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segnare intorno
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segnare intorno
comune di cotignola assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna in collaborazione con associazione culturale primola antonio pezzi sindaco di cotignola maurizio casadio assessore alla cultura di cotignola daniele ballanti capo settore servizi socioculturali di cotignola la presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di selvatico rassegna di campagna in occasione della mostra out of the map – segnare intorno 11 ottobre – 2 novembre 2008 a cura di massimiliano fabbri con la collaborazione di viola giacometti progetto grafico e impaginazione: marilena benini finito di stampare nell’ottobre 2008 da grafiche morandi fusignano www.aem-selvatica.org
* palazzo sforza barbara ruzziconi, rita ravaioli, samanta bodard, babiscia, georgia galanti, anna visani, debora branchi, clio, domenico grenci, pietro meletti museo varoli filippo farneti sala archeologica andrea tampieri casa varoli massimo brancaleoni, luca rotondi
chiesa del suffragio pietro lenzini, pier giovanni bubani scuola arti e mestieri mattia battistini casa magnani marilena benini
* palazzo sforza cantiere delle arti
casa vassura gian ruggero manzoni, kry, michele ferri, angelo monne
Il disegno è ovunque. Ci circonda, in varie forme, nella vita di tutti i giorni. Riempie il nostro campo visivo: il filo del telefono, un nome scarabocchiato velocemente su un pezzo di carta, una macchia sulla tovaglia, il profilo di un paio di occhiali sullo sfondo di un viso. È il segno umano stesso. Ha un carattere elementare e primario. Lo si pratica come prima esperienza da scolari, per incominciare a relazionarsi con degli sconosciuti, per fare un po’ di movimento e provare la propria fisicità, per presentarsi, capire quanto siamo abili o carenti, per identificarci con dei colori piuttosto che altri e cercare chi ne ha scelti di simili ai nostri. Disegnare è come l’esperienza stessa di vivere dentro il mondo. Il disegno è “una linea attiva di cammino, che si muove liberamente, senza obbiettivo. Un camminare per il piacere di camminare”1; disegnare è connettersi con tutti i fenomeni fisici del mondo: “il lavoro dei muscoli e delle ossa, il fluire del sangue, delle cascate, il volo degli uccelli, il movimento delle maree, tutti casi di movimento lineare coordinato”2. Rappresenta la più antica e immediata forma di immagine, addirittura si potrebbe ammettere la sua precedenza sulla scrittura. L’arte delle grotte paleolitiche è una forma di disegno, un disegno che è “antico come il canto”3. È il luogo dove cecità, tatto e somiglianza si sono incontrate, sancendo per sempre lo statuto mitico del disegno. L’idea che lo sostanzia, così come la sua esecuzione, sono rimaste immutate per migliaia di anni; è un’attività che si ricollega direttamente, attraverso una linea ininterrotta, con il primo uomo che abbia mai abbozzato nel fango o sul muro di una caverna. Il disegno è sempre associato con il magico: i primi umani hanno dipinto animali da cui dipen
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L’ultimo episodio (probabilmente) di Selvatico rassegna di campagna chiude il progetto espositivo, cominciato nel 2006, con un percorso che coinvolge ancora una volta un numero corposo di artisti (ventitre), chiamati ad operare principalmente, ma non in maniera esclusiva, nei luoghi di Luigi Varoli, in occasione del cinquantenario della morte dell’artista cotignolese. La mostra si inserisce nel cartello degli eventi celebrativi dedicati dal comune di Cotignola a questa rilevante personalità dell’arte e della vita romagnola della prima metà del ‘900, e si configura come un intervento plurale e sfaccettato che scaturisce dall’incontro tra modi di vedere e opere contemporanee con spazi densi di cose e storia per il paese. (La figura di Luigi Varoli è complessa e poliedrica: è pittore, scultore, musicista, maestro per adulti e bambini, archeologo e “uomo giusto” che durante la seconda guerra mondiale salvò alcune famiglie di ebrei.) Con questo progetto si prosegue perciò, e si spinge ulteriormente, su quella capacità, attitudine e prerogativa che ha contraddistinto il maestro, di coinvolgere, attirare ed attrarre artisti in un territorio marginale e periferico come Cotignola; nel tentativo, da una parte di renderlo maggiormente vivace e permeabile a fermenti creativi (qualità della vita?), dall’altra operando con una sorta di sguardo laterale, quasi una volontà resistente che trova nel decentramento, nell’ostinazione testarda e in un’appartata partecipazione una delle sue ragioni d’essere. Nell’urgenza e necessità uno degli aspetti irrinunciabili del fare. Di un fare che è pratica quotidiana e quasi artigianale, imbastardita nella volontà di incontro con i materiali e le cose. A guida, quasi un animismo domestico. Questa mostra rimette perciò in gioco, se si vuole anche in maniera ironica, queste tracce e tensioni, sperimentando l’innesto e l’intrusione, la convivenza forzata e l’incontro felice; lo scambio tra modi di vedere. Tra contrasti, aperture e possibilità. Sistemi di relazione comunque.
Il luogo che, per quanto possa apparire infimo o limitato, è comunque la ragione del movimento e quindi diviene rilevante. Imprescindibile. Rende necessario il progetto, lo chiama a sé. Tra l’offerta e il bisogno di trattenere qualcosa. Non solo e non proprio un omaggio quindi. Piuttosto, una domanda rilanciata, un transito che può forse portare nuova linfa, un sangue che ringiovanisce mescolandosi. Si tratterà infatti di una serie di occupazioni temporanee da parte di alcuni artisti che permetteranno e rilanceranno nuove prospettive anche sui beni e il patrimonio del paese, collegando diversi edifici in un percorso (gli otto spazi espositivi di questa mostra sono racchiusi nell’arco di circa cento metri, tra corso Sforza, via Cairoli e via Roma) che rappresenta un vero e proprio centro e cuore pulsante della piccola comunità di Cotignola, sia per i valori architettonici delle costruzioni toccate, sia, in larga misura, per i legami storico-artistici che racchiudono e di cui sono portatrici. Il tutto attraverso lo strumento, filtro e lente del disegno. Del disegno che stana. Del disegnare scelto ed eletto a comun denominatore degli interventi, filo rosso che attraversa e tiene, annoda, sostiene e scava le diverse esperienze, modalità e vicende degli artisti invitati. Una trama messa a nudo. Il disegno è qui una scelta quasi obbligata perché è strumento leggero, capace di adattarsi, di farsi accogliere ed intrecciare relazioni, entrando negli spazi e nelle stanze quasi in punta di piedi, instaurando un dialogo gentile con le cose, amplificandone gli echi, riallacciando voci e racconti. Uno specchio. Riflesso. Riflettere. Speculum. Il disegno che rilancia. Bucare. Passare di là. Oltre. Regressus ad futurum, progressus ad origenem. Dialogo che è possibile grazie ad un linguaggio che è contemporaneamente antichissimo e attuale, quotidiano e sorprendente, capace di collegare occhio e mano, di permettere l’incontro 7
e scambio tra storie differenti e distanti, tra mondi lontani: il disegno come una sorta di lingua comune, mobile ed universale. Riflesso costante del mondo. Ponte gettato verso l’ignoto. Tentativo meraviglioso (e alla portata di tutti). Quando disegno cerco di capire il mondo e le cose, di afferrarle, o di richiamarle e farle affiorare dalla memoria. Guardo. Traduco. Smonto. Costruisco. Giudico. Correggo. Ritorno indietro, mi proietto in avanti, dilato il tempo presente. Il disegno, o meglio il disegnare, porta sempre ad un cambiamento e perciò migliora. Disegnare è un incantesimo e un incantamento. È formula primaria di trasmissione-comunicazione, mette in contatto: anche un disegno finito costringe chi guarda ad attivare un processo quasi automatico che porta a ridisegnarlo e riportarlo al suo grado zero, a ripercorrerlo e ricostruirlo. Il disegno non si subisce mai. Attiva. E porta stupore. Il disegno che è progetto, cantiere aperto, traduzione di pensiero più o meno incerto che si incontra con la realtà, con una durezza di materia-superficie che lo rende tangibile. Il rumore della matita sulla carta. L’attrito. La pressione modulata… Il bianco del foglio che diventa spazio, spazio immenso e profondo (ogni segno tracciato è una vera e propria coordinata): il disegno come un’idea quasi tattile. Un solco. Il disegno come cura e come ferita aperta. Del bloccare un flusso, del trattenere ed impigliare ma anche del riversare un catalogo segreto, nascosto e continuamente aggiornato. Un tesoro sepolto nella mente a cui attingere, che viene alla luce. Affiora. Tra sentimento di perdita e crescita costante. Che ogni movimento sposta in avanti. Modifica. Il disegno è un mezzo potenziale e dinamico, un’apertura straordinaria. Uno strumento di precisione. Fluido e mobile, lieve e leggero, multiforme come lo possono essere il segno e la vista. Liquido. Minerale. Prezioso e povero al tempo stesso, fragile e duraturo. Pratica comune e condivisa che creerà e ci condurrà in una sorta di trama ingarbugliata, una ragnatela o nido che impiglia e trattiene molteplici sguardi e visioni del mondo. Un percorso frammentato e non finito. Con anse e ripartenze. Occhi e mani che si misurano qui e ora in questa mostra con una doppia valenza o tensione: il globale che è caratteristica propria delle arti visive, e il locale in quanto identità irrinunciabile e necessaria, pena un tragico impoverimento dell’uomo e dei suoi luoghi. È su questo snodo che si pone e colloca la domanda rivolta agli autori invitati. 8
