2010 selvatico a nera

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A nera.

Una lezione di tenebra 1


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A nera.

Una lezione di tenebra


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A nera.

Una lezione di tenebra ombre e fantasmi maschere. specchi. immagini mappe e labirinti cenere. polvere. frammenti

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a nera. una lezione di tenebra. 11 dicembre 2010- 23 gennaio 2011 a cura di massimiliano fabbri con la collaborazione di giuseppe masetti, daniele serafini, paolo trioschi

comuni di bagnacavallo, cotignola, lugo, fusignano bagnacavallo museo civico le cappuccine cotignola museo civico luigi varoli lugo pescherie della rocca fusignano museo civico san rocco

con il contributo e patrocinio dell’assessorato alla cultura della regione emilia romagna e della provincia di ravenna

sistema museale provincia di ravenna unione dei comuni della bassa romagna ISBN 978-88-903137-3-8 grafica: marilena benini crediti fotografici: le foto per massimiliano fabbri, massimo pulini, cesare baracca, laura baldassari, stefano mina, franco pozzi, silvano d’ambrosio, maurizio battaglia, claudio ballestracci, sono di daniele casadio per mattia vernocchi (p. 105-107), francesco bocchini, ed erich turroni sono di dario lasagni per mirco tarsi sono di mauro fiorese (p. 108, 109) per orthographe sono di cesare fabbri, per nero sono di marco piffari, per dacia manto (p. 80) di andrea bernabini per mattia vernocchi di paolo semprucci (p. 104) 6

comune di bagnacavallo sindaco laura rossi assessore cultura nello ferrieri direttore museo civico “le cappuccine” giuseppe masetti comune di cotignola sindaco antonio pezzi assessore cultura daniela emiliani dirigente settore cultura giovanna briccolani settore cultura michela fanelli, marcella circassia apertura e sorveglianza sedi espositive museo e casa varoli lino barisani, cecilia pirazzini, auser comune di lugo sindaco raffaele cortesi assessore cultura marco scardovi direttore settore musei daniele serafini comune di fusignano sindaco mirko bagnari assessore cultura maria luisa amaducci dirigente settore cultura tiziana giangrandi direttore settore musei paolo trioschi direttore pro loco lino costa collaborazione tecnica elio ancarani (auser) custodia pescherie a cura di auser lugo

allestimenti e luci daniele casadio allestimenti e falegnameria federico settembrini cucina e ospitalità pamela casadio, lucia baldini, dj set festa post inaugurazione christian tomasi assicurazione gpa s.p.a. bologna pulmann per visita guidata manenti srl barbiano di cotignola “l’occhio sorpreso” a cura di claudio cavalli (artexplora) scuola arti e mestieri cotignola massimiliano fabbri, pamela casadio, alice iaquinta, cecilia pirazzini “il cerchio” fusignano laura tramonti, elisabetta merendi licei classico e scientifico “ricci curbastro” lugo dirigente scolastico giuseppina di massa tecnico di laboratorio federico settembrini

in collaborazione con

artexplora cesena (claudio cavalli, lucietta godi) primola cotignola (mario baldini) gagarin brainstorm circolo arci fusignano

pag. 2: daniele casadio, selvatico 005 pag. 176: alex majoli, 2008, silvio berlusconi in his house “palazzo grazioli” in roma


indice

come l’ombra di massimiliano fabbri................................... 6 1 > bagnacavallo museo civico delle cappuccine ombre e fantasmi............................................................... 18 testo di sabrina foschini...................................................... 20 mirko baricchi .................................................................... 24 stefano ricci ....................................................................... 28 anke feuchtenberger .......................................................... 32 gianluca costantini ............................................................. 36 mara cerri magda guidi ...................................................... 42 massimiliano fabbri ............................................................ 46 lorenzo di lucido ................................................................ 50 erich turroni ....................................................................... 54 stefano mina ...................................................................... 58 laura baldassari ................................................................. 62 orthographe ....................................................................... 66 2 > cotignola casa e museo civico luigi varoli maschere.specchi.immagini.............................................. 70 testo di alessandro giovanardi............................................ 72 nicola samorÏ ..................................................................... 74 dacia manto ...................................................................... 78 franco pozzi ....................................................................... 82 cristiano carloni-stefano franceschetti ................................ 86 alex majoli .......................................................................... 90 daniele casadio .................................................................. 94 3 > lugo pescherie della rocca mappe e labirinti................................................................ 98 testo di roberta bertozzi.................................................... 100

mattia vernocchi .............................................................. 104 mirco tarsi ....................................................................... 108 carlo sabiucciu ................................................................ 112 federico guerri ................................................................. 116 simone pellegrini .............................................................. 120 francesco bocchini........................................................... 124 david loom........................................................................ 128 4 > fusignano museo civico san rocco cenere.polvere.frammenti ............................................... 132 testo di maria rita bentini................................................... 134 claudio ballestracci........................................................... 136 graziano spinosi................................................................ 140 massimo pulini ................................................................. 144 silvano d’ambrosio............................................................ 148 giovanni blanco................................................................ 152 cesare baracca................................................................. 156 nero ................................................................................. 160 raniero bittante................................................................. 164 maurizio battaglia............................................................. 168 monica pratelli ................................................................. 172 note ai margini............................................................... 176 testi di eleonora frattarolo............................................................. 178 serena simoni................................................................... 180 elettra stamboulis............................................................. 182 cristina ventrucci............................................................... 183 pier marco turchetti.......................................................... 184 appuntamenti collaterali alla mostra ............................... 190 ringraziamenti................................................................ 192

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come l’ombra

Vivo tra forme luminose e vaghe che non sono ancora le tenebre. (…) Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro, alla mia algebra, alla mia chiave, al mio specchio. Presto saprò chi sono.

Foglio bianco come la cornea d’un occhio. Io m’appresto a ricamarvi un’iride e nell’iride incidere il profondo gorgo della retina Valerio Magrelli

Jorge Luis Borges

Nero in arte è luogo vasto, territorio sconfinato e dai confini imprecisi. Geografia sconosciuta perché quasi indicibile. Anche se battuta, scandagliata e attraversata instancabilmente da apparizioni e presenze. Luogo frequentato, penetrato e abitato da sempre, lago profondo a cui abbeverarsi, spazio di immersione, smarrimento e crescita. Con incubazioni dentro. E residui. È schermo e quinta. Vuoto imperscrutabile, forse solo in apparenza, o inizialmente. Specchio polveroso fermo. Superficie che talvolta dischiude e rivela aprendosi a profondità: ombre e fantasmi, resti e rovine. Entrare implica fatica e adattarsi di sguardo: temperature e densità differenti, mutevoli, a rendere instabili e incerte le percezioni. Uno stare all’erta, avvolti e vulnerabili. Movimenti ridotti, minimi. Che non c’è solo un nero, ma una gamma sensibile di passaggi e gradazioni che stanno tra l’opaco che assorbe, asciuga, mangia e risucchia, ed un lucido che specchia e riflette; tra un velo sottile e leggero che offusca ed ammanta, ed una materia che copre, ingloba e sprofonda. Coltre soffocante; volatile offuscamento. Nero è deserto e spazio angusto. Teatro affollato di presenze, mute. Con dentro elenco pressoché infinito di visioni, potenziali e latenti racconti, scene esplose e smembrate. Parti di narrazioni dimenticate usurate abbandonate; andate in frantumi. Sotto i piedi, macerie. Restano flash, cose sentite con la coda dell’occhio. Quasi un catalogo o archivio delle sparizioni, perché ciò che si vede o intuisce ha portata, velocità e suggestione di lampo, di cosa strappata e trattenuta solo per un attimo, abbaglio breve e fugace. Sfolgorante. Visione che sembra già contenere in sé la possibilità della perdita: un’epifania o cecità a venire che è qui 8

nell’atto stesso del vedere. Atlante segreto e sommerso, fatto di mutilazioni e frammenti; scaglie e fossili. Eppure il nero ha ancora la forza, la capacità e il mistero dello scenario vergine, primordiale e primitivo, il silenzio schiacciante, originario o della fine ultima, che respinge e richiama, che è della stanza in penombra e del notturno che percepiamo immenso e sterminato, della volta celeste e del sotterraneo buio. In Kiefer, un nero denso, sporco e corroso, ossidato e pesante; cosmico terroso ferrigno. Archeologia di un’apocalisse. Dell’interno del corpo, altro spazio che non sappiamo: tetro, oscuro e insondabile, nonostante la scienza. Corpo che è ancora della superstizione. Come in Kiki Smith, dove le protagoniste silenziose dei suoi disegni e sculture sono figure lievi e un po’ aliene; in grado però di suggerire un’insospettabile anima nera, intrappolata o celata in situazioni fiabesche, disciplinate e domestiche. Innocenti stereotipi, fuori posto. Fragilità pronte a capovolgersi e capovolgere destini. In corpi che ci aspetta o si vorrebbe addomesticati, indifesi, ingenui ed innocui e che invece, tramanti e ribelli, continuamente mettono in discussione i rapporti di forza consolidati (per abitudine, convenienza e pigrizia). Messaggeri; corpi invincibili armature, di donne e animali, che minano i nostri sguardi e ci mettono all’angolo. Facendoci nudi e vulnerabili. E complici. Complicità che è anche nei corpi politici di Marlene Dumas, nei quali pubblico e privato slittano sino ad essere non più separabili o distinguibili. Una sessualità cupa e meccanica, dove i corpi violati e frugati dallo sguardo diventano armi. Atti d’accusa. E sortilegi. Volti, anatomie e intimità manomesse, a cui la pittura sembra voler restituire qualcosa, togliendo e azzerando con


gesto affettato. Una colpa latente e galleggiante. Una sconfitta. Una cura. Un cibarsi eucaristico delle immagini. Le fotografie di Diane Arbus. E Nan Goldin. Nero è soglia che permette di accedere ad un territorio aperto e indefinibile, landa percepita senza fine, camera oscura dalle pareti e perimetri sfuggenti, inimmaginabili invisibili, talvolta opprimenti. Figure dai contorni mossi e vibranti lo abitano: come si cerca di mettere a fuoco e impigliare nella retina un aspetto che appare rilevante, ci si rende conto che sullo sfondo, dietro o a fianco, appaiono altre visioni di portata e temperatura contraria: l’ombra morbida e il chiaroscuro chiamano la silhouette e il ritaglio spigoloso, il liquido si oppone e rimanda al minerale, l’immobile alla dinamicità, all’incostante e al volubile. Una lanterna magica. Kara Walker. Un nero solcato da correnti, sommerse affioranti, che portano immagini, come rivelazioni e bagliori nella notte. Scie luminose e lucenti. Un flusso, a tratti imprevedibile: ora assente, adagiato, in piano calmo silenzioso inviolabile, ora in cavità di cupola su cui si proietta, improvvisa e rullante, una processione e sequenza ininterrotta di memorie e cose vedute. Che si stratificano, sovrappongono, confondono e poi scompaiono, così come sono venute. Alcune, restano impresse per un tempo maggiore. Un vortice; in dissolvenza. Una vertigine sonnambula di associazioni. Che ritrovo nei disegni e film di William Kendridge. Il nero è una porta, fessura che funziona come meccanismo di scoperta e collegamenti. Strategia per attraversare e congiungere mondi. Tracce oscure e inconscio a guidare; casualità anche. Una specie di memoria collettiva (lacunosa). Matthias Weischer. Una tenebra e caligine interna, in bilico tra palude e tempesta, tra fondali lenti, torbidi, profondi ed oscuri, e scatti rapidi nervosi, squarci sorprendenti, spaccature e fragori che aprono ed accadono sopra e dentro le teste. Nero è condizione ed esperienza: spazio mentale; soggettivo. Capace di tenere l’immenso, la voragine e l’abisso, per poi capovolgersi e riversarsi in macchia, foro, punto, piccolo buco, neo sulla pelle. Un labirinto; una mappa. Regola e rapporto segreto che tiene contiene governa. Le impronte e gli scavi di Penone. I vuoti di Rachel Witheread. Le corrispondenze di Parmiggiani. Nero è pulsione e turbamento: difficile e improbabile pensare di abbracciarlo, chiuderlo, circoscriverlo o esaurirlo in una classificazione, trama o disegno: meglio ricorrere a figure doppie, se non molteplici, che tengano conto della contraddizione e del

contrasto, di un’ambiguità feconda e feroce che permette il ritrovamento o l’annuncio di qualcosa a venire. Un presagio dal passato, in ciclicità di storia. Possibilità di andare e tendere incontro a ciò che non si conosce e che, allo stesso tempo, ci è somigliante e familiare. In qualche modo una predisposizione a. Uno sguardo desiderante, come quello di Caravaggio. Per questo mi scopro a seguire e percorrere associazioni binarie, più capaci di racchiudere, al tempo stesso, l’infimo e l’infinito, il caos e la geometria, l’astrazione e la materia. Che il nero è un invito al viaggio, dove forse è solo possibile procedere per tentativi: un avanzare come a tentoni. In nebbia plumbea, in fitto pulviscolo; polvere di un mondo disintegrato, parcellizzato e volatile. Eclissi che occulta. Stormo fitto che invade e riempie. Nero è ambiente che permette la sopravvivenza e in cui però si può anche essere in balia, come perduti in un mare o gorgo buio. Con sbandamenti, introversioni e malinconie. Una solitudine dove sprofondare, prima di riportare a galla, o indietro, qualcosa che si reputa prezioso, da salvare, forse degno di altri sguardi. Una scommessa spavalda e sfida tremante; tremenda e ridicola condanna: lievità e spensieratezza mai raggiunte. Le immagini circolari e vorticose, di pura superficie e profonde, tra volo notturno ed immersione, di Ross Bleckner; le bande, griglie e scacchiere, le vibranti ed imperfette geometrie, gli accordi e ritmi di Sean Scully. Il nero come spazio di quiete; meditativo. I neri sfilacciati come nuvole e i quadrati neri-bruni, semitrasparenti e pulsanti, come illuminati da dentro, di Rothko. I pieni e i vuoti, gli incastri di Nicolas de Staël. Che qui la partita si gioca sul guardare e su modi di vedere. E su di una messa in scena, a volte crudele, da entomologo o esperimento con cavie. Dell’allestire un teatro e predisporre la scena del crimine; con rapporto e relazione che intercorre come tra preda e cacciatore, vittima e carnefice. Francis Bacon. Un assalto. Un teatro anatomico, uno spettacolo dove non c’è spazio per psicologie. Solo osservazioni e referti. Un registrare spietato, una verifica (incerta). Joel Peter Witkin. Jan Fabre. Andreas Serrano. L’autoritratto col sangue di Marc Quinn. Un sotterrare e procedere per sparizioni e nascondimenti che attiva il meccanismo del ricordo o dell’associazione, grazie a mancanze più o meno palesi, sottili o rumorose, laceranti brucianti. Un’attesa paziente, ragnatela tessuta nella notte, fino a che affiori o resti impigliato intrappolato qualcosa. Una sospensione del tempo e dello spazio. I dipinti di Peter Doig, dove il notturno e natura tenebrosa 9


sono attraversati da sbirilucchi, lucine, perline e costellazioni tecnologiche fantasmagoriche. Dove la presenza è lontana e sconosciuta e avvolta in misteriosa solitudine e fare. Schiacciante isolamento, come in tempesta di Giorgione. Caspar David Friedrich, l’isola dei morti di Bocklin. Un fiume scuro che dall’ultimo carnale e sfrangiato Tiziano passa ai controluce di Tintoretto sino al nero di inferno di Rembrandt, dai cieli e nuvole di El Greco alla chiamata alla vita di Velasquez fino agli incubi sordi e mitologici di Goya. I dannati e disperati di Gericault. O dove il nero è notte antica, drappo calato, condizione imposta e involontaria, di tempo e accadimenti depositati, colonizzatori devastatori: come fa talvolta il bitume che dai fondi di certa pittura antica sale e, più diventa visibile, più macchia e compromette i bianchi, le velature e gli strati di pigmento più esterni. Un errore iconoclasta, macula nell’occhio e campo visivo. Un residuo brunito; di ossa e carbone. Pittura bruciata in incendio, vero e proprio campo di battaglia; con ferite, crateri, bolle e cicatrici: superficie solcata da spaccature, paesaggio arso e sconquassato. In questi casi, quando l’immagine resiste e sopravvive a queste aggressioni, pur se residuale, intuita labilmente, quasi svanita o privata drammaticamente della sua interezza, acquista una presenza oscura ed enigmatica, pregnante e densissima, che deriva proprio da questo tentativo di negazione che non riesce ad azzerarla del tutto; corrosione che finisce per rivelarne-liberarne un’anima o essenza segreta. Presenza misteriosa quasi indistruttibile. Qualcosa che era forse intrappolato dentro e che ora si fa visibile, magicamente. La mimesi nelle fotografie di Francesca Woodman, tra il suo corpo e i muri intonaci scrostati delle stanze, tra il suo corpo ed il bosco. Pelle e corteccia. Un respiro comune, invocato. Empatia ed arcadia anelate, dialogo tragicamente perduto. Una cacciata masaccesca dall’eden. Volontà di sparizione; un ri-diventare mondo. L’alfabeto di Kounellis: una scrittura di sassi pietre legni ferro fiamma. Cucire sillabe. Una forza che a tratti riconosciamo, ancora presente, negli elementi e materie. Una memoria delle cose che ci supera. Come preghiera. Forse è un’arte che crede ancora nel suo potere di guarigione, quella che si misura o cala nella tenebra. Che gioca pericolosamente con essa, con temi atavici e antichi quali la paura, la sessualità, il nostro rapporto conflittuale con la natura, la guerra, 10

la vita e la morte. Un’arte patetica, e dolorosa come la conoscenza, che è solo ed esclusivamente dell’essere umano. Una solitudine infinita, dolce, struggente ed invincibile. Bill Viola. Che il nero è nell’arte visiva un termine, non solo accettabile, ma doveroso e necessario, condizione inestinguibile, originaria, fondativa e fertile; un rifugio. Un grande ventre. Nero è parola nido e tana. Un ritorno a casa, anche una morte: demone guardato in faccia e affrontato; Medusa che pietrifica. Riportare indietro la testa; trofeo che inchioda. Un rapire predatorio. I ragni di Louise Bourgeois hanno in sé questa capacità attrattiva mescolata a pericolo e repulsione, così come altri suoi ammassi, resti e accumuli fatti di mutilazioni gravitazionali o frutto di mutazioni e derive genetiche, anatomie quasi irriconoscibili; fantocci sgraziati, opposti, complementari e speculari a corpi eleganti, sinuosi e sensuali. Una gabbia da cui non si sfugge. Volgarità che è nell’atto stesso del riconoscimento e manifestarsi. Nero è consapevolezza di altre vite prima e dopo; nel presente accecante. Qualcosa con cui l’arte, da sempre, fa i conti: bisognosa, se ne nutre. Perché rappresenta un immaginario, uno scrigno, un diario ossessivamente riscritto e cancellato. Un sonno della ragione che genera (non solo mostri). I dormienti e i simboli perduti di Paladino, i corpi e i disegni-grovigli nell’aria, che invadono ed occupano lo spazio, di Antony Gormley. Che sia inteso come nascita e inizio di tutto, o fine ultimo delle cose e delle immagini, questo pigmento, sentimento, umore, clima o tema, corre parallelo con la storia dell’arte e degli uomini. Che la moda se ne sia appropriata, in maniera definitiva, non è un caso. Il nero divide e separa; segnala anche. Prepara, copre, nasconde e protegge. Intimorisce. Rappresenta la parte negata, quella che non si vuole vedere, la metà oscura, segreta e occultata. Clandestina. Porta anche coraggio; e forza: investe. È rito, vestizione di guerriero, arma. Ancestrale, riporta indietro, collega e congiunge come magia. Un abbandono antico; un destino infausto ed avverso. Un buco nero. È nel militare, nelle truppe d’assalto e nei poliziotti robocop antisommossa, nei paramenti clericali, nella guerriglia e nelle immagini dei kamikaze, nel veli e nei burka, nelle bandiere anarchiche, nel ladro dei film e fumetti, nelle streghe per bambini, genere in letteratura, in musica, nelle camice fasciste, nel teatro contemporaneo, nel design e nei mobili dell’ikea (associato ad


un’idea di ordine, razionalità, efficienza, igiene e pulizia). Nero elettronico e hi-tech. Nel regno animale, in molti mammiferi e uccelli, rettili e insetti; corvo cavallo cane gorilla pantera gatto talpa formica scarafaggio… In occidente è il colore dell’eleganza, del lutto e della paura. Fosco. Si lega ad una certa idea di sensualità e sessualità, dal feticismo di certi abiti o accessori alle pratiche sadomasochiste. Cappuccio dei sequestrati e dei prigionieri di Abu Ghraib, passamontagna a Genova. Sacco. È pure lo sporco, il marcio e l’umile. Una condanna. Non esiste colore che attraversa e rappresenta identità e aspetti così distanti tra loro. Forse il sacrificio e la disciplina sono gli unici comun denominatori di molte di queste varianti. Una sospensione di vita, in qualche modo, monacale, a cui il nero si associa. Cancellare, occultare permanentemente con sfregio, negare il volto e l’identità, far perdere la faccia è l’atto estremo, male assoluto, condanna all’essere nessuno, come in certe fotografie di soldati della prima guerra mondiale, o nelle sfigurazioni con acido sui visi delle donne. Censura. Tenebra oscura che cala terrificante su vita. A cui si imparentano gli estremi della chirurgia plastica. Orlan. Jenny Saville. In Marlene Dumas, liquido, lambisce ed accenna a volti anonimi e facce di personaggi famosi (Gesù-Micheal Jackson, Andy Wharol), a creare un cortocircuito e slittamento, una “cronaca nera” differente. Un museo di replicanti. Galleria di corpi che l’atto del dipingere fa già morti, decretandone il decesso: finzione su finzione. Maschere. Spettri a potenza. Involucri e simulacri. Che il nero evita almeno l’imbellettamento del cadavere. Forse per un tentativo e volontà di maggiore realtà-credibilità, una “verità” che è anche (innegabilmente) della fotografia in bianco e nero. È l’oscurità con cui andare a braccetto o lottare, tenebra come compagna o con cui guerreggiare: perennemente in bilico tra instancabili e patetici tentativi di svelamento e portare alla luce, e una forza risucchiante, come marea che copre e cancella per riportare tutte le cose al loro grado zero. La furia, l’impeto e il furore in Vedova; l’informale ed esplosivo Moreni. Le accellerazioni e sciabolate graffianti di De Kooning. Baselitz, gli idoli, gli eroi-soldati dispersi, anche i remix, vecchi temi ridpinti in nero. I dipinti su velluto e i quadri con le scritte di Schnabel. Una performance in cui Barcelò entra in un muro di argilla. O un sogno; densa atmosfera che blocca e immobilizza. Incubo torbido, atroce e terrificante, come i topi giganti di Katarina

