ANTROPOCENE. BURTYNSKY - BAICHWAL - DE PENCIER

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ANTROPOCENE

B U R T Y N S KY! B A I C H WA L!D E P E N C I E R



ANTROPOCENE



ANTROPOCENE B U R T Y N S KY! B A I C H WA L!D E P E N C I E R

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IN COPERTINA Edward Burtynsky, Miniera di Tyrone N. 3, Silver City, Nuovo Messico (dettaglio), 2012. PAGINA PRECEDENTE Edward Burtynsky, Autostrada N. 8, Santa Ana Freeway, Los Angeles, California, USA (dettaglio), 2017. PAGINE SEGUENTI Telecamera assicurata al treno nella Galleria di base del San Gottardo in Svizzera. Su gentile concessione di Anthropocene Films Inc. Š 2018. Nicholas de Pencier che immortala la Galleria di base del San Gottardo in Svizzera. Su gentile concessione di Anthropocene Films Inc. Š 2018.


10 Prefazione Stephan Jost, Marc Mayer e Isabella Seràgnoli 13 Vicino e lontano: le nuove prospettive dell’Antropocene Sophie Hackett 35 Il ‹chiodo d’oro› dell’Antropocene Colin Waters e Jan Zalasiewicz 45 «Com’è antropo-scenico!»: dubbi e dibattiti sull’era degli esseri umani Karla McManus 59 Opere 189 La vita nell’Antropocene Edward Burtynsky 197 I segni che lasciamo Jennifer Baichwal 205 Le prove Nicholas de Pencier 209 Adams, Adams, Baltz, Burtynsky: il ruolo del paesaggio nella fotografia nordamericana Urs Stahel 221 Il museo d’arte e l’Antropocene Andrea Kunard 231 Note 243 Elenco delle opere






Prefazione

Antropocene rappresenta il culmine di una collaborazione estremamente ambiziosa, durata quattro anni, tra gli artisti e registi Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. Spaziando dalla fotografia ai film, dalla realtà virtuale a quella aumentata fino alla ricerca, questo progetto invita i visitatori a osservare come il pianeta sia irrimediabilmente trasformato dall’attività umana. Attraverso stupende e innovative immagini, Antropocene raggiunge lo scopo prefissato: quello di catturare l’enorme portata degli effetti umani su terra, acqua e cielo. Non abbiamo alcun dubbio che i visitatori di questa mostra se ne andranno accompagnati da una irremovibile, duplice sensazione di stupore e responsabilità. Siamo lieti di presentare questo importante, nuovo progetto, reso possibile dalla straordinaria collaborazione fra tre istituzioni: Antropocene è infatti organizzato dall’Art Gallery of Ontario (AGO) e dal Canadian Photography Institute (CPI) della National Gallery of Canada (NGC), in collaborazione con la Fondazione MAST, Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia. Questa è la prima volta che l’Art Gallery of Ontario a Toronto e la National Gallery of Canada a Ottawa presentano mostre complementari e simultanee. Speriamo che alcuni tra i visitatori abbiano la possibilità di recarsi in entrambe le città per vivere appieno questo progetto. Insieme alle mostre, verrà presentato nell’autunno 2018 il documentario dal titolo Antropocene. Il progetto si trasferirà in seguito alla Fondazione MAST, a Bologna, nella primavera 2019, per il lancio ufficiale europeo. Sentiti ringraziamenti vanno ai co-curatori della mostra, a Sophie Hackett, curatrice della Fotografia presso l’AGO, ad Andrea Kunard, curatrice associata presso il CPI, e a Urs Stahel, curatore della PhotoGallery e della Collezione MAST. Tutti e tre hanno seguito questo progetto con il massimo impegno in ognuna delle sue fasi. Ringraziamo anche tutto il personale dell’AGO che, grazie a dedizione ed esperienza, ha reso possibile questo progetto. Un grazie va a coloro che hanno lavorato direttamente alla mostra. Ringraziamo quindi il personale capitanato da Hillary Taylor, responsabile del progetto, Nadia Abraham e Shiralee Hudson Hill, responsabili della pianificazione interpretativa, Katy Chey, Aleksandra Grzywaczewska e Kristina Ljuban, progettiste delle mostre. All’NGC, Karolina Skupien, responsabile del Dipartimento mostre, si è occupata, con molta professionalità, di tutti i dettagli della mostra. Béatrice Djahanbin, responsabile dei servizi educativi, ha gestito con competenza il materiale formativo, e David Bosschaart, responsabile dei progetti di allestimento, ha sviluppato tutti gli aspetti della progettazione. Un sentito grazie va anche allo staff tecnico, editoriale, multimediale, commerciale e allo staff dei media digitali per la competenza dimostrata. Molte grazie anche allo staff di MAST e a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione della mostra a Bologna.

