2007 selvatico 4 luoghipersonecose

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comuni di cotignola lugo e fusignano assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola la presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di selvatico rassegna di campagna sezione pittura/fotografia in occasione della mostra luoghipersonecose 25 marzo – 15 aprile 2007 a cura di massimiliano fabbri e paolo trioschi, progetto grafico e impaginazione: marilena benini finito di stampare nel marzo 2007 da grafiche morandi fusignano crediti fotografici: le foto per franco pozzi, lucia baldini, massimo pulini, massimiliano fabbri, fabiana guerrini e paolo buzzi sono di daniele casadio, per silvano d’ambrosio di giorgio liverani e giorgio sabatini, per piero dosi di roberto cornacchia, per francesco izzo di vincenzo izzo, per benedetto di francesco di carlo de santis.


* luoghi cotignola ra, palazzo sforza, corso sforza, 21

franco pozzi, giovanni lombardini, federico guerri, vittorio d’augusta, silvano d’ambrosio, nedo merendi, lucia baldini, cesare baracca, gloria salvatori, luca piovaccari.

persone lugo ra, pescherie della rocca piazza garibaldi, 1

andrea saltini, roberto coda zabetta, nicola samorĂŹ, stefania vecchi, massimo pulini, massimiliano fabbri, mauro santini, angela maltoni, fabiana guerrini, piero dosi.

chiara pergola, jairo valdati, paolo buzzi, patrizia piccino, francesco manenti, francesco izzo, mauro bendandi, giovanni zaffagnini, cesare fabbri, andrea guastavino, alberto zamboni, benedetto di francesco, fabio bardelli.

* palazzo sforza cantiere delle arti

cose fusignano ra, museo civico s.rocco, via monti, 5



il paesaggio viene prima dei corpi

poi i corpi attraversano gli spazi e dall’incontro di luoghi e persone nascono le storie

le cose trattengono frammenti di queste storie


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Da Lugo crea a Selvatico 4 Nel lontano 1990 la prima edizione di “Lugo crea” rese visibile quanta creatività esprimesse il territorio locale, riunendo artisti, per lo più giovani, che, nonostante la varietà eterogenea dei linguaggi sperimentati e le esperienze personali, avevano finalmente la possibilità di ritrovarsi insieme, di conoscersi e di confrontarsi. Da allora altre occasioni si sono presentate e “Selvatico” deve essere considerato non tanto un punto di approdo, una conclusione, ma un semplice snodo che si innesta lungo un filo rosso ideale e soprattutto su quel sostegno sotterraneo costituito dal territorio, non inteso come un dato geografico di delimitazione, quanto un soggetto attivo che sa stimolare, coagulare e conservare fermenti creativi. “Selvatico” nel momento in cui si autodefinisce rassegna di campagna, smentisce di essere una rassegna ma non rinuncia ad essere di campagna, per marcarne la fertilità e al tempo stesso l’identità che la metta al riparo da equivoci strapaesani e velleità provincialistiche. Campagna non vuol dire Romagna ma orizzonte che spazia e si apre fin dove l’occhio si perde, ma allo stesso tempo si ancora stabilmente, tanto che sprigiona energie per poi trattenerle e non disperderle. Così, gli spazi fisici che ospitano le manifestazioni, dislocati in varie parti del circondario,

per l’occasione Cotignola, Lugo e Fusignano ma potrebbero indifferentemente essere altri, non sono semplici contenitori ma nuclei vitali che non consentono che l’evento occasionale si esaurisca in sé, in quanto sanno attivare forme e possibilità di coinvolgimento di artisti, critici, appassionati, pubblico e collezionisti, questi ultimi non animati da spirito speculativo, ma dall’esigenza di sentirsi parte integrante del sistema dell’arte che emana dal territorio appunto. Così il territorio diventa un panorama di soggettività e si fa tradizione, ovvero continuità. Questa prospettiva appare alquanto lontana dalla concezione del territorio che ha sostenuto le mostre in rete che per alcuni anni sono state proposte lungo i luoghi deputati della Via Emilia, da Bologna a Rimini. Pensate e progettate altrove, in sé momenti significativi di verifica dello stato dell’arte, non hanno lasciato tracce al di là dei cataloghi che ne attestano la memoria. Però la memoria autentica è quella che produce continuità e che, pertanto, non è semplice testimonianza, ma attualità e presenza o, per riprendere Agostino, estensione temporale della coscienza.

Aldo Savini


luoghi cotignola palazzo sforza


L’eterna mutevolezza del luogo e di quel colore La Terra è l’elemento arcaico-primordiale da cui ha origine la vita e in cui la vita, come suo luogo, cessando, diviene, a mio avviso, pur sempre vita in altro, trasformandosi e adattandosi a quel ciclo perenne di nascita e morte che la natura contempla. Il luogo è, nel geografico, nel mistico e nell’immaginifico, l’’essenza’ primigenia naturale con la quale gli antichi ebbero, da subito, a confrontarsi (1). Nella poetica del sublime, la natura è il primo importante gradino verso l’elevata sfera del pensiero. Ciò che noi vediamo non è, quindi, che un frammento di un’immagine di un qualche cosa di più grande e straordinario (2). Ogni immagine induce a razionalizzare gli elementi che la compongono, per condurci a una riflessione di enorme intensità e accende qualsiasi possibile proiezione per avvicinarci al mondo anche del sogno, dell’infinito, quindi dell’oltre il razionale (3 e 4). Affermato questo, attraverso le immagini rappresentate, la pittura e la fotografia diventano idee comunicative che possono aiutarci a comprendere ogni nostra emozione e, soprattutto, il “dove siamo” (in quell’attimo temporal-esistenziale) (5 e 6). In tal senso la rappresentazione artistica della natura, nel suo macro o nel suo micro, acquista un significato concettuale di primaria importanza, diventando, per ennesima dilatazione, il luogo ideale (e ancora il luogo si determina, o determina, per conclamarsi) nel quale e al quale poter adattare il nostro essere, così come nel quale riporre i nostri sentimenti più profondi. Che cosa è infatti un luogo se non uno spazio idealmente immaginato, se non visionario? Rappresentato in studio o dipinto “en plein air”, raffigurante scorci oppure vastità luminose, sancendosi tramite una zoomata o un’indagine introspettiva o, anche, scientificamente fisiologicocellulare, il luogo del rappresentato quasi sempre identifica più una dimensione interiore e intellettuale, che una semplice riproduzione del vero e del reale, così come spesso è intriso, se non distorto, da velature poetiche e sinergie cromatiche o modulari che l’artista ha spiritualmente intuito e riprodotto

(7). Quindi ogni artista dipinge o fotografa un proprio luogo ideale, trasformandolo secondo la propria sfera conoscitiva, sociale, mistica, emozionale, afferrando i silenzi, le luci, i riflessi, in un turbinio di colori e valori compositivi che infine ne vanno a definire lo stile e la caratura. Detto questo, a partire dall’affermarsi dell’arte moderna, ogni aspetto dell’opera non è più lasciato al caso. È infatti grazie a termini come classico e romantico che si forma una teoria dell’arte quale filosofia estetica, a cui prima non si era data alcuna parvenza di rathio. L’arte, così, si fonde con il pensiero filosofico-scientifico (8), si adegua a esso, insieme alla praticità e alle problematiche della vita contemporanea; quindi non è più solo rappresentazione di ideali collettivi, religiosi o morali, bensì un sistema di relazioni personali, coordinate dal vivere sociale e individuale. Infatti, dalla Rivoluzione Francese in poi, gli artisti iniziano ad affermare una totale autonomia intellettuale, cercando di appartenere pienamente al proprio tempo. Cambia, perciò, la figura dell’artista, che trasmette, attraverso le immagini e la storia forgiata dalla propria cultura, il significato del luoghi, delle figure e delle “cose” in essi, spesso facendoli diventare altro, introducendo, appunto e concettualmente, la ‘scala’ del significante. In tal modo trovano terreno fertile quei linguaggi espressivi che evidenziano una realtà in progresso; un lento movimento puntato al futuro, verso un’attualità irreversibilmente mutante e mai definibile per intero. In effetti l’artista moderno non ricalca passivamente, ma crea, anche solo riferendosi alla rappresentazione spesso idealizzata della natura, un quid rapportabile al Sé, per poi donarlo all’intero, a un intero, e lo ribadisco, sempre in metamorfosi. E questo rapporto tra dimensione umana e natura fa nascere la coscienza moderna dell’estetica, che nella storia dell’arte ha consentito di sviluppare nuove correnti in continua evoluzione. Ed è proprio la natura, e quel suo luogo, inteso come mondo circostante e/o cuore del Sé, la prima a essere analizzata ed esplorata, secondo schemi innovativi. Tale analisi comportamentale la si esegue innanzitutto per mezzo della raffigurazione di un


