PHOTOGRAPHY MEETS INDUSTRY
2007-2008
LA FOTOGRAFIA S‘INDUSTRIA
LA FOTOGRAFIA S‘INDUSTRIA
PHOTOGRAPHY MEETS INDUSTRY Mostra/Exhibition
Catalogo/Catalogue
BOLOGNA 07-23 NOVEMBRE 2008 Palazzo Pepoli Campogrande – via Castiglione, 7 www.GD4PhotoART.com info@gd4photoart.com
A cura di / Edited by
A cura di/Edited by
Giovanna Calvenzi Coordinamento e organizzazione a cura di/ Organization and coordination
G.D Corporate Communication
Giovanna Calvenzi Damiani editore info@damianieditore.it www.damianieditore.com Layout
Maurizio Zanuso
Iosa Ghini Associati
© Damiani 2008 © gli autori per i testi / the authors for the texts © gli artisti per le opere / the artists for the works
© gli artisti per le opere / the artists for the works © Rob Hornstra, Courtesy Flatland Gallery
ISBN 978 88 6208 073 6
Progetto espositivo / Exhibit project
LA FOTOGRAFIA S‘INDUSTRIA PHOTOGRAPHY MEETS INDUSTRY
The “GD4PhotoArt” Industrial Photography Exhibition is set within the broader context of a project for the creation of a museum structure of this long-standing industrial company. The firm’s history, apart from its existence in human recollections handing it down from its origins, is contained in an archive that will become a place of great interest for company members, but also for the public. The large body of documents includes many fascinating images derived from advertising material, technical drawings and, above all, photographs. Witnesses to the past portraying people, factories, machinery and materials: a significant interpretation of reality where the architecture of workplaces intersects with everyday human life. This historical archive has provided the inspiration for setting up a section dedicated to the study and exhibition of contemporary industrial photography. The deep connection between the industry and the territory where it has its roots is one of the lynch-pins of the company’s own identity. Its museum-space becomes the place to enhance this relationship and the know-how it generates, and can also become the site of living cultural interaction with today’s social fabric. This is why the museum will house not only items that bear witness to the company’s own history but also a selection of collector’s pieces illustrating industrial design and architecture in general, with an eye to setting up interesting intersections between creativity and technology. G.D and the Isabella Seràgnoli Foundation present the book “Photography meets Industry”, with photos by the winning photographers of the competition’s first edition. This cultural initiative is intended to be the beginning of an ongoing exhibition project and a permanent ideas-laboratory on business activity, open to the local community and its schools and youth, in a spirit of reciprocal exchange focused towards a shared future.
Il Concorso di Fotografia Industriale “GD4PhotoArt”, nasce nell’ambito di un progetto più ampio relativo alla realizzazione di un luogo museale di questa storica azienda. La storia dell’industria, oltre alla memoria che ne tramanda le origini, è richiusa in un archivio che verrà mutato in luogo d’interesse per gli attori dell’impresa, ma anche per il pubblico. Il consistente corpus di documenti comprende una interessante documentazione iconografica composta di materiale pubblicitario, di disegni tecnici e prevalentemente di fotografie. Testimonianze in immagini d’epoca che declinano persone, stabilimenti, macchine, materiali: una significativa interpretazione della realtà, attraverso l’architettura dei luoghi di lavoro che si coniugano con la vita quotidiana. Questo fondo dell’archivio storico è stato l’ispiratore per la creazione all’interno del museo di una sezione dedicata allo studio ed all’esposizione della fotografia industriale contemporanea. Il legame dell’impresa con il suo territorio d’insediamento è uno dei perni dell’identità dell’impresa stessa. Uno spazio museale ne diventa il luogo preposto per la valorizzazione e la conoscenza, ma può divenire anche un luogo con una ricaduta culturale sul tessuto sociale. Il museo raccoglierà quindi non solo la storia dell’azienda, ma anche collezionismo, design e architettura industriale, interessanti punti d’incontro tra creatività e tecnologia. G.D e Fondazione Isabella Seràgnoli presentano il volume “La fotografia s’industria” che raccoglie le immagini dei fotografi vincitori della prima edizione del concorso. Questa iniziativa culturale vuole essere il passo iniziale di una macchina espositiva e di un laboratorio permanente di idee sull’impresa, messi a disposizione della comunità locale, della scuola e dei giovani, con una visione d’interscambio, per rivolgersi assieme verso il futuro.
Isabella Seràgnoli
Isabella Seràgnoli
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ARTE, IMPRESA, COMUNITÀ ART, INDUSTRY, COMMUNITY Pippo Ciorra - Piero Orlandi
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As a nation Italy is not much inclined to active patronage. Or rather, centuries ago we were highly familiar with the idea that Popes, sovereigns and the powerful were the natural subjects to commission artists and architects. The works were intended to celebrate the grandeur of those commissioning them, but they also reflected and contributed to the cultural development of a whole people, becoming part of an intrinsically collective patrimony even if the Duke kept that portrait well locked up inside his private study. Once the Renaissance and Baroque periods had passed, however, and the uncertain nineteenth century road towards modern nationhood was being arduously constructed, we evidently lost this habit. Initially because we were distracted by more pressing priorities. And later, once the worst emergencies were past, we had to struggle with the difficult task of defining new ideal relations between our new institutions, the world of culture and those locally active forces within society who wished to interact with culture. In practical terms, there is still no widely shared concept in Italy today of how patronage in the age of democracy should operate. And by patronage one is referring not to action by the holders of political power (which also includes the power to offer posts and recognition to artists), but by private entities that wish to use art and culture as channels for completing the definition of their relation with the public sphere and for actively participating in the construction of a modern competitive society. In practice, up to a certain point it seemed that the mantle of those cruel Renaissance princes had been inherited by “collectionism”, in the sense of a modern aesthetic-economic intertwinement instigated by passionate connoisseurs and art dealers. But the fact is that modern art, especially its more contemporary versions, can not always be simply “collected”, needing rather to be sustained, commissioned, recorded, reproduced, curated, transmitted, and so on. We still don’t really know what the best instruments are for doing all this, whether from the “institutional” viewpoint of “the ideal museum” or from the individual viewpoint of the private entity wishing to operate in this field. We find ourselves debating within a bureaucratic jungle made up of foundations, associations, non profit organizations, study centres, service companies and so on, with little help from laws or regulations, and we are still unable to give clear roles to all these actors and define one shared statute comparable to those in force in other western nations.
L’Italia è un paese poco avvezzo al mecenatismo. O meglio, in secoli lontani abbiamo trovato più che familiare l’idea che papi, sovrani e signori fossero i committenti naturali di artisti e architetti. Le loro opere servivano a celebrare la grandezza di chi le commissionava, ma erano allo stesso tempo lo specchio e la materia del progresso culturale di un popolo, una specie di patrimonio intrinsecamente collettivo, anche se magari il duca il ritratto lo teneva ben chiuso dentro al suo studiolo. Chiuse le esperienze rinascimentali e barocche e intrapresa nell’ottocento la strada incerta che avrebbe portato a una nazione moderna, questa dimestichezza l’abbiamo evidentemente perduta. Prima eravamo distratti da urgenze più pressanti. Più tardi, usciti dalle emergenze, ci siamo impegnati nella non facile ricerca dell’assetto ideale dei rapporti tra le nuove istituzioni, la cultura, i soggetti che agiscono nel territorio e che con la cultura hanno interesse o desiderio di interagire. In sostanza non c’è ancora un’idea diffusa e condivisa, in Italia, di come possa dispiegarsi l’azione del mecenatismo al tempo della democrazia, praticato cioè non da chi detiene il potere politico (che è anche potere di dare incarichi e riconoscimenti agli artisti), ma da quei soggetti privati che attraverso l’arte e la cultura intendono completare la definizione del loro rapporto con la sfera pubblica e partecipare attivamente alla costruzione di una società moderna e competitiva. In realtà fino a un certo punto si è ritenuto che l’eredità dei crudeli principi rinascimentali fosse stata pienamente raccolta dal più recente “collezionismo”, inteso come moderno intreccio esteticoeconomico dell’attività di appassionati e commercianti di arte. Ma il fatto è che l’arte moderna, e soprattutto quella contemporanea, non sempre può essere semplicemente “collezionata”, ma va piuttosto sostenuta, commissionata, archiviata, riprodotta, curata, trasmessa, eccetera. Quale sia lo strumento migliore per fare tutte queste cose non lo sappiamo ancora, sia dal punto di vista “istituzionale” del “museo perfetto”, sia da quello più individuale del soggetto privato che vuole agire in questo ambito. Ci dibattiamo quindi in una giungla fatta ancora di fondazioni, associazioni no profit, centri studi, società di servizi, poco aiutati da leggi e regolamenti, senza riuscire ancora a dare a ognuno un ruolo appropriato e definire uno statuto condiviso, assimilabile a quelli praticati nelle altre nazioni occidentali.