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Questa pubblicazione è nata da un’idea del Dipartimento editoriale dell’AGO, diretto da Jim Shedden, responsabile editoriale. Gli autori del volume hanno messo in risalto in modo intelligente e avvincente i temi complessi che sono al centro del progetto. A queste pagine hanno contribuito i curatori, gli artisti, Karla McManus e Colin Waters e Jan Zalasiewicz del gruppo di lavoro sull’Antropocene. Siamo immensamente grati ai nostri sostenitori che con la loro generosità hanno reso possibile Antropocene. Un grazie particolare va al nostro sponsor principale Scotiabank, partner fondatore del Canadian Photography Institute. Ringraziamo inoltre TELUS per la collaborazione generosa e il contributo alla mostra. L’AGO ringrazia il suo sostenitore principale, Hal Jackman Foundation, e Greg e Susan Guichon, Richard M. Ivey, Richard e Donna Ivey, Suzanne Ivey Cook, Rosamond Ivey, e Robin e David Young per le generose donazioni. Michael Barnstijn e Louise MacCallum, The McLean Foundation, Gretchen e Donald Ross, e The Donner Canadian Foundation si sono dimostrati altrettanto generosi. L’AGO ringrazia anche i partner governativi, il Canada Council for the Arts e l’Ontario Cultural Attractions Fund. Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier hanno condiviso con noi un progetto davvero eccezionale che cattura il complicato rapporto tra noi umani e l’ambiente in cui viviamo. L’Art Gallery of Ontario, la National Gallery of Canada e la Fondazione MAST sono orgogliose di presentare Antropocene al pubblico nazionale e internazionale e di svolgere un ruolo importante nel promuovere e incoraggiare il dialogo su cosa significhi essere vivi in questo periodo, in un’epoca cruciale, sulla terra. STEPHAN JOST Direttore e CEO Michael e Sonja Koerner Art Gallery of Ontario

