Accademia di Belle Arti di Venezia Corso di Diploma Accademico di Primo Livello in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo Indirizzo Decorazione
I LCO R PO D E L L’ I M M A G I N E Figure e gesti nel teatro della S o c Ï e t a s R a f f a e l l o S a n z i o
Laureanda Martina Maitan
Relatore Prof. Gaetano Mainenti
Anno Accademico 2008/2009 Sessione straordinaria
dedicato a Te,
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- Prefazione - Presentazione dell’opera della Socìetas Raffaello - Sanzio Santa Sofia, Teatro Khmer - I miserabili Il teatro dei murati - La discesa di Inanna - Gilgamesh Appunti attorno alla rappresentazione e l’“essere attore” - Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco - Masoch, i trionfi del teatro come potenza passiva, colpa e sconfitta - Orestea (una commedia organica?) Ifigenia, Alice, Il Coniglio Corifero ed il Bianconiglio. Analogie nella tragedia di Eschilo - Castellucci - Giulio Cesare Estratto critico sul potere della retorica nel teatro contempora neo, il Giulio Cesare e l’importanza del suo “nuovo sonno” - Genesi. From the museum of sleep - Tragedia Endogonidia - Prefazione Il Capro che diede nome alla Tragedia Prima impresa grammaticale su 20 aminoacidi di Chiara Guidi La Tragedia. Il problema Realtà e Tragedia della terra di Claudia Castellucci - C.#01 - A.#02 Il Tempo aionico nella Tragedia Endogonidia - B.#03 Attore come corpo di figura - BR.#04 - BN.#05 - P.#06 - R.#07 - S.#08
- L.#09 - M.#10 - C.#11 - Inferno, Purgatorio, Paradiso - Trilogia liberamente ispirata alla Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Purgatorio Paradiso - Conclusione - Teatrografia - Bibliografia, sitografia e collaborazioni
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Solo da alcuni anni conosco la Socìetas Raffaello Sanzio, come identità di teatro contemporaneo e profondamente performa- tivo, ma dal primo momento ho capito come il loro lavoro potesse essermi d’esempio e da guida per la mia ricerca artistica all’interno dell’ambiente accademico. L'interesse e la curiosità sviluppate nell'approfondimento e ricerca di materiali e informazioni inerenti, mi ha portato ad avere delle esperienze direttamente con i fondatori, Romeo e Claudia Castellucci con Chiara Guidi, inerenti a laboratori e festival volti alla formazione di sensibilità normalmente non coerenti con la consuetudine teatrale, come il canto corale, il disegno e l'animazione. Il mio lavoro è da considerarsi un'analisi teorico-critica sul quasi trentennale lavoro ed evoluzione della Socìetas, con un at- tenzione particolare per alcuni spettacoli e la loro messa in scena che ritengo di fondamentale importanza per la completa comprensione della mia ricerca personale, accademica e quotidiana che, in questo breve lavoro di tesi, miro ad esporre con chiarezza anche a chi non è ordinario a queste cose. Il mio intento sarà quello di accompagnare nella lettura delle trame degli spettacoli principali ognuna arricchita di note sui componimenti, la messa in scena, i personaggi ed i contenuti storici da me analizzati e anche di alcuni scritti e seminari degli autori Claudia, Romeo Castellucci e Chiara Guidi.
S O C I E T A S R A F F A E L L O S A N Z I O La Socìetas Raffaello Sanzio si impone nel mondo delle arti come una compagnia teatrale d'avanguardia, termine non esattamente corretto nel definire la pratica lavorativa di due coppie di fratelli: Romeo e Claudia Castellucci con Chiara e Paolo Guidi; infatti la Socìetas nasce a Cesena dalle ceneri del teatro Explò verso la metà del 1981 subito notificandosi nel volere di un teatro che accolga tutte le arti. L'orientamento dell'intera opera della compagnia è la concezione di un teatro rivolto a tutti i sensi e in tutti i sensi del nostro apparato sensoriale. La grande struttura degli impianti visivi e sonori si avvalgono sia del vecchio artigianato scenografico teatrale, sia delle nuove tecnologie digitali, creando una drammaturgia che va dalla musica, alla poesia e alla letteratura mettendo sempre in primo piano un impatto visivo sconvolgente e, si potrebbe dire, onnipotente, derivato dalla stimolazione della nostra percezione visiva che rimane sempre e comunque umana, quindi mortale e non modificabile a priori. Gli spettacoli sono caratterizzati da un forte sperimentalismo pur mantenendo le ordinarie convenzioni teatrali (attore, scena, testo) ma lavorandovi all'interno e ponendoli in un rapporto conflittuale, privi della garanzia della rappresentazione e narrazione; una scrittura scenica che non si risolve con l'annullamento del linguaggio ma ne cerca l'esasperazione. Le rappresentazioni della Socìetas si fanno baluardo del paradosso partendo dal concetto di iconoclastia e dichiarandosi fortemente contro la creazione di immagini, ma motore necessario per la produzione di nuove figure e forme di pensiero potenti nate già dalla base di entità preesistenti. Il concetto di trasformazione è ben presente, come vediamo nella suddetta presentazione: Romeo Castellucci ci dichiara come nella contestazione del linguaggio stesso, nella sua negazione appunto, emerge l'evoluzione del soggetto: -"un torrente di segni che passano, anzi trasmigrano da una forma all'altra"-, che altro non è che la vera finalità della Compagnia. Questo concetto lo esprime Claudia Castellucci in un documento scritto in occasione del convegno sul teatro contemporaneo svoltosi a Zagabria il 25 giugno 1995 in ambito di Eurokanz 1995, del quale riporto l'analisi: con l’autrice si parla di creazione per una ri-creazione, che deve avvenire dalle sue stesse ceneri con i suoi stessi elemen-
ti di composizione; in questo modo abbiamo un continuo movimento e unica necessità quando si parla di miglioria. Questo processo deve avvenire da una mortificazione individuale della propria volontà, indicato come il grado più alto di annullamento-combustione. Il primo atto di creazione è lo stagnare nella propria degenerazione, solo così si è in grado di conoscere tutti gli elementi che la interpretano. La Socìetas “produce” prodotti che si rivelano poi, condizioni di autoimpedimento necessari e unici per la condizione favorevole dell’arte (paradossalmente parlando); ostacoli da scavalcare non per avanzare ma per riconoscerci in uno stato originario di nullità inattiva. L’atto di negazione condotto dalla SRS attraverso le forme dell’iconoclastia, dell’autismo e del masochismo sono punti fissi di anomalia e vergogna di vita che, però, con il loro lavoro si fanno protagonisti, subiscono uno scatto d’importanza, che fa temere e cadere in una sorta di “vergogna” in tutto ciò che è il teatro fino ad ora conosciuto. Vediamo di analizzare il termine ICONOCLASTIA in una chiave di lettura diversa dall’usuale. Come ben sappiamo Iconoclastia è l’annullamento, cancellazione delle immagini religiose. Se ci riferiamo al mondo dell’arte, ricordiamo come Platone ritenga la realtà rappresentata una verità ingannevole rispetto all’incorruttibile purezza delle idee. L’arte anzichè eliminare la menzogna della realtà ottica, la riproduce cercando inutilmente di superarla. Questo stesso pensiero è condiviso dai componenti della Compagnia, ponendolo in un contesto che strozza in una paradossale contraddizione l’arte in tutto più simile all’esistenza, che è la mimesi teatrale. Per fare teatro di elimina il teatro. Si opera quindi un’iconoclastia che, però, non vede di eliminare la manifestazione di un fenomeno, non si cade in un “aniconismo”, piuttosto si parla di una “rottura dell’icona”; ci si rende conto della sua fram- mentata essenza, la si mantiene visibile e da questo punto può avvenire il lento processo di trasformazione. Con questa affermazione mi associo alla contraddizione letteraria per la quale, ora, l’iconoclastia che conoscevamo, si proclami sempre figurativa. La condizione dell’orientamento è sempre ambivalente: l’arte è legata alla colpa di esserci come fenomeno e come rovina di ciò che esiste. Ma l’iconoclastia che sia artistica, religiosa, militare, avviene sempre tramite
una “rottura” (accenno precedente) di qualcosa che non si sa più cosa sia ma che mantiene l’immagine che porta il segno di questa lacerazione e che compete con l’immagine di “prima”, quella passata. (Già qui si parla di mutazione da una cosa ad un’altra, in questo caso la trasformazione avviene dopo una distruzione). Nell’iconoclastia teatrale, la rivoluzione deve rivolgersi all’assenza: “nell’atto stesso che mette in moto creazione” solo in questo modo si raggiunge il centro. L’artista teatrale deve compiere un enorme gesto di coraggio: rompere le immagini che lui stesso ha creato; solo da questo, egli, ne attingerà la forza e solo in questo modo la bellezza dei pezzi frammentati continuerà a vivere alimentando e rafforzando il corpo del teatro rimasto. Sembra che qui si installi una situazione di immobilità, di morte, ma il movimento dato dalla trasfigurazione dei pezzi sottratti alla visione del pubblico, può avvenire facendosi fenomenologicamente sentire attraverso il corpo dell’opera rimasto, rovinato, ma appunto per questo esso è parlante e trasformante il mondo. Dopo queste brevi riflessioni vediamo, quindi, come l’iconoclastia rappresenti perfettamente quel concetto iniziale di movimento-mutazione che volevo esprimere. L’iconoclastia letta in questi termini è esattamente la trasformazione di qualcosa che prima aveva una forma e ora ne acquista un’altra; essa non è annullamento delle forme, ma è il loro processo di trasformazione. Nel teatro, l’iconoclastia è un movimento volto alla riscoperta della sua essenza, del suo motore alimentante più intimo, e quindi, citando ora lo scrittore Italo Calvino nella conclusione della sua opera “Le città Invisibili”, bisogna porre molta attenzione a non cadere nella ricerca della sintesi pura, ma piuttosto di tentare nell’eliminazione del superfluo in un continuo apprendimento e attenzione nel dis- tinguere chi e cosa “in mezzo all’inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio” e con esso collocarvicisi. Tornando alle caratteristiche che compongono il teatro del Socìetas vediamo come una particolare importanza è data dall'uso della voce, campo poi esplorato più approfonditamente da Chiara Guidi, intesa come forma specifica, non veicolo di senso e non imprigionata nella funzione di esplicazione di parole. Per Castellucci l'importanza è data dall'intonazione e non dal cosa si pronuncia, definita da esso stesso "la tecnica d'Egitto". Altra importante attenzione è data
dall'esistenza del mito: esso ha la caratteristica di formarsi indipendentemente dalla creazione fantasiosa di un singolo, per Castellucci esso ha sempre un carattere impersonale, molto sopra le righe, è solenne e antinaturalistico, anche nella concezione di immagini che creiamo in modo automatico, perché sono contenute nel buio del nostro corpo. E' per questo che gli spettatori vengono colpiti da ciò che vedono sulla scena e non sono da definirsi come presi da "fantasie d'artista", hanno risonanze più profonde, interiori, e quindi o urtano la sensibilità o la fanno sussultare di piacere. Anche la fiaba e il folclore non cambiano "a dispetto dell'impero della parola"; il testo, quindi, deve richiamare questa solennità "atemporale" strutturandosi con parole che sono scelte in base al suono espresso che debba essere quanto più solenne e arcaico. La messa in scena delle opere è a disposizione frontale, che è sempre rivolta verso il pubblico, vi è una totale privazione della prospettiva che prende le caratteristiche di sudditanza dell'esistente, che va contro il superreale; essa non esprime solennità, è legata alla cronaca realista e quindi immediatamente eliminata in quanto matrice di perdita di quella che è la prospettiva interiore del singolo spettatore, rompe il muro dell'iconostasi che dicevamo prima, viene tolta la rigidità e la regola per far posto a tutti i suoi spessori; si elimina la prospettiva reale per creare quella interiore che non si deve vedere e che è estrema- mente personale. Ci sono molti metodi e molte tecniche per arrivare alla prospettiva di una messa in scena, mentre la bidimensionalità da loro resa protagonista è una, e sempre la stessa. Con la diretta conseguenza della creazione di un muro tra il pubblico e l'opera che permetterebbe lo scambio dialettico "superbrechtiano" così come lo definisce Claudia Castellucci, un muro quindi che separa, ma che va anche condiviso e nella condivisione sta l’essenza liturgica del teatro, una coincidenza tra rappresentazione ed esperienza che vede una parte attiva (gli attori) e una passiva (il pubblico) che assorbe lo spettacolo in blocco, chiamato da questa pratica spettacolare a una riflessione esplicitamente politica e etica.
S A N T A S O F I A , T E A T R O K H M E R
Santa Sofia, Teatro Khmer è l'opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, denunciata nella mia prefazione, attraverso una lotta condotta dall'interno. L'immagine del palcoscenico, essendo lo specchio del mondo, la si dava maledicendola, come i graffi che i bizantini davano alle immagini con le lance. Così lo stesso linguaggio si ritorce contro sè stesso, patendo la contraddizione di dover usare lo stesso vocabolario del mondo che pure si voleva abolire. L'arte ha la necessità di esserci, e quindi di subire le condizioni dell'esistente, nel suo sperimentare la liberazione. Le figure centrali di Santa Sofia sono Pol Pot, il più grande iconoclasta dell'era contemporanea e Leone III l'Isaurico, l'imperatore di Bisanzio propugnatore dell'iconoclastia. Questi, al di là dell'erudizione, sono stati i principali assi di Santa Sofia, che orientavano gli attori a maledire la propria presenza vivendo il palco come luogo orrendo. Da questa fase di ustione, da questa esperienza che stigmatizza, si è ricercata la vera immagine. La spinta iconoclasta dell'opera era una spinta verso la vera immagine. Così dallo zero raggiunto dal rogo iconoclasta sono rimasti i pilastri portanti, la radice più intima dell'immagine. Dal manifesto consegnato in teatro scritto da Claudia Castellucci nel novembre del 1985, capiamo come la Socìetas vuole che non ci siano cose da vedere ed essere commentate dal punto di vista estetico, visto che, la rappresentazione è rifiutata e si predica la nuova religione basata sulle colonne dell'Irreale; infatti, il reale lo si conosce e ha già deluso, ma la chiave per la nuova lettura non è, ad esempio, il surrealismo, che ha nel suo inconscio un conservatorismo rielaborato, n'è il teatro iconoclasta, il quale vuole abbattere ogni immagine per aderire alla sola fondamentale realtà: l'Irreale anti-cosmico, tutto l'insieme delle cose non pensate. Questo nuovo teatro utilizza le parabole come mezzo di comunicazione, da molti criticate per il loro aspetto molto semplificato e la simbologia così scadente. Ma è proprio questo il territorio comune da abitare, il colto e l'incolto hanno le stesse identiche possibilità di comprensione perché si accetta una lingua senza doppi sensi poetici da "decifrarne la complessità" e si trascende completamente la cultura. Gli unici fatti della realtà che vengono scritti o utilizzati, sono esclusivamente funzionali, nell'attesa e speranza che un giorno se ne potrà fare a meno, come, ad esempio, nell'uso della lingua italiana. La bravura nello
sceneggiato di Santa Sofia consiste nello sfruttare le sue deficienze ontologiche e, appunto, nel comporre parabole, visione diretta dell'Irreale. Il nuovo teatro, come ormai lo abbiamo battezzato, tiene il tema del CORPO come necessario e fondamentale: il coinvolgimento degli attori (attore sacerdotale, attore partecipante, spettatore) deve essere completo anche se non si attua colpendo il sistema nervoso in senso realistico (attori che fanno piangere perché piangono disperatamente, ecc..), il corpo recitante deve essere convinto di tutto quello che gli si agita intorno a lui, non deve gelarsi né ragionare ma convincersi completamente. Tornando allo spettacolo, la scena si apre con la visone annebbiata da fumo di incensi, mirra e cherosene del grande volto del CristoOgdoade, Dio dell'amore tratto da un'icona achiropita di Novgorod, e sul palco vediamo il letto di malattia del generale dell'odio, Pol Pot. Questa dicotomia è madre di una lacerazione che già per sé stessa è dramma in atto: questa polarità eccessiva ha come segno messaggero i corpi degli attori. I monaci, il guerriero, il bambino e l'imperatore sono gli unici fautori di una narrazione data solo dall'utilizzo del proprio corpo in contesti che rimangono lineari e quasi indecifrabili se non ci fosse una memoria-serbatoio data ad ogni persona (per ricordare la Cambogia e la politica dei Khmer Rossi); il fulcro dell'opera, però, è il corpo del generale che erutta un testo rimanendo immobile come pietrificato. Il fisico dell'attore è scoppiato nella paralisi che lo abita, le sue azioni sono nullificate per comprimere al massimo il soma e fargli trasudare energia stante pura, immobile, operante, invisibile, non bruciata dalle membra. La voce ha il sopravvento su tutto, tecnicamente è profusa dalla tecnica del Mantra, essa diventa un fatto immanente, un'azione essa stessa. Ma la forza della parola nell'opera analizzata non è solo che all'inizio: i Monaci descrivono i movimenti planetari degli astri attorno ad una Parola Qualsiasi, vista come il sole: che è "Patata". Una parola dal potere disarmante, da l'innocenza del suo essere: un tubero dagli angoli smussati, un oggetto che passivamente entra nella nostra vita e che non metterà in crisi mai niente al mondo. Ma l'obbiettivo è quello di ABITARE quella parola in un contesto improprio e sconosciuto per chi "abita" ancora il reale e il giustificabile tangibile.
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I Miserabili, è l'opera che ha radicalizzato i contenuti di Santa Sofia, precedentemente illustrati, sul versante del linguaggio. Il titolo identico a quello del romanzo di Victor Hugo sta a dimostrare la signoria dell'artista politico e sociale su di noi, ed inoltre, un nodo lega la produzione della Socìetas al defunto scrittore: la trattazione "ab intra" dei miserabili nel mondo. Questo dramma è una strada in cui transitano tre grandi Miserabili, e questa strada rappresenta un giorno, ripartito dalla mattina in poi. I tre Miserabili sono le uniche persone drammaticamente coinvolte e durante il transito sul palcoscenico ognuna di loro sosta accanto ad una pietra miliare che la induce al magistero della propria paralisi teatrale. Oltre ai Miserabili e alle loro trasfigurazioni è presente un Araldo, un grande ignorante che non sa assolutamente niente e che non vuole sapere niente, massima espressione del comportamento; l'Araldo vive tra palcoscenico e platea intermediario tra due luoghi. Egli non è coinvolto nel dramma, eppure ne è il protagonista, perché dispiega il carattere di più pura realtà della rappresentazione: il suo netto rifiuto a proferire parola. Posto al di sopra del centro del teatro, l'Araldo sta in piedi dall'inizio alla fine senza cambiare la propria posizione. Come l'origine statica del gorgo, l'Araldo concentra nella propria paralisi il dinamismo di tutti i fenomeni. Concentriamoci sull'utilizzo del corpo come mezzo per stabilire un equilibrio di linguaggio più che un equilibrio di membra: vedremo il passaggio, uno ad uno, di singoli attori-monadi che brancolano nella penombra del palco in cerca della propria definizione linguistica: il dramma nasce per loro (e per noi che li compatiamo) dalla necessità di farsi udire e vedere in un atto che si ritiene maledetto fino al punto in cui le parole e i gesti si ripiegano di risentimento su sé stessi, come per annullarsi nel momento in cui si danno. Vedremo sfilare, uno dopo l'altro, la Donna Coperta da un velo nero, l'Impiccato Vivente appeso, a tre metri da terra, con un cappio al collo, il Masticatore di Parole, colui che parla a ritroso, ingerendo la voce e le parole. Ma ben presto nel corso della rappresentazione, un quarto personaggio s'insinua fino a raggiungere il centro del palco: non si sposterà più e non parlerà mai. E' l'Araldo. Il dogma, la meta che i tre attori agognano a raggiungere senza saperlo. Il gesto si scinde e diventa l'assoluto-conchiuso, estraneo ai mutamenti
dell'esistenza, l'azione è sempre quella di calpestare e occupare un palco. Ma paradossalmente la grammatica computistica de I Miserabili mira ad una tensione del distacco dal corpo alla lingua. Il gesto, ogni gesto dell'attore in scena si carica tragicamente di consapevolezza della propria posizione estrema, si carica dell'assolutezza silenziosa del simbolo. Appena l'Araldo raggiunge il luogo assoluto del possesso del palco, non si muove più e non parla più, ma con quale energia compie i passi per l'allineamento apollineo del palco, per la "fasatura aurea" con esso? Un mutismo. Mutismo non già come rinuncia ma come momento di lotta suprema, che è già vittoria, sull'abisso linguistico. L'araldo per la sua antica natura, è colui che reca messaggi e macella animali quando giunge; ma il mutismo di questo paradossale personaggio, che ha perduto la strada, come un "vox faucibus haesit", a cosa può riferire? Dobbiamo renderci conto che il Messaggio è il Messaggero. La contraddizione diventa tautologica: gli estremi del linguaggio sono toccati; esso poi ha come caratteristica sostanziale la capacità di assumere follemente la condizione di spettatore, esso ascolta e guarda. Noi guardiamo la mania della sua stasi, e lui scruta in profondità i termini della sua fuga dal suo stesso corpo che è quello della lingua. Vediamo ora la figura dell'Impiccato Vivente. Il suo corpo, essere parmenidiaco esiste così. Egli è colui che, tiene il "luogo del nulla". Il non avere altro contatto spaziale se non la corda, sottolinea questo "non stare", sospeso nella vacuità del palco-nulla; significa far calare la lingua nel pozzo dell'assenza. L'Impiccato che non vive e non muore, è il parlante che tramite un nodo alla gola disinnesca d'efficacia il linguaggio storico del teatro; esso dice male (maledice) le proprie stesse parole. Noi spettatori intuiamo che la corda che rappresenta la sua prigione, che nello stesso tempo lo stringe e lo sorregge, è il suo linguaggio come dimora abituale. Il Masticatore di Parole, invece, la sua voce entra nella bocca. Entra e non esce. Attraverso una tecnica intra-fonica, le parole s'inghiottono come bocconi carnosi. Egli deglutisce l'aria e, con essa, anche le parole nominate, sottratte al mondo rappresentato. Assolutamente rilevante è la composizione scenica dell'opera che ora andrò ad illustrare brevemente: non compare il sipario d'apertura ma disseminati nel tempo e nello spazio appaiono dei piccoli stendardi-sipari che
hanno la funzione di occultare l'ingresso degli attori. Ogni entrata singola è annunciata dall'affacciarsi sul palco di un telo che eclissa le sembianze dell'attore, ingresso simbolicamente visto come un'uscita dal mondo. La luce è fissa e abbandonata, uguale a sé, non deve interferire o illuminare, deve appena far vedere. Questo non-buio e insieme non-luce è vissuto come stato medianico di luminosità colto nel momento ermetico di crisi. A rimanere visibile da sola, è la parola. Noi che assistiamo al dramma ci accorgiamo presto di udire con gli occhi e vedere con le orecchie. Ciò che è caratteristico ne i I miserabili è proprio il "diviso"; metaforicamente ad ogni portone manca un'anta e quella che rimane non gira più sul suo cardine, così che sfugge alla propria funzione di apertura e chiusura. Ogni funzione è svolta a metà: la comunicazione è mediocre, né divina, né infernale. All’interno dell’opera, la porta si fa simbolo del simbolo, cioè dell’attore, che è come un vaso destinato a non essere mai pieno. L'oggetto della sua inaudita e limbale azione diventa proclamazione di quell'anta mancante, in una descrizione che ne tratteggi l'invisibilità dell'assenza.
I L T E A T R O D E I M U R A T I
di Claudia Castellucci (saggio sul discorso pronunciato a Ivrea , il 25 settembre 1987, in occasione del convegno "Memorie e Utopie") Claudia Castellucci solitamente apre la comunicazione con i suoi interlocutori sempre citando le azioni del teatro da Lei e il fratello Romeo creato, giocando con una sorta di giustificazione rispetto alla pratica teatrale inusuale e ancora acerba dei loro primi anni di attività. Nel discorso fatto al convegno di Ivrea, essa non parla dello stile e della tecnica adottate nel loro fare teatro ma trascura questi elementi a beneficio di altri che essi ritengono primari, argomenti che vengono incontro: essi sono pre-tecnica, ante-teatro.. in altre parole essi sono ispirazione. Si parla della nascita di un teatro avulso, un luogo lontano, dissimile, nulla che possa a che vedere con l'esperienza, un posto dove si respira ignoranza, un'iconoclastia preconcetta (il solo modo per far conoscere le cose, avendole etichettate prima, altrimenti nulla le avrebbe portate all'attenzione e alla loro qualificazione), un posto dove si è sicuri di non imbattersi in luoghi comuni e non si avrà la memoria profanata al sentire certi nomi, suoni o altro. Per Claudia Castellucci, questo è il momento di rifiutare la conoscenza, del -"Rovesciare definitivamente i sacchi ripieni della farina altrui"-. Riferendosi alla ricerca sudata di cose che stanno oltre la cultura dell'universo chiamato Europa Occidentale e America Settentrionale, ricercare altre fonti, altri studiosi che, ad esempio, maledicano Giotto e Leonardo Da vinci con argomentazioni del tutto motivate. Questo è solo un esempio per quello che la Castellucci intende nel tentare di creare un'aia, una landa desolata dove il corpo denudato è bersaglio di "TUTTO". Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio ha come caratteristica l'impossibilità di un confronto dialettico, nessun dialogo tra teatri né tra attore e spettatore, perché il luogo attivo è solo quello del palco che è il nucleo attivo del "nulla" che dicevamo prima. Il palco è un luogo avulso. Attivo è il pubblico che riesce ad essere veramente passivo: se attraversa o meno, il pati- mento; un pubblico dialetticamente attivo non può patire. Secondo la Castellucci, questa è l'epoca in cui si deve sentire il dovere spontaneo di scandalizzarsi davanti a tutto ciò che non insegna, a quello che gozzamente ci si propina, perciò essa e tutta la compagnia si rivoltano dall'altra parte. Il primo insegnamento che ci danno è cer-
care di avere una dissimiglianza, una separazione; il loro lavoro è frutto di una divisione che si schiera nettamente in un campo, che è il lavoro stesso, è il dramma chiaro, cioè la rivelazione chiara di chiari argomenti. Santa Sofia Teatro Khmer, il dramma del 1985, che ha siglato l'avvento della grande Separazione. e un nuovo teatro-pragma che utilizza la Parabola per le sue comunicazioni, perché le cose che vengono dette sono troppo riservate (separate) per essere dette in maniera ordinaria. Ricordiamo anche I miserabili, l'opera che nel 1986, nello splendore della paralisi e del mutismo in essa contenuti, così nor- mativi rispetto al teatro di ora, creava un teatro alieno dal progresso artistico. Non bisogna credere nel teatro, nelle sue possibilità creative in un contesto già plagiato in partenza. Perciò abbiamo visto come la Socìetas trascura simili priorità dispositive, consapevoli che nel seguirle la renderebbe debole, nei contenuti di sceneggiatura e teatricamente di disposizione. La bravura di un attore consiste nel non dare luogo a pensieri. L'attore deve essere irresistibile, o meglio irrimediabile: questo gli è chiesto; perciò la sua tecnica non deve mai farsi visibile, non deve originare pensieri. L'attore neutralizza la veemenza di qualsiasi pensiero, combattendosi contro, come lo stesso fa la scrittura, procedendo contro se stessa per non indebolirsi (esempio da fare usando la Caduta di tono, che consiste nel far cadere a picco un discorso che era giunto alle vette del testo). Questo è un teatro avulso, un teatro che esula le categorie del vecchio e del nuovo, i Castellucci non fanno parte della schiera dei nuovi che smontano il vecchio per riesumarlo. In realtà vecchio e nuovo, con il loro nevrotico alternarsi, non sono che la doppia azione combinata per un unico fine: mantenere lo stato del mondo, mantenere lo stato del teatro, che è come dire: teatro di Stato. Il teatro da ritenersi degno non si misura con quello che è avvenuto prima, né realizza le aspettative future del presente, il vero teatro degno è autoctono, alieno, dissimile, e la sua genesi è blindata. Da qui la spiegazione del titolo: i murati sono cinti da un muro e coperti da un tetto. Chi abita dentro al muro sta compiendo un gesto totalmente escluso dal mondo intero, di cui non vuole sapere niente. Vi è una netta separazione tra dentro e fuori, e nessuna dialettica è possibile tra i due termini; lo stesso tra i murati e il mondo libero, perché il muro non è propriamente la discriminante tra il "dentro" e il "fuori", bensì tra
un "dentro" e un "altro dentro" non comunicabili e non paragonabili. Il fatto di usare la stessa parola per descriverli sta a testimoniare l'abisso incolmabile che li separa: nessuna parole è divisa da un'altra come in se stessa. Usare due parole contrarie per esprimere mondi contrari, come lo sono il teatro dei Murati ed il mondo libero (se non si fosse capito, siamo noi) significa far combaciare i due mondi anziché allontanarli. La regola del coincidentia oppositorum può contemplare qui il suo pieno avvallamento. Il teatro dei Murati, quindi, non solo non è lo specchio del mondo libero ma non ne costituisce neppure il suo opposto speculare. La stessa volontà di separazione non è praticata da entrambi gli stati, ma solo da quello cinto da mura. Il mondo libero, infatti, vorrebbe continuamente penetrare in quello dei reclusi e aprirlo, informarlo, aggiornarlo, dialogare e partecipare; mentre il recluso vuole chiudere, separare, ignorare, non partecipare e realizzare, in questo, una rivelazione. A questo punto è importante analizzare la stranezza della loro paradossale vicinanza, che si realizza attraverso la rappresentazione teatrale, ma neppure in questa occasione il Teatro dei Murati è disposto ad abbattere il proprio muro, ma è in forza di questa inviolabile barriera che è possibile una comunicazione reale con il mondo libero. Tutta la verità sta già nella parete, in questo elemento di divisione che solo i Murati costruiscono trasfigurandolo. La costruzione, per manifestarsi, necessita della più assoluta ignoranza delle forme esistenti, attende alla disinformazione e pratica del pregiudizio di fronte a certe scelte, non volendo essere costretti a conoscere prima ciò che sicuramente avrebbe scartato. In questo senso l'attività dei Murati non è una reazione e la relativa creazione di una scena alternativa di questo mondo: i Murati non pensano mai al mondo libero, nemmeno per distanziarsene, il muro non è semplicemente una difesa ma è fonte inesauribile dell'ispirazione che ho menzionato all'inizio. Ciò che scaturisce dai drammi inscenati dalla Socìetas è un vero e proprio cosmo delle evidenze, e i brani biografici che talvolta hanno introdotto sono in realtà il visibile dell'invisibile, cioè il pensiero. Ora il primo elemento del pensiero non è il concetto, ma l'esistenza, perciò quando un concetto è astratto la parola che lo esprime è anonima, e ad essa si oppone il mondo delle evidenze. Da qui la loro predilezione nell'introdurre cronologie linguistiche già morte, che non cir-
colano più nell'usura progressiva della fabbricazione delle parole, la loro stasi è perfettamente consona alla massima semplificazione e univocità. A questo punto è certo che, il dramma è una salma confezionata destinata a non cambiare , ma qui non fa altro che partire l'analisi al riguardante la tecnica che supera sé stessa: le parole non risuonano soltanto, ma anche gli attori stessi si tramutano in parole, esistenti, che rappresentano un'esistenza. Il dramma ideale elimina gli elementi discorsivi e tutti i termini intercambiabili per diventare una sola parola. Lo spettatore, infatti, non deve optare o comporre i significati che vi trova, ma essere come colpito da un lampo, riconoscerlo, tenerselo dentro e capire l'intera opera vista dai suoi occhi solo quando è andato via dal luogo dove si è svolta l’opera.
L A D I S C E S A D I I N A N N A F a b u l a d e l m i t o s u m e r i c o Titolo sconosciutissimo, preferisco illustrare la trama dello spettacolo per meglio comprendere la successiva analisi. Inanna, dea dell'Amore e della Guerra, è regina di Uruk. E' chiamata Inanna, perché è "Signora del Cielo" (In, signora e An, Cielo); Enki, il demiurgo, è il possessore dei Me, cioè di tutte le capacità di dominio. Grazie ai Me di Enki, la città che egli governa, Eridu, gode di prosperità e ricchezza. Inanna decide di impossessarsene a vantaggio della propria città, così invita Enki a un banchetto e lo fa ubriacare per compiere il furto dei suoi Me. Inanna sposa il pastore Dumuzi che diventa così, il sovrano della città. Non soddisfatta di tutti i poteri assunti, decide di conquistare quello estremo: il regno dell'Oltretomba. Essa discende agli Inferi per togliere il potere alla sorella Ereshkigal che lì governa; riesce a superare le sette porte di accesso dopo essersi progressivamente spogliata dei suoi abiti. Infine giunge, completamente nuda e indebolita, davanti alla sorella che la schernisce. Enlil, avvertito del pericolo in cui si trova la regina, manda due messaggeri a portarle l'acqua e il cibo della vita, così che questi riescono a rianimare il suo cadavere che giace appeso ad un chiodo. Ma Inanna non può più uscire dagli Inferi, a meno che non riesca a mettere qualcun altro al posto suo. Così, scortata dai Galla, i demoni dell'Oltretomba, torna nuovamente sulla terra per cercare chi prenderà il suo posto. A Uruk trova Dumuzi assiso sul trono e dimentico della sua sorte, così Inanna decide di consegnare lui come suo sostituto. Egli viene trascinato agli Inferi, ma il dolore della sorella Geshtinanna è così profondo da indurre Inanna a concederle di prendere lei il posto di suo fratello, ma solo per una metà dell'anno. Così Dumuzi ogni anno morirà e rinascerà dagli Inferi per sei mesi. Secondo alcuni appunti attorno alla rappresentazione qui sopra citata di Romeo Castellucci, emerge come anche quest'opera è contro il linguaggio e come riprenda in modo molto arcaico quello che sono gli scritti platonici sul mondo dalle idee e dell'Iperuranio. La tragedia ha come protagonista la "battaglia dei fuchi", la lotta cioè per la liberazione dall'alveare della presenza maschile condotta da Inanna-Ape Regina che spedisce Dumuzi agli Inferi del linguaggio, nel mai scritto. Ma proprio qui, durante la discesa del corpo-soma vi si compie una nominazione delle cose; nel buio rovescio delle
parole, nella parte non vista, che si supera la natura: imitandola (mimesis). L'affermazione centrale che fonda l'istituto teurgico del teatro è l'attore. La sua teurgia, sarà volta a sé stesso finchè, e affinché, il corpo suo sia abitato dalla parola vera: quella del corpo materiale come matrice, la "tensione" sarà quindi di farsi dimora: "utero esposto". Vediamo ora, come la composizione scenica rappresenti al meglio le azioni e le parole calate in un quadrato di spazio sceno- grafico, che fornisce il supporto fisico di contenimento per il battente rimbalzo narcisistico del mondo attoriale. Nel numero 4 degli angoli del quadrato abita l'idea della stabilità materna, della sua pace fecunditas, è riconosciuta nel quadrato dentro al quale è adagiato il mito, come quadrato era il "Telesterion" dei Misteri Cabirici di Samotracia ricavato dai legni di cipressi e laccato di sangue taurino. Il disegno dello spazio scenografico è quello degli studi prospettici del Quattrocento italiano, nella rappresentazione della conquista della realtà terrena, dove si intendeva vedere l'uomo nella sua unica, possibile cornice: una finestra aperta sul mondo, spalancata dopo la claustrofobica chiusura medioevale; spazio prospettico diviso da sei babbuini e dal profumo del burro sul fuoco: l'unto del burro è un odore di umidità, un ricordo di cucina. I babbuini hanno fatto irruzione in sala, la scimmia è tesa a sostituire l'uomo, a rammentargli il legame stretto con l'animale: sul palco questo è una minaccia. Il piccolo tempio marmoreo degli animali e degli attori è fronteggiato da un quadrilatero vivo, sensitivo che è lo spazio dei partecipanti. L'autore ha scelto di punteggiarne gli angoli con quattro alberi vivi, dei pini che danno ombra e gettano fantasmi tra la gente. Gli alberi la cui gentilezza viene presto stornata dai ricordi mitici della mutilazione di Attis; dallo smembramento dei corpi tra due pini incurvati da Sini, e dei frutti "osceni" e sanguinanti offerti in sacrificio sui suoi rami infruttuosi. Un'idea di piccolo supplizio alberga tra le sue foglie aghiformi. Il piccolo supplizio che ristagna in ogni fruizione d'arte. Il "topos-natura" della sensibilità e ricettività dei partecipanti è davanti al "topos-cultura" del reperto archeologico marmoreo degli attori. E' uno svuotamento reciproco di energia che è la forza di strutturale di tutta l'opera. In terra giacciono coperte di lana che invitano a fermarsi alla pace: la coperta ha, come immagine, quella dell'uomo colto dalla sua debolezza: il sonno, il freddo e la vergogna. Anche il cor-
po dello spettatore è mirato ad una condizione: quella della colpa e dell'introspezione e le coperte servono a mediare una durezza. Questo alloggiamento geometrico è avanzato, in forza di linee convergenti, verso il punto di fuga verso ciò cui veramente si fugge: il buio. Ogni architettura priva di figure umane suona sempre come arcana. Anche se il punto di buio è nascosto dal fusto di una colonna la sua presenza è visibile e pregnante. E' palese che, completando il disegno prospettico, le righe, come per rimbalzo, tornano violentemente indietro come se lo spazio prospettico tornasse a diventare tana, e lo è nel preciso istante in cui Inanna varca la soglia dell'Oltretomba per rimarcare il carattere di buio essenziale ed esistenziale, momento in cui le scimmie irrompono in scena. Tornando alla simbologia del primate, i babbuini sono anche attribuiti a Toth, signore egiziano del tempo e della scrittura. La scimmia sta come punto intermedio tra il genere umano e quello animale, così come la luna rappresenta lo stato intermedio tra il sole e la terra. Si sa che quando gli egizi rappresentavano un babbuino, questo poteva simboleggiare l'astro lunare, perché -"quando la luna, entrata in congiunzione con il sole, è privata della luce per la frazione di una determinata ora, il babbuino maschio non ci vede più, non mangia e, depresso, si aggira a capo chino come se si lamentasse del rapimento della luna... Se gli egizi vogliono indicare i due equinozi disegnano un babbuino seduto: in tali periodi infatti, l'animale urina dodici volte al giorno, cioè ogni ora, e così anche le due notti corrispondenti. Non è dunque immotivato che gli egizi scolpiscano un babbuino seduto sulle loro clessidre ad acqua, congegnate in modo tale che l'acqua fuoriesca dal membro animale, poiché esso indica le dodici ore dell'equinozio". Si vedeva seduto il babbuino sulla "Colonna del Ged", una colonna a quattro capitelli, simbolo della resurrezione di Osiride, il corrispettivo egizio di Dumuzi. L'animale allora sovrasta la resurrezione, lui Signore del Tempo e dello Scrivere. Questa colonna viene ritualmente abbattuta ogni qualvolta Osiride-Dumuzi va al Grande Infero, così viene issata di nuovo quando il Dio-amato-dalle-donne ritorna dall'Oltretomba. Nulla al caso: la scimmia primordiale, come portatore d'anima, è l'ipostasi, l'icona dell'attore, ed è sua ombra, suo intralcio, suo sogno, suo desiderio, sua lingua, suo corpo, suo pathos, ethos, rithmos. Per questo Castellucci, ha
cercato i movimenti degli animali impastati con quelli delle bestie, per farne un unico magma. Un animale sul palco è pedagogo: è un autorità che lotta, che indica il percepire sul suolo come fatto profondo di "deima panikon", dice di tutta la paura necessaria, mette al mondo e insegna i primi passi. Concentriamo ora la nostra attenzione sul palco, che vediamo sia un palco-alveare (similitudine già espressa all'inizio del saggio) dove del miele cade abbondantemente. Questo atto elementare, rimane come gesto semplice del buttare, di rinuncia alla pienezza; rimane un'emorragia artificiosa, di sgonfiamento drammaturgico di sostanza. Il liquido versato consacra il palco come un centro universale che lo addolcisce e lo abbevera. Il suolo-fiore riceve la visita dell'attore-ape che, con procedimento inverso, deposita sulla corolla del miele come fosse un’ape innamorata. Il liquido zuccherino è il rilevatore magico del sentimento amoroso di Inanna e Dumuzi, del loro accoppiamento pubblico. Ma la presenza della dolce sostanza, è in prima istanza, rivelatrice di una vita d'alveare regolata da Inanna-Ape Regina, madre di tutta la stirpe. Tutti gli elementi sono nati da lei, unica madre, mentre nessun legame d'affetto lega le api ai molti padri. Intrecciati alle azioni del mito, c'è un grande uso di profumi, aromi e unguenti, che si collega alla sensibilità olfattiva superiore delle api. L'uso dei profumi tende a creare un vero e proprio sotto-testo, un altro linguaggio che sottende quello parlato: di soavità fruibile più dagli insetti che non dalle persone, dagli edifici che, di volta in volta, ospitano quest'orgia teatrale.