2. Even for those who have little direct knowledge of Bologna, it was clear that the G.D company based in that
2. Che sulle pratiche del mecenatismo culturale moderno l’azienda bolognese G.D volesse dire la sua è stato chiaro, anche per chi 9
city intended to have its say on modern cultural patronage from the moment it launched the invited architectural competition for the enlargement of its historic headquarters in Via Battindarno. On that occasion G.D’s ownership set an example of virtuous behaviour and efficiency, carefully selecting a whole range of skilled “youthful studios” that were openly committed to technological and expressive architectural innovation, choosing an agile and competent jury, and setting a clear programme for the whole project. The winning proposal, from Rome’s Labics studio, responded convincingly to the criteria established and made it clear that the services offered by the new wing (kindergarten, museum, auditorium, training school, canteen, gym) are not only a response to the factory’s needs but also a way of setting up dialogues and collective spaces with and for the benefit of local residents and more generally the whole city. That blend of seeking quality and innovation with the sense of a public context for the spaces involved sent strong signals about the kind of cultural patronage that G.D has in mind. And this approach became still clearer when the project was associated with the publication of the first issue of the magazine “O.N – G.D Review” in 2006, and through its twice yearly successors ever since. The contents of “O.N” make G.D’s project explicit, connecting as they do subjects related to everyday life in its factories, and to their products, with the field of contemporary architecture and art, and with themes focusing on the life and history of the city of Bologna. A glocal mixture that well expresses the company’s cultural profile. 3. For G.D’s ownership, the next step was the passage from a “cultural profile” to a genuinely active project in the field of contemporary art and culture. This is where the creation of the G.D company Museum comes in, becoming part of the new polyvalent centre which will not only be a location for housing records of the company’s history but also and above all a site for cultural events and initiatives promoted by G.D together with the Isabella Seràgnoli Foundation. In this context the setting up of the GD4PhotoArt competition, and the choice of photography as the principal field of action, projects a clear and effective operative platform. By now it is widely felt that photography – especially landscape photography – offers a vital meeting-ground between artistic experimentation, architectonic research, and commitment to the protection and documentation of contemporary landscapes. By juxtaposing landscape photography with work-place photography – an intersection that defines the deepest sense of its purpose – GD4PhotoArt succeeds in realizing its active programme 10
conosce poco e superficialmente la realtà del capoluogo emiliano, almeno dal momento in cui è stato bandito il concorso di architettura a inviti per l’ampliamento della sede storica di via Battindarno. In quella occasione la proprietà di G.D ha adottato un comportamento virtuoso ed efficiente, scegliendo una selezione accurata e accreditata di “giovani studi” apertamente impegnati nel campo del rinnovamento tecnologico ed espressivo, convocando una giuria agile e competente e definendo un programma chiaro per il progetto. La soluzione scelta, a cura dello studio romano Labics, risponde bene alle richieste e fa capire bene come i servizi della nuova ala (asilo, museo, auditorium, scuola di formazione, mensa, palestra) siano non solo una risposta alle esigenze della fabbrica ma un modo per stabilire un dialogo e uno spazio comune con i cittadini del quartiere, e più in generale con la città intera. La miscela di aspirazione alla qualità e all’innovazione e senso pubblico dello spazio serve molto bene a dare i primi connotati del genere di mecenatismo che hanno in mente i responsabili di G.D. E’ un approccio che si fa più chiaro quando al progetto viene associata la pubblicazione del primo numero della rivista “O.N - G.D Review”, uscita finora con cadenza semestrale dal 2006 a oggi. I contenuti di “O.N” rendono esplicito il progetto di G.D, mettono insieme gli argomenti legati alla vita delle fabbriche e della produzione con questioni di architettura e arte contemporanea e con temi legati alla vita e alla storia di Bologna. E’ una miscela perfettamente glocale che mira a definire un profilo culturale dell’azienda. 3. Il passo successivo, per la proprietà di G.D, è il passaggio da un “profilo culturale” a un vero e proprio progetto di azione nel mondo dell’arte e della cultura contemporanea. E’ in questo modo che va intesa la realizzazione del Museo aziendale di G.D, che farà parte del nuovo centro polivalente, ovvero non tanto o non solo come luogo dove raccogliere le testimonianze della storia dell’azienda, ma come sede di iniziative culturali promosse da G.D assieme alla Fondazione Isabella Seràgnoli. In questo senso la creazione del concorso GD4PhotoArt e l’individuazione della fotografia come campo d’azione principale, hanno rappresentato una piattaforma di lavoro chiara ed efficace. E’ infatti convinzione diffusa, ormai, come la fotografia – soprattutto quella di paesaggio – rappresenti un punto di incontro essenziale tra la ricerca artistica, quella architettonica, quella relativa alla cura e alla rappresentazione dei paesaggi contemporanei. Mettendo accanto al tema della fotografia di paesaggio quello dei
and happily transforms its original aim into a clear cultural project that establishes fertile two-way relationships between the city, the worlds of art and architecture, and the company. At this point it becomes easier to interpret the sense of the whole operation: G.D is aiming to nourish its relation with the city and with society through cultural initiatives and support for the creation and transmission of contemporary art. To do this it has identified various particularly significant fields of action – such as architecture and photography – suitable for stimulating relationships between industry, landscape, creativity and urban culture. The cultural objectives of this strategy emerge clearly from reading the issues of the O.N magazine that have so far appeared: in a complex and at times savage evolutionary phase in the field of manufacturing, to establish and preserve for industry a role that is not solely that of producing profit but also that of an active and positive player in the construction of a “progressive” social fabric nourished by the relation between past and future, history and innovation. Themes that will find their ideal expression in the new Museum currently being created. 4. As with any cultural project, success will depend above all on two factors. Firstly the clarity of its programmatic purpose, which we have been trying to articulate here. Secondly the quality of the people involved. All the more so if they are artists. In this sense GD4PhotoArt and its group of coordinators have opted to cut no corners, committing themselves to recognized experts and capillary research at an international level. And a strategic choice has been made to establish conditions of absolutely “equal opportunity” between Italians and non-Italians, as should always be the case in any situation. Despite the additional complication inherent in the aim of “supporting young talent”, the results have justified the optimism, drawing to Bologna the work of extremely varied and stimulating talents expressed through differing languages but all of the highest quality, and all capable of developing the subject of “workplaces” while also putting it into question. Indeed, perhaps this is where the project’s outstanding results have been achieved: almost all the photographers, and especially the prizewinners, have submitted work with a double significance, concentrating on the one hand on investigating the concept of the workplace and on the other focusing on its dissolution – or indeed collapse – into contemporary exterior and interior landscape.
luoghi del lavoro – sede della sua identità più profonda – GD4PhotoArt ha potuto completare il suo programma d’azione e trasformare con successo il suo indirizzo operativo in un progetto culturale chiaro, capace di stabilire fertili rapporti di scambio con la città, col mondo dell’arte e dell’architettura, con quello aziendale. A questo punto non è difficile interpretare il senso di questa operazione: G.D intende alimentare il suo rapporto con la città e con la società attraverso la sua azione culturale e il supporto alla creazione e alla trasmissione dell’arte contemporanea. Per farlo ha individuato alcuni campi d’azione particolarmente importanti, come l’architettura e la fotografia, capaci di accelerare le relazioni tra l’industria, il paesaggio, la creatività, la cultura urbana. Gli obiettivi culturali di questo piano possono leggersi facilmente sovrapponendo ai grandi progetti gli indici dei numeri della rivista usciti finora: conservare all’industria, in una fase di evoluzione complessa e a volte selvaggia dell’universo produttivo, un ruolo che non sia quello di un puro produttore di profitto, ma quello di un soggetto attivo e positivo nella costruzione di un tessuto sociale “progressivo”, capace di trarre alimento dalla relazione tra passato e futuro, tra storia e innovazione. Temi che troveranno la loro sede ideale nel nuovo Museo in via di realizzazione. 4. Come per ogni progetto culturale la buona riuscita è frutto di due cose. La prima è la chiarezza del programma, che abbiamo finora cercato di analizzare; la seconda è la qualità dei soggetti coinvolti. Tanto più se sono artisti. Su questo GD4PhotoArt e il gruppo di coordinamento hanno optato per la via maestra, affidandosi a esperti riconosciuti e a una ricerca capillare sul piano internazionale. Inoltre si è scelto per la assoluta “pari opportunità” per italiani e non italiani, come dovrebbe essere in ogni occasione. Nonostante l’ambizione non facile di “sostenere i giovani talenti” il risultato ha premiato l’impostazione, convogliando verso Bologna i lavori di una compagine varia e stimolante, versata a linguaggi diversi, tutti di qualità molto alta, tutti capaci di sviluppare e allo stesso tempo mettere in crisi il tema dei “luoghi del lavoro”. Anzi, forse proprio in questo sta il risultato maggiore del progetto. Infatti quasi tutti i fotografi, soprattutto quelli premiati dalla giuria, hanno svolto un lavoro dal significato doppio, concentrandosi da un lato sull’investigazione del concetto di luogo del lavoro e dall’altro sulla sua dissoluzione o meglio polverizzazione – nei paesaggi esteriori ed interiori contemporanei. 11
DITA PEPE
Base Record: Dita Pepe
Dati Anagrafici: Dita Pepe
Dita Pepe (Hornsteinerová) was born on October 5, 1973 in Ostrava, Czech Republic. After finishing high school in Fry’dlant nad Ostravicí in 1992, she left for Germany to work as an au pair. There she later married a student of psychology, Francesco Pepe. Hence her surname Pepe some people mistakenly take to be her artistic name. In 1994–95 she took courses in photography at the Carl von Ossietzky Universität in Oldenburg in Germany, and a year later she began a distance-learning course at the Institute of Creative Photography (ITF), of the Faculty of Philosophy and Natural Sciences, of the Silesian University in Opava. In 1997, she lived in Prague and took photographs for society magazines such as Story. At that time, she separated from her husband and moved to Beskydy where her new life partner, Petr Hrubes̆, worked as a volunteer with mentally ill people, while studying photography at the ITF. Here their future collaboration in the fields of fine art and fashion photography was established. In 2000, Pepe started teaching photography at the High School of Art in Ostrava and in 2004 she became an external lecturer of portrait and fashion photography at the ITF. In 2003, she completed her studies at the ITF with diploma work entitled Dita Hornsteinerová (Pepe): Photography – Self-therapy (ITF FPF SU, Opava 2003). As the title suggests, its author used the medium of photography as a form of self-therapy, self-reflection. Photography allows Pepe to have a contact with the outside world. It opens a way out from her ‘micro-world’. As she says: “...for me, taking photos is a form of communication not just with myself, but thanks to it I talk to people, I ask questions, I reply and react, feel, live... I am active…” Pepe began doing photography in Germany where she bought her first compact camera and later on a single-lens reflex one. Her work from that period is black and white. Gradually, however, she became interested in colour photography, which she found more realistic and contemporary, as well as offering more opportunity for self-expression. During her studies at the ITF, she created a series of black and white pictures of mentally ill patients taken in Ostravice, and a project entitled “People from Hlucinsko of the 90’s of the 20th Century”. This was at the time when the classic black and white document still enjoyed a strong popularity and prominent position, arising from
Dita Pepe (Hornsteinerová) è nata il 5 ottobre 1973 a Ostrava. Completata la scuola superiore a Fry’dlant nad Ostravicí, nel 1992 è partita per la Germania come ragazza alla pari. Qui ha sposato uno studente di psicologia, Francesco Pepe, da cui deriva il suo cognome che, a differenza di quanto alcuni pensano, non è un nome d’arte. Negli anni 1994-95 ha seguito un corso di fotografia all’università Carl von Ossietzky Universität di Oldenburg, in Germania. Un anno dopo ha intrapreso un corso a distanza presso l’Institute of Creative Photography della Facoltà di filosofia e scienze naturali dell’università Silesian di Opava (ITF FPF SU). Nel 1997, a Praga, ha lavorato per riviste mondane (per es. Story). Nello stesso periodo si è separata dal marito e si è trasferita a Beskydy dove il suo nuovo compagno, Petr Hrubes̆, lavorava come volontario con persone affette da malattie mentali mentre studiava fotografia all’ITF di Opava. Nasce qui quella che diventerà la loro collaborazione nella fotografia artistica e di moda. Nel 2000 Dita Pepe ha iniziato a insegnare fotografia alla High School of Art di Ostrava e nel 2004 è diventata lettrice di fotografia di ritratto e di moda presso l’Institute of Creative Photography di Opava. Nel 2003 ha completato gli studi presso l’ITF di Opava. Il titolo della sua tesi era Dita Hornsteinerová (Pepe): Photography – Self-therapy (ITF FPF SU, Opava 2003). Come suggerisce il titolo, per l’autrice la fotografia è una forma di auto-terapia e di riflessione su se stessa. La fotografia permette alla Pepe di entrare in contatto con il mondo esterno. Le apre un passaggio dal suo ‘micro-mondo’. Come dice lei stessa: “... fare foto per me è una forma di comunicazione, non solo per me stessa ma, grazie alla fotografia, posso parlare con la gente, fare domande, rispondere e reagire, provare sentimenti, vivere, sono attiva…”. La prime immagini di Dita Pepe, realizzate in Germania - dove si era comprata una prima macchina compatta e successivamente una reflex - sono in bianco e nero. Successivamente si è avvicinata alla fotografia a colori, che riteneva più realistica e contemporanea, in grado di offrirle più opportunità per esprimere se stessa. Durante gli studi all’ITF aveva realizzato una serie di immagini in bianco e nero di persone affette da malattie mentali, a Ostravice, e un progetto intitolato “People from Hlucinsko of the 90’s of the 20th Century”. Questo avveniva quando la fotografia classica in bianco e nero godeva ancora di grande popolarità, grazie all’opera di importanti fotografi cechi quali Josef Koudelka, Markéta 13