MARC MAYER Direttore e CEO National Gallery of Canada

ISABELLA SERÀGNOLI Presidente Fondazione MAST

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OPERE


I tecnofossili sono oggetti creati dall’uomo che, qualora diventino parte di uno strato, possono fungere da futuro indicatore geologico per arrivare a definire l’epoca dell’Antropocene. Fra i più importanti tecnofossili che l’umanità è destinata a lasciare in eredità al pianeta c’è il cemento. Inventato dagli antichi Romani, il cemento è diventato attorno alla metà del XX secolo un materiale da costruzione fondamentale ormai utilizzato su scala globale. Da allora ad oggi è stato colato tanto cemento quanto ne servirebbe per ricoprire l’intero pianeta sotto una coltre spessa due millimetri. Più della metà del volume totale di cemento presente sul pianeta è stata prodotta fra il 1995 e il 2015 sotto la spinta di un’accelerazione dei processi di urbanizzazione e crescita demografica1. In parole povere, fra i materiali creati dall’uomo il cemento non ha eguali in termini di quantità complessivamente prodotta. I tetrapodi qui ritratti utilizzano il cemento per limitare gli effetti di un altro problema legato all’attività umana: il cambiamento climatico. Per proteggere le coste si usano infatti argini marini fatti di tetrapodi; questi consentono all’acqua di scorrervi intorno, disperdendo la forza d’impatto delle onde che altrimenti si frangerebbero contro una parete piatta, provocando l’erosione della costa. I processi di continua erosione rappresentano una seria minaccia per le regioni costiere della Cina, che costituiscono solo il 13% del totale della superficie terrestre del paese ma contribuiscono per il 60% percento al suo prodotto interno lordo (PIL)2. Agli inizi del XX secolo, il progresso tecnologico dei macchinari ha determinato un aumento dello spostamento di sedimenti nella maggioranza dei grandi fiumi del pianeta. Detto spostamento si è principalmente sostanziato in un deflusso3. A partire dagli anni Cinquanta però, con il rapido aumento nel numero di dighe costruite, il deflusso dei depositi ha iniziato a calare e di conseguenza il carico di sedimenti è sceso al di sotto delle condizioni ottimali4. La riduzione del flusso dei depositi a valle spesso comporta l’erosione degli argini fluviali, come pure un calo nella quantità di nutrienti che si accumulano nelle piane alluvionali, il che finisce per compromettere la base chimica dell’ecosistema5. Questo tipo di alterazione dei flussi sedimentari è considerato un segnale globale dell’Antropocene, come lo è la subsidenza dei delta fluviali iniziata negli anni Trenta, ora divenuta un importante segnale d’allarme riscontrabile in molti ambienti costieri6. Nel frattempo si costruiscono argini marini per strappare terra al mare a fini di espansione urbana e industriale, il che determina un brusco calo della biodiversità7. Il bisogno di nuova terra da parte del paese più popoloso al mondo e le minacce ambientali agli insediamenti esistenti hanno portato alla costruzione di nuovi argini marini, che ora rivestono oltre il 60% della lunghezza totale del litorale cinese8.

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Edward Burtynsky, Tetrapodi N. 1, Dongying, Cina, 2016

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Edward Burtynsky, Disboscamento N. 5, Vancouver Island, Columbia Britannica, Canada, 2017


Edward Burtynsky, Sbarramento di legname N. 1, Vancouver Island, Columbia Britannica, Canada, 2016

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Nell’agosto del 2015 in Indonesia sono bruciate enormi distese di foresta tropicale – uno dei maggiori disastri ambientali del secolo. A ottobre dello stesso anno quasi 16 milioni di tonnellate di anidride carbonica entravano quotidianamente nell’atmosfera – una cifra superiore a quella delle emissioni giornaliere prodotte dall’intera economia statunitense1. Uno dei territori più colpiti dalla catastrofe è stata l’Isola del Borneo, che è politicamente divisa fra tre paesi – Indonesia, Brunei e Malesia. Dare fuoco alla foresta – un modo economico per liberare terreno e far spazio a nuove piantagioni – è divenuta una prassi stagionale in Indonesia2. Gli incendi appiccati nel 2015 facevano parte di questo fenomeno. La pratica in questione è denominata «slash and burn» (taglia e brucia) e permette di creare nuovi spazi da dedicare alla produzione industriale dell’olio di palma3. Servono dai tre ai quattro anni perché una nuova piantagione di palma dia frutti4 e ogni palma è produttiva per un periodo che varia dai 25 ai 30 anni5. Terminato il ciclo, la piantagione viene spesso bruciata e se ne inizia un altro. Si stima che, fra il 1990 e il 2005, una percentuale variabile fra il 55 e il 60% delle piantagioni di palma presenti in Indonesia e Malesia siano state create su terreni in precedenza occupati da foresta tropicale vergine6. Negli anni compresi fra il 2011 e il 2013, il 40% di tutti i fenomeni di deforestazione avvenuti sull’isola sono serviti a far posto alle palme, e un quinto di questi hanno riguardato aree che erano oggetto di una moratoria sulla creazione di nuove piantagioni7. Il trend peraltro non è nuovo. Fra il 1973 e il 2010 circa un terzo delle foreste del Borneo è andato distrutto8. Inoltre, per quanto il governo designi certe foreste ad aree protette e le aziende multinazionali si diano regole per perseguire la cosiddetta «deforestazione zero», tali direttive non vengono poi applicate – il che significa che si continua a disboscare queste aree e a convertirle in piantagioni9. Le palme da olio hanno bisogno di grandi quantità d’azoto per crescere e di altrettante grandi quantità di potassio per produrre frutti10; il conseguente utilizzo di fertilizzanti è il fattore maggiormente inquinante nella produzione agricola dell’olio di palma11. La crescita praticamente incessante di questa forma intensiva di agricoltura deriva direttamente dalla domanda globale di oli commestibili a buon mercato quale quello di palma, la cui fornitura mondiale è per l’85% appannaggio di Indonesia e Malesia12. L’olio di palma è oggi una delle merci più usate al mondo, tanto che lo si trova in prodotti di uso quotidiano come i dentifrici e i cibi confezionati. Alla luce di ciò, diverse organizzazioni locali hanno fatto notevoli sforzi per operare congiuntamente con un gruppo selezionato di multinazionali al fine di promuovere pratiche sostenibili di produzione dell’olio di palma. Attualmente, oltre il 40% dell’offerta mondiale è prodotto da piccoli proprietari (cioè da contadini locali indipendenti)13. L’utilizzo ciclico dei terreni agricoli già avviati (e non di terre create da foreste recentemente disboscate) e l’utilizzo di sminuzzature di tronco di vecchie palme come modo per restituire nutrienti al terreno (anziché appiccare incendi) sono solo due delle tecniche che si stanno introducendo per ridurre le attività di disboscamento e d’incendio delle foreste tuttora in atto. Ci sono poi sistemi di certificazione – quali quelli proposti dal Palm Oil Innovation Group (POIG) – che vedono coalizzati importanti organizzazioni non governative e produttori di olio di palma sensibili alla questione. In certa qual misura, questi sistemi di certificazione riescono a ridurre l’accesso al mercato dell’olio di palma prodotto con logiche di sfruttamento ambientale14. È chiaro però che, se le grandi multinazionali che acquistano l’olio di palma raffinato non collaborano, i sopracitati sistemi non possono da soli arrestare la distruzione su vasta scala di queste torbiere. Senza una cooperazione e uno sforzo costanti, gli imperativi della catena di approvvigionamento globale favoriranno il continuo sfruttamento delle terre tropicali e dei popoli che vi ci vivono, concorrendo alla rapida riduzione di uno dell’ultimo habitat utile a disposizione dell’orangotango.