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Anche qui, illustro la trama complessa del terzo importante lavoro della Socìetas: Gilgamesh, figlio della dea Ninsun e di un mortale, è re potente di Uruk, città fortificata e impenetrabile. I suoi sudditi, stanchi dei suoi dispotismi, supplicano gli dei di liberarli dalla tirannia. Così sorge Enkidu, un gigante dotato di una forza straordinaria che, al contrario di Gilgamesh, è incolto e selvaggio come le fiere con le quali lui vive. Gilgamesh avverte il potenziale pericolo della sua esistenza, così gli invia una prostituta affinché possa sedurlo al fine di condurlo in città. La ragazza si unisce a lui, per sette giorni e sette notti, fino a convincerlo di seguirla in città, dove gradualmente imparerà la civiltà e conoscerà Gilgamesh. Enkidu e il suo avversario competono tra loro per la supremazia della città, e Gilgamesh, più astuto, ha la meglio, tuttavia è proprio a partire da questa lotta che si consolidano la loro fraternità e il loro amore. Tutti e due decidono di partire assieme in missione contro Huwawa, un mostro che sta a guardia di una favolosa foresta di cedri e che uccide tutti con il solo suo fiato, ma dopo numerose peripezie, i due riescono a sopraffarlo. Al ritorno Gilgamesh vittorioso riceve le profferte amorose della dea Isthar, ma egli le respinge con disprezzo. Resa furente da questo inaudito diniego, Isthar crea un Toro celeste capace di distruggere l’amato e tutta la sua città., ma ne esce sconfitta, ed Enkidu, ebbro per la vittoria, sfida la dea e, a sua volta, la insulta ma il dio Isthar assistendo all’umiliazione si vendica facendolo ammalare e poi morire. Gilgamesh, disperato per la morte dell'amico, piange per sette giorni e sette notti, nella vana speranza di ricondurlo in vita. Dopo la sepoltura egli vaga nel deserto, abbattuto dal destino di morte che vanifica qualsiasi atto vitale. Così parte alla ricerca, al di là dell'orizzonte marino, del solo uomo sopravvissuto dopo il diluvio universale, affinché possa apprendere la via dell'immortalità. L'Oceano, per tutti gli antichi, costituiva il confine ultimo della terra e della vita, perché le sue acque comunicavano con quelle della morte. Dopo lunghe peregrinazioni giunge alla Fonte della Giovinezza dove recupera dal fondo marino la pianta del ringiovanimento, ma, che dopo un breve possesso la perde. Solo in quel momento, l’eroe si rende conto di quanto vana sia la lotta per ciò che non si può avere. Così, dopo aver quasi raggiunto il premio, ritorna al punto di partenza, a casa, e qui muore.
Appunti attorno alla rappresentazione di Romeo Castellucci e l' "essere" attore L'epopea di Gilgamesh si mostra a noi già come vicenda di doppio: Enkidu si da come morte e come ripetizione di Gilgamesh. La morte che avviene per prima, è una precipitazione nel destino che colpisce il protagonista già in anticipo rispetto al suo tempo, essa è mistagogica nel suo partecipare; lo stesso Enkidu come non vivente, è drammaticamente più operante, più incidente e più modificatore rispetto all'esistente Gilgamesh. Ma è vero anche il contrario: Enkidu è come irradiato all'al di qua da un Gilgamesh che si auto-annulla nel viaggio iniziatico, teso ad allungare senza fine questo "qua": l'immortalità. Il tentativo di vita eterna che esso insegue è un "oggi" sempre teso, un presente senza limiti in questo mondo. Ma lo scoglio nel quale egli inciampa nella sua ricerca, rappresenta la sua completa inopposizione, si fa comunque manifesta un'esperienza temporale sempre tesa e dissolta nel quotidiano errare dell'eroe, che diventa invenzione e progettazione di un tempo che il corpo determina come cavità, come luogo proprio, singolare, iniziatico. Il viaggio di Gilgamesh trova la sua fine in questo quotidiano, e l'eroe morirà di vecchiaia, nel tentativo di salvazione-illuminazione dell'umanità, alla quale Gilgamesh avrebbe donato la pianta dell'eterna giovinezza ma che fallisce al suo insorgere. Di lui ci rimane il suo viaggio, un movimento non in avanti e neppure indietro nel tempo, ma un viaggio geografico nel profondo, dato semmai, in un congelamento del tempo storico. Solo una statua in scena, un busto dello scultore ellenistico Briasside, rappresentante Eubuleo, un guardiano di porci in Eleusi, ai tempi mitici; è colui che mentre conduce al pascolo le sue bestie vede aprirsi una voragine sulla terra e qui scomparirvi i suoi maiali assieme alla giovane Persefone rapita dal carro del Dio Plutone. Il protagonista rimanere attonito e ammutolito come uno spettatore dell'opera, ma è da qui che veramente inizia quella che è l'epopteia, spiegandola con un semplice esempio è la riappropriazione dell'esperienza positiva che ha il bambino di fronte alle cose viste la prima volta. L'oggetto il quale attira per la prima volta un'attenzione acquisisce un "interesse" nella sua superficie e non nella sua essenza da colui che lo guarda, la cosa vista primordialmente è una verità data nell'immediatezza del suo travestimento che si fissa in modo
eidetico, latente nella memoria di un bambino. Nello stesso modo Eubuleo scende sotto al superficie terrestre e il linguaggio preso per la sua caducità di pura apparenza cade una seconda volta, cadendo due volte, esso sta in piedi. Il risultato è quello che l'epopteia è esistente e operante là dove l'indicibile trova la sua catarsi, che, teatricamente allude al sipario, una verginità che rimanda al velo calato sul capo dell'iniziando. La vera epopteia è vedere l'attore che, rovesciandosi e assumendo lo specchio come animale, vede la sua precedenza che è già ciò che lui è, che si costituisce da una memoria dimenticata nella quale attinge la forza che fonda l'essere attoriale. Sul palco spetta a lui la vocazione dell'atto. L'attore è un consegnato, un unto, un cresimato, obbediente all'invisibilità della sua struttura mitica, al suo silenzio. Egli si mette in atto in un "perché" sospeso che diventa il "come" che, a sua volta, diventa il "che". Questo "che" diventa alimento della sospensione di quel "perché" insoddisfatto. E qui nasce spontanea la domanda: Ma la figura dell'attore, da dove viene? Forse quando nel paleolitico qualcuno consegnò ad un uomo una maschera, il bucranio di un animale, quella maschera diventò il luogo. Il bucranio contiene il teatro, l'animale, la morte, il dio, l'obbedienza. Spieghiamo perché obbedienza, in quanto essa si dà nella fecondità di un sottile tradimento dal momento che l'obbedienza è invenzione. Invenzione che garantisce la vita dell'obbedienza la quale non ha un obbedito. Quest’ultima quindi è l'arma dell'attore: è la sue pre-tecnica e solo in quanto ciò è possibile allora pensare ad un teatro come intuizione. Romeo Castellucci, nella scelta dei protagonisti per l'opera Gilgamesh ha cercato persone sconosciute evitando quella cosa che per lui non dovrebbe esistere che è il provino. L'attore estempore viene a rivelare tutto lo stupore del palco-terreno che solo il suo primo sguardo è necessario per convertire l'occupazione di quel luogo in uno "stare" mitico, pre-tragico. Lo straniero può intuire tutta la stranezza speciale del teatro nell'esatto momento del suo ingresso, che qui, è un'uscita dal mondo e dal suo ordine narrativo, che avviene duplicandosi dal punto in cui l'attore si auto-accorpa e simultaneamente cade dentro il palco per poi partire per il "doppio". La velocità di questa operazione ci appare inenarrabile con una penetrazione ottica lentissima, che chiama in causa, ancora una volta, l'animale: lo sguardo boopis, lo sguar-
do bovino. Questo occhio particolare è (e si fa) lento e regale, ritardato, divino, superiore per capacità e grandezza a quello umano, solo pupilla nera, specchiante, teso a "raddoppiare" le figure e, infine, anamorfizzante le stesse forme circolari, sferiche. L'attore che è riuscito ad assumere lo sguardo boopis dispone quindi di una visione grandangolare capace di comprendere perfino il suo corpo inserito nella scena. Il centro di questo sguardo, che è tutto periferico, è fisso sul fondo della platea, perché l'attore, secondo un istinto animale, si sente (perché lo è) straniero al palco e vede il pubblico come la sua origine, la sua provenienza, resa ancora più forte dal momento in cui egli calpesta un territorio sconosciuto come il palco. Vede tutto questo solo mediante la sua lontananza, che è la condizione contro naturam della sua presenza sulla scena. L'attore sente il suo corpo agire e lo vede da vicino. Noi, percepiremo quindi, la sostanziale assenza del protagonista, di colui che comunque è sempre assente, lui che è l"assente", presasigendosi come la vera icona inserita nel suo vibrante silenzio. L'attore entra in scena, ma non la assume; l'inabilitazione della scena è laterale perché il centro vuoto del palco possa diventare, di per sé, un campo sognante il cui incubo sarà proprio l'attore! Castellucci in Gilgamesh, ha stemperato l'opprimente presenza solo di bellezza dell'attore attraverso una ripartizione trinitaria di cui le ipostasi sono: l'animale, l'uomo e il monumento, cioè l'alano nero, il giovane e la statua di legno dell'attore a grandezza naturale. Animale, uomo, monumento: i tre livelli di possesso del palco. Ma sono anche le tre conoscenze, le tre movenze conseguenti una all'altra che descrivono un'ignoranza, un sapere e un palco. Il monumento di palcoscenico, cioè l'Attore diviene il fautore di sé stesso, la sua preoccupazione sarà quella di rendersi abitazione, rifugio della parola immaginaria. Quella parola che non si può udire perché indicibile; quella che si comunica per e nella materia, affinché la comunicazione avvenga nell'oscurità del nucleo della cosa. Le parole tornano al loro valore cosale, tangibile e corporeo. (La sede della parola dell'Attore è la lingua in bocca.) La Teurgia come atto ci da un corpo statuario che si è fatto dimora di questa parola vera, perché non detta; dimora esasperatamente elevata a potenza può diventare matrice che genera, l'attore quindi avrà la funzione di uterus expositus; il reale, quindi, il dato immanente del palco nella sua corporeità sarà buttato nell'intimo materi-
alismo dell'essere madre. Ma nella superficie visibile agli occhi, la cosa si manifesta come "viaggio per": si consuma visualmente attraverso la rinuncia dell'acquisire significato, e vi avviene la trasformazione nella sua definizione: la Cosa è Icona. L'apparenza è il dato ultimo di cammino che essa ha intrapreso per il traguardo finale che è il suo superamento; l'Icona elevata a potenza è la distruzione dell'icona stessa, si "doppia" (nel dopo teatrale e nel doppio del parto) e diventa super-icona, realtà d'apparenza generante il proprio volto, nell'accelerazione dovuta al rapido decadere dell'icona madre. Possiamo metaforicamente capire come la rappresentazione si dà come rogo, dalle cui ceneri si staglia l'icona incomunicabile, quella della parola vera, l'icona simbolica, un'icona indicibile che viene da un'originaria che deve collassare per cederle la supremazia. Tornando al luogo dove tutte questa azioni si manifestano, il palcoscenico, prosegue Castellucci, è il luogo della memoria: è l'immagine stessa del simbolo vissuto come causalità originaria del fatto teatrico, ricordo mitico della presenza dell'Attore e del suo "stare" in memoria. Tutta questa frequentazione della madre e la conseguente ricostruzione della diade-coppia madre-figlio, come identificazione univoca del soggetto, induce al lato più materiale della considerazione del palcoscenico e della sua lingua. Stare vicino al corpo materno significa automaticamente essere al fianco dell'animale (l'ignoranza del nome e significato della Cosa) che è meta e veicolo, nel suo essere lingua piuttosto che linguaggio, voce piuttosto che parola e corpo piuttosto che scrittura. Secondo il diritto naturale il corpo torna al centro dello spazio scenico: la natura è quindi imitazione (secondo l'equazione citata prima dell'elevazione a potenza della Cosa), l'icona imita la morte quando fa nascere e imita la custodia della gestazione quando seppellisce. Siamo di fronte a quello che per Castellucci è un atteggiamento mistico di rincalzo dell'icona indicibile che finalmente si sostituisce alla natura stessa. E qui, l'icona vera comunica attraverso un patire, con un silenzio radicale che designa il gesto portato sulla bocca. Il patire dell'Attore e di conseguenza dell'ignaro spettatore-vittima, mediante il silenzio designato ad essere il nuovo confine dell'occhio: lo sguardo si fa lento come unico rimedio e sopportazione dell'estrema velocità dell'azione mimetica della rivoluzione in atto compiuta dall'animale.
A M L E T O La veemente esteriorità della morte di un mollusco da William Shakespeare La storia narrata è quella che sappiamo tutti, scritta da William Shakespeare, ma quella che vediamo messa in scena dalla Socìetas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci non si tratta di una rappresentazione sull'autismo, così come non è una rappresentazione sull'Amleto. Si tratta di stare nell'attore, di stare attorno alla sua inesausta domanda "essere o non essere", nata da uno scandalo profondo, radicale, che il soggetto prova a causa dell'incomprensibile indifferenza dei genitori. Per il protagonista vi è un ritrarsi ermetico nel proprio mondo, con il sigillo del narcisismo. Ora, per l'attore, il padre risuona come autore e la madre incestuosa è significata dal palcoscenico. Amleto percorre una via involutiva, risale la corrente di pensiero come decontrazione per poi arrivare alla sorgente dello scandalo: il grembo materno; ma non si tratta di regredire all'infanzia o di un ritorno intrauterino, egli si involve per negarsi a ritroso fino ai recessi di un feto. Amleto vive lo stadio del mollusco; è colui che decostruisce lo scheletro rifiutandolo quale impalcatura del procedimento statuale, organistico, dell'ordine come sistema. Ma alla domanda amletica seguono un immediato congelamento e una falsa risoluzione: a questa domanda così massivamente formulata è dato in risposta un vuoto a sua volta interrogante. Ecco allora la sua scelta, insieme più facile e più difficile, della neutralità come campo vuoto: l'interrogazione "essere o non essere" viene duplicata, sdoppiata, dalla proposizione "essere e non essere", alla quale è affidata una nuova possibilità, una nascita partenogenetica, nel tentativo estremo di mettersi al mondo nel proprio mondo. Nella "e". Ciò che è "è" (l'essere) si fa metamorfosi in "e", e Amleto muta, egli non somiglia più né di fuori né di dentro a quello che era. Metamorfosi è appunto il venire della "e", della fuga dal territorio e dalla coscienza come anastasis della mente; un intervallo sempre teso che è, insieme, taglio e congiunzione: non ciò che sta al di qua o aldilà da esso, ma la lineetta grammaticale tra essere-non essere. Nella terza parte del soliloquio il protagonista sembra dare una risposta autistica e neutrale al suo "problema", si parla insistentemente, infatti, di "dormire", come compromesso possibile sospeso tra gli estremi dell'oscillazione tra "essere
o non essere" ma che inaspettatamente getta nella crisi la domanda stessa. Ma un dormire come piccola morte, dilatata fino a occupare anche il mondo diurno è segno di uno stare irrelato rispetto agli uomini, di un desiderio di interruzione. A noi appare un giorno notturno che ha la sua leva nello strumento per dormire: una rete da letto, posta al centro dello spazio scenico, priva di materasso e coperte, per restituire la durezza e il freddo, l'immagine di rete alla quale è preso Amleto. Il letto è anche la figura stagnante della ripetizione, e, teatralmente, è l'utensile attraverso il quale infierire colpi di pausa sul corpo del dramma; la rete da letto assurge al ruolo di quartier generale dell'intera organizzazione autistica dell'attore: quella di stabilire una frontiera con dei confini che garantiscono il "luogo della cura" da incursioni nemiche, quella anche di stabilire una forma di tempo privato che non sia quello diacronico-cronologico. Il tempo è schiacciato da ripetizioni, da pause, esercizi difficili che devono comunicare, alla fine, un tempo di immediata efficacia, un tempo in cui si può liberamente avanzare o regredire; in cui si possa scegliere se prendere Ofelia come madre e sposarsi con Orazio, essere un piccolo canguro e occupare il linguaggio oppure essere linguista piuttosto che corpo linguistico. Stabilire un linguaggio privato, fatto di cadute, in diretta analogica con le feci utilizzate dall’attore come inchiostro che hanno l'unica funzione di essere materia di questa scrittura inquietante e sottintendere in breve all'azione. A essere stabilite sono nuove unità tragiche dove si parla dei confini del palcoscenico dove è la madre a essere costretta, interrogata e simbolicamente magnificata e praticata; si cita dell'avvento del tempo del simbolo in cui tutto il tempo si fa accoglienza e alveo per il simbolo che viene; e in ultima tratta la vicenda dell'azione e del disconoscimento della parola in quanto potenzia il non dire ciò di cui si parla. Sulle scritte in scena vediamo come Amleto si scrive sul petto con una biro nera la parola inglese "SON"- FIGLIO, poi si cancella con veemenza la "N" e rimane leggibile solo "SO" che in inglese si traduce in "COSI'". Capiamo come sia un'immediata dichiarazione di come egli sceglie di divenire "così" un "non-figlio", messaggio estremo del disconoscimento nullificante del genitore. Successivamente lettera dopo lettera riesce a aggruppare i segni in "I'M ABORTO". Scrivere questa potente affermazione non significa solo essere un rifiuto della madre, ma è anche la minaccia del rifiuto della
madre: rifiutarla. Amleto aggiunge poi altre lettere "I'M ABORTO, OFELIA", egli si rivolge alla seconda figura femminile del dramma, in quanto lei è suo rovescio sessuale, nel tentativo di estenderle il problema, di sciogliere le difficoltà che la scrittura appena nata aveva trovato nella sintassi. Il tentativo estremo è quello di sciogliere il tutto in a-sintassi, fare baluardo la Alfa privativa; aggiungendo altre lettere alla frase precedente "I'M ABORTO, OF OFELIA" carica della responsabilità di madre la giovane donna, Amleto tenta di stare nel suo grembo e di averla, surrogando la figura di genitrice, ma la difficoltà di una simile operazione lo fa morire sul nascere come un secondo aborto. Successivamente, Amleto cancella, aggiunge e compone le lettere "Io sono l'aorta del profeta Elia", egli come veggente scrive poi: "Immoralità della responsabilità eroe-fantasma". Sono queste quattro parole chiave che sottintendono l'Amleto-monumento, la responsabilità dell'eroe è l'immoralità del fantasma e il fantasma dell'immoralità è la responsabilità dell'eroe e altre frasi combinate.. Tra la polvere del carboncino il protagonista shakesperiano cancella tutte le lettere, ma rimane solo una "A" che poi si imprime sulla schiena con una forma metallica segno di marchiatura, nel quale avviene un rovesciamento positivo e ne fa decontrazione e provenienza di tutto il discorso-percorso da lui compiuto: la sua scrittura è volta a ciò che è già scritto e il tempo è il passato veicolato e fissato nel presente attraverso il marchio. Il presente ha la funzione di interrompere il tempo, o semmai di farlo divenire qualcosa che riguarda essenzialmente il luogo; luogo di estrema possibilità: una "e" deve divenire "è": qui "è" ora. Con le proprie feci Amleto traccia due lettere sulla parte "SO" (così), il "così" imperturbabile del pensiero mitico nasconde in sé il "qui è ora" della scrittura corporea dell'attore.
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Una camera interamente di ferro. In alto riusciamo a scorgere diverse grate coperte da saracinesche di ferro. Il pavimento è coperto da sei grandi lastre di rete elettrosaldata. Sul lato destro una scala dai gradini metallici sale drasticamente verso una porte che tocca il soffitto. La porta è troppo piccola per essere umana, eppure vi passeranno solo uomini. Sulla parete sinistra della scena, appoggiata a grate di ferro che rivestono tutto il pavimento, una monumentale poltrona in pelle, inchiavardata da cinghie e catene di ferro. Un grande tulle nero divide lo spazio scenico e la platea. Un’autentica lastra di marmo di Carrara, di una lunghezza pari a tre quarti del boccascena è adagiata sul davanti; reca una scritta incisa in caratteri Bodoni: LAMBITOR SUDORIS PEDUM MEORUM. L’interno delle lettere scolpite è ripassato in rosso. Questa scritta significa qualcosa come “leccami il sudore dei piedi” ed è tratto direttamente da un documento dei primi del ‘900 in cui una dominatrice stipulava con il suo schiavo tutta una serie di condizioni fisiche, morali, religiose e sessuali. È l’inizio della nuova legge per Masoch. Questa scritta è l’esergo più perfetto per la decenza qi quello che la gente andrà a vedere: una perversione autentica dell’idea di sesso e di potere, che giunge qui al parossismo della sua sospensione totale. Tutte le gerarchie dei rapporti umani sono messe in discussione; persino il ruolo genetico del padre viene disconosciuto. Eppure non c’è nulla di estremo. Nulla è dichiarato e tutto gira a vuoto nella sospensione più indeterminata. Tutto è casto e avverso all’unione dei sessi: non c’è generazione, ma la vertigine di un’alienazione fortemente ricercata e voluta. La scena si fa buia e si avverte la presenza di qualcuno, di là della garza, sta probabilmente mormorando tra sé qualcosa che gli preme di non dimenticare: un copione, un contratto o una parte che sta ripassando, accompagnata di tanto in tanto da certi stranissimi gesti astratti e vacui. Un rumore metallico mostra una lama di luce che riesce a tagliare lo spessore polveroso di quell’oscurità, resa ancora più densa dal filtro del velo di tulle. Una tagliola sul soffitto si apre lasciando passare un fascio di luce che circoscrive perfettamente un uomo. E’ seduto e impassibile. Ci guarda, ma è solo un’impressione: i suoi occhi sembrano due buchi nel cartone. L’uomo è Leopold von Sacher Masoch. E’ magro, di media altezza, capelli neri unti e tirati, vestito di un elegante, ma anonimo
abito scuro. E’ agitato, sebbene, dall’espressione del suo volto, non trapeli la minima intenzione. Si alza nella penombra e noi con lo sguardo lo seguiamo; ed è a quel punto che ci accorgiamo dello spazio: una camera le cui pareti, soffitto e pavimento, sono costituiti da ferro pieno. Le superfici sono percorse da nervature, binari e putrelle da cui pendono cavi e comandi elettrici collegati ai rispettivi argani. Tutte le pareti recano numeri e sigle incomprensibili tracciati con dei gessetti. Questa camera comunica una sostanziale assenza di umorismo, ma questo spazio potrebbe anche recare l’annuncio di un dramma sacrificale. Il ferro restituisce alla stanza una luce sempre grigia e una temperatura sempre fredda. L’Uomo vaga nello spazio come se aspettasse qualcosa di molto preciso che tarda ad arrivare, o a formarsi. L’Uomo si siede ancora, in quella che riconosciamo come una sedia girevole da ufficio, si ispeziona la giacca per verificare eventuali tracce di sporco quando dall’alto si apre una feritoia da dove piomba a terra un pesante “piede di porco”. Una diversa graticola si apre dall’alto e un’altra luce piomba su di lui nel clangore metallico che d’ora in poi accompagnerà ogni illuminazione. Ogni apertura che si spalanca lascia uno strascico di polvere atmosferica. L’Uomo si volta di scatto all’indietro, due tre volte, per poi scivolare ai piedi della sedia con un forte senso di vergogna. Poi lascia cadere sul cuscino della sedia qualche pugno, come se volesse risvegliare la sedia stessa e scongiurare la vergogna. Il ritmo dei pugni diventa sempre più ossessivo fino all’estenuazione del braccio. Da questo ritmo penoso nasce, dapprima in sordina poi sempre più forte, il rumore di una puntina incantata su un disco. Il pugno reiterato sulla sedia pare generare il fruscio del vecchio disco che, d’ora in avanti, accompagnerà tutta la rappresentazione, la quale soltanto ora sembra essersi messa in moto. Fino alla fine questo fruscio e il tulle nero saranno i disturbi interposti tra l’azione e il pubblico. Una piccola apertura in alto, sulla parete di fondo, si apre lasciando vedere il volto di qualcuno che sembra essere una donna. La persona pronuncia qualche frase dal tono minaccioso. L’Uomo lascia cadere della saliva sulla mano destra. La Donna scende le scale. E’ alta, imponente, e interamente rivestita di una lunga pelliccia. Ai piedi porta una specie di coturni calzati al solo scopo di terrorizzare la sua vittima. Scivola lungo le pareti, mentre una serie di saracinesche si aprono una dopo l’altra accompagnando il suo incedere nell’ombra. Si
avvicina alle spalle della grossa poltrona di pelle. Durante la sua avanzata del liquido cola dall’alto sulla poltrona. L’Uomo non riesce a vederla e rimane a capo chino per tutto il suo ingresso; continua a tenere il polso della mano destra con la mano sinistra, come se si trattasse di un oggetto inerte che non gli appartiene. La Donna si alza la pelliccia e compia alcuni movimenti incomprensibili. Tutti i gesti sono compiuti due volte. Tiene in bocca una specie di boccaglio di cui non si capisce la provenienza e che perde diverso liquido. Aprendosi il mantello di pelo, lascia vedere un corsetto di acciaio nero con i seni a cono. Sulle gambe, sopra a calze a rete nere, porta degli estensori ortopedici di metallo con ginocchia artificiali. Alle braccia ha dei tiranti medicali per i recuperi da trauma che, partendo dal gomito, sono fissati alle mani e si prolungano nelle falangi delle dita. Tutto il suo volto è modificato e compresso da una pellicola che le forza appena un po’ i caratteri e sotto la quale ci sono dei piccoli microfoni che ne amplificano i respiri. Indossa una voluminosa parrucca dai lunghi capelli neri e tutto il suo aspetto è il dipinto delle fierezza ginecocratica e della potenza dominatrice. Durante l’Epifania della Donna entra nella camera un’altra figura: è “il Greco”: un uomo alto, vestito con un lungo cappotto di pelle, le mani guantate il pelle e un’aderente maschera di cuoio nero che gli copre interamente la testa. Solo qualche cerniera aperta sugli occhi gli consente di vedere. Il Greco sembra essere al servizio della Donna e le toglie la pelliccia; si abbracciano e si baciano davanti all’Uomo ansimante che, umiliato, li guarda di sottecchi, mentre fa rotolare tra le dita un tubino di ferro fissato alla parete destra. Questo non è altro che un piccolo meccanismo che serve solo a dissipare la vergogna. Una tagliola laterale si apre di colpo, lasciando passare uno squarcio di luce che illumina l’incontro. L’Uomo, in ginocchio, si reca furtivamente a raccogliere la pelliccia per indossarla con devozione. Ora tutti ruotano su loro stessi, mentre una voce telefonica registrata trapela tra la polvere del fruscio. LA DONNA: -“Come si chiama?” L’UOMO: -”Alexis Papadopolis.” LA DONNA: -”Uhm... allora è greco... Molto giovane?” L’UOMO: -”Qualche anno più di te. Dicono che abbia studiato a Parigi e che sia un ateo. Ha combattuto a Candia, contro i turchi. Deve essersi distinto più che per il suo valore, per il suo odio razziale e la sua crudeltà.” LA DONNA: -”Un uomo, insomma.” L’UOMO: -”Ora vive a Firenze. Deve
essere ricchissimo.” LA DONNA: -”Questo non te l’ho chiesto. E’ un tipo pericoloso... Non hai paura di lui? Io sì... Ha moglie?” L’UOMO : -”No.” LA DONNA: -”Un’amante?” L’UOMO: -”Non ancora.” LA DONNA: -”Frequenta qualche teatro?” L’UOMO: -”Stasera andrà al Niccolini, dove recitano la Marini e Salvini che sono i primi attori d’Italia, forse d’Europa.” LA DONNA: -”Devi procurarmi un palco, subito!” L’UOMO : -”Ma... padrona...” LA DONNA: -”Vuoi assaggiare la frusta?” C’è qualcosa di morboso nell’assoluta castità di questa scena, di irrisolto. Mentre tutti i personaggi ruotano si sente sempre il disco girare a vuoto sul piatto. La Donna va a sedersi sulla poltrona e Il Greco si dirige verso il fondo dove, con l’ausilio di un paranco elettrico, solleva dal pavimento una grata. La Donna accavalla una gamba sopra l’altra, non senza difficoltà, per via delle protesi meccaniche. L’Uomo rimane in ginocchio e ancora non osa guardare nessuno. Sempre con questo atteggiamento tenta di chinarsi vicino al piede della Donna, ma il movimento ciondolante della gamba di lei glielo impedisce. La Donna, manovrando alcuni grossi comandi elettrici, solleva la propria poltrona fino al soffitto. Sale e scende con un ritmo spezzato. La sollevazione la esclude, di fatto, dal margine di azione dell’Uomo. Da una finestrina in alto appare per un attimo un panno rosso. Il Greco solleva da terra altre grate agganciandole ai paranchi, poi esce come risucchiato da una piccola apertura su un lato della scena. Immediatamente dopo, tra tagliole, saracinesche e grate che si aprono e si chiudono, si vede entrare una replica perfetta del Greco, dal lato opposto. E’ la doppia ipostasi del Greco. Anche questa viene a portare una croce di ghiaccio e la deposita vicino all’altra. Si dirige decisamente verso l’Uomo, lo afferra e gli strappa la pelliccia come se in realtà lo stesse scuoiando come Apollo con Marsia. Ora il Greco ingaggia una specie di lotta impari con l’Uomo: lo prende per i capelli, la fa inginocchiare forzatamente infliggendogli un colpo alle gambe, gli sfila per metà la giacca, gli torce il braccio facendolo girare all’indietro, gli sferra una serie di calci nel sedere, lo tiene per il collo e, tra gli altri, gli fa strani gesti incomprensibili. Questa lotta violenta è fatta di una serie di colpi molto precisi, distribuiti lungo una scansione di gesti, tutti esattamente ripetuti due volte e nello stesso ordine, come dovessero corrispondere a un codice. Ma non è del tutto chiaro: certi gesti paiono addirittura affettuosi. La Donna, prima di
scendere dall’alto della sua posizione, manovra i propri comandi al fine di rimanere inclinata obliquamente sulla poltrona, dando l’impressione di un disequilibrio che minaccia un crollo sulla (della) scena. Infine discende, abbandona il suo trono e si sposta sul fondo. Appena la poltrona si svuota, vi cade inaspettatamente sopra un panno rosso. Il Greco, interpretando ciò come un segnale, si ferma, consegna all’Uomo una candela accesa e gli mette il panno sulla testa come un velo; quindi lo sistema come un manichino nella posa della Madonna ai piedi della croce. Il Greco incomincia a offenderlo nei modi e con le espressioni più volgari che il repertorio della lingua locale possa offrire. Comincia a percuoterlo sulla testa con le mani calzate di cuoio nero. Sulla poltrona cade dell’acqua e in alto si sente un grande frastuono di sbarre di ferro e di lastre buttate qua e là. Tutta la parte centrale del soffitto viene liberata dagli schermi che la ricoprivano. Si vede la struttura di travi e putrelle oltre la quale ondeggia una luce che, con il suo movimento, conferisce a tutto lo spazio un effetto ondulatorio. Qualcuno cammina al piano superiore: ne vediamo l’ombra che si sposta avanti e indietro, impegnata in qualche perlustrazione. Più volte l’Ombra è gettata sull’Uomo e pare che proietti l’idea stessa di controllo, attraversandogli la via sotto i piedi. Da un’altra apertura del soffitto scoperchiato cala un grande cuore di ferro che riproduce l’anatomia esatta di quello umano. Mentre l’Uomo è in ginocchio con il velo rosso, la parte alta dell’organo si incendia automaticamente lasciando vedere una fiamma sospesa. Il Greco, prima di uscire, fa notare all’Uomo il sacro cuore con uno scapaccione. La Donna, che nel frattempo si era ritirata in fondo alla scena, nella semioscurità, pare levitare appena sopra il livello del pavimento, perché il suo andare avanti e indietro non comporta minimamente l’uso delle gambe. Pare un fantasma: uno spirito furioso in stato di quiete. E’ come se scivolasse lungo l’asse dello sguardo del pubblico. Si apre una finestrina con una chiusura a ghigliottina in alto, sul fondo, e lascia vedere un pugno che percuote un petto nudo tre volte e poi, sferragliando rapidamente, si richiude. La Donna si ferma con le spalle al muro di fondo. Si toglie i coni metallici dal seno e li lascia cadere a terra, impugna con tutte e due le mani le grosse mammelle nude e fissa l’uomo e incomincia a torcercereseli con rabbia. Poi se li strappa e li lascia cadere a terra. Contemporaneamente anche il cuore di ferro si sgancia e
cade a terra. Si sente un frastuono, come di un sibilo acuto e lamento so, provocato da una bombola d’anidride nascosta all’interno del cuore. L’anidride, oltre a spegnere il fuoco, ricopre istantaneamente di brina ghiacciata tutto il cuore. Il ritmo degli accadimenti qui si gioca proprio sulla sovrapposizione e sulla sorpresa. La Donna esce da dove era entrata senza che il suo sguardo sfiori minimamente l’Uomo. La pelliccia, rimasta sul fondo della scena appesa ad un gancio, alza più volte il braccio e al posto della Donna, meccanicamente saluta l’Uomo. Senza troppo celare un’aria di scherno malvagio. Da ulteriori aperture, entrano i due Greci, rispettivamente con la terza e la quarta croce di ghiaccio che subitamente appendono in aria proprio sopra la posizione dello loro corrispettive a terra. Si viene così a formare una specie di quadrilatero verticale i cui angoli sono formati dalle quattro croci di ghiaccio che, più passa il tempo, più cominciano a sciogliersi, creando pozzanghere e piccoli suoni di gocce che cadono dall’alto. Il primo Greco si dirige sul lato anteriore sinistro della scena e fa entrare una grossa lastra di vetro rettangolare, sistemata verticalmente e agganciata a un binario mobile parallelo e solidale alla camera. Il secondo Greco riabbassa a terra tutte le graticole, mentre anche sul soffitto certe saracinesche si contraggono improvvisamente. Il primo Greco sistema anche un secondo vetro, sfilandolo orizzontalmente dal lato opposto e lo incrocia, sovrapponendolo, al primo. Quel che ne risulta è una croce a forma greca, fatta dalle trasparenze dei vetri, che va ad aggiungersi a tutte le altre croci di ghiaccio: quelle sospese e quelle sul pavimento. Ora in mezzo alla scena appare questo segno che va ad interferire ulteriormente con il resto della visione. Quest’ultimo rappresenta anche una specie di mirino, oltre il quale è d’obbligo individuare un bersaglio, un animale. Tutta la scena è percorsa da cavi, tubi e ventose che sorreggono il sistema visivo. Il secondo Greco traccia con una mina di cera diverse formule incomprensibili sulla croce di vetro, ma alla fine scrive anche una parola che riusciamo a capire, seppure leggendola a rovescio: “vergogna”. Il primo Greco sistema nella bocca dell’Uomo (che fino a questo punto non ha ancora compiuto un’azione di sua spontanea volontà), una specie di morso da cavallo d’acciaio che contemporaneamente gli divarica la bocca all’inverosimile e gliela tende sopra e sotto, lasciando scoperte tutte le gengive. Forse è questo il sesso da scoperchiare
come si stava cercando di fare fin dall’inizio. Questa maschera gli solleva pure le narici e gli copre gli occhi con due piastre di ferro rotonde. L’Uomo viene preso, girato e posto con il volto ben al centro della croce di vetro, e quindi velocemente spogliato della giacca e della camicia. E’ allora che il primo Greco gli instilla, con il contagocce di una boccetta, un certo numero di stille di sangue proprio nelle narici. L’effetto non è male, perché il trucco affiora sulla superficie delle cose dichiarando la non-appartenenza della figura al mondo del reale, non diversamente da quanto accade a tutti gli altri elementi fin qui visti. Il primo Greco estrae dalla tasca del cappotto un paio di pinze chirurgiche veterinarie da intestino; gliele applica con impegno su ogni capezzolo. Le pinze sono autobloccanti e rimangono ben attaccate alla pelle. Il Greco collega ciascuna forbice ad un cavetto d’acciaio che poi sistema tra i denti dell’Uomo, costringendolo poi a battere le mani davanti al vetro. Una, due, tre volte. Il secondo Greco raccoglie un allargascarpe professionale di metallo che nel frattempo era sceso dall’alto e lo va a collocare nella bocca già aperta dell’Uomo. Poi incomincia a girare la vite dell’allargascarpe fino a che la bocca è ben aperta e tesa fino al punto limite. Ora il volto dell’Uomo è molto complicato e difficile da decifrare. Uno dei due Greci incomincia a scagliare a terra, una dopo l’altra, tutte le croci facendo esplodere il ghiaccio da tutte le parti. Fa questo come per voler dimostrare qualcosa all’Uomo o dargli un avvertimento, ma non è chiaro cosa e perché. Forse vuole solo abbassare un po’ la temperatura. I Greci spogliano completamente l’Uomo ad eccezione delle scarpe e dei pantaloni abbassati e raccolti ai piedi, e lo stringono con tre cinture collegate ai loro rispettivi paranchi elettrici. Con il gioco dei comandi a filo, ne sollevano il corpo, lo portano a testa in giù, in modo che, attraverso i binari scorrevoli, venga trascinato davanti alla scena. Qui è di nuovo spostato fino a trovarsi arcuato e supino, al punto limite dell’estensione della colonna vertebrale. La giostra continua ancora finchè tutta la superficie della scena è coperta dalla rete degli spostamenti dell’Uomo appeso. Uno dei Greci va all’angolo della scena e aziona un meccanismo che si rivela essere un arco voltaico. Ne scaturisce una luce abbacinante che viene spostata ed abbassata. La luce frigge, fuma e getta ombre direttamente sulla garza provocando un effetto un po’ grottesco. La Donna assiste alla scena in disparte; sembra
urlare, ma non si sente niente. L’altro Greco stacca la scala di ferro dalla parete e la colloca di profilo al centro della scena. La Donna vi sale sopra ma, una volta giunta alla sommità, inaspettatamente la scala, con movimento basculante, la riporta giù. Essa allora risale invertendo il senso di marcia, ma, quando si trova sul gradino più alto, la scala, basculando nuovamente, ripete l’inversione. E’ evidente che non vuole salire né stare ferma. La scala non è lì per questo e lei vuole stare esattamente così, né sopra né sotto, ma dappertutto. Uno dei Greci scrive con un gessetto sul fondo della parete come a voler completare quei calcoli lasciati solo appuntati, mentre l’altro, con un pezzetto di carbone, continua i calcoli anche sul corpo dell’Uomo, che viene poi fatto rannicchiare riunendo i tre cavi che lo legavano. Questo Greco infine appone la sua firma sul corpo dell’Uomo. L’Ombra dall’alto copre in fretta e furia tutti gli spazi aperti del soffitto e, nel farlo, provoca un grande rumore. Ora l’Uomo si ritrova ancora sospeso da terra, ma in una posa fetale. La Donna lascia la scala e si avvicina al corpo nudo dell’Uomo racchiuso su se stesso coma una mummia delle Ande. Si inginocchia davanti a lui liberandosi della parrucca e di tutti i trucchi di cui era carica. Inaspettatamente, salvo il fruscio, tutto tace: i clangori metallici, il crepitare dell’arco voltaico, il rumore dei paranchi. La Donna di fronte all’Uomo intona una canzone incerta e triste. Poi si stende sotto all’Uomo nella stessa posizione di lui, che rimane sollevato da terra di un paio di metri. Una grande corona di spine, interamente saldata e battuta in ferro, precipita dall’alto e cade sopra la poltrona, ma rimane sospesa a un cavo d’acciaio che oscilla. Contemporaneamente viene proiettato sul tulle il film di un fuoco oltre il quale s’intravede ancora la Donna prendersi cura dell’Uomo appeso (cura funebre o neonatale, allo stesso modo). La luce all’interno della camera di ferro si abbassa. Rimane l’immagine tremolante del fuoco sulla garza ad accompagnare gli spettatori fuori dalla sala. Tutto si è consumato sul posto. Tutto si è svolto senza una goccia di sangue vero. Il pubblico appena uscito percepisce ancora, nella sala, il rumore della puntina sul disco incantato che continua, in perfetta solitudine, il suo giro ostinato. Si ha perfino la vaga sensazione che qualcuno, di là, continui anche senza spettatori. Commentiamo come a Sacher-Masoch appartiene già il corpo del teatro, cioè è proprio un discorso di corpo che lega: l'aspetto mate-
riale del limite di superficie come pura apparenza e luogo della comunicazione. C'è poi una comune spinta, come un'imperiosa necessità, all'obbedienza muta e all'asservimento di fronte al palcoscenico delle rispettive sofferenze. E, come per il masochista, il protagonista ha bisogno dello sguardo dell'altro per esistere. C'è un essere gioia per l'attore, un piacere per il masochista, che passa solo dopo aver attraversato la soglia del dolore di chi si espone al proprio esterno di chi la genera generandosi. Gioia o piacere e dolore o punizione. La punizione, dunque, corrisponde, nella fantasia masochistica, al momento dell'esposizione della sofferenza quando ormai essa risulti irreparabile. A m l e t o e M a s o c h . C o n f r o n t o Amleto infante autistico. Vediamo come l'angoscia di Masoch è, come quella amletica, la cristallizzazione di quella infantile. "Chiunque scoprirà nel masochismo un tentativo di dominare le vecchie oppressive angosce infantili, saprà che qui c'è il problema del' “essere o non essere", scrive Theodor Reik, (nel "Masochism in modern man", Strass and Cudany, Farrar, 1944) uno dei massimi esegeti del masochismo. Masoch sembra un Amleto consapevole, trasferisce la domanda sulla pelle, sul mondo esterno. Masoch come Amleto fa appello alla potenza disvelante del teatro. Rispettivamente, nell'arte della dimostrazione per il primo, e nella scena rivelatoria teatralmente riprodotta dell'omicidio del padre del secondo. Amelto jr., inscena la morte del padre, Masoch quella di sé, nella somiglianza genetica del padre in lui. Masoch come Amleto, diviene, un figlio senza padre: un figlio che mette in scena il fallimento e la scomparsa del padre; pur tuttavia ambedue vivono il ritorno allucinatorio del proprio genitore: nel fantasma, in Polonio e nello zio per Amleto; nella figura del Greco per Masoch. Ambedue hanno accessi di fantasia: è questo il loro male; malinconia e accidia saturnia per il primo, perversione e rito per il secondo, idiosincrasia del linguaggio per entrambi. La colpa è il centro più chiaro e, contemporaneamente è anche più ineffabile, di cui è impossibile cogliere i tratti. L a d o n n a Amleto e Masoch guardano con lo sguardo della fine la donna: la madre e Ofelia per e la donna "sarmanica" e forte. Il femminile come
certezza simbolica, ambedue guardano la donna come colei che è la suprema depositaria delle leggi: lo è già diventata per Masoch, dovrebbe ancora diventarlo per Amleto. Il sentiero poi si divarica: i due scelgono due strade diverse. Al primo, il cui tentativo femminile è stroncato dal suicidio di Ofelia, schiaccia le leggi ma ne è schiacciato e Masoch, attraverso il femminile assunto pienamente, gioca la legge il nome del padre virandola dall'interno in forma invisibile. I due protagonisti risuonano come gli esempi estremi di una profonda resistenza passiva contro il potere, incarnando, addirittura un pensiero mitico contro il potere. Masoch, per certi aspetti, mi ricorda un altro personaggio profetico che fece dell'invisibile via di umiltà, la chiave di volta di un totale e poderoso disconoscimento passivo del potere: Robert Walser. Masoch raggiunge il suo scopo di liberazione trapassando il corpo e la sua idea. Amleto aveva scelto la neutralità inumana (come l'infante autistico) per oscurare la domanda e non per risponderle, ma la via era quella dell'autodistruzione. Anche Masoch percorre la medesima via di distruzione davanti a questa domanda e come Reik ci ha indicato, anche lui passa e ripassa attraverso la questione amletica, ma egli accetta di essere un essere e lo fa nel modo più sociale possibile: attraverso le leggi. Non dà esempi di anarchia come Amleto. Non è da solo come il Principe, ma ha bisogno dell'altro, per edificare il suo discorso di distruzione. E s s e r e o n o n e s s e r e E' la domanda, pare suggerire Masoch, che deve avere una circolazione, subire un trattamento dialettico, in cui il governante sia solo il destinatario di quella stessa domanda. Egli non la contesta, non cerca di abbatterla, ma se ne imbeve e la fa riaffiorare a propria immagine. Non è più "essere o non essere", ma "Masoch". Tutto ciò che passa attraverso il suo ventilabro subisce un rovesciamento di significati pressoché totale: le sembianze sono assolutamente le medesime, ma la sostanza è ora inaccessibile per noi, il salotto rimane il salotto, ma allo stesso tempo, significa, per esempio, il rito della scarificazione. C'è un senso mitico, c'è la forza del mito che apre all'esperienza, anche se dovesse essere invisibile. Autoespoliazione, dolore, peripezia, catastro-
fe, catarsi e rigenerazione ma a noi è solo permesso di assistere al tutto. Masoch si serve del reale solo alla fine, come un Edipo senza complesso, acceca la realtà, non i propri occhi. La realtà tutta subisce l'iniziazione del dolore, uno sprofondare negli Inferi, per poi tornare, affatto uguale a prima, singolare e inalienabili. Masoch obbedisce alle società attraverso i suoi moduli di comportamento; è normale, e aderendo il più possibile all'evidenza del mondo, scopre il più invisibile esodo da esso. L a m a c c h i n a e l a T e c n i c a La stanza di ferro rappresentata nell’opera, allude all'inflessibile e freddo teatro da camera di Sacher-Masoch. Esiste una diretta parentela con la scena dell'Amleto dove la presenza di macchinari è l'indice contemporaneo di spossessamento nel quale l'uomo è gettato. E' la macchina a determinare il luogo, la temperatura, l'acustica, i modi. La tecnica consiste in tutta la sua glaciale freddezza, come elemento di "crudeltà". Le turbine elettriche ed i compressori significavano il perimetro teatrale oltre il quale l'Amleto-meccanico non poteva andare, pena il folgoramento e la mancanza di definizione drammaturgica. Erano congegni elettrici che davano energia all'Amuleto autistico, ormai irrimediabilmente deluso dall'umano, era una rete che lo prendeva e lo teneva "vivo" sul palco. La macchina, qui definita in senso più ampio la tèchne, ora risponde perfettamente alla necessità di obbedienza, di stare sottomessi al potere di qualcuno che si vuole più forte. L’oggetto come immagine del potere indiscusso, deve comandare e opprimere per dare accesso al gioco di rovesciamento operato dal masochista; il potere, a sua insaputa, deve fare la parte dell'umile utensile, venire spogliato di potenza, il potere è delegittimato attraverso un'ironia profonda: potere senza potenza. Dunque qui le macchine non sono altro che macchine, immagini della forza attiva e ridotti a puri segni, svolgono la loro azione energica: sono paranchi elettrici che sollevano pesi. I l c o n t r a t t o c o m e c o p i o n e Per Masoch il contratto amoroso deve essere fissato, congelato, da un contratto scritto e controfirmato da entrambe le parti. E' necessaria una cristallizzazione preventiva al rapporto amoroso vero e proprio, perciò as-
sistiamo a mesi di preparazione nei quali proliferano varie pratiche di scrittura che fissano, come in un quadro, gli avvenimenti ancora prima che avvengano. Anzi questa è la condizione non perché queste possano accadere: il contratto che di solito è stipulato dalla stessa donna benché vergato da Masoch, è in realtà uno strumento della pedagogia dell’uomo volta all'edificazione della donna stessa. E' attraverso il contratto che Masoch edifica e tiene insieme i pezzi della sua donna monumentale. Sembra che anticipi, descrivendo la scena, ma se si guarda bene è la scena che si fa masochista quando la si ritrae. Nei romanzi di Masoch compaiono spesso quadri, pittori e specchi, che hanno la funzione di duplicare l'immagine, sospendere l'attimo nel tentativo di congelarlo. Solo attraverso il contratto, come legazione orale, può avvenire il masochismo: esso risuona come attivazione del rapporto che intercorre tra il recitante e il suo luogo, e lo fa con incredibile chiarezza. Pensandoci bene, vi è un'inquietante somiglianza di fondo quando si descrivono la nature delle licenze e dei vincoli, degli amori e delle catene, della violenza e degli affetti. Il rapporto amoroso di Masoch con la donna è nei precisi termini di punizione della vigenza del linguaggio teatrale, dove il piano orizzontale di accoglienza, il palco, è significato dalla madre che accoglie e punisce il proprio schiavo. Nelle novelle di Sacher-Masoch la donna è sempre descritta come un essere dell'era glaciale: una "Venere di ghiaccio", "femmina d'acciaio forgiata", "corpo di marmo", "donna di pietra. Il freddo è il grado tecnico attraverso il quale compiere l'opera di deruralizzazione dell'amore per risessualizzare poi il mondo. "La freddezza dell'ideale masochista non è tanto negazione del sentimento, quanto piuttosto disconoscimento della sensualità", scrive Deleuze nel suo saggio sul masochismo - (Gilles Deleuze, "Il freddo e il crudele")- Il gelo è la temperatura che può garantire la fissazione della scena in quadri, statue, immagini riflesse e sospese, il ghiaccio rimanda al nord delle idee, come il dito di Platone ritratto da Raffaello nella Scuola di Atene che indica un movimento di sospensione verticale. I l c o r p o c o s a I paranchi elettrici svolgono la funzione di elevare per reificare. L'essere o la cosa che viene sospesa raggiunge lo statuto di res, come progetto di autoespoliazione. E' al sollevamento verticale e meccanico che vi-
ene affidata la reificazione definitiva dell'oggetto che conquista la propria singolare cosalità attraverso il distacco dallo spessore orizzontale del quotidiano che ne faceva l'oggetto identificato proprio per il suo rimettersi in relazione alle altre cose. L'unica persona alla quale appartiene un occhio fisso e incantato sulle cose è proprio il feticista, solo lui è in grado di sopportare l'immagine, di evocarla, di capire la portata della cosa. C'è una liberazione intima che giace all'interno della cosa e solo partecipando alla sua natura il feticista può pensarsi nel suo mondo. E’ lo sguardo che fissa il serpente di bronzo sul palo levato da Mosè, che fissa il corpo di Cristo sulla croce; che imprime, infine, la sospensione stessa. E' quello sguardo elevato che, muto, per dissociazione, infrange l'imperiosa totalità. L'isolamento sospeso della figura innesca l'aureola nella cosa o nell'attore protagonisti dell'atto. L'aurea sacrale acquisita interrompe bruscamente la cronologia dell'esistenza della cosa. Masoch, nei suoi romanzi pone l'accento sull'immagine riflessa nello specchio piuttosto che sull'originale. Per patire occorre essere una cosa silenziosa, occorre essere "fissati", platonicamente idealizzati. Citando Artaud nel suo saggio "Il teatro e il suo doppio", cit. "- Solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica degli spiriti"-. Il monotono gioco dei paranchi elettrici è come il platonismo contraddittorio di Masoch e di Artaud. L'ibernazione garantisce appunto l'immobilità, e l'etere della cosa sospesa. I l G r e c o La vita e le opere di Masoch sono dominate da una continua ed esasperata ricerca del "Greco", così egli chiamava quella terza persona che varrebbe avuto la funzione di intromettersi nel rapporto esclusivo di lui con la donna. E' come un terzo attore che interviene per colpi di scena, per interferenze, per rappresentare l'espropriazione definitiva del rapporto amoroso che si era prima stipulato tra i due amanti. E' il grado di umiliazione massima per il masochista. Neppure l'amore gli appartiene. Egli, tramite il Greco diventa definitivamente COSA privata di ogni sentimento umano, diventa quindi OCCASIONE. Ma attraverso il Greco è anche possibile la prostituzione sacra della donna come madre comunitaria e primitiva. Il Greco espro- pria Masoch dei suoi diritti fissati precedentemente nel
contratto, solo per fare godere la comunità, cioè quel passo sociale attraverso il quale si inverano le leggi nella donna. La potenza e il potere sono ora in mano alla madre; il Greco è il punto più raffinato di tutto il progetto, egli ha la funzione di premere fino in fondo il seme gettato da Masoch per espellere dalla scena il padre e la sua parola. Ma il Greco potrebbe essere proprio il fantasma del padre che, cacciato dalla sfera simbolica, ritorna in forma allucinatoria, ma potrebbe essere anche un ulteriore modo di guardarsi, un duplicarsi, una volontà del tutto teorica. Nell'opera si è assunto e ripetuto l'immagine primaria del feticismo masochistico: il piede e la bocca. Questo guardarsi i piedi è un pensare l'essere affinché e finché i piedi siano avvolti di presenza davanti al fascino tragico di essere sorpresi su un palcoscenico affinché e fino a quando il piede con il suo stare, sia risposta muta, stante. Il piede, per il feticista (e qui torniamo al discorso dell'osservatore ossessionato della res-cosa), è il sostituto del sesso paterno e si fissa sull’arto femminile come ultima immagine dello sguardo infantile che risale dalla gamba al sesso e lì ritorna, e si fissa come disconoscimento della mancanza virile della madre. Un motivo ricorrente vediamo, è quello di leccarle il piede, baciarlo, intrattenersi oralmente con esso, bere da scarpe femminili.. divorare la madre come immagine rovesciata. Il piede è anticipazione, azione, che precede e sovrasta. La bocca si fa agire dal gesto, che significa farsi picchiare, essere cani muti: tutte immagini trionfanti della passività. La rossa cavità lecca con la lingua come se lavasse il territorio per la venuta: è la bocca il "vero" masochista, si umilia a leccare il sudore del piede, e tuttavia è certa di ottenerlo e, con esso, tutta la madre. La bocca si fa divorante, affamata e regressiva, ma, in fondo c'è un vertiginoso osare: richiedere cibo piuttosto che dare parole perché ne manca l'alimento. Ma più che ottenere, ci si accorge che il cibo è già lì per terra: è il pavimento, è il luogo in cui si recita, necessario e odioso. Allora diventa il terreno il proprio territorio di vita; la bocca raggiunge la salvezza e conquista il suo piede e il suo terreno, essa quindi è profetessa di ciò che viene.. è questo l'agio di Masoch. La bocca come umile fodero, come vecchia scarpa si abbassa ad un ruolo che la nullifica e la disconosce dal ruolo per cui è stata qualificata.
