2006 catalogo selvatico 2 orangotangotango

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francesco bocchini andrea salvatori raniero bittante verter turroni erich turroni mattia vernocchi

orangotangotango una mostra animista



francesco bocchini andrea salvatori raniero bittante verter turroni erich turroni mattia vernocchi

orangotangotango una mostra animista


comune di cotignola assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con primola la presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di selvatico rassegna di campagna sezione scultura in occasione della mostra orangotangotango – una mostra animista 8 – 23 aprile 2006 a cura di massimiliano fabbri francesco bocchini andrea salvatori raniero bittante palazzo sforza corso sforza, 21 cotignola ra verter turroni erich turroni mattia vernocchi palazzo fabio tarlazzi corso sforza, 48 cotignola ra le foto dei lavori di francesco bocchini e di erich turroni (pag 40-41) sono di dario lasagni progetto grafico e impaginazione: marilena benini finito di stampare nell’aprile 2006 da grafiche morandi fusignano


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orangotangotango una mostra animista

* palazzo sforza cantiere delle arti

francesco bocchini andrea salvatori raniero bittante verter turroni erich turroni mattia vernocchi


giovanni scardovi della fissitĂ , come incanto


Come la Medusa pietrificando, punisce chi la guarda in una immobile fissità, così la scultura si fa stasi del movimento, solidificando i corpi nella immobile fermezza della pietra. La scultura, è l’arte in cui l’occhio si tramuta nella percezione tattile della mano, è la ruvida carezza che va dal caos al cosmo, che trasforma il movimento in spazio e stanzia l’immobilità nell’aria, il pieno nel vuoto, il movimento nella fissità. Così questi corpi circondati dallo spazio tracciano sospesi la loro statica presenza e vivono l’avvento di una forma che nata da dentro abita il vuoto con esile pienezza. Quest’arte da ciechi che come dice l’indovino Tiresia cieco e veggente, fa percepire il mondo “a tastoni”, da corpo al pensiero come l’architetto da forma al progetto. Lo scultore è infatti il “costruttore di immobilità”, colui che celebra fissando la forma e i corpi, perché come dice Eraclito: “tutto scorre”, mentre come afferma Parmenide: “tutto è immobile”. Come le forze endogene ed esogene produssero le montagne, la mano dello scultore mossa dall’interiorità, produce le forme, forme che ancestralmente vivevano nei luoghi del sacro e della polis ed ora invece sono relegate alle cattedrali della contemporaneità dell’arte, ma spesso fuori dai luoghi del vivere urbano. O l’arte tornerà nei luoghi del vivere quotidiano o il suo essere unicamente relegata nei ghetti del museo e della galleria la renderà semplice intrattenimento, ma fuori dalla portata dell’esistenza e confinata alla circostanza di una visitazione cimiteriale. Così lo sguardo meduseo dello scultore pietrifica in un incantesimo la forma, oltre la finitudine, a memoria di una vita che passata traccia la proiezione di una possibile durata, durata che scavalca la morte in un’icona ancora parlante.