the Czech photographic tradition represented by important personalities such as Josef Koudelka, Markéta Luskac̆ová, Dagmar Hochová, Viktor Kolár̆ and Jindr̆ich S̆treit. As Pepe started taking more colour pictures, so has her interest in the humanistically oriented black and white photography moved towards staged photography. In 1999, Pepe began working on her Self-portraits project which was very positively received and earned her recognition among both the general public and professionals. In the first series, Self-portraits with Women, she posed alongside women who varied in type, age, professional background and social position. Pepe adopted the style of her models. She tried to look and act just as they did. She imitated them so completely that she almost became their identical copy, a twin sister. For this purpose she used wigs, make up, clothing and accessories borrowed from the models. The final result is fascinating. At first glance Pepe is hardly recognisable in the pictures. A really truly she changed into a middle aged lady at a tea party, a village girl in a floral coat with a scarf on her head, a young sports-woman showing off her fit body in sportswear, an old woman in a retirement home, a young girl in a child’s room filled with stuffed toys, a striptease dancer, a business woman with a notebook or a stern intellectual in a library. The pictures were taken mainly indoors, in the models’ natural environment, in order to add to the character of the model and to set her in a wider context. Authentic living rooms, boudoires, bedrooms and girl’s rooms with a multitude of expressive details, such as décor, accessories and personal items, brought to the pictures a social equality that somehow eliminated the borders between staged and documentary photography. The concept of this project is based on the play between identity and its possible replacement, transformation and modification. Pepe, involved both as the photographer and the model, through this play investigates and reflects her own personality. She identifies with different social roles, attitudes and values. At the same time, she creates a remarkable study of women in contemporary Czech society. Having finished Self-portraits with Women, Pepe began a series of photographs of her mother, herself and other relatives. This series, however, did not arouse such a great attention as the former body of work. Pepe decided to continue in the successful project of selfportraits with a series called Selfportraits with Men. This time she took pictures of herself with men, appearing as 14
Luskac̆ová, Dagmar Hochová, Viktora Kolár̆ e Jindr̆ich S̆treit. Quando Dita Pepe inizia a lavorare sempre più spesso a colori, il suo interesse per il bianco e nero si sposta verso la ‘staged photography’, la fotografia messa in scena. Nel 1999 aveva cominciato a lavorare al suo progetto Self-portraits, che aveva suscitato un consenso estremamente positivo sia da parte del pubblico che da parte dei professionisti del settore. Nella prima serie Self-portraits with Women si metteva in posa accanto ad altre donne che variavano di tipologia, di età, di background professionale e di posizione sociale. Adottava lo stile delle sue modelle, cercando di sembrare e di comportarsi proprio come loro. Le imitava in modo talmente preciso, usando parrucche, trucco, abiti e accessori presi in prestito dalle sue modelle, da diventare una loro copia fedele, una sorella gemella. Il risultato finale è affascinante. A prima vista è difficile riconoscere la Pepe nelle immagini. Diventa una signora di mezza età a un tè con le amiche, una contadinella con cappotto a fiori e foulard in testa, una giovane atletica che si esibisce in abbigliamento sportivo, una vecchia signora in una casa di riposo, una ragazzina in una cameretta piena di giocattoli, una spogliarellista, una donna d’affari con computer portatile o una severa intellettuale in biblioteca. Le immagini sono state fatte prevalentemente in interni, negli ambienti quotidiani delle persone ritratte. Il luogo serviva ad aggiungere carattere alla modella, inserendola in un contesto più ampio. Veri salotti, camere da letto e camere di ragazze con moltissimi dettagli, accessori e oggetti personali contribuivano a creare un’eguaglianza sociale che eliminava in un certo senso i confini tra fotografia messa in scena e fotografia documentaria. Il progetto era concepito come un gioco sull’identità e una sua possibile sostituzione, trasformazione e cambiamento. Grazie a questo gioco l’autrice, coinvolta sia come fotografa che come modella, investiga e riflette sulla sua stessa personalità. Si identifica con ruoli sociali, capacità e valori diversi. Allo stesso tempo Dita Pepe realizza uno straordinario studio sulle donne nella società ceca contemporanea. Completato il progetto Self-portraits with Women, Dita Pepe ha iniziato una serie di fotografie di sua madre, di se stessa e di altre parenti, che tuttavia non ha suscitato lo stesso interesse del lavoro precedente. Pepe ha deciso quindi di continuare il suo felice progetto sugli autoritratti con una serie intitolata Selfportraits with Men. Questa volta ha fotografato se stessa accanto a uomini, come partner, moglie, amica, sorella o madre. Si è identificata totalmente con l’uomo al suo fianco, assimilando il suo stato sociale e il suo ambiente, la sua
their partner, wife, friend, sister or mother. She fully identified with the man at her side, assimilating his social status and environment, his profile, image and values. She took pictures not just of men, but of whole families. Her models, mostly friends and acquaintances, neighbours and colleagues, included a homeless man whom her partner, Petr Hrubes̆, featured in a TV documentary. Again she used a wide range of types, characters, life stories and destinies to develope further her ideas on identity and its changes, creating at the same time a multilayer, self-reflective and sociological portrait. In contrast to Self-portraits with Women, the pictures in this series were taken mainly outdoors, where Pepe succeeded brilliantly in combining available and artificial light. The technical improvement in processing is noticeable. Artistically, Self-portraits with Men are more mature than Self-portraits with women. This is without doubt due to her experience acquired in fashion photography and to her closer collaboration with Petr Hrubes̆. In recent years, Pepe has worked with Hrubes̆, creating not just fine art projects, such as the series Self-portraits with Men, but also doing fashion photography. This collaboration led to series of fashion photographs for the designer Pavel Ivanc̆ic – Bodysofa and Venus as a Boy. Dita Pepe’s work has been widely appreciated by both the public and professionals. It has been shown in many group and solo exhibitions in Prague, Ostrava, Opava, Bratislava, Hamburg, Berlin, Cologne, Paris, Moscow and elsewhere. She is represented in private and public collections, including the National Gallery in Prague and the Museum of Art in Olomouc (CZ). Pepe’s photographs have been published in Czech magazines such as Reflex, Blok, Dolce Vita and Instinkt, as well as in foreign publications (e.g. Emma, GEO Wissen). Pepe has been awarded a number of prizes in domestic and foreign competitions. In 2001, she won the prestigious German competition Kodak Nachwuchs Förder Preis with the series Self-portraits with Women. Two years later, she and Petr Hrubes̆ won the 1st prize with Bodysofa in the categhory Art in the Czech Press Photo competition. In 2004, she became the first winner of the Jaromír Funke Prize for Czech photographers under the age of 35 years. In 2007, at the international contemporary art fair, Praguebiennale 3, Dita Pepe obtained the Visitors’ Prize for Self-Portraits with Men. More than 40,000 visitors to the Biennale voted in the competition…
apparenza, i suoi valori, la sua immagine. Ha scattato foto non solo di uomini ma di famiglie intere. Suoi modelli sono stati gli amici, i conoscenti, i vicini, i colleghi ma anche un senza tetto che il suo compagno Petr Hrubes̆ aveva ripreso in un documentario televisivo. Anche questa volta ha scelto tipi, caratteri, vite e destini molto diversi per sviluppare ulteriormente le sue idee sull’identità e i suoi cambiamenti, creando un ritratto sociologico al tempo stesso multiforme e autoriflettente. A differenza di Self-portraits with Women queste immagini sono state realizzate principalmente in esterni, dove Dita Pepe è riuscita brillantemente a combinare luce naturale e artificiale. Il miglioramento della tecnica di elaborazione è considerevole. Artisticamente il progetto Self-portraits with Men è più maturo di Self-portraits with women, senza dubbio per l’esperienza acquisita grazie alla fotografia di moda e alla sempre più stretta collaborazione con Petr Hrubes̆. In anni recenti Pepe ha lavorato con Petr non solo a progetti artistici, come la serie Self-portraits with Men, ma anche realizzando foto di moda. Questa collaborazione ha portato alla realizzazione di una serie di immagini di moda per il designer Pavel Ivanc̆ic: Bodysofa e Venus as a Boy. Negli ultimi anni il lavoro di Dita Pepe è stato ampiamente apprezzato sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori. È stato esposto in decine di mostre collettive e personali a Brema, Fry’dek-Místek, Ostrava, Opava, Praga, Sovinec, Bratislava, Amburgo, Berlino, Colonia, Parigi, Lublan, Mosca e in altre città. È presente in collezioni private e pubbliche, fra le quale la National Gallery di Praga, il Museum of Art di Olomouc. Le foto di Dita Pepe sono state pubblicate su riviste ceche (Reflex, Blok, Dolce Vita, Instinkt) oltre che su pubblicazioni straniere (Emma, GEO Wissen). La Pepe ha ottenuto diversi riconoscimenti in concorsi nazionali ed esteri. Nel 2001, con la serie Self-portraits with Women, si è aggiudicata il prestigioso riconoscimento tedesco Kodak Nachwuchs Förder Preis. Due anni dopo, con Petr Hrubes̆, ha vinto con Bodysofa il 1° premio nella categoria Arte nel concorso Czech Press Photo. Nel 2004 è stata la prima vincitrice dello Jaromír Funke Prize for Czech Photographers con meno di 35 anni. Nel 2007, in occasione della Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea Praguebiennale 3, Dita Pepe ha ottenuto il premio dei visitatori con la serie Self-Portraits with Men, aggiudicandosi le preferenze della maggioranza dei 40 mila visitatori della Biennale.
Eva Marlene Hodek
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LÉA CRESPI
To be in place
Essere nei luoghi
For the past 10 years, Léa Crespi has been making an all-embracing exploration of time, memory, and the representation of space. In doing so, she has taken big risks, using her naked body as a tool, enticing us to look at it and perhaps see the space around it.
Da dieci anni Léa Crespi porta avanti, con un coinvolgimento totale, una riflessione sulla rappresentazione dello spazio, sul tempo, sulla memoria, assumendosi rischi elevatissimi: è il suo corpo nudo, senza alcuna protezione, che viene utilizzato come strumento per rivelare lo spazio, proporci di guardarlo, forse di vederlo.
Shaven-headed, she journeys through her chosen Lieux (Places), using her flawless figure as a decoy. We initially assume her proposition is nudes and self-portraits. But while she demands obvious effort from her body, twisting it into particular positions, pushing it to the very limit of erasure and disappearance, there and yet absent, we soon realise that the real issue is the space in which her body moves.
Con il cranio rasato, attraversa i «luoghi» che ha scelto affinché la sua plasticità impeccabile sia un miraggio. Crediamo a prima vista che si tratti di una proposta sul nudo, sull’autoritratto. Molto velocemente, visto che pretende dal suo corpo sforzi evidenti, che lo obbliga a torsioni e posizioni particolari, che lo spinge al limite della soppressione o della scomparsa, al tempo stesso presente e assente, percepiamo che la posta in gioco è semplicemente lo spazio all’interno del quale si muove.
She employs light, a shrewd appreciation of allmerging colour, variation in materials, flaking details of deteriorated forms, cables, bricks, concrete, paint and glass roofs that once had a purpose and that are now abandoned and in a desolate state, but that remain as a recollection. These are places in which there was once activity, often industrial or productive, and which are now nothing more than a reminder of bygone times. Rather like the photographs. Crespi’s body is no longer corporeal but a seductive illusion luring us into a way of seeing. The ‘abnormal’ clash between the two generates images that establish a way of talking about today within the framework of yesterday.
Gioco di luci, abile apprezzamento del colore che fonde tutto, comparsa di variazioni materiche, di dettagli scrostati, di forme degradate, di cavi, di mattoni, di cemento, di intonaci, di vetrate che avevano, un giorno, una funzione. E che sono oggi abbandonati, in una desolazione che resta, tuttavia, una memoria. Questi luoghi sono spazi che annoverano un passato ricco di attività, spesso di natura industriale, produttiva e che non sono altro che il ricordo del tempo che fu. Un po’ come la fotografia. Questo corpo non è più un corpo sociale, ma un miraggio seducente, che ci instrada a una pratica dello sguardo. Dallo choc «anomalo» tra i due aspetti sorge un’immagine che si impone come un modo di comunicazione odierno in una parentesi di ieri.
Léa Crespi tells us about these places, invents territories that she takes possession of and invites us into, yet does not give us the keys to understand them. She obliges us to feel and then to think about our place in relation to space.
Léa Crespi, parlandoci di “luoghi” inventa territori dei quali si appropria e nei quali ci invita senza tuttavia consegnarcene le chiavi. Ci obbliga a sentire, e successivamente a pensare, al nostro posto nello spazio.
As the rhythm of her work continues, the spaces becomes bigger, wider and more important than the presence of her body – up until the moment when these strange exterior images, steeped in desolation and coldness, bring the industrial spaces back to life and leave us helpless.