Frisch. O quasi un macabro e irriverente catalogo e divertimento, come in Bosch, un popolare di mostri e demoni ovunque. O di ombre, inquietudini ed angosce striscianti come in Munch. E altre livide luci nordiche. Una tabula rasa che permette la rinascita. Forse ancora lo stupore. L’immagine sommersa, sepolta e perduta; residuale. Un rogo e fallimento. Quello che resta, dopo la battaglia. Come in Giacometti. Auerbach. E Yan Pei Ming. Nero è energia trattenuta: equilibrio di forze; centro, nucleo ed essenza. È anche della semplicità: elementare, immediato, non obbliga a scelte, si da a priori. Sfondo da cui ripartire e a cui ritornare. Che con il nero si disegna e si scrive, che sul nero si tracciano segni, punti e costellazioni; che sia del linguaggio e, paradossalmente, del tentativo di comunicare, è quasi un ossimoro. Misurarsi con il nero, per un artista, implica quindi l’accettare, sempre e comunque, la possibilità della sparizione e della perdita (del nero stesso, condizione pura, a differenza del grigio), del complicarsi della visione. E un continuare resistente, in un credo stupido e testardo che è del processo salvifico (magico e sciamanico) di riproporre ancora una volta un’immagine, di mostrarla e catturarla, vero e proprio mostro sottratto all’oscurità e alla dissoluzione. Esposto e messo in primo piano, con processo di avvicinamento e fuoriuscita dal buio. Dell’intenzione di impigliare la cosa veduta nella rete, con dentro ancora tutta la sua forza possibile, che è bellezza (selvaggia e dolorosa) insita nella rivelazione. O del tenere e custodire, altra condizione drammatica e struggente, anche solo parti o dettagli di questa immagine, nel cono di luce e visibilità. Rischiarare. Riuscire a prendere o toccare. Strappare alle tenebre. Tradurre, tradendo il meno possibile. Michaël Borremans mette al centro dei suoi dipinti questo vuoto e buco, questa sfasatura che funziona come inganno e trappola; un’inquietudine che è inscrivibile all’oscurità. Opprimente nelle bambine di Ryan Mendoza. Una cinica consapevolezza e distanza come in Richter, che è invece del grigio. Nero non è quindi solo presenza di pigmento ma tensione ossessiva allo scavo, un bucare il velo che si imparenta alla tenebra e alla cecità, condizione dello sguardo, oscillante tra scivolamento sulle cose e profonda immersione sparizione in esse. Lucien Freud, altro pittore non nero e che pure, partendo dal guardare ancora una volta un modello (l’altro, presenza ingombrante e inspiegabile davanti a sé), finisce per distorcere la realtà quasi per un eccesso di visione e fedeltà ad essa; per un’estre11


ma volontà di precisione e analisi. La smonta e parcellizza, la rende imperscrutabile, anamorfosi con dettaglio che ingigantisce a dismisura; specchio deformante, con continuo smarrimento. Andirivieni incessante. Dipinge meticolosamente un vuoto, o un troppo pieno, un’apparenza di pelle, vene, ossa, muscoli e, al tempo stesso, qualcosa di invisibile, una materia che è estratta faticosamente dal buio attraverso lo sguardo, sguardo materico che coagula in rappresentazione. Trama stratificata di tessuti e pennellate. Di cosa vista come per l’ultima volta. Una vanitas. O della necessità di un secondo sguardo. Per questo, il nero, ha a che fare strettamente con il bisogno dell’uomo di rappresentare, ferita ancora aperta. E con il disegno, altra forma combattuta, frustrante, urgente e vitale, in bilico tra sguardo che fruga e trattiene, e visione sfuggente, instabile, che può risolversi in un nulla di fatto, in esiti non proporzionati allo sforzo compiuto. Il disegno è un incontro, un metabolismo e un processo di crescita: ci migliora. Ginnastica che collega occhio e mano e ci mette in contatto, contemporaneamente, con il fuori e il dentro. Li forza e piega, li fa comunicanti. È ciò che più si avvicina al pensiero e alla sua trasmissione in forme, che chiuse non lo sono mai del tutto (il non finito è del disegnare e del disegno stesso). Un artificio accettabile e meraviglioso. Un dialogo feroce. Sostenuto e aggredito da occhio di belva. Che mangia. Gli autoritratti di Artaud, le teste e scheletri di Alberto Giacometti. Un vedere che anche nella copia lambisce e sfiora (involontariamente) il visionario perché scardina la realtà smontandola e ricostruendola. Questo sforzo, anche artigianale, mi interessa. Mi aiuta ad addentrarmi in ciò che non posso vedere, o che non so. Mi offre una guida, per andare oltre, di là. Permette di vestire altri sguardi e seguire altri passi; guadare il fiume, come catapultato (ad occhi aperti) e risucchiato dentro il sogno di un altro, imprevedibile e spiazzante eppure anche mio; in cui, sorprendentemente, mi ri-trovo, altrove e sperduto. Altre realtà. Così come mi interessa il senso di perdita, che è una delle nervature che attraversano e sostengono questa mostra, uno degli umori qui più preziosi, a cui affidare un racconto che, per forza di cose, sarà parziale e discontinuo: procedente per lampi e bagliori, spettri, fantasmi e frammenti, dettagli brucianti e riflessi, interruzioni, sospensioni, ombre nella grotta, fuochi fatui, illusioni, inganni e finzioni. Un dragare fondali; una caccia spietata. Che il nero è, fin da bambini, ciò che non conosciamo e fa 12

paura: è pericolo, spavento e spauracchio. Assume forme (già nostre) e le prosciuga o ingigantisce. È però anche possibilità e sirena: attira e chiama a sé. Attiva e stimola la curiosità, ingrediente insostituibile. La coltiva e alimenta. Caverna di Polifemo. All’artista è affidato il compito di affrontare questa tenebra. È sua responsabilità, in qualche modo, la discesa agli inferi. Ci aspettiamo, come spettatori, che si assuma rischi, che si infanghi e sprofondi per noi. Che si sporchi di merda; che la sappia anche trasformare in ornamento e decoro. Che la disciplini e pieghi grazie alla tecnica. Protesi e strumenti; quasi alchimie. Mattew Barney. Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. David Lynch. Gli organi interni di cristallo di Chen Zen. L’amnesia e la cecità i due mostri e abissi a cui dare battaglia, a cui aggiungerei la superstizione, in un trittico quasi da poema cavalleresco. Boltanski. E Luc Tuymans; che, pur attraverso slavature, chiarori e pallori, lavora sul nero e tenebra intesi, non tanto come presenza e peso specifico di pigmento, ma come cupa ambiguità, ombra sottile, doppiezza che è dell’immagine, tra visibilità, sparizioni, superstizioni e amnesie; tra quotidiana familiarità ed orrori sussurrati: della banalità del male. E crudeltà del mondo, sempre presente, dietro l’angolo. Squallore luminoso; una lucida cattiveria, illuminata al neon. In incertezza inquieta di visione. Trappola tesa dove non c’è più spazio per enigmi ed incantesimi. Il tempo, ciò che si deve, o si può, tentare di rallentare, espandere e forzare per aprire spazi di comprensione, nicchie lucenti, bolle e squarci di bellezza che rapisce. Un tempo da far esplodere o congelare. Da rallentare allo spasimo, dilatato (in)naturalmente come in un video di Bill Viola. Una visione che non può mai essere pacificata, ma urgente, commossa, violenta anche. Un conflitto. Sempre in grado di portare altrove, in territori sconosciuti. Non so se consolante. Una perdita di orientamento, questo sì. Mona Hatoum. Il fuori scala di Ron Mueck. La casa di Gregor Schneider. Una narrazione che resta fondamentalmente impossibile perché il disegno di questa mostra si costruisce ed intreccia proprio su ciò che non si può dire o vedere: il nero, il buio, l’oscurità, la tenebra. Una contraddizione alla base quindi, perchè qui si propone un discorso su e intorno a ciò che è carbonizzato, arso, invisibile, occultato, perduto o sparito. Solo percepito debolmente, o attraverso fragore assordante che scuote e dura pochi istanti. Un terremoto. Una lezione sul fallimento dello sguardo forse, sul problema di


riportare qualcosa in luce e alla visibilità. Di una corruzione e denuncia perpetrata, alimentata, nostro malgrado, ogni volta che si tenta di far emergere qualcosa dalla sua condizione di cupezza e nascondimento. Opalescenza. Berlinde de Bruyckier. Contraddizione che è della pittura stessa (linguaggio rappresentato abbondantemente in mostra) tra scavo e sovrapittura, tra togliere veli e il coprire pesante della materia. Tra la rivelazione e l’inganno, del sovrapporsi, quasi combaciare e saldarsi di queste due prospettive e pensieri. Spazi siderali, accumuli tumorali e barocchi di materia. Fontana e Burri. Anish Kapoor. Parlare della notte, mostrare il buio, pensare nella tenebra, lavorare nel e col nero è il cuore oscuro e corvino che cercheremo di trafiggere e, al tempo stesso, proteggere. Un disegnare nella grotta. Ancora. Che il nero non rappresenta qui solo, o non tanto, il male, ma una condizione potenziale e latente di visibilità e moto: un mistero che perdura. Le fotografie che sbiancano progressivamente di Opalka (pensarle al rovescio, da prima del loro inizio, scendendo fino al ragazzo, al bambino e al neonato). Le sovrapitture di Arnulf Rainer. A nera dice della prima lettera dell’alfabeto, di un abbecedario con cui mettere ordine, dell’inizio e di qualcosa di primordiale, a venire, come presagio; ma è anche alfa privativa, negazione, sparizione, chiusura e fine. Il nero di Boltanski, ancora una volta, oscillante tra presenza-assenza. Un’inutile, magnifica e commovente volontà di arginare la perdita. Ad un nero tetro e sordo, opprimente e senza possibilità di respiro, di un’apnea che è oggi della politica, economia e tessuto sociale, delle nostre prospettive e di quelle che prepariamo con cura maniacale ai nostri figli, delle nostre relazioni catastrofiche, insensate e insensibili con la natura e il pianeta, del mondo del lavoro dove schiavo è la parola non detta ma più attuale e pertinente con la tanto reclamizzata globalizzazione (scusa valida per ogni stagione, malefatta e circostanza), a questo palinsesto e potere arrogante e schiacciante, che si isola sempre più credendosi inviolabile, vorrei qui opporre un nero diverso, più incerto e spaventato forse, ma anche più vitale probabilmente, più affascinante e promettente, che è quello dell’arte: un nero sensibile; capace di provare ancora vergogna. Un’alternativa, poiché non si tratta di stabilire primati, casomai di offrire possibilità e altre prospettive; e segnalare differenze anche. Un ricaricare di senso. Un nero che funziona allora come organismo e spugna, in-

spirante espirante, vegetale ricambio d’aria; coltre e fumo da attraversare, oscurità in cui muoversi ricettivi e in ascolto: capaci di reazioni e collegamenti tra le cose viste sentite percepite. Immersi e calati in una notte buia e feconda dove i segnali sono risonanze e richiami. Sonar a guidare. Onde, vibrazioni e sussulti le modalità e reazioni, che non possono essere solo documentario o presa diretta, che nel nero, un occhio, resta sempre puntato dentro. Un manifestarsi disposto a mettere in gioco la propria presunta purezza; unica possibilità e condizione, questa sì, di lotta ed espansione. Credo in un’arte molteplice e complessa, che si dirama e ramifica, che percorre sentieri multipli, che accoglie e contiene piuttosto che escludere, che si interra ed affiora; stupida, ostinata, testarda, contraria e mutevole. Che tiene in seno la contraddizione, tensione insostituibile e generante. Spiraliforme. Capace di comprendere più voci e direzioni divergenti; un’evoluzione che procede anche per ritorni, ritrovamenti e piste abbandonate, ripercorse. Tracce lasciate da altri. Una rilettura; che anch’essa rappresenta un progresso, un’aggiunta che fa avanzare e ingrandire. Che bisogna talvolta di una regressione. Del cambiare idea o direzione; e invertire la rotta. Allora da questa tenebra può emergere una costruzione nuova, un’architettura mai vista, eppure fatta anche intrecciando questi filamenti e bave antiche; un legare e annodare i pensieri. Uno sviluppo cellulare e biologico, sapiente, come tramandato. Le ragnatele e nuvole di Tomas Saraceno. Cristiane Löhr, i disegni e i rari bruni, fragili e delicati, che trova in natura. Il nero è lo spazio capace ed in grado di contenere questa trama e groviglio: è schermo vorace e risucchiante, specchio che riflette, magma, blob e schiuma che si riversa e copre, macchia che denuncia, sfida e corrode. Grido, richiamo scagliato in profondità. Messaggio affidato all’oscurità. E ai morti. Questo ventaglio labirintico di gallerie e aperture, questa intricata mappa sotterranea, che può apparire come caos indistinto e disordine generante confusione, apprensione e timori, rappresenta invece una ricchezza e possibilità che sarebbe sciocco voler limitare, o tentare di uniformare ad un’unica modalità che si ritiene vincente. Economia e semplicità che il nero raggiunge attraverso altre vie, meno programmatiche, più emotive ed emozionali. Questa mostra muove perciò da questo nero che è nell’aria, che scorre liquido, si insinua, attira, cattura ed ammanta; percepito, se non proprio come anima comune o plurale, almeno 13


come sentire diffuso e sensibilità che attraversa, pur se in modalità differenti, il lavoro di tutti gli artisti qui invitati. Lo fa tracciando un percorso che si snoda e articola collegando tra loro autori che trovano appunto in questo non colore una delle spine dorsali che ne sostiene la ricerca; sovrapponendo, fin da subito e immediatamente, le loro opere con gli spazi prescelti per accoglierle, rappresentati da quattro sedi espositive e dai quattro musei dei rispettivi comuni. Ambienti che non sono affatto scatole bianche, contenitori neutri, anonimi o interscambiabili, ma luoghi complicati e difficili anche, con caratteristiche specifiche e ben precise, che ne fanno geografia conosciuta, abitata e familiare, ma non per questo arida, sterile o del tutto svelata. Ancora avventurosa. Territorio, parola ricorrente e inflazionata, largamente abusata e pericolosa anche, ma che qui rivendichiamo come spazio, campo di movimento e stimolo; terreno che offre una serie di opportunità e inneschi. Che si fa quasi accogliente. Il luogo è e diventa allora qualcosa di irrinunciabile ed imprescindibile; questo progetto espositivo qui nasce e qui prende forma: non potrebbe esistere altrove, non è somigliante ad altro, non è pacchetto trasferibile. Una geografia che diventa zona d’urgenza e che il pensiero della mostra non abbandona, ma mette al centro, alla base, anche come limite imposto; utile indispensabile come ogni restrizione. Che scatena e trasforma. Vuoto da colmare forse, o anche solo banale e misero tentativo di sopravvivenza. Certamente una necessità, che consiste anche nel ri-portare altri sguardi e nuovi modi di vedere all’interno di questi spazi sonnambuli: il caso più evidente ed eclatante è quello dei musei, che qui forniscono, con le loro vocazioni e identità, indicazioni ed indirizzi, sbocchi e passaggi; chiamando a sé, accogliendo autori e opere contemporanee in fertile e reciproca commistione. Un combaciare talvolta nello scoprire affinità e umori; quasi da rabdomante. Altrove contrasti e attriti a segnalare differenze. Storie di temporanee e felici occupazioni. Scintille ed agganci. La mostra tiene insieme così e “costringe” alla convivenza di più sguardi e presenze: prova a mettere un po’ di ordine tra una serie di cose vedute e alcuni pensieri, sensazioni e associazioni che le hanno seguite; collega, sovrappone, interseca ed intreccia storie. Segue piste. Con andamento e stratificazione geologica più che lineare sequenza. Di sedimento e accumulo. E scoperta (che una dose di rischio c’è e deve esserci). 14

La proposta è ovviamente figlia di prospettiva e punto di vista parziale: è disegno arbitrario, non potrebbe e vorrebbe essere altrimenti. Ha già in sé vocazione a più voci, direzioni e aperture; qui, perlomeno, dichiaratamente quattro, rappresentate dalle singole sezioni che compongono l’esposizione e che funzionano un po’ come stanze o finestre, in una sorta di sistema-meccanismo che si svela e dispiega quasi per scatole cinesi, poiché dalla trama e architettura complessiva si discende sino al singolo lavoro dell’autore e, viceversa, si risale legando e congiungendo tra loro le cose vedute. Forse è quasi un racconto per immagini, attraversato però da fiumi carsici e collegamenti più o meno segreti, perché le diverse sezioni, episodi o capitoli in cui è suddiviso il percorso, finiscono per sovrapporsi e slittare, così come le opere presenti all’interno, che non possono essere contenute, trattenute e comprese totalmente dal titolo e dai sottotitoli delle mostre. Ognuna di esse fa storia a sé poiché non si tratta di una semplice collettiva o rassegna, ma di una successione di piccole personali, cellule di un organismo che si legano, saldano e cementano a creare un sistema più articolato. Forma finale che è più della somma delle parti. Uno sviluppo, cresciuto come pianta; con snodi e ramificazioni. Un ordine complesso perché risponde a più sollecitazioni contemporaneamente: i lavori degli autori, il loro stare insieme e il farlo in determinati luoghi specifici e fortemente caratterizzati. Un andamento con rimbalzi e rimandi continui. Un sistema di relazioni ed echi. Già presente nella scelta degli artisti invitati, che in larga parte hanno già esposto al precedente ciclo di Selvatico e di cui Spore rappresenta un’estensione, espansione e approfondimento; a cui si aggiungono però nuovi nomi, innesti a completare, perfezionare, dilatare e scuotere la lista. A farne cosa altra, esperimento; come in ricetta a cui si aggiungono ulteriori ingredienti, accordi e sapori. Un elenco che, pur facendo leva e raccogliendo esperienze che operano prevalentemente in Emilia Romagna, non ha intenti di catalogo o mappatura, ma piuttosto risponde e si costruisce intorno ad un sistema di incontri e relazioni; una geografia “sentimentale” che, più che ad un’indagine o censimento, assomiglia ad una rete che si allarga, estende e collega esperienze. Con una certa dose di imprevedibilità; con incontri ed innamoramenti dentro. A nera ha infatti struttura che si è aggiustata, modificata e pre-


cisata sino a raggiungere una forma abbastanza esatta, provvisoria ma cristallizzata; che non poteva essere definita completamente all’inizio, ma solo intuita, abbozzata, ricercata e assecondata man mano che si procedeva all’avvicinamento. Con fare un po’ da giardiniere che segue e accompagna. Con strade perdute, abbandoni e rilasci lungo il cammino, con tempo lento che dona altre gemmazioni, foglie e fiori. Germinazioni e spore. Una ricca, preziosa e avvincente serie di opportunità che ritrovo presenti nel nero e negli autori che qui, da esso, estraggono suoni parole immagini come da un pozzo senza fine. Talvolta con assalto e slancio, di cosa trafugata, portata via, acciuffata e salvata per i capelli. Urlante; venuta al mondo. Affamata. Sbranata. Corrosa e combattuta. Talvolta fatta affiorare cautamente, e delicatamente trattenuta, con timore che è cura e protezione, con fare materno, appartato e silenzioso, in attesa, come preghiera. Manufatto che permette di capire; lineare comprensione. Una leggerezza insospettabile e lentezza dolce, quieta; quotidiana ripetizione reiterazione. Mantra. Affermazione silenziosa e segreta, notturna; lavorio di insetto. Con grazia. O ancora con controllo di domatore, spavaldo beffardo, che ammaestra e disciplina l’oscurità. Che ne fa sfida. Palcoscenico e habitat. Un fare arte che è ora, oggi, quanto mai sotto attacco. Un’arte che si vuole sempre più come puro intrattenimento, merce a scadenza rapidissima. Iperproduttiva. Evento; conforme e omologato. Spettacolare. Questa forma tenebrosa e nera è invece sospensione e incantamento, dubbio fertile e vitale, elettricità che attraversa, vibrazione che scuote e perdura; battito. Solco che guida. Frattura che rivela. Con volontà indomita di sperimentazione ed esplorazione; non esotica, tanto meno colonialista. Che l’arte non è mai vile o a servizio: si espone e assume rischi. Funziona un po’ da parafulmine: si nutre dell’errore; brucia, per prima. Serra le palpebre per meglio sentire. Un nero dove non ci si può che muovere se non con sguardo inquieto e curioso, onnivoro ingordo famelico, un guardare, e guardarsi intorno, disposto a misurarsi con l’abisso per estrarre perle, domande, forse anche possibili soluzioni. Che il nero non è fuga, indietreggiamento o chiusura: la serrata all’attualità, quando c’è (ammesso che esista), è strumento utile allo scavo, conoscenza e ascolto. Una specie di spazio di meditazione; una cassa di risonanza, un basso continuo. Antenna puntata. Un appartarsi e isolarsi per raggiungere postazioni che permettono sguardi altri, laterali e periferici; che sono furto e condi-

visione, spazio per rilanciare domande. Un interrogare e interrogarsi perpetuo e continuo, che è dell’arte e dell’uomo: una possibilità concreta di vedere con altri occhi, venire in contatto con altri modi di fare e mondi. Un sentire partecipe; esistente resistente. Dormiveglia e sonno che porta. Un amplificare il mistero che è di tutte le cose. Una guerriglia, più o meno a bassa intensità. Brace che cova sotto la cenere. Vulcano. Un incendio. Deragliamento sempre possibile. Racconto di chi ha fatto naufragio. Un contaminarsi e imbastardirsi; linfa e sangue nuovi. Shirin Neshat, Ghada Amer. Ancora una volta, credo, valga la pena fidarsi degli artisti, affidarsi ad essi, farsi accompagnare in un viaggio dentro a un nero che è di e in ognuno di noi; che ci appartiene: declinato in infinite varianti e sfumature, timbri e tonalità, suoni e valenze tattili. Un notturno, con voci e musiche che giungono da lontano, come in una sera estiva. Un’eco, dove il buio fa un po’ meno paura, come in un racconto visivo di Greenway, di quelli fatti smontando e giocando sui grandi dipinti. Raccontare storie, ancora, nonostante tutto. Una nascita e morte continua. Meraviglia dell’essere e esserci. Che il nero qui, è forse del sacro, non solo parola utile all’arte, ma necessaria e insostituibile. Ecco il confronto e il tendere, quasi indicibili: arte e sacro. Un dormire insieme, per superare la notte. Bagnacavallo, Cotignola, Lugo e Fusignano le tappe di questo viaggio che si “disperde” in tante stazioni (o stanze), ognuna di esse rappresentata da un artista. E, come in ogni viaggio che si rispetti, la possibilità di costruirsi itinerari personali, dove e in cui amplificare l’effetto e le possibilità di un incontro, così come il superamento veloce e lo scivolamento su di un altro. Ombre e fantasmi, maschere specchi e immagini, mappe e labirinti, cenere polvere e frammenti. Una casa probabilmente. Pulviscolo. Volto in penombra, vespertino. O la memoria di un corpo, il suo doppio. L’ombra di un ombra. Del riverbero. E ripullulare. Dell’oggetto che ci pensa. E contiene. Collezione del mondo, ossessione (in)finita. O del rovesciare lo sguardo, dentro; all’indietro. In piega del tempo. Un ritratto della sorella, fatto a pastello e carboncino, da un giovane Sironi. Massimiliano Fabbri 15