loretta zaganelli orangotango, maestro silente


“Maestro cerca allievo. Si richiede un sincero desiderio di salvare il mondo. Presentarsi di persona”. (da Ishmael, Daniel Quinn) Il tempo, come storia in-visibile nei reperti ricostruiti, è la prima cosa che rinveniamo in “Orangotango”, definita da M. Fabbri mostra animista perché gli oggetti esposti rievocano un passato denso di vitalità. Riscontriamo un tempo come entità, racchiuso in teche, un tempo in cui tutto e nulla può essere accaduto, e una memoria della storia del mondo e dell’uomo. Restiamo inquieti a chiederci se la memoria sia riferita direttamente al Museo e all’arte il cui mistero è racchiuso in stanze bianche e si mostra antropomorficamente sotto forma di fossili di teste umane. Gli altri oggetti esposti, parti di canoe, arnesi rudimentali per il lavoro, canestri di legno, sono gli strumenti rimasti (ricostruiti) di cui gli uomini primitivi devono essersi serviti per compiere azioni legate alla quotidianità. Rinveniamo anche ciotole vuote, probabilmente servite agli stessi uomini per nutrirsi, contenitori di cibo per la mente, oltre che per la sopravvivenza fisica e del pensiero, dove il pensiero diviene un filo proteso verso l’alto, verso altre vite, altri mondi e nuove soluzioni ipotetiche ai problemi relativi alla sussistenza. Ci colpisce la presenza di teste in assenza dei relativi corpi (R. Bittante, V. Turroni) e la frequente sepazione dei corpi dalle teste (A. Salvatori). I corpi senza testa dei gorilla, tagliati di netto in tanti pezzi, disposti a formare una gustosa decorazione, o la testa della donna che spunta da un oblò per chiedere aiuto. Le teste senza corpi di R. Bittante che sporgendo da muri fittizzi urlano e sussurrano dentro spazi silenti e vibranti di vento, sono piccolissimi busti ornamentali impazziti che sembrano inveire contro sé stessi e contro la loro condizione ibrida ed immobile. Già in passato (2002) V. Turroni ha esposto sculture che prevedevano la scomparsa delle teste, come il grande cono ottico a parete con una fessura per infilare lì dentro mente ed occhi per poter vedere un’altra realtà, o la grande struttura a forma di pedone di scacchiera, un gioco gigante per giocatori incapaci di muoverlo, ma in

grado di entrarvi dentro e, volendo, di scomparire al suo interno. Le teste nei musei, ricostruite e contenute in teche di vetro, o esposte su strutture bianche, sono invece simili a fossili rinvenuti da questi artisti archeologi. Possiamo aggirarci in luoghi bianchi in cui sembra siano passati flussi leggeri di vento a spostare lembi di tele sconvolgendo equilibri precari (R. Bittante), nei luoghi del Museo, vicini a quelli delle Wunderkammer di lamiera (F. Bocchini) o a quelli ricoperti di gesso e polveri bianche (V. Turroni). Questi ambienti ci riportano alla mente un percorso storico ricostruito in un CD interattivo. Se il presente è un enigma noioso e traumatico, gli artisti-archeologi si divertono qui a ricreare il passato nelle tre dimensioni (V. Turroni, R. Bittante, F. Bocchini). Dopo il post moderno e i suoi riproponimenti ci si chiede perplessi: “Che resta ora dell’arte se non un’idea astratta? La testa e il pensiero ad essa connesso”. Un pensiero che si manifesta in queste sedi sotto forma di teste antiche, contenitori vuoti/pieni dentro contenuti trasparenti. Nel 2005, V. Turroni ha esposto il corpo di un’elegante ragazza senza testa, racchiuso in una teca, che si mostrava come il simulacro dell’arte contemporanea: il corpo e la sua forma visibile, le sue vesti... il suo look. L’arte contemporanea si manifesta ormai da diverso tempo come la moda, looks like vogue. Appare sotto vestiti accattivanti... cosicchè la vera arte deve neccessariamente trasformarsi in altro, per non perire agli andirivieni del gusto di critici e guru impazziti. E “altro” in questa mostra assume le sembianze della storia degli esseri umani, degli animali vissuti prima della storia dell’uomo, delle nostre ossa, dei teschi e dei corpi dei nostri antenati, ricostruiti (E. Turroni). Cloneranno e modificheranno tutto... ci serve qualcosa per ricordarci come eravamo millenni fa e come siamo sotto le vestigia, sotto le fattezze ri-costruite, come siamo sotto la pelle e come dobbiamo vivere (Ishmael, D. Quinn)1. L’arte di questi artisti, come Ishmael, il gorilla saggio e muto del romanzo di


