2015 catalogo della mostra "La disciplina della carne"

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Mattia Moreni Nicola SamorĂŹ La disciplina della carne



Mattia Moreni Nicola SamorĂŹ La disciplina della carne


Mattia Moreni - Nicola Samorì / La disciplina della carne 4 dicembre 2015 – 24 gennaio 2016 Museo Civico Luigi Varoli Cotignola | Far Fabbrica Arti Rimini

Campagna fotografica Daniele Casadio Grafica catalogo e comunicazione Marilena Benini

Enti promotori Comune di Cotignola | Comune di Rimini

Trasporti Ivan Mazzoni

Enti patrocinanti Unione dei Comuni della Bassa Romagna Provincia di Ravenna | Sistema Museale provincia di Ravenna IBC Istituto Beni Culturali | Regione Emilia Romagna In collaborazione con G.A.M. Galleria d’Arte Maggiore, Bologna / Archivio Mattia Moreni

40123 Bologna - Via Massimo D’Azeglio, 15 - Tel. 051 2914686 - Fax 051 222716

Galleria d’arte contemporanea “Vero Stoppioni” Santa Sofia Collezione Archivio Ghigi Pagnani Ravenna Pro Loco Russi Associazione Primola Cotignola Associazione Selvatica Cotignola Sostenitore principale Gruppo Villa Maria Cecilia

Altri sostenitori Banca di Rimini BCC, La Cassa - Cassa di Risparmio di Ravenna Comune di Cotignola Sindaco Luca Piovaccari Assessore cultura Federico Settembrini Responsabile area cultura e comunicazione Giovanni Barberini Museo Civico Luigi Varoli Massimiliano Fabbri Area cultura e comunicazione Michela Fanelli Urp Melissa Stinziani Apertura e sorveglianza Museo Varoli Cecilia Pirazzini, Miriam Baldini, Marianna Bacchini, Luca Salmistraro Comune di Rimini Sindaco Andrea Gnassi Assessore cultura Massimo Pulini Dirigente Musei della Città Maurizio Biordi Ufficio mostre dei Musei Comunali di Rimini Annamaria Bernucci, Piero Delucca Trasporti Musei Comunali di Rimini Massimiliano Abita, Gian Luca Tognacci Allestimenti Musei Comunali di Rimini Stefano Caminiti, Maurizio Succi

Stampa catalogo Grafiche Morandi Fusignano Grazie a chi si è rivelato aiuto insostituibile alla riuscita di questo progetto offrendo la sua preziosa collaborazione e piena disponibilità: Poupy Prath Moreni, Franco, Roberta e Alessia Calarota, Silvia Loddo, Gabriano Fiorani, Francesca Monti, Pia e Benito Righetti, Serafino Penazzi, Roberto Pagnani, Maria Francesca Moreni, Popy Moreni, Amour Rawyler, Erika Nannini, Riccardo Morfino, Charlotte Arnal, Caterina Mambrini, Giuseppe Michelacci, Massimo Berdondini Edizioni del Bradipo Michele Antonellini Discanti Editore, Massimo Morandi, Beatrice Sansavini, Bruno Biagi, Piero Delucca, Michele Buda, Roberta Galassini, Claudia Collina, Luisa Liverzani, Giuseppe Bertolini, Giovanni Bonelli, Giancarlo De Biase, Roberto Casadei, Antonio Coppola, Francesco Faustini, Pier Paolo Freguglia, Diego Lazzaroni, Galleria Monitor – Roma, Fabrizio Novati, Romano Paoletti e Stefania Bucciarelli, Rosenfeld Porcini Gallery – Londra, Andrea Salerno, Luigi Sebastiani, Liliana Zerbini e Chiara Stefani E un debito, per il lavoro di studio, mostre e ricerche, con Fabio Cavallucci, Claudio Spadoni, Aldo Savini

ISBN 978-88-95432-20-5


Museo Civico Luigi Varoli Cotignola FAR Fabbrica Arte Rimini 4.12.2015 > 24.1.2016

Mattia Moreni Nicola SamorĂŹ La disciplina della carne A cura di Massimiliano Fabbri e Massimo Pulini con la collaborazione di Annamaria Bernucci e Giovanni Barberini e un testo critico di Alberto Zanchetta


Mattia Moreni 6


Sono parecchi gli elementi per cui abbiamo voluto fortemente questa mostra, una serie di rimandi, richiami e incastri perfetti. Moreni approda per la prima volta in Romagna nel 1939, a 19 anni “di sua età”, e trova rifugio proprio a Cotignola: egli è ricercato in quanto membro attivista del partito comunista clandestino. In quei circa tre mesi di permanenza Moreni conosce Luigi Varoli, figura che colpisce il giovane e a cui rimarrà legato a lungo. Lo dimostrano diversi elementi, come a esempio l’invio, in occasione di una sua importante mostra a Parigi, di una cartolina conservata ora presso Casa Varoli: Moreni tiene a invitare personalmente Varoli e coglie anche l’occasione per dimostrare l’immutata stima che prova nei suoi confronti. Altra dimostrazione del forte legame che lo lega a Varoli è una sua mostra antologica svolta nelle sale di Palazzo Sforza fra dicembre 1991 e gennaio 1992, nel mentre di un brillante percorso artistico espositivo, che lo porta a mostrare le proprie opere in tutto il mondo, Moreni decide comunque di fare ancora una volta tappa a Cotignola. Ora, passati tredici anni, sarà nuovamente possibile ammirare le opere di Moreni presso le sale di Palazzo Sforza e Casa Varoli. Opere che in questo caso saranno poste in comunicazione con altre prodotte da un giovane pittore romagnolo in forte ascesa, quale Nicola Samorì, che a Mattia Moreni ha dedicato la tesi di laurea dal titolo “Mattia Moreni – the ultimate paitings”. Sono molti i richiami moreniani che la pittura di Samorì nasconde e lo spettatore, quasi come un archeologo, potrà trovare indizi e segnali che hanno determinato la scelta di porre quell’opera vicino all’altra. Questo è il cortocircuito e questi sono i richiami che dal 1939 ci fanno arrivare fino ai giorni nostri. Nicola Samorì non è nuovo a Cotignola: egli ha già esposto i suoi lavori in occasione della rassegna d’arte contemporanea “Selvatico”, rassegna “di campagna” che nel tempo si è guadagnata la stima di molti addetti ai lavori, rassegna nota a livello nazionale e che ha da sempre dialogato con il lavoro svolto dal “Laboratorio dell’Imperfetto” di Gambettola. Da tale sinergia è nato un forte sodalizio artistico, esteso per buona parte della Romagna, sodalizio che sfocia oggi nella collaborazione con il Comune di Rimini. La mostra, oltre che a Cotignola, sarà infatti allestita anche presso quell’importante spazio espositivo che è la FAR, Fabbrica Arte Rimini. Non abbiamo mai pensato che la piccola dimensione del nostro comune rappresentasse un freno alla possibilità di sviluppare progetti culturali di grande qualità e respiro. In questi anni il Comune e il Museo si sono caratterizzati per la capacità di attivare collaborazioni con artisti e realtà culturali riconosciuti a livello nazionale e oltre. Questo ci ha consentito, da un lato, di far sì che Cotignola

diventasse a pieno titolo un centro creativo di riferimento per tutta la regione grazie alla capacità di proporre percorsi innovativi e coraggiosi; dall’altro, di costruire una rete di relazioni e contaminazioni, fondamentale per dare continuità a questo percorso di valorizzazione della città. La mostra di Moreni-Samorì è l’ennesimo frutto di questo sforzo. Solo infatti grazie alla credibilità costruita in questi anni, ora possiamo relazionarci alla pari con realtà come FAR e ospitare opere di artisti così qualificati. Il merito è naturalmente di tutte le persone che hanno creduto nella possibilità che Cotignola potesse ritagliarsi un ruolo centrale nell’offerta culturale della nostra regione: amministratori, funzionari, associazioni, cittadini, artisti, aziende private. E’ stata un’intera comunità a credere in questa possibilità e anche la mostra che con orgoglio presentiamo oggi non è altro che il frutto del lavoro di tante persone che pensano che investire il proprio tempo e le proprie risorse nell’arte rappresenti ancora il modo migliore per contrastare l’imbarbarimento della nostra società, recuperando il senso della bellezza e della riflessione sul mondo che ci circonda. Per questo vogliamo ringraziare ancora tutti quelli che hanno reso possibile questa mostra e, in particolare, l’Amministrazione Comunale di Rimini con la quale abbiamo lavorato intensamente in questi mesi, mettendo ognuno il meglio delle proprie idee e capacità per costruire un evento che credo lascerà un segno profondo nelle persone che visiteranno questi spazi espositivi. Rimini, fra l’altro, celebrò Moreni già nell’agosto del 1957 in occasione della prima edizione della biennale per la pittura, la scultura e il bianco e nero “Morgan’s Paint”, curata in quell’occasione dal critico Andrea Emiliani e dell’architetto Leone Pancaldi, biennale che ha visto la partecipazione di artisti fra i più blasonati di quel periodo e che proprio in quell’anno nominò Mattia Moreni come vincitore del premio pittura. Da tempo lavoriamo a questo progetto e i più attenti forse ricorderanno il biglietto di invito riguardante Selvatico Tre - “Cacciatori di teste”. In questo flyer stampato a novembre 2014 era stato inserito un messaggio subliminale, un identikit artificato di Moreni posto vicino a un volto scorticato di Samorì. Oggi per l’appunto vogliamo celebrarli come meritano, con una mostra studiata pezzo per pezzo, che restituisce al pubblico nuove suggestioni e nuovi spunti di riflessione sui loro percorsi artistici. Comune di Cotignola Sindaco Luca Piovaccari Assessore alla Cultura Federico Settembrini 7