Post Scriptum Ho deciso di non parlare direttamente degli autori invitati per diverse ragioni, non tutte facili da definire. Il primo motivo di questa scelta dipende da una specie di pudore, dalla stima e rispetto che nutro nei confronti dei lavori che costituiscono il percorso di questa proposta; citarli brevemente, sfiorarli appena in un testo introduttivo che voleva parlare del nero, una vera e propria nebulosa, attirante ed invasiva come un’ossessione, avrebbe potuto rivelarsi, da un lato, frutto di uno sguardo superficiale o un po’ troppo banalizzato (per il suo essere in corsa, e affrettato per le troppe cose da dire), dall’altro avrebbe potuto rappresentare una sorta di ripetizione, considerato che altri autori, più avanti, avrebbero parlato in maniera più dettagliata e specifica delle loro opere. La scelta di affidare ad un critico una singola sezione della mostra, mi è parso permettesse un intervento più efficace ed approfondito sulle loro ricerche e poetiche; ho quindi preferito lasciare ad altri questa responsabilità, con la convinzione che questo dispiegasse e mettesse in campo una maggior forza e precisione, un’analisi più profonda ed avvincente. Un altro tipo di racconto; quattro storie e ritmi differenti, come lo sono i quattro episodi che compongono la mostra. Ho poi avuto la sensazione, mentre scrivevo, che questo rispondesse ad un tempo doppio o prospettiva a due fuochi; una specie di sfasatura. Con funzione di aprire, rischiarare, svelare ed introdurre (e contemporaneamente far calare notte e oscurità) e, al tempo stesso, aveva come il compito di chiusura e sigillo, di percorso compiuto e raccolto avvenuto. Un tirare le fila che, da un certo punto di vista, ho aggirato. Penso invece che si presenti ed offra, agli autori dei testi, un compito insolito o interessante, perchè chi scrive, si trova “costretto” a decifrare una forma già impostata o presente, come se di fronte ad una sorta di scoperta o svelamento; una difficoltà, un problema che ri-chiede loro di entrare in una camera (o stanza in penombra) con sguardo quasi da archeologo o esploratore. A fronte di questi interventi critici, questo divagare e parlare d’altro (e altri) mi è parsa perciò un’ulteriore possibilità che superasse il semplice (e un po’ scontato) scorrere a ritroso, su e intorno a qualcosa che avevo già ben in mente. Ho lavorato quindi sui margini, su zone periferiche rispetto al cuore pulsante della mostra, su aspetti che, da un certo punto di vista, conoscevo meno, inseguendo associazioni, collegamenti e fughe. Facendomi portare via. Con la convinzione di agganciarmi comunque, sotterraneamente, agli artisti qui presenti. Credo che i loro lavori finiscano così per mescolarsi ed affiorare all’interno di un discorso più ampio, articolato, stratificato e complesso, fatto di autori molto conosciuti ed altri percorsi più o meno sommersi, nascosti o resistenti, ma non per questo meno validi o significativi. Lo scritto in questione diventa allora qualcosa che forse accompagna e guida, un’aggiunta (ecco perché molti maestri); che si affianca, 16

parallelo, come ombra, memoria o pensiero. Che tutto vive e si modifica in base a scoperte, relazioni più o meno segrete, incontri e ritorni; dove non c’è gerarchia che tenga, ma una sorta di metabolismo che ingloba ed inghiotte, che ruba e tiene ciò che serve. Accumulo che sedimenta, genera e trasforma. Un boiler, un ribollire nel e dal quale vengono continuamente a galla immagini, congiunzioni e collegamenti. Sinapsi. Le meravigliose mostre Artempo e In-finutum a Palazzo Fortuny a Venezia. I libri di Massimo Pulini. Le mostre (quasi contemporanee) di Nicola Samorì al convento di S.Francesco a Bagnacavallo e quella di Dacia Manto al Mar di Ravenna, che si sono incontrate e sovrapposte, in un limbo, a formare il primo nucleo e idea di una mostra nera; cellula che ha richiamato a sé una serie di cose vedute, scure e tenebrose, prima fra tutte il lavoro di Franco Pozzi della Quadriennale romana, appartenente a quella serie speculare dove la candeggina disegna mangiando il nero della carta velina. Nella mostra di Bagnacavallo, ombre e fantasmi, presenze oscure e misteriose, incerte e vibranti, che si aggiungono e sovrappongono a quelle “dormienti” nella pinacoteca e museo. Una specie di processione, una chiamata. A Cotignola una mostra sul doppio, sul riflesso e specchiarsi, condizione inevitabile del vedere e del tentativo di riportare, replicare e salvare la cosa veduta; sulla perdita e tradimento che mina internamente ogni rappresentazione, lacerante contraddizione su cui si basa l’immagine. Un cortocircuito e vertigine, sul rimandare e rimbalzare incessante dello sguardo. A Lugo, la sezione più astratta: architetture e geometrie quasi impazzite che diventano mappe, topografia intricata che può forse solo essere intesa e veduta da occhio meccanico o visione aerea; da lontano, attraverso distanza che scioglie e dipana. O, rovesciando i rapporti, in vicinanza che permette di perdersi e capire attraverso i sensi. Gabbia, griglia che diventa labirinto, groviglio che si complica ed inspessisce come crescita vegetale o scarabocchio, reiterato sovrapposto automatico infinito. Ripetizioni ossessive e perdite momentanee di orientamento; spiragli per entrare forse. Movimenti antichi. A Fusignano quello che resta da una distruzione, situazione-stazione apocalittica e polverosa, come dopo un incendio o abbandono. Una specie di cronaca dell’assedio, racconto esploso, fatto di frammenti e residui; dove la rovina è talvolta ripulita, liberata, lucidata e resa preziosa, liscia e scintillante come gioiello. Del cucire gli strappi e guarire le ferite. Del tentativo di riaggiustare. Dettagli luccicanti e cocci bruniti, resti coperti e sepolti di cenere.


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bagnacavallo museo civico delle cappuccine ombre e fantasmi

cotignola casa e museo civico luigi varoli maschere. specchi. immagini

lugo pescherie della rocca mappe e labirinti

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fusignano museo civico san rocco cenere. polvere. frammenti

A nera.

Una lezione di tenebra 19


1 bagnacavallo museo civico delle cappuccine ombre e fantasmi testo di sabrina foschini

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mirko baricchi stefano ricci anke feuchtenberger gianluca costantini mara cerri magda guidi massimiliano fabbri lorenzo di lucido erich turroni stefano mina laura baldassari orthographe

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Il fantasma nell’opera

“Spesso il mio lavoro viene attaccato per essere: buio-nerocrudele. Invece cerco la qualità del Nero come luogo della nascita”. Così mi ha detto Anke Feuchtenberger parlando dei suoi disegni e in realtà è dal legno, dai rami acconciati in un igloo di terra e di umana natura, che nasce il carbone e il carbonaio deve accettare di dormire nel bosco, luogo di lupi e di vecchie cannibali e di vegliare per lunghi giorni quella sua montagnola incantata, perché la metamorfosi si compia. Le braccia dell’albero sopportano un fuoco senza fiamma, che arda la materia senza incenerirla o cambiarle la forma. Per disegnare poi occorre sporcarsi le mani, prendere il nero nel palmo avendo memoria del fuoco e ricalcare sulla caverna, le ombre proiettate dalle cose. Dicono che è così che sia nata la pittura, dall’ombra, dal buio ha preso piede la rappresentazione e ha cominciato a vivere come un fantasma, senza più bisogno di stare dietro alla figura che l’aveva generata. Anche per questo, dalle pareti comunicanti di due celle monastiche, battono i pugni di Anke e Stefano Ricci, in un dialogo amoroso che rispetti la regola del silenzio. La pagina dei muri è riempita di disegni nati al momento, sgorgati dalla testa spaccata dai pensieri e già muniti di corazza, ma il carniere di ibridi d’uomo e animali, di personaggi dalle molte nature dei due disegnatori, si è nutrito nell’occasione, proprio delle stampe antiche con gli erbari e bestiari nati da una fantasia centenaria, che sono oggi raccolti nel museo delle Cappuccine. È ancora il tentativo ripetuto dell’uomo di creare nuova vita mescolando i Regni. Il vegetale e l’animale si confondono nelle anatomie rivedute dal sogno e come nel gioco dei panni di Abelardo ed Eloisa le visioni dell’uno, rispondono ciecamente a quelle dell’altro, impegnato nella stanza attigua, al netto di una propria, concupita reclusione. 22

Il calmante assopì la sua anima ma non ne toccò il fondo, là dove era giunto il nero. P. Roth

Stesso movente, scientifico e laicamente devoto, ma ingrassato nell’olio della pittura è quello di Massimiliano Fabbri, anfitrione di selvatichezza che anticipa l’aspirazione, o la necessità della mutazione, nei gesti gemelli di uomini e bestie e confonde le curve morbide e arrotondate dei petali in contigue e leggiadre vanitas d’ossa. L’innamoramento tassonomico della catalogazione, dell’architettura di corpi naturali, cerca la sinfonia della composizione, il decoro di un disegno barocco da cripta, che faccia danzare il macabro ad un ritmo suadente. I volti trovano il proprio mansueto e selvatico fantasma nello sguardo concentrato degli animali, nelle pupille dilatate dei rapaci, ma il grigio diffuso tiene ferma la combustione della vita ad un grado freddo di artificio. Le cose e le persone sono addormentate nella polvere, nel guscio pompeiano reincarnato col gesso e non nel sangue pulsante, che darebbe loro, libera cittadinanza nel mondo dei vivi. Aleggia nel fantasma di istantanee riassorbite dai ricordi, dipinte da Lorenzo Di Lucido l’ossessione di una scimmia, qualcosa che combatte per essere rappresentato, una maschera più ferale dell’uomo, un presagio, forse una strada chiusa nelle ipotesi della biologia o del destino. Non sempre questo rivolo d’allucinazione è mostrato, ma è qualcosa da cui l’artista si è lasciato colonizzare nella concezione delle sue ultime tele. Mi viene in mente una storia della Blixen: L’anziana dama con la quale avevano conversato poco prima si contorceva scomposta a terra; era ridotta a nulla, diversa da quella di prima. Là dov’era stata dianzi, s’acquattava vinta e piagnucolosa una scimmia, che cercava di rifugiarsi in un angolo della stanza. E là dove aveva saltellato prima la scimmia si rialzava, ora un poco ansante per lo sforzo compiuto, rossa tuttora in faccia, la Badessa


del convento di Seven in persona. La galleria di ritratti familiari di Lorenzo non si ha per affermazione, ma per occultamento. I volti sono ripassati dall’oblio, chiusi gli occhi, azzerati i lineamenti; ricordare significa seppellire, nascondere la realtà nella notte combusta della pittura. Penso al gentiluomo bruciato di Tintoretto esposto ad “Artempo” qualche anno fa e penso a me bambina tra le braccia dei miei genitori, mentre dicevo che là, dentro al buio stavano le figure e che non avrei più potuto mostrargliele, ora che il mio grido aveva riacceso la luce. Ma c’è un’altra artista che compie il rito poetico della metamorfosi. Laura Baldassari, nell’ovale ravvicinato di una testa senza ornamenti, mescola i suoi tratti a quelli dell’amato, sovrappone le presenze nel gioco sentimentale e sensuale di diventare l’altro, di assumere nella propria carne, la biologia altrui e di creare un terzo essere che sul letto della pittura, è originato dalla somma dei primi. A questa chimica generante della pittura, Laura affianca, grandi tele colmate di acque fonde come specchi oscurati, letti di fiumi limacciosi popolati di piante e radici, da dove sia stato ripescato e poi dimenticato, il corpo esangue di Ofelia. Il riflesso della luce viene inghiottito dall’ombra e si frange come vetro, l’olio del colore e quello dei riflessi che scivolano sulla superficie, lottano per smorzare lo squarcio del sole. Sulla pellicola d’acqua stagnante la chimica del ricordo ha operato una cesura crudele dalla consolazione dei colori. La memoria ha scelto l’inverno dei sensi. Lo specchio di Mirko Baricchi invece, torna all’immagine dell’animale e la sua identificazione in altra forma, scelta per l’attitudine al movimento, alla fuga, trova simbolo nell’araldo ludico e sfuggente della lepre. Durante la visita alla sua cella nei preparativi all’esposizione, l’artista ha trovato appesa a quelle pareti una tela a losanga, che ha scelto di passargli il testimone del luogo, nel presente ritardato di epoche differenti. Così la silhouette del dipinto antico è rimasta come un’ombra ribattuta nel lavoro contemporaneo e quel profilo dalla vaga forma di una lapide, coperta da una cortina di panno scuro ha fatto spazio allo spettro delle lepri. Disegnate in bianco nella trama accarezzata del pelo sopra la preparazione notturna dello spazio, il loro corpo rimane in filigrana, trasparente come una costellazione di punti nell’oscurità. Corporeo è il titolo dell’installazione, ovvero corporeo, colpevole di restare sulla terra, di indugiare dietro allo spirito, di non attraversare la soglia. Del resto dice Baricchi di aver preso il suo animale dàimon da una frase di Cagliostro “Legora cambia il tempo e le cose”, quel mago che non seppe levitare e sparire

dietro alle sbarre. Dentro alla sua stanza intanto, risuona il motivetto meccanico della Vie en rose, e alla musica risponde anche l’opera del gruppo ravennate degli Orthographe, con un carillon che segue il dettato dei numeri primi, la ritmica tracciata dalla loro ricerca, il disegno ricamato a matita nel grafico del foglio. La composizione sonora traduce un gioco matematico ispirato al crivello di Eratostene, il genio antico che tra le sue scoperte ideò anche un sistema per misurare la circonferenza terrestre, in base alle ombre proiettate dal sole. L’ombra ritorna nelle pause del concerto, negli spazi sordi, nel silenzio dovuto alla cancellazione delle cifre assolute, dalla sequenza dei multipli, come le conte dei bambini che s’interrompevano nel sorteggiare un prescelto, per poi riprendere il filo della canzone in un cerchio più piccolo. Il progetto d’ascolto si chiama Erinnerung, che in tedesco indica un tipo preciso di ricordo, quello inseguito e ricercato, differente da ciò che riaffiora alla memoria inaspettatamente. Nella nostra lingua il termine suonerebbe vicino alle Erinni, le furie vendicatrici del mito, ma forse qui il ricordare suggerisce qualcosa di più struggente, la nostalgia e il rimpianto per quelli che mancano; i corpi compresi dietro alle fila anonime dei numeri. Sempre più forte è la sensazione che la musica sia un veicolo fecondo di fantasmi se anche Stefano Mina, la prende a registro della sua pittura con una doppia serie rossa e blu, di partiture astratte in omaggio a Jimi Hendrix. La dedica del titolo è Lode ad uno spirito, un passaggio di mani, dalle corde ai pennelli, il tentativo di rendere visibile l’imponderabile, l’aria risonante, la traccia carezzevole del sentire. Nei dipinti a toni freddi, il nucleo soffice, delle pennellate chiare, è un alito ghiacciato, un fiato impresso nel vapore del vetro da una invisibile presenza. Nelle scie rossastre, lingue e filamenti dei quadri caldi, l’incendio superstite è quello di un tramonto sommerso dal fondo della notte. L’astrazione della pittura partecipa a quella della chitarra, le dita, il braccio e il corpo che suonava è dissolto e distillato nell’alone fumoso che per un attimo interrompe il buio, imprime l’atmosfera del suo interminabile passaggio. Altro omaggio agli spiriti tutelari è quello di Gianluca Costantini che nelle sue tavole chiamate G8NOVA, ha costruito degli ideali monumenti di carta, votati ad un gruppo storico di anarchici, padri del pensiero libertario. Per questi suoi manifesti funebri e insieme programmatici, ha scelto di lavorare su una guida antica del cimitero monumentale di Staglieno, museo a cielo aperto situato in terra genovese, luogo noto di un incubo nostrano, compiuto nel nome dei grandi della terra. Alla pietà romantica 23


e alla retorica funebre delle statue commemorative, fotografate sulle tombe antiche, ha contrapposto il segno vitale e il grido energico di altri morti, dalla volontà resistente. Allo strazio del lutto, lo sberleffo della sopravvivenza, di un pensiero radicato, in barba all’oblio del tempo e al transito delle singole esistenze. Le chine colorate e i pennarelli vivaci infrangono la statica grigia e zuccherina delle immagini d’epoca e creano un cortocircuito temporale capace di perturbare il sonno e come dicono i vecchi romagnoli a proposito del vino forte, di far “resuscitare i morti”. Soffre invece di una cattività inespugnabile, di una totale costrizione, la testa legata, bendata e negata di Erich Turroni. Plasmata nella resina scura e sedata dalla gomma piuma, come a cercare l’isolamento acustico, è saldamente fermata al muro da un intreccio di cinghie che frenano anche la rotazione del castelletto da costruttori a cui è avvinta. Dall’altra parte del suo sguardo interrotto, c’è l’ombra dipinta del corpo mancante, di ciò che era stato un intero, o forse un individuo. Ma pur immobilizzato questo capo fuori misura, questo trofeo gigante di un David contemporaneo, sembra mantenere il suo pericolo, anche dopo essere stato reciso dal tronco. Il demone infuria ancora nella sua maschera, il grido imbavagliato dai tiranti prende la rincorsa dentro di lui, per potersi slanciare con forza quando sarà liberato. Tutto fa pensare che per i suoi carcerieri lillipuziani, la calma stoica del prigioniero è una quiete apparente, un grumo di forza che attende di esplodere. Chiudono questa galleria d’ombre, questo alveare di fantasmi, le figure affiancate di Mara Cerri e Magda Guidi, due artiste e illustratrici che hanno in opera un sodalizio felice. Le loro immagini incorporee, disegnate nell’aria, hanno preso il volo

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seriamente tanto che è stato loro impresso il movimento, dalla pagina del libro, fino alla realizzazione di un cartone animato a più mani. Nei disegni sonnambuli di Magda e in quelli più ironici di Mara, compaiono degli ex voto dissonanti, e il sacro diventa un possibile itinerario del sogno e della favola. La matita attillata e raffinata della Guidi cerca la sua sporcatura negli aloni, nei depositi di polvere della grafite o dei pastelli, che sono aureole d’ombra per draghi o bau bau di San Giorgio. Frammenti di anatomie vengono assunte in cielo come reliquie di cera o di biscotto, e angeli trasparenti contendono il volo agli insetti, nella metafisica di un tempo sospeso, senza atmosfera. Nel gioco di ruoli della Cerri, sulle ginocchia calzate nel jeans trova posto una pietà di pantera rosa, il costato aperto, lascia sgorgare un rivolo di segatura, mentre una maddalena adolescente pesca il miele dell’eremitaggio dal barattolo di Winnie the Pooh. I bambini disegnati da entrambe hanno sempre lo sguardo sgranato verso la sorpresa, verso qualcosa di inaspettato, pronto a turbare l’acqua di tempera del disegno e a cambiare ancora una volta natura alle cose. Il non detto e l’invisibile congiurano benevolmente nel mutare residenza ai pensieri e ai sentimenti a loro intrecciati. In fondo il compito dell’arte è dare asilo all’incognita del sogno, alla variabile ondivaga dell’immaginazione nei confini quadrati della terra e allora possiamo sottoscrivere con certezza la frase dell’Ortese che Mara ha posto in chiusura del suo ultimo libro: “Non sempre ciò che vediamo è reale e non sempre ciò che ci appare irreale ha meno potere del vero sul destino dell’uomo”. Sabrina Foschini


