sarà competitivo è dire una banalità. Eppure è una banalità di cui non tutti si sono ancora resi conto, e da cui non tutti stanno traendo le conclusioni corrette. In realtà sarebbe più giusto definire lo scenario come un’arena, e usare l’aggettivo “spietato” al posto di “competitivo”. Con un paragone militare, ogni canale è un’armata (che spesso, insieme ad altre armate alleate, fa parte di un esercito più vasto, che poi è il network) che lancia quotidianamente le proprie truppe (i programmi) contro quelle degli avversari, in una battaglia campale fatta a colpi di micro-share in cui tutti sono contro tutti (o quasi): e parliamo non di qualche decina, ma di centinaia di competitor più o meno diretti. Nella schiera di coloro che ancora non si sono resi conto della situazione ci sono molti autori. La maggior parte si ostina a proporre programmi magari anche carini, onesti, corretti e pieni di buone intenzioni. Ma deboli, dannatamente deboli. Buoni per qualche scaramuccia da cortile, mica per battaglie senza esclusione di colpi. Bisogna rendersi conto una volta per tutte che i format (insieme alla fiction autoprodotta) sono le “truppe scelte” dell’armata-canale. Danno identità e forza alla rete: non ci si può più permettere di andare troppo per il sottile, accontentarsi non basta. Non serve tirare di fioretto, se gli altri utilizzano il bazooka. Detto in termini più espliciti: non servono “formattini”, carini ma inutili, ma dei “format da combattimento”. Però questi format non si trovano, o per lo meno si fa sempre più fatica a trovarli. È una situazione paradossale: da un lato l’universo mediatico è sempre più difficile e confuso (e i fattori di difficoltà sono destinati a crescere), dall’altro le proposte di programmi sono sempre più deboli e omologate. A chi però sostiene che la crisi sia causata dai format “d’importazione”, colpevoli di aver ucciso la creatività interna, posso assicurare che anche tra i nostri autori indipendenti sembra essersi esaurita la capacità di generare idee davvero nuove e di fungere da efficace centro propulsore creativo. Anzi, l’impressione è che il bersaglio venga clamorosamente mancato non tanto (o non solo) per carenza di idee, quanto per non sapere dove mirare. Può sembrare un giudizio troppo duro e affrettato. In realtà nasce da un’esperienza diretta molto precisa. Negli ultimi tempi ho svolto un’intensa attività di pitch con molti giovani aspiranti autori, allo scopo di scovare spunti e progetti innovativi, al di fuori dai canali e soggetti abituali. Ebbene, nella stragrande maggioranza dei casi queste esperienze si sono rivelate estremamente deludenti. L’errore principale da parte di chi ha intrapreso da poco questa professione è la totale sottovalutazione della difficoltà di catturare l’attenzione e di trattenere il pubblico. Non è per niente chiaro, insomma, che l’ingaggio con il telespettatore non è naturalmente in dote, ma va continuamente contrattato e conquistato minuto dopo minuto, con le unghie e con i denti. La naturale conseguenza di questa sottovalutazione è una serie di proposte deboli e inutili. E quindi? Quindi, anziché limitarsi a dire quel che non bisogna fare (comodo e facile, ma sterile), cercherò di sintetizzare in poche essenziali regole (cinque) quello che si deve fare per avere un format che funziona. Sono consigli per rifocalizzare i programmi d’intrattenimento in generale e i format in particolare, per renderli più competitivi e adatti al contesto attuale. Per trasformare un “formattino” in un “format da combattimento”, pronto a scendere in campo nella sua sporca battaglia quotidiana. 38
Si può anche ignorare tutto, naturalmente. Ma lo ritengo pericoloso. Che ci piaccia o no, la selezione naturale dei format è iniziata. Le regole che seguono sono uno strumento per confrontarci consapevolmente con il nuovo scenario.
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1. ESSERE SEMPLICI
La semplicità è la regola numero uno. È il contenuto che deve sforzarsi di arrivare al target e non viceversa. Bisogna partire sempre da un genere riconosciuto, sviluppare un programma con una promessa unica e chiara e trovare un titolo che espliciti chiaramente la promessa. La bravura sta nell’evitare la banalità.
Il telespettatore non vuole fare fatica. Non l’ha mai voluta fare, perlomeno di fronte ai programmi d’intrattenimento. Ma adesso questa tendenza è ancora più accentuata, dal momento che esisterà sempre un’alternativa meno faticosa in uno dei tanti canali concorrenti a disposizione. L’autore televisivo è spesso convinto che la propria “creatura” abbia sempre e comunque qualcosa di speciale e che, per questa ragione, il telespettatore le accorderà un’attenzione particolare, scegliendola tra tutte le altre, sintonizzandosi all’inizio esatto del programma per non perderne nemmeno un minuto e seguendolo fino alla fine, a dispetto delle sue complessità e lungaggini. Le cose non stanno così, ovviamente. A parte i pochi appuntamenti fissi, la regola è che si capita su un programma quasi sempre per caso, e quando questo è già iniziato, non importa se da tanto o poco tempo. Se si è messi nelle condizioni di capire subito quello che sta accadendo, forse (e sottolineo forse) ci si fermerà. Altrimenti è sicuro che si cambierà subito canale. Semplicità vuol dire quindi farsi capire in ogni momento da tutti, a cominciare da quelli che non hanno la minima idea di quel che stanno vedendo. Anche i generi di riferimento devono essere “dritti”. I generi con doppia chiave di lettura, che si muovono su più piani, non funzionano (più?). Mi riferisco, per esempio, ai mockumentary, finti documentari che in realtà sono fiction dichiarate, che però fingono di essere documentari (formula difficile anche da spiegare, figuriamoci da capire e apprezzare a una prima, distratta, visione). O agli ibridi che mescolano parti “reali” con parti fiction, confondendo scripted e unscripted. Questi strani esseri multiformi, con nomi che rivelano pienamente la loro natura bastarda (docu-reality, real-fiction; docu-fiction) fanno molta più fatica ad affermarsi. E se non sono in grado di rispondere subito alla domanda cruciale: “quello che sto vedendo è vero o finto?”, non funzionano mai. Meglio affidarsi quindi a generi consolidati (ce ne sono tanti), che rivelano subito dove si vuole andare a parare e hanno perciò un effetto tranquillizzante sul grande pubblico, che può concentrasi sulla singola storia. Inventare un programma totalmente nuovo, anche ammesso che ciò sia possibile, non è mai una buona idea. Molti giovani autori sono convinti che bisogni perseguire l’originalità a
La maggior parte degli autori si ostina a proporre programmi carini e onesti. Ma dannatamente deboli.
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tutti i costi. Che per rinnovare la vecchia (e cattiva, ça va sans dire) televisione occorra per forza allontanarsi dalle strade battute. La vera bravura sta, al contrario, nel perfezionare qualche particolare all’interno di un genere consolidato, senza stravolgerlo. È questo che un professionista deve sforzarsi di fare. Creare un programma che si allontanerà dall’orizzonte di attesa del telespettatore contribuirà forse a sviluppare l’ego del suo autore, ma sarà semplicemente ignorato dal pubblico. E non contribuirà a rinnovare un bel niente.
2. ESSERE NOTEVOLI
Un buon prodotto televisivo, oltre a essere semplice, deve essere notevole. Deve sapersi imporre nell’affollatissimo contesto competitivo digitale (e non solo digitale). Per imporsi, bisogna urlare. Visto che tutti gli altri urlano, bisogna urlare più forte. Un programma “carino” ma neutro non serve.
Se la semplicità è la precondizione, la rilevanza è la condizione per farsi scegliere. Essere rilevanti vuol dire letteralmente catturare l’attenzione del telespettatore, con ogni mezzo. Lo scenario attuale assomiglia sempre più a una marmellata omogenea e fungibile. Emergere dal rumore di fondo con quanta più forza possibile non è un optional: è una stringente necessità. Ovviamente la domanda è: come fare a emergere con sufficiente evidenza? Le risposte sono molte, alcune più standard (e sono quelle cui accenneremo sotto), altre ancora tutte da inventare (ed è qui che entrano in gioco le vere doti creative di un autore). La cosa più facile è puntare sui volti. Un volto noto cattura naturalmente l’attenzione, e spesso è in grado anche di trattenerla per una porzione di programma sufficientemente lunga. Occorre però considerare il fatto che anche i volti stanno diventando ormai sempre più indistinti e intercambiabili. Quindi o si ha a disposizione un personaggio veramente impattante (per una percentuale significativa del pubblico di riferimento), oppure è meglio non svenarsi economicamente, affidarsi a un bravo professionista che “porti a casa” il programma e puntare su altro. Questo “altro” può essere per esempio il tono del programma. Fermo restando che la prima regola (semplicità) deve essere rispettata, trovare un tono o uno stile distintivo può servire. Distintivo vuol dire spregiudicato: in grado di smuovere e di colpire realmente il telespettatore, anche con violenza se necessario. Se si vuole essere spregiudicati, bisogna esserlo fino in fondo. Se non si è in grado di farlo o non viene ritenuto opportuno farlo (per profilo, identità di rete, altro ancora), occorre puntare su qualcos’altro. Anche i contenuti in sé possono ovviamente servire allo scopo; anzi sarebbe la cosa migliore di tutte. Però è davvero difficile, visto che in decenni di tv sempre più “spinta” il telespettatore si è abituato più o meno a tutto. Anche in questo caso, dunque, si ottiene lo scopo solo se i contenuti sono davvero
Non serve tirare di fioretto, se gli altri utilizzano il bazooka. C’è bisogno di “format da combattimento”.
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notevoli per il pubblico di riferimento, e non solo per l’autore che li ha pensati (e la ristretta cerchia dei suoi amici). Si può essere notevoli anche in altri modi, se si è capaci. L’energia creativa degli autori anziché essere indirizzata a un’improbabile (e impossibile) ricerca del “nuovo a tutti i costi”, deve invece trovare quel quid che dia distintività e rilevanza a un programma solido e formalmente rassicurante. Molti (troppi) programmi che vengono quotidianamente proposti alle reti o alle case di produzione sono “carini”, formalmente corretti, esenti da evidenti criticità. Tranne quella di non riuscire a imporsi abbastanza.
3. PUNTARE SU CIò CHE CONTA
La cosa migliore che un programma d’intrattenimento possa fare è emozionare. Se un programma non fa emozionare, deve far ridere. Se non fa emozionare né ridere, deve stimolare a indovinare qualcosa, o dare l’illusione di apprendere qualcosa. Se non fa niente di tutto ciò, quasi sicuramente non funzionerà.
Non sono poi molte le cose che contano davvero nei programmi d’intrattenimento. Emozionare, trasmettere sensazioni e stimoli forti al telespettatore è forse la cosa che conta di più. Per emozionare lo spettatore occorre far emozionare i partecipanti al programma, con cui in precedenza si deve immedesimare. I format devono essere pensati come macchine per trasmettere shock emotivi ai protagonisti. I reality e i talent migliori sono esattamente questo. Ma anche i format che non sono totalmente racchiusi in queste etichette pos41
la vita come una sitcom? LINK 8 Product
I percorsi della nuova serialità comica americana di Bucknasty
Cos’è la sitcom? Domanda facile, penserete. Eppure. Basta fare un rapido elenco di titoli per accorgersi che hanno – sembrano avere – davvero poco in comune. Cosa c’entra la famiglia Robinson con Ross e Rachel? Siamo sicuri che Scrubs e La tata si assomiglino? A complicare tutto, ecco le novità degli ultimi anni. Perché tutti diventano sporchi e cattivi. Perché la lingua ferisce più della spada (e delle bucce di banana). E perché non esiste più il lieto fine. Forse.
illustrazioni di Ivan Hurricane
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Ha scritto su Vice, Occulto, Zero, Rolling Stone. Alcuni suoi testi sono stati messi in scena in un piccolo teatro di Roma. Ha collaborato per una radio locale, ha seguito l’elezione di Obama a New York e prepara un ottimo bloody mary.
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e Michael Seaver di Genitori in Blue Jeans avesse chiesto al padre un consiglio sulle ragazze – quando il grigio non esisteva, e Reagan aveva ragione – quest’ultimo, molto probabilmente, lo avrebbe fatto sedere nella cucina, dopo aver chiesto alla moglie di lasciarli soli, e avrebbe spiegato al giovane, tra commossi applausi pre-registrati, tutto ciò che il pubblico del prime time della ABC dei primi anni Ottanta sapeva sul sesso. I predicozzi e gli applausi sono durati oltre 10 anni, creando una delle sitcom più seguite nella storia della televisione, cosa che permette al protagonista Kirk Cameron di avere ancora oggi una soddisfacente carriera come protagonista di film evangelici ortodossi sulla fine del mondo in Dvd. Negli anni Novanta è cominciato un ammorbidimento, specialmente nei riguardi del sesso. Ci sono stati Friends e Will & Grace, in cui promiscuità e tematiche gay sono state sdoganate. E oggi, in un Paese diffidente e scettico dopo otto anni di presidenza Bush, quello che appare sugli schermi americani è un completo stravolgimento di tutti i meccanismi narrativi classici che hanno accompagnato la produzione delle sitcom nella loro lunga e vituperata storia. I confortanti modelli familiari, tramite cui promuovere valori e realizzare infinite battute sulle inevitabili differenze generazionali fra genitori e figli o sulle incomprensioni fra moglie e marito, sono sostituiti dall’angosciante esaltazione del peloso quotidiano vissuto dal telespettatore a casa. La normale routine non è confezionata come un imbellito susseguirsi di piccoli problemi o di errori risolvibili tramite il pentimento, o con lunghe conversazioni sull’uscio di casa, ma svelando la soffocante e anti-meritocratica normalità con cui realmente ci scontriamo al lavoro, o al bar sotto casa. Dalla rassicurante mediocrità, si passa al mediocre come imperante stile di vita cui è impossibile sfuggire.
“Tutta la tua passione serve a riempire lo spazio tra una pubblicità di un dentifricio e quella di un assorbente”.
Il lavoro è la tua prigione
Questa tendenza ha trovato uno sfogo con il proliferare delle workplace comedy. Michael di The Office, a differenza del teenager con i “blue jeans”, non chiederebbe a nessuno consigli su come affascinare una donna. Questo perché il protagonista, Steve Carrell, non solo non è un quarantenne vergine, ma – rappresentando il capoufficio medio – non ne sente il bisogno. Michael Scott è al comando di una piccola sede locale della Dunder Miffin, azienda che produce i supporti su cui si basa l’ecosistema produttivo americano: la carta. Michael non è per nulla preoccupato dal vendere, in pratica, fogli bianchi. Dirige il suo ufficio con la medesima sicurezza e convinzione di un amministratore delegato impegnato a tenere a galla il titolo azionario della propria multinazionale. Non solo, è profondamente certo di essere incredibilmente divertente. Tanto da sentirsi in obbligo di rallegrare e intrattenere i dipendenti impegnati nel lavoro, che ovviamente non condividono l’iperattività del loro capo. L’unico che sembra comprenderlo è Dwight Schrute, goffo nerd con un’inquietante passione per la vita militare, le armi bianche e l’autoritarismo. Dwight è entusiasta della sua occupazione come venditore di carta, ed è ancora più felice di assecondare tutte le richieste che il suo supe50
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riore promuove. Michael fa battute di cattivo gusto verso l’impiegato gay o quello nero, approccia in modo inappropriato le sue sottoposte e sembra non lavorare mai. È troppo compiaciuto, estasiato dalla sua stessa esistenza, come un Mostro di Dino Risi. Ma la facciata che Michael mostra, quella perenne sicurezza incisa sulla tazza visibile durante la sigla, The World’s Greatest Boss, crolla non appena lo vediamo in difficoltà con i superiori, con chi non lavora con lui o con qualche donna che non lo conosce. Il manierismo che mostra fra i cubicoli dell’ufficio fallisce pateticamente al contatto con la realtà esterna, e se gli autori non ci permettono di ridere con lui, ma solo di lui, ci lasciano ampio spazio per provare pietà. Il mostro è umano. Diverso invece è l’approccio di Parks and Recreation, nonostante la serie sia praticamente uno spin-off di The Office, avendo in comune diversi autori e la premessa di avere una telecamera in grado di interagire con gli attori. La protagonista Leslie Knope è una dipendente pubblica di basso profilo che inizialmente ha come solo incarico il vagliare le lamentele dei cittadini residenti nella sua circoscrizione. In uno di questi incontri una ragazza si alza e protesta per l’enorme buco, praticamente una cava a cielo aperto, posto in prossimità della casa in cui vive. Il marito è precipitato dentro, rompendosi entrambe le gambe, e lei pretende che qualcosa venga fatto. Leslie decide di cogliere questa occasione per fare carriera, seguendo le orme della sua eroina, Hillary Clinton. Crede che questo sarà il primo passo per arrivare alla Casa Bianca, semplicemente tramite le sue buone azioni d’impiegata statale. Come Michael è un’imitazione vivente mal riuscita di un modello più alto, quello del superefficiente, produttivo e patriottico impiegato degli anni Ottanta, ma 51
2.cover story che fare? la tv dopo la crisi
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LINK 8 Che fare?