Quinn, chiede ascolto dentro i vuoti in cui i busti ed i fossili galleggiano come entità riesumate. È un’arte della ragione che in virtù della sua razionalità, ci chiede di osservare, ascoltare e riflettere sul senso delle cose che appartengono alla nostra memoria. Così gli uomini di vetroresina realizzati da E. Turroni, seduti a terra, o, verrebbe da osservare, quasi reclinati a quattro zampe, ci ricordano la nostra condizione ancestrale, il nostro essere (essere stati) animali, organismi in via di trasformazione, come tutte le altre specie presenti sulla terra, ma con la capacità di connetterci ad altre forme viventi, di comunicare dando aria, soffiando vita ad un grande cuore più grande di noi, (costruito in questo caso intrecciando 90 metri di filo bianco). Un altro uomo è piegato su un binario, in procinto di scattare, partire verso un’altra condizione, eppure, nel momento in cui, bambino, si erge sulle due gambe, ha già perso qualcosa: è senza braccia. Il progresso ci fa crescere, privandoci al contempo di altre capacità: per divenire esseri evoluti, c’è stato un prezzo molto alto da pagare e lo stiamo ancora scontando. Perdere le braccia significa demandare sempre più le nostre azioni alla nostra mente, alla nostra testa... saremo sempre meno esseri istintivi che si avvangono della propria manualità, sempre più uomini dell’intelletto, esseri cerebrali, servi di nostra madre cultura, (Ishmael, D. Quinn). R. Bittante è l’artista che, in quest’ambito, meglio esprime questa condizione. I suoi busti, spesso disposti in coppia, posti al di sopra di letti in cui sono visibili tracce di passaggi umani, si mostrano con bendaggi alla bocca o agli occhi. C’è un solipsismo2 ben espresso, un’incapacità a comunicare, pur essendo in coppia (o al massimo in tre) che rende indefinibile la condizione di questi esseri. Da questa condizione, deriva uno dei principi del solipsismo per cui “non è possibile derivare necessariamente un legame fra gli stati mentali ed il mondo fisico”. I busti di Bittante esprimono con la mimica le loro esperienze (unica facoltà con cui gli è dato farlo) ma, dentro le piccole teche di vetro, sembra che tutto rim-

balzi e si perda in un eco cosmica. Il cosmo si riduce a un ente limitato, una stanza orizzontale per la precisione, in cui i personaggi possono soltanto percepire sensazioni, più che viverle. Tra le riflessioni degli artisti-allievi del gorilla, scelti da Massimiliano Fabbri per “Orangotango”, una delle più frequenti va alla semplicità degli oggetti in uso prima che la storia di nostra “Madre Cultura” (D. Quinn) ci coinvolgesse in un viaggio senza tregua verso il progresso e la civilizzazione dei popoli considerati ancora incivili. Incontriamo molte volte oggetti di Terra (M. Vernocchi) e Ferro (F. Bocchini). La Terra è qui sentita come materia di creazione primigenia. È ciò che resta di ognuno di noi alla fine del viaggio. Con la terra i nostri antenati hanno dato vita ai primi oggetti utili come ciotole, che Verter Turroni ripropone esili, basse e tinte d’azzurro, quasi contenitori per piogge di lacrime che da sempre versiamo sulla terra con cui ricopriamo le nostre bare, i nostri letti dei pensieri. Quelli in ferro di Vernocchi sono letti in cui non si può dormire agevolmente perché non favorirebbero di certo i nostri sonni. Realizzati con strutture instabili e ondulate, sono letti per ideologie utopiche come la libertà. Pressati dal basso con la terra, che spunta prepotente dalle fessura delle reti, e prende ogni volta forme e colori diversi come la vita dei tanti microorganismi esistenti. Sono i letti delle meduse, esseri primitivi che non detengono la conoscenza degli Dei (D. Quinn). Se il letto è una delle prime supellettili realizzate dall’uomo, con la lamiera di ferro Bocchini ripropone piccole ciabattine poi dipinte ad olio con colori neutri e tenui. Titolo di quest’opera è Il ciabattino candido, con un rimando diretto a colui che fa e produce scarpe per l’uomo comune. Il titolo, scritto in tedesco, parla dell’artefice delle scarpe (l’artista), e l’opera, con i numeri in progressione posti sulle scarpe, ci riporta a un passato recente, lo stesso che ha dato un numero alle calzature dei possessori mai ritrovati nei campi di concentramento. Un’altra assenza caratterizza quest’installazione. Dove mancavano le teste, quì mancano i corpi. Non ci restano che segni e numeri a testimoniare un’altra parte della nostra storia, una delle più terribili. L’idea di portare il Museo di storia dentro la galleria d’arte, equi-