C’è un’espressione tipicamente nordamericana che per definire il primato della sostanza sulla forma metaforizza un ?tutto carne e patate?. Se proprio l’arte è il terreno ossuto destinato a far avvizzire una locuzione apparentemente inattaccabile, non così si può affermare dell’esibizione “in due parti” di Moreni/Samorì in ordine al particolare contesto in cui si cala. La disciplina della carne è il punto d’arrivo del nuovo sguardo sul contemporaneo e sull’arte contemporanea che Rimini ha scelto di volgere nel 2011. Immersi nell’acquario delle mostre “minestrone”, dopate di numeri e dai media, Rimini quattro anni fa ha preferito imboccare una direzione in senso contrario, restando leopardianamente al di qua della siepe. La scoperta e la riscoperta del “giacimento artistico romagnolo” e i suoi fitti legami con l’universo è diventato il nocciolo di un progetto pubblico in cui l’apporto artistico tracimava le sale, le teche, i cartelloni delle stagioni culturali per crescere a elemento di riconfigurazione integrale della città. Il lavoro è stato fitto ed enorme, soprattutto nel momento in cui la soluzione più facile sembrava essere l’altra: attingere alla pentola del minestrone, che piace un pò a tutti. Oggi, però, a distanza di 1.500 giorni, Rimini rivendica una sincera, cercata e trovata centralità nelle dinamiche della contemporaneità italiana, a partire dal più puro dei “glocalismi”. Un sentiero poco battuto che adesso diventa strada sicura, una strada che in regione è condivisa, nello spirito e nell’impegno, solo da Cotignola e dalla encomiabile rassegna Selvatico. La disciplina della carne allora è la stazione dove, dopo tanto cammino, ci si può sedere, allungare le gambe e ordinare un pasto ricco e sostanzioso. “Cameriere, scusi? mi porta un bel piatto di carne e patate?”. Andrea Gnassi, sindaco di Rimini

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indice

Massimo Pulini

Dissipazione e disciplina della carne.... 8 Galleria.............................................. 11 Massimiliano Fabbri

Pittura vs Natura................................ 53 Galleria.............................................. 60 Alberto Zanchetta

Tumul[t]o e [t]ripudio dell’immagine.... 86 Lettera di Mattia Moreni al collezionista Roberto Pagnani........ 88 Fotografie di Daniele Casadio negli studi dei due artisti.................... 90

Nicola SamorĂŹ 9


Dissipazione e disciplina della carne Il mio primo mercante di quadri era un macellaio e ogni volta che arrivavo a Finale Ligure, per consegnare gli ultimi dipinti compiuti, mi accoglieva in ghiacciaia, nella grande stanza frigorifera che stava sul retro della sua bottega. Parlavamo di pittura mentre continuava a lavorare, fumavano fiati e vestiti, in quel luogo lastricato di zinco, abitato da quarti di bue scuoiati e disseminato di cadaveri d’agnello appesi, a testa in giù, ai robusti ganci d’acciaio che avevano la forma di una S nordica, guerriera. Mi sembrava che nelle sue mani fosse un pennello sapiente a separare le parti muscolari dai nervi, a estrarre le costole dai toraci, con una precisione e perfino un’eleganza che diveniva scrittura, rapida calligrafia del mestiere. Malgrado fossi già vegetariano osservavo con ammirazione Mario Valente che sapeva sezionare, in pochi minuti, quel Rembrandt in carne e ossa nei differenti tranci, che prendevano nome e funzione, taglio e destinazione. Anche per questo ogni volta che, per contro, vedo un artista che usa il pennello al pari di una lama penso alla carne della pittura e sono spinto a ricordare quei discorsi liguri fatti tra morte e mestiere. Sin dal titolo, la mostra, parla di Disciplina della carne, anche se aggiungerei il termine dissipazione all’ossimoro che ne deriva, per meglio chiarire l’antinomia che sta tra rigore e sprezzatura, tra la fisicità e la speculazione estetica. Ho conosciuto Mattia Moreni e non era di certo uno che lasciasse sottintesi o che parlasse tanto per via di metafora. I suoi discorsi e la sua pittura erano qualcosa di diretto, di potentemente tangibile e sessuale. Moreni era privo della mano destra e dipingeva come un cinghiale furioso, che si fosse autoamputato la zampa per sfuggire a una tagliola. Pareva avesse acquisito, una volta per sempre, quella crudezza e quella radicalità necessaria a certi geniali artisti, che sanno affondare il pennello nel cuore della pittura. Mattia era dunque lui stesso carne ferita, era un corpo impetuoso e sfrontato. Volendo, lo si può ancora immaginare nudo, cosparso di peli e baffi di setola, mentre dipinge angurie 10

sguaiate. Guardando quei quadri umidi e adiposi di colore, sensuali e irridenti, sembra evidente che, da lui, la pittura fosse intesa come perenne e ossessiva pratica erotica. La materia cromatica condivideva le vischiosità e gli abissi del sesso femminile, le morbidezze e i sudori dell’amplesso. Sono in particolare le tele degli anni Cinquanta e Sessanta che restituiscono quell’energia vitale e quel crinale appenninico che sta tra la forma primaria e l’informale, tra l’inguine e la tavolozza. La figura fisica di Nicola Samorì e lo spirito gentile che lo contraddistingue, non potrebbero essere più distanti dalla visione dionisiaca e rupestre, satiresca e luciferina, che mi sono fatto di Moreni. Nicola è chirurgico e filosofico, minuto e insospettabile. Tuttavia si potrebbe rivelare, agli occhi di qualcuno, un serial killer dell’arte, un maniacale orafo della ferocia. Per lui la pittura ha sette strati di pelle, come la nostra carne, come i nostri pensieri e un grado d’imbalsamazione traspare da quel cristallino processo esecutivo. I suoi dipinti, irrorati di memoria e di bellezza, sempre raffinati e mai grevi, giocano sull’equivoco autolesionistico dell’artista. Le sue opere mettono in scena una continua tendenza suicida, non dell’autore, semmai della stessa pittura. Nicola scarnifica la storia più elevata dell’arte, per sondarne la radice, per scoprirne le nervature, il biancore dell’osso, per condividerne la primigenea esperienza del dramma. L’affondo di quella lama è spinto oltre il limite della tortura, per annientare il rischio del compiacimento, annichilendo ogni residuo possibile di decorazione. La superba qualità di ciò che rimane ha forza irradiante e contagia di uno splendore nero anche l’atto della macellazione. È in questo epicentro carnale che trovano incontro, a qualche decennio e a qualche generazione di distanza, due artisti come Mattia Moreni e Nicola Samorì che, attraverso l’apparente dissipazione del talento e la disciplina della pittura, hanno saputo fecondare la medesima terra. Massimo Pulini


Nicola SamorĂŹ Il pasto (part.) 2012, olio su rame, cm 100x100 AmC collezione Coppola 11



Nicola SamorĂŹ La Naissance des seins (part.) 2014, tecnica mista cm 270x60x45 Rosenfeld Porcini Gallery, Londra 13


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Mattia Moreni Le angurie non ci saranno piÚ – come le donne non faranno piÚ bambini... 1970, olio su tela, cm 38x90, (Le Calbane Vecchie) collezione privata Mattia Moreni Il ricordo di un melo 1968, olio su tela, cm 65x70, (Le Calbane Vecchie) Modena collezione privata 15