Il disegno che è del bambino come dell’artista, che è stato ed è tuttora palestra per vedere, ricordare e comprendere il mondo, ciò che sta fuori e ciò che è sommerso, il violento e l’intimo. Il disegno come schermo e velo tra noi e l’altro, tra un dentro e un fuori. Un atto magico. Di congiunzione. Disegnare è mettere in contatto. Il disegno è un’arma. Il disegno è un abbraccio. Il disegno come battaglia e come atto d’amore. Il titolo della mostra si richiama anche ad una comunicazione interna degli alleati che, a seguito dei bombardamenti devastanti su Cotignola, avvenuti sul finire della seconda guerra mondiale (il fronte stazionava sul fiume Senio), la definiscono come un paese cancellato dalle mappe: Cotignola blasted off the map. L’eco e il rimando sotterraneo alle vicende del luogo è perciò doppio: da una parte gli spazi vissuti da Luigi Varoli (la casa, la scuola, il museo) dall’altra una vera e propria mappa, quasi una mappa a potenza poiché la storia di tutt’altra occupazione è in questo caso messa in atto dagli artisti con i loro disegni, attraverso la loro presenza e collocazione all’interno di diverse case e palazzi. Carte e tracciati che si sovrappongono, quasi una stratificazione o geologia (non solo mentale) di segni, immagini e pensieri. Un complicarsi come di scarabocchio che impreziosisce. Rivoli che scendono e filtrano in profondità. Fiumi carsici che risalgono in superficie. Il trasparente e l’opaco convivono. Due storie passate che si intrecciano anche a livello temporale, il pittore e la guerra a Cotignola. Lacerazioni con cui fare i conti e da cui ripartire (ci sono alcune fotografie commoventi dell’immediato dopoguerra in cui si vedono i carri della cartapesta, a cui anche Varoli lavorava in occasione della Segavecchia, muoversi tra le rovine delle costruzioni sventrate: i cotignolesi avevano aperto il passaggio tra le macerie che ingombravano e ostruivano le strade e, con le case ancora abbattute e da ricostruire, i carri avanzavano stretti in un’atmosfera talmente incredibile che non si può nemmeno definire surreale. Tra squarci improvvisi e cumuli sparsi ovunque, la parata proseguiva, frivola e, allo stesso tempo, importantissima. Stupida e fondamentale.). Il disegnare è sempre frutto di una volontà di orientarsi, è tracciare una mappa (che si sovrappone perciò a quella degli edifici, delle vie e del paese); è una cartografia tremante e instabile, un segnare intorno (intorno alle cose e intorno, se si vuole, ai turbamenti) che rappresenta per noi un altro tentativo di ri-costruzione, nomade e “fatto in casa”. Del catturare e trattenere.
Atto del disegnare che vede, segna e sposta confini. Sottolinea. Rinforza. Un fronte. Una difesa. Arginare la perdita (un arginare la perdita che forse è una delle priorità in luoghi di benessere come questi, sordi, abbastanza ottusi e sempre più brutti). Salvare le piccole cose preziose, forse anche le cose da niente o fugaci; quelle che raccontano, riportano e rilanciano. Fissarle. Testimoni. Usarle come arieti anche. Il disegno è lo strumento mobile e instabile per eccellenza perchè ci riporta e trascina costantemente indietro, a ripercorrere gli stessi sguardi, umori e procedimenti di chi l’ha eseguito (guardare un disegno è un po’ come mettersi nei panni di un altro, avere in prestito i sui occhi, forse condividere la sua storia). Il disegno che è sempre non finito e che perciò offre spazi e pertugi allo sguardo; come nido che accoglie. Smontare il disegno per poi ricomporlo... Aggiungere. Aprirlo. Vivo e collegante. Come se i segni e le linee fossero fili di una ragnatela che tiene insieme e congiunge le cose, trama che cuce lo spazio e il tempo. Una costellazione, una bava di lumaca argentata, una via misteriosa che ti porta dove non sai. Aggrovigliare, ispessire. Dipanare, sciogliere. Nutrimento infine (il disegno è lotta, il disegno è mangiare). Questa proposta è allora la storia di una colonizzazione temporanea, una conquista fertile e gentile, un transito che porta con sé una serie di invasioni e brevi domini, lievi come la carta stessa su cui si tracciano i disegni. Uno schermo e velo che metaforicamente si sovrappongono alle storie e immagini preesistenti con l’intento di svelare e aprire, di fare luce sulle cose presenti (in parte sepolte) arricchendole attraverso altri modi di vedere. Con e di occhio estraneo. Forse dello scavare. Dell’aprire squarci e lampi. Di fantasmi e scheletri, un po’ disegno e un po’ architetture. Ma anche del parziale occultare, del nascondere momentaneamente per far risuonare ancora. Di anfratti e piccole scoperte nel girovagare tra i luoghi.
Di tane ovattate e attraversamenti nomadi. Barbaro. L’andamento della mostra riporta e oscilla queste due tensioni e indirizzi: uno di ascolto sul luogo e movimento relativo, l’altro di dono e intrusione spensierata. La sezione presente a Palazzo Sforza ha in qualche modo a che fare con l’idea di geografia (dentro e fuori di essa), di spazio vuoto da ri-costruire, ridefinire ed abitare (è l’unica che si muove all’interno di locali neutri). Dell’orientarsi: il disegno come bussola. La seconda, che abbraccia tutti gli altri luoghi, deve fare I conti con qualcosa in più che semplici contenitori: strutture che al loro interno sono già contaminate e dense di cose, e il percorso qui si definisce e caratterizza dall’incontro e dialogo tra queste e il lavoro degli autori invitati. Un incrocio e sovrapporsi di sguardi. Un dialogo ora fatto di contrasti e congiunzioni stridenti, ora frutto di teneri abbracci, fusioni, empatie ed affinità elettive. Un po’ barocco, perché lavora sull’aggiunta. Come detto il disegno è quindi il centro, il cuore pulsante, l’esoscheletro e il collante che tiene insieme, racchiude e intreccia la diversità e distanza degli interventi, e che si risolve in un unico disegno plurale che si chiude incastrando frammenti e tasselli, annodando direzioni, inseguendo e dipanando scie differenti. Di disegno come esploso. Espanso. Il disegno è il fiume che passa, porta, lascia e raccoglie; intorno, aggregamenti e ramificazioni in cui perdersi. Smarrire. Perché non c’è un’unica strada. Fuori dalle mappe e dai percorsi già segnati: correre qualche rischio è inevitabile e doveroso (almeno in una provincia selvatica). Mettere, tenere insieme sintonie e lontananze; mischiare con ordine. Massimiliano Fabbri
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palazzo sforza samanta bodard barbara ruzziconi rita ravaioli babiscia anna visani georgia galanti debora branchi clio domenico grenci pietro meletti
Palazzo Sforza è articolato in “stanze”: è l’unico spazio espositivo tra quelli in mostra (insieme a Casa Vassura) a rappresentare un luogo neutro, sgombro da cose e non contaminato. Qui espongono dieci autori, divisi tra due anime e modalità di intendere il disegno: una più esatta, lucida, ed asciugata, di linea analitica che attraverso la precisione descrittiva approda a visioni incisive, anche enigmatiche e misteriose; l’altra più divertita e libertina, calda, colorata e irriverente, tra gesto pittorico e rappresentazione quasi infantile. Una prima via che sceglie una rappresentazione più fredda e distaccata, che è della leggerezza, con linea più anonima, pulita e impersonale, con ironia e gioco mentale a mettere in discussione e minare la visione superficiale; la seconda più artigianale, ridondante e diretta, fortemente soggettiva e coinvolta, più pesante, sporca e spensierata, dialogante con i materiali e con i sensi all’ascolto. Che non prevede l’esito finale, di occhio e mano che trasportano e si lasciano trasportare, concedendosi imprevisti, curiosità e maggiori libertà. Due estremi che valgono un po’ come semplificazioni utili ad un orientamento schematico, capaci di accendere ed attivare una relazione dialettica tra le immagini e i percorsi, anche se si tratta poi di una separazione alquanto grossolana poiché nella pratica i lavori esposti non possono essere racchiusi in un’unica definizione o categoria che finirebbe per sminuirli, mentre invece si presentano sfaccettati, con più umori, scivolamenti e con contorni e significati sfumati. La prima stanza che incontriamo è quella che vede la presenza di Rita Ravaioli, Barbara Ruzziconi, Samanta Bodard e Babiscia, artiste che lavorano su quattro tipologie molto differenti di disegno. Colorato e squillante quello di Ruzziconi e Ravaioli, anche se le analogie tra le due illustratrici finiscono qui perché il primo è di segno e toni duri, spigolosi, saturi e incisivi, capaci di definire metamorfosi e situazioni