ORESTEA(UNACOMMEDIAORGANICA?)
Ifigenia e Alice, il Coniglio Corifero e il Bianconiglio. Analogie nella tragedia di Eschilo-Castellucci. *riferimento dei testi: "Alice nel Paese delle Meraviglie. Attraverso lo Specchio" ,Garzanti, Milano, 2001 ; "L'Arve et l'aume. Tentaive anti-grammaticale contre Lewis Carrol" di Antonin Artaud, Gallimard, Paris, 1979 Artaud intitolò la sua versione “L’Arve et l’aume. Tentative anti-grammaticale contre Lewis Carroll” , nella quale si nota subito dal titolo il distacco volontario dall’opera originale e la posizione belligerante di Artaud in campo linguistico. Per quanto riguarda questa prova, unica nel suo genere, (un hapax veniva definito da Roland Barthes lo stesso Artaud), non viene rispettato il diktat sulle regole di metrica e di fedeltà al testo per la traduzione, bensì viene rivoluzionata l’intera area linguistica con il preciso intento di sconvolgere «ogni sorta di costrizione estetica attraverso l’impiego della forza delle parole per potenziare la capacità espressiva delle parole» L'Orestea è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Coefore, Eumenidi e seguita dal dramma satiresco Proteo, an- dato perduto, con cui Eschilo vinse nel 458 a.C. le Grandi Dionisie. Delle trilogie di tutto il teatro greco classico, è l'unica che sia sopravvissuta per intero. Le tragedie che la compongono rappresentano un'unica storia suddivisa in tre episodi, le cui radici affondano nella tradizione mitica dell'antica Grecia: l'assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del loro figlio Oreste, che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera del tribunale dell'Areopago. Agamennone, sovrano della polis di Argo, alla partenza per la guerra di Troia, non aveva venti favorevoli, così per propiziarsi gli dei (in particolare Artemide che gli era ostile), su consiglio dell’indovino Calcante aveva sacrificato la figlia Ifigenia, di bellezza eccezionale. I venti allora avevano cominciato ad essere propizi, sicché la flotta aveva potuto alzare le vele. Clitennestra aveva però deciso di vendicare il sacrificio della figlia, convincendo Egisto, cugino del marito e suo amante, ad aiutarla in tale impresa. La prima tragedia narra quindi come Agamennone, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure insieme alla principessa troiana
Cassandra (portata in Grecia come schiava) dalla moglie Clitennestra, con l'aiuto di Egisto. La seconda tragedia prende il nome dalle coefore, le portatrici di libagioni per i morti, che si recano sulla tomba di Agamennone. È il racconto di come Oreste porta a compimento la propria vendetta, dando la morte alla propria madre ed al suo amante. La terza tragedia della trilogia prende il nome dalle Erinni, le quali erano chiamate anche Eumenidi quando erano in atteggiamento benevolo (o anche quando erano malvagie, per eufemismo). In questa terza parte viene narrata la persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste e la sua definitiva assoluzione dal tribunale dell’Areopago. Questa è la trama dell'opera originale scritta da Eschilo e messa in scena la prima volta nel 458 a.C. ad Argo nell'antica Grecia per la quale Romeo Castellucci ha adottato le traduzioni per la sua opera di Manara Valgimigli e Ezio Savino; autori adeguati nella ricerca di restituire severità al linguaggio, che esso sia inflessibile ed eroico, come un'avvenire fattuale del gesto, che però, al tempo non veniva perché tutto era solo detto. Le parole dell'Orestea sono le valve sensibili di un mollusco mitico, metaforicamente cita Castellucci, che meno lo so tocca meglio è. Rendere "contemporaneo" un testo tragico è un falso, ciò tradisce un intento missionario in chi lo compie, un tentativo di ricostruire il vero spirito della tragedia nella contemporaneità. Ma sappiamo benissimo come la tragedia non sia poesia, il suo nucleo non è tragico ma pre-tragico e la sua potenza interna consiste in ciò che essa nega: il silenzio dell'eroe, e le poche figure da fiaba in essa inserite ma con la caratteristica di essere inquietanti. Vediamo come il Coro della tragedia non ha spina dorsale, infatti è il contrappunto castrato e civile dell'eroe; c'è poi l'immagine della vigliaccheria che è il Coniglio Corifero ad esempio, ma il coniglio è anche una figura iniziale nel contesto della fabula dell'Orestea. Compare infatti nella battuta di caccia che Agamennone compie come antefatto alla tragedia delle Atridi; è la causa pregestuale del tragico alla quale mi riferivo inizialmente. Un finto fato che vede implicata una giovane vergine: Ifigenia; ma il coniglio compare nell'incipit anche in un’altra trama molto conosciuta, quella di Lewis Carrol, nella quale racconta come una giovane ragazza segue il destino di questo animale che gli antichi vedevano carico di attributi sessuali. All'ascensione verticale di Ifigenia
corrisponde la caduta di Alice, dall'ordine superiore a quello inferiore, in ogni caso un rapimento. Con la figura di Ifigenia-Alice, questa Orestea vuole precipitare in un movimento infantile, dove il mondo allude al teatro, dove il linguaggio deve necessariamente rinascere passando per la propria morte, passando attraverso le cose, gli animali, i suoni, gli esseri, i luoghi e soprattutto per i corpi, privandosi della sua regalità codificata. Il linguaggio giace sullo stesso piano degli elementi, diviene a sua volta elementare, cosa che non si può nominare perché i nomi si ritraggono; in una parola l'Orestea attraversa lo specchio. Notiamo come le parole di Carroll riferite al precipitare di Alice appaiano in tutto e per tutto tragiche, attiche, classicamente antiche, e così anche la breve traduzione del Jabberwocki che scritta da Artaud si svuota di senso, del suo senso: “Il était Roparant, et les Vliqueux tarands Allaient en gibroyant et en brimbulkdriquant Jusque-là où la rourghe est à rouarghe à ramgmbde et rangmbde à rouarghambde: Tous les falomitards étaient les chats-huants Et les Ghoré Uk'hatis dans le Grabugeument” A questo Senso mi riferisco nella caduta di Alice, che è stato come vedere tutta la trilogia della tragedia in un riavvolgimento veloce, della stessa materia che si mescola, equivalente alla propria fiaba, alla propria vicenda esistenziale. (Fiaba. Castellucci ha colto il baricentro della trilogia nel suo fatto infantile: nel ritorno degli adolescenti. Oreste è ancora nella sfera dell'efebica, e Elettra è poco più adulta di lui, insieme all'amico Pilade. E' come un gioco di bambini, oggettuale freddo e autistico, il loro mondo contro gli adulti traditori) Durante l'opera è significativo come il massimo del terrore si ha quando l'attesa si fa più lunga (seconda parte de "Le Coefore") e il silenzio lo sottende: il bianco è il bianco della luna, della polvere silenziosa, le coefore sono proiettate nella luna e la scena si apre con un Hermes bianco che pascola due asini albini; il latte dell'asina che Elettra munge e riporta al centro del palco versandolo prima sul proprio seno e poi nella bocca della capra scuoiata, che rappresenta il Re Agamennone, è un latte infantile che apre al sogno. Ma la capra scuoiata che riprende a respirare è il corpo stesso della tragedia (tràgos) e che qui riceve il latte d'odio di una bambina per poter tornare ad Essere: plausibile. Brevemente vediamo la conclusione culturale dell'Orestea al termine
dei tre atti: l'istituzione dell'Areopago, l'assoluzione con voti pari di Oreste e il definitivo instaurarsi del diritto patriarcale e spirituale come superamento dello ius naturale portatore di violenza di vita, di materia, di buio, di sgomento di corpi caduchi, perché se è vero che le Eumenidi arrivano a questo superamento spirituale, è anche vero che tutta quanta l'Orestea è fatta di queste stesse cose che si vogliono superate. Ci spiega Castellucci, che è stato come leggera a rovescio, cioè secondo il punto di vista invertito dell'ordine che sta cedendo: quello matriarcale, cioè lo stare dalla parte di Clitennestra. Dal finale delle Eumenidi ci si volge indietro e si guarda, trapassando tutta la trilogia fino al suo inizio: da qui il sottotitolo "(una commedia organica?)". La descrizione dei due personaggi principali la affido alle parole che mostrano non il loro lato fisico, di corpo oggettuale ma attraverso la voce, le parole e i suoni da essi pronunciati. Un parallelepipedo traslucido racchiude Cassandra, la pressione del respiro, nell'emissione della voce, dilata il suo corpo che va' così a sbattere contro le pareti di questa cassa che supera di poco la dimensione della sua corporatura. Ogni parola è una percussione; dentro al parallelepipedo non c'è aria né spazio libero: voce e corpo si dilatano sino a comprimersi contro il perimetro delle pareti. La voce di Cassandra è la voce delle viscere, non ha un corpo, ha tutti i corpi dentro di sé. E' il grido attraverso il suo corpo esce rovesciandosi, cosicché la pelle diventa l'interno e le viscere l'esterno. Il corpo di Cassandra sono le viscere. Le prime parole pronunciate dal personaggio sono chiare e scolpite, ma Cassandra si nutre delle sue parole nel ten- tativo di renderle sillabicamente comprensibile avviene una deformazione. Un'eco di ritardo cerca di allungarle e confonderle per avere così una graduale sottrazione di comprensione. La scansione ritmica e la melodia delle parole cercano di aprire un varco aldilà del parallelepipedo che le contiene, nulla vi può uscire e nessuna forma può essere chiara e decifrabile: ecco perché il timbro della voce dell'attrice ricorda la segmentazione granulare del pianto fa pensare alla sconfitta. Pianti, singhiozzi, scatti, risate, irrigidimenti, e compressioni, poi ancora scatti, sberle, contrazioni e spinte. la voce, nel tentativo di materializ- zare un proprio corpo, invece, si confonde. Benchè pronunciate le parole non esistono più, non sono riconoscibili ma definiti solo suoni della lingua. Versi
prodotti ma incapaci di essere percepiti nella preoccupazione dell'ascolto delle parole e del loro significato. Di Cassandra ci rimane solo questo. Il Coniglio Corifero vede e racconta quanto vede e frappone fra il pubblico e la visione della sua voce. Il pubblico ascolta innanzi tutto la qualitĂ del suo timbro, la qualitĂ eunuco e suadente della sua voce. La voce diviene a sua volta un corpo fisico che si lascia vedere, in una distanza sulla rappresentazione che lo spettatore percepisce come ulteriore centro focale, prima ancora dell'oggetto del discorso del Corifero.
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Estratto critico per un saggio sul potere della retorica nel teatro contemporaneo, il Giulio Cesare e l'importanza del linguaggio e del suo "nuovo suono" Romeo Castellucci ci porta ad una lineare riflessione che ha come protagonista l'impero retorico che ha regnato l'Occidente per due millenni e mezzo da Gorgia a Napoleone III. Ci spiega come la retorica sia stata la sola pratica (assieme alla grammatica, nata dopo di essa) attraverso la quale la nostra società ha riconosciuto il linguaggio e la sua debita sovranità. Il potere appare tale solo là dove si riveste della forza della parola, di parola retorica. Il fascino retoricistico è dato da una negazione, è dato dalla parola vuota e dalla persuasione che, noncurante dell'oggetto, ha di mira unicamente il proprio effetto d'arte. In ambito teatrale ci viene spontaneo porci una domanda: la retorica termina dove inizia il teatro? Il teatro inizia dove inizia la retorica, ma non ne siamo ancora sicuri. Sappiamo benissimo che il teatro prosegue sul piano formale il discorso retorico (o viceversa), ma la retorica è sostanzialmente un modo concreto e completo di considerare e di manipolare la materia teatrale. La retorica accetta e svela la corruzione del teatro: lo guarda in modo impietoso e scabroso, ne esalta la sua vera forma, cioè quella della finzione e della corruzione. In modo cinico, essa possiede due volte la teatralità, nel senso che la impiega e la spiega, cioè l'artificio teatrale viene sfruttato perché utile alla verità del discorso e allo stesso tempo additato perché finto e nocivo. Ne nasce un tema di verità eseguito con perfetta e consapevole teatralità: ad esempio l'orazione di Antonio, che è ovviamente il picco teatrale, il punto più efficace e più duro del Giulio Cesare è tale proprio perché è, in sintesi, una buona messa in scena della retorica. Castellucci carica "noi" spettatori di una grossa responsabilità, la retorica teatrale e il suo doppio gioco ci insegna una cosa, la consapevolezza di essere noi portatori di corruzione sempre in riferimento all' "esserci" due volte, una consapevolezza che rasenta l'istinto. Nel sapere che si alzerà fino all'inverosimile il gioco del linguaggio, noi dobbiamo alzarlo fino al limite del caos proprio la dove si ha la pretesa di un meta-linguaggio. Citando Artaud che ci diceva come la voce non è solo soffio o spirito come dicono i poeti, ma la voce viene dalla contrazione di un paio di muscoli,
mi viene spontaneo affermare come questo elemento sia assolutamente carnale. E' la carne sessuale della voce, quando invece le dicerie vogliono che la voce sia un organo sessuale secondario, ma noi sulla scena del Giulio Cesare vedremo tutta la sua nudità mucosa chiedendo l'aiuto ad un laringectomizzato, come un profeta di una nuova voce, come mistagogo. A lui si concede il posto d'onore (l'orazione di Antonio), il nucleo stesso di tutto il lavoro. Lui ha tutta l'autorità per questo, per l'interpretare, in questo senso, il contenuto retorico del testo. Le figure retoriche hanno sempre un corpo che patisce nello sguardo degli altri. Meccanicamente vi è stata una ricerca per la quale ci si è dotati di apparecchi foniatrici che possano visualizzare non più il corpo ma addirittura la carne delle parole. C'è un endoscopio che l'attore (Stanislavskij) si inserisce nella narice e che permette di vedere il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle corde vocali. Una proiezione centrale permetterà la visione della gola da cui esce la voce: il boccascena diventa una bocca e lascia vedere sul fondo le corde vocali. L'immagine vista realizza infatti la totale coincidenza fra la parola e la sua visione (la visione della sua origine carnale) e produce uno sbandamento, perché non si sa più chiaramente qual'è la parte che prevale: se la lettera detta o la veduta della stessa lettera. L'altra cosa che più produce uno spaesamento in scena in ambito fonico è l'udire il suono dato dal respirare elio per aumentare al massimo le alte frequenze della voce, attraverso una macchietta elettrica con un eccentrico in ottone di 50 grammi che, applicata, alla gola, sbatte la glottide, la faringe e la cartilagine della faringe. Il collo cambia la sua funzione, ora il suo utilizzo è quello di un tamburo (Bruto nella sesta scena della prima parte). Riflettiamo di nuovo sulla potenza del linguaggio, in scena nel primo atto dell'opera dove la potenza retorica linguistica può nominare con nomi nuovi cose vecchie e dove esiste ancora un concetto di idea persuasiva anche là dove ti viene detto che un orinatoio è una fontana (M. Duchamp). Il primo atto inizia con uno scuotimento ritmico del sipario provocato da un grande ariete ligneo sospeso che, oscillando lo investe. All'inizio del secondo atto l'ariete cambierà posizione: da orizzontale a verticale, così che la sua testa colpirà pesantemente il palcoscenico. Nel secondo atto tutto è cambiato in un modo impossibile: un'intensa penombra avvolge l'intera scena, scariche di luce illuminano tutto per qualche istante giusto
il tempo per riconoscerne gli elementi. Vi vediamo la platea di un teatro o forse di un cinema, divisa da un corridoio centrale e da due laterali, completamente distrutta dal fuoco. Si riconoscono i telai metallici bruciati di quelle che una volta erano le poltrone. L'orientamento di questa sala, che vediamo di spalle, è lo stesso della platea del teatro in cui si recita e in cui noi siamo seduti. Si direbbe quindi che la platea prosegua su fino al palco, e che qui ha cominciato una combustione forse irreversibile. Cosa è successo durante l'intervallo? Perché l'ariete ora percuote il palco? Il secondo atto è privo di retorica, è un atto di suicidio drammaturgico (dove Stanislavskij muore) la sua funzione è quella di cancellare ciò che il primo ha edificato attraverso una condizione di circolarità dove l'uscita non esiste. Questo è il messaggio del Giulio Cesare di Shakespeare, dal poeta ci viene detto molte volte, dalla scena II del IV atto in poi, che il pugnale che uccise Cesare è lo stesso che torna, invertendone l'azione, proprio su chi compì l'omicidio esemplare; vi è un'andata e un ritorno, fatale, e algebricamente uguale a zero. Nullo. Vuoto. Il problema di Bruto è diventato il vuoto, Bruto ha ucciso l'immagine stessa del mondo, e ora che ha passato entrambe le domande amletiche ("essere o non essere"), non gli resta che la vacuità: lo svuotarsi. Ecco allora spiegata l'anoressia, il suo incredibile e distruttivo escamotage per abbagliare, nel teatro del corpo, il mondo intero. Svanire, farsi vuoto, o riempirsi di vuoto: togliere il primato della leggerezza della propria ombra -"Io non ci sono più, ma, per favore, guardami come volo via"- svanire per eccesso di visibilità. Ulteriore cortocircuito.
GENESI.FROMTHEMUSEUMOFSLEEP
Prima di tutto vediamo come dare una spiegazione alle parole del titolo: "museum", il museo è il luogo in cui le cose e l'arte giacciono separate dall'esperienza che le creature, qui, riposano nella condizione della conservazione (teche con all'interno animali impagliati: pecore, montoni, volpi, cani, uccelli, pesci, capre..), gli stessi che poi rappresenteranno la popolazione terrena dopo la cacciata dal paradiso. L'unica Genesi concepibile è a partire da un'idea di crisi di creazione, le immagine qui presenti possono solo essere catturate e conservate secondo l'interesse che può avere un Dio-artista; questo è il Museo delle vestigia stesse dell'artista che in una commedia non sua mette al mondo immagini che non gli appartengono, l'esempio più estremo e ridicolo lo si ha in relazione alle religioni monoteistiche. Il motivo della messa in scena di questa "nuova" Genesi non è per farla solo biblica, ma che abbia anche la pretesa retorica di rifare il mondo: mostra la parte più volgare dell'artista (e dell'autore), gli fa fare la parte di colui che vuole rubare l'ultima delle Sephiroth a Dio, la più importante. Qui di seguito vorrei procedere attraverso un analisi a punti della trama dell'opera in quanto completamente difficoltosa nella sua singola spiegazione, solo alla fine vediamo se la chiarezza gioca a mio vantaggio. Il primo atto si apre con il personaggio di Lucifero "colui che porta la luce", che è a casa della scienziata Madame Curie scopritrice del radium, che, come sappiamo è l'unica sostanza che emette luce (e dal radium, dalla conoscenza con la quale inizia l'epoca della fisica moderna e con cui ci si inabissa sempre di più nel nucleo delle cose); e qui comincia anche la piccola storia del calzino di Dio. Successivamente vediamo la comparsa in scena di Dio e dell'Angelo bianco Gabriele che con la sua spada incandescente mima il gesto simbolico della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso dell'Eden. Ma noi non abbiamo ancora fatto la conoscenza con l'Adamo, che vediamo dentro una teca mentre tenta in tutti i modi di collocare le sue membra e le sue ossa in posizioni nuove compresse dallo spazio angusto. Improvvisamente il vetro del prigioniero contorsionista viene oscurato e dalla parte del pubblico un piccolo uomo meccanico viene illuminato. E' un robot antropomorfo e filiforme, e quello che salta agli occhi è il suo as-
petto sofisticato e freddo ma ciò nonostante il piccolo uomo senza testa si alza in piedi e comincia ad applaudire di fronte alla scena di Adamo contorsionista. Poi di nuovo buio, per fare entrare una donna nuda dalla pelle bianca con lunghi capelli grigi che tiene la bocca spalancata fino alla contrazione come in un urlo invisibile. E' la bocca dello stupore e della sorpresa di fare quello che si sta facendo, di trovarsi vivi. Essa è circondata dalle teche di animali impagliati che rappresentano la dimensione terrestre. Eva ci rivela le proprie calvizie, scopre un cranio bianco e la sua unica mammella. Eva è stata mastectomizzata. La prima donna che religiosamente ci rappresenta è stata divorata da un male che ha vinto ma che ha lasciato il suo riconoscibile segno di sofferenza. Il secondo atto riassume il primo e anticipa il terzo, e occorre considerare questa Genesi dal fulcro mediano, il centro che porta il titolo di un campo di concentramento: Auschwitz. Romeo Castellucci ha scelto di usare questo terribile ricordo e di conviverne. Auschwitz è la conseguenza estrema, e non immaginabile, della Genesi dell'uomo; considerata come "zona grigia" concepita, progettata, attualizzata nel suo orrore. All'apertura del sipario si vede cadere giù una candida pioggia di piume bianche e qualcuno sul fondo della scena sta singhiozzando sommessamente. Un altro tipo di voce erompe dal silenzio: è quella di Antonin Artaud che pronunciò un discorso per la radio francese (ma che non trasmise mai) riguardante i futuri esperimenti sulla fecondazione artificiale e sul prelievo che nelle scuole si sarebbe fatto dello "sperme d'enfants". Vediamo come la scena si popola di bambini vestiti di tuniche bianche, che si confondono con tutto il candore che li circonda: il pavimento, le pareti, i soffitti, le garze, gli arredi e i corpi. Si ha la sensazione di aver una sorta di albinismo dello sguardo. Anche in questo spettacolo, come nell'Orestea, troviamo una chiara citazione all'opera di Lewis Carroll "Alice nel Paese delle Meraviglie" con un bambino vestito da cappellaio matto e il coniglio che lo completa che assume il ruolo dello "scienziato": a lui il compito di far cambiare colore al liquido presente all'interno delle grosse croci greche sospese sul boccascena. Apre rubinetti di liquido trasparente che, però, reagendo chimicamente colora gli acidi di un rosso vivo che invade tutto l'interno della croce di vetro. Dal soffitto pende lentamente una copia iperrealistica di un paio di polmoni
umani, poi di un fegato e di un cuore che sentiamo appartenere al bambino vestito da Bianconiglio che tiene in mano l'inquietante riproduzione di un feto di 7 mesi ancora con il cordone ombelicale attaccato che inserisce in un grosso barattolo di vetro colmo di un liquido paglierino nella sua originale posizione a testa in giù, quasi sembra che gli dia il suo meritato riposo. I bambini ovviamente non capitano come personaggi da caricare di compassione ma come protagonisti esplicativi del titolo dell'atto. Non esiste nessun racconto di quanto è successo nel terribile campo di concentramento di Auschwitz, i bambini erano i primi ad entrare nelle camere a gas. Il terzo atto racconta la vicenda tra i due fratelli Caino e Abele. Caino è il primo uomo fatto di solitudine, la sua grandezza ed il suo eroismo sono esattamente l'esemplarità della malinconia dell'esistenza solitaria. Ma lui è anche il personaggio che ci interessa in quanto notiamo come il suo braccio sinistro sia più piccolo rispetto all'altro, come se appartenesse ad un bambino; ed è esattamente con questo arto che Caino compie il più atroce dei gesti: alza lentamente l'arto malformato e lo avvicina al collo del fratello, con uno scatto appena percettibile glielo strige e solo in quest'ultimo, Abele spalanca gli occhi per lanciare nel vuoto uno sguardo di stupore, ma non ha alcuna reazione fisica, se non quella di un lento abbandono. Sotto si sente il rumore registrato del singhiozzo di un neonato, questa è la colonna sonora del Primo omicidio compiuto con un braccio di bambino. Qui il calzino di Dio, che aveva cominciato la sua storia nel primo atto, lo rivediamo infilato nel piede dell'omicida dove quest'ultimo vi inserisce delle uova dando così una nuova funzione all'accessorio, quello di utero fecondatore creatore di vita, la stessa funzione di Dio. Nella scena entra anche Eva che si staglia di fronte a lui asimmetricamente, con l'unico suo seno di fronte al figlio; un figlio "asimmetrico" potremmo dire, che ha rotto l'equilibrio con il fratello e con Dio, che ha inaugurato la definitiva asimmetria degli uomini. Ma lo stesso lui si sente potente, se ne sta con la corona d'oro della madre e il dito puntato in alto, è un re indicatore di un nulla, nulla che non ha neppure la forza ontologica essere vuoto. Il palco si svuota e i personaggi entrano nell'ombra, una polvere rossa cade dall'alto dolcemente, si posa sul corpo nudo di Caino che ancora è lì sdraiato supino per terra, è un filo di polvere dello stesso colore di quella che è a terra; è la st-
essa terra che ritorna a dare sepoltura ad un uomo che muore della morte di un altro. Giustamente l'opera che racconta di una nascita da un nulla termina con una morte che ritorna ad essere nulla.
T R A G E D I A E N D O G O N I D I A Per meglio procedere ad un analisi singola e dettagliata dei vari elementi di composizione del ciclo della Tragedia Endogonidia, penso sia meglio chiarire inizialmente i termini e il sistema utilizzati nel loro interno, a partire dal titolo appunto.