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mirko baricchi

nato alla spezia nel 1970 vive tra la spezia e milano lavora a la spezia

CORPO(reo)., 2010, loop video, 12’45�. 26


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CORPO(reo)., 2010, tecnica mista su legno e ferro, cm 80x90x12


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CORPO(reo)., 2010, tecnica mista su legno e ferro, cm 80x90x12


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CORPO(reo)., 2010, tecnica mista su legno e ferro, cm 80x90x12


stefano ricci

autoritratto, 2010, pastelli a olio e carboncino su carta, ∅ cm 220

nato a bologna nel 1966, vive e lavora a quilow e amburgo

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eccola, 2010, pastelli a olio e carboncino su carta, ∅ cm 270


anke fa ginnastica, 2010, pastelli a olio e carboncino su carta, ∅ cm 190 32


la conduttrice, 2010, pastelli a olio e carboncino su carta, ∅ cm 100 33


anke feuchtenberger

nata a berlino est nel 1963, vive e lavora a quilow e amburgo, un figlio

abschied vom ei, 34

2008, carbone su tela, cm 150x180


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w端nschelrute, 2009, carbone su tela, cm 180x150


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lob des kohlenstoffs, 2010, carbone su tela, cm 180x150


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sommerfrucht, 2010, carbone su tela, cm 180x150


gianluca costantini

nato nel1971 a ravenna vive e lavora a ravenna

G8NOVA - gaetano bresci, 2009, tecnica mista su carta, cm 16x10,5, courtesy galleria miomao, perugia 38


G8NOVA - garcia oliver, 2009, tecnica mista su carta, cm 16x10,5, courtesy galleria miomao, perugia 39


G8NOVA - ravachol, 2009, tecnica mista su carta, cm 16x10,5, courtesy galleria miomao, perugia 40


G8NOVA - sacco e vanzetti, 2009, tecnica mista su carta, cm 16x10,5, courtesy galleria miomao, perugia 41


mara cerri

nata nel ’78 vive e lavora in via Curiel 8

mara cerri e magda guidi, 2010, acrilico e pastelli su carta, disegni d’animazione per il film “via curiel 8”. produzione: sacrebleu / cincilla, con la partecipazione di arte france, cm 11x8,5, cm 18x14 42


magda guidi

nata nel ’79 vive e lavora in via Curiel 8

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mara cerri, maddalena poohnitente, 2010, acrilico su carta, inedito, cm 21x23 44


mara cerri, pink pietas, 2010, acrilico su carta, inedito, cm 21x23 45


magda guidi, ex voto, 2008, acrilico carboncino vernice flatting, inedito, cm 20x14 46


magda guidi, ex voto, 2008 acrilico carboncino vernice flatting lo straniero, dicembre 2008, cm 20x14

magda guidi, ex voto, 2008 acrilico carboncino vernice flatting lo straniero, dicembre 2008, cm 18x12 47


massimiliano fabbri

respiro 2, 2008/09, dittico, olio su tela, cm 100x100 (ciascuno)

nato a faenza nel 1972 vive a boncellino di bagnacavallo (ra)

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souvenir (lui e me), 2009/10, dittico, olio su tela, cm 100x150 (ciascuno)


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morte barocca di un mollusco senza memoria, 2009/10, dittico, olio su tela, cm 120x100 (ciascuno)


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lorenzo di lucido

dromos, 2009, tecnica mista su tela, cm 160x100

nato nel 1983 a penne (pe) dove vive

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dromos, 2010, tecnica mista su tela, cm 30x28 53


dromos, 2010, tecnica mista su tela, cm 30x28 54


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ecoide, 2010, tecnica mista su tela, cm 140x100


erich turroni

nato a cesena nel 1976 vive e lavora a gambettola

senza titolo, 2010, ferro, vetroresina,gommapiuma, fasce elastiche, cm 260x200x180 56


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ombra, 2008, tecnica mista e poliestere su tavola, cm 173x91


stefano mina nato a rimini nel 1957, lavora a rimini

bleeding heart, acrilico su tela, cm 100x120 60


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crying blue rain, acrilico su tela, cm 80x80


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fire, acrilico su tela, cm 80x80


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valleys of neptune, acrilico su tela, cm 100x100


laura baldassari

Oc.lbfi.6.dc, 2010, olio su tavola, cm 30x40

nata a ravenna nel 1985 vive e lavora a milano

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Oc.lbfi.dc, 2010, olio su tavola, cm 30x40


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C° 44°33’ N 12°17’ E, 2010, olio su tavola, cm 180x150


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C° 45°27’9”N 9°10 ‘48”, 2010, olio su tavola, cm 210x140


orthographe

alessandro panzavolta nato a forlĂŹ nel 1975 angela longo nata a ravenna nel 1978 vivono e lavorano a ravenna

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erinnerung, lo spartito dei numeri primi - carillon studio 69


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ยกthump flash! fiat ars pereat mundus, installazione per lampi di magnesio


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2 cotignola casa e museo civico luigi varoli maschere. specchi. immagini testo di alessandro giovanardi

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dacia manto franco pozzi nicola samorĂŹ cristiano carloni stefano franceschetti daniele casadio alex majoli

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vesperae

La notte del mondo propaga le sue tenebre Martin Heidegger, Sentieri erranti nella selva Nell’inverno della terra, è sempre più notte e sempre meno giorno Massimo Pulini, Caravaggio nero fumo

L’ombra è una sottrazione di luce, l’ustione ne è invece un eccesso: è il reale che s’imprime nello specchio del mondo con l’ardore di una fiamma intima, coltivata a lungo nel buio del cuore. Solo così è lecito a un’opera farsi posto nel reale, generare uno spazio, renderlo capiente, capace. Vi sono però notti dell’anima che hanno natura del gelo e notti che possiedono, invece, quella della brace. Di quest’ultima fattura è il lavoro di Franco Pozzi che ha insieme l’istinto del calligrafo lieve e il destino di una lama cauterizzante. L’animale mansueto e quello feroce si accordano, difatti, nel solo gesto per cui l’acqua di Labarraque toglie impietosa l’ultima coltre di nero a sottilissime carte veline e le trasforma in una tessitura di segni palindromi e indecifrabili. Quelli degli arazzi ineffabili di In girum imus nocte et consumimur igni, che già dal titolo confessano la tautegoria della lettura ambivalente e che nel gestopreghiera rispondono alla domanda di Cristina Campo: perché vola il tappeto? Quelli delle farfalle che nelle ali oscure racchiudono il riflesso di un rito e nella bruciatura un messaggio speculare che riposa in sé, non dischiuso. Il senso non sta nell’inattingibile, irreplicabile scrittura del singolo lepidottero, ma nel suo disporsi a sciame ordinato coi suoi simili, come le monadi di Leibniz, per significare un altro: il disegno del pittore giapponese Sengai Gibon, maestro buddhista della scuola Rinzai, i cui insegnamenti oscuri e paradossali s’imprimono in immagini bizzarre e sottili. Pozzi traduce in movimenti d’ala i tratti leggeri dell’inchiostro e indica l’infinita possibilità del vuoto, nelle minime fughe al di là del recinto che s’è prefisso per officiare: l’illuminazione giunge attraverso uno shock estetico, un apertura che è figlia di una strenua, incontentabile meditazione nell’ombra finché gli inconciliabili non vengano superati (Il bene e il male non usciranno dagli occhi, dalla bocca dal naso?). Anche ciò che è impalpabile lascia traccia, intaglia la sua immagine, s’incide con le bruciature del tempo, con l’attrito di una sabbia rovente e dà al marmo l’impronta del volo: Requiem di requiem offre lo specchio di ciò che è senza pondo – la cifra indecifrabile della farfalla – in un materiale di contro pesantissimo e prezioso, rimasto, tuttavia, come memoria del vuoto di un volo, immagine di un’assenza. Una lapide funeraria consacrata al dissiparsi di falene, al consumarsi di insetti crepuscolari nel fuoco di una ronda notturna. L’arte non è che ricordo dell’inafferrabile, di ciò che sfugge alle dita come alla comprensione: di un pittore suicida del barocco, il toscano Pietro Testa, rimane solo l’orma di cenere del suo monogramma: è una scrittura nel residuo di un’esistenza, evocatrice dei 74

disegni e delle incisioni che lo resero celebre e per cui questa gravure sulla polvere si trasforma nell’omaggio a chi aveva preceduto le volute di colore di Tiepolo, le visioni di Blake. L’arte imita la natura nel suo modo di operare, c’insegna l’Aquinate: per Pozzi è seguire fedelmente la fascinazione del pulviscolo, l’essenza del depositarsi dell’atmosfera sulle cose, come il pochoir di un fiore a stelo tracciato su una foto ottocentesca che è insieme un dono ai defunti, un’evocazione del tempo come pianta che cresce e della morte come stelo reciso: albero genealogico della vita, della caduta, della bellezza. Golfo d’ombra è una contemplazione raggrumata sull’essenza umbratile del nostro tempo, al quale necessiterebbe il medicamento di un’arte rituale e simbolica ma di cui è possibile fare traditio solo in citazioni, allusioni, riferimenti colti e arcani. Nell’immaginario carezzevole e rovente di Pozzi, si riflette per opposto la calcolatissima tessitura lirica di Dacia Manto, la sua scrittura di labirinti visivi che coinvolgono sia la grafica sia le composizioni di oggetti e segni, architetture poetiche di rebus, ipertrofie d’immagini che divengono gomitoli di tenebra, ragnatele, morsure, licheni fluorescenti. Una matematica da aracnide domina il gusto e il pensiero della Manto, una consapevolezza di ciò che affascina e inviluppa, dove la verità è lasciata al dominio del nero, alla sostanza coprente, quando per Pozzi il reale valore sta, specularmente, nel togliere. Dense stratificazioni di grafite, rosoni di scheletri di carta ritagliati come balocchi sacri nipponici, inquietanti selve di aculei d’istrice che quasi evocano i boschi dove sono stati raccolti e collezionati negli anni, si dispongono come raccolte di segni strani e misteriosi, figliano minuscole camere delle meraviglie, rassegne di enigmi, capricci, curiosità, movimenti di un’anima che riordina così la propria motilità, costruendo un cerchio magico di ombre e presenze, un sentiero di fiaba francese rococò. Solo la lotta notturna di Giacobbe con l’Angelo può dire la guerra ingaggiata da Nicola Samorì con la dismisura del proprio talento di disegnatore, pittore, scultore: battaglia senza tregua con un’arte che potrebbe rinchiudersi nell’incanto della propria bravura, nella sovrana padronanza da maestro antico che può guardare da pari i sommi del Cinque e del Seicento e che, invece, sacrifica se stessa per affondare in un pensiero più profondo, per tentare una bellezza difficile e crudele secondo i sentieri eletti dalle deformazioni di Francis Bacon e dalle colature plastiche di Medardo Rosso. Per Samorì l’immagine è il medium con cui dire l’essenza del tempo, sia come tragica impermanenza degli enti, sia


quale storia dello svelamento e dell’occultamento dell’essere. L’oscuro, prefigurato nell’intera storia dell’arte post-rinascimentale è l’acquisizione della dimensione del chronos nell’impasto torbido della pittura. Due, soprattutto, sono le forme iconiche che si dispongono al nuovo scandaglio: il ritratto e il soggetto sacro. Entrambi incarnano, difatti, un apice dello svelamento di Crono; il primo è un aleph della contemplazione, un addensato di contraddittori momenti intellettuali, emotivi, psicologici spirituali, ricondotti a un equilibrio reale, a pienezza, secondo il magistero indefettibile di Fra Galgario; il secondo trasforma l’azione in liturgia, la retta della storia modernamente intesa, in cerchio, reiterazione. Le cancellazioni di Nicola, i suoi recuperi dell’abraso in incollature, superfetazioni materiche e semantiche, non sono affatto una demolizione del sacro, né di quello religioso (l’immagine devota), né di quello laico (la persona o l’opera d’arte come concentrazione di senso e di valore). Le maschere non sono svuotate di possanza mistica, nel momento in cui i volti sono cancellati: persino il conte Giovanni Secco Suardo ritratto da Vittore Ghislandi, frate e uomo di mondo, non perde nobiltà nell’oscuramento, il suo mascheramento feroce ne amplifica la presenza, proprio come nel Ritratto di procuratore della scuola del Tintoretto, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, consunto e annerito da un incendio. Sono interventi che, rievocando con superba abilità pittorica l’originale, ne fanno invece occasione per togliere il velo al tempo (velo di Iside, velo di Maya), nella sua sostanza di consumatore e mescolatore di segni. Samorì, con scienza e crudeltà di chirurgo, ci sottrae dal Kronos feriale, in cui l’opera d’arte, pur nella sua arguta bellezza, rischia di essere risucchiata al modo in cui Saturno divora i figli nelle proprie fauci, verso l’Aion, livello mitico che media tra l’eternità e l’oggi. Vi è infatti un implicito trascendimento semiotico, filosofico e civile nella sua opera: i corpi consunti, incrostati o liquefatti del suo lavoro non hanno un’intenzionalità gotica, una volontà autoptica; la carne martoriata è quella della tela, dell’olio, della tempera, del legno, del marmo, del gesso. La ferita suggerisce nuove possibilità linguistiche, inedite riflessioni sulla funzione dell’immagine, considerazioni dolenti sul destino del lavoro artistico, della bellezza, dei segni condotti sul crinale estremo di un incendio, di un movimento tellurico inatteso e terribile come un’apocalisse. Quasi un’elettiva affinità estetica lega il lavoro di Samorì all’avvolgente, soggiogante rituale filmico di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti. Una wunderkammer di simboli visivi che si offre ricca e complessa fin dalle singole fotografie per estendersi ai fotogrammi della videoinstallazione, sobria e inquietante, Materia grigia. Una lavagna abbandonata, impoverita persino della scrittura scivolata per terra in cumuli di gesso, diviene uno schermo di presenze, di gesti ripetuti, denunce indirette di una prigionia. La riflessione sull’asfissia, lo specchio-prigione, il destino sentito come inevitabile in-scrivere il corpo-anima nel buio della pietra lavica, si trasforma nell’emblema, improvvisamente illuminante, della soglia. È una meditazione iniziatica in cui la consapevolezza del carcere, affranca paradossalmente lo sguardo come quello di un Sisifo felice, di un Nietzsche certo dell’eterno ripetersi di tutto e per questo liberato dal

potere del ritorno delle cose. L’iniziazione a questo teatro imprigionato nella pietra nera, può sedurre fino alla disperazione o ridurre l’angoscia a parvenza onirica; può invadere come un’insidiosa polvere bianca gli interstizi della nostra realtà o aprire le porte a quel dominio terapeutico sui sogni, trasmesso dalla sapienza tibetana. Allora anche i corridoi degli edifici razionalisti prescelti dagli artisti (Scuole? Collegi? Ospedali?) possono diventare navate in cui l’ombra è supporto della luce e non solo sua negazione. Le sfingi che c’interpellano sono infanti psicopompi (guardiani della soglia o principi del reame dell’aria?) che rimandano, come icone perturbanti, non solo a certo teatro contemporaneo ma, soprattutto, alla pittura cinematografica di Sergej Parajanov, ripreso in un’ottica scura, nordica, anti-bizantina e piuttosto fiamminga. Per motivi simili non saprei dire se i ritratti di Alex Maioli incarnino un valore filmico o rivelino, piuttosto, una sostanza pittorica: sono volti che restano in sospeso, come in un racconto, tra l’immoto e il movimento, ma provengono anche da una soglia metafisica a mo’ dei corpi laicamente sacri di Bill Viola, dove pittura e cinematografia sono indistinguibili, la seconda dominata dalla prima, sottomessa al suo lessico misterico. Quelli di Maioli sono visi, silenziosamente eloquenti, dischiusi nella tenebra, promananti dalla notte: persone autentiche o maschere mistiche non importa; si mostrano ieratiche in ogni ferita, ruga, sguardo, incutendo attenzione e timore. All’imago del potere sono invece dedicati i lavori più teatrali dove il sembiante tetro di un re borghese è catturato nell’attimo esatto della caduta della posa, dell’abbandono al proprio vuoto, vicino al declino di un attore stanco. Il cuore di tenebra degli arcana imperii si svela nella melanconia di un volto disfatto nell’espressione come nella carne, maschera privata di ogni malìa che, senza volerlo, confessa lo spogliarsi di tutte le mistificazioni: unica via per ricondurre nel cerchio della bellezza l’insensatezza di un desiderio di dominio e di protagonismo che divora se stesso in una notte senza fascino. In Daniele Casadio l’indagine fotografica non intende suggerire nessun’altra forma o tecnica artistica: la disciplina, assimilata con indefettibile acribia, accontenta perfettamente le esigenze poetiche ed espressive di chi la cura con maniacale pazienza. Eppure ogni singolo scatto mantiene il sapore di un ritratto antico, di una lettura allegorica della psiche, della personalità coinvolta. L’ombra, lo specchio, il doppio, la sovrapposizione del profilo alla visione frontale o di tre quarti è un concatenamento di stati emotivi, di mutamenti di pensiero, offerto con salti e accostamenti al modo dei ritratti triplici di Leonardo, Lotto, Van Dyck. Se i livelli scuri dicono il sommovimento sottile delle figure raccolte, il loro soffermarsi e decidersi, la perfezione opalina del volto, nel prezioso bianco e nero, suggerisce l’atto d’amore profondo di Casadio per la propria arte e per l’intelligenza di chi fotografa, richiamandola dal crepuscolo del sentire incerto alla luce piena, allo sguardo come idea platonica, all’essere dischiuso nella radura di un chiaro lunare, fuori dall’infoltimento nero della tenebra. Alessandro Giovanardi 75


nicola samorì

secco suardi (écorché), 2010, olio su tavola, cm 106 x 92

nato a forlì nel 1977 vive e lavora a bagnacavallo

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fondatore fantasma, 2010, olio su tavola, ∅ cm 30 77


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albino, 2010, olio su tavola, cm 40x30


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primo martire, 2010, olio su tavola, cm 40 x 30


dacia manto

è nata a milano nel 1973 vive e lavora fra milano e bologna

anarchitecture, 2008/2010, aculei raccolti di istrice, plastilina, courtesy pav, parco d’arte vivente, centro sperimentale d’arte contemporanea, torino.

omphalina, 2008, video, animazione, 9’ 80

planiziaria, 2009, video, 15’,courtesy mar, museo d’arte della città di ravenna.


jardin planetaire, 111 tauri 05 24.4+17 23, 2008, grafite e pastelli su carta 81


veduta parziale della mostra al mar, ravenna, 2009. 82


woodvardia, delta ursae majoris, 08 59. 2., 2008/2009, particolare dell’installazione, carte disegnate, dipinte, assemblate

morpho eugenia, 2006, video, animazione, 11’, veduta dell’installazione, laboratorio delll’imperfetto, gambettola, cesena.

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il bene e il male non usciranno dagli occhi, dalla bocca e dal naso?, 2010, farfalle di carta velina nera stinta con varechina, cornice a cassetta, cm 102,5x72 x6,5

franco pozzi

nato nel 1966, vive a rimini.

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lapidario (requiem di requiem), 2010, marmo bianco di carrara sabbiato, cm 35,5x33,5x2,5


golfo d’ombra, 2009/2010, foto ottocentesca e pochoir di polvere, cm 12,5x10x2 86


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quel che resta del fuoco, 2010, monogramma di pietro testa sulla cenere, piastra petri, ∅ cm 12x2


cristiano carloni è nato a fano (pu) nel 1963

stefano franceschetti

è nato a pesaro nel 1966 entrambi vivono e lavorano a pesaro e urbino

materia grigia, 2008, courtesy: gli artisti, santarcangelo dei teatri 88


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l’accompagnamento con abbandono, 2010, courtesy: gli artisti, d406 gallery, modena


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l’accompagnamento con abbandono, 2010, courtesy: gli artisti, d406 gallery, modena


materia grigia, 2008, courtesy: gli artisti, santarcangelo dei teatri 91


alex majoli

è nato a ravenna vive tra scicli e new york

persona 1011843 92


persona 1011866 93


persona 1012269 94


persona 9102803 95


daniele casadio

selvatico 001 96


selvatico 002 97


selvatico 003 98


selvatico 004 99


3 lugo pescherie della rocca mappe e labirinti testo di roberta bertozzi

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carlo sabiucciu mirco tarsi federico guerri simone pellegrini francesco bocchini mattia vernocchi david loom

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per lumina, per limina

Così l’enigma è qualcosa in cui l’occhio che vi scende perde la sua parola. Piero Bigongiari

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Nelle metafore che parlano della conoscenza, la tenebra equivale al suo grado zero: a tutto ciò che di indistinto, torbido, intricato può intralciare la nostra percezione, minare la nostra convinzione. Agli antipodi, per quella tendenza della mente a organizzarsi su fattori di contrasto, sta la chiarezza, l’evidenza. Salvo che, talvolta, la natura chiara, chiarissima di un oggetto, e dunque il suo eccesso di intelligibilità, può essere altrettanto insidiosa proprio per la modalità con cui questo segno, trasparente e lineare, raggiunge il nostro sguardo. L’occhio crede di vedere mentre in realtà non fa che conformarsi su qualcosa di già noto, di già guardato. La sua azione si modella su una struttura preesistente, che l’ovvietà di ciò che abbiamo di fronte non scalfisce: in poche parole, non si verifica alcuna esperienza ma solo un passivo ricalco. Vittime di due paralisi cognitive di differente sostanza, oggettiva la prima e soggettiva la seconda, possiamo essere disorientati dalla tenebra quanto dall’evidenza: il groviglio dei segni può esserci d’ostacolo quanto la loro uniformità.

presentarsi come un limite: a creare una cesura o interdizione della visione, un vuoto linguistico e percettivo. Nel processo della conoscenza, alla tenebra, allo sconosciuto, sembra opporsi non tanto il conosciuto quanto l’indicibile: la nostra capacità di rappresentare il mondo oscilla indefinitamente tra questi due termini, tra questi complementari aspetti di una identica oscurità.