ambigue, freak, surreali, grottesche e quasi crudeli; il secondo, di Rita Ravaioli, è tutto giocoso, solare, vibrante e musicale, mosso da una brezza allegra, con un forte gusto ritmico, decorativo e dinamico. Un controcanto rispetto a quello di Barbara Ruzziconi, che è più ironico e tagliente, cupo e profondo, con e di ombre sorde e nere, mentre più morbido, festoso e felicemente rumoroso è quello di Rita Ravaioli, di rumore di piazza con il mercato, o di spiaggia in estate, o ancora con urla di bambini che escono da scuola. Di silouettes come ritagliate e fortemente bidimensionali, che creano quasi un teatrino, mentre quello di Barbara è sicuramente più vicino e debitore al cinema, alla lanterna magica e ad un fare illustrazione di vecchio stampo (quasi vittoriano), descrittivo, dettagliato e rigoroso, da fotografia colorata. Poi Samanta Bodard che ci offre dei deliziosi e sapienti ritratti di volti a lei cari, piccole carte, tascabili come le foto delle persone amate che si portano con sé, lettere disegnate a lume di candela, quasi santini per la preziosità argentea della grafite che contrasta lucente con l’avorio-giallo della carta. Con cura di tratto che ripercorre i lineamenti e li fissa vibranti e quasi commossi, che ogni vita è incredibile, bellissima e straziante. Eppure imperturbabili per la lentezza di cui sono infusi, quasi immersi in un bagno fissatore, una magia inquieta e ambrata, curiosa e (im)mobile come lo sguardo che si è posato. Volti incantati, intimi e distanti, che ci chiamano e oltrepassano, con meraviglia e lieve tristezza di vita e ricordo. Come disegni fatti per alleviare la mancanza, anche se breve, delle persone a cui si vuole bene; e che però, in fondo al loro mistero, semplicità e saggezza, sembrano parlarci di qualcosa di molto più grande e lontano, di un abbraccio ancora più ampio e duraturo. Babiscia utilizza il disegno e l’incisione per costruire un alfabeto quotidiano, una enciclopedia privata ed occulta fatta di immagini parziali e interrotte, rubate e salvate. Un at11
lante allusivo ed ossessivo, con protagonisti ripetuti e trasformati di senso, come pletora di attori a sua disposizione (soggetti spesso banali che Babiscia riesce sempre a rendere intriganti, ambigui e come sconosciuti). Tra il riportare veloce ed urgente, di segno grasso e deciso, marcato, incisivo e vibrante, e una fedeltà iniettata di lieve cattiveria spiazzante, sospesa tra una descrizione maniacale e una linea più schematica, con contorni, condensazione e sintesi da icona o mascherina. Sempre con largo utilizzo del dettaglio, di inquadrature che amputano e tagliano ciò che sta dentro la scena, come di cose colte casualmente, o viste con la coda dell’occhio e di sfuggita dentro la cornice. Margini e spazio del foglio che sono e diventano trappole per topi, preparate per un catturare e bloccare spietato. Un set muto che ci priva del racconto, occultando parzialmente e rendendo misterioso l’attraversamento avvenuto, con tracce ed indizi da decifrare e collegare, con messaggi criptati e visione come di cosa spiata. Facce, corpi, animali, oggetti, tutto è metabolizzato da un disegno camaleontico che oscilla, a seconda delle circostanze, tra il distaccato rigore e l’innamoramento partecipe del segno, tra lo studio scientifico e ammirato, e l’inganno-sotterfugio pubblicitario. Di mondo che viene catalogato a partire da storie mancanti, talvolta colto da sguardo cinico, disilluso e spietato, talvolta da occhio rapito, empatico, catturato, divertito e fugace. Un palinsesto di scatti e tagli, di immagini che sono collegate come ingredienti di una ricetta segreta, agita da un cuoco pazzo killer e creativo, sceneggiatore ipnotizzato e ipnotizzante, mescolante ironia e dramma con cipiglio da mago stregonesco. Nella seconda stanza, con la vetrata che da sul cortile dove si trova la stele funeraria di Caio Vario, tre autrici su quattro hanno un’attitudine al disegno sconfinante e ibrido, che fuoriesce indisciplinato, talvolta sbarazzino, e che si misura con l’istallazione, con altri materiali e che finisce col lambire la scultura. 12
Debora Branchi in particolare porta alle estreme conseguenze questa attitudine finendo anche con il disegnare, cucire, ricamare e stampare le sue preziose immagini su cuscini, materassi, abiti, stoffe e pelli che vanno poi a far parte di un palinsesto, un’architettura con struttura messa a nudo (forse sonora), organizzata, complessa, labirintica e misteriosa, quasi un meccanismo o un enigma che trattiene storie e simboli. Tra tesori abbandonati mollemente come tappeti, muti ed invitanti, e trappole, con sottili marchingegni verticali di difesa, talvolta respingenti e di significato oscuro, difficile e segreto. Della coabitazione del morbido, orizzontale e caldo con il duro dello scheletro e impalcatura. Alchimie. Dove il trascorrere e dipanarsi rallentato e sospeso del tempo si accompagna al desiderio di narrazione, del disegno come possibiltà di suggerire il racconto e stabilire un legame: dispiegarsi del tempo e trascorrere delle ore che è ingrediente sempre presente, preghiera e rimando necessario. Ragnatele, trabocchetti, canti di sirena. Percorsi da seguire, litanie, indizi ed echi. Le immagini fungono da chiavi magiche, come porte per accedere, scrigni capaci di schiudersi, collegare e svelare, come pagine di libro, quadro o miniatura che si collocano tra le pieghe del tempo. Qui due piatti in ceramica, come un’offerta dal sapore antico, mitologico e conturbante. Georgia Galanti nei suoi disegni, installazioni e libri d’artista mette spesso in atto una sorta di giocoso inganno: dove tutto sembra prevedibile, dolce, mieloso e zuccherino, ecco il rovesciamento, il mondo messo sottosopra, lo spiazzamento dove non te l’aspetti. Il coraggio, la durezza e una certa capacità di affondo aspettano dietro l’angolo e sono ancora più imprevisti perché raggiunti attraverso una rappresentazione che fa man bassa delle modalità del disegno infantile (che spesso associamo a una certa graziosa ed innocua superficialità). E come le sensazioni, le parole e i non detti dei bambini, che
si spalancano ingenui, totali e schiaccianti, così le sue immagini sono capaci di toccare i tasti giusti, quelli un po’ addormentati... Senza mai giudicare, ricordando, riportando, sempre e solamente alludendo. E per questo appunto imprevedibili ed anche a volte un poco angoscianti perché, attraverso una certa semplicità, trasandatezza e noncuranza bambinesca, i suoi disegni ci portano involontariamente a regredire, a metterci al loro livello per poi mirare dritti al cuore, per aprire falle e voragini. Le stesse tecniche realizzative muovono su continui spostamenti di centro, ora piccoli disegni poi ingranditi a dismisura (bambine giganti come quelle in mostra), ora minuscole e delicate figurine raccolte (imprigionate?) dentro deliziose carte dei cioccolatini, continui cambi di scala che giocano con le nostre abitudini percettive. Ora rovesciando o riutilizzando un ritaglio di sagoma, sia nel positivo che nel negativo, nel dentro e nel fuori, facendoci magari anche, prima di abbandonarla al suo destino, un frottage così che da un semplice ritaglio si generano tre immagini e anche più. E poi materiali e carte di tutti i tipi e le fatture (come recuperate e conservate in un archivio-catalogo dei ritagli del mondo, da estrarre come prestigiatore al momento opportuno) su cui disegnare un universo di figurine goffe, bambine stupite o principesse altezzose. L’altro spiazzamento è un estraneamento ottenuto dall’uso della parola, di piccoli pensierini accompagnati e accostati alle immagini, frasi o semplici nomi propri che rompono le sequenze fatte in serie, dove ogni figura è muta e dove eppure affiora un quasi impercettibile cambio di umore, l’accenno pericoloso ad un sentimento (o forse qui non c’è spazio per l’emozione come la intendiamo noi adulti, e allora ci accorgiamo che si tratta solo di una pettinatura diversa, di una nuova molletta sbirilucchina o di un cambio di abito). Anna Visani è dell’equilibrio prezioso ed instabile, dove il disegno lieve si collega al filo e fuoriesce in volume, in un percorso fan-
