2008 selvatico 6 nidi campi di battaglia preghiere e sortilegi

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nidi campi di battaglia preghiere e sortilegi



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nidi campi di battaglia preghiere e sortilegi


comuni di cotignola fusignano e lugo assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola la presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di selvatico rassegna di campagna in occasione della mostra nidi – campi di battaglia – preghiere e sortilegi 15 marzo – 6 aprile 2008 a cura di massimiliano fabbri con la collaborazione di paolo trioschi e daniele serafini progetto grafico e impaginazione: marilena benini finito di stampare nel marzo 2008 da grafiche morandi fusignano crediti fotografici: le foto per enzo castagno, maurizio battaglia, laura baldassari sono di daniele casadio, per vanni spazzoli di roberto manzotti per meris cenni di gilberto urbinati per aidoru e sea of cortez di angela anzalone per dacia manto di andrea guastavino e fabio leoni - modigliana per fiorenza pancino di raffaele tassinari


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cotignola, palazzo sforza: nidi

maurizio battaglia, nadia trotta, carlo cavina, enzo castagno, dacia manto, marco de luca, silvia camporesi, francesco borghesi, lorenzo casali, oscar dominguez, luigi berardi lugo, pescherie della rocca: campi di battaglia

giovanni blanco, lorenzo di lucido, laura baldassari, monica pratelli, mirko fabbri, roberto paci dalò

vanni spazzoli, chiara lecca, sara guberti, loretta zaganelli, stefano mina, meris cenni, ana hillar, silvia de martin, franco stanghellini, alberto biagetti, valerio vasi, tania flamigni, fiorenza pancino, amanda chiarucci, simone pelliconi

* palazzo sforza cantiere delle arti

fusignano, museo civico s.rocco: preghiere e sortilegi


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Nidi, Campi di battaglia, Preghiere e sortilegi è un percorso attraverso le arti visive che si snoda su tre sedi e rispettivi comuni compresi nella provincia di Ravenna: Cotignola, Lugo e Fusignano. Il progetto espositivo, che è il sesto episodio del ciclo Selvatico rassegna di campagna, trae forma e suggestioni da alcune vocazioni e caratteristiche specifiche dei luoghi espositivi: luoghi che hanno finito perciò per indirizzare temi e sezioni della mostra; influenza che si è estesa anche alla scelta delle opere e degli autori invitati. Una sorta di eco presente nei “contenitori” che si incon-

tra con il lavoro di trentadue artisti chiamati a misurasi con questi spazi e confrontarsi tra loro all’interno di tre sezioni separate, distinte e complementari al tempo stesso. Artisti che principalmente operano nel territorio emiliano-romagnolo, o che con questo hanno qualche punto di contatto. Un sistema di relazioni, un intreccio o ragnatela. La sequenza Nidi + Campi di battaglia + Preghiere e sortilegi (Cotignola, Lugo, Fusignano) ricrea infatti una quasi storia dell’uomo, una narrazione sospesa per immagini e pensieri, uno spostamento per tappe che si “chiude” in una forma

unica, sfaccettata e molteplice. Di andamento circolare... Al percorso visivo si affianca una serie di eventi collaterali che amplifica ed impreziosisce la portata e trama del disegno, coinvolgendo rispettivamente un poeta e un gruppo musicale per ogni sezione della mostra. Ciò rappresenta anche un tentativo e volontà di affrontare il “tema” da prospettive laterali e contaminate; del guardare all’idea da angolazioni differenti, alla ricerca e scoperta di collegamenti, per mettere in campo altri modi di vedere, capaci di offrire ulteriori direzioni-diramazioni al progetto.


Il progetto espositivo artistico triennale (2006-2008) denominato Selvatico si inserisce nel programma pluriennale di mostre d’arte intitolato Palazzo Sforza Cantiere delle Arti che l’Amministrazione Comunale di Cotignola porta avanti ininterrottamente dal 1991 con un successo di pubblico ed un’attenzione della critica in continuo aumento. Dal 1991 con la mostra Mattia Moreni o del Niente è veramente al 2008 con la mostra Selvatico 6 – Nidi il logo Palazzo Sforza è presente in tutti gli eventi espositivi del Comune di Cotignola anche se, come nel caso di Selvatico 6 non tutte le mostre o, parte di esse, si è tenuta a Palazzo Sforza. Come alla fine del XIV secolo la famiglia Sforza, originaria di Cotignola, aumentò la propria importanza fino ad arrivare a caratterizzare la storia italiana ed europea così ai giorni nostri, i progetti Palazzo Sforza - Cantiere delle Arti sono divenuti importanti riferimenti per l’arte contemporanea regionale. Ma Palazzo Sforza non è solamente arte contemporanea, è anche sede di tre sezioni del Museo Civico: - Il Museo dedicato a Luigi Varoli, eclettico artista cotignolese nato nel 1889 e scomparso nel 1958, che fu punto di riferimento per gli artisti romagnoli dal 1930 al 1950; - la Sala Archeologica Comunale che custodisce le memorie storiche della comunità cotignolese; - la ricostruzione dell’area funeraria dedicata al liberto Caio Vario Dione ubicata nel cortile e sempre accessibile ai visitatori. Palazzo Sforza è l’edificio della memoria e della conservazione, ma è anche punto di riferimento che scandisce la vita della comunità cotignolese e ci piace pensare che sia volano della vita artistica e culturale della Bassa Romagna. Daniele Ballanti Responsabile Servizi Socioculturali Maurizio Casadio Assessore alla Cultura Comune di Cotignola


La Rocca di Lugo è il monumento più caratteristico della città e rappresenta un’importante testimonianza nel campo di quell’architettura fortificata che ebbe tanta importanza a partire dal Basso Medioevo. Il periodo più significativo per lo sviluppo della fortificazione corrisponde alla dominazione estense durante la quale i connotati dell’apparato difensivo vennero modificati almeno due volte. Nella seconda metà del Quattrocento, per iniziativa di Ercole I, la piazza d’arme fronteggiante la Rocca venne trasformata in cittadella provvista di una cinta muraria dotata di torri rotonde e racchiusa da un fossato; essa, divenuta superflua a livello difensivo, fu poi fatta abbattere nel 1568-1570 dal duca Alfonso II e parte dei materiali di risulta furono impiegati per dotare la Rocca di bastioni sui versanti sud, est e ovest. L’area liberata fu destinata alla fiera. Dopo il passaggio di Lugo alla Chiesa, la Rocca subì alcuni ampliamenti, con l’inserimento di un palazzo che divenne sede dei governatori pontifici, parzialmente bruciato nel 1775. Nello stesso periodo si adattarono a prigioni le parti più antiche della fortificazione e i bastioni sud-ovest furono trasformati per realizzare il Giardino Pensile che ancora oggi ammiriamo. La Rocca è oggi sede dell’amministrazione comunale. Il decoro e l’arredo delle sale di rappresentanza risalgono in parte al 1857, quando Pio IX venne in visita a Lugo. Da segnalare la Sala dedicata a Gioachino Rossini, con documenti e dipinti che risalgono al grande Maestro di padre lughese, e il Giardino Pensile della Rocca che costituisce di spiccata originalità in ambito romagnolo, realizzato tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Le Pescherie, che risalgono al periodo estense, nel ’400-’500 hanno avuto la funzione di armeria del castello. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino al 1990 hanno poi ospitato il mercato del pesce, prima di essere restaurate dall’architetto Pier Luigi Cervellati ed adibite a spazio espositivo. Con il loro recupero si è aperta una ricca stagione per le arti visive a Lugo, con una lunga serie di mostre, curate da critici e artisti come Pier Luigi Capucci, Aldo Savini, Orlando Piraccini, Sabina Ghinassi, Gian Ruggero Manzoni, Danilo Montanari, Massimiliano Fabbri, con esposizioni dedicate ad artisti di area prevalentemente emiliano-romagnola. Tra queste particolare successo ebbero la Biennale Lugocrea, realizzata in collaborazione con Pierre Restany, e retrospettive o personali di artisti quali Giulio Avveduti, Claudio Neri, Paolo e Domenico Visani, Piero Dosi, Vanni Spazzoli, Primo Costa, Gian Ruggero Manzoni, Alvaro Becattini, accanto a numerose mostre collettive. Giovanni Barberini Assessore alla Cultura Comune di Lugo


Il Museo Civico San Rocco di Fusignano All’inizio era un ospedale, oggi è un prezioso Museo, ma la sua storia comincia da lontano e forse merita di essere raccontata. L’ospedale San Rocco L’antico complesso era ed è dedicato a S. Rocco, protettore dei pellegrini. Fu istituito nel 1517, su istanza di Francesco Corelli, illustre figura fusignanese. Probabilmente, in epoca precedente, esisteva già in paese un “Hospitale” per pellegrini religiosi, dato che già nel Quattrocento vere e proprie folle intraprendevano lunghi viaggi a piedi, per recarsi ai più famosi santuari di quel tempo e necessitavano quindi di luoghi di sosta. L’edificio di San Rocco venne costruito presso la chiesa dell’Assunzione della Beata Vergine che prese allora il nome attuale. Il giuspatronato della chiesa rimase alla famiglia Corelli e, nell’ambito di tale famiglia, veniva scelto un priore che rendeva conto al Vescovo dell’amministrazione dei beni ed imponeva un censo annuale di ” mezza libra di cera” . Nel corso del tempo, con il migliorare delle vie di comunicazione e dei luoghi di accoglienza, venne meno lo scopo per cui l’ospizio era stato voluto e dalle cronache risulta che vi soggiornavano annualmente solo pochi “vagabondi e malviventi” che creavano gravi disagi alla popolazione con atti di vandalismo. Nel 1779, dopo la visita pastorale del Vescovo di Faenza, causata dalle proteste degli amministratori, venne accordata la trasformazione in Ospedale. L’edificio venne completamente ricostruito a partire dal 1784, su disegno del marchese Giacinto Corelli, priore di quegli anni. Pare che i lavori fossero finiti (o quasi) già nel 1789, ma solamente alla fine del 1796 ci fu l’ inaugurazione. In una lapide, che si conservava all’interno della chiesa, si leggeva: “Nel dì 25 novembre (1796) giorno ricordevole di S. Caterina V. e M. alle 11 circa si fece la benedizione del Venerabile Ospitale di S. Rocco… e a dì 15 dicembre, ottava della SS. Concezione di Maria Vergine, singolare protettrice di questa nostra Terra, si aprì con giubilo indicibile del Sig. Don Girolamo Olivieri Corelli Priore e delli Sigg. Compadroni il Venerabile Ospitale”. Così, la sera stessa dell’apertura dell’ospedale entrò, come primo infermo, il Sig. Stefano Taroni soprannominato “Tambarlone”. A metà dell’Ottocento fu necessaria una nuova

costruzione adeguata all’ampliamento dei posti letto e alle nuove esigenze igienicosanitarie. L’attuale edificio però, risale al 1865, opera dell’ingegnere ravennate . Giuseppe Manara. L’appalto fu concesso ad un certo Amadei Luigi di Solarolo, che a sua volta lo subappaltò ( un classico già a quei tempi ) a Francesco Pedna di Faenza che, dopo il fallimento, fu sostituito dal capo mastro Martino Alberani, il quale terminò in modo egregio i lavori in soli due anni. Durante questo periodo l’Ospedale fu chiuso, ma fu stabilito che gli ammalati potessero avere lo stesso trattamento e le relative medicine rimanendo al loro domicilio. L’assistenza nell’ospedale era svolta da personale laico, ma pare però che non fosse delle migliori. Si decise così, di contattare le suore di S. Vincenzo de’ Paoli che iniziarono il loro servizio il 15 settembre 1876. Sappiamo, sempre da documenti d’archivio, che il complesso era anche dotato fin dal 1844 di una farmacia, resasi necessaria perché l’unica farmacia del paese era assai trascurata ed il personale dell’ospedale doveva recarsi a Lugo a reperire i medicinali. Dell’antica chiesa e della farmacia, annesse all’ospedale, purtroppo non rimane nulla.Distrutte durante l’ultimo conflitto mondiale. Da antichi documenti si sa però, che nel 1775 don Girolamo Olivieri fece dipingere per la chiesa un nuovo quadro di S. Rocco cui volle aggiunta la figura di S. Francesco - forse in ricordo del fondatore- e fece eseguire nel suo interno diversi lavori in scagliola da Carlo Giorgio Fossati di Merit di Lugano. Dalle schede compilate da Antonio Corsara negli anni precedenti la guerra, sappiamo che la chiesa era in ottimo stato perché fatta restaurare nel 1928 a spese dei F.lli Piancastelli e che all’interno conservava importanti opere d’arte. Una di queste, custodita in sacrestia e fortunatamente scampata alla furia del bombardamento, si può ora ammirare nella sezione locale del Museo. Si tratta di una grande teca lignea dipinta, del sec. XVIII, con all’interno una Madonna in gesso che era venerata col nome di B.V. della Salute. Il Museo Civico San Rocco è stato inaugurato nel settembre del 2001, all’interno del vecchio ospedale di Fusignano, attivo fino agli anni settanta.