Mattia Moreni Una grande ferita al fianco, o il principio della fine 1974, olio su tela, cm 260x360 (Le Calbane Vecchie), collezione privata 16


Mattia Moreni Il campo che ne ha veramente abbastanza dell’ammoniaca e dell’acetone dell’ANIC esplode e muore (o l’agonia di un campo) 1969, olio su tela, cm 250x360 (Le Calbane Vecchie), collezione privata 17


Mattia Moreni Un’anguria in disfacimento o della lontananza 1973, olio su tela, cm 120x120, Galleria d’arte contemporanea “Vero Stoppioni” Santa Sofia 18


Nicola SamorĂŹ Soluzione, 2009, olio su rame, cm 100x100, collezione privata 19


Mattia Moreni Anguria con la neve 1965, olio su tela, cm 47x90 (Moulin Rouge), Modena collezione privata 20


Nicola SamorĂŹ Eraser (part.) 2008, tecnica mista su carta applicata su tela, cm 230x400 (dittico), collezione privata 21


Nicola SamorĂŹ DArgilla 2013, olio su bachelite, cornice antica, cm 29,3x22,3, collezione privata 22


Nicola SamorĂŹ Vogliono rifare il gibbone 2013, olio su tavola, cm 40x30, AmC collezione Coppola 23


Mattia Moreni Un pezzo drammatico di anguria 1970, olio su tela, cm 100x130 (Le Calbane Vecchie), Ravenna collezione Ghigi Pagnani Mattia Moreni Un piccolo gorilla 1972, olio su tela, cm 45x45 (Le Calbane Vecchie), collezione privata 24


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Nicola SamorĂŹ Carmine 2007/2008 tecnica mista su carta applicata su tela cm 230x150, collezione privata 26


Nicola SamorĂŹ Carmine 2007/2008 tecnica mista su carta applicata su tela cm 230x150, collezione privata 27


Nicola SamorĂŹ Fossilefontana 2005, tecnica mista su carta applicata su tela, cm 150x180, collezione privata Mattia Moreni Un melo bianco curato a lungo con gli anticrittogamici.... 1967, olio su tela, cm 270x270 (Le Calbane Vecchie), Parigi collezione privata 28


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Mattia Moreni Tragica come un’anguria americana assassinata sul campo 1970, olio su tela, cm 60x162 (Le Calbane Vecchie), collezione privata Nicola SamorÏ Vierge Noire 2014, tecnica mista, cm 67x225x36, AmC collezione Coppola 30


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Mattia Moreni La povera anguria americana – infine – entra nel fienile delle “Calbane Vecchie” e posa sulla pelliccia di gorilla come la prima “Orizzontale di lusso” 1969, olio su tela, cm 90x215 (Le Calbane Vecchie), Modena collezione privata 32


Nicola SamorĂŹ Vomere 2013, olio su tavolo, cm 69,5x200,5x70,5, Sondrio collezione S. Baruffi 33


Nicola Samorì Corpo d’Estasi 2012, olio su lino, cm 200x300, AmC collezione Coppola 34


Nicola SamorĂŹ Thaw 2013, olio su lino, cm 150x200, collezione privata 35


Nicola SamorĂŹ Tower 2012, olio su lino, cm 200x100 collezione privata 36


Mattia Moreni Immagine 1958, olio su tela, cm 195x97 (Parigi) collezione privata 37


Nicola SamorĂŹ Senza titolo 2013, olio su tavola, cm 31x21, collezione privata Nicola SamorĂŹ Il digiuno 2014, olio su rame, cm 100x100, collezione privata 38


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Mattia Moreni Baracca incalcinata 1963, olio su tela, cm 114x195, collezione Maria Francesca Moreni 40


Mattia Moreni Ancora verso un paesaggio 1961, olio su tela, cm 130x195 (Moulin Rouge), Ravenna collezione Ghigi Pagnani 41


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Mattia Moreni Grande immagine di legno nel paesaggio 1963, olio su tela, cm 130x195 (Moulin Rouge), Parigi collezione privata Mattia Moreni Paesaggio con apparizione 1962, olio su tela, cm 170x190 (San Giacomo), Ravenna collezione Ghigi Pagnani 43


Mattia Moreni Immagine bianca 1961, olio su tela, cm 114x146 (San Giacomo), Ravenna collezione Benito Righetti 44


Nicola SamorĂŹ Sodoma 2015, olio su tavola, legno, cm 84,5x37 collezione privata 45


Nicola SamorĂŹ Maddalena 2010, olio su tavola, cm 70x50, AmC collezione Coppola 46


Mattia Moreni Un’anguria come la morte e come la luna 1965, olio su tela, cm 160x195 (San Giacomo), collezione Maria Francesca Moreni 47


Mattia Moreni La vulva flipper tramonta 1982, olio su tela, cm 130x195 (Le Calbane Vecchie), collezione privata 48


Nicola SamorĂŹ Manto Minimo 2011, olio su tavola, cm 70x50, AmC collezione Coppola 49


Mattia Moreni Una crisalide siderale. Rotaia N째1. Siderale, pallidissima nel ricordo... 1993, olio su tela cm 200x180 collezione privata 50


Nicola SamorĂŹ La Faccia del Figlio 2012, olio su tavola, cm 40x30 collezione privata 51


Nicola Samorì Il vizio della Croce 2014 Onice aurora, rame, ferro, cm 81x34x31,5 collezione privata Mattia Moreni La divenuta atrofica lì dov’è solo per la pipì 1981, olio su tela, cm 120x120 (Le Calbane Vecchie) Parigi collezione privata 52


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Pittura vs Natura

L’arte ha qualcosa di scimmiesco Romeo Castellucci Un corpo allungato e languido, sdraiato e molle. Sfacciata offerta. Forse incapace di rialzarsi, lento come un sogno. Se ne sta disteso su di un’erba folta, mossa dal vento come in un bucolico paesaggio alla Miyazaki. Ma l’erba è acida, di un grigio che vira al verdastro, o giallina, come sbiadita per mancanza di luce, cresciuta sotto, umida di nebbia e succhi più o meno acidi. Provare ad accarezzarla magari, e sentirla incresparsi tra le dita: freme, si scuote, ed ecco intuire un pelo scuro e tremante, pronto a scattare, pelliccia di animale non ben identificabile. Tappeto o trofeo di caccia su cui sperimentare l’unica condizione possibile concessa a queste porzioni e dettagli ravvicinati di corpo, quella orizzontale. Divaricata e cinematografica, come panorama. Una grande anguria abbandonata sulla scena a cui talvolta sembrano spuntare accenni di arti, da subito leggibili come amputazioni e mutilazioni, crescite fin troppo simili a perdite, rinunce genetiche e impossibilità evolutive. Mai oltre all’incavo bello dietro il ginocchio. Nessun ventre, o tutto ventre. Quasi dee madri della fertilità a cui è dato un unico segno verticale, un sesso più o meno dischiuso che apre contemporaneamente all’interno e al mondo che sta fuori. Soglia. Porta di una notte insondabile e misteriosa. Chiamante e attirante. Asimmetrico centro dell’immagine che inchioda pornograficamente lo sguardo e confonde le percezioni ai margini del campo visivo fino a sfumarle nell’indistinto e sfuggente. Ambigue metamorfosi che non si completano mai restando aperte e sospese; e il corpo che sembra

adesso un gigantesco verme cieco, enorme animale sputato dal mare, pesante e floscio pene non molto dissimile a certi viscidi lumaconi che si vedono al mattino quando si dorme sul prato. Presenze che per mancanza di scheletro si adattano e conformano all’ellisse, all’oblungo e osceno inspiegabile primitivo. Quel che resta del corpo da mutazione e regressione: morbide rotondità dotate ormai solo di vagina; così deve aver visto e sentito le angurie nel campo, illuminate dalla luna, il giovane che in Suttree, di Cormac McCarthy, fotte avidamente i cocomeri, che sembrano aspettarlo, dono generoso e segreto a cui è impossibile rinunciare nonostante il rischio concreto di essere beccati con i pantaloni abbassati a devastare il campo come una piaga grottesca e assurda. Una distesa di sessi profumati e lui che si sente impazzire e non resiste, e bulimico, cerca di prenderne e penetrarne più che può. Pelle lucente e tesa, velluti, carne umida dentro. Pozze. Affioranti venature blu. Labbra e fioriture. E lui che s’inginocchia. Tutto bellissimo. Altrove una testa, quasi la stessa forma aliena primordiale vista prima, ma issata sulla sua verticale, resistente presenza monolitica. Mandorla e cattedrale. Memoria del volto. Rovina. Reperto già musealizzato. Uno strano allungamento del cranio. Cascami di pelle, crolli e sgretolamenti sparsi. Lievi accumuli e filamenti arricciati a terra. Anche la testa è prevalentemente bianca, screziata di marmi preziosi e vene e tensioni affioranti di tendini, ma di un bianco diverso se non opposto per temperature e ragioni, notturno, subacqueo e lunare quello delle angurie, come sbiadito, slavato e corroso da troppa luce questo. Sferzato e spolpato