tastico, imprevedibile e delicato. Tragitti e topografie che entrano ed escono dalla carta, invadono il muro con scarabocchi e stencil, lo bucano per infilarci bandierine, toccano e poggiano a terra, sospendono legnetti e contrappesi, sconfinano nella scultura, inglobano l’oggetto, collegando cose come in effimere costellazioni. Senza confini prestabiliti o gerarchie, questo dispiegamento o esercito di cianfrusaglie e chincaglierie colorate lascia un’impressione di fragilità e meravigliata casualità, quasi si trattasse di un’architettura naturale e ragnatelesca, un nido impossibile, una pianta esotica, il volo prezioso di un uccellino che ha lasciato sotto incantesimo le tracce dei suoi svolazzi. Un lavorio notturno di abili insetti sconosciuti. Plastico improbabile di architetto impossibile, sogno di geometra innamorato. Fiori di carta e disegni con tecnologia da cartone animato ormai vintage, cineserie, ricami e decori. Fuochi d’artificio in miniatura per carcerati. Con impressione di cura domestica e tempo lungo, prezioso e necessario al formarsi di queste strutture (che salvano), veri e propri diari esplosi, carte da parati impazzite e animate che non troverete mai all’Ikea. Mappe immaginarie, geografie mentali, sogni concreti e tridimensionali. Clio è se si vuole l’opposto di Anna Visani e Georgia Galanti. Qui il colore è assente a favore di un disegno sottile come capello, asciutto e metallico, duro ed estremamente meticoloso, quasi da vetrata o miniatura medievale. Continuamente sovrapposto, sinuoso, complicato e arzigogolato come un reticolo tecnologico, mappatura o struttura naturale biologica: un sistema linfatico, nervoso o sanguigno, una venatura di foglia, una visione al microscopio dove l’occhio è continuamente spiazzato, messo in discussione sino ad arrivare ad effetti quasi pscichedelici e stordenti, pur se ottenuti attraverso una linea fredda e controllata. Stratificata e capace di generare universi. Tra il micro e il macro. Disegno ipnotizzante, che inchioda,
trascina e costringe lo sguardo ad una fatica che spinge dentro; maglia che lentamente si apre e svela schiudendosi come fiore. Di impianto costruito e architettato, con disegno mantra, circolare ed accerchiante. Disegno piatto, eppure con più livelli di profondità, come radiografia che attraversa le cose; con e di visione trasparente. In questa occasione Clio espone delle sagome di vhs, un viaggio in una archeologia recente ma pure obsoleta, meccanica e ormai lontana: un percorso che gioca e dialoga con il buio, con una visione complicata dall’oscurità di un box, una camera oscura che al suo interno custodisce e racchiude le immagini. Immagini che a loro volta celano e occultano, potrebbero o dovrebbero contenere altre immagini e storie. (le videocassette sono spesso protagoniste in giallo, oggetti del mistero, documenti animisti registranti l’occhio invasivo che controlla la vita altrui, oppure spedite e recapitate come nei film per destabilizzare e impaurire, come ricatto anonimo e per questo terrorizzante.) Nella piccola stanza del camino l’installazione di Domenico Grenci: volti di donna, isole in cui la liquidità dell’occhio si è come estesa, fuoriuscita a bagnare tutto il volto facendone una geografia umida, mossa, espansa e fluttuante. Un paesaggio sorvolato, di bellezza, cicatrici e lievi asimmetrie. Un galleggiamento sospeso, una patina che è attraversata e segnata da graffi e traiettorie, una mappa desertica, arida e assetata, con monti e avvallamenti, oasi in cui sostare. Scivolamenti. Tra la macchia che sbava, slabbra e si espande incontrollata, e un gesto spadaccino, inciso, solcato e graffiante, questi volti si collocano in un territorio di mezzo in cui è il disegno che sembra dettare le regole alla pittura, mangiandosela ed invadendo il suo campo, riportandola ad una sorta di grado zero. Di descrizione e riporto primitivo, che anela alla purezza della visione, come da prima rappresentazione del volto, e che invece deve fare i conti con la verginità cor-
rotta dello sguardo. E così, nel tentativo di costruire, la linea corrode irrimediabilmente l’immagine, la cancella, sempre in bilico tra definizione, messa a fuoco e senso di perdita; come se lo sguardo dolce e malinconico che ci è puntato addosso dai lavori di Grenci, stesse svaporando e svanendo, asciugandosi come disegno fatto con acqua. Il disegno è la battaglia sostenuta e intrapresa per trattenere l’immagine, tra il liquido e il minerale del bitume, come se queste teste fossero resti di una combustione e cenere giacomettiana, quello che resta della visione. Per Pietro Meletti invece il disegno si raffredda, diventa più impersonale, tecnologico, ripetuto, seriale, variato e modulato quasi serigraficamente, in un andamento e scala che passa dal tono dello scherzo al piccolo virus, dall’intrusione sino all’invasione e all’incubo. Qui una crescita incontrollata e fastidiosa di mosche, che quasi scappano all’autore, o che ronzano come incubo pop di cui disfarsi, si posano rumorose, inconsapevoli e stupidamente infestanti intorno a... Una visione e analisi cinica, da dio-entomologo (gigante). O forse Meletti è come un ammaestratore luciferino e ha in queste mosche il suo battaglione, il suo esercito ubbidiente da sparpagliare per un’ipotetica invasione del mondo da film di serie B, da riprodurre con tecniche vicine alle fotografie che stampavamo sulle magliette con la trielina. O da disegnare-replicare sul muro, esatte come se fossero catturate come farfalle (immagine che è l’esatto opposto) e che accompagnano il visitatore che sale la scala di Palazzo Sforza per accedere al primo piano, come in un museo di scienze naturali, veritiero e a tratti impossibile, fatto da sguardo ossessivo ed ossessionato che si annida elegantemente nell’infimo. Visione lucidissima che può divenire visionaria e spettrale archeologia.
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babiscia (barbara fallini) nata a parma nel 1977 vive e lavora a bologna
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super-cuoco, 2008, acquaforte e acquatinta su zinco sagomato
cuoco #1, 2007, acquaforte acquatinta su zinco con inserto carta
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cuoco #2, 2007, acquaforte e acquatinta su zinco
cuoco #3, 2007, Composizione, acquaforte e acquatinta su zinco con filo di cotone
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samanta bodard
nata a parigi nel 1970 vive a forlĂŹ
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poldo, 2006, matita su carta
vanna e giorgio, 2008, matita su carta
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niccolino, 2008, matita su carta
silvano, 2008, matita su carta
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barbara ruzziconi
in attesa 1
nata nel 1965 vive a cesena (fc)
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in attesa 2
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passaggio
l’albero magnifico
chissà dov’è la cima
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rita ravaioli
montmartre metrò nei quartieri chic
nata a forlì nel 1967 vive a ravenna
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Porte aperte è un carnet di viaggio e un reportage. Racconta la scoperta del quartiere multietnico di Belleville a Parigi durante il weekend ‘Porte aperte’ (manifestazione che c’è ogni anno a metà maggio circa www.ateliers-artistes-belleville.org), durante il quale si può entrare nelle case degli artisti, e avere uno spaccato sulla città insolito.
belleville, un altro mondo
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pianta di belleville
la forge (spazio autogestito)
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fidanzata numero 1, matita, paillettes, stampate su lucido, cm 200X100
georgia galanti
nata a londra nel 1974 vive e lavora a cattolica (rn)
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anna visani
petals 2, 2007, china su carta, cm 70x100
nata a faenza nel 1973 vive e lavora tra faenza e berlino
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broken branch (ramo spezzato), 2007, china su carta, cm 70x100
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pattino, 2007, penna biro e china su carta, cm 35x24
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slitta, 2007, penna biro e china su carta, cm 35x24
debora branchi
nata a rimini nel 1967 vive e lavora a cesena (fc)
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clio casadei nata a faenza (ra) nel 1984 vive tra venezia e forlĂŹ
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domenico grenci
cristina, 2008, carboncino su tela, cm 300x150
nato a locri nel 1981 vive a bologna
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face, 2008, bitume e carboncino su carta intelata, cm 50x50
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rose, 2008, bitume su tela, cm 150x75
testa, 2008, bitume su tela, cm 150x150
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pietro meletti
nato a fusignano (ra) nel 1963 vive a fusignano
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ricalco, inchiostro rosso e matita su carta
self service portrait, inchiostro su carta
suono: volo d’estro, file midi, durata: 17’ ca.