paesaggio, e non solo a livello artistico, ma anche architettonico e urbanistico. L’artista si rende padrone del proprio spazio, tentando di armonizzarlo secondo il suo stato d’animo. Così il paesaggio-luogo inizia a includere le metropoli, e quelle varianti anche tragiche, che, via via, prendono il posto di giardini e boschi incontaminati (9). La natura rimane, comunque, prima fonte inesauribile degli studi estetici riguardanti il luogo o “il paesaggio del Sé” (come lo definiva Arcangeli); quel mondo attraverso il quale l’artista riesce a rendere la folgorazione poetica rappresentando la realtà anche fantasticamente. L’arte in generale e, in particolare, la pittura e la fotografia entrano, in tal modo, in relazione con l’ambiente naturale tramite riferimenti che possono essere immediatamente riconoscibili, oppure simbolicamente riconducibili a un io collettivo che va oltre il singolo come il reale. La pittura di paesaggio o luogo riaccende, nell’odierno, il rapporto psicologico tra uomo e mondo, testimoniando una sostanziale unità d’ispirazione. La nozione di paesaggio, come possibilità di sancire un luogo (uno spazio) e, in definitiva, il paesaggio stesso nascono, proprio, nel momento in cui crolla il sistema aristotelico-tolemaico sotto i colpi della rivoluzione scientifica. In sostanza il paesaggio, come definizione di un luogo, e lo ripeto, si afferma nel momento in cui si apre l’orizzonte al divenire come unica realtà, lasciandosi alle spalle la staticità di un assoluto (categoria ormai unicamente riconducibile a un ‘profetismo’ divino). Prima era sufficiente definire l’idea che sottendeva un luogo per rappresentarlo, nell’ ‘800 e nel ‘900 per capire il momento creativo si è reso necessario definire (in ogni aspetto) il luogo, tratteggiarlo nel suo evolversi, quindi consegnarlo alla mutazione, per ricavarne un’idea più veritiera (o anche solo una sensazione di fatto). Quindi il paesaggio nasce essenzialmente come una rappresentazione pura della realtà ‘diveniente’, possibile solo dopo l’abbattimento falsamente monolitico della visione del mondo aristotelico-medioevale. In sostanza, il divenire, e la sua rappresentazione, è concepibile solo in rapporto all’Essere e solo in questa relazione è rappresentabile. Ad esempio Andy Warhol riprese l’Empire State per otto ore di seguito, e ne

fece provocatoriamente un film. Come in altri suoi film vide la necessità di eliminarsi come soggetto (e di eliminare, di fatto, una rappresentazione plausibile, e dunque anche il suo percettore) per definire un divenire, dimostrando in tal modo, seppure per assurdo, l’impossibilità di una rappresentazione sensata della trasformazione in sé, priva di nessi di lettura, e dunque di logos, sia pure in traccia. Ecco perché mi sento di sostenere che il luogo descritto non è tanto indicato dai riferimenti geografici o dagli elementi che lo costituiscono (pur sempre sottoposti alla corruzione dei secoli), ma la sua rappresentazione più alta, sia pure sotto forma di precetto, si concretizza dall’idea che ne deriva e che, appunto, prende consistenza nella nostra mente a prescindere da ogni riferimento materiale (10). In tal modo il paesaggio come luogo del Sé e del pensiero rivela, nel vivo, la contraddizione di una epistéme non metafisica, e nasce come massima forma di oggettività (come possibile oggettività collettiva) del mutabile, inteso, quest’ultimo, come unica possibilità di ‘sentirsi’ a noi concessa, quindi senza mai dimenticare che è cangiante nel tempo, come nel soggettivo (quello di colui che lo rappresenta, come quello di colui che lo percepisce). Quindi ritengo mistificatorio pensare che il luogo esista come “cosa in sé”, e che ogni sua rappresentazione sia rappresentazione, sia pur parziale, di quella “cosa”, piuttosto ci sono elementi che esistono in senso pieno, come “essere”, non come parte, in modo che usiamo la loro rappresentazione per affermare la nostra volontà di rappresentazione del mondo. Ecco come esiste una totale identità fra essere e rappresentazione, perché la rappresentazione significa qualcosa che È, seppure eternamente in divenire, pur non esaurendo, mai, il significato di ciò che è in tale mutevolezza, ma ritagliandone alcuni aspetti nell’attimo in cui si decide di fermare il rappresentato. La scissione tra ciò che appare (e viene rappresentato - cioè il “fenomeno”) e l’essenza del luogo in sé è quindi fasulla, perché porta ad antinomie irrisolvibili che esulano il discorso dall’artistico, scadendo nello speculativo più becero-banale. L’ “essere nel luogo” è quindi da considerarsi nel senso pieno che ciò sancisce, e si manifesta nella sua totalità e in


un infinito presente, di cui rimane traccia nelle rappresentazioni parziali che noi diamo di esso. Così facendo, nel nostro stesso operare sulle cose che sono (o che divengono dall’immaginato), lavoreremo secondo il senso dell’essere nella sua manifestazione diveniente, e non secondo una sempre più distante e insensata ‘solidità-staticità’ di rapporto. È infine la sfumatura che sfugge quella che c’interessa, più che il tentativo (sempre vano) di sancire un colore o un luogo (colore e luogo, come ho detto sopra, perennemente in cambiamento-mutazione, quindi mai raggiungibili nella loro interezza, se non elettivamente-miticamente-religiosamente). 1) Lucia Baldini. Alla radice della ricerca pittorica che da alcuni anni la Baldini ha intrapreso troviamo l’esperienza di un’artista che ha seguito con intelligenza le vicende culturali dell’arte contemporanea, estrapolandone certe funzionalità formali, seppure la sua trattazione soggettistica affondi, sempre e comunque, nella nostra più antica e poetica tradizione padana. Con uno stile riconoscibilissimo, coltivato nell’intensa partecipazione al mondo circostante, Lucia, animata da esperienze di un postimpressionismo rivissuto con lievi intensità cromaticamente calde, congiunge nelle sue opere la dissolvenza coloristica alla linea segnica, resa pastosa e affabulatoria dalla tecnica a sfumato. Il paesaggio, tema a lei caro, spesso invaso da una luce pulviscolare, descritto con forme sintetiche, diviene rappresentazione onirica tra sogno e immaginazione. L’occhio lo accarezza, come fosse il corpo di un amante. Da quello sguardo scaturisce una sorta di enfasi lirica, estrema, che mai tradisce impazienza, ma desiderio di porsi e di contemplare. Oltremodo spirituale è quindi l’atmosfera, a tratti velata, a tratti più incisiva. Quel dove che diviene riparo dai luoghi comuni e da certe espressioni figlie di un’inciviltà dilagante. Decoroso è il silenzio che i quadri della Baldini emanano; un silenzio sfiorato dall’acqua, dal vento, da quelle curve, dal dirsi detentori di un segreto da condividersi con quei pochi affetti. Quel segreto che invoglia al concedersi all’abbandono. Ultimamente ha applicato la sua poetica anche a nuovi materiali, come seta e stoffe, sulle quali interviene ricamando (nel vero senso della parola) le