L ’attuale facciata possiamo vedere che è strutturata su due ordini, sormontati da frontone triangolare. In basso si delinea una serie di cinque archeggiature tra larghi pilastri a bugna piana, in cui si aprono porte alternate a finestre. Nella parte superiore, due nicchie raccolgono due statue in scagliola che rappresentano S. Rocco e l’immacolata Concezione. Le statue furono eseguite da Paolo Visani di Cotignola nell’anno 1865 e furono pagate settecento lire, una cifra interessante per l’epoca.. Tutto il complesso architettonico si presenta con grande armonia e di nobile e severo effetto. Il piano superiore, che è stato inaugurato in occasione delle celebrazioni del 60° anniversario della morte dell’illustre fusignanese Carlo Piancastelli, è ora sede di importanti mostre d’arte; inoltre vi si svolgono conferenze e diversi eventi culturali. La raccolta museale è strutturata a piano terra e si sviluppa su circa 300 metri quadri - senza alcuna barriera architettonica- e forte di cinque settori che compongono, la Collezione Baroni di Targhe Devozionali: la sezione Emilia-Romagna; la sezione Toscana - al cui interno è riservato uno spazio particolare alla manifattura Ginori - e alla produzione di Montelupo; la sezione Italia Centrale con particolare riferimento alle ceramiche di Deruta e di Castelli; la sezione Italia Meridionale ed infine, uscendo, la sezione locale. Ad aprire il percorso, una targa devozionale della Patrona di Fusignano, opera contemporanea della ceramista faentina Marisa Moroni che l’ha eseguita seguendo l’iconografia originale. Lino Costa Assessore alla Cultura Comune di Fusignano


L’artista come radar può essermi d’aiuto. L’artista che combina una sensibilità eccezionale con un controllo eccezionale sul suo materiale. Questo equipaggiamento, non consolidato, trascurato, dono e disciplina sintonizzati su frequenze libere, riporterà segnali che altrimenti avrei perso. Donerà ai miei occhi e alle mie orecchie la qualità del falco. Questa acutezza, questa apertura di ali non preludono al conforto della fuga, ma sono foriere di avvertimenti, di possibilità e di una bellezza sofferta. Non è quel che so e quel che sono. Lo specchio in realtà è uno specchio magico, al di là del quale ci sono luoghi che non ho mai raggiunto. Una volta raggiunti, non c’è bisogno di abbandonarli di nuovo. L’arte non è un luogo turistico: è un territorio in continua espansione. L’arte non è capitalismo, quel che trovo me lo posso tenere. Il titolo prende il mio nome. Jeanette Winterson

Il sesto episodio del ciclo Selvatico, Nidi + Campi di battaglia + Preghiere e sortilegi, prende forma e trae linfa ruotando intorno a suggestioni, echi e richiami provenienti dai tre spazi espositivi a disposizione, ossia Palazzo Sforza a Cotignola, le Pescherie della Rocca a Lugo, il Museo Civico S. Rocco a Fusignano. Se ne ricava una mappa dove non solo gli artisti coinvolti sono chiamati ad orientarsi e muoversi, ma che si affianca quasi sovrapponendosi a questi movimenti, in parte indirizzandoli, suggerendo rimandi e resistenze, attriti e congiunzioni. Tracce, bave e filamenti a formare una ragnatela che si è deciso di non ignorare, giocando con essa a trovare collegamenti e possibili sensi tra i lavori e gli spazi, tra i luoghi e le persone. Qualcosa che sta tra il riannodare fili e la ricerca di nuove e felici intersezioni. Quasi un bisbiglio o un rumore di fondo da seguire; una possibile rotta. Un magnete. Si tratta di una spinta che tra le sue motivazioni trova e si impegna a rimarcare e mettere in luce ulteriormente quegli aspetti, in questa rassegna abbastanza rilevanti, che potremmo definire di “geografia emotiva”; vale a dire un percorso e successione di luoghi, architetture, volumi e distanze che viviamo come non neutri. Un sistema nervoso, una psicogeografia probabilmente, una rete o reticolo che si stende, impiglia e si incontra con artisti che, principalmente, operano nel territorio, o che con questo hanno qualche punto di contatto. Una cartografia fatta di spazi “familiari” e luoghi conosciuti quindi, dove i contenitori diventano più che partecipi acquistando, nel bene e nel male, una imprescindibilità che li ribalta quasi in contenuto, pulsante e chiamante, in grado di trattenere. Una piattaforma: spazi di relazione. Scatole fisiche che funzionano un po’ come idee o cartelle men-

tali, perché qui hanno origine, si raccolgono e prendono corpo le intuizioni, le immagini ancora nebulose che in queste geometrie si indirizzano, precisano e mettono a fuoco in quello che, infine, sarà il palinsesto della mostra. E qui avviene un ribaltamento, una sorta di capogiro poiché pensare ad una serie di lavori dentro ad una “stanza” ha l’effetto di scuoterla e svegliarla da una condizione quasi sonnambula. Come se i luoghi fossero corpi in attesa. Frugati. Così, all’inizio, e per un certo tempo di incubazione, questi spazi intrecciano un dialogo per frammenti, lampi e bagliori con il lavoro di alcuni artisti e con alcune loro opere che mi hanno catturato e che ritengo necessarie alla “storia” e agli equilibri di quello che sarà il percorso: opere e visioni che, sedimentate, a loro volta contribuiscono alla nascita e all’affiorare stesso del progetto. Un procedere per flash, scie, lacerti e associazioni amorose che rende perciò abbastanza arduo separare, “mettere in fila” e distinguere gli aspetti che concorrono al definirsi di una proposta, poiché tutto forma un disegno complesso e stratificato che si regge su incastri, sovrapposizioni, richiami, riflessi e trasparenze; su continui movimenti e assestamenti interni. Non saprei dire ora, al cospetto di questa specie di geologia, cosa sia venuto esattamente prima, se le idee o i luoghi e gli spazi espositivi, o gli artisti e le loro produzioni: di certo mi risulta improbabile - ed anche poco divertente e significativo - ragionare su di un tema in astratto, per poi calare e inserire in un secondo momento un gruppo di lavori conformi e calzanti. Preferisco seguire un’immagine (molteplice e sfaccettata) che fa capolino e che col tempo cresce e spinge sino a divenire urgente e necessaria; semmai bisognosa, ad un certo punto del suo cammino, di una riflessione e lavoro teorico che la cristallizzi, chiuda e “giustifichi”. Di immagini si tratta e perciò l’aspetto visivo rimane sempre prioritario, indispensabile e irrinunciabile; desiderio che muove. Approdo. Del vedere che apre e chiude. Cannibale. L’inizio così, non può che contenere ed essere fatto di sguardi e poi visioni, fotografie di quello che sarà un possibile allestimento: la mostra si costruisce anche dalla fine, in un percorso all’incontrario che dalla superficie scava e ritorna giù, in profondità. Questa difficile e improbabile separazione (anche cronologica) dei fattori che concorrono al formarsi del corpo e processo di un evento di arte visiva è una delle caratteristiche che mi intrigano e affascinano maggiormente perché questa “impossibilità” credo permetta, in un secondo momento, un movimento che da singola tensione aspira a divenire dinamica corale e collettiva, da esercizio privato a esperienza comune e condivisa; faticosa, giocosa e vera.


Un’armonia per certi versi fragile, che si salda e concretizza nell’incontro di luoghi, persone e cose. Dell’acquisire realtà e mangiare; del crescere. E mutare anche. Come pianta. L’idea che sta alla base e genera è allora una sorta di germe che lavora lentamente; un germoglio che va coltivato. Poi una domanda posta che viene rilanciata, precisata, messa sottosopra e capovolta, infine amplificata attraverso il lavoro dei singoli autori e dal loro stare fisicamente, in un certo posto specifico, per un tratto di tempo condiviso. Quello che mi interessa della un po’ odiosa formula “mostra collettiva” è il tentativo - se non proprio di comunione - di relazione tra i soggetti e, soprattutto, tra lavori, procedure e visioni del mondo differenti, e tra questi e le geometrie degli spazi. Il portato di scommessa è un aspetto che in parte la caratterizza e distingue da una personale (contemporaneamente, e in maniera forse un po’ presuntuosa, si cerca di pensare ad una collettiva come se si trattasse di un incastro-successione di tante personali). Il risultato sarà probabilmente qualcosa di ibridato e bastardo; un mosaico in parte imprevedibile. Ogni opera è come una lettera o cifra, una cellula, un organismo “semplice” che si aggrega e contribuisce a formare un sistema complesso, un panorama a più facce che ovviamente influisce, a sua volta, sul singolo episodio. E che dovrebbe essere però sintetizzabile in una forma unica: di respiro e battito multiplo che si allineano a creare un’aria, una melodia segreta; sequenza attraverso cui si possa ritornare continuamente alle individualità che la compongono, costituiscono e differenziano, in quanto piani necessari e insostituibili. Un insieme che ci si augura sia qualcosa in più della semplice somma dei singoli episodi o tasselli. Una certa luce. Una forma che tiene. Un animale forse. (Il progetto è pensato allora per funzionare quasi come un ostacolo, una gabbia che inizialmente limita in maniera parziale le libertà di movimento dell’artista. Un vincolo che costringe ad una serie di incontri e relazioni; una struttura che prepara il terreno. Della disciplina.) Un meccanismo che sarà poi forse in grado di stimolare e mettere in moto una successione di pensieri, scatti e scintille da cui si genereranno anche lavori e cose concrete, a loro volta capaci di una convivenza o scontro; idee che prendono corpo (diventando altro) e che si affiancano ad altre visioni in una sorta di reazione a catena in cui il passaggio e la traduzione diventano snodi cruciali, possibilità esplorabili, aperture esponenziali; ramificazioni. Contrasti spesso fecondi.

E poi anche incontri non previsti ad arricchire la trama, suggerimenti che ne completano la tessitura e l’ordito, come la collaborazione di amici, artisti e critici, al cui sguardo da fuori viene sottoposto il disegno, il nucleo della mostra: ciò permette all’idea di completarsi e cementarsi, di ricevere innesti preziosi. Un tempo lento; una cura. (Franco Pozzi, artista e amico, tra quelli che mi hanno fornito importanti consigli). Addentrandoci ora nello specifico di queste tre esposizioni occorre ribadire ancora una volta che sono gli echi e le ombre dei luoghi che abbracceranno le opere, a divenire centrali e a svelare possibili traiettorie e percorsi agli artisti - allo stesso tempo sono le opere medesime a scegliersi e ad aderire allo spazio, a permettere incontri e collegamenti, a fornire altre e ulteriori direzioni - diramazioni. Abbandoneremo qui la divisione stringente per discipline e linguaggi (che ha caratterizzato la prima parte di questo ciclo), mescolando e intorbidando ulteriormente le acque e gli ingredienti, alla ricerca di una ricetta più complessa e articolata, capace anche di maggior fluidità e flessibilità; restano alcune linee guida delle precedenti esperienze, che si accompagnano, aderiscono e adattano ai temi che caratterizzano le tre sezioni della mostra, ma con una prospettiva che potremmo definire più liquida e contaminata, in parte sfuggente e periferica; di lieve strabismo. C’è inoltre uno scambio sotterraneo e potenziale tra le sezioni, con alcuni artisti che avrebbero potuto certamente figurare anche in un altro cartello; credo che questo intreccio ulteriore non complichi troppo le cose, ma permetta anzi una lettura più morbida e piacevole dell’intero percorso, un cammino con meno strappi e rigidità: un andamento quasi per vasi comunicanti. Un passaggio. Ciò offre inoltre la possibilità, credo, di entrare in maniera più partecipe, avvincente e sentita nel progetto, quasi che si possano scoprire, rintracciare e far affiorare fiumi carsici, o segnare e indicare nuovi sentieri e strade che collegano, annodano e mettono in successione-relazione alcune immagini e pensieri di questa quasi narrazione, che non avanza solamente in linea retta, ma che è fatta pure di accelerazioni, soste e ritorni. Così, a Palazzo Sforza di Cotignola, luogo ancora oggi connotato per le sue caratteristiche di casa e abitazione, di spazio frammentato e diviso in e per stanze, troviamo il primo capitolo: Nidi. Nidi è parola domestica e calda, di intima meraviglia, preziosa e necessaria; di tregua e riposo. Una sezione questa, che porta con sé la costruzione e l’accumulo, l’intreccio paziente e la geometria e che, in qualche modo, è governata, attraversata e sostenuta dall’idea, predominante e tattile, di scultura; e da una certa ten-