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estro, gli anagrammi, tavola sinottica, 1993, olivetti dora su carta francese, cm 32X24
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siamesi neri e siamesi rossi, accumulazione, inchiostro nero e rosso su carta
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museo varoli filippo farneti
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Lo specchio e l’autoritratto bruciante e infuocato, maudit, il ritratto su commissione più imbalsamato e mieloso, il volto visto e ricordato come un’ombra, fiamma o apparizione, tuffo al cuore. Nasi, occhi, bocche, capelli, orecchie, luce e oscurità che tagliano… Facce affiancate ad altre facce, quasi un catalogo, un archivio degli incontri, degli sguardi incrociati, brevi, fugaci, da antropologia intima e familiare. L’indagine sul volto si tramuta qui in un affiorare di sguardi, mormorii, sospiri e voci testimoniate dal museo e a cui si sovrappongono le facce tracciate a penna o matita su foglietti e ritagli sparsi da Filippo Farneti. Testine che sono un po’ appunti dal vero catturati e forse per un po’ dimenticati, o disegni a memoria, ora quasi soprappensiero (da schizzo al telefono, da treno o da tavolo di ristorante). Disegni poi che hanno una sorta di seconda vita, una biologia segreta poiché vengono ricomposti e assemblati in grandi ed effimere installazioni che sembrano, dall’andamento, come tramare, crescere e svilupparsi come una pianta, conquistare e adattarsi allo spazio come un rampicante. Per accumulo implacabile. Dove ogni faccina diventa cellula, tessera, incastro su cui avanzare e da cui proseguire all’infinito. Gioco maniacale che l’occhio governa in un continuo oscillare tra dettaglio e visione d’insieme.
filippo farneti
nato a ravenna nel 1972 vive e lavora a ravenna
self-portrait, 2008, grafite su cartone, cm 90x72 Identikit, 2008, grafite su carta, frames dal video
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identikit, 2008, tecnica mista su carta, installazione dimensione ambiente
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sala archeologica andrea tampieri
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Il disegno qui si fa come fossile, è traccia e reperto, sembra consumato e consunto. Tra materia e senso di perdita. Forse è per via dell’apparire come bagliore di mitologie o di immagini di cui non siamo più in grado di decifrare i simboli, e dove però intuiamo uno sviluppo narrativo, una storia sommersa e sepolta, affiorante con desiderio e necessità di racconto. È quasi un fare capolino del fiabesco per la portata di stupore nel riconoscere e leggere di un corpo, di un suo dettaglio scampato, nell’erotismo eroico di una mutilazione, nell’improvvisa apparizione dell’animale, di un frammento favolistico come bloccato da un biologo, da un naturalista-esploratore che compie un cammino a ritroso. Di un disegno che lo immagina ancora vergine ed intatto. Evocazione di sogni e fantasmi. Immagini che partono dalla natura per giungere ad una dimensione di narrazione sospesa e fantastica, che si richiama sempre alla storia e al viaggio nello spazio e nel tempo: dal disegno parietale e magico alla raffigurazione di mostri e animali da decorazione a grottesca… Di un calore e oriente immaginato e anelato. Come paradisi perduti che sembrano rivivere e che Tampieri ci fa intuire, un po’ catturato da essi e un po’ archeologo-giardiniere del suo Eden privato.
andrea tampieri
frammento 4, 2008, pastello a olio e inchiostro su carta, cm 35x50
è nato a faenza (ra) nel 1957 vive a bagnacavallo (ra)
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frammento 10, 2008, pastello a olio e inchiostro su carta, cm 50x50
frammento 5, 2008, pastello a olio e inchiostro su carta, cm 50X70
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casa vassura gian ruggero manzoni kry angelo monne michele ferri
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Una sezione energica, con disegno cattivo e sgrammaticato, di aggressione neoespressionista in Kry e Gian Ruggero Manzoni, di gioco esplosivo divertito e vivace, tra art brut, disegno infantile e graffitismo. Tra cultura alta e bassa per semplificare con una definizione un po’ banale ed abusata. Un disegno pittorico, fagocitante, materico e colorato, immediato e nomade, in cui il messaggio è parte irrinunciabile della comunicazione visiva. Una guerriglia che si imbeve e nutre del flusso di immagini e che risponde al bombardamento subito risputando a gran velocità immagine barbare, urgenti, imbastardite, romantiche e sporche. Disegno che è sguardo e presa di posizione nei confronti della cose e del mondo: veloce, arrabbiato e resistente. Che aggredisce e riempie il vuoto. Che dice sempre da che parte sta. Più visionario, pesante, schiacciante, predicante e apocalittico quello di Manzoni, più schizofrenico e mobile, dalle molte anime e legato al graffitismo e a stilemi urbani-metropolitani quello di Kry. Entrambi, disegni anarchici. Più pittorico, materico e gestuale in Manzoni, più scattante e rapido nelle incursioni di Kry. Due disegni di battaglia, con scene e accadimenti. Con figure facenti, eroi e antieroi. Anche Monne e Ferri risentono di un certo espressionismo inteso come modalità espressiva capace di semplificare l’immagine e di mirare al cuore, come via efficace e diretta per un racconto emozionale, anche se in loro è alleggerita da una propensione e pratica di illustrazione che porta ad una rarefazione dello sguardo, ad una maggiore lievità e raffinatezza che si risolve in immagini più sospese, precise, morbide ed incantate (di tempo più ampio e allargato dovuto a visione ravvicinata e fatta di particolari). Monne con una tecnica ibrida che sta tra la xilografia e il fumetto avvalendosi di strumenti tecnologici con cui realizza immagini alla stregua di quelle realizzate per via di togliere, mettendo e facendo la luce, che svela e fa affiorare l’immagine, come a ritroso. Un procedimento in negativo per arrivare a creare un suo personalissimo bestiario, di moder-
no medioevo. Un mondo di ombre immobili e silenziose, con uomini con testa di animale o animali antropoformizzati. Con gesti compiuti meccanicamente che sembrano spesso aver perso significato, con estraneamento e alienazione, quasi da anima nera di Disney. A contraltare alla spigolosità e durezza di questo tipo di tecnica e costruzione, Angelo affianca una produzione parallela che si avvale di un disegno sinuoso e calligrafico a pennello: l’esito è un mondo popolato di figure lievi, morbide ed acquatiche, con crescita e movimento di corallo, alga e medusa. Come appunti e tracce zen, qui il richiamo ad una certa grazia della natura si fa spazio e scalza la descrizione a favore di una condensazione più simbolica, rapida, concentrata e ricercata. Ferri oscilla tra una vivacità e gestualità pittorica e un disegno legato all’illustrazione più controllato e all’apparenza ingenuo nella volontà e ricerca di stilizzazione, di colori forti e campiture nette e solari, capace però di slanci poetici e sapienza costruttiva. Con luce mediterranea, qui negata da una serie di visioni forse notturne per via della solitudine di cui sono impregnate. Con un piccolo re come protagonista, un re nudo con malinconia aristocratica e gentilezza silenziosa. Che si muove in spazi vuoti e rarefatti, talvolta claustrofobici. Un nulla schiacciante dove l’unica coordinata, orientamento possibile o specchio è dato dall’incontro con l’altro, una relazione-comunicazione che in maniera un po’ frustrante appare sempre complicata, problematica, improbabile e molto spesso rimandata. Incontri sognanti che sono piccoli avvenimenti e mettono in moto facendo scattare qualcosa, fosse anche solo un tentativo balbettante e disperato di linguaggio, un osservarsi reciproco, lineare e animale, un gesto o una proiezione immaginifica. Un abbandono, un re come in attesa… Una nostalgia partecipe pervade la scena, morbidamente nera e come ovattata.
gian ruggero manzoni
nato a san lorenzo di lugo (ra), dove tuttora risiede, nel 1957
io divinitĂ , 1 cm 50x70, tecnica mista su carta io divinitĂ , 6 cm 50x70, tecnica mista su carta
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io divinitĂ 4, cm 50x70, tecnica mista su carta
io divinitĂ 2, cm 50x70, tecnica mista su carta
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kry
nato a faenza (ra) nel 1974 vive a faenza
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angelo monne
nato nel 1965 a dorgali (nu) dove vive e lavora.
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michele ferri,
nato a fano (pu) nel 1963 vive a fano
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petit roi, acrilico su cartone, cm 28X19 e cm 19X28
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petit roi, acrilico su cartone, cm 28X19
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casa varoli massimo brancaleoni luca rotondi
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Qui una modalità estrema per certi versi, perché si parla ancora di mestiere, della bella, candida e faticosa mano, di segno sapiente, succoso, raccolto e morbido. Della linea intima e quotidiana, chiaroscurale e commovente, sospesa e noncurante del tempo, che va protetta e tenuta calda. Di un disegno da artigiano, quasi rinascimentale e ottocentesco, cullante e però capace di assalti, affondi di tenebra, abissi e incubi. Mai stucchevole. Vibrante. In Brancaleoni, sorprendente per la freschezza, la grazia, il dinamismo e la fluidità. Disegno elegantissimo che sembra scorrere facile e felice, con precisione di diamante. Come carezza. Di indagine stupita, lenta, meticolosa e certosina, di curiosità manierista che ora sbanda e slava nel crepuscolare, nell’impennata improvvisa e vorticosa, nell’accelerazione, nell’abbandono non finito e struggente. Dove lo sguardo anatomico trasuda una malinconia o drammaticità come di cosa che non sarà più, o che non si può portare a compimento. Anche Rotondi muove da un disegno di stampo “classico” che però incontra una sintesi e durezza più espressionista, con senso sospeso e immobile del tempo che apre a squarci quasi metafisici e da ritorno all’ordine, un silenzio mosso però e attraversato da inquietudini e ombre, come velato da nubi. Con l’aggiunta molto moderna di realizzare poi grandi carte che sono il frutto di un assemblaggio, direi quasi una cucitura amorosadolorosa, di frammenti e piccoli disegni che si saldano in un palinsesto più grande che sembra evocare o trattenere una storia, suggerire l’esistenza di una narrazione latente e segreta a cui accostarsi tra il desiderio di carpirla e il timore di mandarla in frantumi o farla volare via. Disegno che fa silenzio. Dentro, intorno. Tra un’immagine che cresce ed ingrossa ed una mutilata, ridotta per essere salvata.