Nicola Samorì L’occhio Occidentale 2013, olio su rame, cm 100x100, collezione privata 55


da venti siderali che portano via particelle e brandelli. Bianco duro, desertico inaridito freddo; secchezza di pelli e strati che si squamano e sfogliano inesorabilmente. Croccanti cartilagini. Testa fossile combusta e corrosa. Voragini interne a spalancarsi e altri piccoli buchi congiungibili come mappe e sconosciute costellazioni. Carne contro pietra verrebbe da dire, ma troppo facile riconoscere e distinguere esclusivamente vita da una parte e morte dall’altra, che questa rischia di essere una lettura un po’ affrettata, possibile certo ma non esaustiva; che il rovesciamento è presente dentro la ferita, dietro, nel pensiero che guida il gesto a far cadere infine il colpo, colpo premeditato e atteso, nello scavo che scoperchia e svela brutalmente altre carni pulsanti e irrorate e verissime nella loro finzione pittorica smaccata, nello squarcio che rovescia la sensualità e il richiamo della bellezza in abbandono, crimine e colpa. E lo spettatore che si trova, capogiro perfetto, a scorticare Marsia, e a ripercorrere a ritroso, con in un dipinto non finito, la stratificazione di carne della pittura, a lacerare e ricomporre i suoi tessuti in un’oscillazione che non offre tregue o sponde. Somigliante decisamente all’inganno. La trappola è scattata. E noi, non vogliamo andare via. Questa è l’immagine baby. Un bianco della nudità, un altro delle ossa. Un rosa tra il sensuale e l’acido, il crepuscolare e il dolce in varie e molteplici e sensibili gradazioni, e uno che non è più carne ma sangue ossidato, colore antico, ruggine. E chissà, forse le forme in partenza erano quasi sovrapponibili nella loro turgidità sbocciante, ora non più o, per inverso, una tende inconsapevolmente all’altra e non si incontreranno mai se non per un momento alla Benjamin Button: una già ammiccante alla decadenza e ipertrofia, possibile che la divaricazione delle quasi gambe arrivi al punto massimo, poi solo lacerazioni e strappi, e il sesso che diventa slabbratura, stupro e squarcio omicida a spargere di umori e liquidi e sangue fino ad annerire e far marcire tutto; l’altra, in cui il processo di dissoluzione è fondativo, destinato a progredire e corrompere fino forse a ritornare alla grotta uterina, al nido e luogo del possibile, alla tenebra, o alla perfezione candida e misteriosa dell’osso di seppia, al tutto bianco immacolato della tela. Alla forma dell’uovo. 56

Giocando a inseguire paradossi, da una parte un segno che è vera ferita inferta sul fianco vergine dell’anguria, dall’altra un assedio lento, reiterato e meditato sul corpo e pelle della pittura. Un gesto che, sia in Moreni che in Samorì, per indicare e condensare vita, uccide mostrando se stesso nell’atto. Che il problema e la fascinazione qui è sempre l’immagine, la sua presenza ottusa, insidiosa e irrinunciabile. E in entrambi gli artisti un ricorso all’iconoclastia, a questa ribellione e rivolta che non nega le figure ma le modifica profondamente, cambiando e caricando di segni e sensi le cose; pensiero e azione che rinnovano e reimmettono verità bellezza dolore rilanciando la visione con elegante e distaccata violenza. Ossimori e capovolgimenti. Drammaticità della pittura, artificio quasi naturale per l’uomo. Linguaggio primario e suoi echi infiniti schiaccianti. Citazioni ed esercizi di disubbidienza. Un corpo a corpo non solo ascrivibile alla relazione innescata tra i due autori da questa mostra, ma prima ancora a una forza, attrito o tensione interne presenti nella pittura di entrambi: pittura sospesa e carica di ambiguità, per dirla con parole di Fabio Cavallucci riferite a Moreni, “alla seconda”. Da un lato una sorta di richiamo della foresta, dall’altro la necessità di una costante riflessione intellettuale ovvero la ricerca della giusta distanza necessaria a equilibrare questa cascata e incendio romantico. A partire da procedimenti casuali e flussi di coscienza arginati e messi in discussione dal controllo intellettivo, verifica funzionante come operazione chirurgica, precisa ed esatta, spietata come incisione e taglio nella carne viva. Un doppio o secondo sguardo che non si presenta necessariamente in quest’ordine, ma che si ribalta senza sosta sino quasi a rendere indistinguibili i due procedimenti e tensioni che finiscono per intrecciarsi e ricaricarsi di senso vicendevolmente. Una dualità contenuta pienamente dalla definizione di “finta materia”, da una specie di eco sempre udibile nel quadro o, rubando le parole a Moreni stesso, un “inno alla lontananza”, l’ultima immagine o quel che ne resta prima della sua perdita e sparizione. Che la pittura tiene entrambi gli umori, con contraddizione interna e fondativa a cui non si sfugge, ferita e frattura insanabile tra natura e artificio, tra finzione e materia. Una certa casualità imprendibile della pasta pittorica. La ricerca di un equilibrio e la sua rottura e spezzatura, lo scarto e la ripetizione in varianti quasi pop; il peso della materia, la violenza e urto a fare da


controcanto alla velata leggerezza, astratta e sublime della pelle pittorica. E la voragine, quello spazio indefinibile e immenso rappresentato dalla tela, spazio della mente e gorgo sprofondante, schermo e superficie pura, zona grigia in cui si incontrano e sovrappongono, a tratti, le sapienti pitture di Samorì e Moreni, percorsi all’apparenza agli antipodi, imprendibili, pronti e repentini nel cambiare di segno, testardi e ossessivi nel prolungare lo scavo, l’assalto e assedio all’immagine, e sue varianti molte fatte di spostamenti graduali, prese di distanza e avvicinamenti al nuovo che attende acquattato e rabbioso come cane feroce. Pratiche pittoriche dialoganti sempre con la storia della pittura tutta. Immagine ritornante, fantasma e memoria, pastiche: archivio degli ultimi oggetti del mondo dipinti in espressionistici addii, la firma tremolante e troppo grande di Morandi, quadrati di Malevic putrefatti, marci e ridondanti, spesso l’ombra del compagno Van Gogh, le materie pestate e sorde di certi Bacon. Immagine: in uno incubo, nell’altro ritrovamento; testimonianza su cui testare l’ultima resistenza prima della sua stessa possibile sparizione e abbandono. Un buco nero a cui forse sembrano tendere entrambe le pratiche pittoriche, e buco nero assoluto che, certo, non si avrà mai perché è proprio nella pasta pittorica, in questo magma e letame debordante che si creano visioni futuribili, profezie dal passato, fenomeni e altri fertili cortocircuiti e gemme con potere sbocciante ed esplosivo, forma sensuale o spaventosa, sempre generativa. Assalto e assedio, il primo è di Moreni, il secondo di Samorì. Assalto in Moreni che la pittura è sempre danza furiosa, esplosione del gesto e accelerazione improvvisa ed erotica che tocca i nervi e i tessuti dell’immagine scuotendone e confondendone i significati. Esplosione contenuta e riversata nella figura, debordante nello sfondo come se l’immagine stessa non reggesse l’urto e si schiantasse con fragore di tuono, sfilacciandosi poi in delicate sinfonie di pennellate via via più lievi e segni delle dita e svolazzi che lambiscono il tenue anche, e accolgono, in zone periferiche del quadro, negli interstizi e angoli al riparo dall’epicentro della battaglia, approdi momentanei e contemplazioni, felicissime riserve e ristagni, struggenti memorie di magnifico colore squillante. Che l’energia si accumula e concentra quasi al centro della tela dove insistono e guerreggiano le pennellate