vedute che tali tessuti le rimandano in trasparenza. L’azione diviene così più concettuale, seppure la componente emozionale, in cui la passione comunque divampa, resta immutata. Oltremodo interessante questa sorta di ‘visione’ del luogo in velatura ‘fisica’, in cui uno schermo trasparente si frappone, prendendo il posto dell’andare del pennello, tra fruitore e spazio, divenendo filtro scenico di un disegno che suggestivamente si trova a fluttuare nell’aria. 2) Nedo Merendi. Non è un mistero che fra le tante immagini di paesaggio che Merendi ha magistralmente dipinto negli anni, egli abbia esplicitamente dato la propria preferenza a quello romagnolo di pianura, ma sarebbe certo una sciocchezza, o comunque un’ingenuità colossale, pensare che tutto questo sia avvenuto per pure ragioni di nascita e, dunque, di attaccamento amoroso e viscerale alla propria terra. I motivi sono altri e ben più rilevanti, primo fa tutti c’è il grande fascino dell’assenza e del vuoto che il nostro territorio sa esercitare. Come Nedo stesso mi ha detto: “Nel paesaggio della Bassa Romagna non vi è nessun elemento spettacolare o inconsueto che si renda quale appiglio, per cui il vuoto spinge necessariamente a privilegiare il come impostare l’avvicinamento alle ‘cose’, rispetto alle ‘cose’ stesse, le quali, appunto, risultano come assenti”. Se la maniera più banale di fare pittura è quella che ci porta a rappresentare ciò che si ritiene degno d’essere fermato su tela, Merendi ha saputo ribaltarla, con grande finezza, proprio a partire dalla scelta apparentemente impossibile e insignificante di ritrarre l’assenza, quindi la piattezza, infinita e disarmante, poi il vuoto ripetitivo di un quotidiano, seppur vissuto con dignità e partecipazione. Ma c’è un altro motivo che, a mio avviso, può spiegare la preferenza di Nedo per questo tipo di rappresentazione, un sentimento che, se vogliamo, può anche recuperare l’istanza originaria, senza però farne vessillo. Se, per dirla con Giovanni Pascoli, la condizione ideale del poeta è quella del “fanciullo” che si rivolge al mondo col gusto della “prima volta”, Merendi, ‘fotografando’ di continuo la sua terra, quelle case, quei fossi, quelle ‘macchie’, ha operato la scelta più difficile, cioè quella del ricercare lo sguardo nuovo


e stupito dell’adulto, o, meglio, dello straniero, là dove per lui è certamente più difficile trovarlo. 3) Franco Pozzi. La base delle sue opere sono in gommalacca e anilina su lastra, cioè un’emulsione sensibile come la carta fotografica; una superficie che Pozzi trasforma con colori pacati o con verdi lividi in paesaggi interiori, in luoghi dell’anima. Dall’arte antica Franco ha colto suoni che custodisce e alimenta in appartato pudore, fino a dissolvere le sue resine in psichedeliche colate. Luoghi ‘astratti’, quindi, tra biologia e scienza della dilatazione metafisica. A tal proposito scriveva Clyfford Still, guru americano dell’espressionismo astratto: “Era un cammino che si doveva percorrere, diritti e soli, così da pervenire, alfine, all’aria pura, per soffermarsi ai bordi d’una pianura alta e senza limiti. L’immaginazione, liberata dalle catene della paura e della legge, diventava allora un unico con la visione. E l’atto, intrinseco e assoluto, era il suo significato, e il portatore della sua passione”. Pozzi elabora, così, un linguaggio che risente dell’impostazione intellettualistica e quasi ascetica di maestri come Rothko, Gorky, Motherwell, Francis, con vaghi riflessi romantici, derivati, probabilmente, dal conoscere l’opera di Augustus Vincent Tack. Egli concepisce l’arte come esaltazione, come mezzo per attingere al sublime universale. Questa la sua risposta, questa la soluzione che egli propone per affrontare il problema dell’isolamento dell’artista rispetto alla vita; un dire che si concretizza in opere che mai raggiungono il grande formato, collocate in installazione, dove, attraverso una gestualità trattenuta e razionalmente controllata, egli realizza forme ad andamento circolare, simili a isole che poi vanno a creare arcipelaghi-costellazioni. Una sorta di codice a colori di una mappa ad effetto nuvola, con più o meno evidenti richiami formali, a cercare, nell’osservatore, una contenuta risposta empatica: per sottolineare una dichiarata presa di distanza da ogni eccesso emotivo.

sionari, del terrore più arcano e arcaico. Così D’Ambrosio agita quadri che raccolgono voci riverberate, trasformandoli in tasselli psicologici aventi una tensione a momenti totale, vissuta nell’oltreumano e nel paralizzante. Da ‘allucinato’ alchimista, indaga una sacralità dell’immagine che profuma di zolfo e piombo. Per questo la lontananza dalla fragilità e dalla leggerezza, che è propria a molta arte contemporanea. Ed ecco, appunto, il tragico, come più volte ha tirato in ballo, scrivendo di lui, l’amico Claudio Spadoni; quel tragico che s’insinua. che s’innesta tra ombre di piante, colline, forre, architetture, piazze, monumenti, simboli da cui sgorga liquido nero, brace combusta, memento mori. Silvano, anche pittore di un’eleganza formale ricercatissima e di un cromatismo vivido, quando si abbandona al descrivere lo spazio aperto non riesce a fare a meno di ricorrere al lato oscuro che in ognuno di noi vive. Recita Cèline nel suo “Viaggio al termine della notte”: “Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente dritta. New York è una città in piedi. Ne avevamo già viste noi di città, sicuro, e anche belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi in Europa, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella, l’americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente stravaccata, rigida da far paura. Ne abbiamo dunque riso come dei balenghi”. Sarcastico è anche Silvano, che sta fra il mordersi le labbra con rabbia e lo sberleffo sardonico. Pugnalate i suoi alberi, piegati dagli uragani, e fuochi d’incendi i suoi occhi, nel patimento consapevole, dovuto a una dissoluzione verso il grigio.

5) Luca Piovaccari. Fotografo di eccelsa struttura architettonica, Piovaccari c’ingabbia in una sua possibile lettura del vissuto, schermando ogni scatto, elaborando ogni dimensione del fermato, ponendolo in un contesto ‘freddo’, direi nordico, che lo esula dalla testimonianza, dal narrare, dal documentare, dal cronicizzate, quindi dalla facile fruizione. 4) Silvano D’Ambrosio. Quelli di Silvano sono i luoghi del- Egli, in tal modo, non permette che il nostro sguardo possa l’abisso, dei cunicoli sotterranei del mistero, degl’incubi cupi indugiare più di tanto sul soggetto, trasformando la poesia che precedono o seguono una battaglia, dei turbamenti vi- in concetto e la profondità in speculazione intellettuale, così


che non si giunga, mai, al fidarsi dell’immagine in sé, ma ci si lasci a quella dialettica verso la quale l’immagine stessa ci trasporta. L’opera, infine, viene trapassata dal ragionamento su di essa. Luca vuole che noi la si ‘fori’ col cervello. polverizzando il reale in funzione di una proiezione d’esso entro un ‘virtuale’ che ci appare al di là di uno specchio. Fotografie, le sue, come luoghi da infrangere, come spazi da frantumare, come strutture vetrose che puoi penetrare o con la mente o con l’urto di un mattone. Non esistono possibilità mediane, nulla ci blandisce ‘ruffianamente’, nulla ci addolcisce, è una forza contro un forza che dall’incontro scaturisce e poi rimane, o, meglio, uno scontrarsi interlocutorio, per poterci compenetrare o, viceversa, per allontanarci definitivamente. Quindi è contro la falsità di un mondo che Luca si pone artisticamente. Chi ha in sé ipocrisia. chi si presta all’alibi o alla giustificazione. non può accedere a quell’oltre, non può entrare, non può rompere la gabbia-cancello-scatola e procedere al suo fianco. Chi è intelligente evita, perciò, la menzogna, perché solo con la verità e con la logica, seppure spietata, l’arte può infine appartenerci, così come colui che la crea. 6) Gloria Salvatori. Un salto nel passato, quello della Salvatori, quando fotografa i suoi luoghi disegnati. Gloria usa la tecnica del foro stenopeico, lo strumento più elementare per formare immagini fotografiche. Tale apparecchio è il diretto discendente della camera oscura usata intorno al XIX secolo dai pittori per poter facilmente ricopiare la giusta prospettiva del soggetto rappresentato. Al posto dell’obiettivo questa sorta di piccola scatola ha un minuscolo foro che lascia passare la luce che poi forma l’immagine sulla parete opposta. Perché una scelta del genere? Indubbiamente fare un salto nelle tecniche che hanno contraddistinto l’esperienza espressiva nei secoli scorsi, quando è più che attuale la corsa agli automatismi e agli obiettivi ad alta definizione, può sembrare, mai come nell’oggi, un controsenso, ma si provi a caricare il nostro apparecchio, magari realizzato in proprio, artigianalmente, con una pellicola bianconero da 400 ISO, si prenda il treppiedi, come un tempo si faceva, e si vada

