Interfaccia, schermo, database. Cinema e Nuovi Media a confronto.

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Interfaccia, schermo database Cinema e nuovi media a confronto di Martina Maitan

Corso di Cinema e Arti Visive prof. Antonio Costa IUAV, Venezia, 2012

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Interfaccia, schermo database Cinema e nuovi media a confronto di Martina Maitan

Corso di Cinema e Arti Visive prof. Antonio Costa IUAV, Venezia, 2012


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Indice 1 - Il Linguaggio delle interfacce ............................................... pag, 1 2 - Interfaccia e l’opera d’arte ...................................................... pag. 6 3 - L’interfaccia culturale .............................................................. pag. 7 4 - Lo schermo e l’utente ............................................................... pag. 9 5 - Viaggiatori immobili ................................................................ pag. 11 6 - Reale e virtuale .......................................................................... pag. 13 7 - L’animato e l’inanimato ........................................................... pag. 16 8 - Il database .................................................................................. pag. 18 9 - L’interfaccia, lo schermo, il database nei film ................. pag. 21 10 - Conclusioni ................................................................................ pag. 25 Bibliografia

Iron Man (2008)

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Il linguaggio delle interfacce Sistema che connette o rende compatibili due sistemi funzionanti con modalità diverse; modalità di comunicazione tra un computer o un dispositivo controllato dal computer e l’utente. Questa è la definizione che il vocabolario italiano riporta della parola “interfaccia”. Con l’aiuto del manuale “Il linguaggio dei nuovi media” di Lev Manovich (Ed. Olivares, Milano, 2004) e “Il cinema nell’era del virtuale” di David N. Rodowick (ed. Olivares, Milano, 2008) vorrei proporre una riflessione sugli elementi direttamente collegati all’idea generale di interfaccia (intesa come la principale caratteristica dei Nuovi Media) descrivendone le sue caratteristiche storiche e le funzioni informatiche, spaziando verso gli elementi ad essa collegati come lo schermo e il database, considerati come “oggetti” con caratteristiche ben precise utilizzate in numerose scene di film e opere d’arte, come ho potuto apprendere attraverso il corso di cinema e arti visive condotto dal professore Antonio Costa.

“Il linguaggio dei nuovi media” di Lev Manovich (Ed. Olivares, Milano, 2004) “Il cinema nell’era del virtuale” di David N. Rodowick (ed. Olivares, Milano, 2008)

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Vediamo di approfondire il termine interfaccia, con il film Blade Runner di Ridley Scott, uscito al cinema nel 1984, il film ci propone una idea di futuro cupo, fortemente decadentista, con delle tracce di feticismo e una forte relazione tra le macchine e la vita. Solamente un paio di anni dopo esce il primo computer Macintosh con un interfaccia grafica semplice, lontana dall’idea di “futuro” che per molto tempo ha dettato il film di Scott; si tratta di uno schermo semplice e funzionale, legato a linee rette e finestre che contengono altre finestre più piccole (file) facili e intuitive. La comunicazione utente-macchina avveniva tramite dei box di dialogo con caratteri scuri su fondo bianco e nelle versioni successive vennero aggiunti colori ed etichette che aiutassero l’utente nella personalizzazione dell’interfaccia. Come Blade Runner anche il Macintosh proponeva una sua visione del futuro, sebbene profondamente diversa, entrambi i soggetti promuo-

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“Utilizzo le mie capacità nel modo più completo; il che io credo, è il massimo che qualsiasi entità cosciente possa mai sperare di fare” 2001: A Space Odissey (1968)

vono lo stretto collegamento che esiste tra l’essere umano e le sue creazioni tecnologiche. Facendo un incursione in campo cinematografico è d’obbligo, quindi, citare tre scene del celebre capolavoro del regista Stanley Kubrick “2001, Odissea dello spazio” (1968): il rapporto macchina-utente è il leitmotiv del film, il protagonista non preme dei tasti, non si relaziona con il calcolatore Hal 9000 tramite uno schermo ma comunica con il dispositivo attraverso dei comandi vocali impartiti per fargli eseguire dei semplici compiti meccanici. Ricordiamo la scena nella quale il protagonista è nella sua cabina, fa spostare il lettino sul quale è disteso e fa accendere la connessione per parlare alla sua famiglia, dalla macchina tecnologica. Nella scena immediatamente successiva vediamo l’astronauta Frank Poole mentre gioca con degli scacchi virtuali (attraverso uno schermo) contro Hal. La terza scena ci mostra, la richiesta da parte del calcolatore (dal suo punto


di vista), di vedere i ritratti su carta dei colleghi ibernati fatti dal protagonista, esprimendo un giudizio sulle sue capacità artistiche nettamente migliorate. Questi tre momenti ci fanno vedere la progressiva “umanizzazione” della macchina tecnologica e della sua stretta connessione con l’uomo che l’ha progettata per l’agevolazione di azioni comuni, ma che a poco a poco, poi, acquisisce una coscienza propria per prendere delle decisioni e sopraffare la volontà di chi lo ha generato. La relazione tra interfaccia e utente è sottolineata dalla sparizione dello schermo e quindi della suddetta GUI per la gestione delle informazioni, ma viene semplificata dalla semplice interlocuzione vocale tra chi utilizza la macchina e la macchina stessa. Hal ne è l’esempio, ma anche nel film di Blade Runner vediamo come il detective Rick Deckard fa compiere delle determinate azioni all’oggetto tecnologico per reperire informazioni inaccessibili alla vista dell’occhio umano.