studio di cavalli, 2002, carboncino su carta invecchiata, cm 27,6x21,7 studio di cavalli con fantino, 2002, penna nera e carboncino su carta invecchiata, cm 27,5x21,6
massimo brancaleoni,
nato a conselice (ra) nel 1969 vive e lavora ad argenta (fe)
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nudo accademico, 1992, pastello su cartone, cm100x70 80
studio di teste, 2002, pastello e penna blu su carta grigia, cm 39,5x31 81
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senza titolo, 2008, carbonella, carboncino e pastelli, cm 350x300
luca rotondi
nato a ravenna nel 1970 vive a massalombarda (ra)
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chiesa del suffragio pietro lenzini pier giovanni bubani
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All’interno di questa bella chiesa che mostra ancora alcune sue ferite e sbrecciature a memoria del conflitto, due anime differenti che si misurano col l’idea del sacro; con certe lacerazioni interne al lavoro e alle sue procedure che offrono un ulteriore rimando e legame con il luogo che le ospita, amplificando il gioco di specchi e legami, più o meno sotterranei, messi in atto da questa mostra. Per Lenzini il fantasma di una pala d’altare, tra rivisitazioni barocche e un racconto che attraversa territori dove la sensualità è trattenuta a stento ed infonde grande tensione ai suoi disegni, corpi desideranti e tragici nella loro effimera bellezza. Vanitas. Dettagli come reliquie di santi, dettagli come studi anatomici. Eros e thanatos. Una tenerezza e dolcezza languida di parti, parti di corpi come geografie e paesaggi, tagli che si rivelano drammatici, quasi visti in sogno, apparizioni, vere e proprie visioni notturne. Di segno caldo e testardo, guizzante, instancabile, stenografato e nervoso. Sul solco di una via emiliana seicentesca che arriva fino all’ultimo naturalismo, passando per un reticolo boldiniano, e che però qui sembra incontrare quasi un misticismo, che apre ad altre direzioni, più simboliche e visionarie. Dall’altra parte, l’oro, la patina, la superficie traslucida e come pietrificata di Bubani, tavola bizantina, con luce che blocca, splende ed incide, scava e graffia la superficie. Luce che apre, separa, divide. Disegno che taglia, di pietra, legno e carbone. Il bitume che vela, affiora, si aggrappa ed entra nei solchi antichi che sono un’architettura filiforme di eleganza composta, di duro segno che sta alla bidimensionalità bizantina e ad una compostezza quattrocentesca, di perfetto equilibrio e armonia di luce e ombra, di gioco continuo tra essi, tra terra e aria. Di musicalità e ritmo, che qui non c’è spazio per figure, solo lamine, fuoco che brunisce e assalti al cielo con torri, mura, costruzioni e palafitte.
pier giovanni bubani
di taglio tra luce d’ombra, 2008, tecnica mista su tela, cm 130X150
nato a bagnacavallo (ra) nel 1960, dove vive e lavora
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arco, 2008, tecnica mista su tela, cm 120x200
testa, 2008, tecnica mista su tela, cm 100x200
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pietro lenzini,
studi di teste, 2008
nato a bondeno (fe) nel 1947, vive a faenza (ra)
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scuola arti e mestieri mattia battistini
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Nel spazio in cui i bambini di Cotignola si misurano con un fare che è “quasi arte”, nella casa in cui incontrano i materiali e le tecniche più disparate, l’intrusione di Battistini è in realtà un’adesione empatica allo spirito del luogo poiché il suo atteggiamento libertino è da sempre frutto di spensierati attraversamenti, mescolanze di ingredienti e relative scoperte. Con segno che da complesso ed elaborato, da ricco e ricercato passa ad un’immediatezza brut, alla forza e sintesi del disegno infantile a cui tutto è concesso e possibile. Così come i suoi supporti, i materiali incontrati, tenuti insieme, un archivio onnivoro del mondo, delle robe trovate e della capacità di trasformarle ed adattarle, come se le cose stesse fossero già portatrici di storie, come scrigni scardinati e fatti cantare che danno il là all’immagine, che suggeriscono il racconto, portano all’incontro casuale e sorprendente. Capace di alleggerire la materia, di farla cantare o scomparire. Il gioco è la regola: da artista affamato e in caccia, che trova, si perde e vede più in là.
mattia battistini
nato a ravenna nel 1968 vive a firenze
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casa magnani marilena benini
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Un’illustratrice fiabesca, colorata e felice si incontra con la leggera malinconia presente nella casa dell’artista che fu un allievo di Varoli. Di una convivenza quasi mimetica nonostante la diversità dei lavori: naif, nostalgici e nervosi quelli di Magnani, più esatti, pacificati e favolistici quelli di Marilena. Che giocano e si avvalgono di certi modelli che ricordano il disegno fatto per illustrare ai bambini, estremamente stilizzato e semplificato, con colori puri, ora dai contorni netti ora dalle sfumature morbide e pastellose. In cui convivono l’assemblaggio sapiente di materiali quali carte e stoffe, e un acquerello morbido e delicato che si alterna ad un a pittura più corposa, ruvida e coprente. Il colore regna negli universi di entrambi gli artisti: mondi variopinti in cui fanno capolino le gioie e le tristezze degli adulti, narrate però quasi con sguardo di bambino, che sono cose che passano e si stemperano in un racconto stupito e incantato. Di meraviglia e volo. Di un filo che attraversa i disegni come se si trattasse di episodi, illustrazioni collegate tra loro come in una collanarosario o serie di ex-voto, finestre aperte sulle cose della vita, come diario ininterrotto.
marilena benini
la mia cotignola, 2008, tecnica mista
nata a bagnacavallo (ra) nel 1969, vive a cotignola
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viola giacometti
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disegno indicativo presente
Il disegno è ovunque. Ci circonda, in varie forme, nella vita di tutti i giorni. Riempie il nostro campo visivo: il filo del telefono, un nome scarabocchiato velocemente su un pezzo di carta, una macchia sulla tovaglia, il profilo di un paio di occhiali sullo sfondo di un viso. È il segno umano stesso. Ha un carattere elementare e primario. Lo si pratica come prima esperienza da scolari, per incominciare a relazionarsi con degli sconosciuti, per fare un po’ di movimento e provare la propria fisicità, per presentarsi, capire quanto siamo abili o carenti, per identificarci con dei colori piuttosto che altri e cercare chi ne ha scelti di simili ai nostri. Disegnare è come l’esperienza stessa di vivere dentro il mondo. Il disegno è “una linea attiva di cammino, che si muove liberamente, senza obbiettivo. Un camminare per il piacere di camminare”1 ; disegnare è connettersi con tutti i fenomeni fisici del mondo: “il lavoro dei muscoli e delle ossa, il fluire del sangue, delle cascate, il volo degli uccelli, il movimento delle maree, tutti casi di movimento lineare coordinato”2. Rappresenta la più antica e immediata forma di immagine, addirittura si potrebbe ammettere la sua precedenza sulla scrittura. L’arte delle grotte paleolitiche è una forma di disegno, un disegno che è “antico come il canto”3. È il luogo dove cecità, tatto e somiglianza si sono incontrate, sancendo per sempre lo statuto mitico del disegno. L’idea che lo sostanzia, così come la sua esecuzione, sono rimaste immutate per migliaia di anni; è un’attività che si ricollega direttamente, attraverso una linea ininterrotta, con il primo uomo che abbia mai abbozzato nel fango o sul muro di una caverna. Il disegno è sempre associato con il magico: i primi umani hanno dipinto animali da cui dipendeva la 1. P. Klee, The pedagogical Sketchbook. London, Faber & Faber, 1925, in Vitamin D, New Perspective in drawing, a cura di Emma Dexter, Phaidon, Londra 2003. 2. Ibid. 3. J. Berger, Lettera a James Elkins, in Sul disegnare, Libri Scheiwiller, Milano 2007, p. 136. 103