C’è un breve racconto di Jorge Luis Borges che rende sensibile l’ambiguità di questa situazione, estendendone le implicazioni. Due re si trovano incarcerati in due diversi labirinti: il primo, conforme all’iconografia classica, è fatto di mura, corridoi, scale e passaggi tortuosi; il secondo consiste in un deserto, in una sterminata e omogenea distesa di sabbia. Lo smarrimento che assale chi si trova nel deserto risulta di intensità maggiore proprio per la mancanza di appoggi come di ostacoli intellettuali. L’abbacinante superficie di sabbia, proprio per effetto della sua coerenza, si configura come qualcosa di inaccessibile, di incommensurabile, di irriducibile a una traduzione. In questa breve parabola è esattamente ciò che è illimitato a

Il tracciato di Federico Guerri muove in questa occasione proprio dalla tenebra, da un nero supporto di ardesia, su cui si sbozzano pallide coordinate, geometrie, ellissi di un pensiero architettonico ancora volatile, fluttuante, del tutto prossimo all’algebra di certe strutture vegetali, all’assonometria dei cristalli, all’asterismo delle costellazioni; dove ogni sottile intaglio, ogni minima scalfittura, ogni fragile linea coincide con l’albore di una figurazione concettuale, con la sua germinativa, eppure già decisiva, proiezione. Di fronte a queste lastre la nostra vista è costretta a farsi organo tattile, a dettagliare ogni maggiore o minore concentrazione del segno, a rilevare le variabili traiettorie e a concertarle in reticolo,

Ora, in mezzo a questi estremi sta tutto: la filosofia, la letteratura, l’arte, la musica, la scienza; ogni passo della grande commedia intellettuale di cui siamo a volte artefici, altre volte spettatori. In mezzo si svolge il discorso: ogni nostro tentativo di mappatura dell’esistente, l’inesauribilità dell’esperienza, la sublime approssimazione all’essere delle cose; tutto quel sentiero speculativo ed emotivo che si dispiega per soglie, anticipazioni, correzioni, nervature, iperboli. Tutta la virtualità della conoscenza, il suo dedalo di immagini e di magnifiche vertigini concettuali – sospesa tra due fondamentali aporie, tra due speculari passaggi impraticabili: quello della chiarezza e quello dell’oscurità.


mappa, icnografia – calco di un disegno che sembra già essere appartenuto alla pietra, come filtrato dalle sue stesse profondità. Contrassegnate da una distribuzione ritmica del segno e da una leggerezza onirica che fa pensare a certe operette magiche di Paul Klee, alla loro puntiforme e opalescente metafisicità, queste incisioni traducono tutta la grazia avventurosa di un pensiero ancora alle prese con la prima misurazione del cosmo: tracciati in cui si condensa la potenza aurorale di un archetipo, quel momento in cui il mondo riceve la sua iniziale recinzione simbolica, in cui, convertendosi in ideogramma, conquista il suo spessore. Nella combinazione di rigore e caso, di esattezza e imprevisto, si dà tutta la vertigine di un esordio, di uno sguardo teso su uno spazio ancora da sondare – dove ogni singolo tassello, strappato all’opacità del fondale, rappresenta un pegno di trasparenza e di rarefazione. Anche nell’opera di Mirco Tarsi assistiamo a una figurazione che si fa “per levare”, per scavo stratigrafico. Essa è tuttavia condotta tramite la paziente scrematura di molteplici strati di smalto bianco, e converge in modo sproporzionato su un unico, claustrofobico elemento. File di denti metodicamente allineate, anzi schierate, proliferano su accordi spaziali concavi e convessi generando un perturbante effetto di plasticità, un realismo massiccio e belligerante. Ci troviamo di fronte a una implosione, a una sorta di autodafé del pensiero, quando, proprio nell’atto di costruirsi, di giungere a un suo verdetto, finisce per fagocitare irrimediabilmente sé stesso, per trasformare ogni sua asserzione in lettera morta. In modo analogo a quanto accade nella pratica zen, dove al discepolo che elabora un koan, un aneddoto proposto dal maestro, si consiglia, come nota Roland Barthes, non tanto di interpretarlo quanto di dissolverne, attraverso la ripetizione, il senso, anche qui si verifica la medesima catarsi dell’enunciato. Essa ha sede nella rimasticazione, nella dilazione a oltranza del significante, nella dissolvenza per triturazione di ciò che queste tele, proclamandosi autoritratti, affermano. Macchine mandibolari che atomizzano la gesticolazione verbale, disgregano il sé, il noi, il voi, la copula e il sostantivo; che simulano un perfetto controcanto alla comunicazione omnipervasiva dei nostri tempi, alla sua voracità nomenclatoria, alla sua pretesa di esaustività; che trinciano ogni pronunciamento linguistico, ogni ridondanza discorsiva, reiterandolo all’infinito: fino a che, stando alla profezia di Artaud, dalla bocca “non sono più suoni o sensi

che escono, / non più parole, / ma CORPI”. Corpi, non parole. Accordate alla stessa ripetizione tautologica di un impulso, e alle sue conseguenze, le grafie di Carlo Sabiucciu tramano la tela di una cardatura continua, spessa e avvolgente. Secondo un automatismo esecutivo che sembra istigato da un ossessivo horror vacui, il suo meticoloso tracciato è diretto a saturare sia la dimensione spaziale, rivestendo estensivamente la superficie cartacea, sia quella temporale, in virtù della dilatatissima durata dell’elaborazione. Il suo labirinto, che nega risolutamente una possibilità di attraversamento, risponde alla logica di una creazione come meccanismo o dispositivo situato oltre il soggetto, che può fare terribilmente a meno del soggetto, nel suo riprodursi alla stessa stregua di una unità cellulare, replicando e scindendo il proprio dna grafico. Se posso arrischiare un precedente, non dal punto di vista formale ma sul piano dell’intenzione, io vi trovo una affinità con certe esperienze di Tachisme, per la completa assenza di una struttura premeditata, per il plasmarsi dell’immagine secondo una frequenza che rimanda alla ciclicità di un mantra. Nella sua delirante espansione, nel suo catalizzarsi in fasci più o meno spessi di nevrosi, questa raffinata tessitura conduce il nostro sguardo alla sperimentazione di una superiore monotonia: quella di una coscienza che, tracimando, giunge a uno stadio di suprema inettitudine, di stallo – musica seriale del pensiero, pura e semplice lallazione. Una parentesi. In questi primi tre casi si pone come costante il dispendio improduttivo del pensiero, la sua iperbolica distrazione, rispettivamente per forza di inizialità, rimasticazione, serialità: tre forme di un esercizio perfettamente analogico, di una strategia stilistica fondata sull’oblio, che asseconda unicamente il flusso del gesto. Siamo in presenza di una modulazione del segno del tutto simile a una notazione musicale, a una variazione sul corpo di un testo già scritto o veniente. Siamo di fronte a un vortice, a un volume centrifugo che, anche in assenza di un centro, costringe a una sua circonferenza, esattamente come in un labirinto. Quello che suggeriscono queste opere, attuando una magnifica sovradeterminazione del linguaggio grafico, è una guerra contro la prepotenza del senso: instaurandolo (Guerri), atomizzandolo e disarticolandolo (Tarsi), dilatandolo in ogni sua possi103


bile rifrazione (Sabiucciu), ne incrinano la costituzione ideologica; ne riducono l’impresa al pari di un processo autonomo, di un flusso di coscienza, di un sistema di automazione. David Loom realizza una mise en scène di questo processo applicandolo alla fruizione di uno spazio. Tramite il sezionamento di un corridoio costruisce un binario a senso unico dotato di una sua periodica scansione, attraversando il quale è possibile testare in prima persona il funzionamento di un flusso. Guidato e allo stesso tempo depistato, colpito da incertitudine per la presenza di equivoci stimoli visivi e sonori, esposto all’intermittenza di una segnaletica luminosa, lo spettatore-attore è obbligato a regolare il proprio passo su quello del corpo automatico del labirinto, ad assecondarne input, soglie e assestamenti, senza, o quasi, possibilità di scelta. Questa riduzione della capacità operativa della coscienza al significante autonomo di un oggetto mi sembra avere un lontanissimo modello in certe operazioni Dada, dove, per usare una espressione di Baudrillard, “alla funzione critica del soggetto succede la funzione ironica dell’oggetto”. Il soggetto, dispensato dal comprendere così come dal deliberare, in preda a una sorta di nastro trasportatore, deambula per lumina, per limina: per accensioni improvvise, agnizioni e bagliori, per un condotto che non ammette deviazioni. Esattamente come accade nella nostra quotidiana esperienza di molteplici flussi comunicativi, abbiamo qui a che fare con la decifrazione di una specie di rebus composto da dati discontinui e irrelati, che sospendono il discorso, che operano una paralisi delle connessioni significative. Distinguiamo, sì, ma ciò che ci sfugge è il senso, la relazione tra le parti. Nel contesto in cui ci ha gettato la modernità, la coscienza, intenta solo alla catalogazione e alla decodificazione, si riduce a essere un semplice ingranaggio del circuito dell’oggettività. Nelle installazioni di Mattia Vernocchi questa concezione di una oggettività che a poco a poco prende il sopravvento sull’uomo si approfondisce ulteriormente. Attraverso una forzatura procedurale, dove l’assemblaggio di materiali tra loro incompatibili è funzionale a farli reagire, ciò che si ottiene è una frizione rivelatrice: il punto in cui la materia, giunta al suo stato fusivo, al suo organico collasso, si sfalda in sciame sismico, in fratture e onde che ne palesano l’anima. In queste gabbie metalliche si raccoglie una materia scomposta, lacerata, che pare avere attraversato un inesplicabile 104

martirio. Sul suo corpo sono indelebilmente impresse tutte le effrazioni perpetrate dal genere umano, tutte le abiezioni del suo sogno demiurgico: ogni pratica invasiva, ogni logica utilitarista, ogni forza terebrante del pensiero. Essa fa ritorno a noi come una tenebra alla potenza: iper-natura, densa di tutte le scorrerie storiche, scientifiche, tecnologiche – magma impenetrabile, davanti al quale la nostra stessa presenza è ridotta ad aspetto accidentale, a residuo, anello o giuntura del meccanicistico senno biologico. Queste teche offrono al nostro sguardo non tanto la traslazione figurativa quanto il campione stesso della definitiva pietrificazione del paesaggio, di una vita ridivenuta fossile. Il pensiero, giunto allo stadio terminale della sua esplorazione, si trova di fronte a uno spazio inospitale, estraneo: l’uomo si riconosce in balìa di quelle forze primordiali da lui stesso sollecitate – quelle stesse forze che, stanate e piegate alle ragioni del profitto, concorrono ad alienarlo nuovamente. Dalla tenebra dei primordi alla sofisticata tenebra della modernità non c’è che un passo. Uguali spinte organiche, ma in questo caso nella direzione inversa di una scaturigine, agitano le carte di Simone Pellegrini. Popolate di corpi trainati da un irrefrenabile, linfatico morfismo, percorse da un dinamismo segnico che si esprime nella fluidificazione, nell’innesto per via vascolare di arti, embrioni, simbologie, esse raccontano di un universo attraversato da pulsioni ancora indecise in quale forma versarsi; di una specie, umana o post-umana, ricondotta al suo stato potenziale, coinvolta in una sua ipotetica, diversa genesi. Una reincarnazione che si dà, per contrappasso, proprio ai vertici dell’astrazione: il disegno di Pellegrini nasce nel margine bianco delle pagine dei libri, nelle zone più algide, più refrattarie della formulazione teorica in essi raccolta. Dalla teoria in forma di linguaggio si distillano questi frammenti figurali, che poi saranno tatuati e cuciti nel grande mosaico conclusivo. L’insieme dimostra un double bind paradossale: perché, riconvertito in icona, l’arcano teorico si manifesta del tutto identico all’arcano originario – la sua glaciale inespugnabilità condivide con il mistero delle origini la stessa radice etimologica. Ho pensato, di primo acchito, a certe scritture di Alechinsky, a certe sue divagazioni a china su un cosmo non ancora compiutamente grammaticalizzato: anche qui c’è una sorta di risillabazione grafica del mondo ma con il valore aggiunto di cerimoniale, di rito iniziatico, di un furore espiatorio che si nutre delle


iscrizioni per forzarle, per rianimarle; di una prassi che esorcizza la paralisi cui giunge il pensiero all’apice della sua perfezione proprio scatenando quell’agente metamorfico che esso ha cercato invano di irreggimentare. Lo stesso sabotaggio della stasi del pensiero, ma con una strategia di segno completamente opposto, troviamo nei meccanismi di Francesco Bocchini, nel loro riprodurre, accentuandola fino allo stremo, la fissità in cui si coagula una forma storica, sociale o morale. Questi dispositivi sghembi, dalle movenze disarmoniche e claudicanti, sorta di escrescenze sul santissimo corpo dell’efficienza produttiva e strumentale, non fanno altro che mettere al centro il carattere meccanico, isterico, coercitivo del senso. Macchine celibi che inscenano la sua fondamentale disfunzione, la sua perversa futilità: che, in luogo della redditizia prestazione, rinnovano il nulla con solerzia, predisposte come sono a riciclare all’infinito ciò che il codice siglato sul loro corpo metallico prescrive e detta. Lo stereotipo gestuale, di una macchina che continua imperterrita l’ufficio a cui è stata destinata secondo un dinamismo completamente privo di scopo, coincide con lo stereotipo linguistico, con la serie o la matricola che quel suo movimento è chiamato a celebrare. L’effetto è di rendere risibile il senso proprio agendo sul suo fondamento macchinico, sul suo predicare privo di prospettiva, sulla sua autoritaria perentorietà ormai sclerotizzata in uno slogan, in un vuoto modello verbale, in pensiero museale. La smorfia tragica impressa su questi meccanismi altro non è che una perfetta parodia del nostro orizzonte significativo: la meccanica fisica alleata alla meccanica semantica altera e vanifica la mistificazione che ci circonda: ogni slancio del pensiero è congelato nella sua natura ideologica. Come in una pièce di Beckett, l’ostruzione di ogni possibilità è direttamente proporzionale alla fatica, alla inesorabile impotenza, che opprime i suoi personaggi; dove lo stesso essere sulla scena non serve ad altro che a darsi la battuta – a continuare. Di nuovo una parentesi. In questi ultimi quattro casi l’attività del pensiero è ostruita per via oggettiva. Come se la realtà, da noi compresa e tradotta, si fosse definitivamente resa indipendente – sistema che sfugge al nostro controllo, labirinto complicatissimo che non riusciamo più a decifrare, interpretare, governare. Come se l’eccesso di dati, di storia, di astrazione,

tutto l’enorme catalogo della nostra conoscenza ci si ritorcesse improvvisamente contro, depistandoci (Loom), alienandoci (Vernocchi), arcaizzandoci (Pellegrini), schernendoci (Bocchini). Tutta la struttura del mondo sensibile, della vita organica e psicologica, di cui riteniamo avere completa padronanza, si rivela al contrario inestricabile, quasi che essa si fosse costituita per default, quasi che le nostre facoltà non vi avessero avuto alcun concorso. Ne possediamo ogni chiave, ogni centimetro, ogni fisiologico segreto al punto di riuscire a duplicarla, al punto di essere in grado di fabbricarne l’esatto clone. Per poi riconoscere che questo ci è divenuto estraneo, che ha preso, come nei nostri peggiori incubi, a vivere di vita propria, speculare a quella che gli abbiamo infuso, assolutamente altra. Resta il fatto curioso che tutto il pensiero occidentale, nel rappresentare sé stesso e le sue vie di indagine, si sia costantemente identificato con l’immagine della mente-specchio, della nostra azione conoscitiva come riflessione della realtà. Ora, questo specchio a poco a poco è diventato una prigione. Come in questi casi, dove l’attività speculativa, nel suo progressivo sostituirsi alla realtà fisica, edifica da sola la propria tenebra, è del tutto schiava delle percezioni stampatesi sulla sua rètina. E non è forse un caso che Friedrich Dürrenmatt, nella sua rilettura del mito del Minotauro, abbia collocato la mostruosa creatura in un labirinto di specchi, di infinite superfici riflettenti: incarcerandolo in una sorta di camera ottica, dove esso diventava succube delle sue rappresentazioni, di ciò che i suoi occhi vedevano, di ciò che la sua mente, fino alla morte per mano di Teseo, prendeva per vero. Più le nostre società sono ossessionate dall’alta definizione, più la realtà sembra sfumare in una impalpabile evanescenza. Più gli strumenti di misurazione e di analisi si fanno precisissimi più essa diventa ingannevole, sfuggente. Più ci addentriamo nel cuore della tenebra, più l’orrido si manifesta come qualcosa di perfettamente simile a noi, come qualcosa da noi stessi partorito. Le sole parole che Charlie Marlow, io narrante di Cuore di tenebra di Conrad, dopo la discesa agli inferi, sente ma si astiene dal pronunciare, montano come un disperato, soffocato grido: “Che orrore! Che orrore!”. Roberta Bertozzi 105


nido, 2009, terracotta smaltata e ferro, cm120x185x40, courtesy gasparelli arte contemporanea

mattia vernocchi

nato a cesena nel 1980 vive e lavora a gambettola

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alveare, 2010, terracotta smaltata e ferro, cm120x185x40


gabbia n 10, 2010, vetro e ferro, cm 88x70x48 108


gabbia n 9, 2010, vetro e ferro, cm 38x34x25 109


mirco tarsi

nato a ostra vetere (an) nel 1974 vive a jesi

autoritratto n.59-09, 2009, olio su tela preparata a smalto, cm 165x240, particolare 110


autoritratto n.63-10, 2010, olio su tela preparata a smalto, cm 340x210, particolare 111


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autoritratto n.71-10, 2010, olio su smalto su terracotta, cm 13x20x24


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autoritratto n.63-10, 2010, olio su tela preparata a smalto, cm 340x210


carlo sabiucciu

nato nato a cagliari nel 1983 vive e lavora a bologna

maremagnum, 2007, penna bic nera su carta da spolvero cm 200x220 circa 114


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federico guerri vive e lavora a cesena

notte buia, 2010, ardesia incisa acrilico, cm 120x90 courtesy galleria l’affiche 118


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come una foglia, 2009, ardesia incisa, cm 120x90 courtesy galleria l’affiche


notturno, 2010, ardesia incisa, cm 120x90 courtesy galleria l’affiche 120


senza titolo, 2010, ardesia incisa, cm 120x90 courtesy galleria l’affiche 121


simone pellegrini

nato nel 1972 ad ancona vive e lavora a bologna

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periodi di transizione, 2010, tecnica mista su carta, cm 85x215, courtesy cardelli&fontana artecontemporanea


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la scimmietta apolide jonny, 2007, olio e smalto su lamiera di ferro, meccanismo a basamento, cm 44x48x59

francesco bocchini

nato a cesena nel 1969 vive e lavora a gambettola

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liberazione ellenica, 2010, olio su lamiera di ferro, meccanismo a parete, cm 143x198x41 127


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la prodigiosa plebe di dio, 2009, olio su lamiera di ferro, meccanismo a parete, cm 146,5x107x66,


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david loom

vive e lavora a lugo di romagna

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4 fusignano museo civico san rocco cenere. polvere. frammenti testo di maria rita bentini

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claudio ballestracci graziano spinosi massimo pulini silvano d’ambrosio giovanni blanco cesare baracca nero raniero bittante maurizio battaglia monica pratelli

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(candida bilis)*

*“Come causa fisica di questo furore, i filosofi indicano l’humor melacholicus, non però quello che è chiamato bile nera, che è cosa così funesta e terribile (…). Con humor melancholicus intendo piuttosto quello che è chiamato candida bilis et naturalis. Ora questo quando prende fuoco e arde, genera il furore che ci porta alla sapienza e al vaticinio, soprattutto quando si combina con qualche influsso celeste, principalmente quello di Saturno. E’ il signore della contemplazione segreta (…) così di continuo richiama l’anima dalle cose esterne a quelle interiori, la rende capace di elevarsi dalle cose inferiori alle più elevate, e le concede sapere e previsione del futuro”. Cornelio Agrippa

Per attraversare quest’ultima stazione bisogna prima fermarsi e ascoltare. C’è nell’aria l’immobilità sospesa che succede a un evento terribile e ignoto, la traccia del vuoto riflesso negli occhi di chi ha appena visto la deflagrazione, il silenzio teso che affianca l’ultima nota di un Dies Irae che non abbiamo udito. Come all’inizio di Fahrenheit 9/11 (Michael Moore, 2004), seguiamo con lentezza il movimento di un controcampo freddo e trasparente che lascia fuori l’orrore, e poi, da un cielo che non si vede, ecco cadere dall’alto polvere e brandelli di torri. C’è, anche, l’orizzonte sgombro che riempie un foglio di Friedrich, un disegno del 1801 che il fratello ha tradotto più tardi nella xilografia ora a Dresda. Una bianca lontananza, un non-noto senza confini nel quale diluisce lo sguardo un’ introversa fanciulla-Melanconia, al di là del fitto (nero) intrico di vita vegetale e rovina che la circonda. Allo stesso modo ci attendono le visioni e le pre-visioni di queste stanze. In esse si riflette l’humor melancholicus di ciascuno che, combinandosi con influssi diversi, allarga il suo delta con rivoli e acque distinte. Il nero, forse, la perdita totale della visione nella cecità. Oppure il riaffiorare nel buio di nuovi mondi, attraverso modalità del sentire altre rispetto alla tirannia dell’occhio, quella che Diderot rivelava pericolosamente in Lettre sur les aveugle, una riflessione sui ciechi col sottotitolo “ad uso di quelli che vedono” (1747). Un testo che ha spinto a suo tempo Alighiero (e) Boetti a invertire la rotta dei segni, a disegnare per via di sentire, massaggiando la carta o procedendo per contorni e ricalchi, per esplorare le immagini col tatto anziché con la vista. Ribaltando la percezione. Prepariamoci anche a illuminazioni brevi come lampi, a epifanie minime che la trama più spessa e polverosa delle ceneri lascia distrattamente passare. O all’abbaglio, per la luce a volte insostenibile ai nostri occhi che il frammento d’ improvviso riflette.

un intenzionale raffreddamento delle alte temperature attraversate dal colore che la sua pennellata insegue con concentrata frenesia. Brucia per via di metafora la tela e intraprende il viaggio nella morbida materia che più si lega all’origine della Creazione, l’argilla. Ne segna la superficie, la incide, la percorre con una grafia inquieta, infine la sigilla col nero fumo. Dalle pagine del suo monologo teatrale Caravaggio nero fumo d’avorio: “Il colore che ho prescelto si incontra per due differenti strade: bruciando a forno cieco tralci secchi di vite, fino acchè si ottiene un’ombra che viene dal verde e ha il sapore dell’umido. Oppure se si vuole un buio che incupisca dal bruno, si deve ardere senza fiamma un mucchio d’ossa d’animali. Fumo di vite e color fumo d’avorio dunque, come dire che tutte le ombre derivano dal vino e dalla carne..”. La trasmutazione si ferma alla nigredo, materia inerte agganciata alla vita. Con l’argilla, ancora, Pulini ridisegna “atterrandola” l’immagine salvifica dell’Immacolata Concezione, un gesto forte e apocalittico nello spazio taumaturgico del Museo, memoria di un atto di terrore impunito (12 dicembre, quarantuno anni fa). Prende sentieri diversi l’inno alla notte di Graziano Spinosi che trova il suo magico spazio nel momento in cui l’oscurità si dirada per attendere la luce che verrà. La monumentale sagoma bruna di Indus (1999) appare come un ritorno a un grembo primordiale che si stira, raccogliendosi verso l’alto come una preghiera. L’essere autoctoni, il legame con la terra, la segretezza dell’origine sono i nuclei poetici di un lavoro inquieto e inquietante, dove tutto oscilla sulla bilancia delle antinomie: fragile levità/ forza sovrana, materia armata (il ferro) e accarezzata, evidenza del pieno e segreta contemplazione del vuoto. E’ un idolo antico che spaventa e attrae, custode di un immenso mistero, primitiva dimora ultima. Un ventre fecondo o un’urna cineraria, con la memoria in sé della ieratica fissità della Madonna del Parto (incinta) di Piero della Francesca insieme all’umano disfacimento della Vergine morta (livida ed enfiata) di Caravaggio.