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‘‘Ti ci abituerai, non lo vedo nemmeno il codice. Tutto ciò che vedo sono bionde, brunette, rosse.” The Matrix (1999)

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L’interfaccia e l’opera d’arte

Abbiamo chiaro come l’interfaccia uomo-computer diventa un codice semiotico essenziale, in quanto traduttore di un particolare codice che altrimenti sarebbe incomprensibile (ad esempio, il linguaggio ASCII del film “The Matrix” (1999) dei fratelli Wachovski ), ma, la domanda seguente allora sorge spontanea: la stessa regola può essere applicata nel campo delle arti visive e delle creazioni artistiche? Come è stato detto nella cultura del computer è normale costruire interfacce diverse per uno stesso “contenuto”. Gli stessi dati si possono rappresentare sotto forma di grafico bidimensionale o di spazio interattivo navigabile. In campo artistico allora possiamo concludere come l’opera d’arte che utilizza i nuovi media possegga due livelli separati : contenuto e interfaccia, sostenendo poi che il contenuto dell’opera “viva” indipendentemente dalla sua forma materiale. Cerchiamo di analizzare in dettaglio cosa propongono le opere d’arte oggi che utilizzano media interattivi. Si parla di “dimensione informativa”, quando l’esperienza che se ne fa comprende il recupero, la visione e la riflessione di una serie di dati analizzati. Ma allo stesso tempo non possiamo parlare di sole strutture informative in quanto l’opera d’arte si fregia di quelle dimensioni estetiche che giustificano il loro stato di arte anziché solo struttura grafica. E’ l’interfaccia dell’opera che crea la sua specificità e ne determina un’esperienza unica per l’utente. Dividere il contenuto dall’opera, dividere il senso

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dal medium sulla quale è stata costruita vuol dire annullare arbitrariamente ed eliminarne la sua dimensione artistica. Infatti, la scelta di una determinata interfaccia è motivata dal contenuto dell’opera stessa. Le installazioni hanno subito una notevole trasformazione dagli anni Ottanta agli anni Novanta, eliminando l’oggetto e accentando l’immagine, rendendo immersivo il contesto fruitivo. Anche nelle opere d’arte lo schermo esiste, la videoscultura dove il dispositivo televisivo è inserito in strutture particolari con un senso ben preciso (degli esempi li abbiamo con il video artista Bill Viola e l’artista Fluxus Nam June Paike) che rappresenta l’esempio più lampante di fusione tra immagine e oggetto.In molte video-installazioni e cine-installazioni, il dispositivo è parte integrante del progetto estetico, come dicevo prima e acquisisce una forte visibilità. Nel caso del video, che permette la ripresa e la trasmissione in tempo reale, in scena è presente sia la videocamera e sia lo schermo che permette la proiezione, tutto questo con la possibilità di di moltiplicare gli strumenti di registrazione in campo, gli schermi e quindi le immagini. Bruno di Marino nel suo libro “Film, Oggetto, Design” fa un ottimo esempio inserendo l’opera “Movie Drom” di stan VanDerBeek (1963-1965) con al sovrapposizione di suoni e immagini; molto più interessante è invece l’opera di Fabio Mauri il quale realizzo delle cine installazioni in cui apparecchi 16mm proiettavano fa-


mosi film su vari oggetti inanimati come ventilatori, contenitori di alimenti, ma anche su corpi nudi di modelle.. L’immagine, liberatasi dalla cornice dello schermo , è pronta ad assumere la forma di altri oggetti, modellandosi nello spazio, assumendo forme sempre nuove. Questa è la caratteristica base dell’installazione, la sua dimensione immersiva realizza al meglio quello che è il rovesciamento tra il rapporto opera e spettatore. Questa citazione è perfettamente d’accordo con le installazione interattive di Studio Azzurro, conosciuto per le sue

“L’installazione, accoglie il visitatore, lo tasta, lo palpa, si protende verso di lui, lo fa entrare in se stessa, lo penetra, lo possiede, lo inonda. Non si va più alle mostre per vedere e godere l’arte, ma per essere visti e goduti dall’arte”. Mario Perniola, “Il sex appeal dell’inorganico”, Einaudi, Torino 1994