T r a g e d i a Si parte dalla ragionevole considerazione dell'impossibilità contemporanea di un'autentica fondazione della tragedia. Ciò nondimeno il modo della tragedia di presentare allo spettatore un nodo drammatico è ancora il modello insuperato per ogni intima rappresentazione umana. Allo stesso tempo si avverte, nel nucleo della tragedia attica, la struttura stessa delle sensazioni che rivelano, della condizione umana, qualcosa come una inappartenenza a questo mondo, a questa realtà. La nostra epoca e le nostre vite sono definitivamente fuori da ogni concezione tragica. Redenzione, pathos e ethos sono parole irraggiungibili, cadute nella più fredda delle astrazioni. Il teatro che si rispetta, ora, è un teatro di commozione. Sappiamo che occorre considerare la tragedia come l'unico e degno concorrente che si debba avere, si occorre guardare il vero volto della tragedia perché non si ancora cosa sia. cit. di Romeo Castellucci: -"Vedo il riflesso dell'oro come una rivincita sul tempo e sullo spazio. Vedo l'oro come il rappresentante del mondo della Concezione che vince sul mondo finito del destino". E n d o g o n i d i a La Concezione si oppone da sempre al regno della realtà. Accoglie, senza dare giudizi, tutti i fenomeni della realtà secondo un nuovo disegno che si forma per partenogenesi (endo-gonidia). Concepire vuol dire accogliere (conceptus, con-captio). Si può concepire, di nuovo, qualcosa come una tragedia algida in un'epoca che riesce a comprendere e ad accogliere solo disgrazie? Nel regno della Concezione c'è una totale assenza di idee. Questo non è un problema: è una garanzia. E p i s o d i o La prossima fase del lavoro prevede una serie di "basi", in cui si gen-
erano altrettanti Episodi. L'Episodio non porta il peso di un messaggio da consegnare, e comunica il meno possibile, ma non lo si potrà definire "frammento" di un intero o "metonimia". Un Episodio si trova ad essere più vicino a una serie di atti puri e completi. E' una meteora che passa e sfiora la superficie del mondo e vi rimane ma senza radici. Per comprendere ciò occorre riconsiderare da capo la meccanica della tragedia attica. Se riuscissimo ad immaginare una tragedia senza gli stasimi del Coro, ci accorgeremo che ogni Episodio riposa ancora nello splendore della sua Entelechia, nel suo sostanziale e siderale silenzio. Senza la volontà di comprensione operata dal Coro, l'Episodio rappresenta, con la sua nuda azione, l'inesplicabile "io" dello spettatore, mentre il Coro spiega e coniuga l'"egli" del personaggio nelle coordinate di una narrazione. Quello che in un episodio rimane potrà essere solo la pseudobiografia di un eroe, ma è proprio dall'impronunciato che la forma prende corpo (e la tragedia, come ha scritto Rosenzweig, è l'arte del silenzio). Il ciclo del lavoro prevede una prima base a Cesena, con l'autogenerazione di una catena di immagini da cui si distacca una serie di spore che saranno raccolte in altre "basi", a loro volta le spore daranno vita a unità tragiche singolari. Queste unità (che come sigla assumeranno il nome delle città che le ospita: Roma 09, oppure Marsiglia 11) ricadranno sulla "base" successiva. Il processo non sarà quello dell'accumulazione, bensì quello della trasformazione vivente: A + B non sarà AB, A + B sarà uguale a C. La struttura generale è una sequenza che prevede una trasmigrazione delle forme al proprio interno, il processo in atto è di tipo evolutivo, non sono tanti spettacoli né ci sarà un unico grande spettacolo. Quello che avremo sarà un organ- ismo in stato di fuga. La velocità di reazione e di cambiamento della forma diventa una strategia necessaria a sostenere la portata di questa epoca. ILCAPROCHEDIEDENOMEALLATRAGEDIA Nello spettacolo si sentono alcune parole, ma non sono di origine letteraria, hanno una valenza oggettiva, non vi è poesia né alcun principio verticale che giustifichi la presenza di un autore, di un poeta, di uno scrittore. Sappiamo che il testo discende da una capra. La parola greca "tragos" da cui deriva "tragedia" significa "canto del capro": la capra diventa un corpo di scrittura che attraverso il suo corpo ci "dona"
alcune parole come una santa oblazione (santa perché inconsapevole e indifferente). Si è trattato di far scrivere, letteralmente, un testo ad una capra vivente: registrando questo fatto a Cesena e utilizzare ad Avignone le parole inscritte e derivate oggettivamente dal suo corposegno. Avere un testo proveniente da una capra nel contesto di una tragedia significa disconoscere e sospendere in un colpo tutta la tradizione della tragedia stessa, e, contemporaneamente, avvallare un significato brutalmente tradizionale, etimologico e letterale. Significa avere alle spalle un animale al posto di un poeta, un animale che ci conduce "all'aperto" in una dimensione non-narrativa e quindi di vero pericolo. Il problema tecnico che si sono posti gli autori, cioè Claudia e Romeo Castellucci con Chiara Guidi, è stato come ottenere una serie di parole da una capra. Come ottenere un testo midollare che venga dal centro stesso di tutte le letterature, cioè dall'inespresso di ogni corpo? La soluzione si è trovata decodificando i movimenti dell'animale con un decoder ricavato da un diagramma (come quelli tardo rinascimentali del'"ars-combinatoria", o quelli di strutture matematiche come la serie di Fibonacci, o strutture molecolari di corpi rigidi sottoposti ad alterazioni e strappi) e dall'incrocio di questo con le coordinate dei passi della capra su un terreno con un reticolo di coordinate, ma la scelta dei fonemi poteva apparire arbitraria. Un'altra possibilità ancora più oggettiva, sarebbe leggere quello che la capra ha già, cioè la sua sequenza di aminoacidi di una proteina, di una sostanza che caratterizza certi processi organici. Ad esempio: decodificare la proteina responsabile della crescita delle corna, oppure la sequenza degli enzimi da cui dipende il principio della decomposizione (putrescina e cadaverina). E questo è stato, questo processo di traduzione sarà la poesia della tragedia. Gli autori ci hanno mostrato un documento video del momento in cui è avvenuta la "scrittura" da parte della capra e far vedere apertamente il principio compositivo e la non arbitrarietà delle parole ricavate. Il grande pericolo che, però, si cela in tutto questo è lo spirito profondamente "sperimentale" mentre in realtà il fine è quello che sia tutto necessario, lineare e logico. Qualcosa che sia inflessibile, invincibile, perché già dentro alla cosa. Nota (cit.) -"Per il linguaggio-testo della capra è stato adottato un sistema analogico di ricombinazione di fonemi provenienti dalle se- quenza pro-
teiche contenute esattamente nel corpo di "quel" capro, un individuo maschio di quattro anni. Le sequenze delle ammine scelte sono quelle responsabili, nell'ordine, della: respirazione cellulare, crescita delle corna, putrefazione. Le sequenze delle lettere-simbolo di ogni aminoacido delle proteine scelte, sono state riportate su tre tappeti bianchi; il Capro è stato lasciato libero di pascolare sul diagramma delle lettere scelte. Il suo percorso costituisce un tracciato sul quadrante. Il tracciato disegna una costellazione di lettere le quali, a loro volta, formulano una scrittura di base. -"Il Poeta ha fatto la sua scelta e la sua scelta è invincibile."1°Impresa grammaticale su 20 amminoacidi di Chiara Guidi Ho voluto inserire questa complessa analisi di codifica del linguaggio da utilizzare per tutta lo svolgimento della tragedia, l’ho trovato una cosa pressochè impressionante rispetto alla sua difficoltà; riporto qui per intero le ricerche eseguite da Chiara Guidi in merito: Gli amminoacidi esistenti in natura sono circa una ventina che, attraverso una loro combinazione pressoché illimitata, danno vita a innumerevoli proteine. Le lettere simboliche degli amminoacidi sono in numero simile ai segni dell’alfabeto. Gli amminoacidi sono alla base dell’energia di ogni forma vivente. Dare voce alle “scritture” possibili degli amminoacidi è l’equivalente di un esercizio ginnico per gole ispirate. Subito mi accorgo che pronunciare le abbreviazioni degli amminoacidi è un processo di ricerca che non mi commuove e tanto meno mi sorprende. Come posso consumarla in ripetuti tentativi di resa timbrica senza cadere nella consequenzialità dei gargarismi vocalici? Senza cadere nello sperimentalismo vocale? Le lettere degli amminoacidi vivono nel silenzioso buio del chiuso di un corpo. Non conoscono altezza, timbri, toni e volumi. E io cerco un volume. La “scrittura” viene alla luce assumendo una forma umana. Ogni lettera diventa soggetto. Non c’è verbo, ma il soggetto è allo stesso tempo verbo e complemento di se stesso. Non ci sono modi, tempi e persone. Ogni lettera è la sintesi di un mondo sonoro complesso ed emotivo, concreto. Unisco alcune lettere tra loro e mi appaiono brandelli di una storia. Risalgo le ramificazioni. Vedo qualcosa di reale, di cui però ho perso il contatto, qualcosa che è rimasto sepolto. Mi nutro di lettere e mi emoziono; finalmente, la sorpresa. Ogni lettera è una “fuga”.
La L è Lisina. Pronuncio il corpo “L”. La “Q” è Glutammina. I tracciati che compongono le singole lettere diventano frecce con un vettore. Si ha un effetto grafico astratto che fluttua costantemente. Nasce una complessa architettura musicale. Ascolto questa prima lettura dei tracciati che formano le lettere. E’ una lettura senza interruzione. Alcune lettere si aggregano afferrandosi. Si formano dei grumi. Exempla: “LAMHY” L – vettore verticale: dall’alto verso il basso, caduta rallentata e soppesata. Vettore orizzontale: da destra a sinistra, emissione vocalica impercettibile, capace di trattenere energia. A – Vettore obliquo: rapido sbilanciamento dal basso verso l’alto, caduta veloce, obliqua. M – Vettore verticale: impennata parallela, dal basso verso l’alto. Vettore obliquo: congiunzione simmetrica di due spinte verso il basso, con urto nel punto di contatto. H – Vettore verticale: volo simmetrico dal basso verso l’alto. Vettore orizzontale: tensione mediana che dopo aver afferrato i vettori verticali, cerca di congiungerli. Y – Vettore obliquo: il volo simmetrico dei vettori verticali precedenti di H si interrompe e la caduta raggiunge un punto di congiunzione al centro. Vettore verticale: caduta finale inerte. Timbro – La voce è pervasa da un tremore occipitale. Alto, vibrato, accorato. Intenzione Un colpo violento e repentino sorprende e interrompe l’energia di un essere nel momento di massima potenza fisica. “LASTMY” L – Vettore orizzontale: da destra a sinistra, su una retta si avverte una forza che spinge verso l’alto. Vettore verticale: un unico movimento di passaggio dall’orizzontale al verticale e l’incontro delle due rette non forma un angolo retto, ma un arco. A – Vettore obliquo: diramazione ed allontanamento di due rette da un punto; doppia voce. Vettore orizzontale: sostegno dell’accordo. S – Vettore della linea curva: moto armonico dal basso verso l’alto. Accorod. M – Vettore verticale e obliquo: caduta simultanea come l’effetto di quattro voci a due a due, parallele. Y – Vettore verticale: unione dei vettori di M in una voce all’unisono. Vettore obliquo: improvviso sdoppiamento ed allonta- namento delle voci che, sospinte dal respiro, si divaricano formando un angolo acuto. Timbro – La voce cupa è continuamente frenata da una forza interna. L’energia della prima emissione subito si consuma e la voce, affievolendosi, divaga verso l’alto diventando acuta. Intenzione – La stasi di un luogo raggiunto quando una forza contraria annulla un’energia. Lo strappo si arresta.
L A T R A G E D I A . I L P R O B L E M A Nella definizione del soggetto, la Tragedia, si delineano dei limiti necessari volti alla sua più completa spiegazione nel loro dipanarsi. Visualizziamo quello che è il problema scaturito dalla volontà del soggetto rappresentato, con la creazione di domande-limiti pertinenti per capire quello che è lo slancio, l'inizio e il motivo di vita di quest'opera itinerante; vediamo di entrare nel suo più intimo nucleo, quello che le ha dato l'origine e la volontà di trasfigurarsi in ciò che vedremo in seguito. Primo limite: Inizialmente possiamo dire, come di base vi sia una impossibilità contemporanea di ripetere o rinnovare la tragedia; non derivata dall'incapacità di corrispondere al modello greco perché esso ci è già estraneo, ma dalla mancanza di capisaldi in quello che è il linguaggio mitico, la vera essenza del tragico, in cui l'Uomo è al contempo innocente e colpevole (ethos e daimon). La tragedia, per vivere, presuppone infatti un popolo, che è la sola e unica esigenza che anima l'autore tragico che trova la sua riposta nel pubblico. L'impossibilità di ritrovare le radici della tragedia segna la riconciliazione impossibile tra l'umano e il divino, tra l'arte e la vita, un popolo ancora non trovato e che solleva la questione dell'agire. La tragedia non è creatrice di un modello, quanto di una "coscienza", di un pensiero tragico. Essa non crea un modello estetico, non è una riflessione sul mondo o l'espressione di una visione del mondo, ma un interrogativo vitale sulla possibilità dell'azione, sulla natura dell'agire. La tragedia non è quindi testimonianza, ma epifania: non è riflesso della realtà, ma contestazione profonda della stessa, attraverso la nascita della coscienza tragica. L'impossibilità di ritrovare le radici storiche della tragedia, ovvero il linguaggio mitico e l'esperienza del tragos, è forse l'impossibilità di immaginare ciò che appartiene alla sfera dell'azione, dell'agire, in altri termini del possibile. Questa è la funzione della rappresentazione teatrale, o meglio la rappresentazione teatrale come funzione. Secondo limite: Successivamente, un altro nodo si forma, è quello che definisce la tragedia come interrogativo vitale sull'impossibilità stessa dell'agire (vedi sopra). Un interrogativo che riporta alla coscienza ciò che "il regno della realtà" nega, una vita sfuggevole il cui senso non ha più influenza e che distrugge ogni tipo di rappresentazione e di rapporto significativo. Nel dramma la sofferenza e l'orrore della vita diventano espres-
sione di purezza e intensità, essa ci accompagna nel cuore stesso di ciò cui siamo fatti e plasmati, per liberare una forza vitale in risposta alla potenza del destino. L'interrogativo sollevato dalla tragedia è su come ritrovare la propria dignità: l'uomo che subisce la sofferenza ne fa una forza in opera, la crudeltà, ed è proprio qui che si colloca l'essenza del tragico che cercavamo. La nostra impossibilità di afferrare la vita è il segno della nostra impotenza di fronte alla forza del Destino, inviolabile fatalità scandita dall'oracolo. Terzo limite: La coscienza tragica accennata all'inizio è "una presa di coscienza, che per essere effettiva deve tramutarsi in crisi". La crisi generata dalla rappresentazione ci rivela che la realtà è un mondo chiuso che non consente l'azione, essendo un universo prestabilito in cui l'uomo si muove e da cui egli è formato, senza che ne conosca l'origine né la destinazione. Essa si manifesta fisicamente nell'essere indifferenziato dove non è l'io il soggetto a lamentare le costrizioni avute; l'io è un principio di identità, di unità, è ciò che permette al soggetto di differenziarsi dalle forze che lo assalgono. E' in questa scissione che il soggetto ritrova stabilità e forza. Il corpo è allora terreno di prova della suddetta crisi, luogo in cui le differenze scompaiono, ma in cui tutto è violentemente confuso, ci spinge verso la perdita di identità in cui l'uomo sperimenta se stesso come Altro irraggiungibile impossibilitato a riprenderne l'autocontrollo. Quarto limite: Il tragico non è, quindi, contemplazione estetica. Quest'ultima sappiamo che impone una relazione univoca tra oggetto/spettacolo e soggetto/spettatore, determinando una distinzione netta tra i due, non l'indifferenziazione. Essa può nascere solo da un consenso del soggetto che compie il movimento verso l'oggetto, persegue l'armonizzazione e il piacere. La crisi tragica non è regolatrice di passioni e non crea equilibrio. Quinto limite: La tragedia vista come "intima rappresentazione umana" in cui l'uomo riprende il controllo su sè stesso solo quando l'Altro (vedi limite numero tre) viola la sua intimità e vi è un possesso di corpo e desiderio. Perché è proprio sul corpo che si esercita la violenza del giudizio, è il corpo che soffre e non attraverso il corpo che noi proviamo dolore. Questa è la dimensione dell'uomo come tensione tra i due mondi che lo compongono e si oppongono ad esso, mythos e logos. Sesto limite: Nel tentativo di dare una forma allo svolgimento della tragedia oggi, Castellucci, ha scelto la funzione degli Episodi concatenati uno
all'altro. Come accennato all'inizio la "base" C.#01, è costituita da un episodio che si conclude con uno stasimo. Per arrivare "all'esperienza" tragica, la tragedia interagisce con le sensazioni dello spettatore, non con i suoi sentimenti o con la sua ragione; qui non è un ricreare forme nuove, sostitutive del modello greco ma un utilizzo strategico delle immagini che compongono il mondo. Innanzitutto non è una questione di modello, di forma, ma di come la forma prende corpo per condurci verso ciò che chiamiamo tragico. La scena teatrale è uno spazio passionale, non perché figurazione della sofferenza dell'uomo, ma in quanto luogo della Forma, della Rappresentazione e della Ripetizione. Un Episodio non rappresenta nulla, ma raccoglie e compendia la realtà per generare materia: dalla passione nasce l'azione. La funzione dell’Episodio come procedimento di "isolamento" volto ad eludere qualsiasi carattere narrativo, illustrativo o figurativo, è dunque "atto puro e compiuto", senza radici che non si articolano su niente e né articolano niente. Si isola come la rappresentazione di un mondo chiuso per assenza di prospettiva, uno spazio senza via d'uscita, ma il fatto stesso di cercare una scappatoia traduce un'illusione nichilista; isolare non è abbandonare ma intraprendere un cammino di esplorazione e quindi trasformandolo in "campo operativo". Immediato esempio lo desidero fare con il primo episodio, proprio con C.#01, nel quale l'assenza di prospettiva propone allo spettatore uno "spazio aptico" non più ottico. Non avendo punti di vista, forma un tutt'uno con il processo di passaggio; Perspectiva significa infatti "vedere chiaramente", operare un processo di razionalizzazione della visione, essa è rappresentazione della profondità e del rilievo, creatrice di uno spazio ottico, perché riflesso della rappresentazione di un mondo reale. Lo spettatore vi si trova strutturalmente coinvolto come punto di vista, rimane però all'esterno dell'azione, poiché il punto di vista implica un distacco dal soggetto; la prospettiva classica è da un lato struttura formale di ciò che si vuole mostrare, come condizione produttiva della figurazione e fattore di realismo, dall'altro lato è condizione di possibilità di percezione attraverso l'occhio contemplatore. Lo spazio tridimensionale della figurazione e la successione temporale logica della narrazione, come condizioni fondatrici della rappresentazione teatrale, sono negate in C.#01. L'assenza di prospettiva data dall'oro delle pareti produce una visione rav-
vicinata che proietta lo spettatore nell'azione. "Il riflesso dell'oro come rivincita sul tempo e sullo spazio", perché il riflesso dorato non riflette nulla, non c'è niente né dietro né dentro, come la serie di "basi" non appartiene all'ordine della successione ma a quello del Divenire, che impedisce la successione naturale degli Episodi. L'ordine del Divenire non è l'ordine mitico delle metamorfosi, non segue la logica del racconto, perché il racconto non produce altro al di fuori di sé; non è dunque una corrispondenza di rapporto tra Episodi (che reintrodurrebbe una obbligata cronologia), non è evoluzione per filiazione che osserva una genealogia esclusiva, non segue la logica di un dramma. La sua modalità di diffusione è come quella del contagio, dell'epidemia, una "partecipazione contro natura": "tragedia endo-gonidia". REALTA' E TRAGEDIA DELLA TERRA di Claudia Castellucci In questo mini saggio, Claudia Castellucci scrive soltanto dell'intuizione che la Tragedia Endogonidia ha verso la terra e, specificatamente, verso le realtà cosmopolitane, che non hanno più un legame con la terra e con un popolo. Ogni cosa ha una posizione nello spazio, c'è un originaria necessità dei luoghi, un legame terrestre. L'occupazione, infatti, è un atto spaziale, è l'atto arcaico e infantile di prendere possesso, che non è un banale "star sopra"; dice Claudia Castellucci: -"Vedo in questo modo l'instaurarsi di un teatro come "spazio esistenziale", come "potenza formativa" di un luogo che ripensa la tragedia". -"Il nucleo dello sguardo tragico è dentro lo spettatore, perché non cerca alcun oggetto fuori da sé. Solo nella tragedia è possibile questa fusione dei ruoli e trovarsi, inesplicabilmente, dentro lo spettacolo. Esiste ancora oggi questa possibilità comunitaria di fondare lo sguardo? Non è questa la nuova sfida di ogni teatro? Ha ancora un significato vedere? Epopteia, così gli antichi chiamavano lo sguardo che rilancia e crea l'oggetto guardato. Il problema è nascosto lì. Il testo che sarà presente sul palco rivelerà la comune appartenenza alla specie umana. Siamo esseri parlanti e usiamo un sistema fatto di macchie nere che, comunemente, chiamiamo alfabeto e questo è tutto ciò che abbiamo e che ci tiene insieme." (citazione di Romeo Castellucci)Nella contemporaneità ci si rende conto come non c'è più lo spettacolo chiuso, finito e nomade, il teatro nel suo continuo esodo; a cominciare
dalla sua scrittura drammatica, la quale non può essere chiusa ma disposta al mutamento della sua morfologia. Lo scopo della Tragedia Endogonidia non è il risultato finale, ma i passaggi, che sono gli atti compiuti di una trasformazione e di una verità già matura nel presente. Occorre operare una rinuncia al mito e a quello che comunemente definisce. Nella Tragedia la storia è partorita al proprio interno, e dunque, in un individuo che non appartiene più a un popolo coltivatore alle sue store e ai suoi miti, la trama di questo uomo attingerà da fonti ancora più arcaiche di quelle antiche, fonti che si misceleranno con la storia contemporanea, ma in una trama che non potrà essere spiegata da nessun Coro. Rimarrà un fatto, esposto sulla scena. Un fatto nudo. La Tragedia Endogonidia considera l'Esodo (l'ultima parte della tragedia) una parte fondamentale della costruzione, crea l’occupazione della terre e anche la fuga. Afferma un nuovo principio di possesso del luogo sulla formazione di una comunità umana istantanea che occupa il teatro e lì ricostruisce un novo motivo di pensiero sulla propria esistenza terrestre.
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La problematica dell'agire che annunciavamo nella presentazione della Tragedia, qui in C.#01, nasce dalla funzione dell'enigma. Vediamo come sia necessario ritornare al punto di partenza del mito, appunto l'enigma, che contraddistingue l'ambiguità della realtà. Esso ha un carattere sacro, è la lingua degli oracoli che implica un legame con la realtà divenuto ormai problematico, perché l'improvvisa manifestazione ne offusca i limiti. Quando nella tragedia il soggetto diventa oggetto dell'enigma, non dispone più la facoltà di identificazione. All'interno di C.#01, il dramma non si costituisce quindi attorno ad un fatto o ad un racconto, ma l'azione delle forze disumane sul corpo è ricondotta a quella del Destino, la cui rivelazione è racchiusa nella parola dell'Oracolo. Detto ciò le prime due figure di questo Episodio, che sono il personaggio polimorfo e il folle, si sdoppiano l'una nell'altra come due aspetti della stessa parola e contenuto del dramma tragico, enigma e interrogazione umana. Poniamo l'attenzione alla prima figura che si staglia davanti ai nostri occhi: l'Essere polimorfo. Questo personaggio, che subisce tre trasformazioni, ricorda il quesito proposto dalla Sfinge (per i Greci la Sfinge è identificata come "parola molteplice" per via dei suoi impossibili indovinelli) che si identifica con il mostro, il quale è altresì l'incarnazione della contraddizione. La numerazione che illustra l'ordine logico delle trasformazioni temporali ci viene chiaramente rivelata attraverso un bracciale che l'attore porta e che indica il numero corrispondente ad ogni cambiamento di stato: 1, 2, 3. I numeri seguono lo svolgimento temporale dell'azione mentre l'azione illustrata non rispetta alcuna logica, e la stessa inquietudine di un rebus ce la dà la mancata identificazione del personaggio in un essere di sesso femminile o maschile. La seconda trasformazione ci ricorda la descrizione della Pizia di Delfi fatta da Origene, che la cita come una donna seduta sul tripode sacro mentre riceve lo spirito divino che la penetra sessualmente e la lascia cadere nel delirio. A noi spettatori non ci resta che osservare il momento da cui la parola dell'oracolo ha la sua origine. Come l'enigma della Sfinge, la figura riassume da sola la condizione umana, perché incapace di essere oggetto di un sapere, essa accede alla conoscenza mediante la rivelazione esterna avvenuta fisicamente. Evidenziamo il carattere impudico al quale abbiamo assistito nella prima scena: una violenza primordiale e genesica
simile ad uno stupro. Il corpo di questa figura è pervaso da uno spasmo, un ritmo primario che evoca il dolore e la sofferenza del corpo. Lo spasmo lo possiamo definire paradossalmente come quello del soffio vitale che da origine alla profezia; esso diventa tratto distintivo di uno sforzo che testimonia l'azione delle forze sul corpo che lo scuotono fortemente. Imbattiamoci ora nell’analisi del Personaggio Polimorfo. L'essere che subisce le trasformazioni non incarna un personag- gio, non è definito da tratti specifici, confonde le determinazioni umane non solo perché evoca l'oracolo e incarna l'enigma, ma anche perché è Figura. Non è la metamorfosi della sofferenza umana, non è veicolo di un contenuto ma epifania come l'oracolo: attraverso di essa "il corpo visibile affronta le forze dell'invisibile", è insieme soggetto e oggetto del corpo. La fine della terza trasformazione annuncia un cambiamento radicale di situazione attraverso la rappresentazione del ribaltamento. Qualcosa scende dall'alto della scena: è la parte inferiore di un corpo umano femminile, delle gambe in lattice. Un uomo entra si avvicina e con un movimento a molla le tira e le fa schizzare verso l'alto facendole capovolgere e riversando del liquido rosso sul suo corpo e sul palco. Intanto l'arco automatico continua a tirare delle frecce sullo sfondo. Un'altra Figura appare sulla scena: un anziano con indosso una sorta di maschera di carnevale e con esso entra in azione un pannello automatico con lettere scorrevoli. L'anziano parla, il pannello visualizza varie combinazioni di lettere che formano parole o frasi. La scrittura ribadisce la parola. Le formulazioni del vecchio e del pannello giungono come sentenze, alcune sono affermazioni in forma negativa: "non c'è". Altre invece sono giustapposizioni di parole. A giudicare dal tono sentenzioso e dalle parole che annunciano una maledizione, si tratta chiaramente della manifestazione dell'oracolo. E' il capovolgimento della situazione con la rivelazione del linguaggio, il ribaltamento appare come risposta all'enigma. E' come se passasse dall'ignoranza, dall'inespresso la rivelazione di ciò che si nascondeva nell'intimo delle prime azioni. Questa parole ricordano il loro essere maledizioni, la rivelazione dell'enigma come destino; per conservare la sua efficace e la sua potenza, il destino deve rimanere oscuro per manifestarsi agli uomini e ricordare loro la sua temibile potenza, deve prendere corpo nelle parole. L'oracolo è quindi un portare in scena la
parola del destino. La parola ha la sua apparizione, le frasi e le parole si succedono senza collegamento logico; i discorsi sono sconnessi, come il pannello da cui fluiscono in modo automatico. Le formulazioni non appaiono il risultato di un processo sensato, e per questo non sono interpretabili. Questa disumanizzazione del linguaggio viene messa in evidenza dall'utilizzo del pannello; il procedimento di scrittura automatico, è la parola senza origine, senza autore, né soggetto che si identifica con il "riflesso spettro" della macchina, le cui combinazioni di lettere sembrano infinite. Tornando al nostro enigma sappiamo che rimane senza risposta perché la parola dell'oracolo non offre soluzioni, non chiarisce ma confonde. Questo aspetto appare anche attraverso la figura del folle o del Matto, arcano del gioco dei tarocchi. Tarocco significa cammino, è il linguaggio mitico perché se ne ignora l'origine; è un gioco senza autore, ma è anche veicolo di miti e simboli che fanno il nostro mondo, un vero Liber Motus. Questo gioco, interamente legato al sacro, può essere considerato universale perché rimanda esplicitamente, simbolicamente alle angosce dell'uomo e alla rivelazione del suo destino. La figura del Matto che si identifica con l'oracolo è, quindi, rivelatrice, perché iniziatrice. L'immagine del cammino avvia alla forma simbolica dell'umano, la quale richiede un capovolgimento brutale del senso, una traversata all'Inferno. Infatti Matto significa "è morto", è un arcano di passaggio, è una transizione tra l'inizio e la fine e qui vediamo accadere lo stesso. Il capovolgimento si manifesta con l'arrivo del folle, che appare come figura ribaltata della prima. Effettivamente la Figura reca un nome e non un numero, contrariamente alla prima che non ha un nome, ma si identifica con una serie di cifre. Il folle ci riporta allo zero, ci appare come l'unità differenziale che permette di passare da un ordine di riferimento astratto, il numero, ad un altro ordine, su un altro piano della realtà: quello dell'ignoto, alla quale si da valenza strettamente positiva perché esso è nuovo punto di avvio. Il capovolgimento simbolicamente narrato e spesso presente in tutto l'episodio, chiaro esempio visto nel rovesciamento della gambe di lattice. Cambio scena, entra quello che è il Coro raffigurato da un uomo in uniforme da poliziotto che ci appare per mostrarci qualcosa o meglio qualcuno: una persona che giace a terra e che indossa un passamontagna che gli nasconde il viso. Questa volta la morte ci viene
presentata nel suo aspetto più crudo, spettacolare e derisorio, un cadavere. La morte assume le sembianze di un anonimo, è senza volto, ha un nome, quello della vittima, pur essendo privo di identità. La scena teatrale diventa il luogo della bruttura, dell'omicidio, perché l'uniforme indossata dal Coro lascia intendere che ne è lui l'autore (vicenda di C. Giuliani). La differenziazione si manifesta: colpevole e innocente, omicida e vittima assumono le sembianze di esseri umani, ed i ruoli sono nettamente distinti. La morte non è solo limitazione corporea, "pur interessandosi" essenzialmente ai corpi, deve la sua immediatezza all’istantanea autenticità di una trasformazione incorporea. Questo comprende un altro aspetto della sentenza, quello della fuga, ovvero la "variazione continua", il divenire, un passaggio. La domanda tragica non è quindi sfuggire alla maledizione, perché questo non è il senso della fuga, ma come renderla una forza vitale, la potenza del divenire. Lo stasimo appare quindi come sospensione assoluta dell'azione, una pausa intermedia che celebra l'inizio di un'apertura. Il Coro termina, infatti, il suo canto e afferra due nastri bianchi che attacca ai quattro angoli del quadrilatero formato dalla gabbia d'oro. Le intersezioni tra le due diagonali formano una X in un quadrato. Questa croce reintroduce la legge della prospettiva che la gabbia dorata aveva negato, creando un punto di fuga, la croce è il migliore modo per mostrare la collocazione di un punto invisibile per natura. La X simboleggia la luce, in algebra viene identificata come incognita. Il che ci riconduce all'enigma che inizia un cammino, un procedere verso l'ignoto, verso quello che è un altro Episodio perché questo è "un organismo in stato di fuga".
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Prima di cominciare con la descrizione dell'Episodio A.#02, ritengo opportuno chiarire ancora una volta l'esperienza che avviene nella Tragedia Endogonidia, come uno svelamento di verità che si succedono, che vengono rivelate poco a poco. L'esperienza tragica, è intimamente legata alla rappresentazione e al posto del teatro che crea in noi una coscienza che non coglie nulla se non lo sguardo dello spettatore che riceve e capisce che ciò che gli è davanti è la sua propria intimità, cioè ciò che avviene in sé stesso. Tale coscienza ci aspira verso il nucleo dell'esistenza umana, non ci fa rientrare in essa ma ci esclude perché essa non è "posto del pensiero", ci mette quindi, fuori dal mondo. Fuori dal senso e fuori dalla rappresentazione, tale è l'universo tragico in cui la rappresentazione non è un'esposizione dialettica, ma un'esposizione corporea. La coscienza diventa qui la passione che genera una sofferenza indicibile, quella di non appartenersi mai, ma di trovarsi in un esilio perpetuo, una sofferenza pura e intensa poiché non trova alcuna soluzione, anonima e impersonale, poiché appartiene già al mondo e noi "siamo nati per incarnarla". Questo vuol dire arrivare alla volontà che ci rende evento, che ci fa divenire la causa di ciò che avviene in noi stessi. Concludo questo pensiero affermando che la tragedia, quindi, non la definiamo più come rappresentazione, ma come suo capovolgimento, cioè rimettere tutto in dubbio, non partendo dal giudizio, da una distanza critica, poiché non esiste più un "io", esiste solo un sospeso di tutto come domanda impossibile da formulare e che non attende risposta alcuna. Sospensione del senso, momento in cui siamo fuori dal mondo nell'ambito di A.#02, la scena diventa il luogo o piuttosto il corpo indifferente a qualsiasi mediazione o determinazione, a qualsiasi opposizione: siamo Animali. La presenza del nostro alfabeto, in diversi momenti della rappresentazione, si rivela di una freddezza animale anche se si tratta della forma atomica del nostro linguaggio. In effetti le lettere del pannello automatico si articolano senza nessun significato, come avevamo visto nel precedente Episodio, e il loro elemento corporeo è solo quello della Voce. Qui l'alfabeto è collegato in modo non arbitrario o metaforico al corpo dell'animale, nel capro nominato Poeta di questa tragedia; il suo corpo è il luogo in cui ha origine il testo e l'essere della lettera.
Per la visione del secondo Episodio lo spettatore entra in un'anticamera nera in cui uno schermo ci mostra il Capro che sta scrivendo calpestando un pavimento coperto di lettere corrispondente alle lettere-simbolo delle sequenze proteiche sul suo corpo, come già avevo illustrato. Lo spettatore entra poi nella camera dove si svolgerà l'azione, il luogo è completamente bianco, si sentono gli zoccoli del capro che grattano il suolo, di fronte al pubblico è stesa una tela bianca sulla quale è scritto: WA 12220; 929-10. Sui parametri che delimitano la scena sono scritti due nomi di città, OZ a destra e UR a sinistra. Due donne escono da OZ, sappiamo che sono le "ambasciatrici del Poeta" che vengono a narrare il testo del Capro, riprodotto su una grande lastra di vetro che evidenzia i segni degli impatti di pallottole o frecce (episodio precedente), man mano che che la declamazione prosegue un liquido bianco sgorga dall'apparecchio: istintivamente ci domandiamo se la sua origine sia sperma o latte. Di conseguenza a questa visione, sorge spontanea la domanda su che rapporto esiste fra l'animale, il poeta e il linguaggio. Infatti, qui il linguaggio è legato al fatto del corpo, esso non ha più alcuna sintassi e non ha nessun significato, meglio dire che è indifferente al senso, non si articola su nulla, produce solo un significato sonoro, esso possiede solo il corpo della voce. Qui il linguaggio è completamente disumanizzato poiché ha finalmente perso la sua funzione di comunicazione, e non si tratta di un semplice fatto estetico ma della tragica esperienza della parola, definita come esperienza fatale. La freddezza che fuoriesce da queste sequenze è rivelatrice del fallimento della superficie, il linguaggio perde il suo effetto e ne resta solo una "neutralità" esteriore, quella che lo fa corpo. Corpo che è l'essere del linguaggio come non-essere, nel quale si disegna "l'enigma di qualsiasi parola" (l'origine della scrittura e della parola sappiamo nascere storicamente in Mesopotamia, nella città di Ur). In seno all'Episodio A.#02 il linguaggio cambia dimensione, la superficie del senso è incrinata, nasce il linguaggio del corpo per non esistere più alcuna frontiera tra le cose e le "parole". Quindi l'essere del linguaggio non è il senso, la sintassi, ma il non formulabile, ciò che non è possibile pensare ma che è il pensiero fuori dal linguaggio: è corpo senza organi. E' qui che la passione genera un modo d'agire
strano, che non deriva più da un individualismo ma che appartiene al corpo. In questo fallimento della superficie, qualsiasi parola influenza immediatamente il corpo che nell'ambito di questo ordine primario non esiste più un dualismo se non fra le azioni e le passioni dello stesso. La freddezza del canto del Capro caratterizza l'impotenza dell'uomo di fronte al suo destino inconoscibile, tuttavia è esattamente qui che il linguaggio conquista tutta la sua forza e la sua potenza, perché esso è inarticolato, sterile, cioè puro sia dal punto di vista che dal senso. Ne consegue che il liquido che fuoriesce durante tutta la declamazione non deriva da un'incapacità nel cogliere l'essere del corpo, ma esprime il perfetto completamento di questo linguaggio. Tornando allo svolgersi delle azioni sul palco, le ambasciatrici terminano il loro canto, un bambino esce da Ur vestito con una toga da giudice della Corte Suprema, volge la schiena al pubblico, e due lastre bianche con la forma delle tavole della legge dell'Antico Testamento sono disposte in primo piano. Il bambino indietreggia e le fa cadere, e una volta che sono a terra resta con i piedi uno su ogni tavola. I "Soldati della Concezione" entrano da destra, uno di essi porta una bandiera sulla quale è scritto in ebraico: "Elia il profeta". Un altro soldato esce da Ur, tiene una pelle di montone sulle braccia che pone sotto i piedi del primo bambino, poi gli sfila la toga e lo lascia solo con un corsetto, dei pantaloncini e delle calze bianche; al braccio ha una fascia con scritto il numero 2. Il ragazzino è sottoposto ad una serie di preparativi, si ha l'impressione di assistere contemporaneamente alla vestizione per una cerimonia di nozze, per un sacrificio o per un intervento chirurgico. Il suo corpo è oggetto di tutte le attenzioni, si tenta di fargli bere il liquido sgorgato dal vetro che però egli rifiuta. I soldati portano un piccolo letto e vi coricano il bambino, per scorticargli il braccio e vedere cosa ci sia sotto (assistiamo alla rievocazione di un quadro di Rembrant). I soldati si allontanano e il corpo del piccolo si solleva dal letto, levita; poi il corpo ridiscende, il ragazzo si siede e i soldati gli infilano sulla testa un passamontagna bianco, portano il letto con il ragazzino come se fosse una processione e lo sistemano a sinistra, coprendolo con un drappo. Questa scena deve essere collegata alla citazione scritta sulla tela di fronte a noi, al centro della scena stessa: WA 12220, 929-10. Contrariamente alle due altre iscrizioni, questa non si riferisce a nulla di vago, bensì designa un oggetto preciso trovato nelle
tombe reali di Ur, che si chiama "Montone nel roveto", poiché si tratta di una piccola scultura in oro e lapislazzuli che rappresenta un montone eretto sulle zampe posteriori dietro un roveto d'oro. L'immagine di Ur e del Montone trovato in queste tombe richiama la storia del profeta Abramo e del figlio Isacco: si tratta quindi di un segno, di una profezia. Ci si domanda quindi perché parlare di religione in un teatro, ma la faccenda della profezia era già stata iniziata nel primo Episodio della Tragedia con riferimento ad una storia della Grecia Antica che ha come protagonista la profetessa Pizia e l'oracolo di Delfi. Spiego quindi, come la scena teatrale sia sostanzialmente teologica poiché veicolo di una ripetizione millenaria: la Bibbia riporta il suo linguaggio all'origine. Sempre che sia scritto e poi parlato, è l'era teologica che si apre e dura quanto tanto durano lo spazio e il tempo biblici. La Bibbia, libro testamentario in cui si dichiara l'alleanza, vale a dire il destino di una parola legata a ciò che il linguaggio e in cui esso accetta di trattenersi mediante il dono del suo nome. L'essenza del libro è ovviamente teologica, è la ragione per cui la prima manifestazione del sacro non poteva essere che sotto forma di libro, ovviamente. Il ragazzino esce da Ur come Abramo, il primo profeta ebreo, si esilia dalla città di Ur, si esilia dal luogo della scrittura per diventare nomade. Come sottolineato dalla Bibbia, il potere del profeta trascende completamente quello politico, egli non ha terra e cerca il suo popolo errando. Il sacrificio del montone al posto del figlio Isacco è una visione: annuncia l'avvenire di ciò che è passato. La manifestazione oppone un fare a un vedere, poiché il profeta non è un prete che applica e che ripete, egli comunica un rituale perché è l'attenzione del segno che scopre la potenza dell'avvenire e non risponde più al significato che rinchiude il passato. Il bambino profeta è egli stesso il segno, l'Annunciazione del suo stesso enigma, il bambino è un "essere metafisico" perché è lui stesso che pone le domande. Cambio scena e si mantiene la lettura "religiosa" che avevamo fatto prima, si attende il ritorno della Madre quando il Figlio è venuto prima o contemporaneamente, e come vedremo la rappresentazione è come l'Annunciazione del suo proprio enigma. Vediamo ciò che avviene: il bambino dorme, la tela di Oz si apre per far apparire una finestra dell'edificio
in cui si svolge la rappresentazione; un clown bianco spunta da dietro il vetro, ci fa cenno, rompe il vetro e scende sulla scena. Sporca lo spazio facendo finta di pulire il pavimento con delle viscere, poi si ode un respiro che sembra di bambino ma ci si accorge che proviene da dietro il paramento in cui vi è scritto WA 12220, 929-10. Si apre il sipario che fa apparire la gabbia d'oro con dentro la Figura Polimorfa (la Madre) già vista nel precedente Episodio. E' questo che ansima, si è appena alzata accanto al suo trono-passeggino vestita con il solito passamontagna e le calze nere. (nel video di documentazione della Tragedia Endogonidia non appare --> Il clown entra nella gabbia e urina sulla donna, e vediamo ripetersi la stessa scena dell'Episodio C.#01, la donna non indossa più il bracciale con il numero 2 ma il numero 3, il clown esce dalla scena e la ripresa prosegue con la figura femminile che compie una serie di movimenti, respira e si appoggia sul suo ventre come un parto, finisce per porsi a gambe aperte davanti al pubblico. L'arco automatico si mette allora a tirare le sue frecce nella gabbia d'oro e allo stesso tempo la donna estrae dalla vagina un panno dorato che pare una coperta di sopravvivenza in cui si rannicchia come in un bozzolo, sparisce per confondersi nel luogo in cui si trova). Il bambino si sveglia e chiama "mamma" diverse volte, entra nella gabbia; le solite gambe di donna, viste nel primo Episodio, in lattice riempite di un liquido rosso scende dall'alto della scena. Si stende sotto le gambe che si rovesciano e il sangue macchia il suo corpo immacolato. Il clown torna velocemente, depone delle lettere sul suolo d'oro e si corica nel letto del bambino. La scena che segue è lo stesso intervento finale di C.#01, una X incandescente, in combustione, seguita dalle altre lettere dell'alfabeto. L'oro ci offre la visione aptica, senza profondità, lo spazio diventa una superficie il cui spessore non è superiore a quello del vetro e che non riflette nulla se non sé stessa, se non la luce propria. C'è il terribile spazio bianco, sterile, vuoto e neutro che si contrasta con la saturazione della gabbia d'oro: essa si concentra come un nucleo dove nulla si distingue, è un minimo di superficie per un massimo di materia. L'evento-segno che è la Tragedia Endogonidia non risponde più all'ordine della creazione inteso come quello della generazione, poiché esiste una identità del produrre e del prodotto nell'ambito del divenire (l'oro come il luogo dell'Immacolata Concezione).