vale a rinchiudere il nostro tempo negli spazi asettici, puliti e ordinati dell’arte, gli spazi del cristallo e della perfezione (Calvino). Chiudere la storia della vita umana dentro i contenitori dell’arte e dentro il vetro trasparente, in modo che non passi aria e non si sentano rumori di fondo né intrusioni dall’esterno è un atto di protezione verso i nostri antenati lontani (e meno lontani) e sconosciuti, verso le nostre radici. Non possiamo salvare noi stessi dal progresso inarrestabile e dalle conseguenze che ci condurranno alla distruzione e alla morte del sistema, ma possiamo salvare la memoria di quanti hanno vissuto prima di noi, così come possiamo ipotizzare una storia diversa per il nuovo corso/destino dell’umanità. Nelle Wunderkammer3 gli armadi in cui collezionisti ed artisti raccolgono oggetti strani e introvabili da secoli, troviamo altri reperti, oggetti strani, parti di piccoli uomini (gambe rinchiuse in pantaloni), strette ascie, martelli e ancora reperti di un presente già passato, forse cancellato per forza di cose da un hard disc impazzito. Anche nelle Wunderkammer le cose sono ricostruite e appaiono finte, bianche, placcate di gesso e polvere. In mezzo ai reperti ci è dato saltuariamente scorgere l’artista, piccolo oggetto tra gli altri oggetti (V. Turroni)... che può mai essere l’artista oggi se non una parte del tutto, mimetizzata tra le sue stesse raccolte ricostruite? Siamo in presenza di un revival neo-primitivista (ma classicista, da cui derivano l’ordine e la precisione) che rievoca un senso della vita e della morte ancestrale.

Qui niente è lasciato al caso: in questo contesto non c’è improvvisazione ma solo iperdefinizione. Come in alcune opere di Damien Hirst, (I Want You Because I Can’t Have You, 1992), spesso le cose appaiono / o sembrano esposte, in un sottovuoto compresso (R. Bittante, V. Turroni). Non ci è dato toccarle o potremmo restare contaminati dal senso di morte che le circonda. Altri “giochi” sono le statuine antiche di Andrea Salvatori che diventano protagoniste assolute di drammi splatter/comico/esistenziali imprevisti. Il gioco consiste nel far fare ai soggetti quel che si preferisce: solo l’artista può farlo e per agire gli bastano quei soggetti borghesi trovati negli scaffali delle nonne e delle zie e alcuni giochini di plastica, gli orangotango, appunto. Dissanguati dai colpi d’ascia della damina, fatti letteralmente a pezzi, assemblati con estremo ordine e senso decorativo, tanto che dall’alto potremmo scorgere composizioni naturali simili a margherite, fiori di sangue e lacrime teatrali di plastica, ci costringono a pensare che questa potrebbe essere una delle ultime vendette di Eva, la natura viva cui per troppo tempo è stato attribuito il peccato dell’innocente Adamo, inconsapevole (lui). Ed è ancora A. Salvatori a rendere protagonista una piccolissima donna che sembra chiedere aiuto dall’oblò di un Titanic. Sorge un dubbio: chi correrà a salvarla, ora che gli orangotango sono tutti defunti? Il gorilla Ishmael avrebbe così commentato: “Con la scomparsa del Gorilla, l’uomo avrà qualche speranza?” (D.Quinn)