Uno spazio che, al ritmo dell’evoluzione del lavoro, diviene più ampio, più grande, più importante della presenza stessa del corpo.
Christian Caujolle
Christian Caujolle
Fino a questa immagine in esterni, estranea alle altre, che comunica al tempo stesso desolazione, evoca il freddo, ricorda lo spazio industriale e ci lascia impotenti.
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Le opere di Lea Crespi sono presentate con una videoproiezione e un’installazione audio di Loïc Blairon.
Lea Crespi’s work is presented in a projection with a sound installation by Loïc Blairon.
“lieux” - bellot 2008 - 11:02 © Loïc Blairon
Loïc Blairon
Loïc Blairon è un “sound artist”. Costruisce strumenti sonori usati come relazione con lo spazio. Ogni installazione è definita in e da un luogo e si adatta a una precisa architettura. Il suono è il suo mezzo che acquista senso sebbene l’individuo e la sua azione si svolgano in un breve periodo di tempo. Attraverso la costruzione metodica di installazioni e opere d’arte sonore, interroga il fenomeno dell’ascoltare e sfida la costruzione intellettuale che viene messa in gioco nella nostra relazione con lo spazio/media. Sviluppa l’idea di uno spazio ermetico e inconsapevole dove ogni situazione può essere immaginata, cioè coinvolgendo lo spettatore in posizioni singolari che sfidano la nostra relazione con il reale e la sua rappresentazione.
Loïc Blairon is a “sound artist”. He makes sound devices that are used in relation to space. Each installation is defined in and by a place and fits a precise architecture. Sound is his medium, even though the individual and the work interact for a short period of time. Through the methodical construction of his installations and sound artwork, he examines the phenomenon of listening and challenges the intellectual constructs that come into play in our relationship with the space/media. He develops the idea of a place sealed off from the outside world, where everything can be imagined, and involves us as individuals in singular situations that challenge our relationship with the real and its representation. Microfoni a contatto in bocca – 1:20
Contact microphones in mouth - 1:20 36-37
Microfono nella mano sinistra, dittafono e dispositivo – 0:42
Microphone in left hand, dictaphone & device - 0:42 38-39
Microfono, dittafono e dispositivo – 1:33
Microphone, dictaphone & device - 1:33 40-41
Pick-up sul piede sinistro - 1:56
Pick-up on left foot - 1:56 42-43
Microfoni a contatto, cavi e dispositivo - 2:28
Contact microphones, cables & device - 2:28 44-45
Microfoni a contatto, dispositivo - 1:56
Contact microphones & device - 1:56 46-47
Microfono, dittafono e dispositivo - 0:28
Microphone, dictaphone & device - 0:28 48-49
Dittafono - 0:38
Dictaphone - 0:38 50-51
ROB HORNSTRA
DO IT YOURSELF – Rob Hornstra and contemporary documentary practice
FAI DA TE - Rob Hornstra e la pratica della fotografia documentaria contemporanea
“When I returned from Russia with a series of photographs relating to about one per cent of young Russians, I had no trouble getting the work published almost everywhere during the weekend of the Russian elections. But no-one is interested in the story of the 80 per cent of the Russian population who live outside Moscow and who are hardly aware of the Putin government’s improvements or who are even victims of them. However good they may find my pictures (...) Foreign stories sell poorly, negative foreign stories even worse. Youth, however, sells well. Foreign youth is therefore okay. In my opinion, this situation has nothing to do with objective reporting. (…) We, the new generation of photographers, should not be too dependent on newspapers and magazines. They should not determine what we can do or what we can show to the world; we have to do this ourselves by developing new forms of presentation,” said Rob Hornstra (b. 1975) in a debate on the making of contemporary documentaries at the Stedelijk Museum, Amsterdam, on March 5, 2008.
“Quando sono tornato dalla Russia, con una serie di fotografie relative all’1% circa della popolazione giovanile moderna, non ho avuto problemi a far pubblicare il mio lavoro praticamente ovunque durante il weekend delle elezioni russe. Ma nessuno è interessato alla storia dell’80% della popolazione russa che vive fuori Mosca, che difficilmente percepisce i miglioramenti del governo Putin o che è addirittura vittima dello sviluppo, anche se magari possono trovare interessanti le mie foto. (….) Le storie di un paese straniero si vendono a fatica, quelle negative poi ancora meno. Le foto dei giovani, tuttavia, piacciono. Vanno bene quindi le foto dei giovani stranieri. A mio avviso questa situazione non ha niente a che vedere con un reportage oggettivo. (…) Noi fotografi della nuova generazione non dovremmo essere troppo dipendenti da giornali e riviste. Questi non dovrebbero determinare che cosa dobbiamo fare o che cosa possiamo mostrare al mondo, siamo tenuti a deciderlo da soli, sviluppando nuovi modi di rappresentazione”, ha affermato Rob Hornstra (nato nel 1975) in un dibattito sulla pratica documentaria contemporanea presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam il 5 marzo 2008.
Hornstra has followed these principles since he graduated (with honors) from the Utrecht School of the Arts in 2004, with the self-published and now hard-to-find book, Communism and Cowgirls. I was happy to find both Hornstra and the book at Markus Schaden’s bookstand during the 2004 Rencontres d’Arles. Almost four years later, Hornstra’s career seems to have taken off. In 2006, he was involved in Changing Faces, a project initiated by the IPRN (International Photography Research Network), that dealt with the changes taking place in the European Union with regard to work. For the project, he traveled to Iceland where he photographed workers in the fishing industry and the local youth on the streets at night. It resulted in his second book, Roots of the Rúntur, also self-published and now difficult to find. Carrying his form of professional self-help one step further, Hornstra has been actively lobbying for a workspace for documentary photographers in Utrecht, called FOTODOK. He hopes the center will open its doors in 2009.
Comunque, questo è esattamente quello che ha fatto Hornstra dopo la sua laurea (con lode) presso la Utrecht School of the Arts nel 2004. Di fatto si è laureato con un libro pubblicato da lui stesso, ormai difficile da reperire, Communism and Cowgirls. Sono stato fortunato perché ho trovato sia lui che il suo libro presso lo stand di Markus Schaden in occasione dei Rencontres d’Arles nel 2004. Circa quattro anni dopo sembra che la carriera di Hornstra sia decollata. Nel 2006 è stato coinvolto nel progetto Changing Faces, indetto dall’IPRN (International Photography Research Network). Per questo programma sui cambiamenti in corso nell’Unione Europea con riferimento al lavoro, ha viaggiato in Islanda, dove ha fotografato i lavoratori dell’industria ittica e i giovani locali durante lo struscio serale. Queste immagini hanno dato luogo al suo secondo libro, Roots of the Rúntur, anche questo pubblicato da lui stesso e difficile da reperire. Proseguendo su questa strada di autonomia, Hornstra è stato uno dei maggiori sostenitori dell’apertura di uno spazio per la fotografia documentaria a Utrecht, chiamato FOTODOK. Spera che il centro apra nel 2009. 53
For GD4PhotoArt, Rob Hornstra traveled to Siberia to photograph a cement town in the vicinity of Angarsk. The photos will become part of his next book, 101 Billionaires, which will be launched in November 2008. The title is a somewhat cynical reference to an article in a Russian financial magazine which claimed that Russia now had the second largest number of billionaires in the world; Hornstra says his photographs will show the grim working and living conditions in the anonymous cement town that, in a way, stands for the 80 per cent of the Russian population living outside Moscow, referred to in his speech. This is bad news and therefore (almost) not publishable in the mainstream media, so Hornstra will once more self-publish his next book, without making compromises. Thanks to alternative financial sources he has been able to find for his work (including this prize), the book is likely to be another fine example of ‘slow journalism’. I have no doubt that it will sell out as quickly as the earlier two, despite the fact that his print run doubles with every publication: from 250 for Communism and Cowgirls to 500 for Roots of the Rúntur to 1,000 for 101 Billionaires. Text has become increasingly important in Hornstra’s pictures. “I object to the cliché ‘a picture is worth more than a thousand words’,” he says. “Documentary images need text.” Accordingly, text will play a bigger role in his upcoming book: its solidity will help to create the mental space for the more abstract, almost sculptural images of objects and buildings that complement his portraits. In a recent article in the Dutch daily newspaper, De Volkskrant, art critic, Merel Bem, labeled Rob Hornstra “one of the best kept secrets of young Dutch photography”. It remains to be seen for how long this will be the case.
Bas Vroege
Per GD4PhotoArt Rob Hornstra è andato in Siberia, e ha fotografato una città di cemento vicino ad Angarsk. La serie di immagini farà parte del suo prossimo libro, 101 Billionaires che verrà pubblicato nel novembre 2008. Il titolo fa riferimento, in maniera cinica, a un articolo pubblicato da una rivista finanziaria russa nel quale si afferma che adesso la Russia ospita il secondo maggior numero di miliardari al mondo. Secondo quanto ha detto Hornstra nella sua introduzione, il titolo vuole porsi in forte contrasto con il grigiore delle condizioni lavorative e di vita dell’anonima città di cemento che, in qualche modo, valgono ancora per quell’80% della popolazione russa che vive fuori Mosca. Cattive notizie e, quindi, difficilmente pubblicabili sui media. Anche questa volta pubblicherà in proprio il suo libro, come sempre senza scendere a compromessi. Grazie alle fonti finanziarie alternative che è stato in grado di raccogliere per il suo lavoro (incluso questo premio), il libro costituirà probabilmente un altro pregevole esempio di giornalismo “slow”. Non ho dubbi che il libro andrà esaurito velocemente quanto i due precedenti, nonostante il numero di copie pubblicate sia stato raddoppiato ogni volta: da 250 per Communism and Cowgirls a 500 per Roots of the Rúntur e 1000 per 101 Billionaires. Il testo è diventato sempre più importante per le immagini di Hornstra. “Non sono d’accordo sul luogo comune che afferma che un’immagine vale più di 1000 parole”, ha affermato. “Le immagini documentarie hanno bisogno di un testo”. Parlando del libro in preparazione ci si rende conto che la sua struttura beneficerà di un più ampio ruolo giocato dal testo la cui concretezza contribuirà a creare lo spazio mentale per le immagini più astratte, quasi scultoree degli oggetti e degli edifici che affiancano i suoi ritratti. In un recente articolo pubblicato sul quotidiano olandese De Volkskrant il critico d’arte Merel Bem ha etichettato Rob Hornstra come “uno dei segreti meglio tenuti della giovane fotografia olandese”. Resta da vedere per quanto tempo ciò rimarrà valido.
Bas Vroege
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Angarsk, RUSSIA, 2008 – Mosca deve gran parte della sua enorme ricchezza all’entroterra siberiano, anche se gli abitanti di quella regione vedono ben poco di questo benessere. La vita è dura, non ci sono miliardari nella Città di Cemento. Angarsk, Russia, 2008 – To a large extent, Moscow has the Siberian hinterland to thank for its enormous wealth. But Siberians see very little of this affluence. Life is hard. There are no billionaires to be found in Cement Town.
Lo skyline del complesso industriale petrolchimico di Angarsk. Realismo sovietico degli anni ’70 in un quadro nella sala del teatro cittadino.
The skyline of the Angarsk petrochemical industrial complex. Soviet realism from the 70’s, in a picture in the lounge of the city opera. 55
“How the steel was tempered”
“Come fu temperato l’acciaio”
Impressions of a Stalinist model village
Impressioni di un villaggio di modello stalinista
There is one small shop in Cement Town, which is called ‘Hope’. The name is painted in graceful letters above the door. It sells vodka, dried fish, sausages and essential household items; but mostly, it sells vodka. It is 10 o’clock in the morning. The cleaning lady stands in the middle of the room. Her sizeable behind is out of proportion with her narrow shoulders. She plunges a mop into a bucket of black water and looks anxiously around her until the only customer at the till has put his half litre bottle of vodka into his coat pocket and with a flourish, propelled himself onto the street. Outside it is minus 40. The drunkard laughs about something. This is strange because Cement Town is totally deserted. A diffuse light deadens the sound. It is as if at the moment Cement Town was completed in 1955, the ice age set in.