creazioni dette ambienti sensibili. Il dispositivo in questo caso, non solo instaura un rapporto con lo spettatore, anzi, egli reagisce mostrando un autentico interesse verso di lui. I corpi di “Coro” (1996) si contorcono al passaggio dei visitatori, grazie alla pressione di questi ultimi sul pavimento recettivo. Studio Azzurro fa dell’oggetto il protagonista delle sue opere interattive: in “Tavoli. (Perchè queste mani mi toccano?)”(1995), l’oggetto è sia reale che virtuale. Reale per via del vero tavolo di legno sul quale si proietta l’immagine di persone che rotolano, compaiono e scompaiono al tocco dello spettatore sulla superficie di legno. I tavoli dispositivi sono superficie fisiche che il pubblico tocca, evocando altri oggetti, sempre video proiettati, che compongono una serie di nature morte alternandosi. La figura e la funzione dell’oggetto è alla base dell’estetica di Studio Azzurro, tutte legate ad un processo tecnologico che ruota intorno al piano dell’illusione e al concetto di oggetto/desiderio che riattiva il senso della vista e del tatto. L’installazione “Il giardino delle cose” (1992) è basata sulla termografia: gli oggetti anfora prendono forma grazie al calore delle mani dell’uomo che mima il processo di creazione. Ne “Il viaggio” (1992), la narrazione scaturisce dalla visione a raggi X di oggetti nascosti contenuti in valigie passate allo scanner scientifici. Gli oggetti, nell’immaginario di Studio Azzurro sono all’origine di micro narrazioni sempre diverse, ama solo con “Luci di inganni” (1982) si può vedere il diretto rap-

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“Tavoli (Perchè queste mani mi toccano?), Studio Azzurro, 1994

porto con l’oggetto di design. Infatti Studio Azzurro coinvolge l’azienda Memphis per mettere insieme una riflessione metalinguistica sul medium: ogni utensile si confonde con il suo “doppio” elettronico creato sul monitor, stabilendo un’ambiguità percettiva tra l’esibizione della cosa reale e il simulacro video e lasciando che l’oggetto conviva con quello che è il suo segno, la sua impronta, la sua ombra. L’artista messicano Rafael Lozano Hemmer fonda tutto il suo fare artistico in questa ultima mia affermazione: tutte le sue opere si basano sul campionamento e utilizzo di dati forniti dagli utenti dell’opera d’arte gestiti secondo logiche matematiche. Tra le opere più conosciute ricordiamo, “Pulse Room” al padiglione messicano della Biennale d’arte di Venezia del 2006, registrava il battito cardiaco di chi che metteva le mani in un apposito “pulsiossimetro” per la misurazione del ritmo cardiaco e poi “mostrarlo” sotto forma di accensione e spegnimento in sequenza di 100 bulbi luminosi sospesi al soffitto. Lo stesso principio, lo vediamo nell’opera “Pulse Index” nella quale attraverso uno schermo Lcd HD vengono mostrate le impronte digitali di ogni utente e il battito cardiaco ricavato da un pulsiossimetro e una telecamera nascosta. Queste due opere sono due database di dati che se non avessero la suddetta interfaccia, fisica per le lampadine e attraverso lo schermo per le impronte digitali, non avrebbero senso di esistere.

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Rafael Lozano-Hemmer “Pulse Room”, Padiglione del Messico, Biennale d’Arte di Venezia 2006

L’interfaccia culturale Avendo dato una infarinatura generale e definito cos’è una interfaccia in termini informatici, Lev Manovich nel secondo capitolo del suo libro, analizza il termine “interfaccia-culturale” intesa come quella modalità in cui i computer ci presentano dei dati come fotografie, testi, musica, film, e ambienti virtuali e che ci consentono di interagire con essi. Il linguaggio usato è costituto da elementi appartenenti ad altre forme che già conosciamo delle quali abbiamo già fatto esperienza: il cinema, la parola stampata e ovviamente l’interfaccia universale uomo-computer. Ognuna di queste tradizioni ha sviluppato un suo modo di organizzare le

informazioni, presentarle all’utente, di mettere in correlazione spazio e tempo e strutturare l’esperienza di fruizione da parte dello spettatore. Vediamo di concentrarci su quella forma culturale che è il cinema e che include tutti i “meccanismi” che ne adibiscono il funzionamento come: la telecamera mobile, le rappresentazioni spaziali, le tecniche di editing, le convenzioni narrative, l’attività degli spettatori.. e che, in poche parole, non sono altro che i diversi elementi della percezione, del linguaggio e della ricezione cinematografica che hanno contribuito alla formazione “sensibile” del rapporto utenteinterfaccia nel corso della storia. La presenza di questi elementi non è limitata al cinema del XX secolo ma esempi del genere si possono trovare già nei “panorama”, nelle “lanterne magiche”, nelle performance teatrali e nelle forme culturali del XIX secolo. Il cinema è quel media caldo (vedi Marshall Mcluhan) che presenta le informazioni come immagini

audiovisive e dinamiche. L’approccio cinematografico alla narrazione di una vicenda, al collegamento tra una e l’altra, è diventato il mezzo principale con il quale gli utenti interagiscono con i dati culturali, afferma Lev Manovich. Il computer, invece, è un linguaggio culturale ancora freddo e staccato, ma adottato da un giorno all’altro da milioni di persone. Esso non usa un linguaggio sconosciuto ma si fa forte dell’esperienza di utilizzo e su delle forme culturali preesistenti e già famigliari .