1 Daniel Quinn, Ishmael, (edizione italiana). Edizione originale: Tales of Adam, Edizioni Hardcover, Michael Mccurdy (Illustrator), 1992. 2 Solipsismo: (dal latino solus (solo) e ipse (stesso), ossia “solo se stesso”) è la credenza metafisica che l’esistenza in quanto tale sia solo parte degli stati mentali dell’individuo stesso, in altri termini: tutto ciò che esiste è creato dalla (o è parte della) mia coscienza. 3 Wunderkammer (Camera delle meraviglie), termine tedesco per “camera delle meraviglie”, raccolta che, in particolare nel sec. XVI, principi, uomini di scienza e di cultura riunivano per illustrare, secondo una concezione enciclopedica e di classificazione medievale di naturalia.


cristiano cavina i muscoli segreti


La prima volta che ho visto un’opera d’arte dal vivo, è stato a Vienna. Ero in gita con la scuola. Allora frequentavo la quinta elettrotecnica, all’ITIS di Imola. Era una scultura di Picasso che raffigurava una donna mezza sdraiata che cercava di rialzarsi da terra. Aveva una posa quasi da sirenetta. Avevo diciott’anni e nella mia innocenza fino ad allora avevo pensato che Picasso si limitasse a disegnare quadri. Sapevo che era pittore, non scultore. Era tutto ciò che sapevo su di lui. Mi incuriosì molto il fatto che si cimentasse anche con la scultura, così come mi avrebbe incuriosito il fatto che Platinì, chennesò, avesse lasciato per un anno il calcio per tentare fortuna nella pallacanestro. Avevo un concetto dell’arte molto settoriale, a quei tempi. Facevo l’Istituto Tecnico, del resto, e non è che di arte ne girasse così tanta, là dentro. Ma quella statua di Picasso a Vienna fu una sorpresa. L’unico problema furono gli austriaci. Erano e sono persone come si deve, di una profonda innocenza. Eravamo in gita da tre giorni, e non avevamo mai pagato una corsa della metropolitana. E nemmeno dell’autobus, se è per quello. Non c’erano barriere come in Italia, e presupponevano che tutti si sarebbero muniti di biglietto. Contavano sulla civiltà della gente. Per noi italiani era un paradiso. Così, anche nel museo non c’erano barriere davanti alle opere d’arte esposte e io mi ritrovai a gravitare sempre più vicino alla statua di Picasso. Sapere che le sue mani l’avevano plasmata esercitava su di me un fascino irresistibile. Ma non era solo quello. La posa della statua, quel tentare di rimettersi in piedi, aveva toccato profondamente qualche nervo sconosciuto dentro di me. Sembrava che mi spiegasse qualcosa. Come poteva sapere Picasso della fatica che facevo ogni giorno a frequentare una scuola che non mi piaceva per niente? Dopo ogni pomeriggio passato a lavorare sui torni, o a intrecciare cavi elettrici, io mi sentivo così. A terra. E rialzarsi ogni volta era una pena. Allungai tutte le mani e la toccai. Credevo che sarebbe bastato a spiegarmi quel mistero. Ne seguii la forma, come cercandone gli atomi della pelle di Picasso sulla superficie spigolosa. La prima volta che vidi un’opera d’arte dal vivo, riuscì anche a toccarla. E a farmi buttare fuori dal Museo, ovviamente.