sione e propensione al futuro. Uno stupore che si condensa in una volontà-necessità di costruzione. Di costruzione lieve, spesso fragile e precaria. Desiderante. Instabile. Di equilibrio, calcolo, grazia e senso di perdita. Forse anche di abbattimento e azzeramento. Di tabula rasa, di tentativo impossibile e romantico di salvare qualcosa. Del ritrarsi ferito. E amorevole. Del silenzio vegetale. In ogni caso, qualunque essa sia, la scultura porta con sé un’idea concreta e misurabile di vuoto, di peso e spazio; di fusione e contrapposizione, di alternanza combinatoria. Qualcosa comunque di volumetrico, tangibile, “vero e reale”, vincolato in senso stretto ai materiali (non sempre alla materia però) e con una certa capacità ostinata di trasformazione, sia che questa passi attraverso lo sguardo lineare e registrante - in cui si aprono talvolta piccole falle e voragini -, l’invenzione impossibile, ardita o quasi utopica, o l’assemblare e tenere insieme vero e proprio, tra il gentile e il tumorale, tra minimalismi e code barocche. Tra natura e artificio; dove i confini tra ordine e casualità si sfumano, confondono e perdono. Di e tra rigore matematico e sviluppo biologico. Questo è il segmento che, allo stesso tempo, dei tre proposti, più ha a che spartire con una certa idea di disegno (è Massimo Pulini, a cui sono debitore anche per altre idee che sorreggono il testo, ad avermi fornito l’immagine del disegno come nido); di cellula e catena molecolare: tra moduli, matasse, grovigli, griglie e ripetizioni. Qui ci troviamo di fronte ad una crescita. Luogo delle possibilità quindi; tra il sommesso e la turbolenza. Tra peso e leggerezza, tra il microscopico e lo schiacciante si gioca la partita. Il vuoto, e l’intervento nello spazio che lo modifica e sposta, diventa qui elemento centrale e insostituibile, anche quando ci si “limita” a racchiudere e individuare una porzione di esso, a inglobare e segnare come confine un nuovo territorio. Angoli e buchi; intercapedini. Infimi dettagli. Del permettere nuove postazioni come osservatori. Finestre sul mondo: sonde. Possibili storie a venire. Dell’attesa paziente. La stessa architettura di Palazzo Sforza gioca e dialoga tra il dentro e il fuori grazie alla sua vetrata, e anche per questo alcuni lavori usciranno fisicamente dallo spazio interno della “casa” per aderire, mimetizzarsi o conquistare ciò che sta fuori: altre stanze e dimore (cortile di casa Varoli e torre d’Acuto). Cortili. Anfratti, tane. Non si tratta solamente di ricreare protezioni o artificiali sistemi di vita-difesa, habitat o rifugi, ma anche aperture vivibili e dialoghi, perché immagino qualcosa di accogliente e invitante, di meraviglia svelata, oppure qualcosa in grado di denunciare e perciò creare uno spazio condivisibile e comune; del proteggere e dell’interno

certo, ma anche di un abbraccio che per sua natura guarda anche fuori, del prendere posizione e stare. Sacche di resistenza. Affermare, cercare, preparare ad una presenza in ogni caso (anche quando questa si riveli o manifesti attraverso un’assenza o una mancanza). Ciò che resta e, perché no, della fuga: il nido come incubatrice, da cui prima o poi si deve pur uscire (o, inevitabilmente, ritornare). Anche dello stare di qualcosa che si fa presenza inquietante e inspiegabile: di costruzione che ha smarrito (apparentemente?) la sua funzione e che quindi si rivela in tutta la sua bellezza muta, di fascino e mistero che attraggono. Campi di forza e clima. Le Pescherie della Rocca di Lugo ospitano Campi di battaglia: esse sono luogo, prima d’armi e di difesa - e quindi anche atto all’offesa -, poi del commercio, dell’evidenza mostrata e dello scambio-acquisto, e perciò, area vitale, di conflitti, di incontroscontro, sguardi e anche morte; dell’esporre, per certi versi, un dominio o una sconfitta (a seconda di come la si voglia guardare). Luogo dell’estetica e del mostrare, sia questo un potere, una merce, una preda o un’idea. L’occhio belva. Feroce e sbranante. Capace di uccidere. Della battaglia che forse è già avvenuta. Un resoconto. Minerale. Un rapporto: di vene e tessuti. Ma anche dello smascheramento o, al contrario, della vestizione, dell’abito e del colore che prepara e sancisce l’ultimo atto prima della guerra: una soglia. Pelle. Corazza. Se a Cotignola c’è un’indagine sui materiali e in qualche modo sul futuro (che comprende la loro stessa durata?), qui c’è la carne, lo spettacolo, la tragedia e il tempo presente: la pittura sarà il linguaggio prevalente e predominante (ma non esclusivo), perché vero e proprio campo di battaglia, paesaggio o superficie geografica che registra le increspature, i terremoti e le ferite. Un sismografo. La pittura è un’arena, e qui si gioca la partita. Dove in Nidi c’è un dialogo tra interno ed esterno, qui è la pelle ad offrire la dimensione e lo schermo. Superfici, siano queste corpi, cose o nature. Tutto subito, qui ed ora. La pittura è un linguaggio spietato, perché cosmetico e della finzione (il più vicino al teatro forse). Mimesi. Imbellettare il cadavere. Preparare un tranello forse. Vero e proprio panorama che tiene e reca su di sé la bellezza e il suo bisogno di violarla: i colpi, gli sconquassi e gli assestamenti, la superficie levigata e pacificata, il trasparente e l’opaco; la perdita. Negazioni e occultamenti su cui si fonda questo linguaggio testardo. Che quasi non c’è spazio per storie, tanto è pura evidenza,


amnesia schiacciante. Ombre, fantasmi e riverberi gli spiragli, se proprio c’è né bisogno. Forse una cella frigorifera considerata la vocazione del luogo, ma una sola temperatura non abbraccerebbe e renderebbe giustizia alll’intera proposta, fatta anche di arsure, immagini brucianti e sanguigne, calore, dolci carezze, intime cuciture e tentativi quasi amniotici di ritorno all’ordine e conservazione. Anche qui alcuni artisti presenti creano e allacciano scambi e rimandi con gli altri due episodi, a rafforzare il collegamento e il flusso tra una sezione e l’altra: legami con ciò che si è appena visto a Cotignola, ponti con ciò che si vedrà a Fusignano. Infine il Museo Civico S.Rocco di Fusignano, un ex ospedale: qui Preghiere e sortilegi a chiudere questa quasi storia e piccolo viaggio (benché affollato di presenze e immagini); a chiuderla ovviamente con ulteriori aperture e con un andamento circolare e vorticoso perché qui confluisce tutto ciò che in qualche modo ci supera e che pure ci tiene in vita, che ci proietta verso il trascendente o che ci annichilisce, come la superstizione, la religione, la scienza, ma anche la politica, la sessualità, la storia e l’arte stessa. Una sezione antropologica, addormentata, da (im)probabile museo dell’uomo; di usi e costumi, spoglie e liturgie. Ossa. Denti e capelli. Con animali o resti di. Una sacralità forse (o più propriamente una riflessione su di essa) è ciò che attraversa molti dei lavori presenti, e che rappresenta uno dei fili rossi di questo cartello. Uno sguardo che si fa di volta in volta curioso, divertito e ironico, o spietato, distante e lucido, ora immerso e quasi nostalgico, ora tramite per accedere a storie sopite, lontane, ormai invisibili. Racconti certamente; immagini come scrigni e preghiere. Inni; tra distruzione e ricostruzione. Canti. Come se all’arte spettasse (o fosse solo rimasta?) una funzione di lamentazione, una bestemmia, una preghiera di bellezza scagliata in e contro al cielo, contro agli angeli e agli dei. Un grido. Forse non per l’uomo; o non rivolto a lui esclusivamente… Straniero e interno al tempo stesso. Iconoclasta. E capace di guarigione. Questa è la sezione più densamente popolata e, sotto certi aspetti, la più apparentemente caotica, barbara, adorante ed anarchica delle tre, quasi che si udissero contemporaneamente molte voci che si alzano, salgono e confondono; voci che si sormontano e coprono a vicenda, in attesa di essere ripescate, decifrate, salvate e custodite; quasi che allo spettatore spettasse un ruolo da

archeologo che trova, riconosce, ricompone e mette ordine… (o che si illude ancora di poterlo fare). Luogo di tentativi e, probabilmente, pure di molti fallimenti. E magie, a volte intrappolanti. Capaci di spostamento comunque. E dolore. Parole che escono da buchi per terra, da sotto i pavimenti, da dentro ai muri, dalle cose, dai sassi, dagli animali, dalle facce antiche o distanti o da quelle viste come per la prima volta, e che hanno tutto condensato in uno sguardo o nell’inclinazione della testa; in una curva o incavo dell’orecchio. La fotografia è il sortilegio per antonomasia, capace di rubare l’anima e cortocircuitare il tempo, di farlo esploso e immobile al tempo stesso: questo è il linguaggio che qui tira le fila; non solo il passato - che è comunque fortemente identitario di questa sezione - ma, attraverso il passato, una pista di decollo e atterraggio per altri spazi e dimensioni. Contatti e segnali. Di un ottocento interiore. In ogni caso, la memoria è un sottosquadro di Preghiere e sortilegi perché permette l’approdo a ciò che non è quotidiano e abituale: altre voci e altri modi di vedere. Soglie, porte e passaggi. Sprofondamenti e cieli. Ascolto… ancora. Pianto. Anche la poetica dell’ex voto qui affiora sino a farsi linguaggio urgente; l’arte come narrazione e tentativo di riportare racconti (e perciò vite), di imprigionarli ed imbrigliarli: preghiera e lamentazione, arma, messaggio a cui ci affidiamo per riparare gli sfregi e per dare nuove ferite. Tra sciamanesimi, animismi e piccoli incantesimi. Ma anche qualcosa che invade o sconfina pericolosamente con i territori del kitch o della festa; magari un luna-park, giocoso, felice, rutilante, della sorpresa e stupore, della paura e del divertimento. Tra riti, decorazioni e magie. Una sfida alla morte. Una cosa da bambini. Un ballo. Infine, il Museo S. Rocco di Fusignano ospita al piano terra una pregiata e sorprendente raccolta di targhe devozionali che accoglierà l’intervento, l’occupazione temporanea e l’intrusione partecipe di alcuni di questi artisti, a rinsaldare ulteriormente il legame con i luoghi, con operazioni ibridate e con punti di vista che fanno dell’intersezione e della lateralità una delle prospettive fertili e vivaci di questa inquieta rassegna di campagna. Massimiliano Fabbri





nidi cotignola palazzo sforza


Nido è rifugio sapiente e precario, sagace nella sua necessaria labilità: forma dell’architettura pre-umana è per molti esseri viventi rifugio e luogo di moltiplicazione: api e vespe, termiti e formiche hanno nidi perfetti e inquietanti come metropoli dalle geometrie misteriose e inconfutabili; al pari di molti insetti anche gli uccelli manifestano nel loro nido, spesso composto dai più diversi materiali d’accatto, un’implicita ragionevolezza della sfera animale dominata dal ritmo e dal numero e strutturata sia sul gusto estetico – almeno così a noi pare – sia sulla più stretta funzionalità. Il mondo pre-razionale ci si schiude, soprattutto, come tramato da una logica interna che sembra fatta per sedurre l’attenzione e suscitare lo stupore della nostra intelligenza: uno spartito misterioso si cela dietro quella disposizione delle cose che il debole intelletto umana chiama “caso” per non sapere interrogar più oltre. Per l’uomo delle civiltà integre e sacre – realtà sempre più rarefatte nel nostro tempo – il nido fu simbolo della comunità iniziatica, luogo dell’incubazione spirituale e dello svelamento; posto in cima agli alberi era figura del riposo ineffabile dei mistici; al nido venne paragonata la coscienza cristallina dell’uomo del distacco, che in segreto partorisce la prole dei pensieri perfetti fatti della stessa sostanza degli Dei e degli Angeli. Il nido è infine una superba metafora dell’artista contemporaneo, perché, con impareggiabile astuzia ne riassume molte attitudini poetiche ed esistenziali, tra di loro contraddittorie: la razionalità perfetta e l’aspetto apparentemente aleatorio, il reimpiego dei materiali più disparati, rozzi o bizzarri, e la raffinatezza ermetica delle scelte stilistiche, il bozzolo protettivo inteso a mo’ di rifugio dal mondo – torre d’avorio intemerata e lontana da contaminazioni – e il grande fulcro di una polluzione sterminata che desidera abitare la terra e farla lievitare come un ventre di donna.