in giro, nelle zone più suggestive della nostra città. Quindi, usando l’automatismo a priorità dei diaframmi, si fotografi di tutto, dalla chiesa alla panchina, dal lampione alla fontana. Una volta sviluppato e stampato il negativo, i risultati non mancheranno di sorprenderci e potremo così ottenere un nostro personale archivio di “autentiche” foto d’epoca, ulteriormente valorizzabili intervenendo con un viraggio seppia. La Salvatori, così, enuncia il suo amore nei confronti del lavoro diretto, ricorrendo alla semplicità del dispositivo, alla priorità conferita all’inquadratura, alla dilatazione dei tempi, alla registrazione delle modificazioni della luce, alla riduzione estrema del processo, per infine darsi al piacere di stare all’interno del proprio apparecchio fotografico, cioè di viversi, sulla pelle, il contatto col rappresentato. Un agire quindi poetico, che annulla il tempo, per proiettarsi in un altrove in dissolvenza. 7) Giovanni Lombardini. Non è facile sintetizzare il lavoro di Lombardini in una scheda, perché lunga è stata la ricerca, sia formale sia strumentale, che lo ha condotto alle risultanze artistico-pittoriche (seppur è riduttivo definirle così) che da anni ormai espone. Il suo appassionato studio sulle infinite possibilità di innovazione riguardanti le tecniche pittoriche, i materiali, i supporti, senza mai negare il tramite che lega la sua opera alla tradizione, ce lo rende creatore a tutto tondo. Nell’ambito delle sue ricerche astratte e minimaliste, oppure in quelle di matrice più naturalistica, esalta la potenza espressiva del colore, concepito come tramite di svelamento dell’energia vitale che ci determina e ci circonda, così come eleva il rapporto che intercorre tra persona e natura, in un vortice che nega lo spazio consueto per divenire a un’iperzona dove il reale, volutamente, si annulla per lasciare posto alla sua essenza primordiale, là dove le forme e i contenuti non erano, ancora, definiti. Ultimamente Giovanni interviene con colori a volte mordenti a volte caldi, ma sempre di derivazione industriale, sulla formica o su tavola preparata o poliestere, arrestando il percorso del colore e l’agire del diluente quando l’immagine, che lui, in precedenza, sempre riporta in schizzi o in piccoli disegni, raggiunge il momento


voluto. Solo allora Lombardini interviene con un fissante che contribuisce a fare in modo che le sue opere si ‘congelino’, così che fondi, eventuali forme e colori possano, con innalzamento celebrativo, affrontare il perenne. l’eterno, nell’ immobilità celebrativa. Luoghi, i suoi, esorcizzanti la morte, la possibile dissolvenza, la corruzione che la materia in sé contiene. Canto oltre la fine, modulato da un’azione rituale che determina il profilo dell’artefice, che ne sancisce lo stampo concettuale, che ne circolarizza la componente esistenziale, artificiosamente ricostruita in studio. 8) Federico Guerri. Artista che fin dagli esordi ha solleticato il mio interesse, formula le sue opere ricorrendo a una rigorosa struttura geometrica e a un controllo accurato e metodico della procedura operativa, partendo da un’architettura definita, per quindi arrivare alla rappresentazione di una fenomenologia del mutamento e del divenire. Luoghi, quelli che traccia, in apparenza appartenenti al micro, ma, a mio avviso, dilatabili anche a un macro dimensional-concettuale. La sua è una visione razionale delle strutture invisibili della natura, anche di quelle più nascoste, che Federico affronta ingigantendo il minimo dettaglio. Da questa trama apparentemente indissolubile, inizia, poi, la frammentazione del luogo; si sfalda, così, l’atmosfera, richiamandoci a un destino ineludibile; ecco il nucleo di una cometa che s’infrange; la pioggia di particelle che ci bombarda; l’incantesimo che avviene allo scioglimenti di uno stato. Metafora di un quotidiano che vede sul fronte della polverizzazione di civiltà il crearsi di un’infinità di microculture “su misura” (o “a misura d’uomo”), invece, su quello della globalizzazione, l’ingiusto trasmettersi di una mitologia emotiva onnicomprensiva, in grado di imporre all’intero genere umano un terreno che si crede comune (un insieme se non di ‘valori’, almeno di icone e gesti riconoscibili, figli di logiche prettamente votate a un capitalismo selvaggio). Perciò da un lato quello che molti definiscono un pulviscolo ingovernabile e centrifugo, dall’altro un finto ordine assoluto, un blocco monolitico e omogeneo, poggiante sulla forza delle armi e votato a sconcertanti e disumane leggi di mercato. Ovviamente, per me, sostenitore

del genius loci, il moltiplicarsi di zolle di cultura e di fonti di studio non può che risultare dilatazione di un piacere, ma, ahinoi, così non la pensano coloro che vorrebbero omologare l’intera umanità entro la centrifuga del consumo. 9) Cesare Baracca. Luoghi che giungono dai quattro angoli del pianeta entro il pc sempre acceso che si trova in una casa posta nelle campagne tra Masiera e Bagnacavallo. Immagini rubate da quelle webcam che, montate sugli edifici del postindustriale (banche, stazioni, ministeri, grattacieli, caserme, aeroporti, ospedali, discoteche, scuole, supermarket, centri commerciali, porti etc.etc.), di continuo ci scrutano, ci spiano, ci ingabbiano entro un sociale ghettizzante e ghettizzato. Quel pc e quella casa sono di Baracca. Occhio furtivo, quello di Cesare, hacker di esperienza che, come un “grande fratello”, scruta il mondo nella sua interezza, sfruttando le moderne comunicazioni telematiche, per poi stampare il carpito e riversare sensazioni e struggimenti sulla tela, sfruttando tecniche e metodologie di colore, di segno e di gesto appartenenti alla tradizione. Tutto è sotto controllo, tutto non passa inosservato, tutto produce ansimo di riproducibilità. La rappresentazione indugia, si dilata, si estende fino al cosmico, fino a quelle regole auree che determinano l’universale, per poi ripiombare nella meccanicità o nella fissità, ‘attributi’, spesso stranianti, del contemporaneo. Tinte avvolgenti, seppure cupe, bituminose, poi ruggine, grigi, marroni, bianchi sporchi, ossidazioni, a momenti acide, dal sapore struggentemente sironiano. Ora è avvenuto. George Orwell ne aveva parlato nel suo romanzo più celebre: manifesti e slogan piazzati un po’ ovunque dal Governo per ricordare ai cittadini ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e che il controllo continuativo di un grande occhio è cosa buona e sana, e fa sentire tutti più sicuri. Questo hanno pensato molti di coloro che si sono imbattuti, un paio di mesi fa, in una nuova serie di poster affissi sui muri della metropolitana londinese. Molti dicono che sia un segno concreto del mondo in cui viviamo, il quale, come in un incubo, erode le libertà; altri si limitano a osservare che, al di là di ogni altra cosa, i poster ricordano molto da vicino


immagini tipiche di un realismo socialista figlio dell’ex Unione Sovietica e che, per l’Occidente, quei comunisti (sic), un tempo, erano i ‘cattivi’ e gli ‘oppressori’. Resta la curiosità. il trastullo del voyeur Baracca che, esteticamente, poi rende arte ciò che è diventato vizio di forma. Resta Baracca che, infine, fa esplodere quegli edifici, profeta di una catarsi che si spera palingenetica. rigenerante. spiritualmente ed esteticamente antimaterialista. 10) Vittorio D’Augusta. L’atteggiamento di D’Augusta verso la pittura è sempre allusivo, simbolico, metempirico, visto che non si pone mai di fronte ad essa con forza o spavalderia, ma ne svela la presenza percorrendone le più profonde cadenze, in quel rapporto coi luoghi dell’arte e dell’immagine che, con sensibilità e poesia, ne ampliano e ne trasformano i confini: quei limiti, quelle barriere che spesso si vengono a creare tra fautore e fruitore e che solo il “sentire oggettivo” può eliminare. L’incarnazione delle sue più nette caratteristiche, come luce, stesura, colore, ottenute con materiali diversi, toccano ed elevano tutti quei quesiti che ci possiamo porre sull’espressione creativa. La dissoluzione dello spazio, in Vittorio, assume le caratteristiche di una fede, così come l’eliminare il concetto di tempo si determina tramite le scelte astratto-naturalistiche, oppure tenuemente figurative, che ne hanno sempre resa originale la ricerca, dai suoi esordi ad oggi. D’Augusta è un maestro, sia per sapere che per età, quindi è impossibile tracciare il profilo del suo essere artista e uomo in poche righe, ma ci proverò. A mio avviso per Vittorio vivere l’atto creativo significa, in base a tipologie insite nella morale estetica, tracciare attraverso