Nella Città di Cemento c’è un piccolo negozio, chiamato ‘Speranza’. Il nome risalta scritto con lettere graziose sopra alla porta. Vende vodka, pesce essiccato, salsicce e casalinghi, ma soprattutto vende vodka. Sono le 10 del mattino. La signora delle pulizie sta in piedi al centro della stanza: spalle strette, fondo schiena di proporzioni considerevoli. Immerge un “mocho” in un secchio pieno di acqua nera e si guarda attorno preoccupata, osservando l’unico avventore del locale che ha messo una bottiglia di vodka nella tasca del cappotto e, con un sorriso, ha affrontato di nuovo la strada. Fuori il termometro segna meno 40. L’ubriacone ride di qualcosa. È strano, perché la Città di Cemento è completamente deserta. Una luce diffusa annienta i rumori. È come se non appena completata la Città di Cemento nel 1955, avesse preso piede l’era glaciale.
Cement Town is a small suburb of the East Siberian industrial city of Angarsk. At the end of the 1940s, 60,000 of Stalin’s prisoners erected Siberia’s largest industrial complex here. The prison camps still stand among the smoking chimneys of the petrochemical industry. Angarsk is a city of criminals, forced labourers and communist bruisers. Sixty years on, the city still has a reputation as a banditski gorod, a bandit city.
La Città di Cemento è un piccolo sobborgo alla periferia est di Angarsk, centro industriale siberiano. Alla fine degli anni ’40, sessantamila prigionieri di Stalin costruirono il più grande complesso industriale della Siberia. Gli alloggi dei prigionieri si ergono ancora tra le ciminiere fumanti dell’industria petrolchimica. Angarsk è una città di criminali, lavoratori forzati e colossi comunisti. Sessanta anni dopo la fama della città è ancora quella di una “banditski gorod”, una città di banditi.
Most Angarskians are proud of their city. They call it ‘The Leningrad of Siberia’, because the severe, imperial architecture is said to have been based on St. Petersburg’s city planning.
La maggior parte degli abitanti di Angarsk è orgogliosa della propria città. La chiamano “la Leningrado della Siberia”, poiché l’architettura severa, imperiale si dice sia stata ispirata dalla planimetria di San Pietroburgo.
One of Angarsk’s first neighbourhoods was the cement workers’ town. It is located far from the centre, and comprises 53 two-storey apartment blocks
Uno dei primi quartieri di Angarsk è stata la Città dei lavoratori del cemento. Situata lontano dal centro, comprende 53 condomini a due
Una casa abbandonata nella Città di cemento, oggi rifugio per alcuni drogati
An abandoned house in Cement Town, nowadays functions as a shelter for drug users. 56
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that literally stand in the shadow of the enormous cement factory; a model Stalinist village, complete with a pompous cultural centre and a three-tiered fountain on the high street.
piani, sorti all’ombra di un’enorme fabbrica di cemento; un villaggio in pieno stile Stalinista, con il suo pomposo centro culturale e la fontana a tre livelli nella via principale.
The inhabitants of Cement Town once lived to the rhythm of the factory bell. There was work, the children went to school and a social services system took care of basic needs. The factory played a central role in this. In the 1990s, however, everything fell apart. Rival clans fought relentlessly for control of the cement factory. The most difficult years were 19961998 when the factory was plundered and left bankrupt and Cement Town’s inhabitants were abandoned to their fate. People began to look for work elsewhere and the area emptied. One of the schools burned down, while the other was turned into a drug rehabilitation centre. Only the kindergarten is still open, attended by 15 children.
Gli abitanti della Città di Cemento una volta vivevano al ritmo della sirena della fabbrica. C’era lavoro, i bambini frequentavano la scuola e un sistema di servizi sociali si prendeva cura delle esigenze principali. La fabbrica svolgeva un ruolo chiave in tutto ciò. Ma negli anni ’90 tutto si è incrinato. Clan rivali hanno iniziato a combattersi senza tregua per il controllo della fabbrica di cemento. Gli anni più difficili sono stati dal 1996 al 1998. La fabbrica venne saccheggiata e fece bancarotta, gli abitanti della Città di Cemento furono abbandonati al loro destino. Le persone iniziarono a cercare lavoro altrove e l’area rimase deserta. Una delle scuole prese fuoco, mentre l’altra fu trasformata in un centro di riabilitazione dalle tossicodipendenze. Solo l’asilo è ancora aperto, frequentato da 15 bambini.
Today, the chimneys of the factory have started to smoke again, but Cement Town’s residents have seen little of the new economic prosperity. Cement Town has been written off; it has been erased from the balance sheet.
Oggi le ciminiere delle fabbriche hanno iniziato nuovamente a fumare, ma i residenti della Città di Cemento non hanno visto nemmeno da lontano la prosperità economica. La Città di Cemento è stata cancellata anche dai bilanci economici.
The blast furnace The cement factory still functions using old, energyintensive Soviet processes. Four steadily turning metal pipes, seven metres across and 150 metres long, supply the materials for the production of cement bricks. The pipes lie on a slight incline and at the end of each pipe is a cement oven, the compartments of which follow the slope of the pipes. Spark fly out from the flaming ovens and every now and then, glowing bricks are thrown into the middle of the floor.
L’altoforno La fabbrica di cemento funziona ancora secondo gli antiquati processi energetici sovietici. Quattro tubi metallici di sette metri di diametro e lunghi 150 metri, in continuo movimento, forniscono i materiali per la produzione di mattoni di cemento. I tubi sono leggermente inclinati e terminano in un forno per cemento, i cui comparti seguono l’inclinazione dei tubi. Dai forni fuoriescono scintille infuocate e, di tanto in tanto, qualche mattone incandescente viene scagliato al centro del locale.
Nella cucina della mensa della fabbrica di cemento.
In the kitchen of the cement factory’s canteen. 58
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Over 40 years, Vladimir Roedoi has worked his way up to the position of the blast furnace’s chief engineer. Since privatisation, he has seen management teams come and go. He shrugs his shoulders at this. His factory floor is the beating heart of this Soviet basilisk.
In oltre 40 anni di carriera, Vladimir Roedoi è arrivato a occupare la posizione di ingegnere capo dell’altoforno per il cemento. Dopo la privatizzazione, ha visto susseguirsi vari gruppi dirigenziali alla guida della fabbrica. Quando se lo sente ripetere si stringe nelle spalle: la sua fabbrica è il cuore pulsante di questo basilisco sovietico.
“Our factory was the most beautiful in the Soviet Union’s industrial culture,” he says. “We produced above capacity. It was a clean factory; there were six greenhouses where we grew roses, which we distributed on Women’s Day. That’s no longer possible; we are only allowed to make cement now. The factory was awarded the Order of Lenin twice. Then perestroika destroyed everything. We have lost 18 years. The collective has fallen apart.”
“La nostra fabbrica era la più bella della cultura industriale dell’Unione Sovietica. Producevamo al di sopra delle nostre capacità. Era una fabbrica pulita, c’erano sei serre nelle quali coltivavamo rose, per il giorno della festa della donna. Oggi questo non è più possibile, possiamo solo produrre cemento adesso. La fabbrica ha ottenuto per due volte il riconoscimento dell’Ordine di Lenin. Poi la perestroika ha distrutto tutto: abbiamo perso 18 anni. La comunità si è disintegrata”.
The director Ivan Nikiforov has occupied the director’s chair for just two months but he has no intention of moving. When asked about the recent struggles for control of the cement factory, he leans back on the broad backrest of his chair but gives little away. The result is surely obvious? He is the one who has made it to the director’s chair and it would be a smart man who could depose him.
Il direttore Ivan Nikiforov occupa la poltrona dirigenziale solo da due mesi, ma non ha intenzione di lasciarla. Spinge indietro l’ampio schienale della sua sedia: quando gli viene chiesto delle recenti lotte per il controllo della fabbrica di cemento, non si sbilancia. Il risultato è ovvio? È riuscito ad arrivare a occupare la poltrona di direttore, dalla quale lo potrebbe rimuovere solo una persona intelligente.
Nikiforov talks in tonnes of production capacity. The factory is on the up. There is a building boom in Russia. The director has faith in the future. “But only under Putin!” he emphasises. “Putin is the only guarantee of stability. The lawless chapter has been closed. Those who dare to break the law these days go straight to prison.” His favourite writer is Nikolai Ostrovski, author of the Soviet realist ode to heavy industry, How the steel was tempered. “I was raised in the spirit of that book,” he says. The fall of the Soviet Union hurt him deeply. “But the worst thing is that we have lost a generation in the 18 years since perestroika.”
Nikiforov parla della capacità di produzione in termini di tonnellate. La fabbrica gode di buona salute. La Russia sta vivendo un boom edilizio e il direttore ha fiducia nel futuro. “Ma solo sotto Putin!”, sottolinea con enfasi. “Putin è l’unica garanzia di stabilità. Il periodo di anarchia si è concluso. Chi osa infrangere la legge oggi finisce diritto in prigione”. Il suo autore preferito, Nikolai Ostrovski, ha scritto l’ode realistica all’industria pesante sovietica, Come fu temprato l’acciaio. “Questo libro ha innalzato il mio spirito”. La caduta dell’Unione Sovietica lo ha colpito profondamente. “Ma la cosa peggiore è che abbiamo perso un’intera generazione nei 18 anni che sono intercorsi dalla perestroika”.
Stolovaya (mensa) della fabbrica di cemento.
Stolovaya (canteen) of the cement factory. 60
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Uno stretto passaggio verso il piano del forno della fabbrica. 62
A narrow passage to the oven’s factory floor.
Lena in attesa vicino all’ingresso della disco.
Lena being on guard near the entrance of the disco.
Artyom (26 anni) in una cellula del centro culturale.
Artyom (26) in the cultural centre’s cellar.
L’improvvisata palestra al piano terra del centro culturale.
The improvised sports hall in the basement of the cultural centre. 63
Macchinista della fabbrica di cemento.
Machinist at the cement factory. 64
Danil e Sergey (entrambi 16 anni) fumano sigarette sulla rampa delle scale del loro condominio.
Danil en Sergey (both 16) smoke cigarettes in the shared stair well of their appartment building. 65
DJ Artyom The centre of Cement Town is considered a ‘no go’ area. “Nothing more than junkies and artists looking for fame!” they say of the suburb’s residents. Artyom (26) laughs at this. He was born in Cement Town. During the week he works at the shunting yard of the local railway. At the weekend he is a DJ in the cultural centre. “Of course there are some shady characters here. And things happen, you know. But I know everyone and what they’re all up to. I make sure they don’t mess with my equipment.”
DJ Artyom In centro si ritiene la Città di Cemento un posto da non frequentare. L’opinione comune descrive la zona come “Nient’altro che rifiuti e artisti in cerca di fama!”. Artyom (26) sorride a sentire ciò. È nato nella Città di Cemento. Durante la settimana lavora alla stazione di smistamento della ferrovia locale, ma nel weekend diventa DJ in un centro culturale. “Non nego che ci siano dei personaggi ombrosi qui e certe cose succedono. Ma io conosco tutti e so quanto valgono. Faccio in modo che non si avvicinino alle mie apparecchiature”.
Birch saplings grow in the cultural centre’s gutters and the building is completely run down. Artyom rents the old theatre auditorium from the City Council. He plays electro-house and buys his music from the kiosks in Irkoetsk, 50 kilometres away. Downloading takes too long; the telephone lines are so bad that they are barely able to process data. He reckons on a crowd of about 30 people on Friday evenings, with twice as many on Saturdays, because this is when the kids from the nearby village, Kitoi, turn up.