Massimo Pulini abbandona le sponde della pittura, non attratto dal frastagliato paesaggio della terza dimensione, né da 136


La fraternità con la notte è per Silvano D’Ambrosio una condizione esistenziale, l’oggetto di una contemplazione segreta in tutte le cose, così che l’oscurità arriva come sorella del suo lavoro fin dagli inizi. Obscurum per obscurius sono tutti i disegni, gli olii su carta, fantasmici, feroci presagi della fine, ma il memento mori è la nota più profonda del suo sguardo di cui la pittura è tramite anche quando la luce, la chiarezza della visione, può trarre in inganno. Paesaggi silenti, reali e visionari, ci immergono nella spettralità di un’Apocalisse quotidiana e perennemente presente nel tempo che usura e corrode lentamente, portando alla rovina, creando macerie. Una struggente melanconia colora le ferite improvvise dei suoi vasi, i fuochi fatui che attaccano le apparenze vegetali di cui questi vasi sono riempiti esplodendo a volte come trionfi barocchi: labili immagini che compaiono e scompaiono sulla pelle di sottili velari, proiezioni sfuggenti sulla scena trasparente di un teatro oltre la quale si recita, effimere come la vita stessa. Urlo tragico e beffardo è l’installazione graffiante che Nero dedica all’idolo global cui tutto si piega. Il segno che qui viene innalzato al cielo, la nuova icona da contemplare nel regno delle tenebre che ci avvolge, è un dollaro combusto, gigantesco, opprimente. BLACK$ è un oggetto del desiderio al quale possiamo arrivare, sempre che lo vogliamo, percorrendo la scala sospesa nel vuoto che ci può fare fuggire fuori dallo spazio sacro del Museo alla conquista dell’amato demone. La scalata del successo. Il raggiungimento del profitto. L’ascesi delle rendite. Potendo in alternativa, da voyeur, preferire un solo sguardo, dall’interno di un mondo protetto dove semmai recintarsi. In perfetto controcanto, la stanza gelida in cui Raniero Bittante allestisce i suoi algidi teatrini, luoghi dell’assenza quotidiana abitati da teste sospese con le loro sommesse parole ( preghiere o imprecazioni che siano). Box-head sarcasticamente condite di speranza, disseminate di frammenti “meta- fisici” che un’operazione di assemblaggio straniante trasforma in crudeli rituali. Terribili pseudo-epifanie di un sacro che non abita più la terra, in questi spazi di dichiarata finzione appaiono come schegge immobili di un’attesa già svuotata, e questo a dispetto dei suoi simulacri, siano essi papi cattolici, segni eucaristici, o croci salvifiche. Eppure sotto la superficie del mondo, sotto la sua fragile temporalità ci sarà un oltre. Lo racconta lo spazio del Museo (qui ogni immagine è protesa alla grazia) e con questo dialoga il lavoro di Monica Pratelli: il corpo coi suoi frammenti finiti e il ricamo, il tempo necessario, il filo che lo disegna.

Polveri finissime, impalpabili, compatte si depositano sul mondo. Non ceneri e lapilli di una devastante eruzione, piuttosto una saturazione lenta e inarrestabile dell’aria, che cambia il respiro e la fragranza ad ogni cosa. Tutto, sottratto al tempo, è sull’orlo del dissolvimento. Giovanni Blanco dipinge e chiama all’appello le cose (volti, apparizioni, oggetti, capolavori amati), le riconvoca una a una all’esistenza e le raccoglie in una nuova geografia. E’ un Atlante della memoria la sua quadreria, non appena un microcosmo emozionale composto di frammenti. E, sfogliandolo, non vi sono “immagini” ma battiti di luce, ombre, guizzi di vita, scoperti e occultati. Nel vasto territorio della memoria si trova, oppure si perde. Anche Cesare Baracca richiama in vita qualcosa di sepolto per sempre, o distrutto nel corso di vicende già irreversibilmente compiute. Scava volti, evoca antichi e nuovi poteri con una materia pittorica spessa, bituminosa, carica di energia. Una luce abbagliate, l’attimo prolungato di un flash, viene da Maurizio Battaglia. La sua è una presenza ossimorica in A nera, visto che l’assenza del nero lascia in campo il suo polo opposto. Il bianco avvolge come un sudario di morte, opere che hanno a che fare con la fine o con la cecità o con la pesantezza,, e le fa splendere. Il candore delle teche l’una dentro l’altra, il calco in gesso del proprio volto bendato e l’”anima” sbiancata dei noccioli di frutta (Ossario, Autoritratto alla Arcimboldo) spingono dentro lo spazio luminoso di una perdita. Così il Riduttore spaziale barocco, intervento site-specific, con un artificio voluto indurrà allo sprofondamento. Ingannandoci dirà il vero, perché tutto sprofonda e si interra: le civiltà passate, la nostra città, le cose nella memoria, i morti … Camminando al buio nella stanza allestita da Claudio Ballestracci ha inizio un naufragio, una navigazione senza bussola per via di indizi e segnali. Con carte nautiche dai tracciati sottilissimi e aggrovigliati, Emporio 996 è il tentativo di “vendere” processi emotivi. Che, fallendo nell’intento, conduce al cuore di uno spazio sensoriale, costellato di micromondi luminosi. Rivelazioni e incanti: oggetti in vetrina e suoni rimandano a uno spazio certamente abitato dagli dei, l’ex Corderia di Viserba. Un luogo che l’abbandono ha caricato di presenze, dove il verde incolto dilagante invade i ruderi e li rigenera, e il riaffiorare di oggetti sepolti o dimenticati riporta la loro voce che fende l’oscurità. Maria Rita Bentini 137


claudio ballestracci

nato a vimercate nel 1965 vive e lavora a longiano

emporio 996/05, 2010, lamiera zincata, vetro, suono, residui. 138


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140


fosfano e clorofilla, 2008, propano, becchi di bunsen contributo video per emporio 996 di stefano bisulli, opere di lucia baldini, franco pozzi, claudio ballestracci 141


graziano spinosi

foresta, 2000, filo di ferro, h cm 500

nato a bologna nel 1958 vive e lavora a santarcangelo di romagna (rn)

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143

indus, 1999, filo di ferro, h cm 300


144

nido, 2001, filo di ferro e intonaco, h cm 200


145

Nido, 2001, filo di ferro e intonaco, h cm 215


2010, terracotta affumicata, cm 71x52x3

massimo pulini

nato a cesena nel 1958

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147

2010, terracotta affumicata, cm 71x52x3


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2010, terracotta affumicata, cm 71x52x3


149

2010, terracotta affumicata, cm 71x52x3


silvano d’ambrosio

è nato ad hayange (f) nel 1951 vive a forlì

150


silos, 1988, olio su tela, cm 140x170 151


scomparizione, 2009, olio su tela, cm 60x70 152


rovina, 2009, olio su tavola, cm 23x29 153


giovanni blanco

lo spaccapietre, 2010, fusaggine su carta, cm 70x50

è nato a ragusa nel 1980, vive e lavora a rosolini e a bologna

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senza titolo, 2010, grafite su carta, cm 24x17,5


156


quadreria per fusignano, a nera, 2010 157


cesare baracca

mania, 2010, acrilico, cementite e olio su tela, cm 170x130

nato a fusignano nel 1965 vive a masiera di bagnacavallo

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la polvere sulle cittĂ , 2010, acrilico, smalto stucco e olio su tela, cm 130x170 159


furia, 2010, acrilico su tela, cm 130x170 160


161

lara (ritratto di gertrude neri), 2010, olio su tela, cm 100x90


nero

nato a faenza nel 1980, vive e lavora tra faenza e napoli

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BLACK $ or Try the rope can be your scope, 2010, stampa su pvc, legno riciclato, corda nera, vernice acrilica nera, dimensioni variabili 163


particolari da BLACK $ or Try the rope can be your scope

164


165


raniero bittante

è nato a ravenna dove vive e lavora

boxhead/movimenti remoti 1, 2007, fotografia, gesso odontotecnico, plexiglass, cm 53x40x30 166


boxhead/movimenti remoti 2, 2008, fotografia, gesso odontotecnico, plexiglass, cm 53x40x30 167


boxhead/equilibrio 1, 2009, fotografia, gesso odontotecnico, vetro, acqua, compensato, plexiglass, cm 53x40x30 168


boxhead/equilibrio 2, 2009, fotografia, gesso odontotecnico, vetro, acqua, compensato, plexiglass, cm 53x40x30 169


maurizio battaglia è nato nel 1971

ossario, 2008, plexiglas polistirolo legno noccioli di frutta tempera dimensioni ambiente 170


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autoritratto alla arcimboldo, 2009, gesso noccioli di frutta cera d’api, cm 35x20x15


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arcimboldo decollato, 2010, ceramica noccioli di frutta cera d’api, ∅ cm 65, profondità cm 15


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riduttore spaziale barocco, 2010, gesso ottone, cm 80 x 75 x 30


monica pratelli

nata nel 1964 vive e lavora a rimini

the next mo(u)rning, 2000, polaroid, pelle, velluto, seta, ricamo, cm 60x70 174


175

the next mo(u)rning, 2000, polaroid, pelle, velluto, seta, ricamo, cm 60x70


176

I hold a beast an angel and a madwoman in me, 2009-2010, foto, ricamo, seta, misure variabili


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I hold a beast an angel and a madwoman in me, 2009-2010, foto, ricamo, seta, misure variabili


178 alexmajoli/magnum photo per gentile concessione con il copyright


note ai margini testi di eleonora frattarolo serena simoni elettra stamboulis cristina ventrucci pier marco turchetti

179


un po’ di escrementi un po’ di discarica un nero mai visto

Passeggiando nei luoghi dove il sistema dell’arte contemporanea si avvale di curators i cui testi sull’arte e sugli artisti sono critici come gli elenchi del telefono aleggia una certa contraddizione tra il presunto strombazzato esito di taluni lavori “ironici” e “trasgressivi” e il fiato mortifero che in realtà spira dalle illustri opere in mostra che vorrei osare descrivere: materassi sporchi, lampadine attorcigliate a bastoncelli di plastica, tapparelle sfracassate come se fosse appena passato l’ubriaco del quartiere, video con qualcuno che si masturba per ore a ripetizione annoiando se stesso e soprattutto chi guarda, mucchi di vestiti appena sbarcati dal mercatino dell’usato... L’essenza di questi lavori che si collocano nel settore più elitario del sistema e del mercato dell’arte coincide in effetti con la loro descrizione, superfluo cercarne senso, emozione, sentimento, re-visione del mondo, faticoso e forse inutile anche cercare uno stile, che sarebbe quella traccia individuale e unica che il singolo artista dovrebbe cedere alla propria opera. Questi oggetti che qualcuno ha deciso di chiamare opere d’arte si consumano nel qui e ora dell’esserci, sono curiosamente simili gli uni agli altri, vivono un tempo analogo a quello delle merci dove la quantità si afferma sulla qualità, si collocano in un territorio della morte del senso, della morte dei sensi, della morte quindi di qualcosa che ha a che fare con la radice dell’essere umano. E allora, se i colori rispondono alle leggi del richiamo, come ci dice Brusatin nell’introduzione alla Storia dei colori, e se è vero che generano sintesi interpretative, dirò che opere assai trendy come il letto sfatto macchiato di residui organici alla moda oppure i bambini impiccati che si agitano tra le pareti della più conformista omologazione di mercato sono ombre nere in un territorio nero. Spostata ancora più in là e più in là la soglia etica del sopportabile, dell’umano, della dignità, 180

I colori rispondono alle leggi del richiamo, sono principi ordinatori della memoria che si salda per necessità a supporti triangolari, come i concetti, al proprio simile e al proprio opposto generando sintesi interpretative. Manlio Brusatin

del pudore, l’allegra società dello spettacolo che ai funerali applaude anziché tacere trasmette in telegiornale la descrizione dell’assassinio da parte di un assassino. Ed ecco che l’orrore diventa un affare quotidiano e sbrigativo, ed ecco che il male diventa normale. In controcanto il sistema dell’arte battezza come grande arte la fotografia di escrementi insanguinati nel fondo di un cesso, oppure, meno tragico e più ridicolo, la scultura dell’artista idolo nazionale che alza elegantemente il dito per mandare tutti a girare, compresi, e lo capisco, quelli che lo idolatrano. Dopo l’orinatoio del grande Mago Merlino francese e l’inscatolamento della squallida reliquia escrementizia italiana- fantascentifica invenzione del mercato- beatificata nei musei dove l’arte contemporanea è selezionata in base al meno (meno senso, meno emozione, meno forma, meno pensiero, meno bellezza), l’estetica della discarica guadagna terreno concimata dalla furbizia di chi vende ed espone e dall’attonita incertezza di chi sta a guardare lenito comunque dalla convinzione che di arte si tratta. E se credete come me che le espressioni sul volto di chi visita una mostra ci raccontino qualcosa sulle opere esposte, dopo avere osservato il pubblico dell’ultima Biennale di Venezia nessuno mi venga a dire che la gente dell’ Artworld si diverte un mondo. Su questa via il corpo dell’arte, ultimo terreno dell’utopia, della libertà, dell’immateriale, delle trasgressioni (vere) da norme codificate e conosciute, ultima terra utile a una possibile re-visione del visibile, si va aggiustando in un suo consistente nucleo ad un osceno conformismo che raffredda l’immaginario del desiderio e la creatività del singolo. E infatti, tutti i musei di arte contemporanea si clonano identici nella sostanza, per opere pensieri e modelli espositivi dalla Cina all’Europa. E infatti, la parola scritta della critica pare abbia perso la memoria ed


è intenta soprattutto a compilare inventari ed elenchi che presentano, ecco a voi, questo parallelepipedo con crema nivea incorporata è un’opera d’arte perchè è un’opera d’arte. Tuttavia, una qualche timida perplessità da qualche tempo affiora qua e là in taluni critici memori anche del fantasma di Jean Clair insieme all’interrogativo sul troppo che è davvero troppo, e qualcosa di più coraggioso si muove in ambiti più lontani da interessi stringenti e anche, diciamolo, dalla stupidità tout court. E questo qualcosa ci fa pensare, per restare nel tema assegnatoci da questa mostra, che il nero è simbolo di male e di morte ma anche di rinascita. In un intervento magnificamente declinato sulla responsabilità e il suo significato nell’arte della postmodernità di recente Giorgio Cortenova1 ha scritto intorno all’ arte che dona senso alla vita e alle cose e intorno alla possibilità di salvarsi dal naufragio per mezzo della consapevolezza del naufragio stesso. Occorre tornare a parlare di responsabilità, certo, e di etica, come fa anche Berys Gaut in un libro assai utile2, e mi sembra necessario tornare finalmente a parlare di ontologia dell’opera

1. G. Cortenova, Il destino di Graculus, in E. Frattarolo (a cura di), La necessità dell’arte oggi: rappresentare o presentare?, Atti del Convegno (2007), Accademia di San Luca, Roma 2010 2. Berys Gaut, Art, Emotion and Ethics, Oxford University Press 2007. Per la necessità di una

d’arte per spiegare perchè e come mai se sono in grado di descrivere una scatoletta di escrementi come descrivo il lavandino di casa mia per la scatoletta devo usare l’espressione “opera d’arte”3. E perchè se un disegnatore idea una magnifica carta da parati che va in produzione questa rimane una carta da parati, se a idearla anche un po’ bruttarella è uno che lavora per una galleria e che viene detto artista la carta da parati si trasforma in opera d’arte. Forse la filosofia tornerà ad aiutarci, grazie a Dio, e le considerazioni e i linguaggi nati dalla passione e dai desideri anche4 e così penseremo non al nero ma ai ventisette tipi di nero che Van Gogh vedeva nei quadri di Frans Hals5 e penseremo meglio alla morte restituita di dignità come ce la rappresenta Bill Viola indimenticabile e magnifica morte sacra raccontata in immagini belle e sapienti di vita di corpo di anima.

riflessione etica mi permetto di ricordare anche E. Frattarolo, L’ingresso della morte nell’arte tra escrementi e impiccagioni, negli Atti del Convegno (2007) cit. 3. Si veda utilissimo M.Ferraris, La fidanzata automatica, Milano 2007

Eleonora Frattarolo Grizzana Morandi, Novembre 2010

4. Per una veemente e anticonformista analisi dell’arte nella contemporaneità M. Fumaroli, ParisNew York et retour. Voyage dans les arts et les images, Fayard 2009 5. Traggo la citazione da M. Brusatin, Colore senza nome, Venezia 2006 181


nigra limina

L’esperienza nera del corpo e dei suoi limiti - decadimento, malattia, morte - ha avuto culturalmente e per secoli una connotazione femminile: assimilate da sempre al ciclo naturale e ai rituali del corpo, le donne sono state escluse dalla sfera pubblica - ancor oggi occupata prevalentemente da uomini - per essere relegate nel privato, il luogo dove si crescono bambini, si accudiscono anziani, si nutrono adulti di ritorno dal lavoro. La condanna ha fatto loro accumulare una sapienza dai tempi lunghi, corrispondente ad una necessità economica reale ancor oggi del tutto misconosciuta. Le prime a tematizzare politicamente il corpo e a considerarne i limiti sono state le donne degli anni ‘70, in un momento storico in cui il personale era considerato politico. Il lavoro artistico di quel decennio - condiviso con alcuni uomini se pure da punti di vista diversi - ha affrontato questi temi, che nei 20 anni successivi si sono sviluppati in una società molto diversa: la dimensione spettacolare, l’invasività dei mass-media e la necessità di ancorare la percezione di noi ad un’immagine pubblica perennemente giovane e bella, ha reso drasticamente marginali i limiti del corpo, legati invece a esperienze fondamentali nella vita di ogni persona, indipendentemente dal genere di appartenenza. La potenza comunicativa ha ottenuto una rimozione dalle paure collettive del processo di invecchiamento così come la morte ha cessato di essere considerato un evento individuale e definitivo. Il meccanismo della ripetizione - comunemente utilizzato dai mass-media - ha indotto l’abitudine a veder scomparire le cose dalla propria vita per un certo periodo, assecondando l’aspettativa che queste comunque, prima o poi, ricompariranno: e se tutto torna, la morte ha smesso di rappresentare l’ineluttabile così come l’immortalità è divenuta mortale. 182