il mondo il suo itinerario personale, operando insieme alle ‘cose’ e, se necessario, con esse ingaggiando lotte dialettiche. Questa poetica universale, che l’atto stesso del fare arte ci offre, conduce verso la ‘bellezza’ come pieno svolgimento di un sistema armonico, di forze instaurative, che trascende la particolarità delle singole categorie estetiche e conduce verso un’esistenza nel e per il sublime, il cui presupposto fondamentale è la libertà di agire espressivamente, che poi è la vera e forse unica libertà in assoluto a cui l’uomo può ambire. Per Vittorio è dunque relativamente facile giungere a teorizzare, attraverso l’estetica e l’arte, una rottura di tutti quegli spazi prestabiliti (industrializzazione, massificazione, mercantilismo) per mezzo di una tensione ideale che riassume in sé la multidimensionalità stessa del campo dell’artistico, assumendone la medesima naturalità. Questa posizione ideale (come luogo del viversi creativamente) è infatti ben radicata sia nella natura, potenza risorgente, di per sé libertà del possibile, sia nella tradizione dell’estetica europea rivolta al problema della creatività artistica in genere; infatti le sue finalità appaiono molto vicine a quelle di Marcuse, ma anche di Lyotard, soprattutto nel perseguire un collegamento fra la realtà dell’opera d’arte con la potenza del desiderio. desiderio che, divenendo creazione, potrà spezzare i canoni di ogni sistema per costituire una società nuova, dove l’uomo si ritroverà, oltre che creatore di immagini, soprattutto creatore del luogo ove il suo essere diviene ‘creatura’. Dove egli, per citare Rimbaud, diviene sempre figlio di/a sé stesso. Gian Ruggero Manzoni


franco pozzi

vago, 2006, gommalacca e anilina su lastra tipografica, istallazione, dimensioni varie



pietre preziose 2005, tecnica mista, poliestere lucido su formica, cm 150 x 150

giovanni lombardini


+luce 2006, tecnica mista, poliestere lucido su formica, cm 150 x 150


disegno, 2005, grafite su tela, cm 140 x 140

federico guerri



giardino labirinto, 2004, installazione

vittorio d’augusta



silvano d’ambrosio

pittore dal vero, 2006, olio su tela, cm 100 x 150



nedo merendi

casa con giardino, 2006, olio su tavola, cm 30 x 36


casa rosa, 2006, olio su tavola, cm 30 x 36


ricamo di paesaggio, istallazione per una finestra di palazzo san giacomo, russi (ra), luglio 2006, filo di cotone su seta nera, cm 130 x 110

lucia baldini


notturno (con le luci), 2007, olio su tela, cm 100 x 120


cesare baracca

alexanderplatz (berlino), 2006, cementite, bitume, acrilico su tela, cm 200 x 240


metro (monaco), 2006, olio, acrilico, bitume e cementite su tela, cm 100 x 130


gloria salvatori

foto rossa, 2005, carnia, cm 13 x 18


foto (roccia + edera), 2006, rio cozzi, cm 6 x 7


paesaggio con piante, 2005, intervento in ambiente, foto su pellicola cm. 170 x 180 e arbusti. courtesy dellapina pietrasanta, romberg roma.

luca piovaccari


attraversamenti, 2005, fotografia su supporto plastico trasparente, cm 55 x 68 courtesy dellapina pietrasanta


persone lugo pescherie della rocca


Paesi dell’anima

L’arte nasce dall’innamoramento di mani e cervello. Nel loro idillio cresce e si fa guardare con piacere. L’atto del dipingere è metafora di una carezza. Mettiamo tutti noi stessi nelle nostre dita quando accarezziamo, gli altri sensi si radunano in quel gesto. Potremmo arrischiare a dire che la pittura è una visione da ciechi, un’immagine inesistente che nasce dalla nostra immaginazione e che si fa, si avvera, con le mani. In principio nella bibbia il termine basar che significa corpo, designava l’uomo nella sua interezza di carne e spirito. Splendida comunione e cimento d’insieme, traditi dal dualismo contrapposto della filosofia greca, che opponeva il corpo all’anima. Oggi la persona sembra parlare due lingue non sempre accordate, che a volte entrano in dissonanza. L’importanza che la dottrina conferisce alla carne, al suo inscindibile legame con l’essere intero è così seducente, da diventare imprescindibile anche per chi come me, non crede. Così alla fine di tutto non solo l’anima resuscita ma anche la fibra carnale torna a riformare l’uomo eterno e a restituirgli tutte le sue finestre di sensi, che s’affacciano sull’altro e sull’altrove. Ci riuniamo al corpo per tornare veri, senza di questo, ogni immagine eterea di un paradiso di spiriti intangibili, ci sembrerebbe insipida e poco allettante. Questa seconda tappa di una mostra che comprende luoghi, persone, cose, e fa pensare alla mano da gigante demiurgo che in un film surrealista collochi case, alberi e figurine in procinto di animarsi e di popolare lo spazio, è anche il punto in cui artefice e soggetto coincidono. C’è il corpo che disegna, che crea, che lascia nella pennellata la scia dei suoi gesti, del movimento di danza ragionata e sensibile attorno alla superficie e c’è quello ritratto che si cerca di conquistare, raggiungere, affermare. Dunque lo sguardo e il lavoro

Perché non c’è più luogo che non veda te. Tu devi cambiare la tua vita. R.M.Rilke dell’artista rivolto all’alterità, alle persone che lo circondano, o a quelle della propria memoria, è simile ad un’esperienza amorosa d’incarnazione in un corpo esterno. Il processo artistico che è una mappa nautica imprecisa e perigliosa degli arcipelaghi della mente, e che genera sempre un autoritratto, qualsiasi cosa riproduca o dipinga, in questo suo cammino individuale incrocia altre umanità. Viene in mio soccorso in maniera calzante, il video poetico, dalla grana sempre pittorica di Mauro Santini, dove su monitor laterali (che vegliano come alberi, il paesaggio centrale e orizzontale di un corpo femminile), due volti compiono un viaggio impossibile. Sono il viso dell’artista e quello del figlio Giacomo che lentamente si trasmutano l’uno nell’altro e a metà strada coincidono in una fusione sperata, una faccia impossibile che non è né l’adulto, né il bambino, ma un individuo che non è mai nato e che marca il tempo di una generazione, di un testimone di sangue passato dall’amore e dal mistero della vita. Ma se il volto anche nelle massime dei cioccolatini è sempre specchio dell’anima, a volte i corpi si scontrano con il loro carico inviolabile di mistero e di individualità. Il cimento nel travalicare questa differenza può essere il sesso, l’atto di sperdimento di sé, in cui si tenta appunto l’incarnazione dell’altro. Non sempre però nel piacere, due solitudini giungono a contaminarsi, a volte restano chiuse nella loro essenza e non combaciano in una conoscenza, anzi arrivano a confermare se stessi nel corpo amato. Di questo fallimento dei sensi e dello spirito parlano i personaggi di Angela Maltoni in cui non avviene un vero scambio ma piuttosto la congiunzione di due autoerotismi e in cui i volti sono tagliati, scorciati, negati. Spesso bambole e fantocci si sostituiscono alle persone, diventano quasi intercambiabili