Alle radici delle crisi, che danno da pensare di Peppino Ortoleva
Sono mesi che della crisi si può leggere (e ascoltare) dappertutto. I paragoni si sprecano: il ’29, la crisi petrolifera, la bolla di internet. Eppure, stavolta, c’ è qualcosa di diverso. I media, sempre colpiti (e spesso favoriti) dai rivolgimenti economici, sono nell’occhio del ciclone. Non più periferici, ma centrali. Non più osservatori, ma coinvolti. Sarà necessario ripensare il sistema dell’ informazione? Partiamo da qui. Perché il bello delle crisi è che costringono a riflettere. 71
È professore ordinario di Storia dei media all’Università di Torino. Presidente di Mediasfera, società di ricerca, consulenza e progettazione culturale, ha pubblicato oltre un centinaio di lavori scientifici su media, storia, società. Tra i lavori più recenti, Mediastoria (Il Saggiatore, Milano 2002), Lavorare nei media, produrre cultura (con V. Solari, Franco Angeli, Milano 2003), Le onde del futuro (con G. Cordoni e N. Verna, Costa & Nolan, Milano 2006), Il secolo dei media (Il Saggiatore, Milano 2009). Ha inoltre curato, con B. Scaramucci, l’Enciclopedia della radio (Garzanti, Milano 2003).
LINK 8 Che fare? Una botta di depressione
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l bello delle crisi economiche, secondo Joseph Schumpeter, è che sono un brusco risveglio. Scriveva l’economista austriaco nel 1934 (ripreso polemicamente da un recente articolo di Paul Krugman): “le recessioni non vanno viste solo come mali che desideriamo prima di tutto curare, ma come modi, magari sgradevoli, in cui la realtà ci presenta dei compiti da affrontare”. In cui la realtà ci presenta il conto dei cambiamenti che sono avvenuti e che non avevamo percepito, o avevamo capito male. Più concisamente possiamo dire: il bello delle crisi, economiche e non solo, è che danno da pensare, sono occasioni di riflessione, e anche strumenti per la conoscenza. Questo è vero soprattutto per le più grandi e traumatiche: sono come un sisma devastante, che non solo toglie il terreno sotto i piedi a tutti, ma scuote le certezze, fa dubitare delle abitudini, smonta le pigrizie. E che rompe tutte le rocce, portando alla luce i vari strati che normalmente stanno uno sull’altro; facendo emergere in superficie le vene minerali prima nascoste da depositi di scorie. Due premesse. 1. Questa è una grande crisi, al di là di tutte le chiacchiere speranzose. 2. Questa recessione ci riguarda ovviamente tutti, ma riguarda con particolare intensità chi si occupa di comunicazione, perché le industrie del contenuto e le reti di circolazione dell’informazione non ne sono solo investite (come potrebbero non esserlo?). Sono, per usare una frase fatta che una volta tanto è singolarmente adatta, “nell’occhio del ciclone”. Ragioniamo un attimo sulla prima premessa. Quale grande crisi? diranno in molti. Non sta già finendo, questa recessione? Un giorno sì e l’altro pure ci viene annunciato che questo indicatore segnala una ripresa dello 0,6%, quell’altro dell’1%. Poi però, se ai dati delle ripresine del PIL si accostano i dati dell’occupazione, si vede che non c’è niente, davvero niente, con cui consolarsi. E se dopo un’estate di titoli ottimistici si legge su Forbes a inizio settembre che (riprendo testualmente dal meritorio bollettino online Lsdi) “più di 10 miliardi di dollari di inserzioni pubblicitarie sono spariti dal mercato dei media degli Usa nei primi sei mesi di quest’anno”, allora l’ottimismo, soprattutto di coloro che di pubblicità vivono, assume tutto il carattere di un belletto messo su una cicatrice. Il calo, prosegue la nota di Lsdi, è “del 15,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sono dati della Nielsen, secondo cui si tratta della maggiore diminuzione percentuale registrata da quando la società ha iniziato le sue rilevazioni”. E poi questa crisi non è un semplice calo dei PIL, ma mette in discussione i punti fermi. Proprio per questo uno sguardo non da economista ma da storico può forse servire. Da storico delle comunicazioni innanzitutto. E con tutto il rispetto per gli economisti, che stavolta rischiano di prendersi tutti i fischi per dei fiaschi che sono anche, se non soprattutto, di tanti altri. Nell’occhio del ciclone
Veniamo alla seconda premessa. Che cosa c’entra la comunicazione? Cercherò di dimostrare che non è solo uno dei tanti aspetti del problema, ma è al cuore della crisi. Ma prima di tutto, chiariamo un altro punto. Nella storia, per sua natura ciclica, del capitalismo (non solo dell’economia: dell’intero sistema sociale che porta questo nome) anche la dinamica dei media ha avuto un andamento ciclico. Ho cercato di provarlo, e penso di esserci riuscito, nel mio libro Mediastoria, dedicato appunto all’evoluzione della comunicazione negli ultimi due secoli. Dove si vede che, mentre lo sviluppo delle tecniche e 72
delle imprese dei media è stato sostanzialmente ininterrotto, le trasformazioni riguardanti il sistema dei mezzi nel suo insieme hanno avuto, dalla fine del Settecento agli anni Settanta del secolo scorso, un andamento meno lineare: con periodi di grande e generalizzato rinnovamento e periodi “di assestamento”, nei quali le novità tecniche e culturali venivano metabolizzate. Ora, se confrontiamo la dinamica dei media con i cicli di più ampia portata nella storia del capitalismo noteremo un’evidente coincidenza. La prima grande ondata di rinnovamento del sistema della comunicazione, quella che dà vita tra l’altro alla nascita del giornalismo di massa, della fotografia, del telegrafo elettrico, delle mode urbane, si sovrappone più o meno alla crisi finanziaria degli anni Quaranta dell’Ottocento, e coincide anche con lo nascita della rete ferroviaria. La seconda (telefono, poi fotografia Kodak, cinema) ha inizio negli anni di quella che venne chiamata in America Great Depression (1873-1896) e ne accompagna gli sviluppi, affiancata dall’elettrificazione e dalla nascita dell’automobile e dell’organizzazione scientifica del lavoro. La terza (broadcasting radiofonico, inizio della tv, rotocalco, libro tascabile eccetera) segue da vicino la crisi del ’29, accompagnata da cambiamenti ancora una volta nel campo del trasporto, come le autostrade e l’aviazione civile. La quarta, cominciata con i nuovi media audiovisivi e culminata nel trionfo del computer e della rete, ha avuto inizio negli anni della crisi petrolifera. Stabilire un nesso causale diretto tra i due processi sarebbe difficile, e in ogni caso è ben al di là dei compiti di questo ragionamento. Ma un dato è secondo me evidente: che le grandi ondate di innovazione in generale, e le grandi trasformazioni del sistema dei media in particolare, hanno esercitato ogni volta una funzione come si dice “anticiclica”, cioè di freno alla caduta e di rilancio, favorendo la ripresa dei consumi e più in generale l’efficienza del mercato. C’è da aspettarsi che oggi il sistema dei media eserciti ancora una volta una funzione di questo tipo? È presto per rispondere ma c’è da temere che questa volta non accada, per diversi motivi: - perché oggi è difficile ipotizzare una forte accelerazione nelle tecnologie del comunicare, in quanto a partire almeno dalla fine degli anni Ottanta (rivoluzione della micro-informatica, a cui si è subito sovrapposto lo sviluppo di internet) l’innovazione continua dei media è diventata fisiologica e per così dire organica al sistema; - perché oggi il mercato della comunicazione è fino in fondo parte del ciclo economico, e difficilmente può funzionare da correttivo almeno parzialmente “esogeno” come in passato; - perché stanno venendo al pettine le tensioni profonde dell’economia dell’informazione, dalla contraddizione tra tendenziale gratuità dei contenuti ed esigenza di valorizzarli come merci, alla crisi profonda di tutti i modelli di business che fino alla fine del secolo scorso avevano sorretto l’industria culturale da un lato, il settore delle reti e dei servizi informativi dall’altro. Quello che tutti sapevano (e nessuno voleva dire)
Prima di approfondire il ragionamento sul perché la comunicazione sia nell’occhio del ciclone, comunque, conviene attraversare gli altri strati che la crisi ha portato allo scoperto, le altre verità che ha svelato. Perché ci riguardano tutti, e perché toccano comunque, nello specifico, il sistema dell’informazione e i diritti e doveri che gli sono legati. Prima di tutto la bolla. Ogni crisi, quando scoppia, provoca l’incrimina73
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la spesa per guardare in Italia: 1990-2009 di Emilio Pucci
Assioma: la crisi impatta sui consumi. Eccezione: a ben guardare i dati, si notano valori in controtendenza. Che riguardano i media, e la tv in particolare. Perché la “spesa per guardare”, l’ insieme delle risorse investite nei contenuti audiovisivi, non decresce, anzi. E alcune voci, come la pay tv, sembrano essere anticicliche. Come già in passato, lo spettacolo (prima fuori, ora in casa) diventa un bene rifugio. Si rinuncia a tutto fuorché al superfluo. 81
È direttore di e-Media Institute, con sede a Londra e Milano. Nel corso degli ultimi anni ha svolto personalmente attività di consulenza strategica per importanti imprese del settore della comunicazione a livello nazionale e internazionale. È stato docente presso l’Università IULM di Milano (corso di laurea in Scienze della comunicazione) e coordinatore dell’Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli. Ha pubblicato numerosi saggi in tema di economia dei media, con particolare attenzione alle evoluzioni dei sistemi tecnologici.
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a forte contrazione dei consumi privati che ha recentemente accompagnato l’andamento recessivo dell’economia ha riproposto con forza fra operatori, decisori e analisti economici numerosi interrogativi relativi a come cambiano o sono cambiate le abitudini di consumo delle famiglie. La minor disponibilità o propensione alla spesa ha colpito e colpirà tanto la ristorazione quanto la grande distribuzione? O i due ambiti e le relative categorie merceologiche risentiranno in maniera differente della contrazione? Su quali gerarchie di valori e percezioni si riorganizzeranno i consumi, adattati a un budget famigliare ridotto da difficoltà finanziare e lavorative? Queste stesse domande riguardano, naturalmente, un’ampia varietà tipologica di consumi, compresi i servizi culturali e i prodotti mediali o “merci culturali”. La riduzione del budget famigliare impone, infatti, una serie di scelte e influisce tanto sulle attribuzioni di valore d’uso quanto sulla sensibilità al prezzo. Come sempre accade durante un ciclo recessivo, abitudini e prodotti vengono sostituiti con maggiore facilità; questo grazie, soprattutto, a dinamiche “accelerate” di maturità dei prodotti o servizi che si rafforzano nei momenti di crisi. La crisi economica è dunque spesso un acceleratore evolutivo dei consumi. Come anticipato, tale fenomeno può riguardare anche l’industria mediale dove, a causa dei rapidi progressi tecnologici, il processo evolutivo dei prodotti potrebbe subire un’accelerazione. Il caso dei quotidiani appare emblematico di un comparto che, durante la crisi economica, è esposto a una doppia tensione sul versante dei ricavi (pubblicità da un lato e pagamento diretto degli utenti dall’altro) che sembra rafforzare il (presunto) processo di obsolescenza del mezzo derivante dall’ipotetica sostituzione del supporto cartaceo con quello elettronico. Senza alcuna pretesa di esaustività, di seguito saranno proposte alcune considerazioni e alcuni dati sull’evoluzione della spesa delle famiglie in consumi audiovisivi (spesa “per guardare”), con l’intento di suggerire un percorso di analisi in un campo di studi che risulta, tutto sommato, poco sviluppato. Nel corso degli ultimi anni e-Media Institute ha svolto numerose ricerche rivedendo le serie storiche della spesa delle famiglie in prodotti culturali anche a livello internazionale e comparando i diversi mercati-territori. L’intero lavoro, aggiornato di anno in anno, ha permesso di avere alcune informazioni di grande utilità che consentono di individuare l’evoluzione della spesa delle famiglie “per guardare” (tv, cinema, home video), “per leggere” (quotidiani, periodici, libri), “per ascoltare” (musica pre-registrata). A questo proposito risulta opportuna un’osservazione preliminare di natura metodologica. Nonostante il costante lavoro di monitoraggio dei consumi svolto dalle istituzioni preposte a livello nazionale e sovranazionale, non esiste oggi, se non in via del tutto frammentaria, un sistema di analisi strutturato dei consumi mediali che possa dar conto in maniera precisa dell’evoluzione della spesa delle famiglie. Le catalogazioni delle voci di spesa in uso da parte degli istituti statistici accorpano nella categoria “Recreation and culture” consumi fortemente eterogenei. Per esempio, sono riunite la spesa per periodici e quella per prodotti di cancelleria, la spesa in media e quella per ricreazione sportiva o in prodotti e servizi di fotografia. Ne risulta che, per avere informazioni sulla spesa in prodotti mediali, un analista è obbligato a usare indagini specifiche e settoriali, riferite alle singole industrie, e a produrre i dati relativi alla spesa 82
spesso a partire dai ricavi degli operatori. Un altro aspetto che bisogna considerare mentre si esamina la spesa delle famiglie in prodotti/servizi mediali è che questi non sono tutti a pagamento. L’analisi della spesa è, dunque, da considerasi un dato che fornisce solo parzialmente un quadro sull’orientamento dei consumi del pubblico. La crisi economica, per esempio, può spingere le famiglie a consumare maggiormente prodotti free press e ad acquistare meno quotidiani, senza indicare per forza una “distrazione” dal consumo di quotidiani tout court. Da questo punto di vista, le ricerche sul time budget (il tempo allocato su ciascuna attività e prodotto mediale), per quanto a volte metodologicamente deboli, sono utili a comprendere il sistema dei consumi mediali e la loro evoluzione in tempo di crisi. Guardando al periodo compreso tra il 1990 e il 2009, si nota la presenza di tre periodi di recessione economica alternati a due momenti di relativa espansione. Il primo periodo di crisi si manifesta nei primissimi anni Novanta e segue la prima Guerra del Golfo, influendo in diversa misura su tutte le principali economie del mondo. La seconda recessione, all’inizio del decennio seguente, si incrocia con le vicende della cosiddetta “bolla di internet” e si colloca fra il 2001 e il 2002, con una successiva ripresa che, per l’Italia, risulta quasi insignificante in termini di crescita del PIL. Infine, la recessione attuale, di origine più marcatamente finanziaria, ancora in pieno svolgimento e di dimensione tale da essere comparata alla Grande Depressione del 1929 o alle contrazioni della produzione e dei consumi che hanno accompagnato il secondo conflitto mondiale. La domanda che ci si pone è dunque la seguente: come si evolve la spesa “per guardare” delle famiglie in questi venti anni? Risente e come dell’andamento dell’economia? L’analisi dei dati disponibili mostra chiaramente che la spesa delle imprese in inserzioni commerciali (pubblicità, sponsorizzazioni, telepromozioni) e in attività di marketing subisce una contrazione significativa durante i periodi di recessione; risulta però meno chiaro se la spesa in consumi mediali e, in particolare, in consumi audiovisivi, subisca anch’essa una contrazione simile a quella cui sono soggetti i consumi privati delle famiglie che accompagnano e a volte sovraperformano l’andamento del PIL. Se la tv gratuita, finanziata dalla pubblicità, risente direttamente del ciclo economico vedendo i propri ricavi “direttamente” esposti alla contrazione, che cosa ne è della pay tv e delle offerte basate sul pagamento diretto? Quali sono state le macro-dinamiche 83
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I modelli produttivi a basso costo e i loro creativi di Gregorio Paolini
Tagliare, tagliare, tagliare. Alle difficoltà economiche si accompagna la necessità di ridurre i costi. In momenti di discontinuità come questo è più semplice modificare le abitudini, anche produttive, ormai mature e dispendiose. Gregorio Paolini, autore di “eventi” da prima serata come di produzioni sperimentali a basso costo, ci racconta come le tecnologie digitali e un approccio più indie al mercato possono aprire nuove opportunità alla tv. Less is more. 97
È produttore e autore televisivo. Capostruttura a Mediaset dal 1992, firma programmi di successo come A tutto volume, Target, Otto millimetri, Verissimo, La macchina del tempo. Passato alla Rai nel 1998, ha scritto e prodotto programmi come Gaia, il pianeta che vive, Indovina chi viene a cena, Convenscion, Tintoria, Quinto potere, Tutti pazzi per la tele, Sugo.