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Edward Burtynsky, Disboscamento N. 1, Piantagione di palme da olio, Borneo, Malesia, 2016

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La Nigeria è uno dei paesi che sta crescendo più rapidamente al mondo; questa circostanza è alla base della distruzione, avvenuta soprattutto in anni recenti, di ampi tratti di foreste vergini presenti sul territorio nazionale. Il legname viaggia sul fiume con i cosiddetti «foderi» (log booms), qui ritratti, e viene trasportato dal Delta del Niger alla destinazione finale di gran parte di questa materia prima: Makoko. Questo insediamento informale densamente popolato ospita infatti un’industria del legname in espansione, con svariate segherie e una miriade di mercati per la compravendita del legno. Makoko si sviluppa sull’acqua – non a caso è soprannominata la «Venezia d’Africa». Questa caratteristica rende agevole raccogliere, processare e poi portare al mercato per la vendita i tronchi che vengono spinti dentro i suoi canali. La Nigeria ha pagato un notevole costo ambientale per la sua trasformazione in nazione industriale: nel 2011 le foreste pluviali di pianura situate nel Delta si erano ridotte del 40% a causa dello sviluppo dell’agricoltura e dell’industria del legname; le foreste di acqua dolce invece erano diminuite di quasi un terzo1. A questo si aggiunga il fatto che nel tempo la biodiversità si è costantemente ridotta2. La minaccia che la progressiva deforestazione pone ai mercanti del legno di Makoko è seria e tangibile. La fonte principale del loro reddito è infatti una risorsa naturale a tal punto richiesta che la sua stessa domanda finirà per decretarne la scomparsa.