Piccole betulle crescono nelle grondaie del centro culturale e l’edificio è in totale abbandono. Artyom ha in affitto l’ex auditorium del teatro dal comune. Suona musica house elettronica che acquista nei chioschi di Irkoetsk, a 50 chilometri da qui. Scaricare musica da Internet richiede troppo tempo; le linee telefoniche sono talmente antiquate che difficilmente possono trasmettere dati. Il suo pubblico è di circa 30 persone il venerdì sera, numero che raddoppia il sabato, quando si uniscono anche i ragazzi del villaggio vicino di Kitoi.
In the cultural centre’s cellar, Artyom has hung up a punch bag. It is like a gym to which only he and a few friends of the same age have the key. “The younger guests always make such an unbelievable mess,” he says. Artyom and his friends expect nothing from the government or from the cement factory. In fact, they would rather be left alone. “But still, it would be great, of course,” Artyom fantasises. “We don’t need much to turn this place into something beautiful. Look at it already. We did all of this ourselves.”
Hans Loos
Nello scantinato del centro culturale Artyom ha appeso un sacco da pugile. È come una palestra a cui possono accedere solo lui e alcuni altri amici coetanei. “I più giovani fanno sempre un disordine incredibile”, aggiunge. Artyom e i suoi amici non si aspettano nulla dal governo né dalla fabbrica di cemento. Preferirebbero essere lasciati soli. “Anche se sarebbe senza dubbio bellissimo”, sogna Artyom a occhi aperti. “Non ci serve molto per trasformare questo posto in qualcosa di meraviglioso. È già a buon punto e abbiamo fatto tutto da soli”.
Hans Loos
Maria Zakharchenko (74 anni) è una delle prime abitanti della Città di cemento. Nel 1957 incominciò a lavorare qui come macchinista e continuò con lo stesso lavoro per tutta la vita. Trasportava carrelli carichi di carbone e mattoni di cemento. Nel 1998 fu costretta ad andare in pensione. 66
Maria Zakharchenko (74) is one of the first inhabitants of Cement Town. In 1957 she started as a machinist an remained in this job for the rest of her life. She would drive waggonloads of coal and cement bricks. In 1998 she was forced to retire.
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Ragazza vicino alla pista da ballo.
Young girl near the dance floor. 68
VenerdĂŹ sera. Masha sta ballando al ritmo elektrohouse del DJ Artyom.
Friday night. Masha is dancing on the elektrohouse of DJ Artyom. 69
Zona industriale vicino alla CittĂ di cemento.
Industrial area near Cement Town.
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Alyona (16 anni) lavora nel piccolo bar del centro culturale, proprio come sua madre. Alyona vorrebbe lavorare come estetista e vivere nel centro di Angarsk.
Alyona (16) works in the small bar in the cultural centre. Just like her mother. Alyona wants to work as a beautician and live in the centre of Angarsk.
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La La Giuria Giuria deldel Concorso Concorso è costituita è costituita da:da: TheThe juryjury members members are:are:
CONCORSO CONCORSO GD4PHOTOART GD4PHOTOART 2007/08 2007/08 La La necessità necessità di arrivare di arrivare a determinare a determinare unauna ristretta ristretta rosa rosa di di
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Gabriele Gabriele Basilico Basilico fotografo / photographer fotografo / photographer Giovanna Giovanna Calvenzi Calvenzi giornalista / journalist , Gruppo , Gruppo Rizzoli Rizzoli Corriere Corriere giornalista / journalist della della Sera Sera Pippo Ciorra Pippo Ciorra docente universitario / university professor professor docente universitario / university Daniela Daniela Facchinato Facchinato gallerista / gallery owner owner gallerista / gallery Laura Laura Gasparini Gasparini curatore della / curator of the of the curatore della / curator Fototeca Fototeca Biblioteca Biblioteca Panizzi Panizzi - Reggio - Reggio Emilia Emilia Piero Orlandi Piero Orlandi responsabile deldel Servizio Beni Architettonici, responsabile Servizio Beni Architettonici, Regione Emilia-Romagna / / Regione Emilia-Romagna Director Director of the of the Emilia Emilia Romagna Romagna Region’s Region’s Architectural Architectural Heritage Heritage Department Department Roberta Roberta Valtorta Valtorta Direttore deldel Museo di Fotografia Direttore Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo / / Contemporanea, Cinisello Balsamo Director Director of the of the Contemporary Contemporary Photography Photography Museum, Museum, Cinisello Cinisello Balsamo Balsamo (Milan) (Milan)
cheche lascia lascia comunque comunque unauna sensazione sensazione di di rammarico rammarico perper quanti quanti sono sono stati stati esclusi. esclusi. Tutti Tutti i progetti i progetti pervenuti pervenuti al concoral concorvitalità, vitalità, l’alto l’alto grado grado di approfondimento di approfondimento e die sperimentaziodi sperimentazione ne narrativa narrativa della della giovane giovane fotografia fotografia internazionale. internazionale. Lo Lo spaspaziozio tiranno tiranno non non consente consente di darne di darne ampia ampia testimonianza testimonianza mama si èsiritenuto è ritenuto comunque comunque necessario necessario conservare conservare unauna panorapanoramica mica selezionata selezionata di tutti di tutti i progetti. i progetti.
GD4PHOTOART GD4PHOTOART COMPETITION COMPETITION 2007/08 2007/08 In every In every competition, competition, thethe need need to decide to decide upon upon a restricted a restricted number number of winners of winners requires requires a selection a selection process process that that leaves leaves oneone with with a sense a sense of of regret regret forfor all all those those excluded. excluded. AllAll thethe submissions submissions forfor thethe GD4PhotoArt GD4PhotoArt Contest Contest were were of of thethe highest highest level level andand bore bore witness witness to the to the great great vitality, vitality, penetrapenetration tion andand narrative narrative experimentation experimentation of today’s of today’s young young interinternational national photographers. photographers. TheThe tyranny tyranny of spatial of spatial imperatives imperatives makes makes it impossible it impossible to display to display thisthis fully, fully, butbut it was it was decided decided that that at least at least a selected a selected range range of of all all thethe projects projects would would be be preserved. preserved.
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Carlos Albalรก
Jean Balke
Javier Bueno
Richard Gilligan
Florian Joye
Stephen Kelly
Rafal Milach
Pekka Nittyvirta
Paulien Oltheten
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Alfredo D’Amato
Jean Robert Dantou
Andrea Diefenbach
Karel Knop
Yannis Kolesidis
Barbora Kuklikova
Vesa Ranta
Thanassis Stavrakis
Maciek Stepinsky
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Ektoras Dimisianos
Ulrich Gebert
Renato Leotta
Aram Tanis
Wassink Lundgren
Gianni Ferrero Merlino
Hanna Weselius
Ireneusz Zjezdzalka
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IERI E OGGI: LA FOTOGRAFIA INCONTRA L’INDUSTRIA YESTERDAY AND TODAY: PHOTOGRAPHY MEETS INDUSTRY Giovanna Calvenzi
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Photography is generally dated from 1839, a contemporary of – and in a way a child of – the industrial revolution in western society. Its coming changed people’s perception of the world: they could “see” places in the other side of the globe that up to then could only have been imagined or rendered in artistic impressions, and they could transmit their own likeness to posterity regardless of their social status. In the space of a few decades photography began to increasingly spread its images of the world and of people, and – once its further technical evolution made it possible – industry and labour were subjected to this new media’s curiosity and search for knowledge. Already by the beginning of the 20th century “industrial photography” had become a professional genre: photos commissioned by companies that needed precise documentation of their manufacturing processes or operative spaces… but not only. At least up until the end of the 1930s industrial machinery and technology exerted a profound sense of fascination, through which even avant-garde art movements reinterpreted the industrial labourer and his tools as heroes in the glorious process of industrialisation. Apart from avant-garde experimentation, however, two particular episodes marked the most intense moment of photography’s engagement with industry. Between 1931 and 1934 an extraordinary French photographer of Czechoslovakian origins, François Kollar, created a monumental visual study in over 10,000 images of France at work. And in the United States Roy Stryker, who had previously been head of the Farm Security Administration’s photographic project, devoted himself from 1943 to 1951 to the “Standard Oil of New Jersey Photographic Project”, where he coordinated a group of photographers (including John Collier, Russell Lee, Gordon Parks, John Vachon and Todd Webb) in documenting the activities of the oil industry and showing the benefits that petroleum had brought to the United States and the world. Both these projects were enormously demanding and wideranging, and both somehow combined accurate documentation with the photographers’ interpretative and aesthetic needs. And so over time photography created an image of industry and labour that was useful to industry itself developing a relationship which thanks to far-sighted companies (in Italy one could point to Olivetti, Ansaldo, Pirelli, IBM, and Italsider, among others) was to lead to the creation of images that would make crucial contributions to the history of photography.