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i saranno meno soldi nel futuro della tv? Tutto dovrà costare meno? È la fine dello star system e delle super-produzioni? C’è una ricetta cheap per il successo in un mondo molto prossimo in cui i contenuti saranno multipiattaforma? Il prodotto tv quotidiano, figlio del modello produttivo tradizionale, oltre che costoso è legato a tecnologie mature. Le tecnologie sviluppate dal lato consumer, disponendo di una base di ricerca e sviluppo molto più vasta, hanno sicuramente un gap di affidabilità industriale ma costano infinitamente meno e sono più avanti (quanta tecnologia c’è in iPhone?). Il gap dal lato dei production values tra broadcast e prosumer si è invece quasi azzerato, soprattutto in Paesi dove i network pubblici e privati ancora producono usando tecnologie mature e ibridi analogico/digitali. Oggi l’utilizzatore finale possiede tecnologie più sofisticate del produttore (un televisore LCD di ultima generazione è almeno dieci anni avanti rispetto alla tecnologia media del prodotto tv, così come una videocamera da 1.000 euro che lavora in HD compresso è ben più avanti di una ENG tradizionale in Betacam). Ma quel che è più importante, il crowdsourcing e il cinema indipendente d’oltreoceano sono portatori di modelli produttivi in cui il creativo è multifunzione. È una rivoluzione, e da questa crisi uscirà meglio chi saprà padroneggiarla e comprenderla.
Superare il “televisivo”
Chi scrive si è trovato a misurarsi – e si misura tuttora – sia con produzioni generaliste ad alto costo, sia con prodotti a basso costo realizzati “chiavi in mano”, servendosi delle nuove tecnologie digitali (dall’intrattenimento alla fiction sperimentale). E si è fatto un’idea. Ciò che tutti gli operatori internazionali sottolineano è il clamoroso crollo delle barriers to entry alla produzione televisiva e in alcuni casi cinematografica (almeno nell’ambito cosiddetto indie, indipendente) dovuto allo sviluppo delle nuove tecnologie digitali. Vale per le riprese, i montaggi, gli effetti speciali, in qualche misura anche per le luci. Evito esempi tecnici perché sarebbero scontati per gli addetti ai lavori e incomprensibili per gli altri, ma è così. D’altronde, il modello produttivo italiano è in ritardo; e il linguaggio visivo del giovane videomaker (che realizza a basso costo un video musicale, un programma per il satellite, o un corto) è per certi versi molto più vicino agli standard internazionali di quello della tv generalista italiana. Per inciso, c’è una novità linguistica: quello che fino a qualche anno fa era segno di distinzione nel programma di intrattenimento della tv generalista (la fotografia netta e luminosa di un buon studio tradizionale, con buone telecamere e buone luci), se risulta tuttora rassicurante e familiare al pubblico tradizionale, è lontana dal gusto del pubblico giovane e centrale-urbano, condizionato dal look and feel della nuova fiction americana, dai videogame e dai nuovi mezzi di fruizione casalinghi (dal Dvd al Blu-ray, dagli schermi al plasma agli LCD ai full-HD). Dove il televisore a tubo si qualificava fondamentalmente in base alla brillantezza dei suoi colori e alla restituzione efficace e realistica degli incarnati, lo schermo ad alta risoluzione – che nelle case delle coppie giovani ha la precedenza, come investimento, anche rispetto al telefono fisso – soffre le immagini a definizione standard e interlacciata della tv tradizionale, malamente gonfiate dai suoi circuiti di upscaling, e per massimizzare la propria performance richiede immagini HD o perlomeno progressive – in grado tra l’altro di consegnare neri “molto neri”, per aumen98
tare l’effetto cinema. Una bestemmia per il linguaggio televisivo tradizionale (l’immagine non doveva mai essere troppo scura, le scene notturne non erano considerate “televisive” eccetera). In pratica, il gusto emergente oggi non è quello dell’immagine che siamo abituati a considerare “televisiva” ma quello che mima l’immagine cinematografica: è quasi una vendetta postuma della celluloide. Oggi nessun giovane videomaker si sognerebbe di girare un corto senza un adattatore 35mm, che gli consente di sovrapporre alle povere lenti della propria videocamera obiettivi fotografici (o addirittura obiettivi cinema) in modo da ridurre drasticamente la profondità di campo dell’immagine ripresa. Mentre il deep focus è ancora il linguaggio prevalente non solo nel racconto da studio, ma anche nella fiction nostrana, assieme all’immagine “luminosa” che gli sceneggiatori di Boris hanno icasticamente fatto definire a un personaggio “smarmellata”. Nel prodotto “chiavi in mano” l’innovazione è più rapida, ed è più facile investire in quegli ambiti del costo programma che concorrono realmente al production value (creatività, realizzazione tecnica innovativa, postproduzione, CG, art direction), anche perché non ci si deve misurare con il costoso sistema della produzione originale da studio. Bisogna chiedersi però se questa liturgia dello studio sia sempre necessaria. Tutto questo scuote alla radice le tradizionali fabbriche televisive, proprio mentre le stesse sono costrette a ristrutturarsi per fare i conti con gli effetti della crisi. La tradizione propria delle tv “latine” dei programmi di intrattenimento, che ha al centro lo “studio” (un teatro con grande pubblico, lussuose scenografie e luci ad hoc, un circolo chiuso di “ospiti” il cui mercato si autoalimenta dalla riproposizione degli stessi nei vari canali) potrebbe essere progressivamente limitata ai canali principali, per sviluppare altrove luoghi del racconto più liberi e meno liturgici: ciò consentirebbe l’uso di mezzi di ripresa e di squadre di produzione più leggeri. Indubbiamente il mantenimento di una “fabbrica” interna ha contribuito a conservare un’identità editoriale dei broadcaster, oltre a garantire un rilievo industriale agli editori, anche in termini occupazionali. Ma oggi il modo tutto italiano in cui quella realtà di network/fabbrica si è adattata alla realtà dell’outsourcing andrebbe ripensato. Il sistema italiano prevede – nelle produzioni di intrattenimento di fascia media e alta – una duplicazione di compiti tra broadcaster (che è fornitore del cosiddetto “sotto la linea” – studi, troupe, montaggi –, quando non anche di parte del cast e della regia) e produttore esterno, con conseguente duplicazio99
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Di che cosa parliamo quando parliamo di crisi (in pubblicità)? di Marco Vecchia
Crisi è cambiamento. Non sempre negativo. Lo dimostra bene la storia della pubblicità. Dove la crisi è stata, certo, lo sconquasso del 1929. Ma pure la profonda innovazione di linguaggio degli anni Sessanta. La situazione attuale unisce elementi delle due, una situazione depressiva a un profondo mutamento sociale e linguistico. Gli sconvolgimenti del sistema (dei media e dell’advertising) possono portare a una nuova rivoluzione creativa.
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Dopo una lunga carriera in pubblicità come copywriter e direttore creativo, poi come strategic planner e infine come presidente della FCB, dal 2001 si dedica all’insegnamento universitario di tecniche pubblicitarie. È stato tra i fondatori dell’Art Directors Club Italiano e dell’Art Directors Club Europeo. È membro del Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Ha pubblicato molti saggi e libri sulla pubblicità, tra cui il primo manuale italiano di creatività (Redazione e visualizzazione pubblicitaria, TP, Milano 1974), Hapù. Manuale di tecnica della comunicazione pubblicitaria (Lupetti, Milano 2003) e Leggere la pubblicità (CUEM, Milano 2006).
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ertamente sarà stata fatta qualche rilevazione in proposito; tuttavia, anche senza dati statistici a disposizione, si può essere sicuri che, fra le parole più dette e scritte negli ultimi dodici mesi in tutto il mondo, ai primi posti c’è “crisi” e, per lo più, questo termine è stato usato nel senso abituale di “decadenza”, “declino”, “fase negativa”. E questo è vero anche, anzi tanto più, per l’attività pubblicitaria che, sensibilissimo barometro della situazione economica generale, è stata forse la prima a lanciare segnali di allarme e a utilizzare in maniera estensiva questa antipatica parola. Ma è proprio la pubblicità che ci può anche permettere di guardare lo scenario in maniera differente, forse più ottimistica. Semantica della crisi
Sappiamo che, etimologicamente, la parola “crisi” viene dal greco antico e vuol dire cambiamento (in peggio, sì, ma anche in meglio), momento in cui bisogna prendere una decisione, punto limite al di là del quale le cose andranno diversamente, giudizio capace di sfruttare l’opportunità che si presenta. Anche in cinese, come ci dice l’antichissimo oracolo I Ching, la parola “crisi” (危 机, wei ji) è composta dall’ideogramma “pericolo” unito all’ideogramma “opportunità”. Questa ambivalenza, ben presente anche nella cosiddetta crisi pubblicitaria, è però intensificata da un’altra singolare coincidenza. Se guardiamo al passato, troviamo due altri momenti di crisi equivalenti a quello che stiamo vivendo: uno, negativo, corrisponde al disastro economico-finanziario, originatosi (anche quello) negli Usa nel 1929, le cui conseguenze si sono fatte sentire in tutto il mondo; l’altro, positivo, corrisponde alla rivoluzione culturale verificatasi al termine della Seconda guerra mondiale, quando – e siamo ancora negli Usa – si cominciò a parlare di baby boom riferendosi a un’esplosione demografica che si accompagnava però a un fenomeno sociale, mediatico ed economico esplosivo, e assai più ampio e articolato. Entrambe le crisi – di natura assai diversa – hanno influenzato – in maniera assai diversa – il mondo pubblicitario, ed entrambe ci aiutano a capire meglio quello che sta succedendo oggi. La Grande Depressione
Come illustra chiaramente quello che è tuttora il miglior studio sulla pubblicità americana della prima metà del XIX secolo (Stephen Fox, The Mirror Makers), a rileggere le dichiarazioni dei grandi pubblicitari statunitensi degli anni Trenta sembra che il 29/10, il grande “martedì nero” del 1929, fosse soltanto un incubo irreale e che, per sbarazzarsene, fosse sufficiente svegliarsi e stropicciarsi gli occhi. “La ripresa è inevitabile come il sorgere del sole”, dichiarava Paul Cherrington, direttore delle ricerche in JWT. Il crollo della borsa è “una magnifica opportunità per i pubblicitari americani: poiché i danni sono essenzialmente psicologici, la pubblicità con la sua capacità di influenzare il pubblico è la più preparata a occuparsi di quello che è semplicemente uno stato mentale”, diceva – a venti giorni dal crollo di Wall Street – il presidente dell’AAAA (American Association of Advertising Agencies). “Se solo si trovassero cinquanta personaggi che avessero il coraggio di esprimere pubblicamente la propria convinzione che il mondo e gli Stati Uniti non andranno in rovina, questo basterebbe a rovesciare la situazione”, diceva nel 1931 il guru Bruce Barton (fondatore della BBDO, accanito oppositore di 104
Roosevelt e autore del best-seller The Man Nobody Knows, in cui Gesù è presentato come il primo pubblicitario). “Non è nulla, se non il rumore dell’accartocciarsi di un bel po’ di azioni troppo gonfiate”, diceva Elmo Calkins agli inizi del 1930. Incapacità di vedere e valutare la realtà o menzogna premeditata per non spaventare i clienti e aggravare ulteriormente la situazione economica delle agenzie? Propendo per la prima versione: i pubblicitari erano (e sono) degli inguaribili ottimisti. A svegliarli ci pensò l’inatteso perdurare della depressione. La Lord&Thomas (oggi FCB), allora la più grande agenzia americana, dovette tagliare gli stipendi del 25%, molte agenzie licenziarono fino a 4/5 del proprio personale, lo stipendio di un buon copywriter scese da $230 a $60 alla settimana, quello di una dattilografa da $40 a $15. Ma l’aspetto che oggi, a distanza di ottant’anni, risulta più evidente di quel momento di crisi negativa è il mutamento dei linguaggi e, come sottolinea Steven Heller (nell’introduzione al volume All American Ads. 30’s di Jim Heimann), la persona che meglio identifica questo mutamento, questa vera e propria crisi, è il già citato Earnest Elmo Calkins. Personaggio singolare, costretto alla scrittura da una sordità pressoché totale, è a lui che si deve il grande salto qualitativo dell’art direction americana negli anni Venti, il primo ad avere nella propria agenzia (la Calkins and Holden) un vero reparto artistico, il promotore dell’Art Director’s Club statunitense, il solo pubblicitario americano a recarsi a Parigi nel 1925 per visitare la storica Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, il solo a essere convinto che se gli americani potevano insegnare molto agli europei in termini di copywriting, avevano molto da imparare in termini di linguaggio visivo. Ma è proprio lui che, dovendosi confrontare con una situazione economica che non capiva fino in fondo, rinunciò alle raffinatezze estetiche per tornare al linguaggio dell’hard selling, convinto che per superare la crisi si dovesse spingere la popolazione a comprare di più: “Consumare i prodotti non produce ricchezza. È comprarli che la produce”. E perché il pubblico fosse obbligato a comprare prodotti nuovi, invece di consumare i prodotti già comprati, Calkins si fece promotore della neonata teoria dell’obsolescenza programmata: prodotti progettati per durare poco ed essere prontamente riacquistati. Assieme a lui, tutta la professione pubblicitaria si rassegnò ad abbassare il livello qualitativo dei messaggi. Le belle e costose illustrazioni cedettero lo spazio a foto economiche, brutte, ma tanto più realistiche e dirette. I layout si riempirono di piccole immagini e tanti testi, perché neanche un centimetro quadrato andasse sprecato e perché si potesse dire tutto, ma proprio tutto al consumatore per spingerlo all’acquisto. Si moltiplicarono le testimonianze di personaggi famosi, rifugio – allora negli Usa come oggi in Italia – dei periodi in cui non si sa a cosa aggrapparsi. Ricomparvero le donnine poco vestite, in ogni possibile situazione: nelle vasche da bagno, sui divani, sul cofano delle auto e, persino, su una bara. Si moltiplicarono i concorsi a premio. Il linguaggio si fece duro e colpevolizzante: “Se tuo figlio va male a scuola è perché non gli compri la colazione adatta”, “Se tua figlia non studia è perché la carta igienica da pochi soldi che acquisti la irrita e così si distrae”, “Se non trovi lavoro è perché usi un sapone da barba troppo economico” (sono tutti esempi autentici, tratti dal fondamentale studio di Roland Marchand sulla pubblicità americana di questo periodo, Advertising the American Dream). La pubblicità della depressione, oltre al largo uso dei testimonial e alla sostituzione delle illustrazioni con le foto (che nel frattempo hanno però conosciuto 105
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Nascita di Rai4, tv per la crisi di Carlo Freccero
Un paradosso: mai come in questa stagione di stenti sono partiti tanti nuovi canali. Già su Link 7 parlavamo di palinsesti a basso costo, dove repliche e creatività sopperiscono ai budget ristretti. Freccero ci porta dietro le quinte di Rai4, regalandoci uno sguardo inedito sul suo progetto. Con tre punti forti, ideali per la tv in tempi di crisi: il web, i vecchi film, gli scarti. Semplice, si dirà, ma dosare gli ingredienti è cosa per pochi.