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Lev Manovich “Il linguaggio dei Nuovi Media�, Olivares, 2004

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Lo schermo e l’utente “Così come l’occhio cinematografico può muoversi all’interno di uno spazio rivelandone gli angoli più segreti, l’utente del computer può scorrere i contenuti attraverso la finestra-schermo” Tornando a parlare di cinema, la caratteristica principale dell’essere e fare cinema prima dell’era del digitale, è l’utilizzo di uno strumento analogico come la cinepresa, considerato anche come l’oggetto che ci collega alle informazioni operanti nello spazio tridimensionale. Cerco di essere chiara, come possiamo facilmente intuire, una importante caratteristica della percezione cinematografica nella quale troviamo una simmetria anche nelle interfacce culturali, è l’inquadratura rettangolare della realtà rappresentata. Fin dal Rinascimento, l’inquadratura ha funzionato da finestra su uno spazio più vasto, che si estende al di là della cornice stessa. Lo spazio è diviso dal rettangolo della cornice in due parti: lo spazio interno e quello che sta all’esterno cioè dove sta lo spettatore. Il celebre pittore Leon Battista Alberti è il primo che ci fa vedere come la cornice non sia altro che una finestra sul mondo e su altri mondi. Nella pittura e nella fotografia uno schermo implica la presenza di uno spazio più vasto al suo esterno, così come la finestra dell’interfaccia mostra solo una porzione di quello che in realtà è un qualcosa di molto più ampio. Ma se nella pittura (poi nella fotografia) l’immagine scelta dall’artista è definitiva, l’interfaccia del com-

puter si avvantaggia di una nuova invenzione introdotta dal cinema: la mobilità dell’immagine. La cornice nel mondo virtuale non è che la visione di una piccola parte del tutto più vasto, essa crea un esperienza soggettiva particolare, infatti, non è casuale che i mondi interattivi attivati attraverso uno schermo vengano presentati spesso come gli eredi naturali del cinema. Sicuramente lo scenario cinematografico dei prossimi anni (e qualcosa si accenna già da ora) implica la collocazione dello spettatore letteralmente “all’interno” della realtà mostrata attraverso lo schermo, egli sarà in mezzo allo “spazio narrativo” grazie alle modernissime tecniche di grafica tridimensionale ed effetti speciali. L’interfaccia virtuale si avvale dello stesso principio: l’occhio è subordinato alla visione della cinepresa con la differenza che obbliga lo spettatore a guardare con una tecnica cinematografica fatta di scene, carrellate e punti di vista preselezionati. Un magistrale esempio di questa tecnica possiamo vederlo nei videogiochi, di come con molta naturalezza hanno preso in prestito le caratteristiche del cinema tradizionale come l’uso delle luci, del grandangolo e della profondità di campo, per creare atmosfere realistiche e altamente coinvolgenti.

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Vorrei riflettere qualche minuto sulla volontà dell’autore de “La corazzata Potemkin” (1925) di Sergej M. Ejzenstein, quando per la prima proiezione pubblica ha pensato di aggiungere al termine del suo film una scena che simulasse lo squarcio dell’inquadratura da parte dell’incrociatore Odessa, simulazione resa concreta con la lacerazione reale dello schermo di proiezione. Per il regista lo strappo virtuale dell’immagine cinematografica, si sarebbe trasformato nella ottura fisica della superficie-oggetto, creando uno shock percettivo negli spettatori e sottolineando quanto la rappresentazione cui avevamo assistito fosse qualcosa di reale e autentico come un prolungamento della realtà. Le interfacce contemporanee offrono delle possibilità completamente nuove all’era della comunicazione, esse ci permettono di viaggiare in spazi tridimensionali che non esistono. La realtà virtuale, la telepresenza e l’interattività sono consentite dalla recente tecnologia digitale, ma diventano reali grazie ad una tecnologia molto più antica: lo schermo. Guardando il monitor, che non è al-

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“La realtà viene delimitata dal rettangolo di uno schermo: uno strumento perfettamente delineato , con bordi definiti, irreversibili e incorruttibili; tutto ciò che lo circonda viene messo al bando come se non esistesse, rimane indefinito, mentre tutto ciò che rientra nei suoi confini viene promosso a essenza, luce, visione”.

R. Barthes da “Diderot, Brecht, Ejzenstejn” in “Image/Music/Text” (Farrar, Struas e Giroux, NY, 1977)

tro che una superficie piatta rettangolare nella quale l’utente allude di navigare in spazi virtuali e, di essere fisicamente presente in un altro posto o di dialogare con il computer stesso. Allo schermo statico come immaginefinestra nel quale vedere attraverso (come era la visione nelle opere di Leon Battista Alberti), si aggiungono le caratteristiche di quello che è lo schermo-dinamico che permette di vedere un’immagine che si sposta e cambia nel tempo: nasce così lo schermo del video, del cinema e della televisione. L’intento principale dello schermo, oltre che di mostrare, è anche quello di coinvolgere e inglobare lo spettatore, e questo è permesso dal fatto che l’immagine rappresentata su di esso riempie tutto il suo spazio disponibile e non lascia confini. Lo schermo funziona come filtro per tagliare, rendere inesistente tutto ciò che non rientra nei suoi limiti fisici. Al cinema, allo spettatore viene richiesto di fondersi nel buio dell’immagine che lo rapisce completamente, portando al massimo l’identificazione tra spettatore e immagine, cosa che lo schermo casalingo non può ancora fare in quanto di dimensioni ridotte permettendo così lo svolgimento di altre attività.