e si addensa la materia in un scontro e incendio che divampa centrifugo e vorticante. Che irradia e disperde energia entropicamente. Ma questa è una furia sempre indirizzata, intelligente, arginata da un controllo superiore, lasciante spazio a sbuffi e derive, a pause tonali quasi nascoste ai confini e margini dei tafferugli più aspri e violenti. Fondi di calma piatta e pentimenti che preparano il campo a larghe pennellate quasi zen, improvvisi cambi di ritmo e spatolate muscolari a risolvere e cancellare parzialmente, a spostare come terremoto o onda che attraversano il quadro. E ancora sfarfallii a disperdere e volatilizzare nell’aria elettroni particelle scintille, a scaricare l’accumulo ed eccesso di energia che rischierebbe altrimenti di distruggere sommergere annichilire tutto. Pittura che in Moreni costruisce quasi tautologie segniche e architettoniche: legioni di pennellate che si dispongono in schiere parallele e ortogonali e poi sembrano impazzire e anarchiche scappano via, con curve anche, e non più addomesticabili, come guidate da un demone interno. In Samorì l’assedio, ovvero la strategia implacabile che serra l’immagine a sfinirla, a portarla all’estremo punto di tensione, e relativa rottura e cedimento, svelante il meccanismo che la governa e sostiene. Un gioco al massacro che costringe l’immagine a uscire allo scoperto, per denudarne beffardamente quel che sta sotto, dietro, anticamente prima di lei. Sipario strappato. Procedura di scavo insieme mentale e geologica. Pittura ricomposta come cadavere da rianimare in laboratorio attraverso scariche di gesti irrimediabilmente lontani ed echi di pentimenti, bobine di Tesla, memorie di fallimenti e segni vergini di una pittura arcadia a cui tendere nel bel mezzo di catastrofe & tempesta. Si tratta probabilmente di false negazioni e insidie disseminate come trabocchetti, che il mostrare solo l’ombra della belva sembra permettere ancora, amorosi e rapiti, di mettere in salvo e proteggere quel che resta di un atlante e archivio troppo denso e carico, e logoro ormai anche per poter essere decifrato pienamente. Illeggibile stele di Rosetta. Infranta. E, per non soccombere, travolti e inghiottiti dalla processione di figure e profili che la pittura sempre chiama a sé, fare i conti con questi spettri e voci lontane e richiamarli ancora fino a congelarli nell’ambra, fissandoli come fossili o farfalle. Orfeo che si volta. Un impianto che, nel condurci e sperderci dentro al labirinto di un presente popolato di immagini, mostri e canti di sirene, nel 57


rogo appiccato alle nostre spalle in questo mare scuro in cui affiorano corpi, oggetti e quadri alla deriva, rivela allo sguardo bagliori e bellezze non ancora del tutto perdute, frammenti intatti e incantevoli, inni alla durata; e in questo ricreare artificiali panorami lacunosi e sfatti diorami, ci mostra il fantasma attraverso una radiografia, la ferita insieme alla sua cicatrice e, soprattutto, l’alfabeto incredibile e infinito della pittura, con tutto il suo bagaglio e registro di sfide, beffe, genialità, invenzioni e sconfitte, di Frenhofer e capolavori sconosciuti. Il punto qui è allora una sorta di cortocircuito o citazione elevata a potenza, non solo nei confronti di opere, visioni e artisti amati ma, contemporaneamente, un omaggio e dialogo senza fine con l’atto stesso del dipingere, smontandolo e offrendolo anatomicamente nelle sue parti, rivelando e portando in superficie quel che solitamente rimane sepolto negli strati della pittura, negli abissi della mente dell’artista o al riparo, inespresso, nel suo studio. Va da sé che l’atto del dipingere tutto possa essere considerato fuorché spensierato, che qui assedio significa narrazione e teatralizzazione del dipingere, preparazione, o meglio, ricostruzione scientifica di un crimine. Pittura come riflessa, mai diretta, anche nei suoi esiti all’apparenza più carnali. Scheletri e maschere. Sia per Samorì che per Moreni l’immagine deve perciò subire una sorta di aggressione o irrispettoso trattamento di ribellione che ne testi resistenze ultime e possibilità nuove e altre, a restituire infine un moto di drammatica sorpresa che scuota il sistema nervoso, e produca slittamenti e spiazzamenti simili in questo al trovarsi di fronte a un accadimento potenziale e latente che ci stana e chiama in causa direttamente noi, che guardiamo. Ecco allora le finte materie, pelli e strati di pittura coltivati con cura, poi crudelmente asportati e tagliati di netto, pelli ricucite e applicate altrove in una poetica e discorso che, mentre strizza un occhio all’archeologica, con l’altro inganna e depista amplificando la casualità di un segno o di una traccia che, tramite esatta ricostruzione, sembrano rimandare e appartenere all’immediato e gestuale, minando così riferimenti e abitudini visive. O superfici lasciate cadere e cascare e staccarsi come sacchi svuotati, memori del penzolante autoritratto di pelle di Michelangelo. Pittura che anela alla scultura. 58

Scivolamenti e ammiccamenti tra gesti primari e il loro essere riportati e ingranditi su altra e vasta scala, attraverso un processo di copia e traduzione che è sempre decontestualizzazione e tradimento. Un’impronta di polpastrello, alla Medardo Rosso o Rodin per intenderci, sulla figurina di cera o argilla fresca, piegherà e scaverà il marmo come sotto la pressione di un invincibile gigante. Cosce e fianchi in cui sprofonda sensuosamente una mano improbabile e immaginaria. E cortocircuito tra linguaggi sono anche i teatrini, piccole scatole assemblate, fotografate e poi dipinte su grandi tele a innescare una circolarità tra scultura e pittura, ambiti che in Samorì da sempre dialogano, si nutrono e alimentano a vicenda. La messa in scena della spinta creativa che coincide con la corrosione del tempo e delle cose attraverso sapienti e segreti procedimenti alchemici, mirabilie tecniche come se il fare già dovesse inglobare in partenza la sua finitudine e dissoluzione futura. Corruzione della materia anticipata e ricreata in vitro. E teatrale in Moreni è prima di tutto l’offerta dei corpi, l’attesa delle gambe aperte, il vojeurismo, il ritorno a sterili origini del mondo ora violate brutalmente ora carezzate dalla pittura più dolce e sexy possibile. Le sue finte materie sono tante ed eterogenee, come i materiali organici e non che ingloba e inghiotte quel grande blob che è la mistura; architettura-scultura di scarti, palinsesto caotico dove saltano i due concetti, e relativa separazione, dei regni di natura e artificio: il naturale è artificiale, l’artificiale è naturale; l’accumulo e spazzatura diventano crescita biologica, il corpo morto osceno e inservibile rianimato dal gesto demiurgico e folle dell’artista che attiva l’innesto elettrico. La materia insensibile che ora pulsa. Croste e avanzi di pittura ormai sterile che ritornano carne fertile; trofeo di Barbablù o didascalico bassorilievo che isola porzioni di corpo presentandole come in un museo anatomico delle cere. Ammassi e accumuli grigioneri che si depositano anche nello studio di Samorì a formare paesaggi e montagne, plastici dell’abbandono, scarti e resti del lavoro, strumenti ed errori, esperimenti non del tutto riusciti che si dispongono come eserciti sconfitti sui tavoli, in attesa di altre mancanze sparse, o


gettati a terra alla rinfusa, come si conviene ai rifiuti, con la speranza forse che le cose e i pezzi si cementino e saldino tra loro diventando scultura autonoma, anch’essi involontaria mistura; geologia e visualizzazione tattile del tempo. E così, dentro a questo incrocio battuto da venti e attraversato da forze centripete e centrifughe, in questo spazio in cui si inscena l’accadimento tragico, in balia di maree e altri agenti atmosferici, i fulmini a rischiarare la notte e incenerire le cose, due autori affiancati pericolosamente per un momento, che sempre guardano alla pittura e all’immagine con una sorta di strabismo che li cala necessariamente dentro, giù, immersi con le mani in questa pasta grassa e debordante, e pure fuori al tempo stesso, a farsi beffe di questa carne grottesca, a ricordarci dell’impossibilità lineare della favola. A imbrigliarla e addomesticarla poi questa pittura proprio nel momento in cui sembra le si conceda più spazio. A prendere distanze e osservarla come su di un tavolo di obitorio. Pittura prodotto mentale e impulso primario. Pittura discorso e demone. Che la pittura è la carne, la combustione, il procedimento e il meccanismo messi in atto per testare la figura, e figura che resta classicamente, pur se irrimediabilmente mutilata, il centro stesso inevitabile, necessario e insopprimibile dell’immagine, verrebbe quasi da dire la sua anima, frammento in cui si concentra e conserva l’ultimo fragile commovente urlante sentore di vita. Il quadro è così una messa in scena o rituale da teatro anatomico o esperimento genetico, tra lo spietato e il ridonante, un incendio procurato e doloso a sondare e portare al limite estremo l’ultima resistenza dell’immagine, o dell’icona, forse anche del simbolo, nel tentativo di ricaricarlo di senso, sensi e ambiguità. Il che significa vita e movimento. Un assalto premeditato che è di entrambi, un rito iconoclasta, l’eco di una violenza, il suo fantasma, anche delicato e soffice, commosso talvolta. E la pittura ancora, con tutto il suo carico di casualità, anarchia e stupore. Stupore che, per quanto sembri inutilmente romantico, è l’unico requisito alla sopravvivenza dell’immagine. E poi l’ombra, condizione della pittura stessa: mancanza, figura sacrificale, futuro e possibilità. Caverna. Interni che covano come sotto la cenere e sbocciano ed esplodono in