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È stato responsabile capo del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato alla direzione programmi di Italia 1 e poi a Rete 4 (1984). Nel 1985 comincia l’esperienza francese, assumendo la direzione programmi di La Cinq fino al 1990. È direttore di Italia 1 dal 1991 al 1994, quando torna in Francia come responsabile programmi per France 2 e France 3. Nel 1996 rientra in Italia, dove fino al febbraio 2002 è direttore di Raidue. Attualmente è presidente di Raisat, dirige Rai4 e insegna presso l’Università degli Studi Roma Tre e l’Università di Genova.
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o splendore della tv commerciale era tutto nella sua opulenza, nell’esibizione di ricchezza e consumo. Negli anni Ottanta la televisione commerciale ha vinto la sua sfida con la Rai perché, in un universo ancora legato all’anticonsumismo degli anni Settanta, faceva improvvisamente irruzione l’emporio, con il suo fascino volgare ma irresistibile. Le norme che attribuivano alla Rai il monopolio delle trasmissioni non potevano che essere travolte dalla fascinazione del pubblico per il nuovo mondo che quella tv rappresentava. Sono gli anni della Milano da bere, della moda, della pubblicità e dei creativi. E la vittoria non è solo mediatica, ma prima di tutto culturale e anche politica. Se il comunismo è stato travolto è anche perché i Paesi dell’Est, separati dall’Occidente da un muro, erano però colonizzati dalle trasmissioni televisive che, non conoscendo barriere materiali, esibivano in quei Paesi l’universo luccicante dei consumi. Sono gli anni in cui barconi di disgraziati si mettevano in viaggio dall’Albania per raggiungere le nostre spiagge come se si trattasse di Lamerica. Il modello di televisione generalista si è identificato e si identifica ancora con una programmazione ad alto costo, che ha di fatto concentrato in poche reti enormi budget di spesa. Prima che i contenuti premium diventassero la punta di diamante della pay tv, la televisione commerciale aveva usato queste armi di penetrazione per sbaragliare il servizio pubblico e la concorrenza. Oggi la crisi ridimensiona questo modello eccessivo di spesa. Già dopo l’11 settembre l’esibizione di budget e di ricchezza appariva volgare. L’attuale crisi economica richiama tutti, in tutti i campi, a comportamenti più sobri. Anche il mondo della moda si allinea. I contenuti premium emigrano verso le pay. Produzioni a costo contenuto, come i reality, prendono il posto del varietà. Ma non si tratta solo di una necessità economica. È in corso anche una mutazione culturale e mediatica. In primo luogo riguardo ai consumi. La tv generalista è una matrice di consumi materiali, da quelli sofisticati come moda e profumi a quelli popolari come pelati e detersivi. Oggi la sfera dei consumi materiali subisce una contrazione a favore dell’immaginario e della comunicazione. Mentre si cerca di limitare lo spreco nell’alimentazione e nell’abbigliamento, le famiglie continuano a investire nella televisione a pagamento, nella telefonia e nelle nuove tecnologie. Comunicare, mantenere il contatto e la connessione con una cerchia di amici e interlocutori, è oggi più importante che esibire ricchezza e status. Anche i media si stanno evolvendo e da media generalisti, come la televisione, si passa sempre più a media come il computer, capaci di stabilire contatti mirati e individuali. La crisi economica interviene in un contesto di profondi cambiamenti, anche mediatici, che sarebbero sufficienti, anche da soli, a spiegare la rivoluzione in atto nell’universo della comunicazione. Intendo dire che gli aggiustamenti nella programmazione televisiva non sono dovuti solo al taglio dei budget. L’introduzione del digitale nelle due forme di satellitare e terrestre, l’interazione e la sinergia tra televisione, telefonia e computer, sono sufficienti da sole a imporre una riflessione e un profondo ripensamento riguardo alla programmazione televisiva. Per la prima volta si affacciano modelli di produzione a basso costo dettati dalle nuove tecnologie. Il digitale e i nuovi strumenti di registrazione del reale, telefonini e cineprese, 124
permettono a tutti di fissare un proprio frammento di realtà e creano la figura del reporter diffuso, secondo il titolo di una fortunata rubrica di Sky Tg24. Sul web sono reperibili materiali a basso costo. L’interesse del pubblico si indirizza progressivamente su interessi di nicchia e di culto, cioè estremamente personalizzati. Ho avuto la fortuna di partecipare alla grande avventura della tv commerciale e ho oggi la fortuna di lavorare in un contesto di televisione digitale che è l’esatto opposto di quell’universo mediatico. L’esperienza di Rai4 è, secondo me, l’esempio preciso dell’evoluzione della televisione nell’epoca della crisi economica. Ma è anche, per me, un’esperienza stimolante della rivoluzione mediatica in atto. La parola crisi indica un mutamento rapido in senso positivo o negativo. Siamo abituati a conferirle valore negativo, ma un cambiamento può essere anche fonte di rinnovamento. La crisi porta con sé una riflessione sull’universo precedente. Una critica dell’esistente o del recente passato. Critica e crisi hanno la stessa radice etimologica. Oggi assistiamo a una crisi economica, ma anche a una critica e a un ripensamento della comunicazione e della funzione della televisione. Ho trovato tra le mie carte la scheda di presentazione di Rai4 e mi sembra un esempio reale di cosa significhi fare televisione senza budget, o con un budget estremamente ridotto. Contiene anche le mie riflessioni sulla natura di una rete digitale. A distanza di più di un anno, mi sembra utile pubblicarlo perché, più che un esercizio di teoria, rappresenta un documento, la testimonianza concreta di un esperimento ancora in atto. Rai4
Il 14 luglio 2008 inizia le sue “trasmissioni” la nuova rete digitale terrestre Rai4. Inizia in sordina, senza serata inaugurale, senza magazzino, senza mezzi straordinari. I circa 4 milioni del nostro budget per i primi 6 mesi devono competere con un magazzino Mediaset che è costato circa 800 milioni di dollari. Ma non è detto che si tratti di un limite. I mezzi delle reti Mediaset delineano un modello di televisione premium, tutto sommato già sperimentato e tradizionale. La scarsità di risorse ci spinge invece in direzione di una tv nuova e sperimentale, indirizzata verso pubblici nuovi, diversi dal pubblico della tv generalista. L’analisi di questa situazione di partenza ci porta a fare di necessità virtù. Costruiremo una tv sperimentale, e una tv nuova non può scaturire bella e pronta come Minerva dalla testa di Giove. Una televisione diversa si costruisce nel tempo sondando il suo pubblico. 125
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La promozione sul web degli show televisivi di Michele Boroni
Che succede all’incrocio tra la rete e il marketing televisivo? Due discorsi opposti, eppure non poi così distanti. Il web come panacea: non c’è niente di meglio per far conoscere il prodotto e il suo brand. Il web come nemesi: ma su internet ci sono solo quattro gatti… In mezzo, sta la vera battaglia. Che vede protagonisti i network e le cable americane, con serie come Harper’s Island e True Blood. Ma anche l’Italia non sta a guardare. Basterebbe crederci un po’ di più…
illustrazioni di Matteo “Ufocinque” Capobianco
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È consulente di marketing e comunicazione on e offline per aziende, agenzie e persone fisiche. Scrive su Il Foglio, D di Repubblica e cura la rubrica hi-tech per Style Magazine. È anche autore tv e radio. Ha scritto i libri CoolBrands (sb, 2006) e Brand 2.0 (B&P, 2007). Da sette anni ha un blog personale, EmmeBi (emmebi. blogspot.com), come si fa chiamare in rete.
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lcuni anni fa provai a chiedere a un alto dirigente di un gruppo televisivo se avessero avuto intenzione di creare contenuti originali per il web, considerato che entro i cinque anni successivi i telespettatori, verosimilmente, avrebbero guardato la tv sul proprio pc. Il dirigente mi rispose che non era nei piani perché l’industria non avrebbe potuto monetizzare tutto questo, e aggiunse: “Il web serve solo per il marketing e il branding del network”. Punto. I cinque anni sono passati, e alcune cose – tecnologia disponibile, domanda e offerta televisiva e web – sono decisamente mutate. Chi ha avuto ragione? Quella che un tempo veniva chiamata “tv interattiva”, la tanto discussa e sperimentata integrazione tra web e tv, è ancora, per molti aspetti, una lontana chimera. D’altra parte, il web è diventato un mezzo sempre più importante e strategico nel media mix a disposizione del marketing delle emittenti televisive per la promozione degli show. “Promozione web” è, peraltro, un concetto vasto e onnicomprensivo: sono tanti ed eterogenei i modi e gli approcci per fare promozione su internet. Ma per promuovere una serie tv o uno spettacolo, il web è davvero un mezzo efficace? Esistono delle modalità che funzionano più di altre? E poi, queste, come e su cosa lavorano? Cercherò di rispondere a queste domande, anche attraverso l’analisi di casi italiani e stranieri. Tenterò inoltre di dimostrare come un utilizzo efficace del web possa non soltanto essere utile a meri fini di marketing per lo show che si intende promuovere, ma anche per esplorare nuovi territori, ideare nuovi prodotti e nuove forme di narrazione. Tipicamente la promozione web di una programma tv dovrebbe raggiungere i seguenti obiettivi: attirare l’attenzione, coinvolgere il pubblico, costruire una community di appassionati e fare in modo che questa “faccia parlare” dello show tv. Facilissimo a dirsi, un po’ più complicato a farsi. L’apparente assenza di vincoli e format prestabiliti, se pure lascia ampia libertà creativa, di certo non aiuta.
I primi tentativi
All’inizio tutto si risolveva nella creazione di un mini-sito dedicato allo show, in cui venivano mostrati i trailer del programma, qualche foto “dietro le quinte”, le anteprime delle puntate, alcune informazioni sulla trama e sui personaggi e qualche gadget tecnologico (wallpaper, icone per il desktop, screensaver e widget vari) da scaricare. La parte interattiva era sviluppata attraverso i concorsi a premi basati sulla visione del prodotto on air: le dinamiche erano quelle del watch & win o dell’advergame più classico, giochi interattivi per aumentare la brand awareness, generare traffico e interesse. Un esempio è stato il lancio italiano di una stagione di CSI in cui gli utenti, attraverso un’applicazione che simulava l’utilizzo del luminol, dovevano scoprire gli indizi nella stanza dove era avvenuto il delitto; oppure quello più recente relativo alla serie True Blood, dove l’utente poteva fare l’upload di una sua foto per vedersela trasformare in quella di un vampiro. Giochi e intrattenimento puro, quindi. Gli uffici marketing delle emittenti tv italiane dichiarano che la redemption di queste operazioni è sempre stata piuttosto soddisfacente, tenendo conto che si tratta di show su canali satellitari spesso tematici e che, dopotutto, si rivolgono a una nicchia. Il ritorno delle campagne non va mai sotto le aspettative e il rapporto cost/benefit è decisamente alto, grazie anche ai bassi costi di realizzazione e produzione. Inoltre, a differenza di altri mezzi come la radio 134
LINK 8 Industry A piccoli passi
e la stampa, internet è facilmente misurabile e riesce meglio di altri a “dare il sapore della serie”, al di là del grado di coinvolgimento dell’utente. Se si pensa però alle potenzialità che il web può offrire, tutto questo (il mini-sito, il concorso, il basso livello di coinvolgimento, per non parlare dell’eventuale campagna banner) rappresenta ben poca cosa. È anche vero che sulle serie tv americane il margine di libertà e di creatività per la promozione è assai limitato: da una parte è difficile competere con il livello di complessità generata dalla promozione web della versione originale (per esempio, il corto circuito realtà-finzione che è stato negli Usa alla base di molti lanci di serie tv, a partire da Lost), dall’altra i limiti imposti dalla casa produttrice sono sempre piuttosto rigidi. Fare promozione innovativa sul web presuppone inoltre anche la consapevolezza di perdere un po’ il controllo del brand e dei tratti distintivi della serie, per favorire il coinvolgimento e l’interazione da parte dell’utente-audience.
Le promozioni italiane e i primi approcci sui social network
Le cose cambiano quando si tratta di lanciare e promuovere un programma televisivo prodotto e realizzato direttamente in Italia, dove quindi c’è massima libertà nel poter gestire e condividere brand e contenuti della fiction. Nel caso di Quo vadis, baby – serie prodotta nel 2008 da Sky, Colorado Film e RTI – l’obiettivo era differenziarla dal tradizionale prodotto di fiction italiana (classica, rassicurante e per famiglie), e perciò anche la strategia di lancio sul web ha avuto una dinamica piuttosto innovativa e originale per il mercato italiano. Chi si occupava della promozione ha preferito sfruttare al massimo 135
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processo al doppiaggio LINK 8 Industry
La lunga strada e le complessità di una televisione “tradotta” di Luca Barra
Doppiaggio sì, doppiaggio no. Questione annosa, complessa e articolata. Nata con il cinema (e, prima, con le traduzioni letterarie). Ma tornata di grande attualità con la televisione – e il recente “culto” per le serie televisive, che ha portato a un’attenzione (filologica, feticistica) per la “fedeltà” mai vista prima. Ma cosa succede davvero nel dietro le quinte di ciò che vediamo? La realizzazione di un’edizione italiana è davvero così male? Non ce n’è – forse – bisogno?
illustrazioni di Matteo “Ufocinque” Capobianco
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LINK 8 Industry Processo al doppiaggio
L
a torre di Babele non è crollata invano. E, in tempi di globalizzazione vera o presunta, di mercati dei media sempre più vasti, di prodotti (e diritti) che viaggiano di Paese in Paese, il tema della traduzione (e della confusione) linguistica è più urgente che mai. Basta prendere in mano i giornali italiani per accorgersi che uno stesso testo – poniamo, il discorso di investitura di Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti –, in una versione sempre dichiarata come “integrale”, appare secondo modalità molto variegate: titoli, tagli non dichiarati, scelte di traduzione differenti, scansioni in paragrafi che risentono dell’approccio della singola testata. O basta andare al cinema (o prendere un Dvd), e vedere che persino in un film premio Oscar come The Millionaire si attribuisce una battuta alle persone sbagliate, invertendo in un istante – in una scena di folla che diventa battaglia – i buoni e i cattivi. In televisione, se possibile, è tutto più complicato. Ecco alcune “prove”, testimonianze in un immaginario processo all’adattamento italiano. Exhibit n. 1. A metà della seconda stagione di Big Bang Theory, prima per un singolo episodio e poi in modo fisso per il resto dell’annata, la voce del protagonista Sheldon Cooper muta improvvisamente. Per qualche ragione produttiva è cambiato il doppiatore (prima era Leonardo Graziano, poi diventa Emiliano Contorti). L’effetto è spiazzante, nonostante il tentativo di ricreare una stessa intonazione.