Viaggiatori immobili Nel film realizzato dal regista Peter Greenaway “I misteri del giardino di Compton House” (1982), racconta la vicenda di un architetto che deve produrre dei disegni di una casa di campagna commissionati da un ricco proprietario terriero. Per tutto il film vediamo il viso del protagonista attraverso la griglia quadrata da esso utilizzata come modello grafico, come se fossero le sbarre di una prigione. é come se il soggetto impegnato nella cattura di un immagine, nell’eliminazione di qualsiasi piccolo movimento, sia immobilizzato a sua volta attraverso l’apparato che aiuta la rappresentazione della stessa. Manovich utilizza questo esempio come metafora per quella che sembra essere la tendenza della rappresentazione basata esclusivamente su un sistema-schermo. In questa tradizione il

soggetto deve rimanere immobile nello spazio se vuole vedere l’immagine rappresentata nello schermo. Una sorta di prigionia che trova origine dalla prospettiva monoculare del Rinascimento, sempre con Leon Battista Alberti che descrive la sua finestra prospettica come la presentazione di un mondo visto da un occhio, singolo e statico, un unico punto di vista: l’immobilità del soggetto e di chi lo ritrae. Lo stesso poi accadrà con l’invenzione della “camera oscura”, apparecchio ottico per la cattura delle immagini attraverso dei raggi luminosi provenienti da un soggetto o da

una scena, che passando attraverso una piccola apertura, si incrociano e riemergono dall’altra parte formando un’immagine sullo schermo. Il passo successivo avviene con la fotografia e con il suo antenato, il dagherrotipo che richiedeva lunghissimi tempi di esposizione nell’immobilità più assoluta. Verso la fine del XIX secolo il mondo pietrificato dell’immagine fotografica divenne sconvolto dallo schermo “dinamico” del cinema. Lo schermo cinematografico consentì al pubblico di vedere cose senza alzarsi dal proprio posto, esso creò uno sguardo virtuale mobile, in luoghi adibiti al contenere viaggiatori immobili atti a ricevere le immagini di una realtà virtuale che esiste nell’oscurità delle sale cinematografiche. In questo modo lo spettatore si identifica con l’occhio della cinepresa, e assume il ruolo di osservatore.

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Blade Runner (1982)

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Reale e virtuale Nell’affermare che lo schermo e la sua cornice siano due elementi che separano quello che è lo spazio reale e lo spazio virtuale, si può introdurre il termine di realtà virtuale rappresentata al di là del confine dello schermo. Il concetto di simulazione della realtà ha origini antichissime, ma vediamo solo come dal XIX secolo con l’ossessione per il naturalismo che esisteva in quel tempo poi ci si portò alla simulazione dell’estremo con le cere di ritratti, i diorami dei musei di storia naturale, ecc.. La realtà virtuale continua la tradizione della simulazione, introducendo una differenza significativa: se prima la simulazione creava uno spazio illusorio che voleva essere la continuazione dello spazio normale, nella realtà virtuale non c’è connessione tra i due spazi oppure, all’opposto i due spazi coincidono perfettamente e in entrambi i

casi la realtà fisica viene completamente dimenticata. La realtà virtuale sta in quello spazio vuoto o non vuoto che si crea fra i due fattori, in cui lo spazio fisico non esiste e tutte le azioni “reali” avvengono nello spazio illusorio-virtuale. In tutto questo lo schermo è scomparso perchè ciò che stava dietro di esso ha preso il sopravvento. Oggi viviamo in quella che si può definire come la “società dello schermo”, dove le realtà rappresentate e le immagini sono ormai ovunque intorno a noi: nelle città, nei negozi, nelle strade, a casa gli apparecchi visivi stanno diventando sempre più sottili e sempre più grandi.. ormai non manca poco all’avere delle città esattamente come Blade Runner con schermi grandi come palazzi e con la nostra retina ormai fusa con lo schermo che regola la nostra vita.

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Metropolis (1929)

L’animato e l’inanimato Desidero porre un altra riflessione, aiutata dal volume di B. Di Marino, riguardo ad un altro forte oggettosoggetto presente nell’ambito futuristico di interfaccia-schermo-database: il robot. L’oggetto robot è l’esempio per antonomasia di quello che è futuro e di ciò che rappresenta, è l’interfaccia perfetta, creata dall’uomo che ricalca la stessa azione fatta da Dio, il plasmare un altro essere a sua immagine e somiglianza. Vi è una relazione di incompatibilità tra essere umano e oggetto che si alterna ad una relazione di perfetta armonia. Nei film futuristici vediamo come umani e macchine coesistono nello stesso ambiente, condividendo le stesse cose, l’uomo da esse dipende quando le macchine permettono la sopravvivenza, o consentono di attuare piani ambiziosi di espansione. Ma se il sottile confine tra questi due protagonisti viene a mancare, e la macchina tecnologica acquisisce consapevolezza e sentimenti essa rappresenta la minaccia più temibile. Essa si sostituisce all’uomo quanto oggetto