frammenti e lacerti grondanti colore. Ferite e scavi. Spore e pollini che viaggiano nell’aria. Depositi. Rocce laviche e meteoriti. Funghi, muschi e muffe. Patine. Abbandoni sempre. Questo imprendibile “due”, di arcangeliana memoria, o condizione strabica di distanza e mani sporche è la bolla luminosa e luccicante, l’inganno in cui si intersecano e ritrovano i dipinti di Moreni e Samorì. E ancora, cercando convergenze e risonanze tra i due non possiamo non accennare agli autoritratti di Moreni, diario reiterato e sciamanico di un Rembrandt ormai vecchio e sclerotizzato, decisamente stufo della psicologia e pronto a farsi beffe del mondo a partire dal proprio volto, arma, muso di animale, maschera carnevalesca e grido punk del senza tecnica che riesce finalmente ad appropriarsi, coraggio assai raro, del brutto, non solo antigrazioso; e poi la decorazione come atto libertario e affermazione rivoluzionaria. O l’autoritratto zelig di Samorì che si fa carico di infiniti volti e altrettanti modi di dipingere e sensibilità disperdendosi in una sorta di immensa mappa del mondo alla Borges che finisce per tracciare e rivelare niente altro che il proprio profilo, come rilanciato da uno specchio. Ad accomunarli in questa ricerca e ossessione, una solitudine estrema come compagna nel cammino percorso, solitudine che è forse è del dipingere stesso, condizione inevitabile per poter bucare la superficie e ritrovare un’immagine in fondo al pozzo; ed estrarla, e offrirla poi. Incastonarla questa gemma e pietra in una pittura che ha ventosità interne, che scuotono e fanno le cose vibranti, attorcigliandole in spirali e volute barocche contrapposte a levigate e pacificate superfici irreali e scintillanti. Con forze nel quadro, una centrifuga che porta all’esplosione che irradia e disperde, e una centripeta che fa implodere le figure fino a farle crollare su se stesse, e accasciarsi come per troppo peso specifico, e ancora sommovimenti e cedimenti interni. Niente si perde mai per sempre. Solo le forme più primitive sopravvivono. Questo l’annuncio segreto. La mostra mette in scena un corpo a corpo tra due autori che della fascinazione e ossessione per la materia hanno fatto non solo un centro e snodo vitale della loro ricerca, ma anche un 59


punto di partenza e approdo per una continua riflessione sulle possibilità e limiti della pittura stessa, così come, parallelamente, sulla irrinunciabile drammaticità della rappresentazione e sul rapporto amoroso e conflittuale con le immagini. Un dialogo che mette in luce affinità e divergenze, contrasti nettissimi e sintonie profonde tra due artisti che, pur non essendosi mai incontrati, ci sono sembrati in molti modi e molteplici forme destinati a intrecciare per un momento i loro percorsi, a partire anche dalla tesi di Nicola Samorì su Mattia Moreni discussa all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2003, antefatto che può essere considerato come il primo riconoscimento di somiglianza e tentativo di avvicinamento da parte dell’artista più giovane. Il progetto, che finisce perciò per lambire anche la problematica e imprendibile relazione con il concetto di maestro (che Samorì trova nell’ingombrante figura di Moreni), si rivela in realtà, al di là di queste piste più o meno sotterranee o latenti, un complesso gioco di specchi e rimandi che permette di guardare a Mattia Moreni non tanto come a un profeta capace di anticipare correnti pittoriche e direzioni a venire, quanto a un artista estremamente sensibile, affamato e rapace, i cui dipinti non sembrano affatto scalfiti, segnati o invecchiati dalla patina del tempo trascorso. Che questi quadri sono immagini ancora brucianti, potenti e violente, una temperatura che ne denuncia e rivela la grande vitalità, energia e forza; ferita tuttora pulsante che offre a noi il fianco per costruire un percorso tutto al presente, in cui si affiancano e guardano due importanti artisti italiani che, nella sperimentazione e nella costante messa in discussione dello stile, senza per questo perdere in riconoscibilità, trovano uno dei principali punti di convergenza e al tempo stesso distanza, tanto che possiamo parlare di una ricerca che per entrambi, non solo si muove per cicli e periodi, ma che progredisce e muta per via di impercettibili spostamenti interni, intuizioni e casuali scoperte, slittamenti, terremoti e clamorose fratture infine. Scarti repentini incomprensibili se non alla luce di una capacità, nei due, di ascolto di quel che di più vitale preme e si affaccia nel panorama dell’arte. E, in questa sintesi di correnti e direzioni e forze contrastanti, di nervi all’erta e frementi, il furto diventa un luogo della sintonia, nella voracità e capacità di entrambi di tenere quel che si è visto e serve, dandogli spazio, e fagocitando tutto questo all’interno di nuove e altre geografie e pratiche pittoriche che di60

schiudono movimenti e traiettorie inesplorate in cui addentrarsi e ritrovarsi. Tra le ragioni della mostra è opportuno così tenere conto, ancora, di questa duplicità messa in atto dal progetto, una duplicità di sguardo prima di tutto, quello dei due autori, ma anche, in seconda battuta, una duplicità di luoghi, luoghi che hanno pensato e coltivato l’idea di questo incontro: Cotignola e Rimini, insieme, a creare un percorso espositivo che si ramifica e sdoppia in due sedi e sezioni distinte, decisamente differenti tra loro, eppure capaci di restituire e chiudersi in un’organica unità che abbraccia più compiutamente la complessità dei due artisti e la stratificazione di materie e significati e storie e interpretazioni. Museo Varoli e FAR che in questa occasione si congiungono e completano a tracciare una possibile mappa sulla pittura oggi e su due autori, infine, non poi così distanti. E che, in questa carne e pasta pittorica sensuale, e nella disciplina del gesto e tecnica che prova ad addomesticare la belva, trovano più di un punto di contatto e sintesi, di convergenza intellettuale prima ancora che epidermica. Mattia Moreni si è fermato, dopo vari spostamenti, in Romagna: un suo primo approdo in questi panorami lo vede proprio a Cotignola nel 1939, rifugiato in seguito al suo impegno politico, in un breve passaggio anche dall’artista Luigi Varoli (di questo rapporto di amicizia restano un paio di testimonianze nella casa del maestro cotignolese: una cartolina spedita da Moreni nel 1958 da Bruxelles e il pieghevole della sua mostra a Parigi del 1957). Poi, a partire dalla seconda metà degli anni ‘50, Moreni, com’è risaputo, tiene il suo studio, per quasi un decennio, nelle estati di Palazzo San Giacomo a Russi; in seguito verranno le Calbane Vecchie a Brisighella e Santa Sofia. Non che qui lo si voglia sospingere ulteriormente in Romagna come si è forse involontariamente tentato a volte, ma incontestabile il fatto che questo paesaggio sia divenuto per Moreni luogo d’adozione, testimoniato anche da alcune importanti e preziose collezioni private presenti sul territorio, indispensabili al prendere forma e precisarsi di questo progetto. Da questa geografia muove la mostra, mettendo in rete due città che hanno rappresentato, in questi ultimi anni, due importanti centri di riferimento per il contemporaneo e le arti visive in Romagna: su tutte la Biennale del Disegno di Rimini e il progetto