L'immagine della madre e del bambino che indossano lo stesso bracciale con numeri non successivi fanno supporre che uno non è figlio dell'altra, ma che incarnano la stessa figura: il divenire come enigma e tempo della persona. Le sue trasformazioni si identificano nei "passaggi e mutamenti” che avvengono nell'ambito del nomadismo dell'opera di città in città, si tratta dello stesso processo. Con la Figura polimorfa, non si parla di giocare sull'ambiguità sessuale per generare diverse interpretazioni sulla natura della stessa, poiché com'è noto, sotto la pelle di donna si nasconde un uomo, e né si tratta di una sintesi fra due opposti, ciò che qui viene affermata è solamente una distanza. La sessualità non è più al servizio della riproduzione, ma è la generazione che si rende disponibile di una sessualità disumana che è passaggio da un corpo ad un altro come autoproduzione dell'evento, come "realizzazione di un sistema di segni". La Tragedia Endogonidia, in cui tutto si divide solo in sè stessa "libera una genealogia grezza illimitata" percorsa da un'energia di disgiunzione: è l'enigma come figura del divenire. L'eroe sie ne identifica e quest'ultimo coincide con il suo corpo e diventa "soggetto senza volto", cioè partecipazione contro natura. Tempo Aionico nella Tragedia Endogonidia A i o n è … Possiamo parlare di tempo solo dopo un paio di Episodi nei quali siamo stati letteralmente “immersi”, vediamo come la commemorazione dell’origine, data con il montone-profezia del secondo Episodio, non rappresenta più niente, non siamo più nell’era della genealogia e della filiazione, ma in quella del divenire: divenire come “antimemoria” e come ciò che non si prefigge alcuna direzione. Il canto del capro ci immette in un presente che non passa, il segno profetico del quale dicevamo iniziare il secondo Episodio apre un tempo nuovo, che è quello degli Eventi: Aion. Un Evento che ci fa un cenno, ci aspira in un presente vuoto, in un nuovo orizzonte assoluto, perché è neutro e pre-individuale, in sospeso. Allora ci si pone spontaneamente la domanda: cos’è un evento? Un evento è concepito come ciò che accade in un tempo e in un luogo determina-
ti, è atteso come effetto, interrompe e inaugura la novità. Idioma, Clima, Crono (titolo dei nove Quaderni scritti da Romeo Castellucci e altri artisti e critici in merito al ciclo della Tragedia Endogonidia), definiscono un punto che non è una coordinata, una misura, una peculiarità, bensì un “punto aleatorio” che si distribuisce in modo illimitato nel passato e nel futuro, che apre la temporalità dell’Aion. Di conseguenza, l’evento è il risultato di operazioni più profonde nell’ambito di ciò che avviene, che uccide la sua particolarità e individualità, non è più un fatto ma un segno. Aion che si oppone a Kronos, il tempo della misura “che fissa le cose e le persone”, poiché è “il presente della pura operazione e non dell’incorporazione”; Aion il tempo degli eventi, è un presente privo di spessore, non è quello della realizzazione corporea, ma un presente vuoto “sempre già passato ed eternamente futuro”; illimitato, infinito, non si individualizza, appartiene al non-essere, in un’”espressione” che designa la forma astratta di modi e di un tempo ben precisi, di un infinito presente: l’infinitudine è il tempo del divenire. Quindi l’evento è il “perpetuo oggetto di una doppia domanda: cosa accadrà? Cosa è appena accaduto? Ed è proprio la parte angosciante dell’evento puro, di essere sempre, contemporaneamente, qualcosa appena accaduto e che accadrà, mai qualcosa che accade. Aion è il tempo delle pure superfici, cioè della rappresentazione teatrale, del linguaggio, è il tempo proprio di ciò che Romeo Castellucci chiama retorico, incorporeo, poiché ci troviamo nell’universo del simulacro e della forma, sterile e neutro, in quanto la superficie non riflette altro se non sè stessa. La rappresentazione non afferma e non nega più nulla, ma diventa quesito, problema, enigma, ed è qui che risiede tutta la sua positività. Aion è il tempo dell’attore: il presente è il più stretto, il più contratto, il più istantaneo, un punto su una linea retta che non cessa di dividere la linea e di dividersi, esso stesso, in passato-futuro. L’attore è l’Aion: invece del presente più profondo, più pieno, che si allarga a macchia d’olio, ecco sorgere un passato-futuro illimitato che si riflette in un vuoto presente, il cui spessore non è superiore a quello del vetro. L’attore rappresenta, ma quello che rappresenta è sempre ancora futuro e già passato, mentre la sua rappresentazione è impassibile, e si divide, raddoppiandosi senza rompersi. L’attore realizza quindi l’evento, ma in modo del tutto diverso da come
l’evento si realizza nella profondità delle cose. In questa realizzazione cosmica, fisica, egli raddoppia con un’altra, a modo suo, singolarmente superficiale, che viene a delimitare la prima, ne ricava una linea astratta e, dell’evento, conserva solo il contorno: diventare il commediante dei suoi propri eventi. Aion è l’incrinatura che, fra spettacolo e spettatore, produce un’asimmetria; è una volontà che ora vuole non esattamente ciò che avviene, bensì qualcosa in ciò che avviene, secondo leggi di un’oscura conformità umoristica: l’Evento. Un problema persiste, tuttavia, poiché si tratta di una tragedia, e anche se l’universo tragico è per sua assenza teatrale, non si tratta solo di un rapporto sterile, incorporeo, e ciò che solleva non è il contenuto poiché, come già detto, il nucleo tragico si annida nel cuore stesso dell’uomo, caratterizza l’esistenza, l’appartenenza alla vita umana immediata. Come ci fanno presentire l’inizio e la fine di A.#02, l’evento e il segno non sono niente se non si compromettono prima del corpo. Ma non è per questo che l’evento si individualizza, la domanda diventa: “è possibile attenersi alla contro realizzazione di un evento, pur astenendosi alla piena realizzazione che caratterizza la vittima o il suo vero paziente”? Di conseguenza non si tratta di far coincidere la superficie della rappresentazione con la profondità del corpo che sono inconciliabili poichè di natura differente, ma, di liberare la doppia struttura dell’evento tragico, perchè se questo afferma la “verità eterna della ferita, è a nome della ferita personale abominevole” che noi portiamo nei nostri corpi, che è a causa del teatro crudele di cui siamo il luogo cui il corpo è sottoposto. A.#02 si svolge su due piani temporali: l’istante-segno che fa l’eterna verità dell’evento teatrale e produce una linea di divenire, e l’”adesso” del corpo che attraversa la carne dello spettatore che gli dà tutta la sua potenza vitale: momento in cui s’incarna nella sensazione. La rappresentazione tragica sta come effetto delle azioni e passioni dei corpi, ma che non si identifica in essi, soprattutto non ne è la rappresentazione, l’imitazione, poiché soltanto la vita del corpo non si lascia rappresentare. Se la rappresentazione è effetto, è perché “accoglie” tutto, vale a dire “le variazioni, le pulsazioni dell’intero universo” per avvolgerle in questi limiti mobili; questo non è più un fatto, un’opera, ma un effetto come produzione di intensità e sensazioni. Di conseguenza, affermiamo con certezza che l’evento, effetto di superficie è la quasi unica causa di sé stesso.
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Prima di cominciare con la descrizione scenica desidero sottolineare ora, che siamo giunti ormai alla terza "base" prevista del ciclo, come il teatro trans-euroepo della Tragedia Endogonidia si sia sempre dimostrato sensibile, in ognuno dei suoi Episodi (come nel lamento del protestante no-global Carlo Giuliani, rappresentato alla fine dei primi due) verso la "specificità ed il limite dell'incontro umano”, in particolare con "l'affronto" della storia europea, avendo una politica di riconsiderazione secondo una luce di "redenzione".
Il segmento berlinese della Tragedia Endogonidia è una tragedia sul dolore. Un’affermazione iniziale e non affrettata come sembrerebbe, in quanto la scena si apre con la figura di una madre che si rende conto che la propria figlia è morta ed il suo dolore esplode con una lentezza glaciale e filtrato attraverso un offuscamento di veli semi-trasparenti. Il dolore si manifesta elaborato in tutta una serie di azioni rituali: scendere dal letto, camminare e dondolarsi, mettere le scarpe e vestirsi. Prendere il gioco della bambina, una bambola di plastica, nascosta fra il groviglio di lenzuola, infilarsi dei guanti di gomma e cercare di svegliare la bambina morta, poi trascinarla fuori dal giaciglio e poi dal palcoscenico. La donna ci mostra il martello che era sul letto, lo vediamo in equilibrio sospeso proprio di fronte a noi; poi si sposta nuovamente per lavare via il sangue dalle lenzuola candide e dal pavimento. Si siede sul bordo del letto e cerca di masturbarsi prima con le dita, poi con il giocattolo della bambina: un tentativo impossibile di abbandonarsi a sè stessa. Di già questa, è una cerimonia del male e la donna è richiusa in tale dolore, diventando essa stessa una funzione della ripetizione, con la bambina che è morta in precedenza e innumerevoli volte. E' un dolore che si fa sentire come una colpa; una forma senza forme, una cosa caratterizzata scenicamente da ululati elettrici e da buio, che si spinge contro lo spaziopalcoscenico in modo implacabile ed inafferrabile. Il suo dolore è già cresciuto più di lei, e la donna è come se si risvegliasse da un sogno senza riposo. Tre figure femminili appaiono da sotto il letto, ricoperte di nero con bandiere nere, con scritti esoterici, con gesti enigmatici, che sparano con armi pesanti al centro di bersagli circolari anch'essi neri, celebranti
qualche tipo di rituale d'insediamento. Le scritte sono in ebraico ed in tedesco gotico, stampate sulle lenzuola che le tre donne stendono sul letto. Davanti ad atti di fede che non siamo sicuri di sapere come "fare" a compiere, e a parole magiche incastonate in scritte che non sappiamo come pronunciare, sarebbe più facile essere semplicemente tristi; quella specie di tristezza che richiama alla mente cose dimenticate ma poi trattenute sulla soglia del ricordo, come se il passato esistesse solamente nel suo essere propriamente il passato. Come conseguenza di tale tristezza, le tre "Soldatesse della Concezione" scagliano una serie di immagini che vivono sulla superficie della scena: l'innalzamento della bandiera della Germania unificata, le tavole della legge di Mosè che si piantano sul pavimento del palcoscenico e che sembrano un paio di pietre tombali (provenienti dall'Episodio precedente A.#02). Nel frattempo le tre donne si trasformano in particolari visitatori: ragazze stile Barbarella che mimano atti sessuali tra di loro e abominevoli uomini delle nevi che saltano e gesticolano disordinatamente. Esse condurranno la donna in un viaggio che arriverà fino ai confini della terra, persino fino allo spazio aperto: nessuno di questi due luoghi è più lontano dallo stesso luogo qui presente, ossia il pavimento del palcoscenico che inizia a tremare abbassato dai graticci come una scatola a tre lati con la "neve" polare srotolata come un tappeto. I confini della terra sono ai bordi del palcoscenico, non c'è alcun altro territorio se non quello che stiamo abitando ora, ma in questo modo può essere trasformato. Le sue guide mostreranno alla donna il tempo che passa tramite lo spettacolo, all'aperto del congelamento del mondo, ed una sfuggevole apparizione della storia come un accumulo di disastri minori e catastrofici che vediamo riempire lo stesso spazio ed avere la stessa estensione. Cade un pezzo di pane dal becco di un uccello e viene calato un sole nero: queste due cose succedono spontaneamente, come se questi effetti non si ripercuotessero su di noi, e che siano ben al di là della portata del nostro pensiero ordinario, che difficilmente potremmo riconoscere, per non dire accettare. La scena finale ci mostra ancora una volta la madre alla quale viene ripresentata la propria figlia che balla sopra il coperchio della sua piccola bara bianca con indosso delle scarpette rosse. Noi sappiamo che la
bambina è morta, e mentre la madre soffre per l'abbraccio della bimba, è già divenuta da poco, addirittura spettatrice della scena della loro riconciliazione momentanea rivolta verso il retro del palcoscenico, e lasciata a sé stessa, immobile. La donna non ha bisogno di vedere, lei sa; di questo noi ci persuadiamo, concependo il suo dolore in noi stessi, cosa che però non possiamo fare che è quello di comprendere. Nel teatro ogni poltrona della platea è occupata da un coniglio blu imbottito a misura d'uomo, seduto in maniera scomposta, sprofondato nelle poltrone, tutti rivolti verso il palcoscenico mentre la rappresentazione prosegue il suo corso. I conigli non sono esattamente immobili, si può cogliere una certa animazione cinica osservando le loro varie posture; ma trattandosi di pupazzi imbottiti non mostrano nessun legame sentimentale critico e nessun coinvolgimento relativamente al rapporto palcoscenico-pubblico che li costituisce "nella loro qualità" di spettatori, e di conseguenza garantisce solo quella ridotta animazione che dimostrano di avere. Quindi potremmo dire che i conigli sono al loro posto per questa rappresentazione e sicuramente non la riconoscono come "propria". Essi sono come i soggetti di uno storicismo corrotto e corrompente, che è inerte prima del potere dato dal "qualsiasi cosa accada", riluttanti o incapaci nel concepire lo stato delle cose, dimostrato quando, incitati dal demagogo rappresentato dallo Yeti nero che si sposta fino al proscenio, sbraita ogni sorta di assurdità tirando via alcuni conigli seduti nelle file anteriori distribuendo carote e calci, essi rimangono impassibili. A T T O R E C O M E C O R P O D I F I G U R A Per l'episodio di Avignone della Tragedia Endogonidia, sono stati costrutti alcuni robot epilettici, per essere sdraiati sul pavimento del palco e "far finta" di essere vivi; queste due finzioni stabiliscono dei poli fra i quali tutto ciò che è umano e che appare sulla scena deve muoversi nello spazio entro il quale si può intraprendere un pensiero dialettico sulla vita e là nella tragedia. Nell'episodio di Cesena, in un pre-scena, un robot si scuote, e successivamente, Demetrio Castellucci, davvero in vita, giace come morto all'interno della gabbia d'oro, che è l'elemento scenico dominante della produzione. Al suo fianco vediamo un estintore, un po-
tere che grazie alla sua caratteristica, nella capacità di esalazione accelerata e pressurizzata riesce a salvare la vita, ma che, in questa immagine, sarà sempre associata alla morte. Il passamontagna nero di Demetrio, la canottiera bianca e gli stivali neri, la posizione esatta del suo corpo sul pavimento, tutto lo identifica in Carlo Giuliani, il giovane dimostrante ucciso durante le proteste in occasione del G8 nell'estate del 2001. Nel proscenio, rispetto a Demetrio, c'è un giovane vestito con pantaloni neri formali, con una banda rossa che percorre la lunghezza esterna di una gamba, che lo identificano chiaramente come un Carabiniere ma che però è a torso nudo e canta una canzone in una lingua che non capiamo. Ma non è solo la stranezza della lingua ma proprio questa sua voce da soprano femminile, così straordinaria e genuina che richiede attenzione. Nel movimento della sua carne possiamo vedere la stessa voce che si fa strada fuori dal corpo, vediamo il respiro ma sappiamo da cosa sia articolato. La sua canzone è una melodia di lode per le azioni dei caduti, oppure si tratta di un lamento sulla giovinezza perduta di chi è dipartito prematuramente? Non sappiamo nemmeno se stiamo assistendo ad un assassino sulla scena del delitto o ad un parente del defunto al funerale, o ad entrambi. Allora, la tragedia, è la dove i morti vivono, e dove, dato che entrambi respirano, è impossibile raccontarne la differenza; di conseguenza si crea uno spazio in cui l'impossibile appare come una possibilità: una promessa che la salvezza in questione sarà la nostra, e che noi staremo ad assistere alla realizzazione di questa promessa. Lo stesso patto prestato alla bambina posta nel centro di B.#03, rispetto alla quale dobbiamo sempre credere che sia morta e viva allo stesso tempo, al fine di poter essere sicuri di riconoscere la differenza tra vita e morte e che saremo sempre lì per lei. Nel suo esserci, la Tragedia Endogonidia, resiste nell'esserci. Non solo è quell'organismo in fuga che dicevamo, ma è anche sempre in uno stato di incompletezza e non può assolutamente essere seguita nella sua interezza. Perfino il progetto di essere testimoni di ogni episodio è destinato a fallire perché l'ostinazione e la logica dell'accumulazione che ci cela dietro a tale attività, sono sempre ridicolizzati dall'insistenza della tragedia in merito alla propria condizione di esserci. Ogni episodio si apre con una forma di respirazione, come se ci fosse una membrana fra il palco e la sala, attraverso la quale, non appena la rap-
presentazione inizia, si possa prendere un lungo respiro come prima di un tuffo. Scott Gibbons e Chiara Guidi elaborano il respiro umano ottenendo un suono che si espande nello spazio come fumo; in B.#03 la drammazione comincia con un rombo distante, come se prefigurasse la presenza di qualcosa che non c'è più al nostro arrivo oppure segnalando che qualcosa di una certa grandezza è avvenuta, un qualcosa che non abbiamo potuto vedere perché non presenti sul posto, come nel nostro caso in B.#03, la causa della morte della bambina. Ciò che speriamo di vedere e di udire, è la trasmissione di qualche messaggio relativamente a questo evento. Ogni episodio si apre con un immagine che possiamo chiamare emblema apparendo non solo come come proiezione sul palco in ogni teatro, ma anche nel programma specifico di ogni rappresentazione: un uomo nudo in piedi di fianco ad una donna leggermente più bassa anch'essa nuda. La mano dell'uomo è sollevata come in un saluto, una serie di linee convergono tutte verso un punto centrale, formando come l'esplosione di un qualcosa alla loro sinistra. Al di sotto, vi sono una serie di cerchi e di punti disposti secondo una sequenza orizzontale. Come l'emblema, con il suo motto e la sua spiegazione (talvolta sotto forma di dialogo), l'azione di questa messa in scena tragica spesso comporta uno sdoppio, nel quale il discorso spiega l'azione che sta avendo luogo. Tornando a B.#03, vediamo come il Coro non esiste e anche lo stesso discorso di è quasi sempre assente. Nessuna spiegazione, nessun commento, solo l'enigma della stessa azione e dell'immagine. A Cesena, C.#01, un ambiguo messaggero parlava rivolto ad un pubblico che non capiva nulla di quello che sentiva. Ad Avignone, A.#02, le Ambasciatrici del Poeta leggevano in una lingua composta da un Capro sulla base dei propri codici biologici arcani. Entrambi gli episodi si chiudevano con una proiezione video nella quale lettere alfabetiche visibili, mischiate a macchie di Rorschach, si susseguivano ad altissima velocità, con risucchi ottenuti da percussioni, respiri, sputi e clamori vocali: parti interne della voce amplificate. Un linguaggio al negativo, il suono del linguaggio reso in stracci e macerie, che disperatamente ed urgentemente, continua a portare un qualcosa che deve essere comunicato. In questa tragedia sono le urla ed i gorgoglii che lavorano sullo spet-
tatore, sono come pezzi di materiale, liquidi custoditi nel nostro corpo che vi permeano, man mano che ci si imbatte nella rappresentazione. Ci ricorderemo che sono tali, questi suoni, solo quando saranno di nuovo dentro di noi, rimangono sempre esterni all'archivio incapaci di arrivare ad una procedurabilità tale da essere classificata. Esso non è sufficientemente linguaggio per essere indicizzato. In questo modo per restituire l'immagine, per cominciare all'inizio di ogni episodio, ritorniamo all'immagine che appare senza spiegazioni, il suo significato non può essere rivelato dal suo rapporto con un sistema pre-esistente e reciproco: deve produrre il proprio significato, deve contenere il proprio concetto di sé. Già questo ci appare come un lancio disperato, per sperare che ci sarà un momento, in futuro, che avrà da dire qualcosa con il suo silenzio, avrà un senso e vi saranno creature ancora in vita capaci di rendere testimonianza, ovvero qualcuno ci sarà per noi. La tragedia cui assistiamo mostra un essenziale cambiamento avvenuto: nel teatro oggi si tenta di inglobare il corpo con tutti i sensi escludendo un linguaggio che è messo al lavoro nello spazio della produzione. Lo spettatore è completamente inglobato, questa inclusione esclude "la forma di vita". Anzi il teatro attiva procedure e tecniche per creare spettatori docili, accende un processo di soggettivazione che porta l'individuo a vincolarsi ad un potere esterno. La figura dello spettatore-manichino-coniglio è l'emblema di tale processo; lo spettacolo diventa indifferente alle forme di vita dello spettatore. La trasformazione del teatro da luogo politico a laboratorio tecnico porta alla decadenza dello spazio teatrale tradizionale come res pubblica. I nuovo spazi devono presentarsi non connotati. Devono escludere completamente la propria specificità di educatori al vivere bene, e al contempo e proprio in virtù del loro passato ruolo politico, lo spettatore gli si affida, disponibili a separarsi dalla propria forma di vita. Oggi molti spettacoli teatrali si presentano come allestimenti di ambienti, percorsi, che si prefigurano veri e propri campi, in cui si tenta di ridefinire le capacità sensoriali dei partecipanti, manipolando il corpo. E quando lo spettacolo si presenta con interventi pedagogici, assume la forma di medicamento atto ad alleviare le sofferenze della separazione del corpo delle forme di vita, e a perpetuare e legittimare lo stato delle cose.
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Nel quarto Episodio che ha come sede la città di Bruxelles, i veli che filtravano la scena dalla visione dello spettatore negli Episodi precedenti sono stati sollevati e noi guardiamo dritto nel vasto spazio aperto di una scatola di marmo in cui ogni azione sembrava avere il suo proprio nome esatto e di non aver bisogno di alcuna spiegazione. Ogni azione del ciclo che abbiamo già visto aveva luogo alla luce del giorno, ma senza nessuna garza interposta tra gli spettatori e l'azione stessa, tutto ciò sembra che appaia intensamente in sé stesso: lucido, a fuoco in maniera risoluta. Nella scatola di marmo (della quale parlerò più avanti) e sotto la luce bianca dei neon in alto, ogni azione viene annunciata e poi conclusa dal tendersi di un sipario bianco, un'intensificazione della luce sulla platea e una fiammata di frastuono austeramente privo di significato. Tra questi intermezzi, che sembrano concepiti sia per appassire nella memoria che per cancellare dalla coscienza immediata ciò che era successo prima, vengono rappresentati degli atti il cui significato difficilmente potrebbe essere più chiaro. Vediamone alcuni: esemplare è la scena nella quale viene pestato un poliziotto. Un uomo vestito da tutore dell'ordine entra in scena portando una bottiglia di plastica contenente un liquido scuro rossastro che poi versa in una pozza sul pavimento lucido. Poi posiziona dei cartellini con delle lettere scritte, in punti precisi sul pavimento attorno alla pozza di liquido rosso; è come se si stesse preparando per l'arrivo di una squadra di colleghi, segnando i punti chiave cosicché possano essere identificati in fotografie seguenti, in modo che ciò che egli sta per fare possa essere esibito in maniera chiara e precisa in un tribunale. E' in questa sistemazione che entrano due colleghi poliziotti che iniziano il selvaggio pestaggio dell'uomo che nel frattempo si è spogliato della sua divisa ed era rimasto in mutande. Il giovane sul quale sono inflitti i colpi di manganello cade per terra e mentre la violenza continua, il suo corpo si ricopre progressivamente del sangue della pozza sotto di lui. Ogni colpo dell'arma è accompagnato da dolorosi scoppi di suono al limite della sopportazione, la durata sta ad assicurare che l'artificio si renda visibile e udibile in quegli scarti tra il visibile e l'udibile. Ciò al quale noi stiamo assistendo è una specie di realismo o naturalismo cinematografico. Quando l'uomo pare stremato lo sistemano seduto su una sedia prima di
chiuderlo in un sacco nero, quindi, lo lasciano a noi, con un microfono puntato con precisione per essere sicuri che ogni cosa che ora egli avrà da dire verrà compresa chiaramente. Una semplice scena di violenza quotidiana, di quel tipo che sicuramente capitano ogni giorno nelle stazioni di polizia in giro per il mondo. Niente di strano riguardo a questo, anche se l'effetto teatrale della durata dell'azione lo rende eccezionalmente intenso e difficile da sopportare. Una notevole critica insorge dalle azioni appena viste: prima che i due poliziotti insacchino il poveretto, però, i suoi due colleghi portano il piede nudo del giovane sanguinante su due tavole bianche della legge, come per usare il suo pollice per scrivere i comandamenti con il suo sangue. Soltanto con un atto di violenza che non è legale né illegale la legge può essere scritta per la prima volta. La polizia contamina le distinzioni facendo rispettare e nello stesso tempo creando la legge. Nè legale né illegale ma sempre dalla parte del giusto, ecco perché il piede sanguinante del poliziotto pestato è sembrato, che non lasciasse alcun segno sulle tavole bianche della legge primordiale. La semplicità non solo di tale scena, ma anche delle altre attorno a questa, indica che una certa esperienza di pazienza è stata intrapresa, come se le ore destinate ad essere passate sul palco, il fatto del loro passare, fosse altrettanto importante del soggetto trattato. Come se l'atto del nostro testimoniare queste azioni, o immagini di azioni, fossero il punto dell'esercizio. Questo equivale a dire che ciò che qui conta non è tanto quello che accade, che è là semplicemente per chiamare in causa la nostra testimonianza e per tenerci immobili, ma è ciò che succede a noi sospesi prima dell'azione. Si presume che, nell'osservare questa memoria, noi la rendiamo attiva nuovamente: come una stazione della polizia ci sta invitando a sostare, riflettere, ricordare o ripristinare qualcosa, forse pure di costruirlo. Qualcosa che non c'è, è proprio quello che sembra anche se tutto indica il contrario. L'episodio BR.#04 al primo impatto ci appare diretto, chiaro, quasi sfacciato nella sua ovvietà, in retrospettiva si rivela essere molto più sottile rispetto a tutti i sui predecessori come una specie di esca, anche se lo shock sostenuto dalla violenza simulata richieda un'intensità particolare d'attenzione per l'azione stessa, il quadro in cui la simulazione è condotta spinge ad una meditazione su come funzionino scene come questa. Siamo partiti dall’analizzare la parte centrale dello svolgimento, perché più immediato
ma ritorniamo all’inizio, di come il sipario si apre la prima volta su una scena di schiavitù contemporanea. Una donna nera sta in piedi con uno straccio e un carretto in un immenso spazio vuoto del cubo di marmo. In silenzio la donna dà lo straccio ma nulla è accaduto e non c'è ni- ente da pulire. L'operazione di pulizia è una minaccia, un po' nello stesso modo della preparazione accurata delle prove fatta dal poliziotto, minaccia che ci si dovrà occupare di qualcosa che succederà qui. Si potrebbe decidere che lei sia responsabile di cancellare le tracce di "sangue" del pestaggio del poliziotto, anche se questo non era un pensiero accessibile allo spettatore nel momento del grave fatto. Lei traccia un cerchio attorno al palco con il suo straccio, come se sapesse in anticipo, dove verranno fatti i segni. Impassibile, non rivela nulla di questa possibile conoscenza, se non che, quando ha finito, si ferma a guardare verso di noi come per comunicarci della violenza che sta per accadere. Normalmente tali "pulitori (termine alquanto licenzioso per definire chi fa sparire prove dalle scene) prestano il loro servizio fuori dalla vista; forse essa sta rimuovendo ogni traccia anche di sé stessa in anticipo ma il suo sguardo ci dice che non abbiamo visto nulla. Però, nello stesso momento, il suo sguardo è un gancio con il quale lei terrà sé stessa qui, nelle nostre memorie; con il fine di rendersi visibile a dispetto di tutto il resto, per mettere al sicuro il suo apparire contro la realtà e del suo scomparire inesorabile in quanto ancora considerata ai margini della società. Ma se ci domandassimo se questa scena, nella quale una donna pulisce il palco, fosse la scena prima dell'inizio dell’azione teatrale? Non è proprio voluto che lei sia vista? Ci siamo per caso imbattuti in lei e l'abbiamo esposta alla condizione consumistica del nostro essere spettatori? Oppure lei si è sottoposta a noi trattenendosi fino a tardi sul lavoro, oltre l'apertura delle porte al pubblico che dovrebbe esigere la sua invisibilità? Certamente no, ovvio, ma sembra sia così. Di fronte ad un'azione che imita un'azione, un apparire che mima un apparire, c'è sempre la possibilità che giudicheremo le cose dalle apparenze, cadendo in un qualche vago riconoscimento che in questo sdoppiarsi qualcuno è veramente là dove non dovrebbe essere. Due delle prossime figure che calcheranno la scena intensificano questo sospetto che il palco non sia un luogo dove stare. Il secondo personaggio a mostrarsi è un vecchio uomo dalla barba bianca che si trasformerà, passando dal costume di un profeta
ebraico in poliziotto belga. Innanzitutto però si ritrova sul palco indossando solo un bikini rosa e arancio e dei sandali di plastica con dei fiori sopra. Quest'uomo arriva sul palco privato dei suoi vestiti, esitante, che si intreccia le mani nell'aria che ci si potrebbe aspettare qualcosa da lui, qualcosa che potrebbe non essere in grado di fare. Vediamo come egli vorrebbe essere dappertutto tranne che qui e ce lo conferma l'unico momento di gentilezza dell'episodio quando, nella scena finale a quest'uomo è consentito di stendersi e di scomparire nelle profondità di un semplice letto. Nel frattempo si sentono le voci di una famiglia durante tutto lo svolgimento, come una specie di conversazione al di là del palco, suggerendo ancora una volta che là fuori, non è il posto nel quale ci piacerebbe stare ora. Intanto il vecchio uomo sembra essere precipitato in uno di quei sogni in cui ci si ritrova tutti nudi in una situazione di alta tensione: tipo recitare un pezzo teatrale senza saperne le parole; ed è per questo che la fine di questo episodio, laddove il letto si apre ed ingoia il vecchio, è un momento per noi di quiete e sollievo. L'altro personaggio che compare in scena, subito dopo la donna delle pulizie, è una bambina molto piccola seduta nel vasto spazio della scatola di marmo. La cosa strana è che siamo tutti sicuri che sia una bimba e non un bimbo, ora sappiamo che nella tragedia gli strumenti di riproduzione maschili e femminili sono presenti all'interno di un unico organismo, e abbiamo già scorso un numero di figure il cui genere è stato reso problematico. Richiameremo in causa la donna che diviene un uomo a Cesena e ad Avignone, l'uomo che canta da soprano e gli apparentemente asessuati yeti che succedono le soldatesse femminilissime a Berlino. Tornando alla bambina lasciata sulla scena, nella sua solitudine incontra il discorso meccanico di un essere alieno dalla testa piatta che sembra stia tentando di insegnare un alfabeto, per scrivere la Legge. Se la bambina fosse Edipo, questa sarebbe la Sfinge, se fosse Mosè, probabilmente sarebbe un rovo in fiamme. Chiunque lei sia, infante dei tre grandi profeti esiliati le cui vite sono intrecciate una con l'altra (e almeno due di queste appariranno più tardi nel loro aspetto consueto da patriarchi dalla barba bianca) il suo apparire qui è qualcosa di anomalo. Per quanto vasto possa sembrare, è soltanto un'anticamera, anche se, per come possiamo vedere noi, non conduce in nessun posto; l'atrio di un
hotel o di un palazzo moderno, o quello di una banca internazionale, nelle cui profondità è tenuto il potere che anima e muove ciò che noi vediamo in superficie. Normalmente la scena sul palco (la disposizione naturalistica della scena) incorpora una varietà di porte, finestre, disegnate per la costruzione immaginativa dello spazio che è fuori dal palco in cui altre fette di vita stanno per essere trovate. La camera d'oro del primo Episodio tratteneva almeno un gesto di questa retorica, nella forma della porta sul soffitto, attraverso la quale delle gambe di gomma potevano scendere o salire. Da questa scena non c'è alcuna via d'uscita, ma la nostra visione è sufficiente per persuaderci degli spazi oltre, che per quanto inaccessibili, sbarrati o impossibili, questa tomba di marmo sembra rendere. Nella scena conclusiva dell'episodio vediamo il rapitore che prima aveva preso in consegna la bimba abbandonata, con sembianze infantili con il cappello a cilindro nero, che aveva prima preso parte assieme a due donne in vestiti neri ad una specie di impenetrabile rito che includeva gli organi interni di un rapito, forse anche del poliziotto colpito, che sta ora in piedi vicino al letto dispiacendosi forse del fatto che il vecchio non c'è più. Questo finale nel quale il nostro sguardo viene ancora una volta compromesso dal velo della garza che è ricomparsa tra noi e la scena, sembra in un primo momento non far parte di questo episodio, ma piuttosto del mondo degli episodi "misteriosi" lontano dalla brutale chiarezza del poliziotto pestato, del bambini abbandonato e dalla donna delle pulizie. Vediamo di notare anche il luogo dello svolgimento dell'intero episodio belga, facendo un confronto con i precedenti passati: il primo C.#01, la camera d'oro era una specie di "teatro- forno", il freddo glaciale di A.#02 ed il panorama nevoso di B.#03. Cominciamo a sospettare che questo controllo della temperatura sia una specie di strategia di sopravvivenza per il lavoro nel suo insieme. Immaginiamo che a Cesena fossimo troppo vicini ad un nucleo, un centro nel quale sentivamo sulla pelle il calore, e che ci siamo scottati abbastanza per essere certi che tutto fosse pervaso da un liquido infernale. Ad Avignone, a Belino, ora a Bruxelles e poi sarà a Bergen (nota città con le cime delle montagne perennemente innevate) è chiaro che ci siamo allontanati da quel centro in fiamme. I movimenti ghiacciati di questi ultimi drammi potrebbero sembrare dei ghiacciai ma sappiamo che possono essere anche lava; sono i movi-
menti lenti, freddi della superficie che sono diretti dal calore interno. Ad Avignone e a Bergen, la camera d'oro è là, o piuttosto qui, ma la maggior parte del tempo è rivestita di bianco. A Berlino siamo stati trascinati sulle vette dell'Himalaya e le fotografie all'interno del programma di sala servono forse a ricordarci che per quanto freddo possa fare, quel freddo è ancora una forma di caldo, ancora diretto dal calore del centro. Una fotografia mostra una scena alpina di una casa quasi sepolta dalla neve, l'altra mostra all'interno di una fabbrica, una fonderia forse, dove il fuoco imperversa, scioglie e trasforma. Non sono semplici opposti, l'uno è impossibile senza l'altro, letteralmente e metaforicamente. A Bruxelles la viscosità della camera d'oro è aumentata fino al punto di diventare marmo, fissata in quella pietra che testimonia nelle sue spirali un qualche passato di calda fluidità, uno stato di fusione ora arrestatosi. Dovremmo quindi immaginarci il primo apparire di questa forma di vita, C.#01, non semplicemente come il centro di fusione di un mondo, ma anche come un tipo di sole, attorno al quale i pianeti degli altri episodi girano, la loro temperatura regolata dalla loro distanza dall'inizio (o dalla fine). In qualsiasi modo noi lo concepiamo o ce lo rappresentiamo, abbiamo chiaramente a che fare con delle questioni di tempo e clima. L'intero sistema è chiaramente governato da una legge fisica entropia; esso invecchia e si raffredda. La Tragedia Endogonidia allora, è una microscopica ispezione di segni di vita precedentemente non rilevati, i più sottili movimenti osservabili che stanno sulla superficie delle cose, movimenti che impiegano anni o secoli per farsi riconoscere, ma che una volta rilevati indicano altri movimenti più profondi di cui non possiamo essere testimoni. Sulla superficie giacciono i moti del mondo contemporaneo, che rendono sé stessi visibili in immagini interessanti che sembrano cristallizzare il sentimento di un momento calcolando precisamente la temperatura del tempo. Citando un fatto realmente accaduto, e come ci siamo accorti essere anche di profonda ispirazione per Romeo Castellucci, è in questo attimo temporale che muore Carlo Giuliani, un po' più in profondità troviamo Mosè e l'indovinello della Sfinge. Ma il teatro spacca, aprendola, questa spazialità di profondità e superficie opponendo la linearità della visualizzazione convenzionale della storia con il suo metodo della "scorciatoia", così che due punti di tempo distanti vengano sovrapposti
uno all'altro, creando un cortocircuito temporale. Esempio dimostrabile con il quale un visibile cambio di costume rende uguali il profeta ebreo ed il poliziotto belga in BR.#04. Da una parte tali trucchi sembrano accelerare le cose (aggiungendo calore al sistema), ma dall'altra parte rallentano le cose (facendo fuoriuscire il calore) perchĂŠ nel loro dispiegarsi rivelano i movimenti che nell'istantaneitĂ della fornace non verrebbero mai catturati, in un'operazione simile a quella del rallenty fotografico.