Così Maurizio Battaglia, questo filosofo – o teologo – camuffato da artista plastico concettuale, ci offre uno dei suoi trattatelli più parchi ed ironici intorno all’idea e all’esperienza dell’abitare il mondo e, soprattutto, dell’abitarlo da artista nella più cruda precarietà del vivere: arrotola sacchetti dei rifiuti pensandoli come set di valige per pittori e scultori con scarsezza di mezzi, ma allude anche alla bassa qualità dei materiali su cui si lavora o che si produce, al riutilizzo di ciò che il mondo rifiuta e all’andar raminghi come clochard senza una dimora sociale o spirituale precisa. In tal senso prepara preziosi “kit di sopravvivenza per artisti” che, a metà tra un sarcastico libretto d’istruzioni per l’esistenza – se ne trovano in vero di “seri” fatti da gruppi protestanti, cattolici o new age! – e un più romantico taccuino da viaggio, sono una sorta di beffardo e caustico vademecum per coloro che si avventurano fuori dal nido. E uscendo all’esterno – cominciando in tal modo il viaggio – non vi sono massime etiche o spirituali che consolino l’animo dello smarrito: solo una collana di «sillogismi dell’amarezza», il disegno di una mappa del vuoto che sembra stesa da Leopardi o Schopenhauer, oppure ancora da Cioran. Troppo prezioso è il nulla per sprecarlo con palliativi sentimentali o superstiziosi e la strage delle illusioni è la prima ascesi che si richiede al vero pellegrino. Lontana da queste radici di cicuta è l’edera cardiaca di Nadia Trotta: la pianta cresce in una provetta posta al centro di un finissimo ordito di zinco – disegno tridimensionale di matita sospeso nello spazio o nido leggero di ragno gigante – modellato sul corpo di un manichino. Le foglie cuoriformi, la levità dell’imbastitura, il richiamo poetico ai segni tracciati nel cielo dagli aquiloni, l’idea di una gabbia non chiusa, accompagnano l’installazione di foto d’interni, “ritratti” dei propri rifugi esistenziali che custodirono lavori, passioni e


pensieri, immagini poste non a caso su una finestra, a sottolineare il dischiudersi di ciò che è protetto, la trasparenza dei muri amati verso ciò che li trascende fisicamente e mentalmente. Carlo Cavina segue il filo dell’impresa fotografica risalendo fino alla sorgente del pensiero e dell’esperienza che animano quest’arte, fino alla dialettica iniziale tra il buio e la luce, al ritmo di sistole e diastole rappresentato dal raccogliersi in attesa e dall’aprirsi al mondo. Le sue camere oscure – scatole magiche costruite con tele dipinte di nero ed appese come nidi su un albero – sono la metafora del primo bozzolo in cui l’uomo si chiude e si dischiude al mondo, ossia l’incavo oculare. Il Pascoli ha versificato un’efficace analogia poetica: «Sotto l’ali dormono i nidi, / come gli occhi sotto le ciglia»; il bozzolo di pareti nere è qui una trasposizione colta e raffinata delle palpebre da cui si diparte la conoscenza, o una delle possibili conoscenze, della vita. Le pellicole impressionate di Cavina, che sceglie sempre con estremo rigore di rappresentare esperienze comuni e quotidiane, hanno la capacità di sedurre sinesteticamente la vista di chi le ammira evocando suoni e profumi; più che immagini o fotogrammi filmici sembrano anch’esse porte e finestre su un mondo che appare illuminato come se fosse la prima volta. Eppure il lavoro finale qui proposto è qualcosa di più di un puro godimento dei sensi: l’operare assume toni filosofici e diviene l’autoritratto speculare, anzi speculativo, della camera fotografica, ossia dell’occhio e con lui dell’artista stesso che si riconosce come puro sguardo uscito appena dal rifugio dell’inizio. Vicino a chi riflette sul proprio annidarsi vi è chi costruisce nidi per luci colori e, vorrei dire, suoni cromatici: questo è soprattutto il compito di Marco De Luca il cui lavoro assume una decisa connotazione personale proprio andando in direzione opposta rispetto alla forte

individuazione stilistica che l’arte moderna e contemporanea agogna o addirittura impone ai poeti dell’immagine. I suoi tappeti musivi di tessere infittiscono una trama e un ordito che non appartengono alla mente dell’artista autocrate ma la superano e la guidano: l’ispirazione del mosaicista gli viene da altrove, dalla mistica bizantina del silenzio, l’esicasmo, dalla consapevolezza della terribile impalpabilità delle architetture nascoste del cosmo. La trasformazione della pietra in luce risiede nel suo sminuzzamento, nel ridare ad ogni particola il proprio posto nella struttura di uno spartito che all’artista è solo stato donato. Così si trasforma la cattedrale lapidea in albero vivo, Albero della Vita, Scala di Giacobbe, scala musicale, organo a canne, ascesa neoplatonica all’invisibile; mentre la parete diviene bandiera di luce nutrita dal vento, dall’aria trasparente, incircoscrivibile, irrapresentabile. Costruisce nidi perfetti chi ha rinunciato a tutti i nidi, compreso il proprio io: il più intricato e vischioso dei rifugi. Simile e opposto è il travaglio di Enzo Castagno i cui suggestivi “edifici” si dichiarano come prodotti di un alchimista eretico, di un erede di antichi mestieri del mondo ctonio, infero, vulcanico: terra refrattaria e catrame, caolino e ossidi, vetro e ferro, piombo e alluminio entrano a far parte di un calderone da cui scaturiscono torri di Babele innalzate coi tronchi sradicati da foreste pietrificate e reti da caccia per intrappolare forme e suoni inudibili. Dall’impuro e dall’oscuro verso la purezza a costo di compiere una violenza verso il cielo, violenza sottile di artista e di sapiente che sa far scaturire la luce intrappolata nella materia sollecitandola col fuoco e facendola sortire in superficie, fuori del nido e ora nido di luci, ombre e pensieri. Nidificare è un’opera che si svolge nel tempo ed è solo in tale categoria che troviamo la cifra nascosta del lavoro di Dacia Manto: non solo perché il suo di-


segno parte da un’immagine fotografica per mutarla totalmente, seguendo il filo di ciò che è meno rilevante e perciò fascinoso, attraverso finissime trasfigurazioni offerte in orme e solchi di grafite che mirano a costruire tessuti e arazzi di luminosità intensa accentuata dall’antracite che si distende sullo sfondo, ma perché i lavori danno la sensazione di una polvere luminosa depositata da epoche immemorabili sulle immagini che abbiamo scelto ed amato, trasformandole in tracce diverse, irriconoscibili e per questo più significative, come ragnatele intatte coperte di limature di metalli e polveri di pietre. I materiali lucenti raccolti negli angoli spiegano indirettamente il senso del lavoro: questi smaglianti nidi di gazza ladra stanno alla grafite come la teoria alla pratica e suggeriscono che i nidi costruiti nel tempo sono, in ultima analisi, nidi del tempo stesso, di questa «estensione dell’anima», come direbbe Agostino, che non ha rappresentabilità ma è la dimensione quarta ripetuta dalle altre tre disposte nello spazio e che emette il suono del crescere degli alberi secondo gli anelli dei loro tronchi. Silvia Camporesi risponde musicalmente all’idea di nido come deposito temporale, costruendo, da due immagini speculari di un deposito di rottami ferrosi accuratamente fotografato, una terza idea, a metà tra il lirico puro e la profezia, che compone il dispiegarsi di ali dal nido della terra, al di là della pesantezza della ferraglia e della sua ruggine. Ma in questi cumuli si dice anche il proliferare di materie e forme nuove, secondo un duplice tempo: brevissimo nell’accumulo – tipico delle moderne società urbane massificate – lentissimo nella digestione che il tempo e gli agenti atmosferici faranno dei frammenti accatastati. All’artista è dato solo il porsi in ascolto di questi improbabili eppure consueti nidi d’industria dismessa che possono divenire, ad occhi attenti, colombari di

visioni e svelamento di forme celate o inaudite. Si è già detto dell’io come forma affascinante e perigliosa di nido: l’analisi non razionalistica bensì intuitiva e immaginativa che ne fa Francesco Borghesi nella sua installazione audio-video, piacerebbe molto a un trattatista di ascetica antica – cristiana o buddhista non importa – perché, pur avendo intenzioni estetiche e intellettuali del tutto diverse, denuda, nel senso di mostrare senza veli, l’accumularsi vitale di pensieri ed emozioni nel rifugio della coscienza; tanto che quella che chiamiamo mente o individualità si mostra come composto di materie diverse, leggere o vischiose, filamentose o liquide, dietro cui si coglie, nella dimensione del buio, la pura accoglienza dell’origine, l’io vero che è un nulla, un cavo, un vuoto, al più uno specchio o un vetro sottile di finestra. Ma a noi è dato vivere la mente come un flusso di emozioni e riflessioni, continua metamorfosi di un acquitrino instabile, la «marshmemory» o palude della memoria, che solo gli eroi dello spirito superano illesi, uscendo dal nido maligno e appiccicoso, nella forma dell’estasi, del sortire da sé abbandonandosi come un guscio vuoto. Ad evocare nidi disfatti e tracce di rifugi scomparsi o in via di mutamento si dedica l’escursionismo estetico di Lorenzo Casali, il quale, componendo quasi un poema gnomico sulla maceria, allestisce una sorta di silenzioso teatro visuale sull’umanità denudata del proprio rifugio e sul significato della parete, che scrostata e sezionata, si mostra quale deposito di cambiamenti che implicano gesti, sentimenti e destini. Archeologo o paleontologo di un moderno in rapida trasformazione, se non in immediata demolizione, oppure ancora in lento decadimento, affianca alla ricerca filmica sui palazzi agonizzanti abitati da occupanti disperati – edifici di miseria destinati allo sfascio – la ricostruzione artistica d’intonaci e sinopie. Si ritorna così all’idea del nido come formicaio inquietante


da interrogare in modo indiretto, suggerendo il brivido di una contemporaneità che non ha linguaggio e di eventi a noi prossimi ma spogliati d’ogni spazio di meditazione e consapevolezza. Nidi che solo il pensiero dell’artista torna ad abitare. Da questa trafila di sofisticati microcosmi si distacca la più ampia partitura di Oscar Dominguez la cui installazione s’inserisce nel paesaggio agreste come una scultura fatta dal vento, impressionante nido di un volatile mitologico e sconosciuto, tana d’insetto gigante o di aracnide sproporzionato, la cui assenza meglio sottolinea l’evocazione di uno spirito della terra vivo e laborioso. Spirito che solo l’uomo può ascoltare e, come nobile artefice, segnarne l’invisibile permanenza. La fatica dello scultore, che raccoglie e intesse a bozzolo rami e tralci potati di vigne, si dà nel sogno di un pittore cinque-seicentesco la cui immaginazione si trasfonda immediatamente dall’olio alla realtà. La grande cornucopia di legname secco è simile a una conchiglia lignea ed allo stesso modo svela una geometria della terra proprio come i nautili ci offrono quella del mare.

Alle più sottili corrispondenze tra cielo e terra s’indirizza, invece, la ricognizione filosofica e artistica di Luigi Berardi, un coltissimo poeta dei luoghi aureolati e numinosi, affascinato dal concetto di destino, convinto dell’inesistenza, anzi dell’impossibilità del caso e soggiogato da un’idea del fato che sia la traduzione esistenziale di aritmetiche celesti. Tali matematiche, offuscate dallo spirito della modernità, che edifica e lastrica i luoghi solo attraverso la linea retta, pauroso di curve e smottamenti, di pause e spirali, custodivano il tracciato rituale che miti e tradizioni popolari, religioni storiche e sapienze artigianali si sono tramandate da tempi immemorabili. La sua opera, comprensibile attraverso uno studiatissimo astrolabio, non è un’aggiunta ai luoghi ma la riscoperta di tracciati celati nei luoghi: così il sentiero disvelato nel giardino di Casa Varoli, estremo nido di un itinerario offerto dai celesti e iscritto nel verde corpo di un piccolo prato cittadino. Alessandro Giovanardi


maurizio battaglia

k.s.a. 365, 2007, legno - carta - carboncino


giramondo, 2007, plastica - carta


nadia trotta

senza titolo, 2000/2008, installazione


senza titolo, 2008, filo di ferro zincato, provetta di vetro, acqua, edera; grandezza naturale


carlo cavina

autoritratto XII, 2008, film 135 e lightbox, cm 30x40x30



albero, 2003, mosaico, cm 100x70 (particolare)

marco de luca


bandiera, 2007, mosaico, cm 122x122 (particolare)


enzo castagno

cattedrale, 2005, refrattario, ossidi, vetro, cm 136x47x47



effemeridi, 2007, 1000 cd, rete di filo metallico, dimensioni variabili veduta dell’installazione a modigliana (fc).

dacia manto


olympia, 2006/2007 spugne, elementi meccanici, fili elettrici, plastica, muschio, motori, luci, batterie, grafite, dimensioni variabili. morpho eugenia, 2006 video, 11’ (veduta parziale dell’installazione, galerie di maggio, berlino.)