Selvatico, nato a Cotignola, cortocircuito tra collezioni museali, spazi non convenzionali e arte contemporanea che ha nelle sue corde e modalità operative, anche il coinvolgimento degli artisti attraverso uno sconfinamento di ambiti che comporta pluralità di sguardi e tentativi di congiunzione tra cose, luoghi e persone. E questa mostra esiste perché da subito affianca a Mattia Moreni, quasi in una sfida e intuizione, un artista vivente, Nicola Samorì, tra i migliori pittori italiani del presente, coinvolgendolo anche come una sorta di co-curatore e compagno di strada con cui si sono qui condivisi studi, scoperte, appassionate ricerche e snodi progettuali ed espositivi con il chiaro intento di restituire un Moreni, se non inedito, probabilmente meno visto e conosciuto; che la scelta delle opere in mostra è qui frutto di una selezione decisamente partigiana e arbitraria, di modi di vedere che, man mano che si sono affinati e addentrati nel trasgressivo labirinto moreniano, hanno finito per tralasciare alcune cose a favore di altri periodi, fasi e singole soluzioni che invece si prestavano meglio alla narrazione che si andava tessendo e alla ricerca di incastri, risonanze ed echi con i fantasmi e le combustioni di Samorì. Ecco allora l’epicità tragica delle angurie, i chiarori lunari e la mollezza opalina delle carni insieme al duro e polveroso bianco di ossa e marmi di Samorì, o le lumeggiature impazzite e taglienti come lame e rotaie, le incisioni, slabbrature e ferite, la lascivia decadenza invertebrata dei grandi corpi molluschi come spiaggiati, insieme ai resti accartocciati e schiacciati dalla gravità appartenenti all’altro artista; cera che scioglie e cola in un gialloverde malaticcio, cascami materici e luci livide violette, la pelle liscia levigata pallida e la dissoluzione e scorticazione inferta a questa candida superficie lattiginosa d’alabastro; o ancora la costruzione segnica, furiosa, gestuale e ortogonale delle baracche e legni e cartelli, insieme a teatri effimeri in cui si compongono precari frammenti, fragili architetture da niente fatte di reperti sparsi, rifiuti e accumuli; i notturni e le apparizioni potenti come incubi provenienti dal futuro, la battaglia e incendio dei bianchi e neri che convive sapientemente, e con certa sorpresa, con inattesi e struggenti passaggi tonali, e i grigi fangosi che dilagano a riprendersi il quadro, stringendo e coprendo sordamente l’immagine, seppellendola in ripensamenti e sconfitte pompeiane; e poi i marroni e i rosa, la carne, fino al volto come mappa e campo di battaglia... Un Moreni guardato inevitabilmente con occhi contempora-

nei, non da storici dell’arte, ma da altri artisti, e qui risiede probabilmente la particolarità del punto di vista messo in campo da questa operazione, che è scontro di chimica e molecole, fusione e dispersione, appropriazione indebita e disobbediente: perciò anche un Moreni lacunoso, parziale, non esaustivo antologicamente (anche se il numero di dipinti in mostra è considerevole), forse meno battuto, certamente vitale, dirompente e sfolgorante, ancora capace di stupire, colpire e ammaliare, di rilanciare domande, anche in questa occasione di confronto e attrito fertile con i dipinti e le sculture di Samorì. Moreni e Samorì è un incantamento, un rapimento violento, una doppia tensione che schiude pieghe dello spazio e del tempo in cui viaggiare e sperdersi, qualcosa di pericolosamente ambiguo che sta tra un tentativo disperato di restituzione, e un’immagine ferita a morte. Ovvero, qui almeno, e sempre in questi dipinti, vita. In entrambi gli autori un percorso che li proietta chiaramente in una dimensione internazionale, storicizzata e abbastanza digerita quella di Moreni (con alcuni fraintendimenti e ristagni però, forse alimentati a suo tempo anche dall’artista stesso) anche se meriterebbe certamente di più e molto, in brillante e vertiginosa ascesa quella di Samorì (a partire anche dall’invito a rappresentare l’Italia all’ultima Biennale di Venezia dove, tra maestri e atlanti warburghiani Samorì ha posto in quadreria un dipinto di Moreni stesso, insieme a un altro di Lucio Fontana (artista prezioso per entrambi i nostri). Di Mattia Moreni a Cotignola già si è detto, ma non di una sua mostra, a cura di Aldo Savini, fatta nel 1991 a Palazzo Sforza a partire da un’articolata indagine su quella sorta di cenacolo e cuore pulsante per la Romagna ravennate che fu la casa e la figura eccentrica di Luigi Varoli; da questa mostra, anche idealmente, si intende qui ripartire offrendo non solo un approfondimento sui due artisti presi in esame, ma anche tracciando e aprendo possibili e nuovi sentieri nel fitto del bosco, nella lussureggiante, buia e sensuale foresta della pittura. Massimiliano Fabbri

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Nicola Samorì Pillow 2012, olio su tavola, cm 32x21,5, AmC collezione Coppola Mattia Moreni Marilù muore: ciao... Perché? L’identikit artificato... N° 103 1995, tecnica mista su tavola, cm 31,5x30,5, Modena collezione privata 63


Nicola SamorĂŹ Piano del Pianto 2013, olio su tavola, cm 39x22, collezione privata 64


Mattia Moreni Maril첫 muore, ciao... N째 4 1993, olio su tela, cm 35x25, Modena collezione privata 65


Mattia Moreni Maril첫 muore, ciao... N째 6 1993, olio su tela, cm 40x25, Modena collezione privata 66


Nicola SamorĂŹ Le labbra di un idiota divorano se stesse 2015, olio su ferro, cm 30x22, collezione privata 67


Nicola SamorĂŹ Salt 2013, olio su tavola, cm 40x30, AmC collezione Coppola 68


Mattia Moreni Marilù muore, ciao... Perchè? N° 130 1995, tecnica mista su tavola, cm 30,5x31,5, Modena collezione privata 69


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Mattia Moreni Il Narciso o Mister Chimica 1976-1984 tecnica mista, cm 180 h. (con supporto) collezione Galleria d’arte contemporanea “Vero Stoppioni” Santa Sofia fotografia di Andrea Scardova Ibc Nicola Samorì Lepisario 2013, olio su rame cm 100x100, AmC collezione Coppola 71


Mattia Moreni Non rompete i tubi... Regressito consapevole 1972 olio su tela, cm 70x50 (Le Calbane Vecchie), collezione privata 72


Mattia Moreni Autoritratto N째48. A Rembrandt vecchio. RC RD 1992, colori su carta su tavola, cm 70x50 collezione privata 73


Mattia Moreni L’unico linguaggio dell’avanguardia è l’elettronica. Perché? RC RD. L’identikit artificato 1995, colori su tela, cm 61,5x45 collezione privata 74


Mattia Moreni La discoteca. Il vuoto non ha direzione. RC RD. L’identikit artificato 1995, colori su tavola, cm 60x50 Parigi collezione privata 75


Mattia Moreni La genetica nel computer – il computer nella genetica... PerchÊ? L’identikit artificato 1996, olio su tela, cm 60x50 Modena collezione privata 76


Nicola SamorÏ L’imperterrito 2013, olio su tavola, cm 31x21, collezione privata 77


Mattia Moreni Autoritratto N°18. Moreni a 69 anni di sua età , mesto, intubato pure lui accorciato mentale. RC asili patologici americani. A Fitzgerald olio su tela, cm 120x100 collezione privata 78


Nicola SamorĂŹ About Africans (gli occhi nel petto) 2013, olio su tavola, cm 40x30, collezione privata 79


Nicola SamorĂŹ Vomere 2013, olio e foglia di rame su lino cm 300x400, (dittico) collezione privata 80


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Mattia Moreni I semi hippies. I semi snaturalizzati impazziscono e tentano ma inutilmente di abbandonare l’anguria... 26 agosto 1974, china su carta, cm 51x69, collezione privata 82


Mattia Moreni Un mare di semi - come un liquame o mare di merda – semi-sommersi i manipolatori genetici, i laboratori di neurofisiologia tentano comunque di cambiare la struttura dell’uomo... E ancora e per fortuna il sorriso delle ragazze... 3 dicembre 1974, china su carta, cm 42x59, collezione privata 83


Nicola SamorĂŹ Senza titolo 2014, olio su tavola, cm 50x50, collezione privata 84


Nicola SamorĂŹ Senza titolo 2014, olio su tavola, cm 50x50, collezione privata 85


Mattia Moreni Una porno-baby ermafrodito 13 novembre 1973 china su carta, cm 69x52, collezione privata Nicola SamorĂŹ Le Sauvage 2015, olio su tavola, cm 100x100 collezione privata 86


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Tumul[t]o e [t]ripudio dell’immagine