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Questo capitolo si svolge nella città tedesca di Bergen. Il sipario si apre su una scena indistinta investita da una luce grigia: in sottofondo un respiro, un ansimo. E' tutto delimitato lateralmente e posteriormente come da veli da sposa appesi, che suggeriscono lo stato virgineo originale dell'universo; ora la platea dov'è seduto il pubblico sembra il proseguo naturale della scena che ci intrappola nell'unico magma biancheggiante come se, in un istante, tutti possano rotolare fino ad essere intrappolati dai veli come bachi da seta. Pian piano la luce si rischiara lasciando percepire un letto al centro della scena e un vetro opaco a forma di ovale, a sinistra, che nasconde parzialmente due figure dalla lunga tunica bianca. Le due donne iniziano salmodiare delle lettere dell'alfabeto in una strana sequenza, una luce verde illumina l'ovale lattiginoso davanti a loro mentre il liquido contenuto al suo interno comincia a scendere. La lettura continua, punteggiata dal bussare di qualcuno su una porta invisibile; sul fondo della scena, dietro al velo bianco, la luce rischiara una capra che calpesta irrequieta il palcoscenico. La tragedia, in questo capitolo comincia con la ri-appropiazione etimologica della sua parola, il canto del capro diventa presenza inquietante che non comunica, ma ammalia come il canto delle mitiche fiere. Il liquido nello strano specchio ovale scende per rivelare il volto delle due donne dai lunghi capelli neri che leggono in sincronia; visibili finalmente nella loro interezza, indossano una identica fascia blu sulla tunica bianca, probabile emblema della Legge. La lettura dell'alfabeto che dicevamo prima è variamente modulato: alterna vocalizzi a urla scimmiesche, ad ansimi, sussurri e singhiozzi. Esse leggono in perfetta sintonia tanto che le due voci diventano indistinguibili, come se provenissero da un unico identico essere doppio: un essere a quattro braccia e una testa unito sul fianco centrale. -"L'essere doppio è la figura mitologica che ricorre trasversalmente nella figura occidentale e semitica. La forma di ciascuno di questi esseri costituiva un insieme con dorso rotondo e fianchi circolari: essi avevano quattro braccia e gambe in numero pari alle braccia; avevano anche, su un collo cilindrico due visi perfettamente simili tra loro, mentre la testa era unica; avevano quattro orecchie e due organi sessuali e tutto il resto era come lo si può raffigurare a partire da questo ragguaglio"- (cit.) La Bibbia stessa conserva la concezione arcaica che inizialmente Adamo fosse una creatura
bisessuale, e solo dall'ulteriore scomposizione dei due diversi elementi, uomo e donna, si siano creati i presupposti per una proliferazione eterosessuale. Quindi, prima delle divisione non c'era tale sistema di concepimento e tutto era ricondotto, probabilmente, ad una crescita endogonidia. Tornando alla nostra opera, la donna a destra guarda il pubblico attraverso il vetro, mentre l'altra si appresta a staccare il tubicino che collegava l'ovale ad un calice ora colmo del liquido lattiginoso. La donna dietro il vetro imprime una spinta all'ovale che comincia ad oscillare come un pendolo, provocano l'ilarità tra le due che assumono la forma di due bambine alle prese con un gioco infantile; posizionando il calice al centro della scena e poi vicino al letto, continuando a ridere, le due donne indietreggiano fino a scomparire assorbite dal velo. Il tubo, il calice e l'atto del recidere: la generazione dei sessi, la divisione polimorfa di prima. -"La parola sesso deriva dal latino "sexus" la cui radice "sec" rinvia al verbo Secare (tagliare, separare, dividere)" (cit.). Il fallo staccato dal calice è ricettacolo della divisione dei sessi, un atto irreparabile perché ci trascina via dal tempo del mito per dar inizio al tempo storico e biologico segnato dalle continue e regolari oscillazioni del pendolo. La Tragedia Endogonidia è quindi una tragedia dell'inizio, torniamo a ribadire, non della fine. La tragicità risiede nel fatto che la realtà è stata irrimediabilmente contaminata nell'atto di creazione, quando l'uno si è scisso per dare origine alle molteplicità diventate con il tempo delle individualità estremamente isolate. Il calice colmo del liquido bianco viene, poi, abbandonato sulla scena come l'oggetto della discordia: la mela della conoscenza staccata dall'albero dell'Eden. -"Per i cabalisti: la Schechina è l'ultima delle dieci Sephiroth o attributi della divinità, quella che esprime la presenza e mani- festazione divina sulla terra, la sua parola. Il peccato di Adamo contemplato dalla religione della Kabbalah è stato quello di preferire la contemplazione dell'ultima Sephiroth e non della sua totalità, isolandola, separando in questo modo l'albero della scienza da quello della vita. L''umanità facendo del sapere il proprio destino, isola la conoscenza e la parola, che non sono che la forma più compiuta della manifestazione di Dio (la Schechina) dall’albero del Sephiroth in cui egli si rivela."- Capiamo, quindi, come il rischio sia che la parola si separi da ciò che rivela e acquisti una consistenza autonoma frapponendosi tra la Cosa rivelata e gli
uomini come una radiazione malefica. Nella penombra di una luce grigio scura percepiamo una forma umana che si alza dal solito letto: dapprima intravediamo una folta chioma di capelli grigi, poi riconosciamo la figura di una donna anziana che indossa solo un paio di mutandoni bianchi. La vecchia dalle forme abbondanti come le antiche dee della fertilità si siede sul letto, con le spalle rivolte al pubblico, raccoglie qualcosa e se lo porta davanti al volto: forse è uno specchio. Dietro il velo, intanto, la capra dell'inizio riprende a muoversi irrequieta mentre al suo fianco avanza una figura in rosso e, contemporaneamente, dall'alto scende un vetro ovale del tutto simile al primo che lentamente si reclina muovendo il liquido imprigionato al suo interno. La vecchia ha al suo fianco un apparecchio elettronico: una sorta di bilancia o di misuratore di pressione che si aziona al contatto con il braccio destro della donna e che ostenta variazioni numeriche in rosso. Improvvisamente del sangue cola dalla nuca della donna fino a formare una scia che le imbratta la schiena e le mutande bianche in una poderosa macchia tonda. La figura in rosso retrocede mentre la vecchia alza verso di essa la mano detersa, ora tinta di nero, in un estremo saluto dal chiaro ricordo politico. Qui, a Bergen, l’anziana madre si guarda allo specchio ed è questo rapporto di autocontemplazione che produce l'emorragia, che segna l'inizio della perdizione, il paradiso perduto è ormai celato e lo capiamo dal cambiamento delle luce e dei suoni sulla scena. La banda sonora mostra rumori di interferenze elettriche, la vecchia si pettina la crespa peluria con una spazzola, mentre il lattiginoso ovale viene issato in alto come presenza divina irraggiungibile fino a scomparire. Una luce verde illumina la donna che continua nel suo gesto ripetitivo mentre l'apparecchio al suo fianco continua ad inviare segnali numerici luminosi. Poi, lei si volta a sinistra, muove le braccia come per nuotare, e di scatto di gira come per sorprendere il pubblico che la sta osservando con insistenza, in sottofondo si sente la cantilena di una vecchia canzone, e dal fondo di un bianco corridoio avanzano delle figure: due trasportano la testa dell'ariete romano, un'altra segue reggendo l'asta, un'altra infine chiude il corteo portando due bacchette con dei grossi ovali sulla punta simili a delle teste di gameti maschili. L'ultimo angelo solleva il velo tra la donna e la capra permettendo agli altri tre di posizionare l'ariete frontalmente alla vecchia. Nelle antiche
battaglie l'entrata in campo dell'ariete romano indicava l'inevitabilità dell'attacco, poiché da qual momento in poi non si accettava più la resa. Così qui, davanti a questa madre dell'umanità, la presenza dell'ariete non può che implicare uno stato irreversibile della creazione che da quel momento in avanti contemplerà l'atto sessuale come atto fondamentale della cosmogonia dell'universo. L'uomo con le bacchette bianche dirige i movimenti di posizionamento, due portatori di ariete escono dalla stanza del velo e uno di essi si dirige verso la donna per spegnere l'apparecchio elettronico sul letto. Per un momento i tre formano un corteo chiuso dalla bandiera con scritte ebraiche, mentre la vecchia continua a guardarsi allo specchio, l'uomo con i due coni bianchi alza le aste dando inizio all'assalto. La donna piange di fronte all'azione reiterata ed inesorabile dell'ariete contro il velario: una interminabile penetrazione sottolineata dai cambi di luce. La donna pian piano si accascia sul letto, uno dei tre uomini in bianco va a recuperare un cuscino di pelle d'agnello con il quale copre la donna. Il sipario si chiude mentre la copulazione continua. Il sipario si riapre sulla stessa scena, l'unica differenza risiede in una fascia azzurra fuori posto che uno degli angeli si affretta a posizionare trasversalmente sulla pelle dell'animale sul letto (l’agnello); dai coni bianchi fuoriescono soffici sbuffi di talco che ricoprono la superficie del palcoscenico, mentre i tre angeli intraprendono una leggiadra danza. -improvvisamente la scena si rischiara illuminata da una splendida luce diurna proveniente da una finestra, l'angelo con la bandiera ebraica indietreggia e fa oscillare lo stendardo, mentre gli altri due si avvicinano al letto, uno di essi solleva la pelle d'agnello sotto la quale giace una bambina e alle sue spalle leggiamo cucito sulla giacca il numero 2. Un altro angelo si china fa alzare la bimba per farle indossare delle scarpette dorate, mentre il vessillifero sventola la bandiera sui suoi piedini mentre uno dei cortigiani spruzza del talco tutt'attorno come una benedizione, poi recupera il calice di latte lasciato a terra nel primo atto dalle due Ambasciatrici del Capro. Lo sbandieratore poggia a terra lo stendardo e afferra un martello che muove in contemporanea alla piccola violenza con la quale costringe la bimba a bere il latte. La bambina viene fatta voltare verso il pubblico, prima di sistemarle sulla testa un passamontagna bianco. Un rito molto significativo che si è conservato proprio all'interno del popolo
ebraico presso gli ultra-ortodossi, e che prevede che fino che una ragazza è vergine, può girare con la testa coperta. Il giorno prima delle nozze si deve radere i capelli che però vengono sostituiti da una parrucca, portata permanentemente. La bimba dunque viene preparata dalla schiera di angeli all'unione mistica che si comparirà con l'immagine dell'ariete, a tratti visibile nello scorrere delle immagini di Rorschach proiettate velocemente sullo schermo di una lavagna bianca. Il velo bianco viene tirato via contemporaneamente a quello posizionato tra la lavagna e l'ariete; sulla superficie di ardesia scorrono immagini indefinite che si moltiplicano nella coscienza degli spettatori. Lo spazio dietro è illuminato da una luce rosa mentre la bambina mantiene un atteggiamento di silenziosa devozione, fa pensare alla Vergine bambina davanti al suo Dio. Al termine della proiezione gli angeli si apprestano ad imbavagliare con un grande panno bianco la testa dell'ariete che viene picchiettata come prima la testa della bambina; uno degli angeli la seziona longitudinalmente prima che la scultura lignea venga rimossa e abbandonata a destra della scena come un oggetto ormai finito di essere utilizzato: dopo il concepimento virgineo di Maria, l'ariete viene imbavagliato e reso innocuo. Non c'è più bisogno della violenza, perché la bambina ha reintrodotto nel mondo il biancore della verginità, e in quel momento i veli bianchi cadono dall'alto e dalle pareti rivelando una stanza d'oro che assomiglia ad una già vista e quindi ad un caldo e accogliente grembo materno. Le due Ambasciatrici del Capro si dirigono al centro, qui, una copre l'altra con la pelle d'agnello e questa assume immediatamente la postura e la lingua dell'animale andandosene via a quattro zampe dal palco. La luce dentro la stanza d'oro aumenta e dal fondo a destra appare l'uomo vestito di rosso: porta un lungo bastone carminio e un altro nero, capelli lunghi e bianchi gli scendono sulle spalle e ha le mani guantate, si china per raccogliere una specie di candela bianca da terra e la infila nella mano sinistra della bambina. L'uomo-vampiro poi le porge delle scarpe rosse e le toglie il candido passamontagna e le mostra la rossa incandescenza nascosta all'interno del suo grande fallo rosso. Infine, prende una bottiglietta da cui versa abbondante liquido sanguigno sulla spalla sinistra e poi sul corpo della giovinetta. Il nuovo mostro si avvicina alla fanciulla, la spoglia della sua anonimia e con parole di fuoco la inizia alla malizia, poi afferra il martello e lo
nasconde dietro la schiena, ma dal momento che è rivolto con le spalle al pubblico siamo ben consci delle sue intenzioni. La bambina esce dal fondale a destra lasciando orme sanguinolente del suo tragico passaggio. Scena non presente nella memoria video della Tragedia Endogonidia: l'uomo rosso entra nella gabbia d'oro con gesticolare solenne e si spoglia di cappello, soprabito, stivali fino a restare nudo mettendo in mostra genitali femminili. La donna comincia ad ansimare forte, si infila un passamontagna nero, poi si abbandona ad una respirazione movimentata e percussiva caratterizzata da ansimi sempre più corti e veloci e da una spinta in avanti con le braccia. Tutto questo fa pensare ad una partoriente e l'idea è confermata dal fatto che cade in preda ad un attacco di convulsioni allargando abbondantemente le gambe facendo vedere il suo sesso. La visione dura poco, la donna indietreggia e sedutasi in ginocchio tira giù una cerniera che sembra liberarla da una vecchia pelle. Lo scuotimento produrrà un uomo nudo e inerme che si inginocchia adorante verso il fondo infinitamente dorato. La stanza viene illuminata di rosso e mentre si ode la voce di un bambino che pronuncia strani incantesimi, l'uomo si alza mentre la luce si abbassa pian piano. Il sipario si chiude sulla scena debolmente illuminata e percossa da rumori ritmici come di un cuore che è in attesa di nascere.
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Il sesto episodio della tragedia si svolge a Parigi. Inizia con l'accensione automatica di due lavatrici bianche che si stagliano sul nero della scena, sono i soli elementi scenografici sistemati su un palcoscenico nudo e grigio. Davanti alla scena c'è una piccola orchestra d'archi; due uomini in mutande entrano, camminano a carponi con gesti da automi. Le due figure alla fine si levano in piedi per compiere una ripetizione del sacrificio d'Isacco sull'altare dei due elettrodomestici: recitano come gli attori di un cinema muto. Stavolta l'estremo atto si compie, il Figlio viene ucciso e la Salvezza è impedita. Una terza figura in tutto simile, solo con delle piccole ali nere di cartone poste sulle spalle a rappresentare l'Angelo venuto a fermare il gesto, entra per interrompere l'azione sacrificale già avvenuta e scopre la presenza di un capro espiatorio nascosto dietro ad un riquadro dello stesso colore grigio del palcoscenico. Il povero Isacco è già morto e imbalsamato in un sacco dell'immondizia, mentre un personaggio vestito di rosso viene a portare via l'animale e un poliziotto a quattro zampe balza in piedi e bela. Il morto si risveglia, le tre figure si vestono con delle uniformi da poliziotto francese prese dall'interno del cestello delle lavatrici. L'azione si accelera: è come se adesso tutta la scena dovesse essere sottoposta ad una pulizia generale. Sul palco si accumulano e si mescolano le immagini e le figure che costituiscono l'universo della Tragedia Endogonidia, sottoposte a getti d'acqua violenti. Un poliziotto pulisce i suoi fucili in una tinozza colma di acqua sporca e lo stesso tutto il palco è ricoperto d'acqua e i protagonisti sono bagnati fradici. La pulizia del palcoscenico di Bruxelles poneva quell'Episodio sotto il segno del tempo, ed era il presagio di un massacro. Il passaggio dello strofinaccio, che rende visibile i resti di un fatto di sangue che era appena accaduto e che sarebbe ancora successo, aveva solo una funzione narrativa ma ci metteva in contatto diretto con l'inaccettabile e l'abbietto: l'eccessiva vicinanza del cadavere da parte nostra, del pubblico. Qui invece la pulizia prende l'aspetto di un rituale di purificazione, c'è una freddezza liturgica, protocollare. Una liturgia messa sotto il segno dell'umorismo che si alimenta al suono degli schiocchi furiosi e amplificati di due bandiere francesi che sbattono contro una delle pareti
che delimitano la scena; si agitano nel modo più violento possibile e ogni colpo conto i muri, ogni movimento e ogni scarto in avanti è tradotto con un rumore assordante. Se il gesto della donna delle pulizie di BR.#04 era una cosa quotidiana che restituiva al suo corpo la sua trivialità, si può dire che qui l'azione produce l'esatto contrario. I poliziotti fanno piazza pulita e lasciano la scena in un ridicolo corteo a cavalcioni sulle lavatrici. La mascherata inscenata ha il carattere di una liturgia non perché ne abbia l'aspetto, ma perché sembra che tutto si riassorba nell'accelerazione, che tutto si riduca a zero. Il rituale di purificazione dei poliziotti è una "tabula rasa" ed è una produzione del reale come grandezza intensiva a partire da zero. Il tempo liturgico è quello della ripetizione ma è soprattutto quello dell'attesa: tutto si concentra e si riassorbe nella sospensione dell'arrivo di un qualcuno. La scena è deserta e la pace è ritornata, una statua che rappresenta la Sfinge entra e lentamente un sipario non visibile scende, si fa giorno attraverso le finestre che danno direttamente sull'esterno del teatro. E qualcuno viene, è un attore che sta in piedi di fronte a noi, silenzioso, immobile, nudo con solo un tessuto bianco che gli cinge i fianchi una corona di rami, che rappresenta Gesù Cristo che ci spia da una delle luminose finestre; l'ambiente esterno invade il palcoscenico, si pensa sia un parcheggio sentendo i rumori di una città affollata. Gesù entra e avanza dentro di noi, il gruppo dei musicisti che era a proscenio si alza ed improvvisamente esce. Gesù si mette di fronte alla Sfinge e la fissa per un lungo istante, si china e prende in mano un teschio che era ai suoi piedi; in quel momento e per tutti i seguenti il viso di colui che incarna il Cristo rimane impassibile, non esprime nulla, i sui tratti sono fissi come un'incisione o in una fotografia. Capiamo come egli venga dall'esterno, come se fosse stato paracadutato in mezzo ad un universo nel quale rimane un straniero, come monito di quello che storicamente gli è accaduto, ma soprattutto egli è estraneo alla tragedia che fino ad ora ha sempre generato da sé sola la sua figura. C'è già stata la figura del profeta Elia ma significava la fuga, l'erranza e la disseminazione. Il profeta impersonifica la legge dell'oracolo ed è anche il rappresentante della Legge del dio nell'Antico Testamento, dove l'enunciazione del legame tra uomo e l'inumanità diventa Legge, il linguaggio vi incarna una potenza divina mortuaria. La figura di Gesù non appartiene affatto all'universo della tragedia, poiché è una figura re-
ligiosa della quale non si può elaborare alcuna visione tragica del mondo e dell'individuo. La tragedia nasce al centro della finzione e attorno alla figura dell'eroe, essa elabora una concezione dell'individuo, e questi a sua volta acquisisce "una forma di legalità di fronte a una concezione mitica del mondo"; il ciclo di Castellucci rompe con la tragedia attica perché il suo eroe si stacca dalla tradizione, egli non ha un nome e nemmeno un passato. Invece, è proprio della Tragedia Endogonidia non avere niente di proprio, nessun volto, né sesso, né età: è di volta in volta uomo, donna, bambino, vecchio, animale. Si sottrae al senso e alla rappresentazione, e si pone a fondamento di quella forma che è il linguaggio. L'eroe non appartiene e non aderisce al mondo, quindi ci pone con il quesito del perché allora la figura di Gesù si impone come il protagonista/eroe dell'episodio P.#06? Lui che è parte integrante della nostra storia, lui che fa nascere la nostra Storia ma alla quale la Tragedia Endogonidia vi si coagula e intanto investe e contamina le figure che appartengono al nostro passato comune. La figura del Cristo appare come la negazione della concezione dell'eroe attico, incarna la superiorità della vita sulla morte. Qui c'è l'idea dell'estrema sofferenza di una vittima sacrificale, legata all'applicazione della sentenza divina, ma la sofferenza è voluta e desiderata perché la Passione è l'ingrediente necessario al compimento della Salvezza. Gesù conosce il suo destino e ne desidera l'estrema catastrofe. Egli vive il grado più profondo della colpa perché ne raddoppia la fatalità: fa coincidere il suo terribile futuro con il suo desiderio. E se Cristo è insieme innocente e colpevole, non è perché è Figlio di Dio ma è figlio della Madre, non di Maria ma della Donna Anonima che popola la tragedia. Torniamo alla figura del Cristo che è solo e fissa il teschio che tiene nelle sue mani ovviamente rappresentante il monte Golgota, entrano di nuovo i tre poliziotti ma in modo precipitoso e burlesco: coprono la testa della Sfinge, chiudono le finestre per non far vedere più la luce del giorno. Quindi prelevano un campione di urina da Gesù, tramite un tubo di vetro che, ad operazione terminata, incastreranno nel muro. In un angolo della scena intanto, si vede il posteriore di un cavallo bianco; i poliziotti se ne vanno e Gesù resta solo, a proscenio. Si ode un rumore di passi e appare una casalinga con la borsa della spesa, indossa un impermeabile e un fazzoletto in testa. Essa nota la presenza di Cristo e lo guarda con insistenza ed interesse,
posa la borsa e ritorna con un lettino: fa segno all'ora diventato bambino Gesù di venire a coricarsi ma lui resta impassibile. Allora lei gli propone un biscotto e poi un biberon ed infine il seno, ma non riesce ad attirare la sua attenzione. In un atto estremo, la donna si mette a premersi le grosse mammelle energicamente come per farne uscire del latte, mano ne viene niente ed i seni rimangono sterili. Improvvisamente un'automobile cade dal soffitto con un fracasso spaventoso, e la cosa si ripete altre due volte, con la presenza finale di tre macchine sul palco. Gesù si stende con le braccia stese nella consueta forma della crocifissione sul tetto di una delle vetture, a lato i due ladroni, mentre i poliziotti entrano per far spostare i mezzi e preparare l'entrata in scena di non si sa cosa. Il personaggio in rosso che si era intravisto all'inizio ricompare per prendere il Cristo e sistemarlo al volante di un'auto come fosse un manichino di prova crash-test. Cambia la scena e un dragone da carnevale cinese tutto nero fa la sua entrata scenografica come di consuetudine nelle feste di ricorrenza, i poliziotti s'infilano dei cappucci come quelli che s'indossano nelle processioni della settimana santa, estraggono il flacone di urina dal muro per introdurlo all'interno di ciò che sembra l'apparato genitale del dragone, in una protuberanza rossa. Fanno sdraiare al suolo l'inutile vecchia nutrice di prima affinché subisca l'unione con il mostro carnevalesco e la donna finisce per sparire nel ventre dell'animale. Interrompo la descrizione scenica per dare una definizione alle figure che abbiamo visto entrare che sono il personaggio di rosso vestito e la madre: entrambi sono due personaggi non eccezionali, non incidentali rispetto agli eventi. Ricoprono il luogo di parentesi, creature a cui accadono o non accadono gli eventi, capiamo come sono meramente dei "mezzi" per raggiungere un fine. Vediamo come Castellucci sia molto interessato alle figure simboliche, il serpente appare come simbolo dell'universale soffer- enza e dell'umana aspirazione alla salvezza. E' una figura che inaugura e conclude la Bibbia e la storia dell'uomo, è l'immagine della passione umana che può essere accostata al simbolo della crocifissione. Ma anche il serpente incarna la contraddizione: è il simbolo del male e della morte e nello stesso tempo è immagine dell'immortalità in quanto il serpente rinasce da stesso. Il Cristo appare qui come la figura centrale della Tragedia, e non è una questione ideologica perché si tratta in questo caso di un vero e proprio abbandono,
un operazione che forma direttamente una figura di contaminazione. Il bambino Gesù crea una rottura nel ciclo delle nascite, poiché non nasce dall'amore sessuale dll'Immacolata Concezione: non esiste sessualità, ed è anche soggetto di una seconda nascita dalla morte, negando così le due condizioni dalle quali dipende ogni esistenza, appunto nascita e morte. L'escatologia che si opera sul corpo di Cristo, illustra il progetto antitetico e inconcepibile che è la tragedia; lo sforzo della nutrice per estrarre latte dal suo petto sterile e l'assenza di filiazione conducono alla catastrofe che fa esplodere il quadro: l’essere oggetto di una nuova nascita che deve essere partenogenetica. Il Cristo non come figlio di Dio, ma come l' "uomo nuovo", a somiglianza del padre abolito, così come ci dimostra l'eroe di questo episodio. I poliziotti iniziano una processione simile a quella della settimana santa e tagliano un ciuffo di peli dalla coda del cavallo, cambiato e diventato nero rispetto a quello di prima, per attaccarlo come un baffo sul muso del dragone, il quale esce di scena con un baccano festoso e sotto una pioggia di coriandoli. Un altro personaggio di rilievo realmente esistito entra a chiudere l'Episodio: il generale francese Charles De Gaulle. Entra e si guarda attorno come se vi fosse capitato li per caso, anche lui perso come il vecchio di Bruxelles. Se prima l'eroe di questa tragedia non era localizzabile, con il nome e la figura di Cristo si arriva al cuore del processo: su di esso si condensano tutte le immagini del ciclo di Castellucci come se fosse dentro un uovo: materia uguale ad energia. Vorrei aggiungere alcune note che insaporiscono ogni episodio commentato, e danno nozioni di complemento per avere completamente chiara la mastodontica opera di Romeo Castellucci. Abbiamo notato come l'intero episodio sia muto, ovvero non ci sono discorsi ma c'è molto da sentire. In alcuni momenti ci sono dei suoni, sia che siano semplicemente narrativi o che facciano parte della partitura elettronica di Gibbons si riferiscono agli oggetti e ai corpi sulla scena. Lavatrici, bandiere, poliziotti, finestre, un attore senza parole, una madre abbandonata.. sembra che tali suoni e musiche appartengano a questi corpi, come se essi avessero qualcosa da trasmettere e da comunicare del loro peso e situazione, essendo ancorati a questo posto, e a questa sofferenza. In altri momenti i suoni sono più autonomi, riscrivono quello che accade in scena, facendo propri, ricordando tempi e luoghi, occasioni immagi-
narie, facendole collassare dentro questa, tessendo l'adesso con il prima e il dopo, facendo in modo che il possibile appaia reale, di modo che le emozioni possono essere comprese dai sensi, come cose che possiamo vedere e sentire veramente. Il generale francese entra sugli echi di un piccolo gong e di qualcosa che ha il rumore della pioggia sottile. Cristo, invece, adotta la posa della crocifissione sullo sfondo del bagliore intermittente delle strisce fluorescenti sui muri del palcoscenico e compare un suono che è a metà tra il tintinnio di campanelli ed un'esplosione di globi di vetro. Poi, non appena la sequenza di questo Episodio prende avvio notiamo come ci sia qualcosa di nuovo, di ancora non visto precedentemente. Non ci sono ambienti predeterminati, niente scatola d'oro, niente stanza bianca e nemmeno un proscenio, nessun ornamento, paravento, niente. Manca di una scena costruita alla quale eravamo stati abituati. Un'orchestra è sistemata nella parte anteriore, preparano gli strumenti, ma smettono di iniziare lasciando il posto a quello che è un pezzo di teatro. La sospensione di un evento a favore di un secondo mette in atto un'intensificazione di attenzione, questo è ovvio. Il Nuovo Testamento compie l'Antico Testamento, non solo inverando le sue profezie, ma anche ripetendone le strutture. Il secondo trasforma il primo in una sorta di allegoria prefigurativa, così che quando arriva, egli non giunge solo come l'unico figlio di Dio , ma anche con la ripetizione di ben note figure di cui, ovviamente Isacco ne è un esempio vivente. Eppure questa allegorizzazione porta con sé il rischio di un'altra, più insidiosa duplicazione: la parodia. Il Nuovo Testamento sembra la parodia dell'Antico, e visto che ne è la rivisitazione consapevole della nascita, morte e resurrezione di Cristo, gli elementi si rovesciano nella ripetizione. Perché quello che si afferma nel Nuovo Testamento è il potere di un atto individuale, la necessità di una fede irragionevole e la rinuncia a tutti i legami familiari. In breve, l'inaugurazione di uno stato permanente di eccezione che, da un punto di vista storico, diventerà anche il fondamento dello sviluppo dello stato moderno, come forma di sovranità che trova la sua giustificazione nell'unicità dell'evento cristiano. Tutto questo per giustificare, appunto, il silenzio dell'essere per eccellenza che non ha bisogno di alcuna relazione: Endogonidia. Che vive con la blasfemia di Cristo (e anche di Edipo che si unisce alla madre), unico essere che ha concepito sé stesso
per Immacolata Concezione. Nessuna cellula Uno che si scinde in Diade.
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L'episodio di Roma inizia con la visione di un animale prigioniero in una scena trasformata in gabbia. E' tutto bianco, dal pavimento al soffitto e una grande vetrata chiude lo spazio a proscenio. Uno scimpanzé si diverte a nascondersi sotto un lenzuolo bianco e mangia dei pezzetti di cibo che trova sparsi per terra. La visione dura qualche minuto, poi un sipario bianco si chiude con un rumore assordante, cala il pannello meccanico scrivente che si era già visto negli episodi precedenti per farci capire che la scena che si è appena conclusa si è compiuta perfettamente. Il suo successo sta nel fatto che la creatura introdotta in scena è felicemente inconsapevole della situazione nella quale è stata immersa, essa vi si ritrova come esattamente nella vita. Questa introduzione ricorda l'episodio belga: entrambi gli esseri viventi che si sono offerti al nostro sguardo restano estranei alla struttura della rappresentazione, non hanno coscienza del luogo in cui sono stati collocati. Come a Bruxelles, è il carattere specifico dello sguardo ad essere preso di mira, la differenza sta nel fatto che lo sguardo della bimba creava una vertigine, c'era una domanda in quegli occhi, un'inquietudine e un'identificazione che ci faceva cadere nel baratro insieme all'innocente creatura. In scena tutto è calmo, l'animale non è inquieto, è naturale, la sua presenza ci permette di percepire qualche cosa di invisibile e impercettibile, qualcosa che condiziona la visibilità stessa di tutte le cose. Come accade all'animale, la scena diventa immediatamente il nostro luogo, un luogo straniero di cui noi, come il primate, non abbiamo coscienza proprio perché essa costituisce la struttura della nostra intimità: l'affabulazione genealogica per dare un senso a quell'unione passionale dei quali frutti si vedono dopo nove mesi e che nessuno di noi può assistere. L'uomo ha bisogno di uno specchio per vedersi e nominarsi, e la tragedia attica era la superficie specchiante che fondava e rendeva possibile la comunità ateniese. Si diceva che le parole uccidevano, ora è lo sguardo che con il suo silenzio, uccide. Tornando alla nostra opera, il sipario si riapre e si ricomincia da capo: l'animale è sparito, un cesto da basket è appeso al muro del fondo della scena e tre preti giocano con il pallone, ma il pallone resta in sospensione dentro il cesto, senza uscirne né cadere dentro. Un prete prepara della cioccolata mentre altri due in-
nalzano un altare improvvisato. Una figura si staglia contro il muro di fondo, è un uomo vestito solo con un accappatoio bianco. L'individuo avanza nella nostra direzione e, arrivato di fronte a noi, si toglie il cappuccio: è Benito Mussolini. Ritornano i preti, fanno sedere il dittatore dietro l'altare come fosse una scrivania, sistemano attorno delle sedie e fanno conversazione. Uno di loro ci spiega come viene fatto il cioccolato attraverso un buco fatto nel vetro che ovviamente separa noi spettatori e la scena, dell'altro cioccolato scuro viene sparso sull'altare e subito dopo i chierici fanno formare un foglio a Mussolini, che non svolge nessuna azione. Alla fine del conciliabolo, i preti fanno sdraiare a terra il nostro ultimo, importante personaggio appena arrivato e spariscono nel buio. L'eroe di questo Episodio è ancora una volta una figura della storia, quella di un tiranno che durante tutta la rappresentazione subisce l'azione. Se nel capitolo di Parigi, Cristo manteneva una sua ieraticità pittorica, qui si ha invece l'impressione che il dittatore abbia subito una lobotomia: è come svuotato di vita e ridotto solo ad un involucro, a una pura apparenza in carne e ossa. In presentazione dell’Episodio si parla dell'alleanza fra la chiesa cattolica ed il potere politico in Italia, in particolare di quella concordata con il regime fascista di Mussolini: si mette l'accento sulla "fusione" e "confusione" tra il clero e gli uomini politici in carica. Mussolini, è disteso a terra come il citato Carlo Giuliani nel primo Episodio, una donna nuda, con solo delle scarpe ai piedi, entra spingendo un carrello. E' la "Madre Anonima" che finge di fare la spesa tra gli scaffali di un supermercato, poi si ferma, e si siede su una sedia mettendosi improvvisamente a piangere fino a quando una tremenda voce fuori campo le intima di seguire un certo numero di azioni, particolarmente simili a quelle suggerite alla protagonista in B.#03. La giovane donna si avvicina al corpo disteso, la voce le dice e le ripete: -"Non guardare! Non mi devi guardare!"-, la ragazza distoglie il suo sguardo cercando senza successo di eludere all'ordine impartito, quindi, esce di scena. Si capisce che ciò che la ragazza non deve e non può guardare, è lei stessa: è l'immagine della sua stessa morte. E' pericoloso risolvere l'enigma e decifrare la parola dell'oracolo. Questa scena ricorda l'ordine di Dio a Mosè nell'Esodo, ma anche quei miti greci che ci raccontano di duelli mortali: trovarsi faccia a faccia con chi non ha un nome, con chi è impossibile ve-
dere senza morire. Artaud ci diceva: -"Vivere è un non potersi guardare", Platone "faceva dello spavento la prima testimonianza della bellezza": un identico sguardo condiziona l'esperienza vitale e l'esperienza dell’artista. Lo sguardo frontale non può essere sostenuto, pietrifica perché ci mette in contatto” con ciò che non può essere pensato. E' in questa impossibilità che si gioca la nostra esperienza, sulla superficie piana dello specchio che nominavo prima: occorre deviare il proprio sguardo per liberarlo dal faccia a faccia paralizzante e mortale con ciò che non ha nome. Occorre introdurre una riflessione su uno scudo, su uno specchio, su un quadro, sull'acqua del fiume Narciso. Nel quadro di Caravaggio che rappresenta la testa tagliata di Medusa, non si vede una faccia spaventosa ma il viso di una donna spaventata, che guarda qualcosa "fuori quadro", "l'Altro non appare come la possibilità di un mondo che ci spaventa. Questo mondo possibile non è reale, o non lo è ancora, è un qualcosa di espresso che esiste solo nella sua espressone in un viso o in un suo equivalente". Infatti per gli antichi lo specchio non riproduce mai colui che ci si riflette, e la sua scura trasparenza rinvia sempre ad un mondo diverso da quello attuale. I preti che avevamo lasciato prima e che si erano presi cura del nostro Mussolini entrano, e lui intanto si alza ed è condotto a proscenio. Uno di loro gli toglie i vestiti e si siede su una sedia: si tratta della figura vestita di rosso già vista negli episodi precedenti. I suoi capelli ora sono lunghi e neri, porta un rosso cappello a cilindro e si avvicina lentamente a Mussolini, che ora indossa un completo bianco composto da giacca, panciotto e pantaloni. Il personaggio in rosso lo morde sul collo come un vampiro e sputa sangue sulla vetrata, mentre il dittatore sottoposto al ruolo di vittima non si muove neppure. I preti portano una tazza del loro cioccolato a quello che è diventato il loro nuovo maestro, l'uomo si spoglia del suo mantello e cappello rosso, mostrandosi in costume da Arlecchino e scarpe con tacchi a spillo. Ci si ritrova davanti al personaggio buffone del primo episodio, con alcune ovvie variazioni di vestiario, è un personaggio piuttosto comico che tragico che rappresenta la vox populi (Arlecchino è anche un principio teatrale archetipo molto forte). Si vede una maschera da gorilla sul volto di Mussolini, Arlecchino chiede spiegazioni al dittatore che non gli risponde e sembra non possa capire nulla. La maschera tradizionale dl carnevalesca si mette la maschera sulla
testa e mima i gesti di una scimmia, quindi consegna un osso a Mussolini. I due personaggi se ne vanno per mano verso il fondo scena, quando all'improvviso Arlecchino si scaglia sul vecchio uomo come un animale che divora la sua preda, si gira e sputa un fiotto di sangue sul retro dello schermo di vetro. I due personaggi scompaiono per lasciare giocare i preti con tanti, infiniti palloni da basket: il palcoscenico diventa un area in bilico tra essere il vero ed il falso, tra il reale e l'immaginario e lo spaziotempo della finzione. I preti smettono di giocare al suono di una grande campana mentre la scena cambia aspetto abbandonando il candore della scena per delle strisce verticali di tutti i colori, uno di loro porta un microfono al centro della scena, e da sotto il palco una forza dirompente spezza le tavole del palcoscenico e fa cadere l'asta del microfono. Dal buco esce il famoso Arlecchino come se uscisse dall'Inferno, gira le spalle al pubblico e si toglie il suo costume variopinto sotto il quale si scopre un altro abito a rombi bianchi e neri. Gira il suo sguardo verso il soffitto, dove si trova per l'appunto un affresco che lo rappresenta con gli stessi identici abiti, proprio sopra di noi. Si sente ancora l'orribile voce fuori campo che proibisce ad Arlecchino di guardare la propria immagine ritratta, e lui sparisce, poi, silenziosamente nel buio. Il sipario bianco si chiude e noi siamo investiti da una serie di lampi: a questo punto la voce si rivolge a noi. E' vietato guardare davanti e dietro di sé, lo sguardo nello specchio può anche uccidere come ci testimonia la tanto declamata fiaba di Narciso. Gli Antichi sono precisi: non è l'amore che egli ha per la sua copia ciò che lo uccide, ma lo sguardo. Lo specchio che ci permette di schivare lo sguardo di Medusa, non porta a nessuna salvezza e non può neanche condurci alla nostra morte, pietrificandoci. Il riflesso è una potenza mortale come il linguaggio, perché non ci restituisce la nostra immagine, ma ce la sottrae nello stesso momento in cui ce la consegna, condizionando il rapporto con noi stessi. Noi desideriamo guardare solo quello che non possiamo vedere, è per questo che la propria immagine immobilizza Arlecchino nel silenzio e lo "seppellisce nella notte". Con questa immagine, mentre il sipario si chiude, il pubblico è abbagliato da una luce che sembra un flash di macchina fotografica e capiamo che l'ordine della voce è impartito anche a noi: "Guarda. Ma non guardare." E’ la seconda volta (o anche terza volta) che ci imbattiamo in un person-
aggio di rilevante importanza come un "dittatore" (licenza per la quale mi permetto di definirli TUTTI): vediamo di fare alcune riflessioni in merito: la figura del dittatore, la cui stessa parola è legge, e la figura del Salvatore, verbo incarnato di Dio, sembrano fondersi in quest'ultima aggiunta alla serie di apparizioni mute in tale spazio della tragedia. Questo, che è il luogo del sacrificio, ha come prerogativa il fatto di lasciarsi manipolare completamente senza resistenze, anche in modi umilianti come il prendere dei liquidi dai corpi (a Parigi viene stratta l'urina da Cristo, mentre a Roma il sangue di Mussolini viene succhiato da un vampiro). C'è qualcosa nel modo in cui la figura viene letteralmente condotta, guidata, dai preti alla sua posizione sul palcoscenico, il che richiama quel' "inquieta cautela" con cui tutti gli altri candidati al sacrificio erano stati tratti; si deve, quindi, dare una particolare attenzione all'accettazione del rito da parte della vittima sacrificale, osservare con grande cura per essere sicuri che tutto quello che deve essere compiuto avvenga con le giuste regole. Mussolini compare su ordine dei preti per ripetere la firma del Concordato con cui lo Stato Italiano garantiva la sovranità dello Stato Vaticano e la riaffermazione dell'autorità religiosa sui cittadini. Mentre essi si adoperano a persuadere un dittatore che sembra impassibile egli trattiene eroicamente i gesti, i toni di imprecazione e di pianto ma che sono espressi in sguardi i quali al pubblico rimangono celati. Solo una volta abbiamo il privilegio di sapere quello che succede, quando uno dei preti spalanca un'apertura circolare nel muro di vetro e ci informa che egli "non vuole fare la cioccolata per tutti gli italiani". Apprendiamo in seguito, dopo alcune informazioni di ricerca storica, che il primo lavoro di Mussolini come emigrante in Svizzera era stato in una fabbrica di cioccolato. Ma questo non ci fornisce particolari informazioni aggiuntive, come momentanea motivazione del silenzio di quest'uomo, figura da cui di solito per esperienza sono da attendersi fiumi di retorica. Ma il silenzio di un dittatore la cui parola è legge, ed essa perciò, senza contenuto, sembra invitare a compiere sforzi per riempire i vuoti vocali, e questo desiderio di riempimento sembra annunciare una speranza disperata che ci sia in azione qualcosa che sia di più della semplice teatralità con cui sostenere l'attenzione. Vorrei aggiungere qualche puntualizzazione anche sulla particolare presenza di frammenti della vita di tutti i giorni che sembrano risucchiati
nel tragico ciclo: in scena vediamo un passeggino a Cesena, una donna con le borse della spesa a Parigi, e ora a Roma un'altra donna che entra con il carrello del supermercato, come se qualcuno cercasse di realizzare una sorta di realismo corrente nella dimensione teatrale, tentativi che a quanto pare provocano sempre una specie di crisi, come se l'azione pura e semplice di spingere un carrello in qualche modo aderisse alla trappola del teatro, come se esso non sapesse cosa farsene di questo oggetto, non potesse trarne niente a parte rilanciarcelo fuori.
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Nell'ottavo episodio della ormai nostra Tragedia siamo nella città di Strasburgo ed immersi nell'oscurità, il palcoscenico è completamente ricoperto da una distesa di terra marrone. Il fondo della scena è aperto sull'esterno: il palco è separato da un'immensa vetrata che si affaccia sul Parlamento Europeo. Un autobus sosta esternamente dinanzi a noi, le persone che si trovano al suo interno ci guardano attraverso i vetri del veicolo, poi scendono ridendo mentre l'automezzo sparisce. Ne distinguiamo soltanto le sagome poiché sono illuminate unicamente dalle luci della città: questi individui non sono sulla scena ma inseriti nel tessuto urbano. Dopo un po' smettono di ridere per raggrupparsi; sentiamo loro pronunciare le lettere dell'alfabeto. Come noi, spettatori, rimangono all'esterno della scena e dell'azione, ci somigliano, ma esiste una traccia di similarità solo nelle ombre di sagome umane. Il Coro fa il suo ritorno in questo Episodio, ma stavolta non si installa fa il pubblico e il palco, non media l'azione, ma sta dall'altra parte della scena, al di fuori, allo stesso tempo vicino e lontano da noi. Dunque, non si tratta di un gruppo di persone che dovrebbero rappresentarci, ma ne deriva un che di animale e di indefinito. Il Lui e il Loro del Coro non è soggetto, non restituisce né la voce né l'identità di una città; le poche cose pronunciate non appartengono al discorso, sono i fonemi delle lettere dell'alfabeto che bene conosciamo anche con il pannello "oracolo" automatico. Non scorgiamo i loro volti, non parlano a noi, compongono delle figure geometriche, delle linee, formano gruppi simili a sciami; si assemblano e si dividono componendo traiettorie che ci travolgono impercettibilmente. Il Coro s'interrompe per sedersi su sedie allineate davanti ad un grande schermo bianco steso sul muro del Parlamento che ci sta di fronte, un attimo prima che cominci la proiezione del film "Psyco" di Alfred Hitchcock. Quello che adesso unisce noi al Coro non è più la similarità ma la stessa condizione di spettatori volgendoci le spalle. In tal modo, questo passaggio scopre quello che sarà uno dei fatti centrali dell'Episodio: la mancanza d'azione, l'assenza di rappresentazione che lascia intuire la sua strut- tura vuota, cioè la passione dello sguardo. Lo spettatore non sarà mai stato altrettanto spettatore di sé stesso, così attivo nella sua passività, letteralmente al centro dell'azione. Il film s'interrompe bruscamente dopo una decina di minuti, l'immagine si tronca sul volto
di un poliziotto con gli occhiali neri che scuote l'eroina dal suo sonno. In modo appena percettibile delle altre figure emergono dal margine della scena, la luce flebile illumina una truppa di donne di colore in tenuta militare mimetica. Qui, due spazi-tempi si confrontano: quello della realtà che percepiamo attraverso la grande vetrata e quello della performance teatrale: i due universi sono separati soltanto dallo spessore di un vetro. La luce artificiale che si diffonde sul palcoscenico la carica d'irrealtà, sono luci fredde del neon che non trasmettono nessun tipo di calore e nessuna atmosfera naturale, non c'è cielo, siamo sulla terra ma è impossibile averne un orientamento. L'aria è tale che l'unica realtà riconoscibile è la superficie della terra marrone che ricopre tutta la superficie del palco. Una terra con la quale tentano di mescolarsi le donne nere militari che si distendono al suolo come se riposassero; poi prendono delle pale e scavano senza ardore ed entusiasmo, sanno che non ne avranno nulla dalla sterilità del terreno, che essa non contiene nessun segreto atto da essere rivelato. La terra è arida e infeconda come lo sono queste donne che sotterrano i loro assorbenti intimi usati nel suolo. Paradossalmente una grande sensazione di serenità e pace attraversa l’episodio, le donne deambulano sulla scena, esaminano le loro mani, le lavano, impastano il pane, scavano la terra inutilmente, non attendono nulla e sono inoperose. A questo non seguirà nulla, non accadrà mai nulla, non verrà combattuta nessuna battaglia, e vediamo come il Coro che davanti ad un muro bianco cieco abbandona progressivamente la platea, anche noi cominciamo a porci la domanda su che fare: restare o andarsene via? Ma la battaglia c'è, essa sorvola il suo stesso campo, neutra a tutte le azioni temporali, impassibile in relazione ai vincitori e vinti. In questo modo come era stato annunciato, questo episodio è caratterizzato dall'assenza dei fatti della tragedia: assenza di azione, di eroi, di simboli, di catastrofi, di colpe e maledizioni. L'assenza del dramma cela l'oscuro nesso che ci lega a queste donne in quanto la tragedia annuncia e media il dramma umano, riproduce la nostra intimità di essere umano abitato da desideri bellicosi che prendono una forma incontrastabile. Queste donne non sembrano sopportare il peso di nessuna eredità storica tragica, ci domandiamo se forse, qui, dimora la ragione che rende questo episodio così diverso dagli altri, non a causa della mancanza di
simboli e dell'azione ma per l'assenza di gravità. C'è la terra ma questa non si presenta come potenza, l'attaccamento ad essa non è indice o rivelazione di una maledizione, ha perso la sua forza, il suo attaccamento così come il cielo è assente a causa dell'impersonalità delle luci al neon: profondità e altezza sono deposte a vantaggio della superficie pura e semplice che ci offre l'umile terra. Il fatto che ci siano solo donne conferma la loro situazione particolare: sono ai margini, alla frontiera dell'umano, ci accorgiamo che sono delle escluse, rigettate perché personificano un pericolo di contaminazione per l'ordine, un qualcosa di impuro come l'ignoranza nel flusso del ciclo mestruale femminile ("quando la donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio e sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole ... Ma se partorisce una femmina sarà im- monda due settimane come al tempo delle sue regole; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue". da La Bibbia di Gerusalemme, Levitico, 12, 2.5). Durante tutto S.#08, ci chiediamo il motivo di come mai ci troviamo lì, cosa siamo venuti a cercare in un luogo che è il teatro e cosa ci aspettiamo. Qualcosa avviene finalmente, le donne sono distese sul suolo umido, soltanto una di loro rimane in piedi perché la terra le sta rendendo qualcosa. Lentamente dissotterra una bandiera rossa che agita guardandoci, un canto lieve si eleva doppiato da un suono pesante e ripetitivo come il battito del cuore. Il "muro bianco cieco" proiettato sullo schermo lascia il posto pian piano ad un muro di un rosso intenso che vuole sottolineare l'affinità con la stoffa purpurea sventolante. Qui la rappresentazione non decreta nulla, non vi è altra legge se non quella di una terra che chiama ad essere popolata: una rivoluzione silenziosa ed impercettibile. Quello che ci accomuna non è una tradizione, un passato o un avvenire collettivo, ma è un luogo e un tempo: lo spazio-tempo che è la rappresentazione teatrale e che ci raggruppa qui e ora. Il chiaro significato politico che evoca la bandiera rossa, tralasciando l'ovvio bagaglio storico, vuol dire dunque che quello che ci riunisce è un antica e primordiale idea di polis e di comunità. Fino ad ora gli Episodi componenti la Tragedia Endogonidia erano stati freddi, talvolta agghiaccianti, carichi del sarcasmo e dell'aggressività dell'humour; è la prima volta che un certo calore scaturisce, un'emozione che è il sintomo
di una forma di speranza che se anche fragile, abbozza un nuovo orizzonte che nasce dall'inoperosità malinconica di questo piccolo esercito di donne. Ma non è ancora finita: mentre esse smontano il campo, le ombre che avevano abbandonato le sedie esterne, tornano per osservare quello che si svolge sulla scena oltre la vetrata, quelle ombre diventano istantaneamente le ombre delle donne nere, che, insieme al Coro spariscono nella scena immersa nell'oscurità. All'improvviso scorgiamo un movimento, una macchina massiccia e metallica avanza minacciosamente verso di noi. Prima di distinguerlo, sentiamo il rumore che il veicolo produce: è un carro armato che entra in scena attraverso un'apertura ricavata dalla vetrata. La macchina bellica penetra nel teatro e sale sulla collina di terra per puntarci con il suo cannone, per scrutarci, osservarci. Non abbiamo la sensazione di essere al cospetto di una macchina comandata ma di avere davanti agli occhi un animale a caccia della sua preda. Questo non è un avvertimento, immaginiamo che cerchi le donne che hanno spopolato la scena, il prolungamento del cannone diventa un occhio che ci fissa, uno sguardo capace di uccidere. Dopo pochi attimi di ansia congelata il mostro di metallo non ha trovato ciò che era venuto a cercare, deserta la scena così come è entrato ma noi ne rimaniamo ancora scioccati per la terribile visione, non sappiamo ancora dove sia la battaglia ma sappiamo che ha avuto luogo, che avrà luogo, non sappiamo chi è il nemico né se quelle donne erano amichevoli, sappiamo solo che tutto questo continuerà e che ne assisteremo la fine. Il carro armato, come macchina viva ci sceglie come testimoni di tale atto presente e futuro.