Perché gli austriaci erano e sono di buon cuore, ma anche a loro da un po’ fastidio farsi prendere per i fondelli. Avevo la statua tra le mani da un paio di secondi che tutto il Museo incominciò a squillare come una caserma dei pompieri. Quattro braccia mi sollevarono di peso, mi rigirarono come un burattino, e dopo una specie di rincorsa lungo le scale mi lanciarono sul marciapiede. Fu una grande lezione, per me. Capii che le opere d’arte non si possono toccare. E non solo perché c’è sempre qualcuno che poi ti lancia sul marciapiede. Non si possono toccare perché agiscono su muscoli segreti del cervello e del cuore, lontano anni luce dai polpastrelli. Da quel giorno ho visto molti altri musei, molte mostre e tante opere d’arte. Ho sempre cercato di avvicinarmi a loro con lo spirito del ragazzo in gita che frequentava malinconicamente l’Itis a Imola. Cercando quella irresistibile forza di gravità. Gli anni sono passati, mi sono diplomato, e la mia vita ha preso una strada completamente diversa da quella si presume debba percorrere un perito elettrotecnico. Ma mi consola constatare che ogni volta che mi trovo di fronte all’opera di uno scultore o di un pittore, mi viene da allungare le mani. Allora, prima che gli addetti alla sicurezza mi scaraventassero sul marciapiede, ero rimasto ipnotizzato dalla forza che Picasso aveva messo in quella piccola statua di una donna che cerca di rialzarsi. La smorfia di fatica del volto, la tensione delle braccia, la testa piegata in basso; tutto aveva agito su quei muscoli segreti del mio cuore e del mio cervello. Ero rimasto meravigliato dalla passione con cui un artista morto da tempo aveva cercato di raccontarmi qualcosa. Ora, gli artisti di questa mostra sono tutti vivi e vegeti. Per fortuna. Ho visto le loro opere. Io non sono un critico, e nemmeno voglio esserlo. Sono soltanto un ex studente di elettrotecnica. E quello che posso dire, senza ombra di dubbio, è che ho riconosciuto in loro quella passione di raccontare. Di cercare di raccontare qualcosa. Senza parole, e con i materiali più diversi. Anche loro cercano la strada per quei muscoli segreti, e questo basta. Quando verrò a Cotignola, cercherò come ogni volta di allungare le mani furtivamente. Spero solo che abbiano marciapiedi più morbidi di Vienna.


francesco bocchini


prolet-kult, 2005, olio, smalto sintetico, istallazione a parete, cm 240 X 130



der unschuldig schuhflicker (il ciabattino candido), 2005, olio su lamiera di ferro, istallazione composta da 45 elementi, cm 400 X 190 X p. 38




andrea salvatori


senza titolo, 2005, terraglia invetriata e porcellana, ∅ cm 130 h cm 24


senza titolo, 2005, terraglia invetriata e porcellana, ∅ cm 80 h cm 15


senza titolo, 2005, terraglia invetriata e porcellana, cm 80 X 50 X h cm 60



senza titolo (the blob), 2005, terraglia invetriata e porcellana, cm 58 X 58 X h cm 46


raniero bittante


(nessun corpo nessun calore) corridoio, 2004, incisione, gesso, cm 14,5 X 68 X 12



(nessun corpo nessun calore) letti, 2004-2006, incisione, gesso, cm 20 X 32 X12


(nessun corpo nessun calore) letti, 2004-2006, incisione, gesso, cm 20 X 32 X12


(nessun corpo nessun calore) letti, 2004-2006, incisione, gesso, cm 20 X 32 X12


verter turroni


senza, 2006, vetroresina e legno, h 220 cm w 80 cm l 160 cm


green, 2006, vetroresina dipinta, h 347 cm w 40 cm l 85 cm


tracce, 2005, vetroresina, h 35 cm w 33 cm l 350 cm


tracce (particolare), 2005, resina e legno, h 45 cm w 35 cm l 800 cm


tracce, 2005, resina e legno, h 25 cm w. 200 cm l. 200 cm


erich turroni


senza titolo, 2005, tecnica mista su resina, cm 29,7x42


senza titolo, 2006, vetroresina e lamiera zincata, h 78 cm w 76 cm l 350 cm


senza titolo, 2006, vetroresina e pigmenti, h 26 cm w 200 cm l 35 cm


senza titolo, 2005, vetroresina – tubi in plastica, h 300 cm w 200 cm l 574 cm



mattia vernocchi


indormiendo, 2005, terracotta smaltata e ferro, cm 190 X 80 X h 80


dormizio, 2005, terracotta smaltata e ferro, cm 190 X 80 X h 120


rosa è la pelle che non hai, 2006, terracotta smaltata e ferro, cm 190 X 160 X h 15


qualcheroe, 2005, terracotta smaltata e ferro, cm 190 X 160 X h 20


pulsar, 2005, terracotta smaltata e ferro, cm 190 X 200 X h 40




* palazzo sforza cantiere delle arti

comune di cotignola assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con primola

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