sivia camporesi

gradozero 2007, stampa lambda su dibond, cm 110 x 150 ciascuno



the marshmemory fluff, 2008, videoinstallazione, materiali e misure varie

francesco borghesi



lorenzo casali

grande sinopia, 2006, stampa serigrafica su stucco patinato, alluminio, MDF, idropittura murale, cm 180x132x4


nebulosa, 2003-2005, still da video, super8, 1’ intonaco 1, 2003, porzione di intonaco civile, gesso, ferro, cm 31x34x1,5


oscar dominguez

installazione a campiume, 2007, potatura di vigne, rami



luigi berardi

imprinting solare, 2008, cortile casa varoli

s

latitudine: 44° 23’ 17” 16 N longitudine: 11° 56’ 25” 44 E ora solare: 12.26, 13 / 02 / 2008


imprinting solare, 2008, leviga su pietra



campi di battaglia lugo pescherie della rocca


«Madre e regina di tutte le cose è la guerra»: così sentenzia l’oscuro Eraclito che fa scaturire il mondo dall’incontro e scontro degli opposti, dalle antinomie e contraddizioni, dagli ossimori e dai paradossi: ciò che cozza e duella genera armonia nella contesa e nel contrasto. La battaglia è la particola della guerra, una nota del suo andamento magniloquente e sinfonico, una battuta decisa del suo ritmo implacabile. Vera guerra è però l’esistenza stessa dell’individuo e dell’universo: la parte e il tutto non sono altro che il prodotto visibile di un perenne conflitto. Campo di battaglia è infine lo spazio artistico, il misterioso luogo discoperto dall’operare del poeta-artigiano che opera evidenziandone i campi magnetici di forza e di contrapposizione, rendendoli eloquenti attraverso la materia, la forma, lo stile e le metafore. Bianco contro nero – un occidentale potrebbe dire bene contro male – abiti vecchi e vissuti che generano vesti nuove e che mai verranno indossate, il gusto fiabesco dell’illustrazione ottocentesca, dell’immaginario inglese e vittoriano, che s’inserisce nello stile sofisticato di un Giappone rituale del tutto impermeabile all’influenza dell’Europa: in questa serie di battaglie e di abbracci tra impossibili si dice l’incanto dei due kimono realizzati da Monica Pratelli. Il plauso immediato va ad altri contrasti: il riutilizzo di stracci per evocare tessuti meravigliosi, l’eleganza pacifica di un taglio che si applica anche alle vesti dei più agguerriti samurai; ma la poetica di questi paramenti si nasconde nel gesto di spogliazione del mistico, atto che si ripete all’Est e all’Ovest del mondo dove il piatto

razionalismo moderno non ha ancora inquinato le radici del pensare e del contemplare. Il denudamento che fu di Francesco era già stato compiuta dal Buddha secoli prima: la via di quest’ultimo è il luogo invisibile aperto tra gli opposti kimono come un sentiero segreto a cui le stoffe alludono nel loro duello cromatico, come il velo del Tempio ebraico, come l’iconostasi bizantina. L’arte può far rivivere la battaglia interiore che fu dei visionari e degli sciamani, degli asceti e dei profeti, dei saggi e dei santi, trasponendola nella dimensione accessibile di un sapiente contrasto visuale. Mirko Fabbri sembra voler sciogliere l’armonia che la guerra degli avversi produce risalendo ai fattori originari del conflitto visibile: esperienza ambientale e tattile, suono e visione vengono separati e posti in successione senza legami di causalità o consequenzialità al fine di rivelare che è sempre la mente del fruitore a comporre la battaglia e la storia, a dire il valore di un travaglio facendo decantare il vissuto e il pensato nel cuore, inteso sia come battito e respiro, sia come intelletto. L’installazione qui proposta è un lavoro sul “senso”, che si svela organo della percezione e, al contempo, significato del percepire stesso, in una sottile lotta tra la superficie del “sentito” e il nascosto “ultrasensibile”. Strepitoso pittore di tenebre amniotiche, capace di ridare all’inchiostro e all’olio la natura originaria di liquidi vischiosi, di materie intrappolate in un succo di placenta, Giovanni Blanco è artista giovane ma già sofisticatissimo per tecnica e pensiero. Attraversando l’allegorismo della pittura del Seicento, la sua mano ci offre due meditazioni dialettiche, anzi


due dialoghi muti di duellanti, intorno al rapporto tra la morte e la vita, nodo filosofico e teologico originario ed estremo. Il pane per forma e colore è il degno avversario, il simile e opposto del teschio: quest’ultimo senza più facoltà di mordere è il pasto umano della morte stessa, ridotto appunto all’osso, al nocciolo duro del fulcro, all’endoscheletro dell’umana architettura. Queste sorprendenti “sculture di cera” offerte in “dipintura”, oltre al tema della vanitas, moltiplicato da tutti i grandi maestri sacri del cosiddetto Barocco, esala un respiro di mistica eucaristica, per cui non solo s’intende avvicinare il simbolo della morte, ossia del sacrificio d’altare, al pane, ma l’alimento stesso è segno efficace di quel rito sacramentale offerto per i vivi e per i morti che porta nutrimento spirituale alle ossa degli scomparsi e promette nuova vita carnale alle anime – quasi larve – prigioniere dell’Ade e dell’Orco. E qui s’infittisce il senso del paradosso, della battaglia di vivificanti contraddizioni. Anche sostituendo la divinità religiosa con un più laico, o forse solo più filosofico, sentimento – e pensamento – del mistero della vita e dell’essere nella loro totalità, si potrebbe citare Cristina Campo: «Per essere divorati assimilati alla divinità, divorarla dunque. Per essere fatti a Dio cibo e bevanda cibarsene e berne». La battaglia, disposta dal pittore orizzontalmente e verticalmente, si svolge corpo a corpo, carne a carne, ossa a frumento – questi ultimi identificati da Ignazio di Antiochia nelle sue lettere: l’arte qui sostituisce il rito, e, senza nominare né voler nominare un dio, dice qualcosa di atavico, bellicoso e santo.

A chi sostiene la morte della pittura, potendo poi solo proclamarla senza teorizzare nulla di serio, bene risponde un altro giovane sapiente come Lorenzo Di Lucido con la sola forza di una ricerca modernissima e di sottile finezza intellettuale e psicologica. Le sue figure umane, che si dispongono nello spazio alla maniera di una natura morta meticolosamente indagata e restituita con scelte tonali ad ampie pennellate, innestano la lotta tra il pieno e il vuoto, tra ciò che è convenzionale nelle espressioni dei volti appena tracciati – i quali sembrano obbedire al comando di un fotografo – e l’emergenza di un’emotività inconscia fluida e contrastante. Tale potenza emozionale si condensa spesso come cristalli geologici su abiti, tessuti, oggetti – su ciò che copre e nasconde, insomma – ma che parla di profondità in modo indiretto, attraverso omissioni e liberazioni dall’esplicito, in cui il mondo comune è sottoposto a cataclismi, a lotte di elementi fisici e psichici, a tempeste e spedizioni rischiose dietro la piatta serenità dei giorni. Un’altra meravigliosa pittrice, maestra di seduzioni opalescenti, di preziosità fiamminghe e quattrocentesche, appena riconoscibili di sotto al presunto iperrealismo e fatte risorgere miracolosamente nel nostro secolo smarrito, è Laura Baldassari. Conchiglie e nicchie di marmo, perle e porcellane, proporzioni inconfutabili e geometrie celesti, sfere di diaspro e sottili alabastri, archi di Leon Battista Alberti e uova sospese di Piero Della Francesca, volti ermetici di Felice Casorati e maschere del teatro Nô nel periodo Edo: s’infittiscono e si danno battaglia le evocazioni estetiche suscitate da que-


ste immagini eleganti e silenziose che offrono la quiete del vegetare sullo stesso piano del tacere d’occhi morbidamente serrati e di mani purissime delicatamente sovrapposte a croce. Il tono monastico di tale pittura, è una compostissima lotta di luci e corpi, di ombre e chiarori, di opacità e trasparenze; è l’annullamento trappista della psiche nel pneuma, del pensiero nello spirito, anzi nel respiro; è la vita perfetta dei morti, l’eternità di effigi funerarie o d’icone sospese su pellicole d’oro impalpabile, trasfusa in un soffio di olio su tavola, come nella pittura di Piero e di Giovanni Bellini, di Hugo van der Goes e di Antonello da Messina, di Jan van Eyck o di più vicini maestri cotignolesi come Girolamo Marchesi o i fratelli Francesco e Bernardino di Bosio Zaganelli. Ma nella pianta e nel dittico qui esposti lo squillare degli elementi lussuosi, necessari ai “primitivi” italiani e fiamminghi, è zittito alla maniera del Giappone antico, quando su vesti costituite di dodici sottilissimi veli di seta cangiante dalle tinte incomparabilmente luminose, i più raffinati ed esigenti – ma meglio sarebbe dire sapienti – ponevano in cima a tutti i colori il nero. La nostalgia per la completa assenza di colore, ideale estremo di sobrietà e profondità, si compie qui in una partita a scacchi – azione figurata di una lotta ben più fatale – tra il dicibile e l’indicibile: ciò che è trattenuto, colmo di ritegno, traboccante d’astensione, separatezza e distanza, può dire il mistero, negando il dire stesso. La battaglia con l’Assoluto è vinta. Spezza la calma conquistata, infine, lo stridore chassidico – contraddizione coltissima e ironi-

ca – di Roberto Paci Dalò che non solo c’invita all’armonica disarmonia tra immagini e suoni, tra composizione audio e disegni, ma inserisce il conflitto tra elementi fiabeschi e crudeli, eleganti e primitivi, angolosi e leggeri nel disegno stesso. È il prologo stilistico alla battaglia concettuale tra la bestia e l’uomo del suo Werwolf, «lupo mannaro»; narrazione spartita tra segni secchi d’elettrocardiogramma e cadute liquide, tra feroci iscrizioni tedesche – quasi delle incisioni – ed elaborazioni di profili grotteschi, figlie di un accorto studio dell’immaginazione onirica. L’incubo bellico – attraverso un’accurata ricerca di materiali inediti provenienti da Berlino e Francoforte – è testimoniato con le buie voci e gli stridenti elementi fonici scaturiti dalla radio tedesca che, nel 1945, annuncia la morte di Hitler e la capitolazione della Germania nazista. Non si dimentichi però ciò che più volte scrive Maria Zambrano a proposito del disegno nell’arte contemporanea: il bianco del foglio è tutto, è il vuoto colmo d’attesa, spazio accogliente per ogni segno futuro ed è la morte pacificante in cui tutte le tracce s’abbracciano e scompaiono, pagando il fio – per dirla con Anassimandro – della loro reciproca opposizione. Alessandro Giovanardi



monica pratelli

love beggars (particolare), 2004, ricamo su tessuto


love beggars (particolare), 2004, ricamo su tessuto


mirko fabbri

ai margini di una strada, 2006, scenografia naturale, montaggio fotografico, cd audio a disposizione dei visitatori.


“Ai margini di una strada” è un’installzione multimediale che si compone di tre parti e tre corrispondenti modalità fruitive. Il primo contatto con lo spettatore avviene nella sala espositiva. Una strada asfaltata di dimensioni reali attraversa longitudinalmente lo spazio. Al suo interno componenti fisiche reali (foglie secche, ghiaia, grumi di terra, polvere e un audio cassetta con il nastro magnetico srotolato) trasportano silenziosamete l’osservatore in un altro luogo. Successivamente l’ascolto del CD (consegnato all’uscita della galleria) avviene secondo modalità e tempi stabiliti dallo spettatore. Il supporto sonoro contiene il montaggio di alcuni momenti osservati da un unico punto d’ascolto: l’interno di un ambiente domestico dove una vecchia segreteria telefonica suona inutilmente e i messaggi registrati si stratificano senza ricevere risposta. Nel silenzio di fondo alcuni movimenti segnalano una presenza e disegnano l’architettura interna dello spazio abitativo. Il clima inizialmente sospeso si trasforma mano a mano che l’identità del destinatario e la minaccia di una situazione insostenibile si chiariscono. Infine, una catena continua di fotografie e panoramiche mostra una città come se fosse vista dall’interno di un auto che, nel corso delle ore notturne, si allontana nel cuore della campagna fino all’ultima diramazione di una strada sbarrata. Il fruitore si muove attraverso un racconto, spinto a integrare i vuoti narrativi. Ciò che vede e che ascolta appartiene a luoghi reali, a eventi setacciati nella memoria. Tali elementi, non necessariamente in successione tra loro, si intrecciano in una rete di collegamenti, indizi visivi e sonori che svelano lentamente ciò che un luogo può nascondere dietro la sua apparente fissità. Ideazione e realizzazione di Mirko Fabbri Dialoghi di Gianluca Morozzi


giovanni blanco

teschio e pane (da ribera), 2007, biro su carta quadrettata, mm 60x100


dispensa, teschio e pane, 2007, olio su tela, cm 80x60


alcuni riti di liberazione (seconda versione), 2007, tecnica mista su tela, cm 200x140

lorenzo di lucido


omissis, 2007, tecnica mista su tela, cm 100x140


HC.vicia faba 7.7, 2007, olio su tavola - 180 x 120 cm nella pagina a destra: IC.m 6.7, 2007, olio su tavola, dittico 180 x 90 cm ciascuno

laura baldassari



werwolf, 2005/2008, suono e disegni su carta, ciascuno cm 76x57

roberto paci dalò

Antefatto, 1945 Werwolf (lupo mannaro) è stato un piano nazista per la resistenza clandestina durante la seconda guerra mondiale. Il piano prevedeva attacchi di guerriglia contro le forze occupanti (alleate) in caso di pericolo di caduta del regime nazista; un esempio estremo di stay-behind o organizzazione partigiana. La parola Werwolf richiama anche Wehrwolf. La parola “Wehr” significa difesa (le forze armate della Germania nazista erano chiamate nel loro insieme Wehrmacht (esercito di difesa). Werwolf inizialmente aveva 5000 membri reclutati dalle SS (Schutzstaffel) e dalla HJ (Hitler-Jugend, la Gioventù hitleriana). Queste reclute erano addestrate particolarmente su tattiche di guerriglia. A un certo punto Werwolf fu convertito in una organizzazione terroristica e nelle ultime settimane di guerra Operation Werwolf fu ampiamente smantellata da Heinrich Himmler e Wilhelm Keitel. Il 23 marzo 1945 Joseph Goebbels fece un discorso - conosciuto come “Discorso Werwolf” - nel quale chiamava ogni tedesco a combattere fino alla morte. Il parziale smantellamento dell’organizzazione combinata con gli effetti del “Discorso Werwolf” causò una considerevole confusione con successivi attacchi provocati da membri di Werwolf opposti a atti individuali di fanatici nazisti o piccoli gruppi di SS.