in una nudità e sensualità promiscua tra carne e materia inanimata. A questa indeteminazione dell’individuo, fa da contraltare la cura minuziosa della stesura pittorica, con un cesello di segni in cui matita, penna e pennello incalzano, si sovrappongono, ritornano ad infierire in maniera chirurgica. Anche per Fabiana Guerrini i volti delle bambole finiscono per coincidere nel dettaglio ingigantito e tracciato a matita, con quelli degli uomini. L’ombra che complica e tradisce, l’espressione inossidabile del vetro e l’incarnato intatto della plastica, si ripete nelle insistenze delle pieghe, nei solchi naturali di memoria, nella chiostra irregolare dei denti, di personaggi anziani. A volte il particolare isolato e colorato diventa elemento decorativo, staccato dal corpo, un’appendice grafica e aerea non più riconducibile alla sua verità e al suo peso, ma un segno sopravvissuto a un bagno di luce assoluta. Con una pittura molto differente per impasto e temperatura anche Nicola Samorì ama parcellizzare il corpo, ma i suoi sono piuttosto frammenti scultorei, monconi da gipsoteca smantellata e accatastata a terra, dove i pezzi non si ricompongono a creare l’unità portante dell’uomo. Il magma sempre acceso e sempre evoluto della sua pittura, ha la stessa consistenza di un terreno franato, di un sedimento antico di sabbie, rocce e legno in decomposizione. Zolla ubertosa resa feconda dalla memoria dell’incendio. Nei lineamenti del viso, virtuosismo e offese danzano a cercare l’equilibrio di una tenzone amorosa. L’idea di volto come paese dell’anima e come paesaggio fantastico, tra il lunare e il marino è l’oggetto della ricerca di Massimo Pulini, che in quest’occasione ha abbandonato il campo battuto della pittura e la vivacità del suo pentagramma cromatico una serie di opere inedite, vicine al bassorilievo. Il colore carnicino, da cipria pressata di questi plastici altimetrici dove i lineamenti di volti ingigantiti creano crateri ed erosioni da canyon disseccati, fa pensare ad una carne interpretata dal modello anatomico di un laboratorio scienti-

fico. Il viso, composto per rilievi di resine lavorate a macchina e posto sul piano orizzontale, diviene paesaggio astratto e inanimato, termitaio al microscopio o sito archeologico miniaturizzato, con le rovine ancora immerse per metà nella sabbia. E su uno stesso snodo di pensiero Massimiliano Fabbri ci riporta al tracciato di una mappatura fisica, un atlante di membra dove le faglie emerse dalla crosta terrestre e pittorica del corpo si staccano e navigano in isole e continenti separati. Così le diverse tele che contengono le singole parti, di braccia, testa, gambe, tronco, potrebbero anche decidere di non riunirsi a formare un individuo ma migrare da un uomo all’altro, come appendici affrancate e dotate di vita propria. Il desiderio di recintare, quasi archiviare i pezzi che compongono il grafico di un essere umano, contrasta col calore desiderante e grasso della sua pittura, del godimento del tatto che appartiene al processo esecutivo. Sembra esserci per molti artisti una strana consonanza tra la persona e il paese, come se la natura avesse conferma e ragione nell’essere che la sperimenta, che la tenta e che cerca di emularla in un desiderio complice, di creatore. Il corpo è luogo di memoria per eccellenza, come nella nostra vita dove ogni atto lascia un segno indelebile, un’usura, un callo. In alcuni dipinti di Stefania Vecchi la cartina topografica di uno stato travagliato e acceso come l’Iraq prende forma di persona, dai contorni sfrangiati spuntano gambe antropomorfe e il valico di una pancia. L’artista, che altrove si accanisce sull’impasto pittorico a cancellare e a rendere grafici i connotati di una faccia, in questo ciclo di lavori, umanizza il luogo, richiama l’attenzione al dato sentimentale, agli abitanti, con un’operazione che ricorda il lamento di guerra di Ungaretti, dove tra tutte le città distrutte, era il suo cuore il paese più desolato. Gridano da sempre, le figure in primo piano di Roberto Coda Zabetta. Le labbra spalancate fanno uscire un movimento, una detonazione interna da cui tutta la pittura si fran-


ge e si disperde. Il segno largo e straripante della pennellata si espande travalicando i confini della faccia e si aggrega alla decorazione, ai segni di superficie che assaltano la tela. Ultimamente nel campo minato di questo movimento tellurico della pittura sono fiorite immagini compatte e ordinate da porcellana giapponese, che turbano con la loro quiete da biscotti, l’equilibrio emotivo che la pittura aveva stabilito con quell’urlo iniziale. Anche per Piero Dosi, il volto raccoglie le istanze e le immagini di altri mondi e altri sentimenti. Sul suo autoritratto disegnato con la trama sgranata di una stampa pop confluiscono, alberi, mostri, profili estranei e scenari irreali che mescolandosi al racconto del viso, creano una miscellanea di storie e di rimandi tra presente e passato, presente e futuro. Nei suoi dipinti si realizza un’alleanza del tempo dove le dimensioni si compenetrano ma si crea anche una complicazione e una intermittenza della rappresentazione di sé. Il volto dell’artista diviene ologramma fumoso in balia dei pensieri, gelatina volatile nel caleidoscopio di una memoria maggiore. Dentro questo infinito calderone di storie rimesta lo sguardo inquieto di Andrea Saltini. Uno sguardo che sembra avere già in sé, l’ingiallimento del tempo, l’alone di un ricordo

invecchiato nel suo documento fotografico. Non è questa l’attitudine della sua pittura, dall’andamento nervoso e dalla pasta sfocata in bianco e nero, ma di una sua peculiare e allucinata visione, che ruba ipotesi alle leggende e si rivolge alla mostruosità dell’altro, al lato segreto e selvatico dell’incontro. La protagonista del suo ultimo ciclo è un individuo due volte diverso, uno yeti femmina, metafora dell’inconoscibile e dell’ingovernabile, che nel suo racconto prende l’inedito sesso di donna. Il viaggio nell’universo sempre esaltante e sempre irraggiungibile della persona, cominciato con lo struggente specchio di padre e figlio si conclude con una creatura ferina, ma ad ogni tappa dei diversi artisti il continente dell’uomo sembrava allontanarsi e rendersi più invalicabile. Da qui l’esigenza di frazionarlo, di affrontarlo a piccoli bocconi, di confonderlo in una visione d’ambiente originario, permeato del nostro moderno panteismo, che mette a misura l’uomo e non il divino. Quasi impossibile contenere l’altro nella sua interezza. Del corpo che abbracciamo riusciamo a trattenere singole parti di un’anatomia sognata, isole alla deriva nell’atlante della pittura. Sabrina Foschini


(serie) abominevole donna delle nevi, abominevole, tecnica mista su tela, cm 120 x 100

andrea saltini


(serie) abominevole donna delle nevi, ragazzo del bosco tecnica mista su tavola cm 140 x 160


senza titolo, 2006, cromolux e acrilico su tela, cm 150 x 300 copyright rcz, courtesy david roberts londra

roberto coda zabetta



labes, 2006, tecnica mista su carta applicata su tela, cm 250 x 200

nicola samorĂŹ


l’udito abbreviato, 2006/2007, tecnica mista su carta applicata su tela, cm 200 x 300


stefania vecchi

geografie di guerra, 2007, tecnica mista su tela, cm 160 x 200



arcipelago golgi, 2006, fresa su resina da modello dipinto, cm 100 x 90

massimo pulini


arcipelago golgi II, 2006, fresa su resina da modello dipinto, cm 28 x 23,5


epicentri, danze e derive, 2006/2007, olio su tela, cm 285 x 100

massimiliano fabbri


canzone dell’oceano, delle estremità e dei corpi celesti, 2006/2007, olio su tela, cm 320 x 220


sperdimento (trittico) video, b/n, 2007 durata: 4’45’’