Privata della parola fine e sparita dall’orizzonte di senso delle vite, la morte può diventare spettacolo, essere anestetizzata da una patina glamour come nella serie The Morgue (1992) di Andres Serrano, che realizza in obitorio una serie di fotografie di uomini, donne e bambini, deceduti per morti violente. Intervenendo con piccoli artifici teatrali per esaltare le tonalità dei corpi o aumentare la decoratività del soggetto, Serrano addomestica le naturali sensazioni di paura e orrore riducendo l’esperienza della morte a spettacolo sublime, irreale nella sua bellezza. Ma i cadaveri vengono allo stesso tempo spogliati della loro identità: messi in mostra, i corpi non sottintendono nulla, sono reificati - resi letteralmente oggetti -, deprivati come sono del loro quid umano. Nello stesso decennio, vecchiaia, malattia e morte sono stati analizzati diversamente da alcune artiste che guardano a queste esperienze a partire da sè e che non solo decostruiscono il corpo femminile ma ne mettono in scena uno malato o in prossimità della morte. Con un atto di spudoratezza ai limiti dell’accettabile, la provocazione affronta i messaggi di fitness e perfezione che investono la presentazione pubblica del corpo femminile mediante immagini disturbanti che riguardano in particolare le donne anziane, espulse dalla scena pubblica e relegate nel privato. In questa zona di rimozione è intervenuta Hannah Wilke (1940-1993) che fin dagli anni ‘70 aveva utilizzato il proprio corpo in base all’esperienza femminista, utilizzando la sua personale avvenenza e destrutturando in modo provocatorio l’immagine femminile. Del tutto diversi da questi è la serie fotografica IntraVenus (1992-93), eseguita prima della morte, dove l’artista malata si offre impietosamente all’obiettivo e racconta la malattia e l’approssimarsi della fine. Le immagini la presentano nuda o


in pigiama, durante la chemioterapia, mentre si lava nella vasca da bagno, in un’escalation di foto shockanti dove il corpo assume ironicamente pose artistiche o, al contrario, si carica di forte espressività. La spudoratezza con cui Wilke espone il proprio corpo condannato è la strategia mediante cui mettere in scena il rimosso sociale: l’insostenibile realtà del decadimento del corpo femminile, vecchio e prossimo alla morte. Nella medesima direzione si indirizzano alcune opere di Katarzyna Kozyra (1963) che nell’installazione Olympia (1996) espone il proprio corpo malato, emaciato e senza capelli: di fatto, l’opposto di quanto la nostra percezione si aspetta da una donna bella e giovane. Nella prima immagine l’artista viene presentata sopra ad un lettino di ospedale mentre nelle altre appare una donna anziana nuda, seduta su un letto e di nuovo l’artista, ac-

compagnata da un’infermiera di colore, nell’esatta derivazione dall’Olympia di Manet, un modo ironico per interrogare il contrasto fra lo sguardo maschile sul corpo delle donne - storicamente giovane, bello, seducente e disponibile - e quello che vede i corpi così come sono, nella loro reale e brutale finitezza. La composizione è chiusa da un video che mostra le fasi del periodico (e reale) trattamento chemioterapico a cui era sottoposta l’artist. L’opera - sconcertante per la brutalità e la descrittività del corpo malato - porta a riconsiderare paure e rimossi dell’immaginario contemporaneo a partire dalla riflessione che avevano condotto le donne venti anni prima sul corpo - su quel nero limite - irriducibile a qualsiasi superamento. Serena Simoni

183


l’inchiostro di saturno

Mela, Mela, Mela, Mela, Melancholia
 schwebt über der neuen Stadt
 Und über dem Land
 (Mela, Mela, Mela, Mela, Melancolia
 si libra sulla città nuova
 e sopra la campagna)
 Die Befindlichkeit des Landes, Einstürzende Neubauten

Il disegno assomiglia a una sorta di scrittura. Nell’antichità si usava anche il termine “antigrafia” per indicare sia l’atto di disegnare quanto quello di scrivere. Questa contiguità permette con minore senso di vergogna di spendere parole sull’atto del disegnare. Spesso l’effettiva limitatezza del discorso, scritto o parlato, la mutilazione delle frasi sull’arte, mi spingono a pensare che il miglior lavoro critico sul disegno dovrebbe essere disegnato. È un percorso che il fumetto sta intraprendendo, quello di esplorare le possibilità con cui la sequenza disegnata può “dire” qualsiasi cosa. C’è molta confusione in merito. Alcuni usano etichette come “Graphic Novel” o “Graphic Journalism” (rigorosamente in inglese, of course) per il loro valore intrinseco di marketing, senza posare lo sguardo su quanto stanno catalogando. Ma la strada è aperta. Il giardino è ampio e incolto e la crescita dei frutti dipende dai giardinieri. Il disegno è anche la documentazione autobiografica della scoperta di un evento. Che cosa rimane di quell’autobiografia in quel nuovo evento che è il disegno? Quanta parte dell’autore, della sua traccia del mondo si consolida nell’atto di disegnare e viene restituita al guardatore? Questa è un’indagine che può portare al nero come categoria interpretativa, come forma assoluta della ricerca del colore. Il nero non esiste in natura. C’è anche il livello metaforico: il buco nero che si produce quando la propria storia si misura con l’atto di disegnare, con il creare il buco narrativo sostanziale alla creazione di una sequenza disegnata (la vera differenza tra fumetto e cinema: tra una vignetta e l’altra c’è sempre un buco da riempire. E questo riempimento è il lavoro attivo del lettore), ha una dimensione di difficile misurazione. E fino a dove questo buco costituisce una possibilità, e quando invece il buco, l’assente, il nero, diventa provocazione stilistica che infrange il genere e crea un nuovo evento, di difficile nominazione? Nel processo di costruzione di una sequenza narrativa classica ci sono alcuni passaggi che sono quasi ineludibili se si vuole ottenere un certo tipo di narrazione. Eppure questi canoni oggi sembrano accantonati da moltissimi autori, in particolare autori del bianco/nero, dell’underground, che scelgono questa 184

cifra stilistica non per ragioni di preferenza, ma di costi diretti di stampa. Non c’è nulla di consapevole ed elegante in tutto ciò, ma lo splendido utilizzo di necessità che diventa per forza virtù. Dunque, in una sequenza il buco nero narrativo può crescere a dismisura, stimolare il lettore (o forse meglio, il guardatore) a fare di ogni singola immagine e parola/e un’esperienza unica, che pure si muove in una direzione che l’autore ha deciso. L’autore mantiene in questo modo ben saldo il controllo della proprio evento autobiografico, la propria voce, ci guida nell’ordine delle immagini, ma al tempo stesso ha reciso quel discorso narrativo continuo e lineare che aveva recepito un certo tipo di codice. Non faccio nomi, l’elenco c’è. E anche alcuni autori in mostra seguono questo ripido processo. La melanconia è il nero, dentro la parola stessa (da melan che significa proprio nero ma anche inchiostro): il sole nero della Kristeva, l’inchiostro che attrae la malattia di Saturno. La malattia dell’inchiostro. Atramentum, bitume, carbone di legna, grafite, nero d’avorio, nero di Manganese, nero di Marte, nero di seppia, nero di vite, nero d’ossa, nero fumo, terra nera romana sono alcuni dei neri utilizzati sin dall’antichità. Il nero è uno dei pigmenti usati nell’età preistorica. Nel disegno in bianco e nero, dove sappiamo che il nero assoluto non esiste, esiste un altro soggetto che prende decisioni ed influisce: la carta. Il disegno non è altro che annotazione su carta: ci sono dipinti, fotografie che possono essere riconosciuti da animali, ma questo non vale per il disegno in bianco e nero. Il disegno non compete con la realtà, anzi attiva altri meccanismi, dichiara un’esperienza temporale. Qualsiasi immagine registra un’apparenza che scomparirà, ma il disegno aumenta la nostra consapevolezza della fugacità, dell’assenza. È più ciò che manca che quanto c’è. Riattiva l’attenzione, la memoria, dialoga con la caducità e la rende esplicita. Il disegno è nero, perché è l’adunata dell’assenza. Elettra Stamboulis


nero zero vero

È il teatro. Quel luogo in cui primariamente si nega, e si va sotto. Quella finzione per davvero, quell’incarnarsi basso dell’ignoto. È un’apparire fuori e dentro il vedere, fuori e dentro il corpo. Il teatro è nero, è zero, è vero nel suo esistere senza averne titolo, nel suo respirare collettivo, nello scaturire dal nulla e posarsi su tutto. Nelle foto d’archivio il teatro s’imprime immortale sul nero della propria magnifica “dimenticanza”, per dirla con Carmelo Bene. La storia teatrale del Novecento è piena di immagini in bianco e nero, dove la memoria e l’oblio si confondono l’una nell’altro tradendo un tremolio inafferrabile, e i volti degli attori sembrano lucciole che con la fosforescenza inquietano il buio smontandone l’unità. Nel suo scomparire di continuo, il teatro vive per sempre, in quanto sempre ha a che fare con questioni eterne come la morte, la rovina, la cancellazione. Con Antonin Artaud si ha teatro nel “martirio dell’attore” che lancia messaggi dal rogo che lo consuma. Per Carmelo Bene la presenza scenica è tensione verso il nulla. La negazione è congenita alla scena del secolo breve, che ci ha dato i silenzi della parola di Samuel Beckett. È “teatro zero” quello di Tadeusz Kantor “rappresentazione del vuoto”, “dell’indegnità di essere rappresentato”. Di via negativa tratta Jerzi Grotowski, che ricerca “la rimozione di blocchi psichici” per un atto che si realizzi nel rapporto tra attore e spettatore. E di non-violenza abusa il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck per il Teatro della Rivoluzione. Avanza per timidezze, esitazioni e piccoli svelamenti il teatro-danza di Pina Baush, mentre Leo de Berardinis levita verso il pubblico irradiando la sua “bellezza amara”. Procede, nel secolo dalla luce livida, un sottrarre, un mettere a nudo e disarmare il teatro, che indica l’attore come grado zero, temperatura da ritrovare oggi tra la folla e la follia. Un teatro che si misura con l’irrappresentabile trova nello “splendore nero” la possibilità di farsi apparizione. Dove la luce, con la sua natura di lampo, restituisce la tenebra, figure anonime, percussive, provenienti da un regno primitivo si fanno largo nella retina dell’onirico, si lasciano comprendere nel pieno della loro enigmaticità, nell’intermittenza narrativa, nelle regole divoranti di una visione

dal colore lynciano. Formazioni nascenti del teatro contemporaneo italiano come Orthographe, Dewey Dell, Barokthegreat, Muta Imago, Cosmesi, hanno a che fare con lo stato mutante del disegno, con la polvere postbellica, col colpo percussivo del frame cinematografico, col furore del ballo tra scatenamento ed estremo controllo e con una narrazione che emerge dal vuoto di parola. Figure di un nero sognato, ora col volto dipinto o incappucciato, ora con l’evanescenza di un altrove, procedono in sintonia con ciò che sbanda, cade, torna, sfuma, distorce il tempo. E il tempo si tinge di Africa in un’idea di teatro come continente in cui si fondono il giorno e la notte, il reale e il vero. Vi convivono fame e pienezza, nascita, ritorno, e segreto. È l’idea di una fonte ancestrale dei segni, delle voci, dei padri, delle madri. Posta, con la sua eco nera e feconda, come emblema di uno smarrimento geologico e come voragine psichica nell’universo “impuro” del Teatro delle Albe, l’Africa è un’idea poetica di “coro”, ma è anche un ingresso del reale nella scena, con non-attori senegalesi incontrati da Marco Martinelli e compagni sulla strada (primo fra tutti Mandiaye N’Diaye); è “humor nero”, “asinino”; è abisso nella magnitudo vocale di Ermanna Montanari. Se si pensa a un’Africa summa degli stati dell’anima e delle migrazioni dell’immaginario, appare lo sfondo sul quale si muovono le epopee di Ariane Mnouchkine. Carovane di attori muovono segretamente il mondo, in un patto alchemico tra arte e vita che avviene anche dietro le sbarre di un carcere-fortezza come quello di Volterra dove Armando Punzo e i suoi attori-detenuti attraversano in parata visionaria sconfinati deserti. Insiste negli interstizi di un mondo ignaro, s’inerpica nelle buche dell’asfalto, negli avanzi delle mense, nelle crepe del volto, negli intervalli della televisione. Tra un belletto e l’altro del tempo che impèra, s’impone col suo brulichio semiclandestino, opaco, ininterrotto; esiste nella cancellazione, nella sordina, nel trasfigurato. È il teatro, con la sua opera al nero. Cristina Ventrucci 185


schwarze grundlinien valenze, usi e filosofie del nero

«La realtà non è una situazione, ma è una dimostrazione, un interrogare e un rispondere, un sentiero ovvero un processo, un processo di salvazione, per usare un linguaggio teologico, che deve combattere a fondo contro l’immanenza, poiché questa non riposa in sé stessa»

«Quando guardo qui è tutto ingombro, non restano praticamente più immagini possibili, bisogna scavare come un archeologo con le sue pale» Werner Herzog intervistato in Tokio-Ga di Wim Wenders

Sigfried Kracauer, Il romanzo poliziesco

SEDUZIONE NERA Ogni inizio chiama al nero. Ma anche ogni nuovo inizio procede dal nero. Vi si impasta e, in qualche modo, vi si conforma. Non foss’altro che per la necessità di dare figura procedendo a ritroso da uno sfondo senza figura ma carico di possibilità figurali. Non sussumiamo qui, come invece Kandinsky, che «il nero è qualcosa di spento, come un rogo arso completamente. È qualcosa di immobile, come un cadavere che non conosce più gli eventi e lascia che tutto scivoli via da sé (…). Esteriormente è il colore con minor suono: su uno sfondo nero qualsiasi colore, anche se ha un suono flebile, sembra forte e preciso». 1 Viene subito da pensare all’inversione sfondo bianco, giallo o rosso con figura nera: quanto “suono” acquista quel colore che per Kandinsky è così “immobile”. Ma anche il nero à la Rembrandt non sembra poi così àtono e spento, anzi i colori lottano quasi per emergere e liberarsi dall’attrazione dell’oscurità. Fino al “nero esistenzialista” che nel chiudere le porte ad ogni Altro, si ipersensibilizza ai riflessi e alle sfumature dell’ipseità. Si stabilisca fin da principio che «il concetto puro di colore non esiste»2. Si danno altresì colori puri, gradazioni, usi, simboliche generali. Si individui poi una tendenza oscena, sordamente maligna, da parte di un colore, il bianco, ed una tensione seduttiva, silenziosamente salvifica, che muove dal nero.3 Chi seduce corre dei rischi, certamente quello di essere fatto oggetto di seduzione a sua volta. Se poi a sedurre è l’oggettività, 1. Kandinsky, W., Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p. 67. 2. Wittgenstein, L., Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino 1981, III, § 255. 186

ovvero il nudo eccesso dell’apparire dell’Oggetto, allora toccherà al Soggetto di entrare in uno spazio in cui, senza difese, sarà fatto fantasma, erranza, eterno rinvio di specchi senza immagine di partenza. Fino a che la seduzione sparisce. E lascia il posto all’oscenità. Difatti, è a partire dall’universo pansemiotico della società dello spettacolo ormai giunta alla sua piena autoproclamazione che s’impone il dominio del bianco come colore dell’oggetto assoluto. L’incontro con l’oggetto assoluto coincide con un incontro fatale: la totale trasparenza dell’oggetto traduce un’estasi anonima, e il reale, divenuto un’estasi del reale (più reale del reale senza essere alcunché di reale), confonde i sensi (vertigine dell’estasi) e legalizza il regime osceno dell’estasi attraverso la simulazione (il segno è divenuto esso stesso valore). Così siamo noi divenuti profanatori del Soggetto ed orfani dell’Oggetto. Questo sistema di oggetti assoluti, la loro stessa oscenità bianca4, ha indebolito sia i bisogni primari che le attività del pensiero. Il nero, al contrario, si fa carico, per così dire, di “rappresentare” una sorta di hegeliano lievito della negatività. È la vecchia formula del nondum ubique, del “non ancora e dovunque”. Di fronte al nero realizziamo allora che qualcosa d’altro c’è ma non si sa dove, così che pensiamo il qualcosa ovunque esso possa essere. Questo “non-essere-ancora” è quello del qualcosa negato per un qualcosa ancora non afferrato. Seduzione nera contro oscenità bianca.

3. Questa polarità, che qui anticipiamo in maniera perentoria, risponde alle suggestioni e alle quasiargomentazioni dei pensatori e degli scrittori che via via andremo a richiamare all’attenzione del lettore.

4. Cfr. Baudrillard, J., Les stratégies fatales, Grasset 1983, pp. 55-61 e 132-140.


IMMENSIFICAZIONE Il nero, come il dolore, stilla muto e potente sotto tutte le cose. È il colore sotteso all’essere fenomenico, se non l’essere stesso, come statuiva la tradizione simbolica egizia, che poneva una identità linguistica tra nero ed essere. Quando incontriamo l’aggettivo “nero”, al di là di accezioni etnologiche e cromatologiche, entriamo nella dimensione della perdita, del non più visibile, ma anche dell’aspettativa del ritorno. La poesia I versi di Vittorio Sereni menziona lo scrivere in poesia come un’azione che si compie «dentro un nero d’anni». La poesia ha a che fare con un tempo polverizzato, il tempo della simultaneità oblivionale. Sono allora assenza di gradazione (nero) e proliferazione della serie (d’anni) i termini a quo del poetare. L’effetto di questa iunctura, quella tra monocromia del nero e moltiplicazione negli anni non denumerabili, conduce ad un esercizio di rincorsa nel tempo e sul tempo («Se ne scrivono solo in negativo/ dentro un nero d’anni/ come pagando un fastidioso debito/ che era vecchio di anni»). D’altra parte è del nero la vastità, così che anche un piccolo punto nerastro su superficie bianca pare dilagare in una immensità non contenibile. Il nero è «immensificante»5. Esso desta nel vedente quella «coscienza di ingrandimento»6 che gli è propria per natura. INTERSTIZIO È stato il cinema di Godard ad imporre una valenza del “nero” che non fosse né pura negatività né assenza d’immagine figurale, così come si deve al carattere puntuto e nomadico della filosofia di Gilles Deleuze il fatto che a questo trattamento del nero si sia apposta la definizione di “interstizio”. Tra un’immagine e l’altra del film di É. Rohmer Le signe du lion (1959) interviene un’impercezione, un interstizio, appunto, che rivela il fondo fantasmatico del meccanismo-cinema. Ciò che noi “vediamo” in questo nero che media dialetticamente tra i punti della catena delle immagini altro non è che l’invisibile del visibile, sorta di messa in scena del vuoto in cui l’immagine cade. Questo temporaneo decadimento della impressività dell’immagine ha una funzione insostituibile: quella di promuovere la tensione di 5. Il carattere “immensificante” è attribuito da Gaston Bachelard all’essere stesso dell’uomo, il quale tende a rendersi immenso, ad espandersi nonostante i freni esterni che incontra nel mondo diurno. Bachelard sviluppa l’idea di vastità da Baudelaire. Cfr., Bachelard, G. La poetica dello spazio, Edizioni

concatenamento (come dire che i fotogrammi si susseguono e s’imbricano tra loro per seduzione macchinale). Dunque è grazie al nero interstiziale che l’immagine si desume come movimento-in-sé, in tutto il suo potenziale sequitur/non sequitur. In Godard assistiamo alla radicalizzazione della logica dell’interstizio mediante l’apparizione dello schermo nero. Se ci è dato di affermare che il nero totale ed omnipervasivo è strumento della narrazione ed insieme narratore ciò è dovuto al fatto che lo schermo, raccogliendo ritmicamente tutto il non-visto, lascia esercitare al nero il suo formidabile potere strutturante. Dovremmo allora rinunciare al pensiero della profondità? Potremmo mai abdicare al mondo di caverna sepolto nel brillìo delle superfici in movimento? «Lo sguardo non vince la profondità, l’aggira»7, afferma Melau-Ponty. «La profondità è il mezzo di cui le cose dispongono per restare nitide, per restare cose, pur non essendo ciò che io guardo attualmente. È per eccellenza la dimensione del simultaneo»8. Il “nome proprio” della profondità percettiva è il “nero”. Da esso può uscire qualsiasi cosa, qualsiasi immagine, qualsiasi inizio. Difatti non può darsi in alcun modo un “nero cronologico”, cosa che abbiamo potuto constatare nella poesia I versi di Vittorio Sereni. Anzi, se v’è una categoria della temporalità che possa essere applicata al nero, oltre a quella del simultaneo, non può che offrirsi quella del messianico. Dove c’è “nero”, c’è attesa di evento. PENETRAZIONE Nella sua disperata e nichilistica appartatezza, il pittore Strauch, deuteragonista e oggetto d’indagine psicologica in Frost, primo romanzo di Thomas Bernhard, si consegna ad una realtà nera, in cui la misantropia coincide con l’elogio ad una condotta di vita pascaliana. Emblematico è il passo del romanzo in cui Strauch ricorda all’assistente come tutto, d’un colpo, diventi nero, dentro e fuori, e da qualsiasi punto si osservi9. Qui il colore nero segnala l’impossibilità di una via d’uscita dall’orrore degli uomini. Ogni direzione esistenziale che parta dal Soggetto è irrimediabilmente soffocata dal peso della Storia degli Eventi.

Dedalo, Bari, p. 206 6. Ibid., p. 206. 7. Merlau-Ponty. M., Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 233. 8. Ibid., p. 233. 9. Bernhard, T., Frost, Surhkamp, Frankfurt am

Main, 1963, p. 267: »Sie stehen auf einem Platz, und alles ist schwarz, plötzlich ist alles innen und außen schwarz, von welchem Punkt auch beobachtet, schwarz und wie umgerührt«..