Berlino, 2005 Nel mese di gennaio, su invito della Internationale Heiner Müller Gesellschaft, ho passato l’intero mese in una Berlino di cristallo con una temperatura media di -22 gradi, impegnato nell’allestimento della mostra Greuelmärchen. La mostra è stata creata nel “Plattenbau” a BerlinLichtenberg dove aveva effettivamente vissuto per molti anni il drammaturgo. Un grande appartamento identico a quello di Müller è diventato il set - in forma di installazione interattiva suonovideo - per un viaggio allucinatorio all’interno di uno dei suoi testi più complessi e disarmanti Leben Gundlings Friedrich von Preußen Lessings Schlaf Traum Schrei. Un testo crudele che parla di Prussia e crea sconcerto. Lugo, 2008 Un ulteriore sviluppo per Campi di battaglia. Nell’opera voci provengono dalla semioscurità attraverso registrazioni delle radio tedesca nel 1943. Non sono materiali in commercio per cui non li troverai sul mercato, arrivano infatti direttamente dal Deutsche Rundfunkarchiv (Archivio della radio tedesca) di Francoforte sul Meno e Berlino. Queste voci appartengono ad alcune delle più alte figure dell’apparato nazista. Si può sentire da Berlino la voce di un grande ammiraglio annunciare ai tedeschi la morte del loro Führer. Si sente lo speaker da Amburgo che annuncia la disfatta. Si possono sentire i drammatici silenzi nello studio radiofonico, i passi, gli scricchiolii. Queste voci, questi suoni, creano l’ambiente acustico che ospita una serie di disegni su carta che contengono frammenti del testo di Heiner Müller e ritraggono, con disegni ingenui, lupi cattivi. Roberto Paci Dalò Vancouver-Berlino, gennaio-febbraio 2008 http://giardini.sm/greuelmaerchen



preghiere e sortilegi fusignano museo civico san rocco


Un tempo non si dava arte al di fuori della religione, ma, per contrappeso, la religione parlava solo nel linguaggio dell’arte. Anche la filosofia abitava lo stesso santuario del culto dove i misteri religiosi – distinti dalla fede popolare ma capaci d’intridere quest’ultima – erano custoditi come un fuoco sacro. Una leggenda assai antica e diffusa narra come i primissimi filosofi fossero fondatori di riti misterici, e come i migliori tra i pensatori successivi derivassero la loro conoscenza dalle divine dottrine della religione dei misteri. Certo è che profeti e filosofi, sapienti e mistici da sempre furono poeti; e se la poesia cominciò come preghiera, canto rituale, sortilegio e incantamento, lo stesso si deve dire delle arti visive al loro principio. Per esempio, il poverissimo tessuto pittorico delle moderne icone russe popolari ripete e continua, tra la fine del Settecento ed il primo decennio del Novecento, la bicromia, la tricromia e la quadricromia delle pitture sacre rupestri e di tutte le antiche arti rituali del Mediterraneo: scandisce il messaggio devoto e mistico e dischiude l’accesso al divino secondo ritmi cromatici antichissimi e misteriosi che presto passeranno ai “nuovi primitivi” e ai fautori delle avanguardie. D’altro canto, l’attuale termine “cultura” condivide la propria etimologia con le parole “coltivazione” e “culto” e si pone, di necessità, tra la terra e il cielo, tra la sapienza del contadino e del pastore e quella del teologo e dello sciamano, tutti dimoranti nella confidenza con gli oracoli. Nell’età della perdita e del nascondimento del sacro è sorprendente – o forse non lo è affatto – come gli artisti ricerchino una smarrita prossimità alla soglia tra visibile e invisibile. Sensibilissimo fotografo di dimensioni impalpabili Valerio Vasi rintraccia il senso di un’invocazione segreta nelle corolle dei riti umani, nei loro cerchi tradizionali. Difficile dire se contrastano o piuttosto si corrispondano la purificazione indù nelle acque fluviali – immagine di gioia panica e solare, che svela la serenità degli umani riconciliati col divino – e la Via crucis celebrata da un’arcaica confraternita cristiana i cui membri, in veste para-monastica e incappucciati, portano in processione lugubre e mesta – come si addice all’evento del Dio sacrificato e macellato sulla Croce – fiaccole nella notte di un paese dell’Europa cattolica. Il “fenomeno” visibile indagato con l’obiettivo è ordinato a un “noumeno” segreto, a una norma celata che l’attenzione della macchina fotografica co-

glie solo di riflesso nei gesti dei celebranti e l’artista, saggio e consapevole, comunica soprattutto la felicità di questo nulla, di questo vuoto prezioso. L’idea, in vero molto primitiva, di un trascendimento solo orizzontale, estremamente terreno del corpo, è offerta con fare divertito da Alberto Biagetti. Il suo scheletro policromo a grandezza naturale – resina e colori acrilici in curiosa simbiosi – ripropone un tema molto frequentato negli ultimi anni dagli artisti contemporanei: la Vanitas della pittura sacrale della cosiddetta Controriforma. Ma ciò che negli antichi maestri di allegorie religiose è una consapevolezza solenne ed amara, sarcastica o dolorosa, stoica e virile della fine – grandezza e miseria del destino umano – qui non è che un’irrisione, pretesto per un divertissement assai poco secentista, un’invenzione linguistica che ha il sapore di uno scongiuro carnascialesco più che di un sortilegio. Anche il carnevale è, però, un rito. Un’atmosfera altrettanto irrisoria potrebbe cogliersi nell’impasto lessicale sgrammaticato – tra un italiano mal imparato e un inglese maccheronico – che accompagna, con la forza di un graffito rupestre ma con l’occhio all’arte di strada, le tecniche miste su tela di Vanni Spazzoli. Un lavoro impostato a mimare il codice comunicativo dell’anima di un bambino disturbato e offeso che prega e si rapporta all’invisibile nell’imago violenta di un corvo, emblema dell’atto liberatorio del volo, eppure, in qualche modo, ricordo di un crocifisso, e in quella scabra di un fiore maculato a calice. Se ne ricava un faticoso espressionismo che, nostalgico della bellezza, nega tutte le gradevolezze possibili nell’avvicinarsi ad un divino lontano e assente. Sara Guberti restaura, di contro, una possibile vicinanza al mondo religioso attraverso la riscoperta della devozione popolare di molte fedi, viventi e scomparse, lì dove le iconografie più simili in diversissimi contesti sacrali si accomunano e dove la profondità simbolica dell’immagine – la sua teologia recondita – si rende accessibile in un’ipnotica ripetizione di preghiere e invocazioni. La ripetizione di mantra ossessivi accomuna induismo, buddhismo e forme dello sciamanesimo centro-asiatico; lo dhikr del sufismo scandisce la meditazione estatica della mistica islamica e gli stessi fedeli musulmani utilizzano uno strumento non lontano dai rosari cattolici


– sostegni di veri e propri mantra latini – e dai komboloi, che supportano l’ineffabile orazione del cuore nel cristianesimo ortodosso, bizantino e slavo, e la cui origine si perde in epoche senza memoria. L’artista traduce il riproporsi musicale, ritmico, incantatore dell’invocazione nella forma delle “preghiere in metratura”, raffinate stampe realizzate per tappezzare muri interi di stanze, per rendere la parete una colonna di preghiere, come se fosse affrescata o decorata a mosaico. Non so se l’autrice conosce le icone menologiche che riportano in fila, spartiti in nicchie pittoriche, i santi e le feste commemorati secondo i mesi dell’anno liturgico ortodosso, o le tavole che riportano insieme, suddivise in minuscoli riquadri, tutte le tipologie iconografiche della Madre di Dio venerate nella Chiesa russa, ma la sua ricerca mi è parsa collimare con tale venerabile tradizione. In quest’occasione propone, accompagnata da testi in sanscrito, l’immagine di Shiva Nataraja, «signore della danza», commovente intuizione visiva dell’estetica e della cosmologia indù: un ritmo segreto si cela dietro l’inarrestabile trascolorare delle cose; il dio distruttore e trasformatore, il terribile e potente asceta erotico, offre la propria eleganza come chiave interpretativa delle vicende terrestri. Per chi possiede udito e sguardi attenti non è una preghiera ma una certezza; la verità non è solo questione di plausibile ragionevolezza ma soprattutto timbro di voce, ritmo di figura e respiro, è un vedere e un ascoltare da dentro. In forme assai diverse anche Loretta Zaganelli, fotografa ed artista eclettica, si avvicina al senso della preghiera con immagini, scrittura e composizioni che impiegano sia l’artificio scultoreo, sia il naturale andamento dei rami di piante. Le suppliche sacrali o laiche tracciate su fogli ed appese agli alberi della speranza son un gesto rituale, qui forse cinematografico, che, arcaico o nuovissimo, sembra appartenere da sempre alle immagini simboliche iscritte nella nostra anima fin dalla nascita; ed è sempre il biblico Albero della Vita – emblema, in vero, innato e ben più universale dei già ampi confini che ebraismo, cristianesimo e religione coranica disegnano – a catalizzare l’andamento degli occhi che ovunque s’indirizzano al cielo supplicandolo o interrogandolo. Eppure questo lavoro ha un suo travaglio non detto: nel tentativo di fotografare i gesti di preghiera secondo le diverse tradizioni religiose storiche o seguendo semplicemente gli

istintivi movimenti del pensiero e del corpo degli uomini, si è incontrato sia con l’accoglienza di chi ha voluto testimoniare la propria devozione o i propri modi del meditare, sia col rifiuto di chi non ha voluto che un gesto dedicato all’Assoluto, al Purissimo, al Totalmente Altro, potesse ricadere al di fuori di un ambito sacrale. Ancora una volta è il silenzio a dare il senso più bello alla parola, è il vuoto d’immagini a meglio sostanziare le figure ed è, infine, l’impossibilità di fotografare la preghiera a rendere preziosa quella che si è lasciata catturare in un sortilegio di grazia. La squisita ironia di Chiara Lecca, di un kitsch fiabesco e lieve, indirizza la propria ricerca sulle forme del gesto scaramantico e della superstizione, che, come avverte Ananda K. Coomaraswamy, sono spesso frammenti “superstiti” di culti dimenticati, di modalità interpretative di una realtà ingestibile per cui l’animale, che emerge come cifra aleatoria e misteriosa del mondo, diviene elemento di mediazione, controllo e confidenza della natura e del fato. L’albero di zampe di coniglio è un’irriverente forma simbolica dello scongiuro, un appendiabiti della scaramanzia, una confessione divertita che annulla le pretese di pieno e lucido possesso del mondo da parte dell’uomo moderno e contemporaneo, pretese sconfessate dall’arte, cioè dalla cultura stessa che la modernità produce. Quanto il mondo attuale dell’estetica sia debitore di quello antico e possa, anzi debba farlo rivivere in materiali e forme inusitate è detto dal tempio – sobrio e mirabolante – edificato da Ana Hillar. Il suo Bianco dentro accoppia in modo emozionante nylon e porcellana e intesse un poema neoplatonico sulla luce e la trasparenza, giocando sul movimento duplice delle forme geometriche. La musica ascendente del cilindro – musica di canne d’organo – e quella discendente del cono – emanazione e discesa di cori angelici verso il centro della terra – producono l’incontro impalpabile e traslucido di cielo e terra, generano la manifestazione sospesa di un bianco lievissimo, origine e insieme di tutti i colori, punto di partenza di ogni figura, mundus imaginalis e spissitudo spiritualis, estesi come i Vela Templi, tra noi e l’Inviolabile, luogo dell’affacciarsi del divino. Il cono rovesciato è contenuto nel cilindro come se ogni preghiera portasse già in sé, nell’innalzarsi a mo’ di inno sobrio e solenne, un avvicinamento dell’Assoluto al rela-


tivo, una presenza del cherubino dai molti occhi nel fondo del terrestre che, prima di ogni invocazione, suscita una risposta dell’umano, a comporre il giocoso sortilegio di un divino che chiama se stesso nel fondo dell’anima al ritorno in patria. Sciorina la sua giaculatoria laica, alla maniera di un componimento musicale, anche il suggestivo polittico pittorico di Stefano Mina, il quale, in macchie, punti e fasci fluorescenti, assottiglia tenebre nere, verdi o azzurre, fa emergere punti di forza spirituale nella notte, fulcri d’attenzione nel crepuscolo dell’anima. Le oscurità scelte per lo sfondo si rivelano come il tavolo da lavoro cromatico e intellettuale dell’artista, il chaos originario da cui far emergere la potenza cantabile della luce. A contatto con quest’ultima il nero manto non è più sconforto ma protezione fidente, concentrazione e attesa necessarie, raccoglimento benevolo di forze, possibilità di vedere e di ascoltare le vibrazioni del silenzio, iniziazione a un rito dimenticato. Precipizio improvviso, vertiginosa spelonca teopatica o caduta a picco dello sguardo verso trasalimenti tonali, segni di moti spirituali violenti e radicali, il lavoro di Meris Cenni – un’alchimia d’esperienze emotive e di turbamenti intellettuali vissuti per anni nel più totale nascondimento – si è svolto in una lunga e coerente indagine sul paesaggio quale metafora intimissima dell’anima. N’è scaturita una pittura potente e colta, tramata di citazioni “turneriane” e di rimandi a fosforescenze e “macchie” secentesche. Seguendo la scrittura di un pentagramma figurativo e cromatico molto ristretto e selezionato e applicato monasticamente al componimento di variazioni minimali sul tema, il suo travaglio pittorico è approdato al fondo degli inferi della materia stessa del colore. Così la stupita meditazione d’In quiete, segue l’inabissamento d’Interno in verde, dove il riferimento visuale ad un orizzonte figurativo è quasi del tutto scomparso – al di là dell’evocazione marina – nell’angosciante risacca oceanica del cuore. La natura visibile, la natura naturata dei filosofi, è trascesa nella visione tremenda della natura naturans, del Dio che opera nascosto e terribile. Attraverso la filosofia religiosa e romantica di Schelling, figlia del panteismo magico rinascimentale, questa pittura risale verso le oscure sorgenti della mistica tedesca dove il nocciolo divino – segreto e comune – del mondo e dell’anima è il Grund o «Fondamento», inteso sia come «Fondazione ori-