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perfetto, indistruttibile, dotato di una intelligenza superiore, che assume le funzioni e le sembianze del suo creatore: come esempio abbiamo la rivolta del calcolatore elettronico Hal 9000 in “2001, Odissea nello spazio”, visto nei capitoli precedenti e nella visione del montaggio video allegato al presente volume, nei replicanti perfetti di Blade Runner, e in alcuni film del primo Novecento che hanno fatto la storia Henri Bergson “Il riso. saggio sul come in Metropolis e la diabolica robot significato del comico”, Laterza, Bari, che si sostituisce all’angelica Maria. 1983 L’intreccio tra robotica e cinema offre diversi spunti di riflessione di carattere etico (i sentimenti delle macchine) e di carattere estetico (robot come oggetti), ma il rapporto robot-umano non è circoscritto solo a questi soggetti. In numerosi film l’oggetto automatizzato (non necessariamente un robot) può essere anche una macchina inserita nel contesto del lavoro che sottomette le azioni dell’uomo. Lampante esempio lo abbiamo ancora con Metropolis (1929) di Fritz Lang ma anche con “Tempi Moderni” (1936) di Charlie Chaplin. Il fare del pro-

“Noi ridiamo tutte le volte che una persona ci dà l’impressione di una cosa”.


tagonista è vincolato alla macchina, e allo stesso tempo alla rivolta degli oggetti-robot prima descritti, corrisponde alla ribellione e al sabotaggio delle macchine da parte degli uomini lavoratori. Come Chaplin ci fa magistralmente vedere, i personaggi comici si scontrano spesso con le macchine che li dominano; per il filosofo Henri Bergson il comico occupa uno spazio preciso nei processi sociali e deriva dal fatto che il corpo vivente si irrigidisce in una simulazione di una macchina, con movimenti meccanici costretti. Si parla quindi di “marionetta”, come oggetto e come personaggio protagonista in film come “Pinocchio” di Antamoro (1911) che prima è uno spettatore e poi in scena si trasforma nella celebre marionetta con salti e capriole. Lo stesso avviene con “La lanterne magique” di Méliès, un concentrato di “teatro nel teatro”: marionette che si scatenano, ballano, Pierrot e Pulcinella si scontrano in battaglia per conquistare l’amore di Colombina. Un altro celebre film è “Totò a colori”

(1952) di Steno, che mostra una esilarante fuga del protagonista che per sfuggire agli inseguitori si nasconde tra un gruppo di marionette, travestendosi anche lui da Pinocchio. In “Totò a colori” le membra disarticolate, la libertà del corpo è la rappresentazione di una completa anarchia sono l’equivalente all’uso delle “parole in libertà” apparentemente senza senso e senza ordine. In “Cosa sono le nuvole” di Pierpaolo Pasolini (1968) il protagonista torna è sempre Totò che ritorna nelle sembianze di Iago nemico di Otello e anche qui interpreta una marionetta che solo alla sua morte, che avviene da parte dell’invasione di campo del pubblico che annienta i

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Il database

“Come possono le nostre nuove capacità archiviare masse di dati, classificarli, indicizzarli, collegarli, ricercarli autonomamente e recuperarli istantaneamente - realizzare nuove tipologie di narrazione?”

Lev Manovich “Il linguaggio dei Nuovi Media”, Olivares, 2004

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Riferendosi a quella che è una forma culturale, per database si intende sempre una raccolta strutturata di dati, organizzati in modo da consentire una gestione e una ricerca rapida. All’utente figurano come collezioni di voci su cui può effettuare diverse operazioni come il guardare, navigare e ricercare. Nell’era dei computer il database diventa la base del processo creativo, con i nuovi media il contenuto dell’opera e dell’interfaccia sono entità separate perciò è possibile creare diverse interfacce che portano allo stesso contenuto, ad una raccolta di materiale multimediale. Una narrazione interattiva può essere intesa come la somma di più traiettorie che convogliano in un unico punto; la narrazione lineare tradizionale è solamente una delle traiettorie possibili, cioè una scelta particolare effettuata all’interno di una ipernarrazione (narrazione interattiva). Vorrei concentrami sulla ricerca di una coesistenza e cooperazione trai i due elementi, cercando come una narrazione riesca a gestire il fatto che i suoi elementi caratteristici siano organizzati in database.