loro sopravvivenza, catturandoli graficamente per affermare un potere, controllare le paure, gestire i desideri. Le qualità primarie del disegno sono da sempre collegate alla semplicità e alla purezza del foglio di carta bianco. L’atto di disegnare stesso suggerisce onestà e trasparenza: tutte le tracce e i segni, deliberatamente o no, sono lì per essere viste da tutti e per sempre. Ogni cancellatura o tentativo di cambiare le linee sono evidenti, se la pittura ad olio è un’arte di accrescimento e dissimulazione, il disegno indossa i suoi errori e i suoi sbagli sulle sue stesse maniche. Addirittura, “un disegno che copre completamente il suo sfondo potrebbe smettere di essere un disegno.”4 Il disegno è improvviso e sempre in movimento, nel senso che può procedere all’infinito senza chiusure e completamenti, continuamente parte di un processo che non ha fine. Una matita che si muove sulla carta ha una sua traiettoria, locale, personale, privata, libera dalla necessità di considerare la totalità del mondo, basta che possa rispondere immediatamente a dove è la mano. Il disegno sembra coincidere con il segno superiore dell’essere. Si colloca a un preciso livello psichico che non è quello rappresentativo della pittura ma quello simbolico dei segni. “Non è una finestra sul mondo ma un mezzo per comprendere il nostro posto nell’universo.”5 La sua poetica è quella della scoperta. Ogni suo tratto è come un segno di allontanamento, di ritrattazione, di sottrazione, ogni movimento della matita “riconferma desiderio e perdita. Il suo particolare modo di essere si colloca tra l’allontanamento e la presenza dell’idea di ciò che si vuole raffigurare.”6 Oggi il disegno è parte integrante delle pratiche artistiche multi-mediali contemporanee. È un linguaggio artistico autonomo e complesso, quanto la performance, la Net-art piuttosto che le video-installazioni. Oggi gli artisti possono optare per il disegno come mezzo principale confidando in una cultura pronta a vedere il loro lavoro come un risultato definito, completo e capace di un linguaggio complesso. La considerazione di cui gode in
questi ultimi anni non ha precedenti. Si è di fronte a una sorta di un primato storico. Addirittura, oggi, in molti contesti il disegno sembra la pratica più contemporanea possibile. All’interno delle pratiche artistiche occidentali, è sempre stato considerato come la parte essenziale della preparazione di ogni opera pittorica e scultorea. È sempre stato ritenuto l’esperienza base di ogni processo estetico, lo strumento fondamentale per ogni artista, un modo di pensiero, preparazione e progettazione. Ma per quanto “intoccabile”, sia per anzianità che per prestigio, non è mai stato considerato un linguaggio autonomo: troppo spesso al servizio di altre espressioni, economico, accessibile e terribilmente compromesso con l’intimità, l’informalità, l’autenticità, l’immediatezza, la soggettività, la memoria e la narrazione. Il disegno è un’attitudine, un feeling, che prima o poi colpisce tutti ma che in fondo inganna e tradisce l’intenzione artistica per la sua eccessiva maneggevolezza, per la sua inevitabile non definizione. Lo scultore Henry Moore ammette candidamente che “disegnare è un modo di fare esperienza più rapidamente di quanto permetta una scultura”. Al contrario della pittura, il disegno non è mai stato dichiarato morto da nessun artista, critico o storico. Probabilmente per la particolare natura che gli è stata attribuita, servile e strumentale nei confronti dei linguaggi artistici propri, tanto da non esporlo alle varie dichiarazioni, oppure perché, tacitamente, era già stato dato per defunto. Il disegno ha iniziato a emergere autonomamente a metà degli anni Novanta, mostrandosi come il mezzo perfetto in grado di contrastare l’arte immediatamente precedente. Si è parlato di una “calma rivoluzione del disegno”7 per indicare come una delle più interessanti componenti della ricerca artistica di oggi sia rivolta alla ridefinizione dei confini del disegno, sperimentando nuove direzioni, in una vera e propria esplosione estetica. L’arte di metà Novecento ha sfidato la natura profonda dell’oggetto artistico stesso con le pratiche della Performance e della Body-art, così come con il rigore e l’ascetismo dell’Arte Concettuale. In questo contesto il disegno è entrato nel momento progettuale e riflessivo di questi linguaggi andando a colpire diretta-
4. W. Benjamin, Selected Writings, Volume I, in Vitamin D, New Perspective in drawing, a cura di Emma Dexter, Phaidon, Londra 2003. 5. Ibid. 6. M. Newman, “The marks, Traces, and Gesture of drawing”, in The Stage of drawing: Gesture and Act, Tate Publishing and The Drawing Center, London & New York 2003. 7. Emma Dexter, Vitamin D, New Perspective in drawing, a cura di Phaidon, Londra 2003. 104
mente al cuore la filosofia artistica stessa del clima concettuale, stringendo un patto storico con gli artisti particolarmente interessati alla sua natura trasparente e rivelatoria, alla sua capacità di registrazione immediata di un’azione. La pratica del disegno è diventata concausa nella sfida all’oggetto, richiamando alcuni artisti proprio per la sua assenza di direzione, per la sua nonpresenza, filosoficamente alleata alla fenomenologia del Minimalismo scultoreo, come della Process Art e della Land Art. Il disegno si è scoperto capace di mantenere in tensione le due principali direttrici che caratterizzano l’arte contemporanea, quella post-concettuale e quella neo-romantica. Quest’ultima è forse quella più assorbita. Si identifica con un disegno non interessato alla comprensione teorico-filosofica di quello che il disegno è di per sé. Sviluppa, invece, la sua relazione con le aree dell’esperienza umana a cui può essere associato, ovvero, a quelle proprie della logica narrativa, associativa e soggettiva del disegno. Il discorso concettuale e teoretico vive il disegno come segno astratto, esplorando la sua relazione con il piacere terreno, con un potere simbolico che lo riporta a strumento delle origini in senso primitivo. Il disegno ha incarnato il mezzo ideale per gli artisti concettuali: è ascetico nella sua purezza, è quasi puritano e anti-decadente come voleva essere l’Arte Concettuale, la cui ambizione è stata “quella di ricreare l’esperienza primaria della simbolizzazione incontaminata.”8 È all’interno di questa direttrice che il disegno si è fatto strada per arrivare allo statuto artistico di cui gode oggi. La Land Art è inequivocabilmente un disegno, “una linea fatta camminando” come dichiara Richard Long, un “camminare avanti e indietro finché l’erba non viene schiacciata
in una linea visibile”. Il lavoro di Long si concentra su un aspetto arcaico, rievoca la terra come una superficie da marcare con lo strumento del corpo come se fosse una matita. Invita a pensare che tutta la vita sia una serie di mappe, di linee tra punti. Il disegno è il mezzo perfetto per una ricerca, pura, incontaminata, diretta, anti-monumentale, e allo stesso tempo vicina all’essenza dell’oggetto smaterializzato. La vicinanza del disegno con il processo del pensiero, la specularità fra disegnare e pensare, è un fattore sempre presente nel suo significato. Come spiega il critico Jean Ficher “l’atto del disegno rende possibile e magica l’identità tra pensiero e azione perché disegnare è il mezzo più rapido e può perciò proteggere e mantenere l’intensità del pensiero. Disegnare non è mai trascrivere il pensiero ma piuttosto è una formulazione o elaborazione del pensiero stesso come momento di transizioni in immagine. La convertibilità tra disegno e pensiero diventa esplicita, suggerisce l’intangibilità, il mutabile, l’esitante, la fugace qualità di entrambi.”9 Il disegno si identifica con un atteggiamento contemporaneo, ovvero con una precisa forma metodologica fondata sull’osservazione dei fenomeni fisici e delle loro relazioni con i processi del pensiero. Il disegno offre la possibilità di lavorare sulla concentrazione, sulle intenzioni, le parti di pensiero, in sostanza, sul flusso della totalità della nostra percezione, sulla frammentazione del fiume dei fenomeni e ci obbliga a vedere il mondo come il risultato di uno scontro con l’intenzione artistica. È il disegno stesso, con le sue innate qualità di provvisorietà, come la sua natura mentale e tautologica, che ha offerto un modello di come l’arte stessa può essere vissuta.
8. B. Rose, in The Stage of drawing: Gesture and Act, Tate Publishing and The Drawing Center, London & New York 2003. 9. Jean Fischer, “On drawing”, in The Stage of drawing: Gesture and Act, Tate Publisching and The Drawing Center, London & New York 2003. 105
pomelo
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Disegnare col filo, portare il disegno cucito su tessuti ed abiti da indossare. Questa è la poetica di Pomelo che in concomitanza con l’inaugurazione della settima mostra di Selvatico vestirà, con le sue creazioni appositamente realizzate per l’occasione, una quindicina di modelli che si muoveranno e sparpaglieranno per gli spazi della mostra mescolandosi e confondendosi con il pubblico presente, dando vita a qualcosa che sta a metà tra una sfilata informale, un’azione e un allestimento itinerante che avviene e si svolge semiclandestino tra la gente. Un disegnare meccanico e manuale, con macchina da cucire che fa le curve un po’ spigolose, filo e stoffa al posto di carta e matita… Di disegno come in corsa. A ciascuna persona invitata, Pomelo ha chiesto un indumento, un pezzo da lavorare in previsione della mostra (un abito, una t-shirt, una giacca o altro) che sarà trasformato e rielaborato per poi essere indossato dai rispettivi proprietari durante l‘apertura di Out of the Map.