ginaria», Urgrund, sia come «Fondo senza fondo», Ungrund o Abgrund: «Ciò che vi è di più oscuro e profondo nella natura umana è la nostalgia, che nella sua manifestazione più profonda è melanconia. Anche ciò che vi è di più profondo nella natura è malinconia: anch’essa s’attrista per un bene perduto». L’esperienza pittorica, opera similmente all’ascesi orante di Meister Eckhart e d’Angelo Silesio o alla teosofia alchemica di Jacob Boehme: permette di attraversare l’oscurità e ridarsi al divino, di recuperare nostalgicamente l’origine, superando le paludi psichiche della tristezza emotiva in un’Odissea dello spirito che dipinge il poema visivo del ritorno, spezzando il sortilegio dell’esilio. Apparentemente usciti da un film apocalittico gli incantamenti di Silvia de Martin e Franco Stanghellini si concretizzano come improbabili diorami metafisici, incorniciati da saldature di metalli e di altri materiali industriali raccolti e collezionati secondo l’idea di una loro predestinazione segreta alla costruzione di porte verso altri mondi. Oggetti ritrovati e altri composti, rinvenimenti felici e sculture volute, pietre di scarto abbandonate tra erbe selvatiche e polluzioni di muschi e funghi, di muffe e licheni: tutto accenna ad un mutamento nel concepire il mondo che un’arte antropologica riveduta e corretta può restituirci offrendo un modo nuovo di pensare per immagini e orizzonti visivi. Sculture di latta arrugginita schiudono mondi a chi ha il coraggio di avvicinarle e mostrano, attraverso schermi fascinosi e deformanti, fotografie delle più squallide e apparentemente desertiche periferie urbane, segno dell’attuale degradazione della cultura edilizia occidentale. Elementi simbolici ravvivano l’inesprimibile bruttezza dei luoghi facendo percepire, attraverso la lucida attenzione dell’obiettivo fotografico, il sentimento di un’inquietudine pittorica alla De Chirico, di un interrogativo filosofico sul destino dell’uomo, una domanda senza risposte scontate, simile piuttosto ad una preghiera che invoca profezie. Tania Flamigni è, sia in senso teorico sia pratico, un’erudita della decorazione, nonché un’esperta conoscitrice delle tecniche incisorie: questi elementi di poetica e di cultura la qualificano come particolarmente sensibile nell’avvicinarsi a tematiche sacre quali le preghiere e i sortilegi. Di contro, il dittico blu e rosso che qui propone, stendendo l’acrilico sulla tela, genera uno spaesamento rispetto al tema prescelto


per il luogo. Tuttavia, i fiori rossi, che sorgono dal blu e in qualche modo lo custodiscono nelle loro ombre, così come il profilo dell’asino che emerge dallo scarlatto, riportandone spruzzi diffusi sul manto, sono un gioco di pensiero sui due colori fondamentali – freddo il primo, caldo il secondo – il quale conduce l’attenzione verso lo sfondo, da sempre in pittura veicolo di meditazione, in quanto capace di dare l’atmosfera spirituale, lieve o intensa, di un’opera e di suggerirne il senso non detto. A leggere Stelle su misura di Adorno si svela l’inganno della cultura pseudo-astrologica di massa e del modo inautentico con cui ci si avvicina oggi a una forma di conoscenza antica che non fu solo la madre della moderna astronomia scientifica ma anche un sapere tradizionale profondo e portatore di una complessa visione del mondo, del destino e delle vocazioni individuali. Un discorso simile andrebbe fatto ora sui Tarocchi davanti all’uso divinatorio scorretto che ovunque si propaga come una lebbra; tale inganno si sostituisce alla fede e a questo fraintendimento irridono le ceramiche di Fiorenza Pancino che inghirlandano di Arcani e Trionfi due immagini sacre del cattolicesimo: Sant’Antonio Abate e la Madonna del Piratello. Quest’ultima, per inciso, è simile alla latina Mater boni consilii e deriva dalla bizantina Madre di Dio della Tenerezza o Glikophilousa; ciò sta a indicare il destino di mutazioni ma anche di prodigiosi risvegli cui sono sottoposti gli archetipi sacrali. A saper leggere con umiltà e attenzione, molti tesori intellettuali si nascondono dietro l’iconografia cristiana come dietro quella dei Tarocchi i quali, per autori come Valentin Tomberg, non sono poi così opposti, nella loro ricchezza allegorica, dalla teologia delle sacre figure cattoliche. Dunque, volente o nolente, per calcolo o per fato, dall’ironica sovrapposizione di linguaggi del mistero si finisce col respirare un’aria d’iconologia warburghiana disciolta in confronti e sovrapposizioni: da tali accostamenti si profonde una catena di pensieri sulle manifestazioni artistiche del divino, colate in forma d’orazione o d’enigma. Di primo acchito le icone e i santini fotografici di Amanda Chiarucci sembrano uscire dagli episodi della Trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini: l’atmosfera di sofisticato kitsch che emana da queste opere si dissolve in una più antica idea di rappresentazione popolare, di dramma sacro, di tea-

tro dei misteri, insieme povero e barocco, resuscitato in forma cinematografica o da rotocalco. D’altra parte l’ingenuità e il cattivo gusto di certa devozione del volgo deriva direttamente dalla decadenza industriale di arti sacrali che furono un tempo solenni e meravigliose: Bisanzio e la Controriforma innanzitutto. Di questa sottocultura, il gesto dell’artista salva il valore insieme pagano e cristiano di un contatto rituale e sensuale col divino, di un accostarsi amoroso di cure e di baci a presenze protettive e confidenti che possono elargire grazie ma che, soprattutto, accolgono in sé non pochi elementi della vita carnale e dei patimenti dei devoti. Dietro l’approccio ironico si cela, così, un istinto di ricerca antropologica per cui ci s’interroga sui modi dell’affidarsi in preghiere, sulla necessità di salvare un po’ del proprio travaglio quotidiano esponendolo sull’altare. L’installazione musicale di Simone Pelliconi avvolge e chiude il sortilegio dell’intera rassegna. L’artista ha raccolto, con la passione di un indagatore accademico, prove di cori ecclesiastici e frammenti d’esercizi vocali liturgici al fine di ricucirli ed accostarli riproducendoli, in ultimo, secondo l’andamento “casuale” e mutevole di una memoria computerizzata: la scelta della frammentazione, dell’armonia non voluta e della dissonanza ricercata, testimoniano perfettamente il baratro di balbettii e belati in cui affonda la nostra età della critica e con lei l’arte che la esprime, ma dice anche la nostalgia dell’integro, del silenzio che in cui le arti possono commentare ancora un testo divino, del bisogno di risalire dalle confuse parole della foresta baudelairiana, alla lucida perfezione degli archetipi incarnati, forieri di forme compiute e infinite. Alessandro Giovanardi


valerio vasi

india water bless


via crucis


4 settembre 2003 15 marzo 2008 resina e pittura arilica, cm 170 x 50

alberto biagetti



falco, 2007, tecnica mista su tela, cm 200x200

vanni spazzoli


senza titolo, 2007, tecnica mista su tela, cm 200x200


preghiere in metratura, 2007, cm 100x100

sara guberti


preghiere in metratura, 2007, cm 100x100


loretta zaganelli

preghiere. da 0 a 100, 2008, installazione, stampa lambda su forex



chiara lecca

senza titolo, 2008, acquerello su carta, cm 39x57


it’s your lucky day!, 2008, tecnica mista con tassidermia, h. ca cm 190

chiara lecca


blanco dentro, 2007, porcellana, nylon, diametro cm 125 h. cm 350

ana hillar



stefano mina

oltre (dettagli dell’installazione), acrilico su tavola, cm 90x580



Interno in verde, acrilico su tela, cm. 90x90

meris cenni


in quiete, acrilico su tela, cm. 90x90


franco stanghellini

microambienti sbarchi dallo spazio profondo



sbarchi dallo spazio profondo

silvia de martin



dittico, 2007, acrilico su tela, cm 50x50

tania flamigni



the peoples loves tarots. s.antonio abate to look about 2008, ceramica, cm 35x40x13

fiorenza pancino


the peoples loves tarots. the beata vergine del piratello to look about 2008, ceramica, cm 38x43x13


amanda chiarucci

madonne, 2006, intallazione a mosaico (30 immagini 40x50, stampe digitali da fototessera montate su alluminio), cm 400x150



“Volevo che ogni cosa avesse un qualche senso, sì, per poter essere felice così e rinunciare a una vita mostruosa. E creai bugie deliziosamente armoniose, e di questo triste mondo le vie mutai in albe radiose” (un Calipso da Ghiaccio Nove) Dedicato a Kurt Vonnegut, che morì, muore e morirà sempre il 12 aprile 2007. Così va la vita.

simone pelliconi

laalaaaalalaaa! (incanti devozionali) sonorizzazione d’ambiente, 2008



poesia nidi:

francesca serragnoli campi di battaglia:

giovanni nadiani con marco mingarelli (marimba) e linde nadiani (violino) preghiere e sortilegi:

vanessa sorrentino con francesco guerri (violoncello)

venerdì 4 aprile ore 21.30

pescherie della rocca, piazza garibaldi lugo ra

poesia

Francesca Serragnoli è nata nel 1972 a Bologna dove vive. Suoi testi sono apparsi nelle antologie I Cercatori d’oro (La nuova Agape, Forlì, 2000) e Nuovissima poesia italiana (Mondadori, Milano, 2005). La sua opera prima Il fianco dove appoggiare un figlio.


Giovanni Nadiani è nato nel 1954 a Cassanigo di Cotignola (Ra). È poeta, traduttore e autore di testi di narrativa breve e per il teatro. Insegna alla Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna sede di Forlì.

Vanessa Sorrentino è nata il 30 maggio 1973. Vive e lavora a Forlì. Tessitrice di parole. Pubblica la raccolta Ossigeno (Book editore, Bologna) con cui viene segnalata al Premio Navile e con cui vince il Premio Speciale della giuria del Concorso Nazionale Tra Secchia e Panaro. Realizza il libro d’arte La vita delle mani dedicato a Camille Claudel.


I. A un ritratto C’è in questo pensamento un odore di zenzero al centro una linea continua di fumo che si spezza sempre prima di afferrare il filo freddo del suo guardare. Lei la sveste solo il mare a mani nude il suo ventre è l’argento dell’acqua l’uva pestata in punta di piedi dalla luna. lei è l’orbita che va per i campi senza letto sempre all’alba e tu la segui perché ti promette di toccare dove nasce il suo mare cosa c’era prima dell’acqua. Lei che ama qualcosa e non parla.

francesca serragnoli


II.

III.

Ero entrata appena nel tuo harem di rose pakistane avevo creduto al tuo cuore di farina alle uova avvolte nella carta di un giornale. Sbagliavo, stringevo la tua rosa seccata fra i denti.

È l’agonia di un uomo che fa vertigine un uomo che passa a sirena spiegata alta sopra ogni bar sopra ogni bellezza di fard è l’altopiano più alto del canto un uomo che non sa esistere non aiutato

Di te sono rimasti un piatto di pasta riscaldato nel vino i tetti di una Bologna svestita e un cognac marca Lepanto. E forse sono rimasta io fra le rose.

dopo di ciò si può affilare a china un destino geografico sciogliere dai capelli la spilla che libera i fiumi e scende dalla tv una cordiale truppa di giacche qualcuno chiude a due mandate dal pianerottolo una porta dopo poco uno scooter esce dal cancello al telegiornale è pronta l’Europa.