mauro santini



angela maltoni

maninsulare, 2006, tecnica mista su cartoncino, cm 54 x 65


maninsulare, 2006, tecnica mista su cartoncino, cm 52 x 34,5


fabiana guerrini

senza titolo 2007, trittici, olio su tavola, cm 25 x 25


genesi 2007, installazione, materiali vari, dimensioni variabi


foglio illustrato, 2006/2007, cm 170 x 120

piero dosi




cose fusignano museo civico san rocco


Le cose del mondo. O oggetti, o poesia Considerare l’Arte come rivelazione del dubbio, come messa in scena di ciò che determina il labile confine tra normalità e patologia, tra corpo e percezione, tra scienza e verità, tra informazione e conoscenza, significa trovarsi di fronte a un baratro colmabile soltanto e irrimediabilmente dalla forza dell’Idea. Passa necessariamente dalla mente la tensione che dall’attrito tra l’animo ed il mondo preme verso una meta e che tende a scaricarsi sull’oggetto o attraverso l’oggetto. L’esperienza artistica come sintesi formale di un percorso conoscitivo, tanto più vasto quanto maggiore è la consapevolezza della propria condizione di essere umano, condiziona fatalmente l’individuo che si pone al centro dell’universo come catalizzatore di percezioni e di nozioni più o meno confutabili. L’artista manifesta per le cose del mondo una irrazionale ossessione che si rivela nella volontà di trasformare tutto ciò che incontra nel mondo in costruzioni estatiche. Il rapporto con il mondo è inevitabilmente il rapporto con le cose del mondo e con la percezione di esse poiché sono le immagini residue delle nostre percezioni che turbano i nostri pensieri e, nel tentativo di elaborare l’esperienza, la materia viene imprigionata negli oggetti ... nelle cose che chiedono un continuo confronto e alle quali tendiamo ad attribuire una nuova posizione nel mondo. Il gesto artistico diviene inevitabilmente la rappresentazione fedele dell’imitazione del mondo. Per una sorta di transfert ossessivo si tende inoltre a conferire alle cose dell’arte la spiritualità e la poesia che le cose del mondo in verità non hanno, o quantomeno non avrebbero se non fossimo condannati, oltre che a costruirle, a percepirle. Le cose ci si attaccano addosso, ci rappresentano, evidenziano la struttura fragile dell’essere umano poiché è dalla paura originaria di separarsi dal proprio corpo che scaturisce la ricerca dell’assoluto

... e guarda un po’... si è infine irrimediabilmente circondati da oggetti. Collocare le cose nel mondo è per Chiara Pergola sublimare l’oggetto fino a renderlo un feticcio, rappresentazione simbolica dell’iconolatria e dell’esigenza di affidare all’immagine ogni speranza di salvezza. Chiara interviene sullo spazio cercando un raccordo tra il passato e il presente dell’edificio del museo San Rocco. Luogo di cura (del corpo) tra malattia e disgrazia come ospedale prima, luogo di cura (dell’anima) tra santità e bellezza, come museo civico oggi, con la peculiarità di accogliere una collezione permanente di targhe devozionali. Tra miseria e santità i Pezzenti stanno in una condizione di transito e di abbandono. Pupazzi di pezza per grazia ricevuta imprigionati come ex voto in una iconostasi. Tra grazia e disgrazia è la santità che diviene cosa nel mondo, qui reificata nei Pezzenti. La rappresentazione delle cose è invece ridotta nell’opera di Jairo Valdati agli elementi essenziali, ai valori strutturali della visione. La stilizzazione, elaborazione estrema del linguaggio, implica che la riconoscibilità dell’elemento rappresentato avvenga attraverso la riorganizzazione dei contenuti che riconducono all’esperienza dell’oggetto con tutte le sue caratteristiche. Niente è oltre lo scheletro dell’opera, poiché è lo scheletro ciò che rende riconoscibile ogni cosa. E ancora a togliere. Fantasmi di cose gli oggetti di Paolo Buzzi. Privati di ogni funzionalità diventano nostalgica assenza. Il bianco trasfigura l’oggetto fino a fargli perdere ogni scopo. La decodificazione è affidata alla ricostruzione mentale della forma inerte, finalmente inutile. Finalmente cosa. Poi le cose si sfaldano ed è con la luce sulle cose del mondo di Alberto Zamboni che questo avviene. La rappresentazione è la riduzione di una sensazione visiva. L’immagine è


la memoria restituita nella sua forma emozionale. Simulando l’oggetto in una dimensione onirica, tutto ciò che resta è la sensazione chiamata a creare un ponte percettivo tra l’oggetto e la visione. Se l’immagine rimane appiccicata alle mani occorre sopprimerla o indagarla. Parte dalla negazione delle cose la pittura di Fabio Bardelli. Una pittura ossessiva, una stratificazione densa che costringe sulla tela gli oggetti, come a cercarne la carne, come a cercarne la ragione. La pittura stessa diviene cosa e si sostituisce all’oggetto nel mondo. È invece il racconto nell’opera di Benedetto Di Francesco che tiene saldo l’uomo a se stesso. I demoni di Benedetto appartengono al mondo, sono le cose che intorpidiscono l’anima. Rappresentarli è creare uno stato di coscienza. Liberarsene è il comune destino. Quando si scorge un’umanità surreale nella desolazione di una smorfia alla lucidità di essere vivi, è perché ci si sente sorpresi nel sonno. Protagonisti gli oggetti nelle immagini di Andrea Guastavino che raccoglie le cose del mondo tra scenari metafisici e suggestioni visive perché la materia indagabile è tanto più vasta quanto più gli strumenti a disposizione dell’artista consentono di rivelarne l’entità e l’effetto sulla percezione. Si avvicina alle cose trasformando gli oggetti in ritratti Cesare Fabbri. Il ritratto dell’uomo che costruisce la propria

possibilità e il rapporto con gli oggetti coincide con il proprio abitare nel mondo. Mentre è il silenzio delle cose a segnare il passaggio dell’uomo nella fotografia di Giovanni Zaffagnini. L’attenzione è una paziente attesa che sottolinea la quotidianità della cura e al contempo dell’abbandono. Narra di storie e di luoghi Patrizia Piccino, perché i movimenti del mondo si possano sentire e, racchiusi negli occhi, riorganizzare. Nel riorganizzare le cose nel mondo si condensa con metodo il ricordo nell’opera di Francesco Izzo. La materia pittorica è membrana percettiva, come se entrare in comunicazione con l’oggetto fosse possibile soltanto attraverso una riduzione psichica. E quando le cose si attaccano agli occhi l’istinto di dominarle si fa ancora pittura nell’opera di Mauro Bendandi. In uno stato di quiete gli oggetti reagiscono solo al colore e l’elemento percettivo raramente si separa dall’elaborazione intellettuale dell’oggetto indagato. Nella contenzione, nella deformazione, nel limite, cose pro-gettate nel mondo: corpo come cosa nell’opera di Francesco Manenti. Cos’altro se non un’assemblaggio di parti anatomiche a discapito della presunta armonia dell’universo... Nell’impossibilità di superare ogni pulsione di autoconservazione, un oggetto con funzioni vitali che si affeziona alle forme inerti. Marinella Bonaffini


pezzenti, 2006, stampe ai sali d’argento, cm 10,5 x 14,8, 18 x 24, 24 x 30,5

chiara pergola


pezzenti , 2006, sculture in stoffa, dimensioni indicative cm 25 x 20 x 5


jairo valdati

ragnatela, 2007



paolo buzzi

triciclo 2007, smalto e acrilico su tavola, cm 100 x 100 Il giardino dell’incanto 2007, installazione, materiali vari, dimensioni variabili.



patrizia piccino

da capo al fine, 2007, negativo colore



autoritratto, 2006

francesco manenti


deposizione, 2006


soul painting, ovvero della condivisa credenza nel fatto che il «corpo» dell’arte sia in costante relazione dialogica con le questioni dell’«anima», 2007, immagine dipinta, tessuto, ecc., cm 150 x 150

francesco izzo



lampadario rosso, 2007, pittura ad olio e foglia d’oro su lamiera, cm 100 x 100

mauro bendandi


IN-tramontabili (dittico) 2006, pittura ad olio, plastica e foglia d’oro su lamiera, cm 240 x 160


colite, 2006

giovanni zaffagnini



casette, 2007

cesare fabbri



andrea guastavino


bisogna leccare le pietre per sentirne il sussurro‌


alberto zamboni

uccelli notturni, 2005, olio su tela cm 70 x 200


uccelli notturni, 2005, olio su tela, cm 70 x 200


benedetto di francesco

salvami mamma!, 2004, olio su tela, cm 158 x 293, courtesy romberg, roma


la testa del figlio, 2006, olio su tela, cm 150 x 310, courtesy romberg, roma


senza titolo, cm 100 x 100

fabio bardelli


senza titolo, cm 170 x 170


Gloria Salvatori, nata a Rimini l’uno gennaio del 1969. Vive e lavora a San Giorgio di Forlì.