Durante le lezioni del professor Costa sono stata catturata dalla capacità tecnica di Peter Greenaway, uno dei registi più impegnati nell’esplorazione delle potenzialità del linguaggio cinematografico, il quale ha cercato in tutti i suoi film di di riconciliare database e forme narrative. Nei suoi film vediamo un attenzione a quella che è prima l’immagine come forma e poi la parola. Nei suoi primi cortometraggi Greenaway si ispira alle forme primordiali di raccolta di dati: come l’alfabeto, i numeri, la catalogazione di elementi naturali e animali. Una forma di registrazione enciclopedica della realtà, una ricerca di serialità che può essere estesa all’infinito esattamente come tutte le forme che regolano la vita naturale. La sequenza di numeri funge da “cellula narrativa” che convince lo spettatore a trovare un ordine nella narrazione, anche se le scene che si susseguono non sono assolutamente connesse sul piano logico (vedi Il cortometraggio “Intervals”, del 1969 che ha come protagonista la città di Venezia senza mai però inquadrare gli elementi caratteristici che la contraddistinguono, come i canali, i turisti, le gondole, ecc..) Oltre ai suoi film Greenaway è molto conosciuto come artista contemporaneo, che negli anni Novanta ha realizzato una serie di installazioni in vari musei e gallerie d’arte. Il regista ha voluto portare gli elementi del suo cinema fuori dal cinema, e non avendo più gli obblighi di una narrazione, Greenaway realizza quella che è la sua idea di database puro distribuendo gli elementi direttamente in uno spazio, liberandoli dalla concatenazione cronologica di una dimensione lineare. Nel 1992, nasce “100 Objects to Represent the World” prima come registrazione di suoni e parole senza ordine e poi come opera dove un narratore convince


Adamo ed Eva ad una progressiva civilizzazione attraverso i cento oggetti trasformati in una narrazione sequenziale. Insieme a Greenaway, Ziga Vertov, può essere considerato l’altro grande “regista database” del Novecento. “L’uomo con la macchina da presa” è forse l’esempio più importante di immaginario di database: in una delle inquadrature principali, vediamo una sala di montaggio piena di scaffali usata per conservare il materiale girato con dei titoli come “il movimento di una città”, “esercizio fisico”, “macchine, club”, ecc.. Il film può essere paragonato alla traiettoria lineare creata tramite database, ne “L’uomo con la macchina da presa” questo paragone costituisce il metodo stesso con il quale è stato realizzato il film, ill cui soggetto è la fatica

del regista nel rivelare la struttura sociale in mezzo alla moltitudine di fenomeni osservati. L’obbiettivo è quello di codificare il mondo utilizzando esclusivamente superfici visibili all’occhio umano, cioè la vista. Qui il processo di collegamento tra le inquadrature, il riordino delle stesse costituisce il metodo di tutto il film. L’uomo con la macchina da presa dispone di un proprio database per costruire un’argomentazione. Nel film vediamo tre livelli di narrazione attraversati uno sull’altro continuamente: uno consiste con la storia dell’operatore che registra le immagini da usare nei film; il secondo livello consiste nelle immagini del pubblico che vede il film in un cinema; e il terso livello è rappresentato dal film stesso, costituito da filmati regis-

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“Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento!” Dziga Vertov

trati a Mosca, Kiev, e Riga organizzati docendo la progressione di una singola giornata: sveglia. lavoro-tempo libero. Ciò che colpisce nell’opera di Vertov non sono i soggetti rappresentati o le associazioni che si cercano di stabilire tra di loro, ma lo straordinario catalogo di tecniche filmiche esso contiene. Un enorme database di tecniche di montaggio come la dissolvenza, la sovrapposizione, il fermo immagine, accelerazione, schermi suddivisi.. Il film propone un campionario apparentemente infinito di tecniche cinematografiche che non arriva mai a definire un linguaggio preciso all’interno del film. Nelle mani di Vertov, il database, normalmente statico e “oggettivo” diventa l’opposto cioè una cosa dinamica e soggettiva, fondendo la raccolta di dati insieme alla narrativa formando una nuova forma espressiva.

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L’interfaccia, lo schermo, il database nei film “Minority Report” film del 2002 diretto da Steven Spielberg, è il baluardo dell’avanguardia futuristica del XXI secolo. Il soggetto del film ruota attorno all’oggetto database che permette la manipolazione interattiva delle informazioni in esso contenute visibili e gestibili attraverso uno schermo, ma generate da un “database umano”, cioè la mente dei tre medium che vedono avvenimenti presenti nel futuro. La stessa idea di database come “lettore” di fatti già avvenuti lo troviamo nel film “Deja Vù” (2006) di Tony Scott, dove il protagonista ricerca le informazioni necessarie per evitare una catastrofe marittima, imparando a gestire quello che non

è solo uno schermo che mostra dei dati più o meno dettagliati, ma che è anche una sorta di “porta spazio temporale” che fornisce le informazioni necessarie per l’attraversamento della realtà/passato da parte del protagonista e scongiurare quindi il disastro. In questi due film, l’oggetto database ha la funzione di archivio, gestione e manipolazione di dati. Il tutto attraverso dei gesti precisi e intuitivi; al contrario invece, dei due film “2001 Odissea nello Spazio” e “Blade Runner” nei quali i dati venivano visualizzati attraverso dei comandi vocali, una idea che supera decisamente la gestione interattiva-gestuale nei film più recenti e che ai giorni nostri più si avvicina al Software “Siri” nelle piattaforme iPhone e iPad (ormai diventati comuni oggetti interattivi). Il fascino labile del reale e del virtuale come abbiamo visto è un tema molto ricorrente. Nella nostra analisi lo schermo è