Incion dai fasen un munument par tot i cadù dl’ultma gvèra ormai l’è piò d’sânt én i murt j è tot pracis u n’s’j arcorda piò incion i bon e i cativ… i murt j è tot bon e tot cativ l’è giosta arcudêi tot… ciô stasì mo un pô a sintì s’l’è vera ch’e’ mond u s’scorda dla zent e’ srà mèi lasêi un segn insignêi la difarenza tra chi ch’l’è mort par fê murì la zent e chi ch’l’è mort par fê smetar d’ fê murì la zent…

giovanni nadiani

nessuno dai / facciamo un monumento / per tutti i caduti / dell’ultima guerra / ormai è più di settant’anni / i morti sono tutti uguali / non se li ricorda più nessuno / i buoni e i cattivi…/ i morti sono tutti buoni e tutti cattivi / è giusto ricordarli tutti…” // “ehi state a sentire un po’ / se è vero che il mondo / si dimentica della gente / sarà meglio lasciargli un segno / insegnargli la differenza / tra chi è morto per far morire la gente / e chi è morto / per far smettere / di far morire la gente…


Gnînt …ah prendere sonno appisolarsi qui sull’amaca meridiana senza il frizzio d’autostrada nulla soltanto questo vento sottile dal mare a cullare leggero l’ombra cresciuta negli anni per gatti e persone a sdraiarsi in un sonno breve e fasullo a intorpidirsi nel niente nell’impressione di potere dormire davvero in questa calura che già divora le cime dei monti con la paglia indolente di un vortice a spiovere in questo giardino vampate bollite ignote per tutti a portarci la nostra sostanza di sempre l’indifferenza di stare ma di colpo il sogno è già infranto spaccato dai nostri uccellaci di bollore saldato a perforare la storia a gracidare oltre il mare il dollaro falso a chi si ammazza senza coscienza per un fosso, una chiesa, una piazza… e no a cvè a pruvê a tni signêr int un palugh tot cvel che un s-ciân pöch o banasé int l’armór di su dè int e’ zet dla su tësta a e’ mond pr un sgond e’ pö sintì fê ’na brescla parturì dundlê basterd ins l’altalena cun i lëbar sfiurêr i lens e les d’una cosa e’ rispir d’una discesa in bicleta d’una corsa ins e’ rivel de’ fion dês ’na mân senza intarës e pu cal futugrafei cal righ chi son ch’j à la grëzia d’fêt ciapêr e’ magon s’t’é la grëzia d’rësar sveg da bon e no’ intavanê int e’ gnît... e noi qui a tentare di annotare in un pisolo/ tutto quello che un vivo poco o tanto/ nel rumore dei suoi giorni nel silenzio della sua testa/ al mondo può sentire/ fare una briscola partorire dondolare bambini/ sull’altalena con le labbra sfiorare l’ansimare/ il liscio di una coscia il respiro di una discesa/ in bicicletta di una corsa sul rivale del fiume/ darsi una mano senza tornaconto e poi quelle fotografie/ quelle righe/ quei suoni che hanno la grazia di farti/ venire il magone se hai la grazia di essere/ sveglio davvero e non intorpidito nel niente…

..e nó a cvè cun sta faza straca intavanê int e’ gnît fasend cont d’gnît cun la pânza pina un’étra vólta a caval dla vegia e de’ sön ‘tânt che i pasarot i lasa al pen al gati morti senza pinsê d’putê ciapê tot i mument e’ sön dla nöt intira par badêr a l’intarës d’un dè lutend cul rugh che un pö a la vólta sora al nöstr idei vindudi al biasa l’ôra par lasês cun la nöstra ombra a brusês ‘t e’ sól senza ch’u s’n’adega incion fasend cont ad no’ savél che stêr insen l’è sól un sogn d’élta stason che palugh dop a palugh u s’tucarà d’sugnêl incóra... …sugnê pr indurmintêr e’ gnît spurir e’ gnît e’ gnît e’ gnît e’ gnît gnît gnît gnît…

…e noi qui con questa faccia stracca intorpiditi/ nel niente facendo finta di niente con la pancia/ piena un’altra volta tra la veglia/ e il sonno intanto che i passeri lasciano/ le penne alle gatte morte senza pensare di cadere/ tutto d’un tratto nel sonno della notte intera/ per badare al tornaconto di un giorno lottando/ con le rughe che un po’ alla volta sopra/ le nostre idee vendute masticano l’ombra/ per lasciarci con la nostra sagoma a bruciarsi/ nel sole senza che se ne accorga nessuno/ facendo conto di non sapere che stare insieme è solo un sogno d’alta stagione che sonno/ dopo sonno ci toccherà sognare ancora…//…sognare per addormentare il niente/ spaventare cacciare il niente/ il niente/ il niente/ il niente/ niente niente niente…


vanessa sorrentino



musica nidi:

comaneci campi di battaglia:

sea of cortez

preghiere e sortilegi:

aidoru

sabato 22 marzo ore 21.30 auditorium arcangelo corelli, corso emaldi fusignano ra

concerto

comaneci Alle Olimpiadi del 1976 una ragazzina entrò nella storia. Con inaudita grazia e movenze simili ad una farfalla incantò gli spettatori fluttuando tra le parallele e assegnandosi il primo 10 nella storia della ginnastica artistica. Dal 2003 Nadia Comaneci ritorna alla mente di un trio ravennate che sceglie questo personaggio esile ma capace di arrivare ovunque contro ogni aspettativa, come rappresentativo di un minuto ma efficace progetto musicale. Una voce eterea per quanto viscerale. Un trio emotivo, riservato e sorprendentemente esplosivo. Nascono i Comaneci che sanno come far “rumore” senza alzare il volume, il loro pop acustico da “cameretta” è quanto di più intimo e avvolgente sia possibile ascoltare da una band italiana esordiente. Il cantato sognante di Francesca Amati rappresenta la peculiarità di un gruppo che di per sé peculiare lo sarebbe già. Dopo due Ep autoprodotti in formato cd-r e il sostanzioso contributo fornito alla colonna sonora di “Provincia Meccanica” di Stefano Mordini, film presentato al Festival di Berlino, i Comaneci debuttano sulla lunga distanza con Volcano., per la Disasters By Choice. Disco dalle scosse sotterranee, che riassume in dodici tracce gli splendidi connotati del gruppo. La voce di Francesca, impegnata anche alla chitarra classica, è splendidamente supportata dagli accordi in punta di dita del chitarrista Andrea Carella e dall’evocativo violoncello di Jenny Burnazzi. Andrea Carella – chitarra, voce Francesca Amati – chitarra classica, voce Jenny Burnazzi – violoncello


sea of cortez «Killer loops e percussioni libere. Blues slabbrato, a bassissima fedeltà lasciato decantare fino a che non è lo si è ritrovato in cantina arrugginito e cigolante». «Sedimenti di folk, country, blues, punk, musica concreta, techno, psichedelia, funk primitivo». Sea of Cortez è un collettivo di musicisti i cui membri provengono dagli ambiti sonori più disparati. In questi anni il gruppo ha diviso il palco (e spesso registrato) con molti musicisti sia di ambito rock che di area jazz, folk e sperimentale. Fra questi Marc Ribot, Howe Gelb e Giant Sand, Hugo Race, Bill Elm e Friends of Dean Martinez, Robyn Hitchcock, Steve Wynn e Linda Pitmon. Nell’ultimo anno alcuni membri di Sea of Cortez sono stati impegnati nel progetto video Gilgames di Heriz Bhody Anam. Le registrazioni sono state effettuate al Wavelab Studio di Tucson, Arizona con la collaborazione di Howe Gelb e Thoger Lund dei Giant Sand, membri dei Calexico (John Convertino, batteria e Jacob Valenzuela, tromba), Nick Luca, Marc Ribot, James Chance ed altri musicisti. Il lavoro è stato mixato da John Parish a Bristol. Al momento sono in attesa di pubblicare il loro disco The wise frog drowned in the milk. Antonio Gramentieri: chitarra-lapsteel, rumori Mirko Monduzzi: chitarre-loops-tastiere Bubi Staffa: pandeiro, cajon, percussioni varie, rullante, triangolo Denis Valentini: batteria, basso tuba, voci, percussioni Diego Sapignoli: batteria, oggetti metallici, shaker, cowbells, jam blocks Massimo Sbaragli: basso

aidoru «...la musica degli Aidoru è dolore - scaturigine, una ferita - risorgiva incurabile. Il pulsare melodico delle loro canzoni - quasi una condanna - muore come un seme, si sviluppa in infiorescenze emotive che si abbarbicano all’anima e serrano il respiro. Tutto intorno ci sono le minacce di un mondo troppo conosciuto riflesso negli intrichi “progressive” delle loro canzoni, nel deliquio onirico, nei deja vu canterburiani, nel jazz “stracciato”. Gli Aidoru sono violenti: tracheotomizzano il pop, lo fanno respirare squarciandogli la gola. Sono complessi, come lo sono i passaggi dell’anima, che disegnano con tutte le ombre degli stupri subiti e le dolcezze desiderate...» Dionisio Capuano - Blow up

Dario Giovannini: voce - chitarra - tastiere - fisarmonica Diego Sapignoli: batteria - percussioni Michele Bertoni: chitarra Mirko Abbondanza: basso - voce


Mirko Fabbri, nato a Lugo nel 1974, vive a San Pietro in Vincoli (Ra). Giovanni Blanco vieve e lavora a Rosolini e a Bologna Monica Pratelli nata a Rimini nel 1964 vive e lavora a Rimini90

Francesco Borghesi Prodotto a Ravenna, distribuito a Lugo

Silvia Camporesi www.silviacamporesi.it www.aboutophelia.splinder.com

Laura Baldassari nata a Ravenna dove vive

Oscar Dominguez, nato in Argentina nel 1970, vive a Faenza. Luigi Berardi Nato a Santerno (Ra) nel 1951 lavora a Sant’Alberto (Ra)

Enzo Castagno nato a Milano nel 1962, vive e lavora a Busto Arsizio.

lorenzo Di Lucido nato a Penne (Pe) nel 1983, vive a Bologna

Lorenzo Casali nato a Tradate (Va) nel 1980 attualmente vive a Rotterdam. foto: Federico Guerri

Carlo Cavina nato nel 1972 a ForlĂŹ, dove vive

Nadia Trotta nata a Thionville (Francia) nel 1968, vive a Ravenna

Maurizio Battaglia nato nel 1971 Marco De Luca nato a Medicina (Bo) nel 1949, vive a Ravenna.

Dacia Manto nata a Milano nel 1973. Vive a Bologna e Milano


Tania Flamigni è nata nel 1969 Meris Cenni, nata a Verucchio nel 1969. Vive e lavora a Villa Verucchio (Rn)

Fiorenza Pancino nata a S.Stino di Livenza (Ve) nel 1966, vive a Faenza (Ra) Amanda Chiarucci nata nel 1974, vive a Meldola (Fc).

Stefano Mina Nato nel 1957 a Rimini, dove vive Franco Stanghellini nato nel 1956 a Forlì dove vive.

Chiara Lecca è nata nel 1977 a Modigliana (Fc), dove vive

Loretta Zaganelli è nata nel 1968 a Ravenna, dove vive

Sara Guberti nata a Ferrara nel 1970, vive a Ravenna

foto: Luca Vagni

Vanni Spazzoli nato a Forlì, vive a S.Agata sul Santerno (Ra)

Alberto Biagetti nato a Santarcangelo di Romagna vive a Milano

© Jontathan Frantini

Valerio Vasi nato a Rimini nel 1959 vive a Cesena

Roberto Paci Dalò nato nel 1962, a Rimini dove vive

Ana Hillar, nata in Argentina nel 1969 Vive a Faenza.

Silvia De Martin, nata a Genova, vive a Forlì.

Simone Pelliconi nato nel 1970 a Lugo, dove vive.


Ringraziamenti Questo progetto è reso possibile dall’impegno e partecipazione (ostinata e lungimirante) dei Comuni di Cotignola, Fusignano e Lugo e dei rispettivi Uffici Cultura Antonio Pezzi Sindaco di Cotignola Maurizio Casadio Assessore alla Cultura di Cotignola Daniele Ballanti Capo settore Servizi Socioculturali di Cotignola Mirco Bagnari Sindaco di Fusignano Lino Costa Assessore alla Cultura di Fusignano Paolo Trioschi Servizi Culturali di Fusignano Tiziana Giangrandi Dirigente Servizi Culturali Comune di Fusignano Raffaele Cortesi Sindaco di Lugo Giovanni Barberini Assessore alla Cultura di Lugo Daniele Serafini Servizi Culturali di Lugo Ringraziamenti speciali grazie all’Associazione Culturale Primola, amica e compagna indispensabile, nello specifico a Mario Baldini, Mario Mazzotti e Mauro Ronconi, all’Associazione Culturale Artincanti nella persona di Vanessa Sorrentino per la collaborazione, ideazione e cura della sezione poesia; grazie a Lucca Mauro per “l’elettricità” e le forniture tecnologiche; grazie ai selvatici Lucia Baldini, Pamela Casadio, Daniele Casadio e Federico Settembrini per i buffet, i trasporti, gli allestimenti e molte e tante altre cose, a Cecilia e Daniela del Servizio Civile (Comune di Cotignola); grazie ai musicisti e ai poeti per la generosità, a Lombardi per il service e a Franco “Beat” Naddei per la registrazione dal vivo del concerto; infine un grazie di cuore a tutti gli autori che hanno aderito al progetto con entusiasmo e grande disponibilità rendendo possibile questo catalogo, la mostra e gli eventi ad essa collegati.

LC Elettrodomestici di Lucca Mauro Corso Sforza, 29 Cotignola (RA) Tel. 0545.41605



pescherie della rocca

* palazzo sforza cantiere delle arti

comuni di cotignola fusignano lugo assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna

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