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Il sipario bianco si apre per lasciare intravedere una giovane donna bionda in un costume chiaro del XIX secolo, la cui silhouette si delinea sul fondo della vecchia tappezzeria. La donna è in ginocchio, tiene fra le mani le estremità di due corde che finiscono in pezzi di passamaneria: sembra che tenti di bloccare o di rialzare la tenda davanti alla quale sta diritta. Si ha l’impressione che qualcosa tiri sulla corda per sollevarla da terra, o che sia lei a tirarla come se compisse il gesto di suonare le campane. La figura femminile che apre questo nuovo Episodio sembra predisposta per riportarci mentalmente al mito della donna legata, immolata in olocausto al mostro, al serpente, come nel caso Andromeda (gli spettatori che entravano a teatro erano accolti da una piccola carrellata di immagini nelle quali si è fatto un parallelismo tra la figura mitologica di Andromeda, la principessa etiope avvinta a una roccia sul mare in attesa dell’eroesalvatore Perseo, e una donna pronta per un rituale masochistico). Ciò che emerge è la posizione di vittima masochistica di questa figura, una vittima consenziente che fa dono di sé stessa come di una cosa, che si assoggetta alla legge del suo destino, ma allo stesso tempo vittima che sollecita la sua sorte, che accresce il castigo del desiderio che esso genera, una vittima che ricerca ciò che la ferisce. Paradossalmente, attraverso un simile gesto, questa figura ci invita a condividere, si espone e ci chiama ad essere testimoni del suo immolarsi; la sua azione sarà valida solo rivolgendosi ad un pubblico che guarda, necessario allo svolgimento dell’atto; lei ripete l’azione quasi per convocarci tutti, invitandoci a prenderne parte. E’ normale avere qui, un’associazione di pensieri nelle quali il tempo della rappresentazione è un tempo di unione e raccoglimento come quello religioso, che ci porta ad avere l’attenzione su unico individuo che ci inneggia alla condivisione del momento; ma di questo ne parleremo alla fine. Torniamo alla protagonista della scena che si sfila i suoi vestiti come se stesse per sacrificare il suo corpo, ha la pelle troppo chiara per sembrare reale ed il viso scurito di nero; all’immagine della donna che tentava di allattare nell’episodio parigino, che s’immolava ad un’unione contro natura con un drago carnevalesco, si contrappone ora una figura simile a quella della Madre dei primi capitoli del ciclo, che è tutt’uno con il mostro. Un nastro nero fuoriesce dalla maschera classica con la bocca aperta appesa
su una colonnina li di fianco, la donna lo prende e lega più parti del suo corpo, poi finisce per annodarlo intorno alla vita. S’impossessa della maschera per farla passare tra le gambe come fosse uno specchio, e la fissa sui reni dinanzi noi con l’aiuto del nastro nero. Il mostro è assente, resta soltanto l’impronta del suo volto o piuttosto ciò dietro cui si cela l’assenza di un volto. In realtà, la sola presenza di questa maschera non attesta l’assenza di colui che dovrebbe indossarla, ma mette ovviamente l’accento sulla maschera stessa: la maschera teatrale ha effettivamente un che di mostruoso e grottesco, il mostro diventa un’apparenza demoniaca, un riflesso. La sua svela colui che dovrebbe indossarla, ma suggerisce anche il fatto che essa designa nient’altro che la sua semplice forma, in altre parole l’esistenza del teatro. E’ la rappresentazione teatrale che in questo caso, diviene mostruosa, non il suo contenuto, ma la sua forma e il suo fatto. La sua presenza al posto del mostro ci rammenta che è il teatro stesso ad essere qualcosa di profondamente terribile, indipendentemente da quello che vi viene rappresentato. Il mostro si trasforma in luogo, il mostruoso in una situazione, in una posizione che è quella dell’attore. Il tragico non è la rappresentazione di una situazione, ma è generato dal luogo e dalla forma che sono il teatro, egli non appartiene alla forma teatrale non più come rappresentazione ma come struttura dell’intimità, è la traccia dolorosa della sottomissione e dell’alienazione alle nostre forme di comunicazione. Lo spettatore è estraneo a ciò che avviene in scena, l’azione ne rimane lontana ed inaccessibile; è in questo che vi è una sconcertante corrispondenza tra il teatro e l’esistenza, tra un trovarsi su un palco come nella vita. Sulla scena, come nell’esistere, noi non ci apparteniamo più, come la giovane donna che si nega per far dono di sé stessa, così noi ci ritroviamo impotenti dinanzi a qualcosa di più grande. La donna attacca la maschera al muro di fondo della scena, noi siamo immersi in una nebbiolina fitta e compare in enorme parallelepipedo bianco verso il quale la protagonista si sta dirigendo: su di esso sale e si libera del nastro lasciandolo cadere a terra, mentre un altro parallelepipedo bianco delle stesse dimensioni del primo scende dall’alto per illuminare il suo gemello poggiato al suolo. La donna ne solleva il coperchio per penetrare all’interno di quello che ora ci sembra un sarcofago e solo dopo dei lunghissimi minuti la vediamo uscire e ci rendiamo conto che il suo corpo è ricop-
erto per metà da una pittura di colore marrone, come un fluido scuro che fa sembrare tagliata a metà tanto è abbagliata dal biancore circostante che la fa sembrare sospesa nel vuoto. La donna esce e va a strofinarsi, con un atto di provocazione, contro il velo trasparente che delimita il palco separandolo dal pubblico e poi, esce. In seguito all’uscita di scena della giovane, un’impresa di pulizie recanti guanti, mascherine e il logo della Socìetas Raffaello Sanzio & Sanzio Cleaning Corp entra per lavare o piuttosto decontaminare il palco pulendo le impronte che la donna ha lasciato, ritirando con sé il sarcofago. Gli uomini portano maschere e tute necessarie per evitare qualsiasi forma di contagio, quasi che l’azione appena passata rappresentasse un pericolo diretto per il corpo. Di colpo essi si immobilizzano, una bambina entra, si stende a terra sul ventre ed un lago di sangue si spande poco a poco attorno al suo collo, come se una mano invisibile le avesse appena tagliato la gola. Ma lei si alza, e ci abbandona ancora attoniti. I tecnici si rianimano all’improvviso per ripulire il sangue ma questa volta non si tratta di una semplice macchia o di un residuo pericoloso, si direbbe che in quest’azione tentino di esorcizzare la cattiva sorte: passano dalla sterilizzazione alla purificazione quasi rituale. Escono a loro volta, il sipario bianco si richiude ed una serie di flash successivi sopravvengono, abbagliandoci, mentre una voce soave ci ripete “dont look”, come se in questa assenza di maschera si trovasse quella della Gorgone, la testa di Medusa. Il sipario si riapre di nuovo su di un uomo seduto dietro un tavolo e che volge le spalle al pubblico, vestito di un costume bianco, i suoi capelli sono lunghi, neri e radi sulla testa. Ai suoi piedi, una mini tribù di gatti che zampettano tranquilli, dandoci per un attimo un senso di serenità. Sul tavolo del personaggio c’è del cibo, un candeliere a sette bracci, un calamaio e dei fogli antichi, elementi che ci fanno pensare alla professione di scrittore del protagonista, egli mangia, dorme, scrive. Fa eco un ritornello che viene a suggerirci che il personaggio che dorme adagiato sul tavolo incarna la figura di San Paolo, che improvvisamente si desta, si gira verso di noi per farci una linguaccia, prende delle forbici che che sono sopra il piano e si alza ponendosi di fronte al pubblico per compiere qualcosa. Con le forbici affilate si taglia il muscolo carnoso della lingua e la getta ai gatti affamati che la ingurgitano come fosse un pezzo di carne comune. San Paolo non emette un suono, sputa sangue su un disco traspar-
ente e ritorna al suo posto seduto per scrivere e dormire. Per la terza volta, una macchia, una sbavatura sulla scena. Un rumore ci sorprende e una truppa di manifestanti muti che non ripete slogan né rivendicazioni entra accompagnato da schiamazzi incomprensibili. Sono vestiti con uniformi bianche, sono quasi calvi ed hanno barba e capelli bianchi anche se è evidente che non sono degli adulti ma un gruppo di bambini che emergono dal sonno onirico del santo addormentato. Quest’ultimo si alza in piedi per rivolgersi alla piccola comitiva anche se gli è impossibile articolare la più minima parola dal momento che non ha più la lingua. Dopo aver tentato ripetutamente, invano, uno dei bambini legge la lettera che San Paolo stava scrivendo indirizzata ai Londinesi. A prima vista la seconda parte dell’Episodio non ha niente in comune con l’inizio. San Paolo è portatore di un messaggio e come il Coro anche lui si rivolge direttamente a noi spettatori, tenta di accomunarci alla rappresentazione allorché la prima parte ci immergeva in un solitudine estrema a causa di una comunicazione impossibile. La prima parte dello spettacolo è una sorta di grammatica della seconda, agisce rivelando la prima, chiarifica perché infine ci sia dato di vedere. Tutto è come una mano tesa verso lo spettatore, un puro e primordiale atto di comunicazione; l’immagine fotografica di presentazione del palmo aperto e della lettera ai Londinesi ce lo dimostra. San Paolo è un apostolo, ha visto con i suoi occhi, è portatore di una missione che è quella di fondare una comunità intorno a questa parola. Il Santo riprende la figura del profeta, la sua missione è quella di convertire nuovi fedeli infondendo una nuova religione tramite la parola; egli diventa anche il mediatore, l’anello che unisce due culture e due discorsi poiché in quanto semita si rivolge ai greci. Qui, sembra che la sua figura, sovrapposta a quella del Coro della Tragedia, tenti di creare una comunità attorno all’avvenimento che si è appena svolto nel silenzio dell’incomprensione affinché noi spettatori possiamo impossessarcene, integrarlo per dare un senso a ciò che i nostri occhi hanno appena visto. Si avvera, però che San Paolo non può più parlarci e questo non contro la sua volontà ma per sua decisione poiché egli stesso prima di intraprendere la sua azione decide di mutilarsi, di votare alla sconfitta la sua missione. Sabota la sua impresa di conversione, confessandoci prima di dare la sua lingua in pasto ai fe-
lini, che non vuole e non deve rispondere nulla dei fatti che accadranno. In seno alla Tragedia Endogonidia, quando il Coro non è assente è spogliato della sua funzione essenziale, sussiste come fosse un fantasma poiché è escluso dall’Episodio. Qui, è il Coro stesso a privarsi dei suoi mezzi di comunicazione, della sua funzione e quindi della sua forma di esistenza. Nella lettera ai Londinesi, San Paolo ci racconta l’atto che ha appena compiuto, e parla di un atto d’amore e della conversione nel diniego del suo stesso volere, sottomissione in cui si nega egli stesso per meglio servire il suo disegno. Come in P.#06 il riferimento al cristianesimo non è una semplice metafora, sono i punti fondamentali di un messaggio messianico ad essere distorti a profitto di una nuova nascita in seno alla rappresentazione. La lettera, infatti, si conclude con una frase inquietante: “aborto di donna”: questo pezzo di frase riassume la parola del Santo il cui desiderio è quello di non essere mai nato, come il Cristo che attraverso la sua volontà e il suo desiderio di morire, di negarsi nella morte, vuol rinascere per partenogenesi. Così, San Paolo raggiunge la volontà della giovane donna dell’inizio per subire alla fine la stessa sorte di quest’ultima. Si sottomette ad un’unione contro natura con un arbusto articolato, aggiogandosi alla forza insondabile del bios in un’unione letteralmente fra natura e cultura. Ed esattamente in questo momento che le bandiere inglesi si mettono a sbattere sul muro che delimita il fondo della scena, come se in nell’impossibile fusione e nel fallimento della rappresentazione, quest’ultima prendesse pienamente senso. In conclusione dell’Episodio, la donna dell’inizio ritorna vestita completamente di nero, e passa tra le mani della bambina che si porta al seguito, la stessa che avevamo visto morire e rialzarsi prima, una corda nera legata alle campane che ora le lascia suonare. Riflettiamo anche qui sulle dicotomie incontrate tra l’Episodio appena visto e suoi precedenti: come a Roma, la presenza della scimmia dinanzi a noi faceva emergere la struttura invisibile della rappresentazione, l’invito a noi rivolto e non formulato di questa donna di assistere alla sua discesa agli Inferi ci colloca di fronte ad una qualsiasi rappresentazione di forma arcaica del culto. Il culto è “ethos”, ossia ciò che da movimento e valore all’esperienza umana; qui esso non è altro che protocollo minimale, non perpetra alcuna tradizione, non rimette nessun significato, è una delle
condizioni della rappresentazione che si trasforma in un fattore aggregante. Non sappiamo quale tipo di pulsione ci porti ad entrare in una sala di teatro, forse la volontà di vedere, la smania che un qualcosa si riveli, l’intenzione di osservare ciò che non può essere visto, di affrontare il mostro come Edipo, che costituisce il movimento del nostro desiderio. Questa volontà coincide con il tempo della visione, dello sguardo fatale: sguardo che ambisce ardentemente al peggio, che spera nell’incontro con il mostro per riunirci. Il mostruoso e il terribile appartengono all’universo della rappresentazione, ne rivelano la mostruosità essenziale e testimoniano l’ambiguità etimologica del verbo “monstrare” in cui la rappresentazione è allo stesso tempo cattivo presagio e flagello insostenibile che si offre alla visione. Torniamo al discorso del “luogo”, come religioso stare di aggregazione ma vuoto di qualsiasi presenza umana e divina, un luogo abbandonato, inabitato, semplice architettura. Ma riflettiamo su come ciò che risulta non appare dinanzi a me, quello che cerco non è contenuto in ciò che si sta svolgendo sulla scena, ma sono la mia presenza e la mia visione di spettatore che finiscono per creare qualcosa d’indipendente che ha una propria vita. L’Episodio non si regge da solo, ha bisogno della mia presenza per esistere, così come la chiesa (paragone di prima) non è altro che un’architettura vuota se non è abitata dalla presenza reciproca dei fedeli e dell’autorità divina. Lo svolgimento non si indirizza a me ma da questa condizione qualcosa in me si forma. E’ in questo senso che la rappresentazione tragica crea una visione che sdoppia, ripro- duce ma produce allo stesso tempo la struttura della mia intimità contenuta dentro queste forme di comunicazione che sono la rappresentazione e il linguaggio. Un’altro pensiero lo rivolgiamo a quello che palesemente abbiamo assistito come uno spettacolo di burlesque (l’arbusto che mima un atto sessuale con un uomo), ma già dall’inizio della Tragedia c’è uno spirito da burlesque, che andava di pari passo con l’azione tragica e qualche volta compariva prima di essa sulla scena, versando sangue finto con esibizione di pathos. Ciò che era chiaramente percepibile a Cesena nel primo Episodio al momento dell’ingresso del vecchio araldo vestito di carta che sbraitava un elaborata comunicazione sconclusionata. Ad Avignone un clown malevolo irrompeva in teatro a metà dell’Episodio attraversava un’alta finestra e procedeva a pulire il pavimento con un secchio di fegato
di vitello. A Berlino il lento terrore raggelante di una madre che ha ucciso il suo figlio, era interrotto da tre giovani donne in bikini da Barbarella, che mimavano una ventina di secondi di softporno, prima di concentrarsi di nuovo sull’amministrazione del dolore. A Bergen colpivano le solennità di quella che sembrava una meditazione teatrale sull’invecchiare attraverso un rituale di iniziazione per arrivare oltre il regno delle immagini: nello specifico una preparazione per uscire dalla caverna platonica. A un certo punto una delle donne presenti si metteva a carponi con una pelle sulla schiena, parodiando al canzone del capro (tragos) che si pensa fosse all’origine della tragedia. L’immagine veniva ripetuta a Parigi dalle comparse di una truppa di poliziotti del cinema muto che imitavano lo schermo baluginante, agitandosi e gesticolando di fronte a una finta macchina da presa-proiettore, come se si trattasse di beffeggiare la tragedia stessa. Dopo tutto questo viene il dominio dell’episodio di Roma, che teatralizza in modo autocosciente il clero cattolico romano, allegoria con la chiesa stessa, dominata a sua volta da un Arlecchino elegante che è salito di grado dalle sue origini nella popolare commedia dell’arte. Esso ha a che fare tanto con la rivelazione dell’illusione (come se ci fosse sempre e comunque qualcosa da “dichiarare” in questo caso) che con il riconoscimento di un potere delle immagini.
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L'azione di questo decimo episodio si svolge in due spazio-tempi distinti, è in forma di dittico ed i due quadri che lo compongono si realizzano in due teatri vicini nella città francese di Marsiglia. Comincio arbitrariamente dal Thèatre des Bernardines dove l'azione comincia nella penombra, non si distingue molto dal momento che la scena è interamente nera. Ci troviamo, verosimilmente, all'interno di una casa borghese del XIX secolo, in un interno spoglio che sembra essere una sala da pranzo con un tavolo sul quale sono disposti dei candelabri con sedie tutt'intorno. Un uomo vestito in abito nero della stessa epoca entra, arriva dall'esterno perché mentre ci appare sfila l'elegante cappello ed i guanti; in quest'istante, una sagoma femminile vestita anch'essa di nero si stacca dalla parte di fondo e raggiunge l'uomo. Lui comincia a parlarle, intraprendendo un dialogo a proposito dell'acqua, che di lì a poco verrebbe a mancare se l'uomo non riuscisse a trovare una corda sufficientemente lunga da attingerla da un pozzo. Il dialogo, in un primo momento, sembrerebbe coerente, ma la scena ed il contenuto dello stesso divengono repentinamente surreali quando la donna deve compiere l'azione di tagliare le unghie dei piedi dell'uomo servendosi di tenaglia e lima, quando le sue estremità hanno un che di animalesco e non umano, tanto più che la tenuta composta dal grembiule rigido e dai grossi guanti e degli strumenti di cui la donna si serve fanno pensare a quelli di un mastro ferraio. I due personaggi parlano tra di loro, cosa che fino ad ora non si era mai prodotta nella Tragedia Endogonidia, siamo dinanzi all'entrata in scena o al ritorno del linguaggio. Ciò introduce una forma di narrazione e di comunicazione che fino a questo punto si era svolta sotto il segno della non-comunicazione, dell'impossibilità del dialogo e dell'esclusione del Coro; una tragedia in cui l'azione si concentrava attorno alla solitudine silenziosa e muta dell'eroe. Nonostante ciò e malgrado l'interpretazione degli attori, questo scambio di parole si rivela incoerente e si delinea un'altra figura emblematica che si evince dalla piccola storia del pozzo in questione. I due protagonisti discutono della vita e dell'acqua come se quest'ultima celasse il segreto di tutte le possibilità: se ne parla come di una divinità pericolosa. L'acqua potrebbe giocare il ruolo di specchio, quella di una superficie liscia che mi rinvia la mia stessa immagine, ma
essa è anche, e allo stesso tempo, profondità e abisso nel quale annegare. Ambivalenza dell'acqua, come nel mito di Narciso in cui il riflesso conduce alla morte, in cui la finzione diventa pericolosa tanto quanto il reale. Il simbolismo dell'acqua è ancestrale e universale, si tratta di una potenza di vita e di morte polimorfa, neutra, maschile e femminile. Le acque raffigurano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme e nella quale esse ritornano, a causa di una regressione o di un cataclisma. -"Le acque furono agli esordi e ritornano all'epilogo di ogni ciclo storico o cosmico, esse esisteranno sempre (...) nella cosmogonia, nel mito, nel rituale, nell'iconografia, le Acque ricoprono la stessa funzione qualunque sia la struttura dei nuclei culturali nei quali si trovano: esse precedono ogni forma e supportano ogni creazione. L'immersione nell'acqua allude ad un regresso pre-formale, la rigenerazione totale, la nuova nascita, poiché un'immersione equivale ad una sparizione di forme, ad una reintegrazione nel mondo indifferenziato della preesistenza. (...) Su un piano umano l'immersione ha lo stesso valore della morte, su un piano cosmico equivale alla catastrofe (diluvio) che periodicamente dissolve il mondo, disintegrando ogni forma e abolendo ogni storia, le acque hanno le stesse virtù di purificazione, di rigenerazione e di rinascenza; ciò che è immerso in essa "muore" e, risollevandosi dalle acque, diventa simile ad un fanciullo senza peccato e senza "storia", capace di ricevere una nuova rivelazione e di cominciare una vita "propria". (...) Il loro destino è di precedere la creazione e di riassorbirla, non potendo mai andare al di là delle loro modalità, cioè non potendo mai manifestarsi in forme. Tutto ciò che è forma, si manifesta al di sopra delle Acque, distaccandosi dalle Acque. In cambio, cessando di essere virtuale ogni "forma" viene asservita alla legge del tempo e della vista; acquista i propri limiti, conosce la storia (...) Le purificazioni, le decontaminazioni rituali fatte con l'acqua hanno lo scopo l'attualizzazione folgorante di "quel tempo", in illo tempore, in cui ebbe luogo la creazione." (cit. da Mircea Eliade, Le Acque ed il simbolismo acquatico, Payot 1949) Quello che si percepisce da questa lunga citazione è che il simbolismo dell'acqua è universale e senza volto, senza immagine, paradossalmente si tratta di un simbolo polimorfo. L'acqua è talvolta anche uomo, donna, mostro, animale ciò che essa racchiude o incarna, si sottrae sempre ad un senso o ad una determinazione, in quanto evoca
il non-formato, quel mondo inaccessibile della coscienza, ab origine, essa è il volto della Vita in tutto ciò che essa ha di inumano e inconcepibile. Questo Episodio della Tragedia si colloca sotto il segno dell'acqua che non ha forma, ma che contiene ogni forma come la successione di visioni che si alternano sulla scena, immagini che sono la variazione o la trasformazione di una sola immagine, non identificabile. Ci si occupa dei piedi di un uomo come fossero gli zoccoli di una cavallo, cavallo che poco più tardi appare in scena e che viene lavato con il latte ed al quale, segue, una giovane donna vestita di bianco e senza volto. Non soltanto l'eroe di questa tragedia non ha più né volto né nome, ma ora non ha neanche più una forma, non ha più un corpo proprio, è diventato totalmente inumano. E' a questo punto che ci si accorge di come la Tragedia non sia una nuova forma di tragedia, il suo nuovo volto, poiché essa non punta alla forma e allo stile, ma alla dissoluzione di tutte le forme in un'identificazione profonda con la Vita. Nella Tragedia Endogonidia vi è sempre qualcosa che nega la forma stessa del dramma e l'idea stessa del tragico (in ogni Episodio vi è sempre un elemento che incarna la sua negazione). Una negazione che non è dell'ordine del giudizio, ma qualcosa che è estraneo all'universo tragico della rappresentazione. A Parigi era la figura del Cristo nato dall'Immacolata Concezione, morto e resuscitato, che sfidava quella della Sfinge. Vi è anche la solita idea della partenogenesi che dà vita e movimento a questo ciclo, ed infine la figura ricorrente della donna. Se la tragedia attica gira attorno alla figura dell'uomo, e questo poiché lo rappresenta, lo situa, gli offre la possibilità di darsi un nome e di comunicare con sé stesso; l'uomo vista la visione tragica dell'esistenza, si trova nell'impossibilità di morire, è votato alla sofferenza ed all'erranza infinita, nella passione della sua propria esistenza, condannato a vivere prigioniero nel suo corpo. Capiamo ora perché l'uomo e la donna che inaugurano questo Episodio parlano di pericolo di vita piuttosto che di pericolo di morte. Soltanto le donne muoiono, gli uomini invece, ne sono impossibilitati: l'immagine femminile rinvia all'universo della morte e anche a quello che precede la nascita, proprio come l'acqua. Il feto è immerso nel liquido uterino, il suo corpo non si differenzia da quello della madre finché non ne è uscito. La Tragedia è simile alla figura dell'acqua, essa ci immerge in uno stato prenatale, con essa abbandoniamo l'elemento della rappre-
sentazione; nel suo ambito le forme si dissolvono, il mondo e la storia si annientano, luogo che permette allo stesso tempo la riproduzione di un mondo nuovo. Prima di passare al successivo ragionamento, ritorniamo a ciò che succede in scena: l'uomo e la donna di mettono a tavola, vengono raggiunti da altri personaggi vestiti nello stesso modo che entrano nel silenzio e nella penombra. Questi camminano in lungo e in largo come ombre (cosa che ricorda il Coro presente nell'Episodio di Strasburgo), poi assumono delle posture come di pietà sotto la luce nel proscenio. In seguito vanno a sedersi per cenare e chiacchierare a tavola e al buio mentre fra i due primi personaggi il dialogo riprende. Questo Coro ambiguo non ci dice nulla, non aggiunge nulla, al contrario, il dialogo precedente viene destrutturato a tal punto da perdere ogni senso per divenire respiro, corpo. Infine, il Coro sparecchia la tavola per stendere dinanzi a noi una tenda nera e disporre delle sedie fra gli spettatori. Gli uomini prendono posto sulle sedie, la tenda-sipario si chiude per poi riaprisi e mostrarci uno splendido stallone nero. Un uomo che indossa una maschera che filtra l'aria bagna il cavallo con litri e litri di latte, quasi nell'intento di sbiancare o fecondare l'animale. Il latte scivola sul corpo della bestia ricadendo al suolo e formando un perfetto disco bianco. La tenda nera si chiude e si riapre ancora su una scala bianca che sale fino al cielo partendo dal disco di latte. Di nuovo, il sipario si chiude e si apre sulla giovane donna dell'Episodio londinese, vestita di bianco con il volto dipinto di nero. Un filo chiaro è teso sulla scena; la donna si distende al suolo, divarica verso di noi e il pubblico maschile le gambe tenendo il filo bianco tra le dita dei piedi. Siamo passati dal parlare a vedere, il gesto della donna ricorda quello di Baubo, demone femmina della tradizione orfica. In Grecia l'esibizione della vulva è un cattivo presagio ed ha il valore di un maleficio (poi questa ragazza viene bendata da un gruppo di donne che la soccorrono quasi si trattasse di un oracolo), rappresenta l'insostenibile che si presenta alla vista. Divenire donna, qui, rappresenta diventare mostro; lei si spoglia, si piega sul disco di latte come per abbeverarsi e supplica il cielo. All'istante le donne che si erano dileguate dalla scena tornano per legarle con numerose cinghie di cuoio. Gli uomini risalgono sulla scena per compiere un servizio fotografico al fianco della femmina avvinta dalle cinghie, come fosse un trofeo di caccia o un animale da fiera.
Tra un flash e l'altro essa ci racconta di soggetti che nella natura sono mutevoli e che lei ama fotografare: nuvole, il fuoco, il mare. Parla di fughe notturne in mare mentre sulla scena discendono dei parabrezza per poi esplodere contemporaneamente all'ennesimo scatto fotografico. Il fotografo si allontana e i muri di scena si denudano in un ambiente di musica abissale per fare apparire dalle pareti delle strisce bianche e nere. La scena è deserta, non c'è più nessuno sul palco, le luci si abbassano progressivamente e pertanto che è come se in quest'istante la scena prendesse vita da sola, una vita che fino ad ora era assente. E’ grazie alla capacità e performance degli attori, al montaggio, che noi eravamo in balia del gioco dell'arte a contato con l'universo teatrale ed i suoi codici. Bisogna at- tendere il finale che avviene dopo la conclusione di questo spettacolo, perché sorga un'impressione di vitalità nera ed animale che oltrepassa il dominio dell'arte. Il finale prefigura il secondo atto di questo dittico che avrà luogo al Teatre du Gymnase. Le due parti dell'episodio sono disposte in modo da poter essere viste nella stessa sera in entrambe le sequenze. Al Gymnase c'è una debole proiezione di luce bianca su un sipario nero; il sipario si apre su uno schermo che riempie il proscenio. Gli angoli della cornice nera sono arrotolati come un'antica stampa fotografica; nella profondità dello schermo è possibile parlare di una superficie vera e propria in termini di profondità, un raggio isolato di luce si muove come una sonda. Grigio su grigio, i toni acuti sono stati sostituiti da note più basse che tirano fuori con violenza un'intenzione, che ora si increspa come un tessuto d'acqua. In scena una vasta forma rettangolare, una densità d'ombre compresse in una lastra che si apre, spaccata in due, da un raggio di luce che penetra a forze tra due nuclei: uno ascendente e l'altro discendente. Una lieve striscia di arancione rosato si spande nell'immagine: è il primo accenno di colore, mentre una massa rettangolare galleggia verso l'alto come una forma particolare di materia dotata di angoli. Il movimento ascensionale è poi bloccato da uno laterale che immette una striscia nella scena: rosso puro. Ecco il colore, come un evento che si manifesta, è ancora costretto alla mutazione dalla lenta danza di lastre, pieghe, di strati e blocchi, sostituendo ombre e forme una dopo l'altra, blu, gialli, viola, che setacciano attraverso le loro sfumature, come una cosa che si sveglia. Il suono che distinguiamo appartiene a scatti e
scoppi di qualcosa che si espande dall'interno verso l'esterno. Appare poi, una vasca di vetro, sospesa nell'alto dell'immagine piena d'acqua, che ribolle come una macchina per lo sviluppo. Subito dopo cadono fiocchi bianchi senza identità che ognuno può immaginare come carta, neve, piume accompagnati da un fitto vociare di chiacchiere. Queste figure, comunque, sono di breve durata come le altre: le cose perpetuamente scompaiono e mutano, come se ogni potenzialità dovesse essere disfatta dalla sua non-potenzialità, ovvero dalla sua potenzialità di non essere. Anche se lo spettacolo al Gymnase sembra qualcosa di diverso, con delle sonorità e l'aspetto del cinema, quel puro barlume di finzione svela il gioco. Questa specie di spaesamento della vista è dato comunque da ciò che accade dopo, quando una donna velata vestita di nero sale sul palcoscenico, ci dà la schiena e guarda lo schermo. Come se, di nuovo (i sipari e le garze precedenti), dovesse esserci qualcuno tra noi e l'immagine: la donna comincia a cantare una squisita musica penitenziale. L'immagine dietro di lei sembra rispondere, i colori ondeggiano come se si trattasse di un essere che è stato risvegliato dal suo sonno, la "cosa" si lamenta da dentro lo schermo come se cercasse di parlare. La donna alza il velo e unisce i due lati del sipario, lasciando solo un piccolo spazio, un'alta colonna di luce. Fuori dall'immagine una specie di voce continua a bronto- lare, ma la cantante canta, alzando il braccio, esponendo per un momento il polso e la mano candida, il solo "colore" rimasto in scena. La rappresentazione non rappresenta concretamente più nulla, non ci troviamo più in seno all'elemento tragico poiché la scena è deserta (escludendo la cantante), tutto è una specie di potenzialità, nessuna forma si distacca dal fondo, nessuna insorge. Se il cuore della tragedia è la visione, la creazione di una visione, non si tratta di un punto di vista ma di un faccia a faccia con la vita. Tutto esplode affinché si apra un nuovo mondo ancora e sempre a venire, il non-formato che contenga tutte le possibilità: che generi una potenza in fuga, uno slancio vitale pieno di forza, di promesse e positività. Vediamo come la donna e il cavallo della prima parte sembrino partecipare alla logica del sacrificio, questa apparizione non può fare a meno di ricordarci le scene più o meno esplicite in cui l'animale compariva recando un cartello scritto a vernice bianca nel "Giulio Cesare" e anche quello incappucciato il cui sperma veniva raccolto in una specie di av-
ventura di fecondazione in vitro durante "Il combattimento". Entrambi i casi c'è una figura umana: nel primo il cavallo resta in scena finché si rivela che è la figura di Cesare, e non lui, che sarà sacrificato; nell'altro il liquido seminale è esplicitamente parte di un progetto di riproduzione umana. La relazione è ulteriormente cementata quando, nell'episodio di Bergen, lo stesso sonoro di mosche ronzanti e animali da fattoria usato durante il sacrificio del condottiero torna quando versano vernice rossa sulla testa della bambina che sta guardando il film di Rorschach.
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La memoria video di quest’ultimo Episodio inizia con la registrazione di un ingrandimento a microscopio di sprema maschile, con i milioni di spermatozoi che si agitano sotto i nostri occhi ed il suono che si ode è quello del belare di un Capro. “Visitiamo” la scena teatrale, il rumore della pioggia battente sui vetri di una cameretta di bambino stile anni ‘40, innocente lui se ne sta a leggere seduto sl letto mentre il temporale scuote. La Madre entra bacia il figlio si ritira per fare posto ad una inserviente di colore (la stessa che puliva il pavimento in BR.#04) che anche lei si avvicina al letto, sistema le coperte e poi si accascia sulla vecchia poltrona di pelle a lato. Gli occhi sbarrati, irreali. La musica è quella prorompente e gloriosa di un canto ecclesiastico celebrativo, ma non sappiamo cosa realmente si celebri; visto che la stanza ora è vuota e riceve la visita di numerosi personaggi dall’aria austera in giacca e cappello. Inframezzi drammatici ci tengono sospesi in ansia, una ripresa amatoriale in un bosco di notte, un bambino, forse lo stesso, anzi ne siamo certi, si è perduto e se udiamo il lamento mentre una figura con un soprabito scuro che colpisce con violenza qualcosa che è accasciato a terra. Speriamo non sia lui, lo speriamo con tutto il cuore. Nella stanza un uomo si denuda lentamente per venire cosparso di biacca bianca, è in ginocchio come in pentimento mentre gli altri uomini attorno hanno visi affranti e disperati. Vicino a lui il posteriore di un cavallo bianco. La scena è immobile. Ma il bambino che avevamo lasciato nel bosco è disperato, è morto. Ucciso. Cambia la scena, il sipario si abbassa parzialmente mostrandoci solo le gambe degli attori, le scarpe ne denotano il sesso, e il soffitto. Una voce maschile intima di portare subito qui la Madre, che trascinata dentro a forza implora di lasciarla dicendo che non sa dove il bambino sia scappato. Gli accusatori hanno un chiaro accento tedesco, che secondo la voce, stanno cercando il Seme. Quello dell’inizio a noi mostrato. La scena si conclude con la visione della gambe della Madre nelle ali scendono due sottili rivoli di sangue. Essa non potrà più compierà la sua funzione di creatura generatrice. Siamo arrivati troppo tardi, per entrambi. Così si conclude la Tragedia Endogonidia, eterno organismo in stato di fuga che ritorna a quella che era la sua partenza, come la nascita e la morte.
INFERNO,PURGATORIO,PARADISO Trilogia liberamente ispirata alla Divina Commedia di Dante Alighieri Romeo Castellucci ci rilascia alcune considerazioni prima di intraprendere la visione del suo ultimo lavoro "Inferno Purgatorio Paradiso", ci vuol specificare come il teatro che la compagnia cerca e pratica non è mai una lettura o un commento al pre-esistente, si cercano delle linee di forza a partire dalla materia, e con questa si cerca di muovere la leva delle emozioni attraverso delle immagini che sottraggono materia dal tempo e dallo spazio. Non sono immagini create dal nulla. Tutto il possibile può prendere copro e dare tutta la libertà nella forma sensibile dell'errore cioè "che la diritta via era smarrita". Ma l'errore trova la sua forza in un rapporto al vincolo della legge che trova, di un limite universalmente riconosciuto. La forza senza legge non ha forma ma solo intensità e durata. Il limite ora è, per Romeo Castellucci e la Socìetas Raffaello Sanzio, la Divina Commedia. Il viaggio comincia con l'idea del peccato dell'artista, la selva oscura. Ma da questo principio è naturale porsi alcune domande tipo quale sarebbe il peccato o la caduta dell'artista? La sua opera? Oppure il fare un'opera significa perdersi nell'oscurità, magari producendo oscurità? Una serie di domande che ci portano al punto che non trova alcuna giustificazione, ed è esattamente è il punto di partenza di ogni opera d'arte: non c’è alcun motivo. Castellucci trova assoluta la necessità di affondare nel dominio di queste parole oggi: Inferno - Purgatorio - Paradiso. E il porsi delle domande su cosa vogliono dire nella quotidianità giornaliera. "Dov'è il l'Inferno? E cosa è il Purgatorio alle quattro del pomeriggio di una domenica qualsiasi? E il Purgatorio nella stanza di ogni minuto?" Noi che siamo spettatori nel ruolo politico e religioso che oggi caratterizza la nostra esistenza: l'essere spettatori tutto il giorno, come fosse già una condanna infernale. L'incontro diretto tra Castellucci e lo stesso Dante fa si che si attui quel transito necessario all'abbandono del capolavoro della Divina Commedia da una rappresentazione fedele e documentaristica, attualizzata delle Cantiche. L'azione possibile è scom- porre le linee di forza dell'opera per ricostruirle nello spazio di una creazione che si espone al rischio del ridicolo. Si delinea un luogo dove agens e auctor si specchiano nell'io, creando continue crisi tra l'occhio e lo sguardo: chi è il visto? E chi è il vedente? Come all'inizio di un viaggio aperto sull'ignoto, ci si allontana
dall'oggetto amato per rientrare in uno spazio sconosciuto osservabile, nello stesso momento, come con microscopio e telescopio; questa l'esatta azione compiuta da Castellucci. La creazione di tre punti di vista (corrispondenti alle tre cantiche) e tre angolature diverse dello stesso oggetto: l'immagine nel suo rapporto con la violenza e la verità, con la rappresentazione possibile e quella impossibile. L'Inferno è il luogo dell'affetto che intacca il monumento del dolore, il Purgatorio è l'assetto normalizzato e normalizzante della realtà colta in un intervallo psichico, il Paradiso è la condizione della visione che porta il segno di una contemplazione muta. La Divina Commedia giunge nelle mani di Romeo Castellucci dopo l'ampia analisi della psicologia del tragico nella Tragedia Endogonidia, il ciclo drammatico della Socìetas ispirato al modello greco da me visionato nei precedenti capitoli. Con la messa in scena della Divina Commedia, si compie così il circolo dell'orizzonte teatrale e umano. L'uomo europeo è un uomo che conosce il disorientamento e lo fronteggia, ma ciò non lo scioglie da una debolezza del dire e dell'afferrare una volta per tutte il significato delle cose e dei sentimenti. I n f e r n o Il suo debutto avviene nell'immenso palcoscenico all'aperto della Cour d'Honneur del Palazzo dei Papi di Avignone, proprio la sede di Clemente IV, il primo papa francese a cui Dante si riferisce nell'Inferno. Il disorientamento degli individui delle masse, e la frammentazione delle azioni volute dalla messa in scena, provengono dal fatto che Dante si trova a perdersi nel buio sino a che Virgilio, anziché condurlo fuori dalla selva seguendo lo spiraglio di luce, lo spinge a fare il percorso inverso entrando nelle tenebre. E' l'Inferno e l'esperienza dell'arte. Il terrore comincia ad impadronirsi dell'artefice stesso della commedia che viene assalito dai fantasmi della poesia che lo azzannano come cani (Romeo Castellucci con i cani pastore). Lo smarrimento di Dante aumenta con la moltiplicazione di visioni che gli scorrono davanti e con l'udire di numerose parole incompressibili, tutto è spezzato e non ricomponibile. La caduta è un'altra ricorrenza dell'Inferno e testimonia una spossatezza generale dell'essere vivente, una fatica d'esistere; l'essere proni sulla terra è la nuova posizione dell'uomo:
il suo orizzonte è schiacciato. La pena e la solitudine dominano una condizione di tristezza manifestata soprattutto nell'Antipurgatorio, dove deambulano gli ignavi, che nessuno vuole nemmeno l'Inferno, ed i non battezzati nel limbo. Queste persone scontano una pena senza averne colpa, e tale esercizio istituisce un parallelo con la vita umana, scaturita senza la propria volontà. Nell'Inferno si profila un grande ritratto delle gente e la città è il cono dentro il quale si rovescia l'io che incontra un noi, e che trasforma le città in verginali e gli incidenti stradali in figure dall'aderenza assoluta tra sé stessi e il proprio io, continuamente minacciata dalla poesia che assilla l'immagine nel suo fondo filologico, allegorico e figurale. L'ultima referenza riconoscibile sembra non essere più presente nella commedia, ma nella posizione dell'artista di fronte all'opera, cosa creata umana e non divina (opere e personificazione di Andy Warhol). Dante è l'artista, che ha percorso in carne e ossa quel cammino e ne ha fatto esperienza; in principio è, allora, il disorientamento come qualcosa di involontario e di subìto, di cui lo stesso autore è costretto ad accettare la condizione di soggezione a cui però desidera dare un senso. Ma la possibilità di uscita da questo stato di turbamento si dà solo perdendosi nella selva e proseguire nel buio. Oltre l'anima viaggiatrice vediamo come la folla sia singolarità senza volto che definiscono una entità complessa che guarda ed è guardata. Punti di fusione e coaguli visivi fanno sì che INFERNO si scriva direttamente sul palcoscenico a chiare lettere fatte di neon, si compone una materia segnaletica che avverte dell'azzardo che si sta andando a compiere. Il bilico insicuro tra una pratica negativa di semiotica estetizzante del gesto artistico e il suo movimento tautologico. L'inferno è proprio qui, nel possedere un linguaggio e contemporaneamente nel rivestirlo di un sospetto, si profila una descrizione dell'affezione, si raccolgono frammenti di relazioni umane che vivono nella forza della loro oggettività: abbracci, baci, strette di mano, carezze e vicinanze. Ogni corpo che vediamo deborda della propria singolarità anonima, affonda nell'ombra o ne esce, ed esprime il rapporto di se stesso con gli altri corpi tutti percossi da una necessità della carne. Mentre lo spettatore si considera esterno alla visione, libero di guardare tutto l'accadere da una distanza rassicurante, viene inchiodato al fatto che l'intero mistero dello spettacolo è messo in scena per avvolgere il suo stesso sguardo.