La fotografia nasce nel 1839, contemporanea e in un certo senso figlia del processo di industrializzazione delle società occidentali. Il suo avvento modifica la percezione del mondo: si possono “vedere” luoghi lontani, fino ad allora solo immaginati o conosciuti grazie all’interpretazione pittorica, si può tramandare ai posteri un’immagine di sé, indipendentemente dalla propria condizione sociale. In pochi decenni la fotografia inizia a documentare diffusamente il mondo e gli uomini e, non appena l’evoluzione della tecnica lo consente, anche l’industria e il lavoro non sfuggono alla curiosità e al bisogno di conoscere del nuovo mezzo espressivo. Già all’inizio del secolo scorso la “fotografia industriale” diventa un “genere” professionale: fotografie realizzate per incarico di aziende che hanno bisogno di una documentazione puntuale dei loro processi produttivi o dei loro spazi operativi, ma non solo. Almeno fino alla fine degli anni Trenta il fascino delle macchine e della tecnologia perdura e anche le avanguardie artistiche rileggono l’uomo e i suoi strumenti di lavoro come eroi del processo di industrializzazione. Tuttavia oltre le sperimentazioni delle avanguardie, due episodi segnano il momento più intenso dell’impegno della fotografia nei confronti dell’industria. Uno straordinario fotografo francese d’origine ceca, François Kollar, realizza dal 1931 al 1934 una monumentale indagine visiva in circa diecimila immagini sulla Francia che lavora. Negli Stati Uniti Roy Stryker, che in precedenza aveva guidato il progetto fotografico della Farm Security Administration, dal 1943 al 1951 si dedica allo “Standard Oil of New Jersey Photographic Project” coordinando un gruppo di fotografi (fra i quali anche John Collier, Russell Lee, Gordon Parks, John Vachon e Todd Webb) alla documentazione delle attività dell’industria petrolifera e dei benefici cambiamenti che il petrolio aveva indotto nella vita quotidiana negli Stati Uniti e nel mondo. Sono due progetti di enorme impegno ed estensione, nei quali la necessità della documentazione puntuale non trascura le esigenze interpretative ed estetiche dei fotografi. La fotografia ha quindi costruito nel tempo un’immagine dell’industria e del lavoro che all’impresa diventa funzionale e si sviluppa una relazione che porterà, per incarico di aziende lungimiranti (e in Italia si potrebbero ricordare fra le altre Olivetti, Ansaldo, Pirelli, IBM, Italsider, … ), alla creazione di immagini destinate a scrivere pagine fondamentali nella storia della fotografia. Dall’inizio del secolo scorso ai giorni nostri, autori come Lewis Hine o Jacob Riis, Alfred Stieglitz o Charles Sheeler, Albert RengerPatzsch o Henri Cartier-Bresson, Josef Koudelka o i Becher e, in 79
From the early 20th century down until today, artists like Lewis Hine or Jacob Riis, Alfred Stieglitz or Charles Sheeler, Albert Renger-Patzsch or Henri Cartier-Bresson, Josef Koudelka or the Bechers and, in Italy, Ugo Mulas or Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico or Vincenzo Castella, Francesco Radino or Moreno Gentili, have all worked on industry and for industry, leaving us pictures with an amazing evocative impact that far transcends their original scope. There have been literally countless occasions when companies found themselves voluntarily or involuntarily playing a role very similar to that of classical patronage…and between these opposite adverbs another of the peculiarities of the relationship between photography and industry has been played out. The evolution of society and of manufacturing technology gradually led to industrial photography no longer really being a genre in itself, becoming instead part of various other genres such as the portrait, the still life, journalistic reportage, etc. Once the classic assembly lines had faded out as manufacturing processes developed, labour became “less visible”. And although industries appreciated and exploited photography’s impact as part of effectively promoting company image, industrial photography no longer cast the same spell on the more sensitive talented photographers, whose enthusiasm cooled as their sense of social responsibility grew. From the 1980s onwards, interest in photographic image-culture has largely shifted from human labour to landscape, in order to record and understand the rapid and irreversible mutations that are shaking urban and rural environmental equilibrium. For over twenty years now, “landscape photography” has absorbed an enormous amount of creative energy, both in the United States and in Europe, without so much seeking to denounce, to judge or to provide answers as to bear witness to the transformation with creativity tools. Naturally, the path of social and cultural evolution is never univocal: while enquiries into urban and non-urban landscapes were multiplying, in 1998 Moreno Gentile published Mondo nuovo nuovo mondo, with the results of his long-running exploration of changing work-methods, followed in 2004 by Europe Terminal. Mutazioni tecnologiche-Technological Mutations, concluding a project that he had begun in 1992. Federchimica, the association of Italian chemical companies, celebrated its 75th anniversary by commissioning five internationally renowned photographers (Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Moreno Gentili, Mimmo Jodice and Toni Thorimbert) to work in full creative freedom on the field 80
Italia, Ugo Mulas o Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico o Vincenzo Castella, Francesco Radino o Moreno Gentili, hanno lavorato sull’industria e per l’industria e ci hanno lasciato immagini dalla straordinaria forza evocativa che trascendono l’impegno al quale erano stati chiamati. È una casistica sterminata, nella quale le industrie si sono trovate, volontariamente o involontariamente, a svolgere un ruolo analogo a quello del mecenatismo classico. Su questo contrapposto uso degli avverbi si snoda un’altra delle peculiarità della relazione fra fotografia e industria. L’evolversi della società, infatti, e il modificarsi dei processi di produzione, ha fatto sì che la fotografia industriale non fosse più un genere, ma che si stemperasse nelle esigenze multiple e diversificate del ritratto, dello still life, del reportage,... Scomparse le catene di montaggio, modificati i processi produttivi, il lavoro diventa meno “visibile” e mentre l’industria apprezza e utilizza la forza evocativa della fotografia, che consente anche di promuovere in modo funzionale l’immagine delle aziende, il suo “fascino” per gli autori più consapevoli sembra scemare di pari passo con la sofferta consapevolezza delle proprie responsabilità sociali. A partire dagli anni Ottanta l’interesse della cultura dell’immagine si sposta in larga misura dal lavoro dell’uomo al territorio, per documentare e per capire le mutazioni veloci e irreversibili che stanno sconvolgendo l’assetto dell’ambiente e delle città. La “fotografia di paesaggio” per oltre un ventennio assorbe molte energie creative, negli Stati Uniti e in Europa, senza avere la pretesa di denunciare, di giudicare o di dare risposte, ma con l’imperativo di testimoniare i mutamenti con gli strumenti della creazione. Tuttavia il corso dell’evoluzione della società e della cultura che le si accompagna non è mai univoco. Mentre si moltiplicano le indagini sul paesaggio urbano e non, Moreno Gentili pubblica nel 1998 Mondo nuovo nuovo mondo, che raccoglie una lunga indagine sul lavoro che cambia al quale fa seguito, nel 2004, Europe Terminal. Mutazioni tecnologiche-Technological Mutations, che conclude un progetto iniziato nel 1992. Federchimica, associazione che riunisce le aziende chimiche italiane, per festeggiare i 75 anni della sua esistenza, affida a cinque autori di notorietà internazionale (Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Moreno Gentili, Mimmo Jodice e Toni Thorimbert) l’incarico di lavorare liberamente e creativamente sul mondo delle aziende chimiche pubblicando quindi un volume (Chimica aperta, 1995) che riscopre con occhio contemporaneo il lavoro, le macchine, l’ambiente e le relazioni fra gli uomini. Mentre
of the chemical industry, publishing the results in a book entitled Chimica Aperta (or Open Chemistry) in 1995. This work brought a contemporary gaze to bear on work, machinery, the environment and human relationships. Moreno Gentili’s output is the result of its author’s intimate creative needs, while Federchimica’s initiative is a commissioning project, in purpose not dissimilar to the many such projects that private and public bodies have commissioned from photographers in recent years, despite being more focused on landscape than on industry. It’s not until 2007, and the experience initiated by GD4PhotoArt, that we find a project with genuinely innovative features. Here the culture of industry and work are placed at the centre of a European invited competition that sets out to create a dialogue between photography and industry. As its official announcement stated, this competition “aims to document and support photographic activity related to industry, its impact on society and on the environment, and the role of human labour in economic and productive development”. In a sense, a challenge to the world of photography at a time when its interest seems to have shifted to other subjects. About thirty young European photographers – offered total expressive, linguistic and thematic freedom – accepted this challenge, measuring themselves against a complex and fragmented reality that is often difficult to penetrate, and undertook their competing projects. Dita Pepe, Léa Crespi and Rob Hornstra, the three winners selected by the jury, presented very different projects on the theme of “society, industry and territory”. Dita Pepe, from the Czech Republic, used industrial landscape to recreate and stage portraits of herself as though belonging to groups of workers, students, families, firemen, hunters, and so on. The French Léa Crespi set her own body in locations of industrial archeology, with plays of light and form interacting on her body in space, setting up an intense and often painful dialogue. The Dutch photographer Rob Hornstra concentrated on Siberia: his landscapes, interiors and portraits all use a kind of introspectively meditative photojournalistic language that gives stylized voice to a distant and complex world. In other words, three profoundly different linguistic and stylistic approaches, proof of the vitality of young European photography but also of the irrepressible relevance of themes connected with the world of labour and industry.
il lungo lavoro di Moreno Gentili nasce da un bisogno intimo dell’autore, l’iniziativa di Federchimica è un progetto ad incarichi, negli intenti non dissimile dai molti che aziende private e enti pubblici hanno affidato ai fotografi in anni recenti, sia pure su temi più legati al territorio che all’industria. Bisogna arrivare al 2007, all’esperienza promossa da GD4PhotoArt, per incontrare un progetto dalle caratteristiche effettivamente innovative. La cultura dell’industria e del lavoro sono al centro di un concorso europeo a inviti che si propone di far dialogare fotografia e industria. Un’iniziativa, come cita il bando di concorso, che “intende documentare e sostenere l’attività di ricerca sull’immagine dell’industria, la trasformazione che essa induce nella società e nel territorio, il ruolo del lavoro per lo sviluppo economico e produttivo”. Una sfida, in un certo senso, lanciata al mondo della fotografia in anni in cui l’interesse sembra essersi spostato su altri temi. Una trentina di giovani autori europei, nella più totale autonomia espressiva, linguistica e tematica, hanno accettato di misurarsi con una realtà non semplice, frantumata, dall’accesso a volte impossibile e presentato le loro candidature. Dita Pepe, Léa Crespi e Rob Hornstra, i tre autori selezionati dalla giuria, hanno successivamente realizzato un progetto sul tema “società, industria e territorio”. Dita Pepe, ceca, ha utilizzato il paesaggio dell’industria per ricreare e mettere in scena ritratti di se stessa mimeticamente vicina a operai, studentesse, famiglie, pompieri, cacciatori… Léa Crespi, francese, ha ambientato il proprio corpo in luoghi di archeologia industriale, giocando con la luce, le forme dello spazio e del suo corpo, creando un dialogo intenso e sofferto. Rob Hornstra, olandese, ha lavorato in Siberia: paesaggi, interni, ritratti, utilizzando una sorta di linguaggio fotogiornalistico meditato e introspettivo, capace di dare voce a una realtà lontana e complessa. Scelte linguistiche e stilistiche, quindi, molto diverse che sono un sintomo evidente della grande vitalità della giovane fotografia europea, ma anche della insopprimibile attualità dei temi legati al mondo del lavoro e dell’industria.
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Biografie / Biographies
Léa Crespi Léa Crespi è nata nel 1978 a Parigi. Si è diplomata con lode alla scuola di fotografia di Vevey, in Svizzera, nel 2001 e da allora ha lavorato come freelance per giornali e periodici europei (Tèlerama, Libération, L’Express, Photo Italia, Epok, LSA, Le Monde, Préférences, Nova). Fotografa a colori utilizzando formati diversi e realizza prevalentemente ritratti e reportage. Per il suo progetto personale (“Lieux”, luoghi) fotografa in spazi speciali (case abbandonate, edifici, vecchi alberghi, industrie, magazzini) nei quali mette in scena il suo corpo, la sua pelle, utilizzandoli come oggetti teatrali. Estratti di questo progetto sono stati esposti in numerose gallerie e in occasione di eventi in Europa e in Asia: presso la galleria VU’ ad Arles e a Parigi (2004-20052008), The Heyri Festival a Seul, Corea del Sud (2005), alla Langhans Galerie a Praga (2005), a Paris Photo (2004). Per il suo lavoro ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali. Ha anche collaborato con Hermés e con Jaeger LeCoultre. Inoltre realizza “fotografie quotidiane” con macchine fotografiche rotte, in bianconero e a colori, spesso senza inquadrare.
Léa Crespi was born in 1978 in Paris, France. She graduated from the Vevey photography school in Switzerland in 2001 with honours and has since been working as a freelance photographer for European newspapers and magazines including Télérama, Libération, L’express, PhotoItalia, Epok, LSA, Le Monde, Préférences, Nova. Her work, mainly portraits and reportage, is in colour and in various formats. For her personal project, Lieux
(Places), Crespi has taken pictures of special places – abandoned houses, building sites, old hotels, factories, warehouses – where she has used her own body, her own skin, as a prop. Parts of this project have been shown in galleries and at events throughout Europe and Asia: the Gallery Vu’ in Arles and Paris, France (2004, 2005, 2008), the Heyri Festival in Seoul, South Korea (2005), Langhans Galerie in Prague, Czech Republic (2005), Paris Photo, Paris, France (2004). Crespi’s awards include the Young Talents at the Arles festival, 1999, third prize at the Swiss VFG (Vereinigung Fotografischer Gestalterinnen) 1999, and selection for the European Award for Women Photographers, 2002. She has also taken photographs for Hermés and Jaeger LeCoultre watches. In addition, Crespi takes “everyday pictures” in black in white and colour with brokendown cameras, often not even looking through the viewfinder.
Rob Hornstra Rob Hornstra è nato nel 1975. Nel giugno 2004 si è diplomato con lode in fotografia all’Accademia d’Arte di Utrecht nei Paesi Bassi. Precedentemente aveva studiato Social and Legal Services e lavorato per un anno come assistente sociale. La sua fotografia nasce quindi da una combinazione di queste due aree di studio. Dopo essersi diplomato, Rob Hornstra ha vinto il Dutch Photo Academy Award grazie al suo libro “Communism & Cowgirls”. È stato quindi incaricato dal Network di ricerca internazionale di fotografia industriale dell’Unione Europea di lavorare in Islanda per due mesi. Con questo nuovo cor-
pus di lavoro ha pubblicato il suo secondo libro, “Roots of the Rùntur” nel 2006. Entrambi i libri sono esauriti. Il lavoro di Hornstra è stato pubblicato da molti periodici e giornali in Olanda e all’estero. I suoi due principali progetti sono stati esposti in tutto il mondo. Per la fine del 2008 pubblicherà il suo nuovo libro “101 Billionaires”, uno sguardo critico sulla Russia contemporanea.