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Tron (1982)

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il confine tangibile che delimita lo spazio tra la fisicità del reale e la virtualizzazione di uno spazio.. nel film “Tron” (1982) Steven Lisberg lo schermo del videogioco è la rappresentazione reale di quello che accade al di là di quello che sembra essere solo un gioco di abilità, e la tecnologia della computer grafica per gli effetti speciali è riuscita perfettamente nell’intento di far capire come la differenza sostanziale dei due mondi stava all’interno di un codice “informatico” fatto di luci led. Nel seguito dello stesso film


“Tron Legacy” (2010) di Joseph Kosinski non riprende la stessa scena di “divisone” delle due realtà che coesistono simultaneamente ma, ci fa vedere come il confine venga superato quando il protagonista scopre il laboratorio segreto del padre (del precedente film) con una console ancora attiva. Tentando di comunicare col computer, alla sua accensione, un fascio laser smaterializza il ragazzo trasportandolo all’interno di un mondo totalmente digitale, copia in parte di quello reale, chiamato dai suoi

stessi abitanti “La Rete” (stessa similitudine con Deja Vù e lo schermo come “passaggio temporale”). Un altro film utilizza il virtuale, come oggetto e come aiuto e supporto alla tecnologia, e non come “altro mondo”, ma come strumento per la costruzione di un oggetto fisico. Stiamo parlando di Iron Man, fil del 29008 diretto da Jon Favreau. Vorrei citare un ultimo film che ha non ha come protagonista la realtà virtuale come “altro mondo” ma ci mostra le meraviglie della tecnica del virtuale, di come un interfaccia possa creare un

modello virtuale di prodotto facendolo uscire dallo schermo, dandogli una dimensione reale quasi visibile, ovviamente parliamo di “The Matrix” (1999) dei fratelli Wachovsky.

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Conclusioni In questo breve saggio abbiamo capito come il soggetto-oggetto interfaccia permetta sia l’interazione tra il personaggio e la macchina e sia quello che l’oggetto-interfaccia mette in comunicazione. Ci è chiaro come essa sia un un tramite e non un manufatto con caratteristiche fisiche. Essa si avvale di avere la funzione di “passaggio-codificatore”, connette l’oggetto computer e il soggetto contenuto-lettore. L’interfaccia grafica visibile attraverso uno schermo o dei media interattivi non è che un “passaggio di saperi”, una sorta di divinità che ha in è tutta la conoscenza attraverso la quale noi possiamo accedervi per gestire dati, ricordi ma anche per tagliare, copiare e modificare, facendo di tutte le informazioni il nostro sapere. Abbiamo compreso come l’interfaccia come schermo-divisione e portatrice di informazioni non sia solo una caratteristica della nuova era dei nuovi media ma possa essere paragonata a alla finestra e la visione in prospettiva di Leon Battista Alberti sul suo trattato “De Pictura”, a come dal concetto di finestra si possa guardare all’esterno o all’interno, ma si possa anche attraversare fisicamente, passare dentro e fuori. Un dispositivo molto simile alla finestra è lo specchio, di come anche questo sia utilizzato nei film come confine psicologico, tra buono - cattivo (“Dr. Jekill and Mr. Hyde”, di R.Mamoulian, 1932), normalità e follia, ma lo stesso possiamo dire di oggetti come gli occhiali (i film di Stanley Kubrick come “Lolita” e “Eyes Wide Shut”) e le vetrine, entrambi mostrano, alle volte celano, fissano distanze fisiche e limiti insuperabili come in (“Paris, Texas” di Wim Wender, 1984) e le famose vetrine dei peep show.

Nell’ultima pagina di questo piccolo volume troverete un DVD contenente un breve montaggio video di tutti i film citati che hanno a che vedere con l’interfaccia, lo schermo e il database. Le riflessioni che ho fatto personalmente, possono essere comunque differenti agli occhi di un altro spettatore. In questo modo vorrei avvicinare all’argomento più persone ed avere altri punti di vista, e sviluppare altri pensieri e proseguire con altri metodologie di analisi lo stesso tema.

Minority Report (2002)

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Tron Legacy (2010)

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Bibliografia Lev Manovich “Il linguaggio dei nuovi media”, ed. Olivares, Milano 2008 David N. Rodowick ,“Il cinema nell’era del virtuale”, ed. Olivares, Milano, 2008 M. McLuhan “Il medium è il messaggio” , Feltrinelli, Milano, 1994 A. Costa, “Cinema e Arti Visive”, Einaudi Torino, 2001 A. Costa “Saper vedere il cinema”, Bompiani, Milano 2011 B. Di Marino “Film, Oggetto, Design”, Postmedia, Milano 2011

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Pubblicazione stampata il 14 Febbraio 2012 , presso tipografia “Al Canal�, Venezia Font utilizzati:

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testo : Bell Mtd ST11pt titoli: Bell Mtd ST 24pt citazioni: Bell Mtd ST Italic 18pt note: Helvetica light condensed 9pt


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