Ci sono opere che non ci lasciano indifferenti, né indenni. Opere che, tra strazi e delizie, ci rendono impotenti sia fisicamente sia psicologicamente. Francesco Arcangeli scriveva che nelle opere di Mattia Moreni «il segno s’incarna per passare da segno astratto a colpo aggressivo, a dura ferita» mentre il gesto «dura al di là di se stesso, per incidere, o flettersi in lunghe estensioni, per non decadere da una sua qualità di vera “immagine”»1. Nelle opere di Nicola Samorì esiste un’analoga persistenza dell’immagine – seviziata, oltraggiata – che si impone come estetica della resistenza. Sopravvivenza che dovremmo considerare senza raccapriccio, accettando l’idea che la pittura non potrà mai essere addomesticata: la pittura è desiderio, dannazione, e forse redenzione. Entrambi gli artisti non replicano in modo sterile la storia dell’arte, in anni diversi ma con metodologie affini hanno inteso portare la pittura in una nuova scala evolutiva rispetto alla tradizione. Nell’ultimo decennio di vita, Moreni è stato sedotto dal talento dei senza mezzi; immedesimandosi nelle ingenuità e nelle turbe degli “asili patologici” ha abbandonato la tavolozza informale per concedersi accensioni cromatiche, vivide, eccessive, finanche aggressive. Sconvolte dall’avvento dei computer, le figure di Moreni prefigurano l’avvento di umanoidi e identikit artificati, di passati futuribili e regressiti consapevoli della “specie belle arti”. Né si inganni chi vede nelle opere di Samorì uno scavo (senza colpo ferire) nel passato; egli non è l’Ebdòmero descritto da Giorgio de Chirico come meditabondo: «era una delle sue principali debolezze quella di avere sempre una certa nostalgia del passato, anche d’un passato che egli non aveva nessun motivo di rim88

piangere»2. Samorì non cede al nostos, quell’insofferente “ritorno” a qualcosa di cui ci si vorrebbe riappropriare, insiste semmai nell’algos, un “dolore” sempre più acuto e atroce. Assodato che ogni ritorno presuppone una partenza, e che ogni partenza allude a una rinascita, Moreni e Samorì hanno osato sfidare i secoli, passati e futuri, mediante una collerica palingenesi. La pittura non conosce limiti né ostacoli, ma soprattutto non accetta la mediocrità e la banalità. Nelle opere di questa mostra ravvisiamo un rapporto nient’affatto mimetico con la natura, da parte di Moreni, o con la cultura, nel caso di Samorì. Malgrado i due artisti ci offrano una materia ispessita, il colore ci appare ancora molle e carnale. In Moreni assistiamo infatti a un trasporto erotico, un piacere perverso nel dipingere le atrofiche, vagine affette da atrofia delle ovaie (il diaframma non permette loro di figliare, devono limitarsi soltanto alle minzioni). Per lubrificare queste vagine Moreni deponeva i pennelli sui tavoli e usava i polpastrelli: dipingeva con le dita, ritrovando nel sesso femminile l’origine stessa – prima e pruriginosa – della pittura. La voluttuosità dei soggetti, che venivano titillati e allo stesso tempo violentati, continua a essere gravida di attese e di aspettative, e non v’è dubbio che l’autore fosse soggiogato da palpitazioni equiparabili all’innamoramento mentre sfogava la sua libido pittorica. Anche Samorì interviene con le dita nei quadri, talvolta vi affonda il proprio pennello o altre “armi improprie” per comminare all’immagine una sentenza di morte. Lungi dal voler mortificare la pittura figurativa, l’artista giunge all’iconoclastia che logora l’epitelio ma ridesta l’icona dal suo torpore, come fosse sottoposta a una scossa galvanica. Nel celebre Manuale del


boia, Charles Duff aveva constatato che «la storia dell’uccidere è la storia stessa del mondo»3. Coesistono in noi istinti vecchi di qualche milione di anni, ivi compreso quell’insopprimibile pulsione a uccidere che Samorì ha isolato dalla doppia elica del nostro DNA; l’arriére-douleur dei suoi dipinti si trasforma nell’agonia intellettuale dello stesso pittore, motivo per cui il colpo di “grazia” inflitto alle immagini non è mai ignominioso ma corrisponde a un atto d’amore, autolesionistico, infedele (perché tradisce e trasgredisce la tradizione). «La condizione del fare è l’ossessione»4 aveva sentenziato Moreni, affermazione che potrebbe sottoscrivere persino Samorì. L’uno e l’altro sono ossessionati, che nell’etimo latino significa essere “assediati”, assillati/abitati da immagini che diventano esiziali ai loro occhi e ai nostri sguardi. In questo Regno delle Furie muovono i loro passi Moreni e Samorì, circondati da scempi e asperità, da immagini dilaniate e identità espropriate. Si pensi alle cosce aperte di Moreni, con il sesso femminile in primo piano, la scriminatura del pelo pubico che ricorda delle lussuose/lussureggianti pellicce in cui giacciono delle “tragiche” angurie. Coltivati in ambienti venefici, questi frutti derivano dal periodo postcubista a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, saranno poi dissimulati in spicchi di luna e vittime di crimini efferati nel decennio dei Sessanta. Trent’anni più tardi sarà la volta delle Marilù, vulve – cromaticamente – acide, che l’ingegneria genetica ha reso infeconde. Il mestruo e i rivoli ematici cagionati da Moreni non sono dissimili dagli esangui delitti iconografici di Samorì. Che siano figure (lebbrose), animali (decorticati) o nature morte (in avanzato stato di decomposizione), ogni effigie è sottoposta al martirio, per ustione, vaporizzazione, amputazione, scorticazione o cauterizzazione. Ghermiti ai legittimi autori, i simulacri vengono sottomessi al sadico voyeurismo di piccoli diorami, e qualora non siano sommersi da spurghi

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o altre sostanze oleose finiscono per essere stravolti da smottamenti tellurici. Tra Maddalene antropofaghe, Cristi crocefissi a guisa di buoi macellati, cadaveri che vengono assimilati ai loro sudari, volti che franano come affreschi erosi dai secoli, neppure Samorì è digiuno di riconversioni iconografiche. Diversamente dai nostri musei archeologici, disseminati di anfore in frantumi e statue menomate, i soggetti di Samorì vengono rivivificati per recrudescenza, sfuggendo così all’imbalsamazione museale. Come un deserto che avanza inesorabile, nulla può placare la smisurata sete di vendetta che gronda dalle tele dell’artista. Evidente oltre ogni misura, la pittura di Moreni e Samorì è pervasa da nevrastenie e necrosi, da gestualità ulcerose e irascibili manierismi, nelle loro mani nulla resta illeso, men che meno il concetto di scultura. Se Willem de Kooning dipingeva – come lui stesso aveva ammesso – «pensando che il mio lavoro sarà, con ogni probabilità, un fallimento totale»5, Gilles Deleuze ha spiegato che «tra tutte le arti, la pittura è probabilmente la sola che incorpori necessariamente, “istericamente”, la propria catastrofe e, a partire da ciò, si costituisca come fuga in avanti. Alle altre arti la catastrofe è tutt’al più associata. Ma lui, il pittore, passa attraverso la catastrofe, afferra il caos, e prova a uscirne»6. Mattia Moreni e Nicola Samorì hanno sempre perseguito la disfatta, ciò che si disgrega, tracimando nella forma e nel senso. In modo stoico e consapevole, i loro cascami celebrano l’incorruttibilità della pittura, svelandoci le febbri acute che irrorano l’impasto pittorico. È per questo motivo che ci sentiamo completamente inermi di fronte a queste opere, [av]vinti dal tragico tumul[t]o e [t] ripudio delle immagini. Alberto Zanchetta

F. Arcangeli, “Il percorso di Mattia Moreni”, in Mattia Moreni, Galleria d’Arte Moderna di Bologna, 1965. G. de Chirico, Ebdòmero (1929), Bompiani, Milano 1942. C. Duff, Manuale del boia, Adelphi, Milano 1980. M. Moreni, “L’atto si identifica all’essenza”, in Mattia Moreni – il talento è la necessità di quel momento, di quell’ambiente, Circolo Artistico di Bologna, 1999. W. de Kooning, Appunti sull’arte, Abscondita, Milano 2003. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2004. 89


Lettera di Mattia Moreni al collezionista Roberto Pagnani in cui si parla della collocazione dei dipinti “Ancora verso un paesaggio” e “Paesaggio con apparizione”. (Archivio Ghigi-Pagnani, Ravenna)

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Fotografie di Daniele Casadio negli studi dei due artisti Mattia Moreni 92


Le Calbane Vecchie 93


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Palazzo San Giacomo, Russi

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Nicola SamorĂŹ 100


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Nicola SamorÏ La Naissance des seins 2014, tecnica mista cm 270x60x45 fotografia dell’artista 109


Stampato in 1500 copie nel novembre 2015 da Grafiche Morandi Fusignano



€ 10,00


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