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Strauch “parla nero”. Il suo solipsismo suicidale ha sbocco in una lingua che batte sul dente del suo isolamento montano. Il nero della stanza buia in cui si ritira in veste di pittore del nulla e per nulla è quello stesso nero che sta “fuori” e che, nella poetica bernhardiana, non manca mai di penetrare ovunque e attraverso qualsiasi paratìa difensiva. Il nero, come il Gelo, penetra ogni cosa, nel mondo dei soccombenti bernhardiani. ILLUSIONE OTTICA DI SALVEZZA Due esperti di notti infantili squarciate da salvifiche strisce di luce: Marcel Proust e Walter Benjamin (questi assume dal primo l’arte espressiva dei particularia percettivi). Il nero denso della notte infantile in loro cede all’infiltrarsi dell’emozionata scoperta d’una luce artificiale: quella della stanza accanto, quella dell’illuminazione d’un corridoio d’albergo, o quella della camera da letto dei genitori, prima del giorno della partenza per un viaggio. Nell’oscurità notturna Benjamin celebra la vittoria della mano che, furtiva, «questo giovanile Don Giovanni»10, penetra nella dispensa «come un amante nella notte», incontrando la disponibilità di miele e uva passa. L’attacco proustiano di Du côté de chez Swann emblematizza la condizione infantile del coricarsi attraverso l’analogia del pernottamento in albergo da parte di un viaggiatore che, già provato dalla malattia, giunge sul posto per trovare ristoro: «J’appuyais tendrement mes joues contre les belles joues de l’oreiller qui, pleines et fraîches, sont comme les joues de notre enfance. Je frottais une allumette pour regarder ma montre. Bientôt minuit. C’est l’instant où le malade, qui a été obligé de partir en voyage et a dû coucher dans un hôtel inconnu, réveillé par une crise, se réjouit en apercevant sous la porte une raie de jour. Quel bonheur, c’est déjà le matin! Dans un moment les domestiques seront levés, il pourra sonner, on viendra lui porter secours. L’espérance d’être soulagé lui donne du courage pour souffrir. Justement il a cru entendre des pas; les pas se rapprochent, puis s’éloignent. Et la raie de jour qui était sous 10. Benjamin, Walter, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2007, p. 107. 11. Proust, M., Du côté de chez Swann, Gallimard, Paris 1987, p. 4: «Appoggiavo teneramente le gote contro le belle gote del guanciale che, piene e fresche, sono come le gote della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardar l’orologio. Mezzanotte tra poco. È il momento in cui il malato 188

sa porte a disparu. C’est minuit; on vient d’éteindre le gaz; le dernier domestique est parti et il faudra rester toute la nuit à souffrir sans remède.»11 Questo passo di Proust suscita l’invincibile rapimento che il nero della notte esercita sul dormiente. L’immagine analogica del malato costretto nella sua camera d’albergo, temporaneamente vinto dall’illusione che sia già giunto giorno, misura la forza avvolgente e costrittiva dell’oscurità notturna. Un convincimento alberga in ambedue gli scrittori: quanto più avanza il buio, tanto più cresce ciò che “salva” da esso, fosse anche gesto involontario. ESPEDIENTE In Timore e tremore Kierkegaard riferisce di uno stratagemma atto a recidere quella forma di dipendenza che interviene tra madre e figlio durante il nutrimento: «Quando il bimbo dev’esser svezzato, la madre si tinge di nero il seno, perché sarebbe cosa crudele che esso restasse desiderabile quando il bambino non deve più trarne nutrimento: così il bambino crede che sua madre è mutata, ma la madre è sempre la stessa e il suo sguardo è sempre pieno di tenerezze e d’amore. Beata la madre che non deve ricorrere a più terribili espedienti per svezzare suo figlio»12 LA QUIETE CHE VERREBBE DAL NERO, LA LOGORREA CHE GIUNGE DAL GRIGIO Samuel Beckett ha fatto dipendere sia la sua narrativa che la sua drammaturgia dall’ossessione per l’exactitude. Un’esemplificazione del culto per l’esattezza formale è data dal capitolo undicesimo del romanzo Murphy. Il protagonista, che lavora come infermiere presso una clinica per malati di mente (la Magione Maddalena della Misericordia Mentale) gioca a scacchi con il signor Endon, paziente schizofrenico. I due giocatori rivelano la totale incomunicabilità umana attraverso le mosse di una partita in cui nessun pezzo viene mangiato, nonostante Murphy faccia di tutto (è la sua “strategia”) per farsi mangiare il maggior numero di pezzi. La partita è descritta con la perentorietà e l’esattezza

che abbia dovuto mettersi in viaggio e dormire in un albergo sconosciuto, svegliato da una crisi, si rallegra al vedere sotto la porta una riga di giorno. Che gioia, è già mattina! Tra un minuto i servi si alzano, potrà suonare il campanello, verranno a dargli aiuto. La speranza del conforto gli dà coraggio nella sofferenza. Ecco, ha creduto di udire dei passi; i passi s’avvicinano, poi s’allontanano. E la

riga di giorno che stava sotto la porta è scomparsa. È mezzanotte; hanno appena spento il gas; l’ultimo cameriere se n’è andato e bisognerà passare tutta la notte a soffrire senza rimedio». 12. Kierkegaard, S., Timore e tremore, Arnoldo Mondatori, Milano 1991, p. 21.


di un manuale di gioco. Endon ha il proposito di ristabilire le posizioni dei pezzi come da apertura di partita. L’abbandono della sfida da parte di Murphy chiarisce bene come lo scontro tra due strategie votate al calcolo annulli il senso del gioco e della comunicazione. Permutazioni matematiche, misurazioni geometriche, schedatura di gesti minimi, questioni teologiche trattate come oggetto di una pura contabilità: con la stessa smania paranoica di precisione euclidea Beckett tratta le polarità e le variazioni di colore nero-grigio-bianco. Il colore dominante dei suoi caratteri è, tendenzialmente, il grigio13, simbolo, tra l’altro, della cecità avanzante dello scrittore. In Molloy il grigio rappresenta una zona di indecisione e di precarietà che da un lato permette di scrivere ma d’altro condanna ad una loquacità importuna: difatti, il primo dei due lunghi capitoli in cui è diviso il romanzo è un unico paragrafo senza nessun ritorno a capo. Differenziarsi: questo è il problema. L’indefinibilità tra Io ed Altro, il fatto che l’Io sia felicemente disorientato dai suoi stessi pensieri fluidi trova nel “grigio” la sua naturale colorazione. In Malone muore leggiamo: «Che tutto diventi nero, che tutto diventi chiaro, che tutto resti grigio, è il grigio che si impone, tanto per cominciare, il quale è quello che è, può quello che può, fatto di chiaro e di nero, e può svuotarsi di questo, di quello, per essere soltanto l’altro. Ma forse sul grigio, dentro al grigio, mi faccio delle illusioni»14. In Krapp’s last tape è espressa la più dilacerante scissione tra bianco e nero: una delle donne che Krapp ha frequentato nel corso della vita si chiama Bianca ma è residente a Kendar, che in ebraico significa “nero”. La donna che fa da balia è bruna ma indossa una divisa tutta bianca e porta avanti una carrozzella nera. Con Imagination morte imaginez Beckett stipula un patto con il lettore: «Da ogni parte non una traccia di vita, voi dite, bah, e con questo, immaginazione mai morta, ma sì, appunto, immaginazione morta immaginate». Ad immaginazione morta non resta altro, allora, che un nudo spazio bianco la cui forma è una rotonda dal diametro di 80 centimetri, alta 80, con un muro di 40 che sorreggere la volta (spazio claustrofobico e movimenti 13. Beckett, S., Trilogia. Molloy, Malone muore, L’innominabile., Einaudi, Torino 1996, p. 9: «Ero appollaiato al di sopra del livello più alto della strada e appiccicato, per soprammercato, contro una roccia del mio stesso colore, che è il grigio» e a p. 240: «E che altro si può dire se non che qui non c’è proprio colore, se non in quanto si possa dire

macchinalmente limitati). Dentro a questa rotonda stanno adagiati due corpi, anch’essi bianchi. L’immobilità e la solitudine dei corpi è acuita dal fatto che essi aprono solo l’occhio sinistro (unica “nota di colore”: le pupille, azzurre, contrastano diabolicamente con il bianco livido). «Tutto diverrebbe silenzioso e scuro e le cose al loro posto per sempre, finalmente», un’affermazione, questa, che è messa in bocca a Malone e che può chiarirci cosa intenda Beckett quando scrive “nero”: desiderio di fine e di riposo, di contro alla fatica delle “distrazioni narrative”. Ma questa fine non arriva mai. C’è sempre un’occasione per ricominciare a postulare e conteggiare, nel grigio. Se invece tutto fosse quello che è, ovunque, lungi dal pirronismo radicale, lungi dalla fluttuazione continua, lungi dalla non-sostanza, se tutto fosse nero15… ELOQUENZA NERO-MANDEL’ŠTAM Chi abbia incontrato la poesia Cernozem (Terra nera)16 del poeta russo Osip Mandel’štam può forse aver fatto esperienza del rumore della parola poetica confinata nell’orrore della Storia. Il poeta si trova recluso a Voronež. Di fronte a lui le distese della steppa, siderali. La sconfinatezza della “terra nera” assume caratteri antropomorfi e sensibilistici, di una ebbrezza orfica. Questa terra, «tutta piccoli garresi, tutta aria e attenzioni, / tutta che si sbriciola, tutta che fa coro» conquista il cielo, sta ad altezza di cielo, raggiunge la linea dell’orizzonte come se questo fosse un vicino di casa, dopo tutto, gradito. Terra ascensionale, dunque, quella di Mandel’štam, ed in forza del suo essere laboriosa, instancabilmente al lavoro. Ma anche termine di “contraddizione sonora”: «come un flauto che marcisce fa spalancare le orecchie»/«come un clarinetto mattutino che raggela l’udito». Nella chiusa della poesia spiccano poi i versi: «Cernorecivoe molciane v rabote» (neroeloquente silenzio al lavoro). Il poeta, scrivendo versi, lavora la terra nera del tempo. Ogni sua poesia è «aratro che dissoda il tempo», ebbe a dire lo stesso Mandel’štam. Il legame tra “nero” e “tempo” è, d’altronde, variamente attestato e nemmeno le ricerche cromatologiche più recenti vi si oppongono.

colore questa specie d’incandescenza grigiastra… Sì, si potrebbe parlare di grigio, indubbiamente, per me va bene, e allora il gioco, o cnflitto, sarebbe qui da me tra questo grigio e il nero che esso vela di più o di meno, stavo per dire a seconda delle ore, ma non sembra che sia sempre una questione di orario. Io stesso sono grigio, qualche volta ho addi-

rittura l’impressione di diffondere del grigio». 14. Ibid., p. 334. 15. Ibid., p.242: «Il nero è il nero dappertutto, questo è pacifico». 16. Mandel’štam, O., Quaderni di Voronež, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, p. 7. 189


Dal nero emerge il tempo come unità ancora indistinta, mentre, all’opposto, il bianco rimanda all’assoluta non-temporalità. Il poeta, dunque, è imparentato con il nero di una terra da dissodare. Nella “temporalità del nero” gli opposti “eloquenza” e “silenzio” sono riuniti, e, allo stesso modo, confine ed infinito si trovano in perfetta fusione. Anche se circondato dalla cura di una cornice o da un reticolo spinato, il nero eccede le limitazioni, le sopravanza. Il compito del poeta è dunque quello di dargli la parola. PIÙ NERO DEL NERO La tradizione ermetica ci ha consegnato una locuzione iperbolica: “più nero del nero”. Con essa si indica lo stato in cui la coscienza si fa cosciente della morte (è «l’ ingresso alla Tomba di Osiride, la conoscenza dell’oscura Terra, il regime di Saturno nei testi»17. In base al simbolismo di Saturno, secondo la lettura fornitaci da Böhme18, la componente divina insita nell’uomo si esprime nella morte. Il corpo interiore (detto anche Fanciullo d’Oro) viene allora ricoperto per mano di Saturno da un manto nero. Quest’ultimo fa persistere la parte divina dell’uomo proteggendo il corpo che, sempre secondo Böhme, «genera l’anima».19 Il simbolo del manto nero protettivo ha indubbiamente anche un’altra valenza: segnalare il lutto, la caduta di quell’«Angelo tramortito»20 qual è l’uomo. Ora si pensi al melanconico, la cui bile è nera (die schwarze Gall, bilis innaturalis, bilis atra). Egli non nasconde la caduta, anzi ne canta la lode e dichiara orgoglioso: ich besinge meinem Fall, “io canto la mia caduta”. Nella più nera e gelida delle profondità il melanconico si fa veggente. Sradicato dal mondo si radica nel nero che promette la conoscenza dell’Assoluto. Se si getta uno sguardo su quella modalità dell’essere melanconici che Baudelaire ha fissato una volta per tutte come esperienza interiore della città moderna, lo Spleen, saremo messi in rapporto con quel sentimento del tempo che «pone secoli tra l’attimo del momento presente e l’attimo vissuto»21. Ciò implica

17. Evola, J., La tradizione ermetica, Edizione Mediterranee, Roma 2008, p. 117. 18. Ibid., p. 90. 19 Ibid., p. 91. 20 Ibid. 21. Benjamin, W., Zentralpark, in Illuminationen. 190

una particolare sensibilità che fa risaltare la differenza tra ciò che accade e l’avvertimento di ciò che accade. Siffatta asincronia riverbera la separatezza tra il tempo del cuore di un uomo e il tempo della forma della città stabilita dall’urbanesimo moderno, la quale viene continuamente distrutta e sempre di nuovo ricostruita. A dispetto di quanto si è soliti intendere, il sentimento dello Spleen s’oppone al pessimismo, è anzi da pensare «come diga di sbarramento contro il pessimismo»22 stesso. Il melanconico vede la catastrofe, la fissa nel suo compiersi; e “modernità”23 significa forse proprio questo essere posti di fronte alla «catastrofe in permanenza»24. Allora colui che tiene gli occhi fissi sulla distruzione, quella distruzione che si compie infinitamente nelle forme del ricostruire, costui ha di certo la stoffa dell’eroe. George Steiner25 ci ricorda che «Schelling (…) annette all’esistenza umana una tristezza fondamentale, inevitabile. Più in particolare, questa tristezza fornisce il fondo oscuro in cui si radicano la consapevolezza e la conoscenza. Tale fondo oscuro, in realtà, deve essere la base di ogni percezione, di ogni processo mentale». Come dire che non si dà Denken senza Schwermut, pensiero senza malinconia. Questo assunto è alla base delle composte premure che la madre di Wilhelm rivolge al figlio nel film di W. Wenders Falso movimento (1975), ispirato al Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe. Quello di Wenders è indubbiamente un cinema della fragilità, di quella fragilità da melanconico intossicato dalle immagini, da flaneur neo-baudelaireano con la polaroid in mano. Simile fragilità costituisce la quintessenza dell’atto del pensiero e della scrittura. Wilhelm ha appena infranto il vetro della sua stanza con un fendente. Si trova nel bagno, e mentre si sta togliendo la fasciatura dalla mano sinistra, la madre, intenta a sfilarsi i bigodini dai capelli, con lo sguardo fisso allo specchio, gli rivolge queste parole: «cerca di non perdere né questa tua sensazione di disagio né il malumore: ti saranno utili quando vorrai scrivere».

Ausgewählte Schriften 1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, p. 232: «Der spleen legt Jahrhündert zwischen den gegenwärtigen und den eben gelebten Augenblick». 22. Benjamin, W., op. cit., p. 230: «Spleen als Staudamm gegen Pessimismus».

Pier Marco Turchetti

23. Cfr. Meschonnic. H., Modernité modernité, Verdier, Lagrasse 1988. 24. Ibid., p. 231: «Der spleen ist das Gefühl, das der Katastrophe im Permanenz entspricht» 25. Steiner, G., Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano 2007.


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appuntamenti collaterali alla mostra

> L’Occhio sorpreso (e selvatico) Parallelamente al percorso espositivo e agli appuntamenti collaterali, Selvatico ospita l’Occhio sorpreso, progetto ideato e curato da Claudio Cavalli (Artexplora Cesena). Una collaborazione che prevede di far incontrare e mettere in relazione mondo scolastico e arte contemporanea, con una serie di laboratori che si svolgeranno a Cotignola, Lugo e Fusignano durante l’apertura della mostra, con alcuni degli autori che a questa partecipano. (L’iniziativa mette in rete alcune scuole d’arte comunali, felici realtà di didattica dell’arte presenti sul territorio come il Cerchio di Fusignano e la scuola Arti e Mestieri di Cotignola.) L’Occhio sorpreso è un progetto che vede artisti creare le loro opere davanti a ragazzi e giovani che a loro volta si misurano in realizzazioni con gli stessi materiali e strumenti. Sono eventi nei quali i ragazzi entrano nel dialogo intimo degli artisti, entrano in confidenza con le loro idee, passioni, sguardi sulla vita quotidiana. E il dialogo prende forme diverse, segni, colori, gesti che sottolineano visioni originali, stupori, desideri di bellezza, invenzioni di futuro. In questo progetto si resta colpiti anche dai lavori dei ragazzi che sugli stessi contenuti e poetiche restituiscono sorprese con altri punti di vista, divagazioni, deragliamenti. In questi tempi difficili di lunga e profonda crisi che coinvolge ogni aspetto della vita contemporanea e che ci fa toccare con mano il deficit evidente di creatività per il futuro, l’Occhio sorpreso è un luogo ed un tempo in cui l’arte come la poesia offre spunti per riflettere sulla vita di oggi, sulla città, sulle persone e le loro scelte esistenziali, sui desideri, le relazioni, la società e i suoi messaggi, sulla bellezza e la miriade di cose prodotte, utili ed inutili, sulla natura, la terra, il cielo. 192


Sabato 15 gennaio 2011

• A nera. Una lezione di tenebra Visita guidata alle quattro sezioni della mostra con Massimiliano Fabbri Ritrovo ore 15 Bagnacavallo, Museo Civico delle Cappuccine ore 16 Casa e Museo Civico Luigi Varoli, Cotignola ore 17 Pescherie della Rocca, Lugo ore 18 Museo Civico San Rocco, Fusignano

ore 19 Conclusione con aperitivo e rientro a Bagnacavallo

Gli spostamenti tra una sezione e l’altra della mostra saranno effettuati in pullman

• Caravaggio. Nero d’avorio (monologo in sei stanze) di e con Massimo Pulini Ore 21, Auditorium Arcangelo Corelli, corso Emaldi, Fusignano

Un denso e limaccioso flusso di pensieri scorre nelle sei stanze del monologo teatrale. È la voce fuori campo di Caravaggio che echeggia nel suo studio, nelle case abitate e abbandonate sulla via della fuga. Una voce che parla del mestiere e dei malanni della pittura, dei cinque sentimenti dell’uomo e delle sette opere della Misericordia. Una intensa riflessione sul teatro di corpi, anime e ombre che l’artista allestisce davanti al cavalletto, nella sala di posa in cui la vita viene sottoposta ad un effetto notte che la trasforma.

Sabato 22 gennaio

• Guardare la tenebra, ascoltare il nero

Ore 15 inizio, ore 18 conclusione dei lavori Teatro Binario, Stazione FS, Cotignola Un convegno scandito dagli interventi di

Sabrina Foschini, Eleonora Frattarolo, Serena Simoni, Alessandro Giovanardi, Roberta Bertozzi, Maria Rita Bentini, Pier Marco Turchetti, Elettra Stamboulis

Un conversazione intorno al buio e sulle molte notti e cecità che ammantano e attraversano non solo la storia dell’arte, il disegno e la pittura, ma anche il fumetto, la filosofia, la poesia e il teatro. Un viaggio che si snoda e articola tra neri diversi, intrecciando un dialogo che si nutre di sconfinamenti, differenti angolazioni, punti di vista, ambiti e generi distanti tra loro. Oscurità a congiungere, parola a illuminare e rischiarare, come in un flusso di visioni e pensieri, alcuni aspetti di questa persistenza della tenebra, ostinata e diffusa presenza che affiora e ritorna costantemente nelle varie forme e tentativi di rappresentazione.

• ¡Thump Flash! fiat ars - pereat mundus

Ore 19.30, Convento San Francesco Bagnacavallo. Durata: 30 minuti Ingresso libero con chiusura delle porte dopo l’inizio dell’evento

“Fiat ars - pereat mundus... È questo il compimento dell’arte per l’arte... L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. Il suo autoestraneamento ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine.”

da Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Installazione performativa a cura di Orthographe in collaborazione con Cesare Fabbri (Osservatorio Fotografico) e Lord Europa Ideazione e regia: Alessandro Panzavolta / consulente alla fotografia: Cesare Fabbri / dispositivi: Marco Amadori / riprese video: Emiliano Biondelli, Daniele Pezzi.

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Ringraziamenti

Un grazie di cuore a tutti gli artisti coinvolti, per la fiducia concessa aderendo al progetto, per la paziente collaborazione e anche per aver contribuito, a proprie spese, alla realizzazione delle opere (in molti casi si tratta di nuove e inedite produzioni, fatte appositamente per questa esposizione e luoghi specifici); un’offerta generosa di tempo e impegno senza la quale questa mostra non sarebbe stata possibile (nessun autore ha ricevuto gettoni di presenza o rimborsi). L’occhio sorpreso si snoda e articola attraverso una serie di laboratori nelle scuole dove, classi o gruppi di studenti, hanno incontrato e lavorato a stretto contatto con alcuni artisti presenti in mostra (laboratori che hanno visto coinvolti 7 autori per un totale di 14 incontri effettuati in alcune scuole di Cotignola, Lugo e Fusignano). Gli artisti che hanno partecipato a questo progetto (che si è svolto durante l’apertura delle mostre) sono Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, Federico Guerri, Francesco Bocchini, David Loom, Raniero Bittante, Lorenzo di Lucido, Graziano Spinosi. Grazie a Franco Pozzi per aver indicato in A nera (da Rimbaud) un possibile titolo, e per molto altro, a Francesco Bocchini e Massimo Pulini per alcuni preziosi suggerimenti in fase di costruzione della mostra, a Daniele Casadio per l’enorme e incondizionata fiducia, disponibilità e indispensabile collaborazione, a Federico Settembrini, Pamela Casadio, Cecilia Pirazzini e Lucia Baldini per il sostegno e aiuto costante. Alla Dirigente Scolastica Giuseppina di Massa per l’interessamento nel portare i laboratori all’interno del Liceo Classico e Scientifico “Ricci Curbastro” di Lugo. A Romina Pirraglia del Sistema Museale della Provincia di Ravenna e Stefania Mazzotti di Gagarin per i preziosi articoli che hanno accompagnato e scandito l’apertura delle mostre. Grazie a Elio Ancarani, Stefania Pagliarulo e Paolo Trioschi per l’assistenza a Nero al Museo San Rocco. Infine al Comune di Cotignola tutto, che ha creduto e voluto fortemente la ripartenza di Selvatico. A nera. Una lezione di tenebra, che questo catalogo testimonia e documenta, fa parte di un dittico che si concluderà (forse nella seconda parte del 2011) con un secondo appuntamento che si concentrerà su e intorno al colore bianco, intitolato E bianca.

finito di stampare nel dicembre 2010 da grafiche morandi fusignano (ra)


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€ 15,00

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