Exhibit n. 2. Nella sesta stagione di Scrubs, un episodio speciale è realizzato in forma di musical: una paziente legge la realtà come se tutti cantassero e ballassero, e l’intero staff dell’ospedale si esibisce così in alcuni numeri musicali. In Italia, questi brani sono riscritti e ricantati: niente sottotitoli, così le voci sono quelle abituali, e viene messa nuovamente in scena la produzione – quasi in un remake audio – con una ricchezza (testuale e sonora) differente ma vicina all’originale. Exhibit n. 3. In un recente episodio dei Simpson, sedicesima stagione, si sente Homer farfugliare “shh… shh…”, o qualcosa del genere. La parola che sta provando a dire in italiano (e che dice tranquillamente in originale), resa evidente dal contesto, è “hashish”. Ma la collocazione in palinsesto del cartone, che va spesso in onda in fascia pomeridiana, porta a questo mascheramento che cerca di salvare le apparenze. Exhibit n. 4. Esempio classico è poi quello de La tata, in originale The Nanny. I riferimenti alla Ciociaria, il pesante accento e le battute in dialetto, il nome Francesca Cacace, persino i rapporti di parentela sono invenzioni della versione italiana. L’originale è tutt’altro. Fran Drescher fa parte sì di una minoranza, ma è di origine ebraica. Mentre la “zia” Assunta è sua madre, e “zia” Yetta sua nonna. Del resto, non c’è bisogno di scegliere esempi “estremi” come questi per dimostrare l’incidenza che una traduzione – meglio, un adattamento – finisce per avere su molta della televisione che vediamo. Nel bene e nel male. Basta andare online, leggere in qualche forum – non solo quelli dei gruppi che, pur di evitare la traduzione (e accelerare i tempi), sottotitolano le serie televisive, ma anche quelle di “semplici” fan di questo o quel prodotto – per 144
LINK 8 Industry Processo al doppiaggio
scoprire che il doppiaggio è costantemente sotto accusa. Fa male. È il principale responsabile della rovina di certi telefilm. Il rullo compressore sotto cui si schiaccia ogni complessità semantica, ogni differenza culturale, ogni riferimento a un mondo altro, ogni inside joke. Accuse che a volte sono più che fondate (si pensi a La tata), altre molto meno (come nel caso di Scrubs). Ma che, soprattutto, interpretano il doppiaggio come un monolite, un’infernale macchina automatica che va rifiutata in blocco, senza appello. Senza tenere in considerazione le sue ragioni.
ROUTINE E PROFESSIONISTI
Il processo in realtà è molto più complicato. In primo luogo, quando ci si riferisce all’edizione italiana, si intendono tutti insieme più passaggi: ognuno di questi permette di avvicinarsi a quello che sarà il prodotto finito, ognuno vede all’opera numerosi professionisti. Il primo step è quello più immediato, comune a molti altri media a partire dal libro, la traduzione: il trasferimento, cercando di restare il più “fedeli” possibile, dei significati da una lingua all’altra, dall’inglese dell’originale all’italiano della copia. Ma le versioni letterali dei dialoghi non calzano quasi mai a pennello sui volti e sulle espressioni degli attori americani (o inglesi): si apre così uno spazio per l’adattamento, fase dai contorni più confusi ma dalle conseguenze almeno altrettanto importanti. Da un lato, si cerca il sincronismo, sia esso labiale – le parole italiane devono risultare naturali sui movimenti delle labbra di un’altra lingua, con le vocali al posto giusto – o espressivo – e qui l’attenzione va ai tempi, alle pause, alle risate, ai sospiri. L’italiano della traduzione corretta va smontato, sposta145
LINK 8 Industry Processo al doppiaggio
to, persino accorciato: nello stesso lasso di tempo, la nostra lingua dice molte meno cose dell’inglese. Dall’altro, si opera con la lingua di arrivo, ridefinendo i giochi di parole, i gerghi, i linguaggi specialistici, i dialetti e gli accenti. Da un altro lato ancora, infine, si “sistema” il programma dal punto di vista culturale: conservando i riferimenti a istituzioni, oggetti, prodotti mediali noti al pubblico previsto (dal Ringraziamento alla Pepsi); sostituendo (a dire il vero, sempre più di rado) quelli meno conosciuti con il loro corrispettivo (è così che, nei Simpson, prima stagione, si trova un immortale Marco Columbro che rimpiazza Fred Flintstone); elidendo il nome proprio e passando alla categoria generica per tutto quello che sta nel mezzo. Solo allora, fatte tutte queste scelte, si passa al doppiaggio vero e proprio, di nuovo una fase formalizzata, con l’incisione (non ordinata e non sincronica) delle tracce audio corrispondenti ai differenti personaggi, il controllo del risultato da parte del direttore di doppiaggio, la “sistemazione” tecnica e artistica di caratteristiche come l’intonazione, la grana della voce, gli effetti (che sono anche effetti di senso). Certo, a partire dall’audio originale che tutti ascoltano nelle loro cuffie. Ma con buone dosi di improvvisazione – ancora una volta, “adattamento” –, giustificata o meno dal testo di partenza. E non è finita. Dopo aver registrato tutte le tracce voce, è la volta della post-produzione. L’audio viene sincronizzato, unito ai rumori e alle canzoni della colonna sonora (originale) e mixato fino a trovare una forma definitiva. E il video, finora fuori dai giochi, subisce quelle piccole modifiche che aiutano a tradurre tutto ciò che non viene pronunciato, come i sottotitoli esplicativi di cartelli e titoli di giornali. Nei cartoni animati, si riscrivono i vari testi, in modo più o meno accurato, 146
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direttamente sull’immagine. Alla complessità dei processi produttivi e delle routine corrisponde un gran numero di addetti ai lavori. Molti con qualche voce in capitolo (e possibilità di orientare il risultato dell’edizione italiana), tutti con obiettivi ben precisi (e talvolta divergenti). C’è il distributore internazionale, che pretende una versione accurata che non squalifichi il prodotto sul mercato italiano, e (di rado) controlla e interviene sulle scelte macro dell’adattamento. Ci sono il gruppo editoriale, la rete che manderà in onda la serie, la struttura interna al broadcaster dedicata alla realizzazione delle edizioni italiane, che hanno in mente il tipo (o i tipi) di pubblico cui si rivolgerà il programma e così cercheranno (pur indirettamente) di fare in modo che il doppiaggio si adegui (e faciliti) questo obiettivo. Ci sono i traduttori, che portano nel processo di adattamento competenze diverse, radicate nel mondo editoriale e nelle sue consuetudini. Poi ci sono i responsabili dei dialoghi italiani, consapevoli dei limiti tecnici del mezzo come delle sue potenzialità, alla ricerca della giusta quadratura tra la correttezza di un buon lavoro e un tocco “artistico”, personale. Ci sono i doppiatori che, soprattutto quando si tratta di professionisti riconosciuti, possono intervenire in sala, “in diretta”, sulle battute che stanno per pronunciare. C’è il direttore di doppiaggio, che avalla queste modifiche e può suggerirne altre, cercando di ottenere il miglior prodotto possibile (che, dal suo punto di vista, è anche quello che dà meno grane con la rete). Ci sono l’assistente di doppiaggio, che controlla con precisione i tempi di pronuncia delle battute (e può innescare il processo che porterà a decidere di accorciarle), e ancora i tecnici di post-produzione (che, per esempio, nelle modifiche 147
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tutte le facce dello switch-off
LINK 8 Industry
Percorsi di avvicinamento alla televisione digitale terrestre
di Piermarco Aroldi, Fausto Colombo, Nicoletta Vittadini
Alcune regioni italiane l’hanno già affrontato. Altre stanno per farlo. Lo switch-off, lo spegnimento del segnale televisivo analogico, porta ogni individuo, ogni famiglia, ogni casa a ripensare il modo in cui accede alle reti e ai programmi tv. Scegliendo una delle tante combinazioni a disposizione tra tecnologie, offerte, contenuti. Ma quali fattori spiegano queste scelte? Perché si sceglie questo o quel decoder, o un’offerta a pagamento? A volte è un caso. Altre no.
Piermarco Aroldi è professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano; è vicedirettore di OssCom, Centro di ricerca sui media e la comunicazione della stessa Università. Fausto Colombo è professore ordinario di Teoria e tecnica dei media presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano e direttore di OssCom. Nicoletta Vittadini è ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica di Milano. È membro della direzione dell’Alta scuola in Media Comunicazione e Spettacolo e fa ricerca presso OssCom.
illustrazioni di Matteo “Ufocinque” Capobianco
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LINK 8 Industry Tutte le facce dello switch-off
1. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 2000.
S
e c’è una cosa che la sociologia della cultura ci ha insegnato, è che per comprendere l’innovazione della produzione culturale occorre valutare con attenzione il fattore tempo e il fattore spazio. Prendiamo un caso lontano, la nascita del romanzo europeo post-rivoluzione francese (come lo racconta Franco Moretti). Ci sono due centri produttivi: la Francia e l’Inghilterra. Due circoli di influenza, totalmente diversi, in cui il romanzo francese e quello inglese prevalgono rispettivamente. Due modelli estetici e politico-ideologici opposti. Infine, due diverse linee di sviluppo. Come a dire: si parla dell’ascesa del romanzo europeo come di un fatto unitario, ma in realtà siamo in presenza di due fenomeni in parte concomitanti, ma profondamente diversi fra loro, anche se raccolti in un formato comune (la forma romanzo e ciò che essa significa in termini di prodotto industriale, competenze di scrittura, stili di lettura). Per tutto ciò che concerne l’evoluzione dei mezzi di comunicazione le cose sono – se possibile – ancora più complicate perché, oltre allo spazio e al tempo, va tenuta in conto quella che Roger Silverstone1 ha definito “doppia articolazione”: tecnologie da un lato, contenuti dall’altro. Come possiamo ben immaginare questa ambiguità si riflette in una crescente complessificazione dei fattori spazio-temporali. Insomma: a pensarci bene, è ovvio che sotto l’apparenza di una facile e globale definizione di una tecnologia e dei suoi contenuti, si nasconda da un lato una continua trasformazione che la fa cambiare nel tempo, dall’altra una specie di fedeltà territoriale che fa adattare la tecnologia stessa allo spazio sociale con cui si trova a interagire. È successo alla radio (nata tecnologicamente come strumento a due vie e rapidamente convertita al broadcasting; realizzatasi in Europa in un’ottica nazional-ideologica e negli Usa in un’ottica spiccatamente di mercato); succede alla tv digitale terrestre. Proviamo, dunque, a immaginare in quali forme si traduce questa complessità nel caso dello switch-off, di quella fase articolata e dilatata nel tempo (della preparazione, della costruzione degli immaginari, ma anche della loro attuazione), in cui tanti soggetti che partono da luoghi diversi e da vari sistemi mediali (nazionali, regionali, familiari) si confrontano con un’evoluzione; sono chiamati a configurare o modificare il loro modo di abitare il digitale; insomma devono “traslocare”. Questa fase investe tanto i player (le loro strategie e alleanze nello scenario competitivo, così come i loro assetti micro territoriali) quanto gli utenti del sistema televisivo (con il rapporto che devono stabilire tra il Dtt e le abitudini pregresse di consumo, il sistema di valori che attribuiscono ai media, all’innovazione e ai consumi, in sintesi le loro “economie morali”). Raccontare lo switch-off a partire da quello che già abbiamo visto accadere in alcune regioni italiane (dalla Sardegna alla Valle d’Aosta) significa, dunque, provare a descrivere cosa avviene quando tre elementi (il sistema mediale, le economie morali delle famiglie e le appartenenze territoriali) interagiscono tra loro di fronte a un’innovazione.
Alla tv è attribuito un valore in base a cui si è disposti a spendere più o meno denaro, tempo, competenze.
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Il sistema mediale: l’economia formale dello switch-off
Com’è noto, la televisione digitale terrestre nasce come innovazione nel consolidato sistema televisivo a partire da una scelta istituzionale, cui i broadcaster europei si devono adeguare, con tempi e modalità specifici per ciascuna nazione. Nella prima fase, senza dubbio, sono state le istituzioni politiche il motore del cambiamento: la campagna informativa e gli stessi incentivi all’acquisto del decoder hanno accreditato l’idea di una trasformazione puramente tecnica, in grado di apportare migliorie non solo nella quantità di canali e di soggetti (a beneficio del pluralismo), ma soprattutto sotto il profilo dell’interazione e della partecipazione del cittadino. Nel volgere di qualche anno, tuttavia, le cose sono mutate: in primo luogo Mediaset ha cominciato a farsi carico della diffusione del Dtt sia in termini di campagna mediatica che di trasformazione dell’offerta. In secondo luogo, la stessa Mediaset ha orientato le sue scelte su un’offerta di contenuti a pagamento. Nello stesso periodo sono stati lanciati (soprattutto da parte di Telecom con la sua Alice Home Tv) progetti e offerte di Iptv, che hanno completato un quadro complesso di piattaforme (in cui rientra naturalmente il satellite, di fatto monopolio di Sky) su cui entro certi limiti le offerte fluttuano, contrapponendosi o sovrapponendosi. La fase che stiamo vivendo nel momento in cui ha inizio il countdown dello switch-off è dunque caratterizzata da una alternativa fra tre tipi di piattaforme digitali (satellite, rete, Dtt), di cui due per ora dominanti; due modelli di offerta (pubblica, commerciale); tre modelli di business (free, pay, pay-perview); un numero crescente di player, con una primazia di fatto di Mediaset, Sky e Rai. Possiamo dire che – in termini di quella che viene definita in letteratura l’economia formale – la concorrenza a livello di offerta mescola per ogni singolo attore ruoli diversi: provider tecnologico, service provider, broadcaster, editore tradizionale, producer. È un fatto dunque che il fenomeno Dtt – anche se tendiamo a definirlo in termini unitari e semplicistici – è da sempre soggetto a una sorta di torsione nel corso del tempo. Che cosa determina lo switch-off? In primo luogo una nuova temporalizzazione, perché esso non avviene su tutto il territorio nazionale, ma via via in regioni o blocchi di regioni. Il che significa che i vari soggetti hanno davanti più che una fotografia un film che si snoda, e che consente loro (e insieme li obbliga), per orientare le proprie scelte, a prendere atto di ciò che già è accaduto e a prefigurare ciò che accadrà. In secondo luogo, l’andamento regionale dello switch-off ravviva la questione dello spazio e delle sue differenze, perché, in un Paese come l’Italia, la dimensione territoriale presenta variabili significative sia sul piano della conformazione geografica (rilevante per la ricezione del segnale) sia su quello della tradizione culturale, con stili di vita e di consumo assai diversificati. Questa complessità fa da sfondo alla problematicità della scelta da parte dell’utente che vede disattivata la familiare ricezione analogica: la complessità si lega alla quantità di livelli in gioco. Per chi ha già operato la propria scelta (di piattaforma, di modello di business) una certa inerzia vale a proteggere dalla complessità; ma per chi si trova obbligato a un’opzione è evidente lo sconcerto, che obbliga a rivedere le proprie scelte di consumo tv, per cogliere l’offerta più adeguata su cui orientarsi. È appunto in quest’ottica che interrogarsi sul ruolo dei marchi, sulla loro capacità di fidelizzazione, diventa assai complesso. Ed è in quest’ottica che 161
LINK 8 Industry Tutte le facce dello switch-off
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rep. popolare cinese a cura della redazione
Paesi, culture, immaginari lontani. Cui corrisponde un sistema televisivo e mediale molto differente, tutto da scoprire. In questo numero, un’analisi del mercato televisivo cinese. E l’esplosione di alcuni luoghi comuni.
fotografie di Michele Gastl
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LINK 8 Industry
dati gener a li
Popolazione Universo televisivo
1.330.000.000 1.199.561.000 (adulti +4)
Famiglie
457.000.000
Famiglie possessori di tv
369.000.000
Consumo dei media Tv
28 ore
Internet
13 ore
Radio Giornali Magazine
7 ore 4,9 ore 2 ore
Cinema
0,1 ore
Totale (a settimana)
55 ore
La SARFT (State Administration for Radio, Film and Television) è l’organismo statale di controllo del mercato audiovisivo cinese. Alcuni film censurati dalla SARFT Sette anni in Tibet Tomb Raider Memorie di una geisha Brokeback Mountain The Departed Borat
I canali della tv cinese sono controllati sia a livello nazionale, sia a livello regionale.