L'Inferno sfugge alla nostra comprensione ma ci convince del suo potenziale di senso, cosicché a noi ci appare come un indeterminato tessuto esperienziale, percorso da storie, eventi e dati reali; un tracciato di cose e vibrazioni che ci ricorda come si è di fronte ad una rappresentazione fatta apposta per noi. P u r g a t o r i o Solo il Purgatorio è scritto da Dante nei limiti della durata temporale, a differenza delle altre due Cantiche, perché il purgatorio è la sezione oltremondana più simile all'esistenza terrena: è il doppio della terra, la ripetizione della vita umana conosciuta e vissuta nelle realtà quotidiane e familiari. L'ambiente dominante è ancora quello della città, non più percorsa da masse indistinte e vischiose, ma ordinata e progettata a far funzionare ogni suo elemento nell'anonimato, nella solitudine definitiva degli uomini. Si vedranno persone sole, colte di spalle o mentre escono di scena. Il Purgatorio raccoglie anime che attendono senza fare nulla, finché non si staglia un episodio di violenza familiare che si insinua nella normalità introducendo un'altra dimensione della violenza: quella dell'illusione. Il realismo della scena compete con quello del sogno, così da iniettare il dubbio se ciò che si vede sia vero e così da confondere la coscienza. L'inganno tra realtà e immaginazione è l'ultima frontiera della verità, qui attuata in una sequenza di stanze che si affacciano una sull'altra con la comparsa fantasmatica dei personaggi fino a poco presenti sulla scena. La percezione della realtà è asfissiata dalla quantità delle forme, la memoria deve comprimere una molteplicità insopportabile di presenze invivibili finché gli oggetti della stanza sono, solo apparentemente tranquilli, sono scaraventati contro le pareti, segno che tutta la realtà può esplodere da un momento all'altro, non importa se in modo reale o nelle pareti della mente. Se l'Inferno pullula di corpi, nel Purgatorio si assiste a una crescente essenzializzazione corporale, che porterà alla disincarnazione del Paradiso. L'essenza delle immagini purgatoriali consiste per prima cosa nella rappresentazione riproduttiva che pone immediati vincoli visivi, atmosferici e sentimentali con l'esistente, ambienti e situazioni della vita conosciuta, colta da quotidianità e familiarità. Vediamo l'interno di un ampio salone con mobilia anni '70, e sullo sfondo un corridoio che conduce alle stanze del piano terra e uno che porta al piano superiore. In questi spazi si aggi-
rano i membri riconoscibili di un ristretto nucleo familiare (madre, padre, figlio). Nello svolgimento della solita routine, si compie quello che dicevamo prima un episodio di violenza domestica. L'atto è precluso dallo sguardo degli spettatori che ne avvertono solo i terrificanti rumori; da qui il fuoco sulla dimensione quotidiana si dilata in quadri d'inquietudine e nella normalità si insinua con un sinistro mimetismo, un'altra dimensione della violenza: quella dell'illusione. In un sistema di sostituzioni, insieme ad un dispositivo di slittamenti il realismo della scena, che lentamente raggiunge risonanze psico-oniriche. ciò che sta dietro compare davanti e viceversa, si elude al discorso senza rinunciare alla cosa accaduta. L'inganno tra realtà e immaginazione diventa l'ultima frontiera della realtà. Lo spettatore è impossibilitato ad orientarsi, in lui si insinua il dubbio sull'attendibilità di ciò che ha visto. Ma poi, improvvisamente, sulla scena campeggiano macchie di colori, come allusioni a organi sessuali, corolle floreali, stami vistosamente ingigantiti, e ciuffi di canne lacustri contrapposte a quello che la simbologia vuole che sia la dimensione spirituale libera dal peccato. In Purgatorio si assiste ad una dislocazione: la sensazione di essere in una zona d'attesa, un intervallo, tra essere e non essere, tra pensiero e linguaggio, un regno dell'allucinazione e dell'inconscio forzatamente brandito nel pieno della sua presunta narrabilità. P a r a d i s o La messa in scena del Paradiso esprime l'innologia al Creatore attraverso l'arresto dell'attività creativa. Tutto è bloccato, in onore di una gloria che sbaraglia qualsiasi azione soggettiva, per cui soprattutto l'artista è del tutto fuori luogo, non essendovi lo spazio per fare niente che ripetere l'esaltazione di ciò che è già manifesto ed esistente. Lo spazio all'interno della Eglise des Célestins (per la rappresentazione in Francia) è abbandonato al suo slancio verticale. Una luce meridiana attraversa le vetrate e gli spettatori sono accolti dal silenzio. Dante, nel regno dell'alto lume, fa esperienza del potere ascensionale della luce fino alla totale materializzazione da parte di essa dei beati. Estenuata la materia corporea, esasperata fino alla divisione in differenti figurazioni (ghirlande, croce, aquila, scala, fiume, rosa), Dante arriva, attraverso la progressione per grado di contemplazione al convento delle bianche stole, delle anime volanti e infine all'Empireo, sede di Dio.
Il Paradiso di Castellucci si colloca sul bordo catastrofico dell'inno al Creatore di cui è pervasa la cantica dantesca, nel punto dove bisogna interrompere l'attività creativa (in questo caso ad opera dell'artista) per proclamare la gloria di Dio. Il Paradiso ci mette di fronte allo sguardo impossibile della cosa e quindi della visione dell'irraccontabile di ciò che sta al di là della parete del simbolico; ponendo il problema dell'irrappresentabile, il Paradiso genera lo sguardo che presuppone la distanza tra chi guarda e chi è guardato che è linea i forza che conduce tutte e tre le rappresentazioni. Le due grandi figure presenti in questo luogo, quindi, sono il potere accecante della gloria e la catastrofe. Riferita, quest'ultima, alla concezione aristotelica di ribaltamento e rovesciamento, come punto critico della tragedia, passaggio da uno stato all'altro, stato di conflitto, di pieni e vuoti che invece per la scienza costituiscono la genesi del mondo.
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Il titolo “corpo dell’immagine” esprime quello che più colpisce nella visione dell’opera della Raffaello Sanzio, cioè la crezione- nascita di immagini con un forte impatto visivo. Il mio intento è quello di ricercare e riflettere sui metodi che presiedono alla loro genesi. Il senso che voglio dare alla figura non è il soggetto (cogitans) ma il suo corpo esposto (extensa), mi spiego meglio: là dove il corpo-soggetto è in rapporto a sé, il corpo-figura è sempre in rapporto all'altro da sé, e cioè all'esposto, un corpo esposto sulla scena e quindi localizzato. Da ciò deriva un pensiero del corpo-figura che ruota principalmente attorno ai tre aggettivi che la qualificano: singolare, qualunque ed esposta. Li spiego uno ad uno. Singolare: la figura è unica ma ancora non ha un nome, mantiene per noi spettatori lo statuto dell'enigma, di ciò che continuamente sfugge ma anche apre al senso. Qualunque: ogni figura singolare è anche intercambiabile. Il suo aver luogo può essere sempre un “aver luogo” al posto di un’altra. La localizzazione della figura non è che il superamento di un'altra figura in quello stesso spazio. La singolarità qualunque non ha identità, essa è determinata solo attraverso la sua relazione ad un’idea, cioè alla totalità delle sue possibilità. Esposta: quel che è esposto sulla scena è la venuta in presenza della figura come determinazione di uno spazio. Alla figura esposta non preesiste nulla di interno (un sé) che viene portato fuori, che viene svelato o mostrato; tutto il senso dell'esposizione sta nel fatto che è localizzata qui e ora (ad esempio le anoressiche o il laringectomizzato nel Giulio Cesare). Localizzare la figura inscritta nello spazio della scena significa comprenderla in rapporto alle altre figure, il che comprende anche la scenografia e tutti gli oggetti che la circondano. La logica della figura sulla scena è una logica del limite. Nell'esposizione la figura principale tocca sempre il proprio confine, ma lo tocca grazie allo spazio in comune con altre figure, a cui partecipa solo in POTENZA, come possibilità. Questo rende innominabili le figure. Esposte le une alle altre esse si danno come immagine, contesto. In questo senso lo spazio della scena è uno spazio in divenire; lo è per il semplice fatto che non preesiste alle figure ma è disegnato e configurato ogni volta dalla loro dislocazione e dalla loro esposizione reciproca. La sua densità esposta definisce
l'intensità della scena, la sua qualità (quando non sono le figure ad essere letteralmente in azione nello spazio, esso subisce un ripiegamento, un riassorbimento, ma è lo spazio che è nelle figure, come nel caso del neonato nell'episodio BR.#04). Se queste sono le qualità che delineano l'esistenza della figura sulla scena, il passo successivo conduce verso l’indagine su quale sia la dimensione spazio-temporale che rende possibile tutto ciò. La maggior parte degli spettacoli, soprattutto i più datati, mantengono una loro linearità cronologica in quanto "racconti di una storia". Essi hanno un inizio, uno svolgimento e una fine ben chiari (come nel caso delle trame riprese dagli scritti di William Shakespeare, il Giulio Cesare, ma anche il Masoch e l'Amleto), mentre invece la caratteristica principale della Tragedia Endogonidia è proprio quella di creare uno spaesamento, con tagli netti tra le scene che rompono la linearità temporale. Un esempio chiaro di questo principio metodologico è presente nell’episodio BR.#04, dove i tempi si succedono e i "fra-tempo" si sovrappongono, creando modulazioni dove la figura esprime al meglio la sua condizione simbolica di “possibile”, amplificata da questo “evento-luogo” nella sua forza visiva. La discontinuità, nel tempo del corpo-figura esposto, è la condizione che produce il cortocircuito in cui la percezione della presenza si dà come a-reale o ir-reale; da un lato sfoca i contorni di ogni possibile apparire, dall'altro ne dissemina gli elementi compositivi. La figura fa parte dall'immagine scenica solo a patto di installare nel contesto del suo apparire un movimento di resistenza alla fissità dell'immagine stessa, un complesso di relazioni che coinvolga anche lo sguardo dello spettatore ad una funzione generativa. Uno sguardo, quindi, abbagliato non dall'immagine nuda e cruda, ma dalla sua aura che, come ci ricorda Benjamin, “non è altro che una trama singolare di spazio e di tempo. Qualcosa che al contempo apre e tiene, trattiene la pluralità dei tratti di cui un'immagine è costituita, ma nel contempo ne apre un varco nella sua compattezza” (cit.). E' qui che si articola il dispositivo della doppia distanza messo in opera dalla Socìetas nelle maglie dell'immagine. L'immagine non è altro che l'apparizione di una lontananza, di una separazione che tuttavia è prossima, immediata. Scrive in questo senso il filosofo francese Nancy: "Chiara e distinta, l'immagine è l'evidenza. E' l'evidenza del distinto, la sua stessa distinzione. C'è immagine solo se c'è questa evidenza: altri-
menti c'è solo decorazione o illusione, cioè supporto ad un significato. L'immagine deve toccare la presenza visibile del distinto, deve toccare la destinazione della sua presenza". (cit.) Per essere tale l'immagine non deve assumere il compito di esporre un significato celato, ma deve toccare la presenza della distinzione stessa che non appartiene all'ordine delle cose disposte nello spazio della scena, ma rimanda piuttosto alle forze che la tengono in tensione. L'aura qualifica l'immagine "irritando" lo sguardo dello spettatore in quanto le restituisce un potere di reciprocità, non può essere vista senza restituire la netta sensazione di vedere anch’essa, consegnando anche chi guarda ad agire lo stesso spazio. Pertanto, se ciò che si distingue dalle cose è un'intensità, un impulso, si tratta qui di capire come l'immagine non sia forma, bensì gesto. E' in questo senso che abbiamo parlato del tratto come componente intima (aura) che l’immagine ri-presenta alla percezione dello spettatore, che trae ed estrae trattenendo, in modo tale da consegnarsi alla sensazione che nello sviluppo delle possibilità non esiste distinzione tra “visibili”, che quel a cui assistiamo ci riguardi. Come per quanto detto in relazione allo stato dell'immagine, la concezione della scena è concezione dello spazio. Lo spazio non preesiste semplicemente alla localizzazione delle figure e delle cose su di un palcoscenico, ma è determinato dalla loro relazione, dal loro aver-luogo. Lo spazio determinato si qualifica come campo di tensione della scena. Prendendo sempre esempio dall'opera che, dal mio punto di vista, meglio esprime tutto il FARE della Raffaello Sanzio, la Tragedia Endogonidia, osserviamo come nelle sue dinamiche la figura è sempre incorniciata, inscritta in uno spazio cubico; la funzione del frame scenico porta inscritto, in quanto tridimensionale, un processo di incastro di spazi relati. Lo spazio principale, costituito dal volume della scena madre presente in ogni singolo Episodio, non si limita a "rappresentare" un altro spazio, ma lo contiene. La stanza-cubo, in questo caso, diventa la superficie stessa dell'immagine. Questa immagine presuppone due ordini di senso all'interno dei quali si definiscono gli spazi di comunicazione con lo spettatore, questi sono l'immagine-azione come frutto dell'azione esercitata dalla figura all'interno del frame scenico e l'immagine-percezione come azione prodotta dall'immagine scenica sullo spettatore. Ognuna di queste categorie contiene in sé una molteplicità di altre immagini,
l'immagine scenica è così il risultato di un processo combinatorio di più immagini che interagiscono tra loro. "Questo significa che l'immagine visiva non è affatto data dalla coscienza come qualcosa di semplice, senza fatica e senza sforzo, ma si costruisce, di forma, attraverso parti accumulate una sull'altra, in ordine successivo, mentre cias- cuna di esse viene percepita, più o meno, dal proprio punto di vista. Nella percezione l'immagine visiva non viene osservata da un solo punto di vista, ma per l'essenza stessa della visione, è un'immagine di prospettiva poli-centrica", cita Florensky nel suo saggio: "La prospettiva rovesciata". (cit.) La visione ottica consente una visione “in chiaro”, prospettica, basata sulla differenziazione di profondità e rilievo, necessita di un punto di vista dal quale guardare, mantenendo così lo spettatore esterno all'azione. Desidero far notare come le scene più di impatto si definiscono mediante la costruzione di una superficie che annulla (forse la dimensione prospettica?) attraverso l’immanenza, non a caso, di due non-colori: il bianco e l’oro. La peculiarità di queste due non-cromie è quella, in entrambe, di non assorbire alcuna frequenza luminosa: l’una, il bianco, restituendo la luce nel suo complesso di possibilità cromatiche mostrandoci contemporaneamente ogni colore, l’altra, l’oro, consegnandoci la luce in una sorta di ready-made attraverso il riflesso. Ancora una volta, sul “palco-spettatore”, coesistono nell’istante tutte le possibil- ità indistinte dell’apparire. Qui nessun punto di vista è più possibile. (esempio: lo svolgimento dell’Orestea, la stanza-nucleo in C.#01 e l’immagine che desidero creare che emula una scena in B.#03).
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- “Diade incontro a Monade” con: Barbara Bertozzi, Letizia Biondi, Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Raffaele Wassen. Roma, Teatro la Piramide, 2 aprile 1981. - “Persia - Mondo 1 a 1” con: Barbara Bertozzi, Letizia Biondi, Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Raffaele Wassen. Bologna, Ac- cademia di Bellearti, 15 Giugno 1981. - “Popolo zuppo” con: Barbara Bertozzi, Letizia Biondi, Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Raffaele Wassen. Bologna, Teatro La Soffitta, 26 maggio 1982. - “I fuoriclasse della bontà” con: Barbara Bertozzi, Letizia Biondi, Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi. Cesena, Teatro Bonci, 2 Marzo 1983. - “Oratoria n.1: Rimpatriata Artistica” libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Catellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi. Roma, Lavatoio Contuma- ciali, 21 marzo 1983. - “Oratoria n.2: Raptus” libro dei Castellucci e dei Guidi, con: Barbara Bertozzi, Letizia Biondi, Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi. Roma, Spazio Zero, 25 Febbraio 1984. - “Oratoria n.3: Interferion” libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 13 Settembre 1984. - “Kaputt Necropolis”. Lingua “Generalissima” di Claudia Castellucci, con: Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi. Venezia, Biennale Teatro, Cantieri Navali, 19 Ottobre 1984. - “Glory glory, Alleluja” libro di Claudia Castellucci, con: Elisa Bartolini, Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. Santarcangelo, “Festival Teatro in piazza”, cortile della scuola, 19 Luglio 1985. - “Santa Sofia, Teatro Khmer” regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci con: Elisa Bartolini (e, negli anni successivi: Chiara Bartolini e Camilla Cancellari), Claudia Manikon Castellucci, Romeo Cas- tellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. Cesena, Teatro Bonci, 21 Gennaio 1986. - “Oratoria n.4: Tohu Wa Bohu (apparenze pre-mondiali)” regia di Romeo
Castellucci, libro di Claudia Castellucci, con: Romeo Castellucci, Chiara Guidi. Bologna, Teatro delle Moline, 4 Marzo 1986. - “I Miserabili” regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Politikon Castellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. Longiano, Teatro Petrella, 13 Febbraio 1987. - “Oratoria n.5: Sono consapevole dell’odio che tu nutri per me” regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi. Acquas- parta, Terme, 12 Settembre 1987. - “Die Elenden” (versione tedesca in occasione di Documenta 8 di Kassel) regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Luigi Dadina, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. - “Alla bellezza tanto antica” regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci, con: Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Franco Federiconi, Chi- ara Guidi, Paolo Guidi. Longiano, Teatro Petrella, 18 Febbraio 1988. - “Il gran reame dell’adolescenza” regia di Romeo Castellucci, libro di Claudia Castellucci, cura di Gilda Biasini. Santarcangelo, “Festival Teatro in piazza”, 13 Luglio 1988. Suddiviso in: “La cripta degli adolescenti” con: Elisa Bartolini, Giunta Biserna, Luca Carlini, Claudia Castellucci, Franco Federiconi, Emiliano De Carli, Philippe De Pier Pont, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Savino Paradiso. “L’adolescente sulla torre d’avorio” con: Elisa Bartolini, Luca Carlini, Claudia Castellucci, Emiliano De Carli, Franco Federiconi, un fachiro, un domatore di orsi, un brillatore di scoppi. - “La discesa di Inanna” libro e regia di Romeo Castellucci, cura di Gilda Basini con: Chiara Bartolini, Giunta Biserna, Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Franco Federiconi, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Renato Paggetti. Montemarciano, Teatro Alfieri, 3 Marzo 1989. - “Gilgamesh” libro e regia di Romeo Castellucci, cura di Gilda Basini, velo dipinto da Ubaldo Mancini con: Allegra Corbo, Stefano Cortesi, Febo Del Zozzo. San Benedetto del Tronto, Istituto Vannicola, 13 Febbraio 1990. - “Voce dell’animale” libro e regia di Claudia Castellucci, cura di Gilda
Basini con: Matteo Benini, Giorgio Bicchietti, Chiara Bocchini, Maria Jesus Enchavarren, Bruna Gambarelli, Laura Gatelli, Cesare Iacono, Paolo Ugolini e il lavoro del primo anno di Vincenzo Checchia. - “Iside e Osiride” libro e regia di Romeo Castellucci, “Benedictus di Iside” scritto da Claudia Castellucci, cura di Gilda Basini, Cosetta Nicolini con: Stefano Cortesi, Febo Del Zozzo, Chiara Guidi, Paolo Guidi. Longiano, Teatro Petrella, 19 Dicembre 1990. - “Ahura Mazda” libro e regia di Romeo Castellucci, ritmo drammatico di Chiara Guidi, melodia di Claudia Castellucci, cura di Gilda Basini, Cosetta Nicolini con: Chiara, Elisa, Francesca e Stefano Bartolini, Giunta Biserna, Chiara Bocchini, Agata, Claudia, Demetrio, Romeo e Teodora Castellucci, Allegra Corbo, Stefano Cortesi, Febo del Zozzo, Chiara Di Giacomo, Bruna Gambarelli, Roberto Grandi, Chiara Guidi, Savino Paradiso, Carla Scala, Fabiana Terenzi. Cesena, Laboratori Meccanici Comandini, 20 Settembre 1991. - “Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco” di William Shakespeare e Saxo Gramaticus. libro e regia di Romeo Castellucci, ritmo drammatico di Chiara Guidi, melodia di Claudia Castellucci, cura di Gilda Basini, Cosetta Nicolini, con: Paolo Conti, Srefano Cortesi, Febo Del Zozzo. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio, Wiener Fest- Wochen (Vienna), in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Laboratori Meccanici Comandini, 10 Gennaio 1992. - “Le favole di Esopo” di Esopo. Regia di Romeo Castellucci. Ritmo drammatico di Chiara Guidi. Con: Giunta Biserna, Chiara Bocchini, Francesca Calisti, Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Stefano Cortesi, Chiara Di Giacomi, Bruna Gambarelli, Anita Guardigli, Chiara Guidi, Paolo Guidi, Cura di Cosetta Nicolini e Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Laboratori Meccanici Comandini, 26 Aprile 1992. - “Masoch. I trionfi del teatro come potenza passiva, colpita e sconfitta”. Drammaturgia e regia di Romeo Castellucci. Ritmo drammatico di Chiara Guidi. Melodia di Claudia Castellucci. Con: Franco Santarelli, Anita Guardigli, Stefano Cortesi, Febo Del Zozzo, Uria Comandini. Cura di Cosetta Nicolini e Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio, Zucher Theater Spektakel (Zurigo), Bergen Internasjonale Teater, in col-
laborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 30 Gennaio 1993. - “Hansel e Gretel dei fratelli Grimm”. Regia di Romeo Castellucci. Ritmo drammatico di Chiara Guidi. con: Giunta Biserna, Chiara Bocchini, Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Paolo Tonti. Cura di Cosetta Nicolini e Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 21 Aprile 1993. - “Lucifero. Quanto più una parola è vecchia quanto più va a fondo”. Drammaturgia e regia di Romeo Castellucci. Testo di Claudia Castellucci. Con: Claudia Cstellucci, Romeo Castellucci, Stefano Cortesi, Febo Del Zozzo, Chiara Guidi, Franco Santarelli, Paolo Tonti. Cura di Cosetta Nicolini e Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Polverifi, “Inteatro”, Teatro dell’Officina, 16 Luglio 1993. - “Oratoria n.6: con evidenza per coloro che intendono.” Libro di Claudia Castellucci. Regia di Romeo Castellucci. Con: Romeo Castellucci e il complesso strumentale balcanico Martenica. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Polverigi, “Inteatro”, Piazza Roccolo, 17 Luglio 1993. - “Persona”. Drammaturgia e regia di Romeo Castellucci. Con: Romeo Castellucci, Stefano Cortesi, Febo Del Zozzo, Paolo Guidi, Franco Santarelli. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio. Riccione, discoteca Cocoricò, capodanno 31 Dicembre 1993 - 1 gennaio 1994. - “Festa Plebea, con Oratoria n.7: anche il peggiore può parlare ma non deve farlo per me”. Libro di Claudia Castellucci. Regia di Romeo Castellucci. Con: Claudia Castellucci, Franco Santarelli. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 3 Marzo 1994. - “Le fatiche di Ercole”. Drammaturgia e regia di Chiara Guidi. Scena e ambientazione sonora di Romeo Castellucci. Con: Stefano Bartolini, Giunta Biserna, Chiara Nicolini, Chiara Bocchini, Agata Castellucci, Car-
men Castellucci, Claudia Castellucci, Demetrio Castellucci, Romeo Castellucci, Teodora Castellucci, Paolo Guidi. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 1 Maggio 1994. - “Orestea (una commedia organica?)” da Eschilo. Regia di Romeo Castellucci. Ritmo drammatico di Chiara Guidi. Melodia di Claudia Castellucci. Con: Paolo Guidi, Nicoletta Malagotti, Natali Carvalho Oliveira, Carlotta Piras, Giovanni Vella, Nicola Di Martino, Enzo Lazzarini, Febo Del Zozzo, Loris Comandini, Claudia Castellucci. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini e Minny Augeri. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Prato, Teatro Fabbricone, 6 Aprile 1995. - “Buchettino” di Charles Perrault. Regia di Chiara Guidi. Scene e ambientazione sonora di Romeo Castellucci. Con: Chiara Guidi, Carmen Castellucci, Paolo Tonti. Cura di Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 2 Maggio 1995. - “Pelle d’asino” di Charles Perrault. Regia di Romeo Castellucci e Chiara Guidi. Con: Giunta Biserna, Adam Peter Brien, Carmen Castellucci, Claudia Castellucci, Paolo Tonti. Cura di Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 30 Aprile 1996. - “Giulio Cesare” di William Shakespeare e gli Storici Latini. Regia di Romeo Castellucci. Actio di Claudia Castellucci. Declamatio di Chiara Guidi. Con: Elena Baglioni, Cristiana Bartini, Lele Biagi, Giovanni Rossetti, Alvaro Biserna, Adam Peter Brien, Pierre Houben, Ivan Solomoni. Cura di Gilda BIasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio, Wiener FestWochen (Vienna), Kunsten Festival Des Arts 1998 (Bruxelles), in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Prato, Teatro Fabbricone, 5 Marzo 1997. - “Ophelia” da William Shakespeare. Regia di Romeo Castellucci. Ritmo drammatico di Chiara Guidi. Con: Elena Bagaloni, Cristiana Bertini, Giovanni Rossetti. Cura di Gilda Biasini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio. Toga (Giappone), “Toga Festival”, Art Performing Center, 6 Agosto 1997
- “La prova di un altro mondo”. Drammaturgia e regia di Romeo Castellucci e Chiara Guidi. Con: Giunta Biserna, Carmen Castellucci, Claudia Castellucci, Paolo Tonti, Hamed Lahoussine. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Cesena, Teatro Comandini, 20 aprile 1998. - “Genesi. From the museum of sleep”. Drammaturgia e regia di Romeo Castellucci. Partitura vocale e ritmo di Chiara Guidi. Musiche originali di Scott Gibbons. Coreutica di Claudia Castellucci. Con: Maria Luisa Cantarelli, Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Cosma Castellucci, Demetrio Castellucci, Eva Castellucci, Sebastiano Castellucci, Moukhtar Goussengadjiev, Renzo Mion, Lamin N’Diaye, Franco Pistoni, Silvano Voltolina, Fabio Sajiz, Flavio Urbinati, Salvo Di Martina. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio, Holland Festival (Amsterdam), Zurcher Theater Spektakel (Zurigo), Hebbel Theater (Berlino), Le-MaillonTheatre de Strasbourg, Perth International Arts Festival Western Australia, Centre Dramatique National/Orleans- LoiretCentre, in collaborazione con il Teatro Bonci di Cesena. Amsterdam, “Holland Festival”, TTA theatre Westergas Fab- riek, 5 maggio 1999. - “Voyage au bout de la niut” da Louis Ferdinade Celine. Composizione sonora e regia di Romeo Castellucci. Drammaturgia musicale e partitura vocale di Chiara Guidi. Romeo Castellucci , Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti. Con: Claudia Castellucci, Chiara Guidi, Silavia pasello, Giovanni Rossetti, Lele Biagi. Cura di Gilda Biasini e Cosetta Nicolini. Produzione Socìetas Raffaello Sanzio, REF-Romaeuropa Festival. Roma, “Romaeuropa Festival”, Villa Medici, 9 luglio 1999. - “Il combattimento” dai “Madrigali guerrieri et amorosi”, Libro VI di Claudio Monteverdi, e “Combattimento in liquido” Bertotti, Mario Cecchetti, Vincenzo Di Donato, Salvo Vitale. Attori: Claudio Borgi, Gregory Petiqueux, Silvano Voltolina, Claudia Zannoni. Strumentisti: Maria Bonetti, Sabina Colomba Preti, Caterina Dall’Agnello, Stephanie Eros, Roberto Gini, Stefano Marcocchi, Maurizio Martelli, Gabriele Palomba, Massimo Percivaldi. Cura di Gilda Biasinie Cosetta Nicolini. Produzioen Kunsten Festival des Artes (Bruxelles), Socìetas Raffallo Sanzio. Coproduzione: Kunsten FestWochen (Vi-
enna), Holland Festival (Amsterdam), Biennale di Venezia-Settore teatro , Le Maillon-Theatre de Srasbourg, in collaborazione con Fondazione Teatro la Fenice di Venezia e Teatro Bonci di Cesena. Bruxelles, “Kunsten Festival des Artes”, Luna Theater, 5 giugno 2000 - “C.#01, Tragedia Endogonidia”, I Episodio, con Maurizio Carrà, Agata Castellucci, Demetrio Castellucci, Teodora Castellucci, Diego Donna, il sopranista Radu Marian, Teatro Comandini, Cesena, 25-26 gennaio 2002 - “A.#02, Tragedia Endogonidia”, II Episodio, con Claudio Borghi, Claudia Castellucci, Cosma Castellucci, Teodora Castellucci, Salvo di Martina, Diego Donna, Chiara Guidi, Luca Nava, Sergio Scarlatella, Silvano Voltolina, Festival d’Avignon, Avignone, 7-15 leglio 2002 -”B.#03, Tragedia Endogonidia”, III Episodio, con Francesca Proia, Cristiana Bertini, Roberta Busato, Eva Castellucci, Francesca Debri, Claudia Zannoni, Hebbel Theater, Berlino, 15-18 gennaio 2003 -”BR.#04, Tragedia Endogonidia”, IV Episodio, con Sonia Beltran Napoles, Claudio Borghi, Claudia Castellucci, Sebastiano Castellucci, Luca Nava, Gianni Piazzi, Sergio Scarlatella e tutti i bambini delle varie città, Kunsten Festival des Arts, Bruxelles, 4-7 maggio 2003 -”BN.#05, Tragedia Endogonidia”, V Episodio, con Maria Luisa Cantarelli, Eva Castellucci, Monica Demuru, Salvo di Martina, Diego Donna, Chiara Guidi, Luca Nava, Sergio Scarlatella, Silvano Voltolina, International Festival Norway, Bergen, 22-25 maggio 2003 -”P.#06, Tragedia Endogonidia”, VI Episodio con Alessandro Bedosti, Salvo di Martina, Luca Nava, Fabio Sajiz, Sergio Scarlatella, Silvano Voltolina, Patricia Zanco, Odèon Théatre de l’Europe avec le Festival d’Automne, Paris, 18-31 ottobre 2003 -”R.#07, Tragedia Endogonidia”, VII Episodio con Ofelia Bartolucci, Lola (primate), Luca Nava, Fabio Sajiz, Sergio Scarlatella, Silvano Voltolina, Atos Zammarchi, RomaEu- ropa Festival, Teatro Valle, Roma, 21-30 novembre 2003 -”S.#08, Tragedia Endogonidia”, VIII Episodio, con Gertrude Chinwe Ayemba, Victorine Mputu Liwoze, Fatou Ndeye Sall, Sergio Scarlatella, Sylvane Tienjieu, Sarah Ali, Cecilia Dossin-Ngaibino, Estelle Nbazoa, Le Maillon Thèatre de Strasbourg, Strasburgo, 17-20 febbraio 2004
-”L.#09, Tragedia Endogonidia”, IX Episodio con Francesca Proia, Agata Castellucci, Cosma Castellucci, Demetrio Castellucci, Eva Castellucci, Sebastiano Castellucci, Teodora Castellucci, Chiara Guidi, Sergio Scarlatella, LIFT, London International Festival of Theatre, Laban Theatre, Londra, 13-16 maggio 2004 -”M.#10, Tragedia Endogonidia”, X Episodio con Francesca Proia, Sergio Scarlatella, il soprano Lavinia Bertotti e gli allievi di Ensemble 13 of E.R.A.C., Les Bernardines avec le Thèatre du Gymnase, 20-26 settembre 2004 -”C.11, Tragedia Endogonidia”, XI Episodio con Ofelia Bartolucci, Sonia Beltran Napoles, Claudio Borghi, Cosmo Brigida, Cosma Castellucci, Romeo Castellucci, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Alceo Tesei, Teatro Comandini, Cesena, 16-22 dicembre 2004 -”Hey Girl!” con Silvia Costa e Sonia Beltran Napoles, Teatro Comandini, Cesena, 23 maggio 2006 -”Madrigale appena narrabile” di Chiara Guidi e Scotto Gibbons, su testi di Claudia Castellucci con le voci di Voci di Marco Andreetti, Angela Burico, Alessandro Cafiso, Mara Cassiani, Margareth Kammerer, Maria Costantini, Rascia Darwish, Maria Gabriella Gasparri, Simona Generali, Diego Invernizzi, Sabina Laghi, Sandro Mabellini, Sara Ma- sotti, Caterina Moroni, Alessandra Pasi, Eleonora Ribis, Teatro Comandini, Cesena, 8 settembre 2007 -”Inferno” liberamente ispirato alla Divina Commedia di Dante Alighieri , regia, scenografia, luci e costumi Romeo Castellucci con la gente: Alessandro Cafiso, Maria Luisa Cantarelli, Elia Corbara, Silvia Costa, Sara Dal Corso, Manola Maiani, Luca Nava, Gianni Plazzi, Stefano Questorio, Silvano Voltolina, e tutti i figuranti che di città in città si aggiungeranno, Teatro comunale di Modena, 18 ottobre 2008 -”Purgatorio” liberamente ispirato alla Divina Commedia di Dante Alighieri Con la Prima Stella: Irena Radmanovic, la Seconda Stella: Pier Paolo Zimmermann, la Terza Stella: Sergio Scarlatella , la Terza Stella II: Juri Roverato , la Seconda Stella II: Davide Savorani, Teatro comunale di Senigallia, 28 ottobre 2008 -”Paradiso” (installazione) liberamente ispirato alla Divina Commedia di Dante Alighieri Chiesa del Santo Spirito di Cesena, 4 novembre 2008
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- Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, dal teatro iconoclasta al teatro della super-icona, Ubulibri, Milano, 1992; - Rhetorica. Mene Tekel Peres, Aldo Miguel Grompone, Roma, 2000; - Uovo di bocca. Scritti lirici e drammatici di Claudia Castellucci, Bollati Boringhieri, Torino, 2000; - Epopea della polvere, il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio 1992-1999, Ubulibri, Milano, 2001; - Les pélerins de la matière. Theorie et praxis du théâtre, Ecrits de la Socìetas Raffaello Sanzio, Les Solitaires Intempestifs, Paris, 2001; - Romeo Castellucci, To Carthage then I came, exposition, Actes Sud, Arles, 2002; - Epitaph di Romeo Castellucci, Ubulibri, Milano, 2003; - Idioma, Clima, Crono, quaderni della Tragedia Endogonidia, dal n.1 al n.9, Socìetas Raffaello Sanzio, Cesena, 2004; - The Theatre of Socìetas Raffaello Sanzio, Routledge, London and New York, 2007; - Itinera: trajectoires de la forme: Tragedia Endogonidia, di Enrico Pitozzi e Annalisa Sacchi, Romeo Castellucci, Actes Sud, Arles, 2008; - La discesa di Inanna di romeo Castellucci, edizioni Casa del Bello Estremo, Cesena, 1989; - Gilgamesh di Romeo Castellucci, edizioni Casa del Bello Estremo, Cesena, 1990; - Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco di Romeo Castellucci, herausgabe Wiener FestWochen, Vienna, 1992; - Masoch. I trionfi del teatro come potenza passiva colpa e sconfitta di Romeo Castellucci, edizioni Casa del Belllo Estremo, Cesena, 1993; - Genesi. From the museum of sleep di Romeo Castellucci, ed. Casa del Bello Estremo, Cesena, 1999; - Alice nel Paese delle Meraviglie. Attraverso lo Specchio”, Garzanti, Milano, 2001; - L’Arve et l’aume. Tentative anti-grammaticale contre Lewis Carrol, di Antonin Artaud, Gallimard, Paris, 1979; - Deridda e Artaud. Decostruzione e teatro della crudeltà, di Luca Berta, Bulzoni, Roma, 2003;
- Danza alla rovescia di Artaud. Il secondo teatro della crudeltà (19451948), di Marco De Marinis, Bulzoni, Roma, 2006; - Atti della disputa sulla Natura del teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, ed. Casa del Bello Estremo, Cesena, 1989; - Disputa sull’Atto di creazione, di Marco Belpoliti, Claudia Castellucci, Paolo Virno, Chiara Zamboni, ed. Casa del Bello Estremo, Cesena, 1990; - Tre Icone, di Massimo Cacciari, ed. Adelphi, Milano 2007 - Le Porte Regali, di Pavel Florenskij, ed. Adelphi, Milano, 2007 - Il Teatro e il suo doppio, di Antonin Artaud, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1968 - Le città invisibili, di Italo Calvino, Mondadori, Milano, 1992 - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin, Einaudi, Torino, 1999; - L’immagine - il distinto, in Tre Saggi sull’immagine, di Jean-Luc Nancy, Cronopio, Napoli, 1992;
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- Diario Sperimentale della Scuola Infantile anno I di Chiara Guidi, Romeo Castellucci e Stefano Meldolesi (1996, 58’); - Diario Sperimentale della Scuola Infantile anno II di Chiara Guidi e Romeo Castellucci (1997, 49’); - Genesi, from the Museum of Sleep (2000, 60’) di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti; - Epitaph di Romeo Castellucci (2000, 8’); - Le Pélerin de la matière di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti (2000, 45’); - il Ciclo Filmico della Tragedia Endogonidia, di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti (2002-2004, 5 h. 25’), pubblicato nel maggio 2007 dalla casa di Produzione Rarovideo nella collana Eccentriche Visioni; - Inferno, Purgatorio, Paradiso (2008, 190’), pubblicato da Arté e Compagnie des Indes.
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- raffaellosanzio.org - it.wikipedia.org/wiki/Living_Theatre
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- www.livingtheatre.org - symbols.com - drammaturgia.it - filosofico.net - geagea.com - ildiogene.it - progettobabele.it - aldogrompone.it
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- da lunedì 30 novembre a sabato 5 dicembre 2009, presso il Teatro Comandini di Cesena, laboratorio di disegno e animazione “Gli Esagerati” curato dal disegnatore Stefano Ricci inserito nella programmazione del festival Màntica organizzato dalla Socìetas Raffaello Sanzio - 17 e 18 novembre 2009, presso Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, laboratorio inserito nel percorso “Sincronie di errori” del Teatro della Fondazione di Venezia, da parte della compagnia Santasangre - www. santasangre.net - 15, 16 e 17 dicembre 2009, presso il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, laboratorio “La collezione” inserito nel percorso “Esperienze” della Fondazione di Venezia , da parte della compagnia Pathosformel www.pathosformel.org - 15, 16 e 17 gennaio 2010, presso il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, laboratorio “Cuore” inserito nel percorso “Esperienze” della Fondazione di Venezia, da parte della compagnia Anagoor - www.anagoor.com
Ringrazio Matteo, Atej, Gaetano, Sara, Franco ed il fotografo Emanuele Tortora per aver contribuito "attivamente" alla realizzazione del' enorme lavoro che avete tra le mani.