Cesare Baracca,nato a Fusignano nel 1965, risiede a Masiera di Bagnacavallo.

Lucia Baldini, nata a Bagnacavallo nel 1970, vive a Traversara (RA). Silvano D’ambrosio è nato ad Hayange (F) nel 1951. Vive a Forlì.

Vittorio D’Augusta, nato a Fiume nel 1937 Giovanni Lombardini è nato nel 1950 a Mulazzano di Coriano, in provincia di Rimini dove vive.

Franco Pozzi Nato nel 1966, vive a Rimini. E lavora.

Federico Guerri vive e lavora a Cesena.

Nedo Merendi, nato a Faenza (RA) nel 1957 dove vive e lavora, alternando la pittura alla produzione di maioliche.


Massimo Pulini, Cesena 1958 – Napoli 2038.

Stefania Vecchi è nata nel 1960 a Fusignano, dove vive. Lavora a Lugo.

Angela Maltoni è nata il 18 febbraio 1979 a Forlì, dove vive e lavora.

Mauro Santini è nato a Fano nel 1965. Vive a Pesaro.

Massimiliano Fabbri è nato nel 1972. Vive a Boncellino di Bagnacavallo (RA).

Nicola Samorì è nato a Forlì il 13/05/1977, vive a San Pietro in Trento e Bagnacavallo.

Luca Piovaccari, nato a Cesena il 6 luglio1965, vive e lavora a Cesena. Andrea Saltini, nato a Carpi (MO) il 4 maggio 1974, vive e lavora tra Carpi e Milano. Roberto Coda Zabetta, Biella 1975, vive e lavora tra Londra e Milano.


Francesco Manenti è nato a Carpi (Modena) il 5 gennaio 1974. Vive e lavora a Modena.

Francesco Izzo è nato a Ravenna nel 1966, vive a Montiano (FC).

Piero Dosi è nato nel 1946 a Lugo, dove vive e lavora. Paolo Buzzi nato a Comacchio (FE), vive e lavora a Fusignano.

Fabiana Guerrini nata a Lugo nel 1980. Frequenta il quarto anno dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Vive e lavora a Fusignano. Jairo Valdati è nato a Santa Catarina (Brasile) il 7 dicembre 1969. Vive e lavora a Modena.

Chiara Pergola, nata a Modena il 7 febbraio 1968, lavora a Bologna.

Patrizia Piccino, fotografa, nata a Biella nel 1965 vive a Traversara (RA).

Mauro Bendandi, nato a Ravenna il 13 luglio 1973, vive e lavora a San Pietro in Vincoli (RA).


Marilena Benini nata il 21 marzo 1969, vive a Cotignola

Aldo Savini nato a San Severo di Cotignola il 16 novembre 1946, vive a Lugo e a Ravenna

Benedetto Di Francesco nato a Catania il 25 agosto 1969, vive a Pesaro.

Alberto Zamboni, nato a Bologna dove vive e lavora. Giovanni Zaffagnini vive e lavora a Fusignano.

Andrea Guastavino nato a Genova, vive e lavora a Firenze.

Cesare Fabbri, nato il 19 dicembre 1971 a Ravenna, dove vive e lavora.

Fabio Bardelli, nato a Torrita di Siena il 30 luglio 1968, vive e lavora tra Arezzo e Torrita di Siena.


luoghipersonecose

al catalogo è allegato un cd realizzato in collaborazione con lugocontemporanea e strade blu percorsi nel folk contemporaneo

luoghi: 9’ 17’’

gian ruggero manzoni

tre brani tratti da deserti di quiete, ed. i quaderni del circolo degli artisti, 2001. “quando eravamo re”, inedita, composizione a quattro mani con daniele serafini

antonio gramentieri: chitarra down in halep persone 7’ 54’’ sabrina foschini foglie d’acqua

da ragioni della sete, 2006 raffaelli editore, rimini

john de leo: voce cose 2’ 35’’

marinella bonaffini o oggetti o poesia lettura a due voci con marco rebeschi francobeat: elettronica

luoghi+persone+cose 10’ 38’’ simone pelliconi e computer cosare la memoria

elaborato partendo dalle registrazioni dei brani che lo precedono nel cd è pubblicato con licenza creative commons by-nc-sa 2.5 Italia, per maggiori informazioni: http://simonepelliconi.splinder.com

incisione eseguita a villafranca di forlì presso cosabeat studio ingegnere del suono: francobeat


Francobeat è nato a Forlì il 16 agosto 1972. Fonico, musicista, attore.

Marinella Bonaffini è nata a Piazza Armerina (Enna) l’11 agosto del 1970. Critico d’arte e restauratore, vive e lavora a Modena.

Simone Pelliconi, musicista, nato il 21 ottobre 1970 a Lugo, dove vive.

Sabrina Foschini, nata a Rimini il 4 settembre 1968, vive a Bologna. Critico d’arte, poetessa e pittrice.

Antonio Gramentieri, nato a Faenza il 19 aprile 1972, suona la chitarra, partito dal blues delle musiche radicate è poi naufragato placidamente nei mari del sound scaping.

Gian Ruggero Manzoni nato il 22 marzo 1957a San Lorenzo di Lugo, dove vive. Poeta, narratore, teorico d’arte e pittore. John De Leo, nato a Lugo il 27 maggio 1970. Una voce-strumento, calda, grave, acuta, graffiante, con fondamenta Soul, spazia dal Be-bop al Rock alla Contemporanea.

Marco Rebeschi è nato a Modena il 30 settembre 1958. Filosofo e compositore, vive e lavora a Modena.


Ringraziamenti Questa mostra (con relativo libro e cd) è resa possibile dall’impegno e partecipazione dei Comuni di Cotignola, Lugo e Fusignano e dei rispettivi uffici Cultura. Antonio Pezzi Sindaco di Cotignola Maurizio Casadio Assessore alla Cultura di Cotignola Daniele Ballanti Capo settore Servizi Socioculturali di Cotignola Raffaele Cortesi Sindaco di Lugo Giovanni Barberini Assessore alla Cultura di Lugo Daniele Serafini Servizi Culturali di Lugo Mirco Bagnari Sindaco di Fusignano Lino Costa Assessore alla Cultura di Fusignano Tiziana Giangrandi Dirigente Servizi culturali Comune di Fusignano Ringraziamenti speciali Grazie a Daniele Casadio per le fotografie in catalogo (opere di L. Baldini, F. Pozzi, M. Fabbri, M. Pulini, F. Guerrrini, P. Buzzi; ritratti di M. Pulini e M. Fabbri) e a Michele Buda per la supervisione alle immagini in fase di stampa Grazie a Federico Settembrini (artigiano sopraffino – viapaurosaproduzioni) per l’assistenza tecnica e gli allestimenti di M. Fabbri, L. Baldini, P. Dosi e A. Guastavino Grazie a Massimiliano Borghesi e Mirko Fabbri per il brano di Simone Pelliconi Grazie a Lucca Mauro “Van Dick” (elettricista e maestranza fiamminga) per aver fornito i televisori e i lettori dvd utilizzati nell’installazione di Mauro Santini Grazie alla famiglia Sgubbi per le cene post-inaugurazione nella stalla e l’ospitalità Grazie a Franco “beat” Naddei per lo studio di registrazione, per la supervisione e produzione ai suoni del cd, oltre che per la grande disponibilità Grazie all’Associazione Culturale Primola e nello specifico a Mario Baldini, Mario Mazzotti e Mauro Ronconi per averci accompagnato in questo progetto Un grazie di cuore a tutti quelli che ci sostengono e ci spingono ad andare avanti con la loro presenza alle mostre Infine un ringraziamento sentito e doveroso a tutti gli artisti che hanno aderito all’evento e in particolare ai poeti, scrittori e musicisti che si sono buttati con passione ed entusiasmo in questa avventura, nello specifico: Aldo Savini, Gian Ruggero Manzoni, Daniele Serafini, Sabrina Foschini, Marinella Bonaffini, Marco Rebeschi, Antonio Gramentieri, John de Leo, Simone Pelliconi

LC Elettrodomestici di Lucca Mauro Corso Sforza, 29 Cotignola (RA) Tel. 0545.41605



* palazzo sforza cantiere delle arti

pescherie della rocca

comuni di cotignola lugo e fusignano assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola

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