Rob Hornstra was born in 1975. In June 2004, he graduated with honours in photography from the Academy of Arts, Utrecht, the Netherlands, after previously studying Social and Legal Services and working as a probation officer for one year. His photography can best be seen as a combination of these two areas of study. After graduation, Hornstra won the Dutch Photo Academy Award with his book ‘Communism & Cowgirls’. He was commissioned by the International Photography Research Network in the European Union to work in Iceland for two months and from this new body of work he published his second book, ‘Roots of the Rúntur’, in 2006. Both Hornstra’s books have sold out. Hornstra’s work has been published in many magazines and newspapers in the Netherlands and abroad. His two major projects have been shown in exhibitions all over the world and by the end of 2008, he will publish his new book, ‘101 Billionaires’, a critical look at present-day Russia.
Dita Pepe Dita Pepe è nata a Ostrava (Repubblica Ceca) nel 1973. Dopo il diploma superiore si è trasferita in 83
Germania, dove è rimasta cinque anni e dove ha iniziato a occuparsi di fotografia. Da subito il suo interesse è andato verso la fotografia come mezzo di autoriflessione e la sua tesi universitaria, “Fotografia come forma di terapia”, riflette un’attitudine che continuerà nel tempo. Nel 1997, a Praga, lavora per il periodico “Story” ma presto si trasferisce sulle Beskydy Mountains, in Moravia, dove inizia a lavorare con la fotografia messa in scena e a fotografare la gente attorno a lei. Nel 1998 si trasferisce a Colonia, in Germania. Nel 1999 inizia a lavorare al suo progetto di maggior successo, “Self-portraits”, nel quale ritrae se stessa a fianco di altre donne, nel loro ambiente. Dal 2000 vive a Ostrava e insegna alla Secondary School of Arts. Nel 2001 finisce la serie e inizia quindi un’intensa attività espositiva. Portfolii del suo progetto vengono pubblicati da numerosi periodici europei e riceve riconoscimenti internazionali. Nel 2003 ottiene un master degree per una serie di immagini correlate ai “Self-portraits”: in questo nuovo lavoro si ritrae accanto a uomini come fosse la loro partner. Sono fotografie realizzate in esterni, con l’uso della luce artificiale. Ancora una volta il suo obiettivo è cogliere il legame fra le persone fotografate e la loro realtà, il loro ambiente. E’ un progetto non ancora terminato al quale nel corso del tempo aggiunge nuovi lavori. Nel 2003 nasce sua figlia Ida e nel 2007 Ela. A fianco dell’insegnamento di fotografia creativa alla Silezian University a Opava e alla cura delle due figlie, Dita Pepe lavora ai suoi progetti artistici.
Dita Pepe was born in 1973 in Ostrava, Czech Republic. In 1992, 84
after graduating from grammar school in Fr?dlant nad Ostravici, she left for Germany where she stayed for five years. From the time that she first became interested in photography, she used it as a means of self-reflection. Her university thesis, called ”Photography as a form of therapy”, reflected her thinking. During 1997 she lived in Prague and worked as a photographer for the popular magazine, Story, after which she moved to the Beskydy Mountains, in Moravia. There she started to work with staged photography, taking pictures of the people around her. In 1998 she left for Cologne, Germany, and in 1999 she started working on her most successful project: ”Self-portraits”, where she appeared alongside women she photographed in their everyday lives. She returned to Ostrava in 2000 to teach at the Secondary School of Arts and in 2001 she finished the series. The photos, which received numerous international awards, were exhibited widely and portfolios of them were published in European magazines. In 2003 she was awarded a master’s degree for a series of pictures, an extension of the “Selfportraits”, in which she appeared in the role of a wife or partner or family member with her male subjects, in artificially lit, outdoor settings. Again, the main purpose was to capture people in their own lives, in their own environments. Dita adds new works to this unfinished project from time to time. She teaches creative photography at Silesian University in Opava, works on her artistic projects, and looks after her daughters, Ida, born in 2003, and Ela, born in 2007.
Monica Amari Opera nell’ambito della progettazione culturale, alternando attività di ricerca, di formazione e di docenza. Ha pubblicato diversi libri ed è consulente per il museo G.D. E’ presidente dell’Associazione AR.ME.S Arte, Media Scienza (www.amesmi.it). Monica Amari does research and teaches in the cultural planning sector. She is President of the ARMES (Arts, Media, Science) Association, has published several books and is a consultant for the G.D Museum.
Loïc Blairon È nato nel 1978 a Rueil (Francia), Vive e lavora a Parigi. Mostre in collaborazione con Léa Crespi: Rencontres Internationales de la photographie (Arles, 2008), Galerie VU’ (Paris, 2008), Galerie Le Château d’Eau (Toulouse, 2007)
Born in 1978 in Rueil (France). He lives and works in Paris. Expositions in collaboration with Léa Crespi : Rencontres Internationales de la photographie (Arles, 2008), Galerie VU’ (Paris, 2008), Galerie Le Château d’Eau (Toulouse, 2007)
Giovanna Calvenzi E’ photoeditor di SportWeek, supplemento di La Gazzetta dello sport. Critica fotografica e curatrice indipendente, insegna Photoediting presso il Master in Editoria alla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna e il Centro Riccardo Bauer di Milano.
Photo editor at SportWeek, the weekly supplement of the Gazzetta
dello Sport newspaper. Photography critic and independent curator, she teaches Photo Editing on the Masters programme in Publishing at the Scuola Superiore di Studi Umanistici in Bologna and the Riccardo Bauer Centre in Milan.
Christian Caujolle Christian Caujolle è giornalista e scrittore. È stato responsabile della fotografia del quotidiano francese Libération, ha creato l’agenzia e la galleria VU’ a Parigi. Insegna, scrive e organizza mostre.
Christian Caujolle is a journalist and writer. He was in charge of the photography section of the French newspaper Libération and created the Vu’ Gallery in Paris. He teaches, writes and organizes exhibitions.
Pippo Ciorra Pippo Ciorra è architetto, critico e docente presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno (UNICAM), vive e lavora ad Ancona. Si occupa di teoria del progetto contemporaneo. E’ autore di libri, edifici, mostre.
Architect, critic and professor specialising in contemporary design theory at the Faculty of Architecture of Ascoli Piceno (University of Camerino). Lives and works in Ancona. He is the author of books, architectural works and exhibitions.
Eva Marlene Hodek Eva Marlene Hodek è curatrice e direttore della Galerie Solaris (Praga, Repubblica Ceca), una galleria recentemente inaugurata dedicata all’arte
contemporanea. Ha diretto la Casa della Fotografia di Praga (PHP), un’istituzione no-profit dedicata alla fotografia.
Eva Marlene Hodek is a curator and the director of Galerie Solaris (Prague, Czech Republic), a newly open gallery dedicated to contemporary fine arts. She is a former director of the Prague House of Photography (PHP), a no-profit institution devoted to photography.
Hans Loos Hans Loos (1969) ha vissuto per diversi anni in Russia. Tornato nella sua città natale, Amsterdam, ha iniziato a lavorare come scrittore freelance. Viaggia ancora di frequente in Russia. Uno dei suoi ultimi progetti è un libro sulla vita comtemporanea nelle provincie russe.
Bas Vroege Bas Vroege è direttore di Paradox (www.paradox.nl), casa di produzione di progetti fotografici su piattaforme multimediali relativi a questioni sociali e storiche contemporanee Insegna pratica conservativa al Master in studi fotografici presso l’università di Leiden, Paesi Bassi.
Bas Vroege is director of Paradox, production house for multiplatform photographic projects dealing with social issues and contemporary history (www.paradox.nl). He teaches curatorial practice at the Master’s in Photographic Studies at the University Leiden, The Netherlands.
Hans Loos (1969) lived in Russia for many years. After he moved back to his native city of Amsterdam, he started as a freelance writer. He still travels frequently to Russia. One of his current projects is a book about contemporary life in the Russian provinces.
Piero Orlandi Piero Orlandi è architetto. Dirige il Servizio Beni Architettonici e Ambientali dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione EmiliaRomagna.
Architect and director of the Architectural and Environmental Heritage Service at the Institute for Cultural Heritage of the EmiliaRomagna Region.
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A Company Museum
Il museo d’impresa
The project for a G.D museum, dedicated to the history and business model of the company, positions itself on the backdrop of the process defined as Economy of Knowledge, promoted by the European Counsel, as part of the objectives of the “Lisbon Strategy” (2000).
Il progetto di uno spazio museale G.D dedicato alla storia e al modello imprenditoriale dell’azienda, si pone sullo sfondo di quel processo definito economia della conoscenza fatto proprio dal Consiglio d’Europa, negli obiettivi della “Strategia di Lisbona” (2000).
In fact, the exhibition model is based on the “science centre” concept, with a strong multimedia structure, so as to provide for an interactive function with the public and used for the promotion and diffusion of scientific and technological culture. Furthermore to enhance the company’s historical recollection.
Il modello espositivo identificato si rifà, infatti, al concetto di science centre, una struttura fortemente multimediale, che permette una funzione interattiva con il pubblico e che viene utilizzato per la promozione e la diffusione della cultura scientifica e tecnologica oltrechè per la valorizzazione della memoria storica dell’azienda.
The purpose of this model consists in offering visitors the chance to “observe, experiment and try out”. This exhibit choice promotes a journey made of islands of reference which deal with the defined themes in an independent and un-hierarchical way. To be able to adapt this method for the divulgation of company culture is an extremely innovative approach.
L’idea del modello interattivo e multimediale è quella di offrire ai visitatori la possibilità di “osservare, sperimentare e provare”. Questa scelta espositiva privilegia la declinazione di un percorso attraverso la realizzazione di isole di riferimento, le quali in modo autonomo e agerarchico affronteranno i temi scelti. Poter adattare questa modalità alla divulgazione della cultura d’impresa appare quanto mai innovativo.
The G.D exhibition pole also envisions to become a centre dedicated to industrial photography and a place for the promotion of cultural events. It is where the GD4PhotoArt competition will finally be located.
Il polo espositivo G.D prevede anche di diventare la sede di un centro dedicato alla fotografia industriale e quindi un luogo per la promozione di manifestazioni culturali dove il concorso di GD4PhotoArt troverà la sua futura collocazione.
Monica Amari
Monica Amari
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Indice / Index
Prefazione di / Preface by
Isabella Seràgnoli
pag. 7
ARTE, IMPRESA, COMUNITÀ ART, INDUSTRY, COMMUNITY
Pippo Ciorra - Piero Orlandi
pag. 8
Dita Pepe
pag. 13
Léa Crespi
pag. 35
Rob Hornstra Alfredo D’Amato
pag. 53 Jean Robert Dantou
GD4PhotoArt Competition 0708
Andrea Diefenbach
pag. 74
IERI E OGGI: LA FOTOGRAFIA INCONTRA L’INDUSTRIA YESTERDAY AND TODAY: PHOTOGRAPHY MEETS INDUSTRY
Giovanna Calvenzi
pag. 78
Biografie / Biographies
pag. 83
Il museo d’impresa A Company Museum
Monica Amari
pag. 87
Karel Knop
Yannis Kolesidis
Barbora Kuklikova
Vesa Ranta
Thanassis Stavrakis
Maciek Stepinsky
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 presso Grafiche Damiani, Bologna. Printed in October 2008 by Grafiche Damiani, Bologna. Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico - incluse copie fotostatiche, copia su supporti magnetico-ottici, sistemi di archiviazione e di ricerca delle informazioni - senza l’autorizzazione scritta dell’editore. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical - including photocopying, recording or by any information storage or retrieval system - without prior permission in writing from the publisher.
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