pomelo (pamela casadio)
t-shirt
nata a lugo (ra) nel 1975 vive a bagnacavallo (ra)
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sabato 25 ottobre 2008 cotignola, teatro binario
concerto con azione pittorica di baiafonda massimo modula (voce-chitarra) dedo bracconi (sassofono-percussioni) giacomo de paoli (percussioni) ivan macrelli (chitarra-percussioni varie) nicolo fiori (basso acustico)
Il gruppo nasce a Rimini nel 1998 sotto il nome di “Quello che vuole Lola” allo scopo di proporre uno spettacolo performativo con musica e pittura, ispirandosi al blues degli anni 50, e raccontare attraverso ritratti vissuti, una pellicola fumosa dalle istantanee ironicamente retrò. Negli anni successivi vari musicisti sono entrati e usciti dalla formazione, e l’influenza della musica afroamericana ha via via preso connotazioni latino-caraibiche, avvicinandosi inevitabilmente alla mistura sonora popolare mediterranea. Intanto l’incontro tra Massimo Modula (cantautore ed artista plastico) ed Andrea Bracconi (sassofonista e compositore) da origine alle prime canzoni, proprio durante i soggiorni trascorsi nel Salento e a Capo Verde, (dove il gruppo si è esibito insieme a diversi musicisti locali), e la stessa Rimini, che continua ad essere il porto della nostra poetica, e l’officina di melodie migranti. Quando vivi davanti al mare non puoi evitare di parlarne, e per i Baiafonda non poteva essere differente questo sogno tra spazio, tempo e memoria. Infatti il nome stesso deriva da un incontro tra la Barafonda, (una storica spiaggia di S.Giuliano di Rimini, luogo simbolico della rinascita balneare dalle ceneri del dopoguerra) ed il sempre caro non luogo, una baia sommersa dove le distanze si annullano e le coordinate si rovesciano. Nel 2001 entra nel gruppo Giacomo Depaoli (percussionista ed artista plastico), e successivamente nel 2005, con Ivan Macrelli (chitarra e percussioni) e Nicolò Fiori (contrabbasso), si consolida il gruppo attuale e coincidono le registrazioni del primo album autoprodotto intitolato “Il sognatore”, terminato l’estate dello stesso anno, progetto che ha ospitato diversi amici musicisti, a testimoniare il cammino di un’esperienza maturata tra incontri, passaggi e scambi, in quella baia vicina e lontana come un’intermittenza che spesso illumina i giorni di nebbia. Durante gli anni 2006-07 nasce una collaborazione tra Massimo Modula e il poeta della barafonda Guido Lucchini, conosciuto anche per la sua lunga esperienza di attore, regista e scrittore di commedie dialettali, il cantautore accompagna il poeta in varie presentazioni del libro “raconta remni raconta” (racconta rimini racconta), durante la lettura delle poesie, alternando canzoni del repertorio baiafonda. L’esperienza si evolve nella produzione di un librocd di prossima uscita dal titolo “Vecia Palèda” (vecchio molo - Capitani Editore), a cura Di Radio Icaro, in cui si raccolgono 30 poesie scritte e recitate da Guido Lucchini e accompagnate dalle musiche dei Baiafonda, una produzione a cura di Andrea Bracconi conclusa subito dopo la masterizzazione del nuovo album “Controvento” attualmente in fase di stampa.
Ringraziamenti
1 Archives Michele Buda, Daniele Casadio, Guido Guidi, Alex Majoli, Ettore Malanca
Mauro Santini, Angela Maltoni, Fabiana Guerrini, Piero Dosi, Chiara Pergola, Jairo Valdati, Paolo Buzzi, Patrizia Piccino, Francesco Manenti, Francesco Izzo, Mauro Bendandi, Giovanni Zaffagnini, Cesare Fabbri, Andrea Gustavino, Alberto Zamboni, Benedetto Di Francesco, Fabio Bardelli.
Anna Visani, Georgia Galanti, Debora Branchi, Domenico Grenci, Pietro Meletti, Andrea Tampieri, Filippo Farneti, Pietro Lenzini, Pier Giovanni Bubani, Gian Ruggero Manzoni, Kry, Angelo Monne, Michele Ferri, Massimo Brancaleoni, Luca Rotondi, Mattia Battistini, Marilena Benini.
2 Orangotangotango. Una mostra animista Francesco Bocchini, Andrea Salvatori, Raniero Bittante, Verter Turroni, Erich Turroni, Mattia Vernocchi
5 Corale. Due muse allo specchio Simone Bergantini, Gilberto Giovagnoli, Matteo Guidi e Andrès Galeano, Beatrice Pasquali, Simone Pellegrini, Anton Roca, Diego Zuelli.
3 Pensiero stupendo David Vecchiato, IIIIIo, Blu, Allegra Corbo, Gianluca Costantini, Pablo Echaurren, Ericailcane, Angelo Mennillo, Paper Resistance, Emiliano Properzi, Ubq.it, Ilaria Ciardi, Sabrina Foschini, Andrea Ghetti, Nero, Massimo Modula, Cinzia Ortali, Massimo Ottoni, Giulia Ricci, Davide Reviati, Claudio Balestracci, Lucia Nanni, Mara Cerri, Heriz
6 Nidi. Campi di battaglia. Preghiere e sortilegi Carlo Cavina, Maurizio Battaglia, Nadia Trotta, Dacia Manto, Silvia Camporesi, Marco de Luca, Enzo Castagno, Lorenzo Casali, Francesco Borghesi, Oscar Dominguez, Luigi Berardi, Mirko Fabbri, Monica Pratelli, Lorenzo di Lucido, Giovanni Blanco, Laura Baldassari, Roberto Paci Dalò, Tania Flamini, Amanda Chiarucci, Simone Pelliconi, Fiorenza Pancino, Ana Hillar, Chiara Lecca, Sara Guberti, Loretta Zaganelli, Vanni Spazzoli, Meris Cenni, Stefano Mina, Alberto Biagetti, Valerio Vasi, Silvia de Martin, Franco Stanghellini
Grazie agli autori dei testi che hanno accompagnato e “guidato” generosamente le mostre: Massimo Pulini, Sabrina Foschini, Elettra Stamboulis, Massimiliano Fabbri, Giovanni Scardovi, Loretta Zaganelli, Cristiano Cavina, Aldo Savini, Gian Ruggero Manzoni, Marinella Bonaffini, Alessandro Giovanardi, Francesca Serragnoli, Giovanni Nadiani, Vanessa Sorrentino, Viola Giacometti
Grazie a tutti gli artisti coinvolti e selvatici
4 Luoghi. Persone. Cose Franco Pozzi, Giovanni Lombardini, Federico Guerri, Vittorio D’augusta, Silvano D’ambrosio, Nedo Merendi, Lucia Baldini, Cesare Baracca, Gloria Salvatori, Luca Piovaccari, Andrea Saltini, Roberto Coda Zabetta, Nicola Samorì, Stefania Vecchi, Massimo Pulini, Massimiliano Fabbri, 110
7 Out of the Map. Segnare intorno Babiscia, Barbara Ruzziconi, Rita Ravaioli, Samanta Bodard, Clio,
Ai musicisti che hanno collaborato e partecipato ai concerti: Simone Pelliconi, Antonio Gramentieri, John De Leo, Marco Rebeschi, Francobeat, Comaneci, Sea of Cortez, Aidoru, Olivier Manchion, Massimo Modula, Baiafonda A chi ha contribuito a vario titolo, con il suo prezioso lavoro, agli allestimenti, proiezioni, performance, laboratori ed eventi che hanno scandito il calendario del progetto: Cesare Baracca, Iomela, Fabio Pignatta, Stefano Tedioli, Marilena Benini, Franco Pozzi, Mauro Santini, Daniele
Casadio, Federico Settembrini, Massimiliano Borghesi, Gianni Zauli, Pomelo, Erich e Verter Turroni e Laboratorio dell’Imperfetto, Cristina Ventrucci e Nobodaddy, Lugocontemporanea, Strade Blu, Artincanti, Gasparelliartecontemporanea. Un ringraziamento sentito e doveroso ai tre comuni della rassegna di campagna (Cotignola, Fusignano e Lugo) nelle persone di Daniele Ballanti, Maurizio Casadio, Paolo Trioschi, Lino Costa, Giovanni Barberini, Daniele Serafini. A Cristiano Roccamo e Nabendu (Teatro Vivo) per il Teatro Binario. Alla compagna di campagna Primola (primolandis mundis), che è fatta da Mario Baldini, Mario Mazzotti, Mauro Ronconi, Ilva Fiori, Davide Ranalli Alla famiglia Sgubbi per l’ospitalità e le cene post inaugurazione. All’indispensabile elettricista Lucca Mauro “Van Dick”. Infine alla Scuola Arti e Mestieri (l’altra faccia o anima non troppo segreta di Selvatico) e al Servizio Civile di Cotignola: Marzia Bianchi, Lucia Baldini, Pamela Casadio, Daniela Mazzotti, Cecilia Pirazzini, Lara Fabbri.
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comune di cotignola assessorato alla cultura con il patrocinio della provincia di ravenna
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* palazzo sforza cantiere delle arti