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sistem a telev isi vo
Tv analogica Tv digitale Cavo analogico
321.157.000 famiglie 47.933.000 famiglie 118.390.000 famiglie
Cavo digitale
45.030.000 famiglie
Satellite
32.500.000 famiglie
Pay tv IPTV
Stazioni tv nazionali
165.561.000 famiglie 2.141.000 famiglie
1
Canali nazionali
16
Stazioni tv locali
275
Canali locali
Stazioni radio
2.967
267
Canali radio
2.365
Giornali
1.938
Magazine
9.438
169
a sc olt i
Tempo medio di visione dell’individuo nelle 24 ore Totale Cina
153 minuti
Grande Pechino
208 minuti
Grande Shangai
200 minuti
Totale Italia
265 minuti
Panel “Auditel”
11.660 famiglie
Audience sul totale giorno CCTV1
10,2%
CCTV8
4,5%
CCTV6
4,3%
CCTV3
3,4%
Hunan TV sat
3,4%
Anhui TV sat
2,6%
CCTV5
2,5%
CCTV14
2,4%
Shandong TV sat
2,1%
Liaoning TV sat Altro
2% 62,6%
172
merc ato pubblicita r io
Penetrazione dei media Tv
95,3%
Outdoor
95,5%
Outdoor Tv
62,5%
Bus Stop
71,7%
Giornali
88,4%
Bus (interno)
50,9%
Magazine
42,3%
Internet
20,2%
Radio
23%
Metro
7,2%
Cinema
3%
Spesa pubblicitaria Tv
39,2%
Giornali
30,3%
Magazine
2,4%
Radio
5,6%
Internet
8,4%
Altro Totale spesa pubblicitaria
14,1% 12,4 miliardi di euro
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4.sights
il fan patologico
LINK 8 Sights
La possessione e il contagio nel fandom di Violetta Bellocchio
Va bene, abbiamo capito. I fan sono attivi. I fedelissimi delle serie tv creano nuovi significati. Le schiere del fandom fanno tremare le case di produzione, ma possono anche portare nuovi guadagni. Eppure. Eppure ci sarà un perché se per anni i fan sono stati visti come dei disadattati, degli inetti, degli sfigati. Forse, in fondo in fondo, lo sono ancora. Quando vendono il loro corpo. Quando rovistano nella spazzatura letterale e metaforica. Quando superano ogni limite. Enjoy.
illustrazioni di Philip Giordano
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Lavora o ha lavorato in diversi posti, tra cui Rolling Stone, Radiodue Rai e la Mostra del Cinema di Venezia. I suoi ultimi racconti sono usciti in Ho visto cose… (BUR, Milano 2008), I confini della realtà (Mondadori, Milano 2008), Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango, Milano 2008) e Voi non ci sarete. Cronache dalla fine del mondo (Agenzia X, Milano 2009). Il suo primo romanzo è Sono io che me ne vado (Mondadori, Milano 2009). Sta scrivendo il suo secondo romanzo.
“Pretty soon, they’ ll all be daywalkers, man”. “When that happens, I’ d rather be a pet than cattle”. Blade II
LINK 8 Sights Il fan patologico
Q
uasi ogni sito ufficiale dedicato a un prodotto permette ai visitatori di scaricare gratis foto e sfondi per desktop. La maggioranza però alza il tiro, offrendo icone per chat room, suonerie per cellulari, video da caricare su MySpace, Facebook e simili. Regalini che si prestano a essere messi in circolo. Un wallpaper soddisfa lo scaricatore. Una chat icon grande come la punta di un pollice trasforma l’utente in testimonial vivente del prodotto. E, va da sé, in portatore sano di qualsiasi cosa ci sia dentro. Il fan è l’organismo ospite, il prodotto è il parassita. Il prodotto non può sopravvivere senza un corpo da usare come marionetta, che lo porti con sé a vedere un po’ di mondo. E magari gli procuri nuova carne a cui agganciarsi. E il fan, proprio per funzionare, deve essere patologico. Inocularsi una quantità di materiali ben superiore a quella del consumatore “regolare” o casuale: spendere tempo ed energia ogni giorno per restare collegato alla comunità, anche a scapito del resto; permettere a una serie di corpi estranei di diventare la spina dorsale della propria identità, costruendo filtri a partire dal dopo. Fa tutto parte del pacchetto. È un contagio. Una mutazione spesso irreversibile – da persona a pod person, da volto nella folla a privilegiato posseduto – che comporta alcuni vantaggi: l’ingresso in una comunità di uguali, il piacere della condivisione quando non del confronto. Anche se, da fuori, può essere percepita come la rinuncia inspiegabile e cieca a una scintilla di personalità. D’altra parte, se non sviluppi alcuna caratteristica di rilievo, quando la situazione si fa brutta tu sei inutile e muori subito. Una scelta devi pur farla.
Il fan, per funzionare, deve essere patologico. Spendere tempo ed energia ogni giorno, anche a scapito del resto.
L’anima della festa
Il mattino dopo ogni episodio di Gossip Girl, un piccolo ma combattivo numero di ragazze entra nelle boutique di Manhattan. Cosa cercano? I vestiti indossati dalle protagoniste la sera prima. Questo in una serie che non brilla per ascolti, e non sta facendo la storia del costume, a onta di un battage pubblicitario di rara invasività. Però il risultato lo porta a casa eccome: dà ossigeno a qualche marchio di moda, e allo stesso tempo aumenta le proprie possibilità di restare in vita tramite la vendita degli spazi pubblicitari. Se tu, capo d’abbigliamento, non sei abbastanza speciale per finire addosso a Blair o Serena, puoi sempre comprarti un frammento di quella visibilità. Un meccanismo simile determina, all’interno della serie, chi detta la linea in una cerchia di ragazzi privilegiati, le cui malefatte vengono documentate da una blogger invisibile (presente solo come vocina fuori campo) e irradiate a pioggia sulle teste di un mare di sconosciuti, da Madison Avenue alle strade di un paesetto dell’Oklahoma. Essere cool by association è meglio che non essere cool. Punto. 180
Il rapporto tra i fan e gli autori può muoversi sullo stesso tracciato. Se il BNF (big name fan) gode di un ovvio prestigio nella comunità, per la qualità del contenuto offerto (disegni, storie, video) o l’incisività con cui partecipa alla conversazione, lo status non lo mette per forza al riparo dalle critiche. E se aumenta il bisogno di un dialogo diretto con l’oggetto del desiderio, non tutti si rivelano capaci di gestirlo. Alcuni creatori di mondi televisivi interagiscono con i loro fan online (Joss Whedon, Josh Schwartz), mentre altri ci hanno provato ma non gli è andata troppo bene (Aaron Sorkin, che in un episodio di West Wing avrebbe adombrato i suoi battibecchi con i forumisti di Television without Pity, dipingendo “i fan” come un branco di obesi livorosi). Ormai, però, una soglia minima di socialità viene richiesta dal contratto. Vedi anche la crescente presenza delle stelle del momento alle convention, fino a non troppi anni fa dominio quasi esclusivo di ex famosi o mai famosi. Su piattaforme come Twitter o Facebook il fan presente solo in spirito può seguire gli eventi in tempo reale, commentando (e contribuendo a diffondere) il comportamento di questo o quello. Arma quanto mai a doppio taglio: nessuno verrà licenziato per aver prestato più attenzione alla fidanzata che al pubblico, ma non ci sono garanzie che il pubblico la prenda sportivamente. Badami. Parlami. Voglio fare razza con te.
LINK 8 Sights Il fan patologico
Sparare nel mucchio
I luoghi comuni danno molta soddisfazione quando sono veri. Si è parlato spesso della componente fisica nell’intensità con cui il fan osserva le regole della sua religione? Perfetto: un’alta percentuale dei “segreti” apparsi in forma anonima nella frequentatissima community di Livejournal Fandom Secrets (una variante ad hoc di PostSecret) ha a che fare con crucci sessuali irrisolti. Si va dalla proverbiale dichiarazione d’amore (“I’d hit that”) alla confessione di essersi masturbati prendendo spunto da materiale poco ortodosso. Eroi dei cartoni animati per bambini, oggetti inanimati, immagini violente, scene strappalacrime in una soap, e a volte le circostanze del cosa sono descritte con tale insistenza da dare l’impressione di assistere a uno scambio di ricette. Con due tasti dolenti collettivi: l’incesto (“Perché per me è ok quando si tratta di personaggi immaginari, però mi fa schifo nel mondo reale?”1) e l’attrazione verso qualcosa o qualcuno che cozza violentemente con la propria identità extra-fandom. Quando nel 2009 Watchmen è arrivato sul grande schermo, un forte numero di donne hanno rivelato le loro difficoltà a conciliare uno straccio di autostima e il desiderio provato per il personaggio del Comico, letto (non a torto) come un cattivo sadico e misogino. La stessa situazione, su scala ancora maggiore, si era creata per il Joker di The Dark Knight, con in più la vivace reazione da parte di chi, pur apprezzando il film, trovava imperdonabili le promesse di eterna devozione all’antagonista e ridicoli i fan che in cerca di una scappatoia lo umanizzavano oltre misura, attribuendogli un’infanzia dickensiana o un lutto mai elaborato. Più spesso che no, comunque, la community fa da buon trampolino per un confronto sui gender issues, con soluzioni che spaziano tra il gruppo di auto-aiuto (“Forse è il caso che ne parli con i tuoi genitori”) e la chiacchierata in cucina (“Sul serio, non ti preoccupare, puoi essere femminista e trovarlo/a scopabile lo stesso”). Ma anche la realtà più “sana”, con un moderatore attento e una selezione dei contenuti, non può imporre troppi filtri agli utenti quando scelgono di portare in campo il priva181
1. L’impossibilità di trovare una risposta soddisfacente a questo interrogativo l’ha spedito in cima agli argomenti no anche nelle community dedicate alla pornografia: spesso è sufficiente per farsi bannare.
tempi ansiosi, tempi densi
LINK 8 Sights
L’opera di Philippe Parreno di Andrea Lissoni
Continua la nostra esplorazione lungo una delle (im)possibili frontiere dell’immagine televisiva: la videoarte. Questa volta, con una personale. Dedicata interamente al lavoro di Philippe Parreno. Capace di passare con disinvoltura da una partita di Zidane agli altopiani del Pamir, di affrontare insieme l’animazione e l’architettura, di progettare percorsi onirici e di rimettere in scena la storia americana. Spostando il “banale” televisivo e caricandolo di nuovo senso.
illustrazioni di Philip Giordano
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È dottorando presso l’Università di Udine e collabora con l’Università Bocconi. È co-fondatore del network curatoriale Xing e co-direttore del festival internazionale Netmage. Titolare della rubrica dedicata all’arte su Rolling Stone, è inoltre ideatore e curatore del progetto editoriale Cujo. Per Bruno Mondadori ha curato Frontiere e territori. Il cinema di Amos Gitai; Gabriele Basilico. Architetture, città, visioni e Fra le immagini. Foto, cinema, video di Raymond Bellour. Recentemente ha curato le due rassegne video Ballads from Our Invisibles Parks (La rada, Festival del cinema di Locarno) e Clouds of Sounds, Innerparks (Fair:play, Lugano) e le mostre Daydream Fields (Fondazione Claudio Buziol, Venezia) e la personale di Jimmie Durham, La vida continua presso Codalunga (Vittorio Veneto).
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1. Si veda A. Lissoni, “Meglio fantasma che invisibile”, in Link 7. Mash-up Television.
2. Il riferimento è a Maureen Turim, “The Cultural Logic of Video”, in Doug Hall e Sally Jo Fifer (eds.), Illuminating Video. An Essential Guide to Video Art, Aperture, New York 1986.
Compone come un artista video, scuote l’arte contemporanea, agisce nel reale. È una radio.
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e il video è un fantasma, l’opera di Philippe Parreno è il suo castello. Nessuno quanto il co-autore di Zidane: A 21st Century Portrait (2006) – paradossalmente forse la sua opera più nota, realizzata a quattro mani con l’artista scozzese Douglas Gordon – ha messo in gioco la dimensione fantasmatica dell’immagine che fu elettronica1. “No more reality!” era lo slogan gridato all’unisono da una bizzarra manifestazione di bambini nel cortile di una scuola di Nizza. Parte dell’omonimo ciclo sviluppato lungo i primi anni Novanta, quel video era solo l’inizio di un percorso d’artista che, proprio perché formatosi nel momento della grande transizione – da elettronico a digitale, da montaggio a manipolazione, da biblioteca a database – è l’incarnazione dell’artista video contemporaneo: colui in cui il video abita ormai come un universo di possibilità in forma di alterazioni temporali. Colui per cui il video è stato probabilmente una logica (postmoderna e del tardo capitalismo2) e per cui è da tempo una condizione. Philippe Parreno non gioca sulla crisi, al contrario indica utopiche ma folgoranti vie di fuga. E la condizione su cui lavora è l’incessante slittamento della realtà. Realtà che non insegue, ma anticipa e mette in scacco, da una parte restandoci permanentemente sintonizzato, dall’altra volteggiandoci dentro come nella migliore tradizione slipstream (la fiction of strangeness letteraria). È per quello che adora J.G. Ballard. Come in Snowdancing (1995) – una mostra che ricorda troppo la traccia di una festa – il reale è già avvenuto, e noi siamo costretti a immaginarlo. L’opera di Philippe Parreno non è l’opera di un matto visionario. Piuttosto, come sostiene Daniel Birnbaum in Chronology (Sternberg Press, New York 2005), “Parreno si concentra solo sul futuro e non mostra alcun interesse per il passato. Di conseguenza, la sua nozione di soggettività, se il termine è ancora rilevante, è radicalmente differente […]. Il lavoro di Parreno rappresenta una grande sfida proprio grazie alla totale mancanza di una modalità retrospettiva. Come nessun altro artista Parreno ci costringe a ripensare la nozione di emergenza e arrivo”. E la chiave segreta con cui Parreno lavora è – e potrà sembrare assurdo in tempi di emergenza – la meraviglia. La meraviglia non è bellezza. È l’inedito, è lo stupore per qualcosa di mai visto ma sempre possibile, perché parte di un reale potenziale. In questo senso l’opera di Philippe Parreno, che si tratti di sculture, di installazioni o di proiezioni video, appartiene a un’era del tutto post-televisiva, o meglio a un’era televisuale futuribile.
ZIDANE PRIMA DELLA “TESTATA”
Prendiamo per esempio Zidane: A 21st Century Portrait, opera che esiste come installazione a più schermi o film da proiettare al cinema. Il 23 aprile 2005, in campo al Santiago Bernabèu ci sono Real Madrid e Villareal CF, ma diciassette telecamere ad alta definizione seguono la partita di un solo giocatore, Zinédine Zidane. Il film è scultoreo, monumentale, struggente (anche perché lacerato dall’apocalittica colonna sonora dei Mogwai), infinito, dilatatissimo, astratto e follemente cassandresco: a partita quasi terminata, Zidane viene espulso, per un improbabile gesto di reazione. Ed eccoci, con il migliore ritratto possibile dell’uomo del XXI secolo: saldo, intelligente, naturalmente immigrato, ma dannatamente animalesco e pronto a crollare. È la visione di 188
una realtà potenziale innescata e nascosta dietro lo sguardo imperscrutabile di un migrante algerino di seconda generazione in Francia, a generare l’epica e diventare clamorosamente realtà. Il riferimento è a quanto accade un anno dopo, quando nel momento più importante della sua carriera, durante la finale per i campionati del mondo di calcio 2006 a Berlino, Zinédine Zidane inaspettatamente colpisce in pieno petto l’italiano Materazzi con una testata, consegnando simbolicamente la partita agli avversari. Su quella stessa partita, ma con l’attitudine decostruttiva della messinscena dell’evento e quindi della realtà, torna nel 2007 Harun Farocki, uno dei massimi artisti video viventi. Deep Play (2007), proiezione a dodici canali, viene presentata alla Documenta di Kassel e da lì in tutto il mondo. All’artista tedesco non interessa nessuna forma di narrazione: al contrario, persegue con rigore la demistificazione del funzionamento del medium televisivo. È così che, incredibilmente, dopo quasi due ore di scansionamento da ogni angolatura tecnologica possibile della partita, la potenza dell’azione pura di Zidane e i suoi effetti, restano completamente inenarrati e quindi indecifrabili. I media, per quanto avanzati, non possono rendere conto della potenzialità della realtà e della sua flagranza. Del resto, Parreno ha da sempre creduto che non ci fosse nessuna differenza fra un evento, la sua immagine e la sua percezione. Ma in fondo è anche vero che, con Zidane, lui e Douglas Gordon potrebbero avere imbroccato il precedente-coincidenza più clamoroso della storia dello sport e delle sue icone.
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ASSENZA DI SEGNALE, IRONIA E SOGNO
Infatti, con la coerenza dialettica (o bipolare) che contraddistingue ogni artista consapevole della propria ricerca, sull’altra faccia della medaglia dell’immaginario – quella opposta cioè al calciatore-icona performativa e mitografica assoluta – Parreno capta l’assenza completa di segnale. Il film Le Pont du trieur, diretto nel 2000 a quattro mani con Charles De Meaux, è una strana sfida a restituire un’immagine del Pamir, un’area geografica di cui non esistono o quasi immagini. Il film è una sorta di stazione radio che trasmette informazioni da un cono d’ombra dell’immaginario contemporaneo. Cinema-antenna, l’enigmatico Le Pont du trieur sembrava annunciare che esistessero ancora molte frequenze da cercare per provare a orientarsi nell’interpretazione del contemporaneo, cioè del mondo e dei suoi territori, mediatici e reali. Affondato nella storia indisciplinata delle eterodossie visuali dei primi anni Duemila, Le Pont du trieur condivide con una sparuta genìa di misteriosi oggetti fluttuanti (come i film di Apichatpong Weerasethakul) una forma inclassificabile, un tempo spazializzato, l’assenza evidente della struttura del racconto, un paesaggio ingannevolmente esotico e una presenza delle fonti documentarie che non raccontano apparentemente nulla altro che (e da) se stesse. Parreno danza gioiosamente sul filo sottile del reale, fra l’ironia più disarmante e la poesia più enigmatica, ritrovandosi a oscillare fra Briannnnnn & Ferryyyyyy (2004) – elegante animazione in collaborazione con Liam Gillick
La meraviglia non è bellezza. È l’inedito, lo stupore per qualcosa di mai visto ma sempre possibile.
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Parreno danza gioiosamente sul filo sottile del reale, fra l’ironia più disarmante e la poesia più enigmatica.
che si configura come i titoli di coda di un film mai fatto, dove balzano oggetti fuori da ogni luogo (televisivo, cinematografico o della rete), e che, avendo saccheggiato crediti, si fa beffe di copyleft e proprietà intellettuale – ed El sueno de una cosa (2001). Girato in 35mm, El sueno è stato proiettato in video nelle situazioni più disparate, sempre comparendo inaspettatamente: ora in un cinema all’interno di una striscia di pubblicità, ora su un dipinto bianco di Bob Rauschenberg che dopo 4’33” (cageaniamente) sprofonda nel buio e si trasforma in schermo intonso pronto ad accoglierlo e, recentemente, nel Palazzo delle esposizioni all’ultima Biennale internazionale d’arte di Venezia. Invisibile ai più, El sueno compariva improvvisamente per la sua breve durata, in una sala con opere moderniste che sembravano contemporanee, allestite insieme a opere contemporanee che rendevano un ossequioso omaggio al modernismo. Ovvia funzione sottilmente straniante dell’opera di Parreno, che giocava sul campo dell’atemporalità e nella dimensione della meraviglia assoluta. Il film – realizzato al Polo Nord durante una spedizione pensata sul modello della spedizione scientifica – mostra un paesaggio semidesertico bagnato dalla luce slavata del sole di notte in cui d’un tratto esplode una flora favolosa. I fiori sbocciano ovunque nelle distese verdi di un fiordo, appena prima che le immagini sva190
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niscano e nella sala torni la normale tranquillità. Ma in cosa sta davvero la meraviglia? Nel fatto che El sueno de una cosa attivi l’intero spazio espositivo trasformandolo per un tempo brevissimo in un luogo alterato nel suo quieto vivere. Non solo l’ambiente circostante viene rimesso in gioco, facendolo così sfuggire all’idea autoritaria di mostra, ma anche la nostra percezione è scossa nel profondo. Assistere all’apparizione di El sueno de una cosa è come trovarsi temporaneamente scaraventati dentro un video in cui si fluttua spaesati nella medesima condizione percettiva disassata che il video stesso rappresenta. Il video a quel punto è l’intero ambiente. Non siamo dentro un’installazione video, per esempio una classica a più fonti di immagini e suoni di Bill Viola; siamo letteralmente all’interno dello spaziotempo monocanale di una fantasmatica realtà “video” in cui il reale è profondamente disarticolato e presumibilmente manipolato.
LA SCENA, LO SPAZIO
Per esempio, la mostra antologica chiusasi nel settembre 2009 al Centre Pompidou (parte di un’“impossibile” retrospettiva disseminata fra la Kunsthalle Zurich, l’Irish Museum of Modern Art di Dublino e il Bard College), presentava opere classiche di Philippe Parreno e un nuovo formidabile film. Come già Alien Seasons (“personale” all’ARC – Musée d’Art Moderne de la ville de Paris, 2001), lo spazio era un dispositivo quasi esoterico attivato da immagini, da video e da misteriosi accorgimenti illuminotecnici, dove a essere sedotta era l’intellegibilità, e a essere perturbata la percezione. Il film June 8, 1968 (2009) rimette in scena il trasporto in treno del corpo 191
i media dopo l’ultimo big bang LINK 8 Sights
Cosa cambia e cosa resta quando sfumano i confini di Francesco Casetti
C’erano una volta i mezzi di comunicazione di massa. Ci sono ancora, ma molto è cambiato. Tra confini, sovrapposizioni, scambi di ruolo e di funzione si rischia di perdere il filo. O, peggio ancora, di continuare a ragionare con le vecchie categorie, senza accorgersi che intanto il mondo è cambiato. In un accorato pamphlet, Francesco Casetti prova a fissare qualche punto fermo. E a proporre una griglia di riferimento per il nuovo sistema. Così da creare inedite “mappe” dei media di domani.
illustrazioni di Philip Giordano
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Insegna Filmologia presso l’Università Cattolica. Dopo varie esperienze come visiting professor, negli ultimi anni ha insegnato a Yale, dove dal 2010 occuperà la cattedra di Film and Media Studies. Tra i suoi libri, Dentro lo sguardo (Bompiani, Milano 1986), Teorie del cinema. 1945-1990 (Bompiani, Milano 1993) e L’occhio del Novecento (Bompiani, Milano 2006), tutti tradotti in diverse lingue. Con Federico di Chio ha scritto Analisi del film (Bompiani, Milano 1990) e Analisi della televisione (Bompiani, Milano 1998). Tra le ricerche da lui dirette: Un’altra volta ancora (Rai Eri-Vpt, Roma 1984); Tra me e te (Rai Eri-Vqpt, Roma 1988); L’ospite fisso, (San Paolo, Cinisello B.mo 1995); Spettatori italiani (con E. Mosconi, Carocci, Roma 2006) e Terre incognite (con M. Fanchi, Carocci, Roma 2006).
LINK 8 Sights I media dopo l’ultimo big bang
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osalind Krauss, in un lavoro di qualche anno fa che non ha cessato di esercitare una grande influenza (Voyage on the North Sea. Art in the Age of the Post-medium Condition, Thames & Hudson, New York 2000), ha posto con forza un interrogativo di grande attualità. Quando, come oggi, non è più possibile collegare l’azione degli artisti a un preciso ambito di attività, si tratti di pittura, scultura o quant’altro, e in particolare quando la loro azione non si esercita su un supporto preciso – la tela, la tavola, il marmo, il bronzo eccetera – come è possibile definire e giudicare il loro operato? Insomma, che ne è dell’arte in un’epoca che non ha più un chiaro senso di che cosa costituisce la sua base materiale, il suo medium? Krauss pone l’interrogativo per superare il principio della “specificità” – appunto, una medium specificity – messo a punto da uno dei maestri della critica americana (maestro suo, oltretutto), Clement Greenberg. Per Greenberg l’arte va compresa non tanto in rapporto a ciò che essa rappresenta, quanto in rapporto alle condizioni materiali della sua rappresentazione: di qui l’enfasi sull’importanza di artisti appartenenti all’espressionismo astratto come Jackson Pollock o Willem de Kooning, che si confrontano direttamente con la tela su cui dipingono, e che grazie a questo confronto sanno riscattare il senso di piattezza che la pittura a lungo aveva cercato di denegare. Ma quando l’artista non lavora più sulla tela, ma anche su reperti quotidiani, sullo spazio, sul concetto, sul progetto, quando cioè non pone limite ai suoi materiali e alla sua sfera di attività, questo principio della medium specificity ha ancora senso?
Cosa resta dei media
Non è difficile allargare la domanda di Rosalind Krauss. E chiedersi non tanto che ne è dell’arte in un’epoca post-mediale, quanto che ne è dei mezzi di comunicazione, dei media. Quando la convergenza rompe l’esclusività delle diverse basi tecnologiche, e dunque quando il giornale non vive più solo nelle pagine su cui è stampato, il cinema in una sala dotata di uno schermo, la tv in un visore da collocare nel proprio salotto, il telefono in un apparecchio da mettere a muro o su un tavolino, che cosa definisce un medium? Cosa fissa le coordinate della sua azione, e dunque i suoi orientamenti? Cosa ci dice quel che è, quel che può essere, quel che deve essere? Insomma, quando non c’è più una stretta corrispondenza con un apparato, che determina le condizioni di produzione, distribuzione e consumo, cosa dà a un medium una sua identità – esso ha ancora un’identità? Si potrà rispondere: la televisione, il cinema, il giornale, il telefono, continuano a esistere, e continuiamo a usarli – e a usarli come tali. In questa risposta, ineccepibile, a me pare emergano due atteggiamenti di fondo: la presunzione e il buon senso. Presunzione qui vale nel suo significato letterale: è il modo di fare di chi, presumendo appunto di sapere cosa ha di fronte, continua a tener per buono il suo oggetto. Un po’ per affetto, un po’ per sicurezza, un po’ per opportunità. È un atteggiamento abbastanza diffuso presso i critici-recensori, compresi quelli cinematografici e televisivi, che si interrogano su ciò che un film o un programma dicono, ma assai meno su cosa sono e in che senso lo sono. Del resto, come chiedere loro di dubitare del punto su cui indirizzano il loro sguardo? Come convincerli che non stanno probabilmente lavorando su degli emblemi, ma su dei miraggi? Resta il fatto che con questo atteggiamento essi si fermano al dato-per-scontato: assumono che ciò che stanno vedendo sia un film o un programma (semplicemente perché è passato 198
in qualche sala o in qualche televisione, immagino), assumono che continui a esserlo qualunque forma abbia (anche se il film è girato con un telefonino, e il programma è ai margini della offerta, per esempio su Sky oltre il canale 830); e di conseguenza assumono che il terreno su cui si stanno muovendo sia sempre quello del cinema e della tv (ma perché, nel caso del film girato con un telefonino, non pensare di essere ormai nel dominio del cellulare? E perché, nel caso dei programmi più periferici e selvaggi, non pensare di essere ormai nel dominio dei prodotti di strada? E perché, ancor più radicalmente, dal momento che ci sono film e programmi così, non pensare che il cinema e la tv sono nomi che stanno perdendo di senso?). Insomma, la presunzione è restar legati a un’identità pregressa, accettando qualche piccolo cambiamento intervenuto con il tempo, anziché applicare il principio del dubbio radicale, e chiedersi che cos’è per davvero quello di cui si parla: nel caso dei prodotti, chiedersi se rientrano ancora nel loro consueto campo di appartenenza, o non facciano riferimento a un diverso terreno, a un altro sistema dei media, a un altro sistema tout court. Per converso c’è anche del buon senso. Che è quello che si esprime nella massa degli utenti, per i quali continuano a vigere delle regole di consumo assestate: guardare la televisione è quella cosa che è sempre stata – ci si abbandona su una poltrona, si esplora l’offerta, ci si ferma su un programma, lo si segue con attenzione mutevole, si sospende e si riprende, si fa qualcosa parallelamente, magari si esce dall’offerta on air per metter su un Dvd, si usa quel che si vede per intrattenersi con qualcuno eccetera. Altri riti di consumo sono sempre possibili, ma appaiono varianti della liturgia principale. E l’acquisto del dispositivo è mirato al rito dominante. In questo quadro, un medium continua a mantenere un’identità, quella dei suoi modi d’uso che si sono consolidati nel tempo e che non appaiono svanire anche se altri modi d’uso nel frattempo si sono aggregati a quello principale. Se si vuole, continua a mantenere una identità sulla base del “capitale liturgico” che ha accumulato, a partire dal quale opera eventuali nuovi “investimenti”. Aggiungo di passaggio che in entrambi gli atteggiamenti sopra sintetizzati la dialettica tra i prodotti mediali e il campo mediale viene fortemente appiattita. Per il critico-recensore, abbacinato da un oggetto da interpretare, basta quest’ultimo a garantire il campo in cui ci si muove; per il consumatore, ancorato ai suoi riti, bastano questi ultimi a garantire il prodotto. Insomma, per il critico-recensore se ci si confronta con un film, c’è del cinema; per il consumatore, se si va al cinema, si incontra un film. In realtà, l’identità di un medium emerge proprio dalla tensione tra campo e prodotti – tra strumento di base e realizzazioni, avrebbe detto Greenberg; o tra apparato e suoi modi di attivazione. Per quanto la convergenza abbia portato l’attenzione sul gioco tra i media (è incontrandosi, confrontandosi, sovrapponendosi, che essi decidono se vivono ancora e in che misura), resta aperto anche il gioco dentro un medium (è il modo in cui esso imposta i suoi esiti, e il modo in cui i suoi esiti a loro volta lo ristrutturano, che ne fa emergere il profilo ultimo). Inter-mediale
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Quando la convergenza rompe l’esclusività delle diverse basi tecnologiche, che cosa definisce un medium?
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un reciproco adattamento. Nel nostro caso, come già accennato, i guadagni sono legati al fatto che le strategie prendono corpo, e le tattiche si orientano. Quanto alle perdite, esse possono essere invece riassunte nel fatto che una volta fissato il punto di “compromesso”, le precedenti potenzialità vengono chiuse. Riesaminiamo il bisogno di identità: se esso si sposa con una scrittura diaristica, alla prima persona, il sé diventerà quello “vero” di una confessione, e non potrà più essere quello “problematico” che sarebbe nato dalla costruzione di un alter ego con cui confrontarsi e magari venire alle mani (per la confessione, non penso tanto a Sant’Agostino, quanto al Grande Fratello, che appunto chiama “confessionale” il luogo in cui ci si mette – o almeno si dice di mettersi – psicologicamente a nudo; mentre per l’alter ego come faccia problematica del sé penso al concetto di personaggio in Pirandello o all’uso di avatar in Second Life). Va però detto che le perdite tendono a essere minimizzate (e infatti, a differenza di Sant’Agostino, i concorrenti del Grande Fratello si comportano anche pirandellianamente, adattandosi spudoratamente alla pièce in corso, anche se poi lo negano). Così come va detto che le perdite sono sempre compensate dal fatto che quello che si è lasciato cadere, da qualche parte riappare (se a Pirandello si impedisce, almeno ufficialmente, di entrare nella Casa, gli si lascia comunque campo libero nei giochi di ruolo). In questo senso, se è vero che i conflitti su cui la negoziazione interviene non cessano mai del tutto, è anche vero che un “compromesso” consente pur sempre alle parti di trovare una forma di collaborazione (in altre parole, utilizzando un termine lacaniano oggi ripreso dai cultural studies, se è vero che la “sutura” riguarda pur sempre una ferita, è anche vero che essa cerca di ricomporne i lem204
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bi, lasciando probabilmente una cicatrice a segno della irrimediabilità della lesione). Insomma, la negoziazione consente comunque alle istanze dall’alto e agli elementi dal basso di convergere e incastrarsi reciprocamente – anche se l’accordo non dovesse essere né tranquillo né definitivo. La seconda risposta è che l’incontro dipende dall’intervento di un qualche automatismo. Prendo il concetto da Stanley Cavell, che vi insiste già nel suo The World Viewed (Viking Press, New York 1971). Secondo Cavell, l’aspetto importante di una serie di procedimenti tecnici o linguistici è che, presentando delle ricorsività o delle regolarità, essi sembrano muoversi al di fuori di un’intenzione e di un’occasione; operano così sempre e comunque. Il sonetto ha quella struttura, quale che sia il suo contenuto. Proseguendo (spero non illecitamente) Cavell, possiamo allora dire che questi procedimenti ricorsivi offrono un terreno di esercizio stabile e sperimentato, in cui le istanze simboliche possono incanalarsi dentro meccanismi ben oliati e nello stesso tempo gli elementi di una situazione comunicativa possono perdere la loro occasionalità grazie a un quadro ben riconoscibile. Ne deriva non soltanto il fatto che le prime in questo modo possono mettersi effettivamente in moto e i secondi trovare una loro precisa finalità, ma anche che in entrambi i casi ciò avviene per la presenza di una forma – e cioè di una certa architettura, di un certo ritmo, di una certa successione di gesti, di un certo ordine degli elementi eccetera: pensiamo appunto alla forma-sonetto. È questa forma che, insieme, permette all’istanza simbolica di esprimersi e alla situazione di assumere un senso, legandole per così dire allo stesso destino. L’automatismo dunque non offre solo un punto d’incontro in cui l’alto e il basso si compenetrano; offre 205
pieter von balthasar a cura di Fabio Guarnaccia
Cumuli di cose, oggetti trovati per caso, materiali eterogenei che suscitano stupore. Queste sono le wunderkammer, scrigni colmi di meraviglie. Ma questo è anche, in fondo, il flusso della tv. Pieter von Balthasar mette da parte, connette e dà significato alle macerie del mondo. Qui vi proponiamo un assaggio del suo lavoro, e un’ intervista che ne indaga le ragioni.
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abinets de curiosités. Wunderkammer, le camere o gli armadi dove nobili e uomini di scienza raccoglievano le stranezze del mondo. Antenati dei musei ma distanti dal rigore positivista di questi: piuttosto, scatole magiche che contengono visioni. Quando abbiamo incontrato l’opera di Pieter von Balthasar, vi abbiamo intravisto un progenitore della tv. Una consapevolezza indefinita, tale da spingerci nel suo atelier milanese per indagare a fondo la parentela. Von Balthasar è un artista alchemico, un “trovarobe” che raccoglie i rifiuti del mondo per raccontare storie. Colleziona mirabilia, scheletri di animali e insetti, corni di narvalo e minerali, stoffe e scampoli di antiche tappezzerie. Il vecchio e l’antico sono usati per generare il contemporaneo. Ready-made surrealista. Non a caso Breton costruiva wunderkammer. Anche Jospeh Cornell, dichiarato maestro di von Balthasar, ha cominciato a realizzare le sue “scatole” proprio a partire dalla mostra “Fantastic Art, Dada, Surrealism” (Museum of Modern Art, New York). Nei lavori di von Balthasar sono in gioco antiche forme di conoscenza del mondo: quella poetica, che Vico attribuiva ai bestioni primevi, e quella del mito, un sapere che potremmo associare allo stupore e alla meraviglia. Conoscenza potente e pre-razionale, a lungo svilita dal post-illuminismo come conseguenza dell’ignoranza, la meraviglia è l’incanto dello spettatore. Le wunderkammer sono camere-mondo che portano l’esotico e l’altrove all’interno dell’abitazione, aristocratica prima, borghese poi. Con la loro utopia di contenere le stranezze del creato, di isolarlo magicamente dalla realtà, costruiscono canali di accesso a luoghi lontani, fantastici. Proprio questo sono, oggi, le opere di von Balthasar: letteralmente visioni che raccontano storie di nuovi mondi.
Iniziamo con la domanda più fastidiosa: che cos’è per te il contemporaneo? Il contemporaneo per me è qualcosa di inedito, nel senso di “non-mai-visto”. Può esser fatto anche da frammenti e scorie del passato rielaborate con un linguaggio nuovo. Le cose che mi stupiscono. Il nuovo per me nasce da qualsiasi cosa. Anche dal vecchio. I miei erano antiquari, da piccolo sono stato attorniato da oggetti antichi, anche di pregio: cose che suscitavano in me ammirazione ma, lo ammetto, mancava “qualcosa”. Ho capito che non ho la natura di “spettatore”, ma piuttosto di “manipolatore” delle cose. Il mio “motore manuale” non mi dà tregua. Fin da allora ho sentito l’esigenza di giocare, di mettere mano agli oggetti che mi circondavano. Cosa che faccio ancora oggi, raccogliendo quelli che chiamo i “rottami del mondo”. Oggetti che tutti scartano senza più vederli. Quando vado a un mercatino non ci vado alle sei del mattino. Non cerco l’oggetto di valore, lo pseudo-Canaletto (che a Londra magari puoi ancora scovare). Posso andare anche alle sei di sera, tanto l’elica o l’insetto mostruoso li trovo ancora, non li ha voluti nessuno. Poi, quando ne ho bisogno, li prendo in mano e affettuosamente li manipolo. Li metto insieme ad altro e creo nuova vita. Sono perfino attratto dalla polvere, a volte rubo la polvere dei musei. Un esempio: tempo fa ho trovato uno scampolo di tessuto copto 212
che gli autoctoni chiamavano “polvere” e ho sentito il bisogno di accostarlo all’“insetto della polvere”, alla conchiglia pulvis e ad altre diavolerie collegate alla polvere (compresa quella degli angoli di casa mia…). Così nascono le mie bacheche. L’archivio perfetto non è un deposito ma un modello di lettura. È così che uso quello che raccolgo in giro. Sono un inventore di storie, come il vasaio di Caltagirone. Un artista che fa l’artigiano e viceversa. Non sono un artista da galleria. La contemporaneità è solo una suggestione, un ponte tra il futuro e il passato. Ma non sopporto la nostalgia. Non c’entra niente con l’uso che faccio di vecchi oggetti: le mie sono opere non-nostalgiche. Non lavoro sul contenuto singolo: l’insetto rimane tale, ma se lo metto vicino a una turbina ecco che nasce il “nuovo”. Che è ciò che mi interessa. Non bisogna avere paura di amare gli scarti. Possono regalare meraviglie inattese. Von Balthasar è il nom de plume di Edgar Vallora, architetto. Quanto ti ha aiutato questa professione nel lavoro di recupero e raccolta degli oggetti che usi per fare arte? Moltissimo. Il mio percorso di ricerca è iniziato proprio dall’architettura. Nella mia vita professionale ho fatto più di 200 opere di recupero: fari, torri di difesa, chiese sconsacrate, fagianaie, cascinali. Ho iniziato a fare l’architetto agli inizi degli anni Settanta, quando la crisi non permetteva di costruire nulla, o ben poco. Allora mi sono messo a recuperare quello che c’era. Soprattutto cose curiose. E lì è nato questo sentimento di amore per la rivitalizzazione del passato. Poi nel campo figurativo ho iniziato dal bidimensionale, da tele invecchiate ad arte, poi al tridimensionale, fino ad arrivare a queste “scatole” che, per avvicinarmi ai vostri temi, posso dire che assomigliano a dei piccoli televisori. Ogni opera ha una storia, arriva da un viaggio, da un accumulo che può durare anni. Come funziona questo processo? Nei modi più impensati e inattesi. Per dire: quando ho inventato una collezione di insetti mimetizzati sulle tappezzerie, gli scampoli di queste antiche “carte da parati” li ho trovati, senza cercarli, nella case che ristrutturavo. Li ho letteralmente strappati dalle pareti. Io raccolgo cose che mi “chiamano”, come un rabdomante. Le prendo e le raccolgo, magari anni prima di utilizzarle. A casa ho decine e decine di scatole, tutte catalogate: minerali, gioielli, pezzi di legno e di ferro, rottami, insetti, incisioni, stoffe eccetera, che alimento in continuazione. Quando devo fare una nuova collezione per una mostra, non devo fare altro che aprire le mie scatole e comporre. Sarebbe faticosissimo e inutile se andassi a cercare ciò che manca. Il lavoro viene fatto con/da quello che c’è. Qui si nasconde un discorso esoterico che farò dopo. Mettiamo al centro della stanza (della conversazione, se preferisci) una delle tue scatole, vuota. Adesso prova a riempirla con gli influssi/i mondi che ti hanno portato al lavoro che fai oggi. La prima cosa che metterei è l’arte popolare, che mi ha sempre incantato. 215
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Illustrazioni e fotografie
Lrnz
ha realizzato i separatori
È una delle cinque firme dei Superamici, maestri del crimine acrobatico. Con loro razzia e dà alle fiamme villaggi di vergini. Le loro piratesche imprese riecheggiano per ogni dove e vengono appuntate dal noto storiografo TP sul loro gazzettino di guerra ufficiale, Hobby Comics, per l’editore/amazzone Grrrzetic. www.superamici.com
Ivan Hurricane ha realizzato le illustrazioni di Product
Ideatore e direttore irresponsabile delle riviste di fumetti PUCK! e The Artist, per le quali ha creato la serie autobiografica Groove, il personaggio Puck il Nano e Le avventure di Stanley lo sciacallo. Ha pubblicato su Rolling Stone, Maltese Narrazioni, XL, Lamette, Nixon, CollettivoMensa, Becco Giallo, Frigidaire e la fanzine francese My Way. Vive a Milano, dove sbarca il lunario. www.hurricaneivan.blogspot.com
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matteo “ufocinque” Capobianco ha realizzato le illustrazioni di Industry
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Durante gli studi in Design al Politecnico di Milano si avvicina al fenomeno della street-art. Fonde quindi il bagaglio tecnico pittorico con un approccio progettuale, legato alla ricerca del modo più adatto per comunicare i contenuti più che a uno stile personale. Dipinge aree abbandonate dove la forma/funzione è svanita, oltre a produrre quadri, illustrazioni e installazioni in carta ritagliata. www.flickr.com/ufocinque
Michele Gastl ha realizzato gli scatti esplosivi sulla Rep. Popolare Cinese
A otto anni riceve in regalo la prima macchina fotografica e da allora ha fatto un po’ di strada: ha cominciato a sperimentare in una cantina, poi ha avuto il suo studio a Milano, infine è andato per un po’ a New York per vedere che aria tirava. E c’era troppo vento. Dopo circa 30 anni la sua passione per la fotografia e i suoi esperimenti sugli oggetti continuano e si fanno via via più azzardati. Realizzare esplosioni con petardi, pistole ad aria compressa e martellate lo ha fatto divertire come fosse ancora bambino. www.michelegastl.com
Philip Giordano ha realizzato le illustrazioni di sights
Diplomato presso l’Istituto Europeo di Design di Torino, nel 2004 vince una borsa di studio per un master in Tecniche di animazione. Ha ricevuto premi e riconoscimenti in esposizioni internazionali, come il Salone del libro di Parigi (selezionato nel 2006, Prix des adultes e Prix des médiateurs nel 2008), la Fiera del libro di Bologna (2004), il Blue Book Group di Teheran (2009). Ha collaborato con Slow Food, Mondadori, Ferrero e le case editrici Zoolibri (Italia), Rue du monde (Francia), Epublic (Corea del sud). www.philip-giordano-pilipo.com
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Si ringrazia Luca Barcellona, per le preziose indicazioni tipografiche relative alla cover story, e Lucio Passerini, stampatore del carattere utilizzato nelle aperture.
Link idee per la televisione N.8
Che fare? la tv dopo la crisi Proprietà letteraria riservata · ©RTI ISBN 9788895596082 ISSN 1827-3963
direttore editoriale
Marco Paolini direttore
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Luca Barra si ringrazia per la collaborazione: Alessia Assasselli, Gabriella Mainardi, Massimo Beltrame, Paola Ruggeri, Andrea Bellavita. e-mail link2link@mediaset.it sito www.link.mediaset.it blog www.linkmagazine.blogspot.com link · rti Viale Europa, 48 20093 Cologno Monzese (MI)
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Marco Cendron progetto grafico Pomo impaginazione Alessandro I. Cavallini
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L’editore si dichiara disponibile a colmare eventuali omissioni relative a testi e illustrazioni degli aventi diritto che non sia stato possibile contattare. finito di stampare da tipografia negri · bologna · nel mese di ottobre 2009
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