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Edward Burtynsky, Segherie N. 1, Lagos, Nigeria, 2016

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Atacama, una piana dal panorama surreale, è il deserto non polare più arido del pianeta1. Attraversare a piedi questa pittoresca distesa salata è praticamente impossibile, ma anche andarci in auto è un’impresa, dato che la sua superficie sconnessa distrugge i pneumatici. Proprio nel mezzo di questo paesaggio desolato e irreale si trova una delle maggiori riserve conosciute di litio2, contenente circa il 27% delle riserve accertate mondiali di questo minerale3. Poiché nel Salar di Atacama non piove quasi mai, per milioni di anni la piana ha assorbito acqua proveniente da ben oltre i confini del suo bacino di drenaggio4. Quest’acqua è via via penetrata nell’arida piana e col tempo ha creato in profondità dei depositi di una soluzione salina ricca di minerali5. Il litio è il componente principale delle batterie agli ioni di litio e negli anni Settanta il governo cileno lo ha dichiarato risorsa strategica6. L’estrazione dei sali di litio avviene pompando la soluzione salina dal bacino sottostante il Salar7; questa viene poi lasciata evaporare in una serie di vasche artificiali in maniera non dissimile da quanto accade nei sistemi artigianali del Gujarat in India (pp. 110–111) o di quelli della Baia di Cadice in Spagna (p. 85)8. Man mano che il liquido evapora le vasche assumono varie colorazioni, fino al punto in cui la concentrazione di litio è ritenuta sufficientemente alta da poter procedere al suo invio in raffineria. L’arrivo sul mercato del produttore di auto elettriche Tesla ha destato preoccupazione circa la possibilità che non vi sia litio in quantità sufficienti per soddisfarne la domanda9. È effettivamente possibile che nel breve periodo si vengano ad avere ripercussioni negative sul prezzo, ma resta il fatto che il litio può aiutare a ridurre sensibilmente la nostra impronta ecologica10. Si stima infatti che entro il 2021 la capacità di produzione su scala globale di batterie al litio raddoppierà, raggiungendo i 278 gigawattora annui11. Considerando che paesi importanti quali Stati Uniti e Cina sono impegnati a fondo per garantire lo sviluppo e l’espansione dell’offerta di litio, è facile prevedere come questo metallo sia destinato a divenire uno dei beni di maggior valore del XXI secolo.

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Edward Burtynsky, Miniere di litio N. 1, Piane del sale nel deserto di Atacama, Cile, 2017

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La miniera di Hambach è la più grande operazione estrattiva a cielo aperto della Germania1. In questa miniera, per raggiungere il carbone da estrarre è necessario asportare montagne di materiale sterile che viene accumulato sul terreno fino a formare enormi colline artificiali. L’escavazione richiede macchinari pesanti unici nel loro genere. Nella fattispecie, nella miniera di Hambach operano i Bagger 291 e 293 che, per peso, sono fra i più grandi veicoli di terra mai costruiti dall’uomo2. È questo il tipo di escavatori a ruota di tazze utilizzato per rimuovere lo strato sabbioso superficiale sovrastante la vena carbonifera. Grazie a una capacità di escavazione giornaliera pari a 240mila metri cubi di terra, Il Bagger 293 può rimuovere annualmente uno strato di copertura che oscilla fra i 220 e i 250 milioni di metri cubi3. L’escavatrice è lunga 220 metri e alta 94,4 metri4. Complessivamente è dotata di 18 tazze, ciascuna della quali può contenere più di cinque metri cubi di carico, sia questo sabbia o carbone. La miniera di Hambach, che ha un’estensione di 85 chilometri quadrati, produce lignite – un carbone brunastro morbido – in quantità tali da soddisfare quasi il 5% del fabbisogno energetico del paese5. La lignite è un combustibile particolarmente inquinante e inefficiente, il che alimenta crescenti fenomeni di protesta6 che stanno mettendo in discussione il futuro dell’attività estrattiva nella regione. In ogni caso, nonostante la Germania stia facendo investimenti importanti nelle energie rinnovabili, ancora nel 2017 rimaneva il paese europeo con le più alte emissioni di anidride carbonica7.

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Edward Burtynsky, Miniera di carbone N. 1, Renania settentrionale, Vestfalia, Germania, 2015

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Da quando Hambach è stata aperta nel 1978, quattro villaggi hanno dovuto essere trasferiti a causa dell’espansione della miniera e altri due sono in procinto di essere rilocalizzati1. Il progressivo ingrandimento della miniera è anche alla base della quasi totale rimozione della vecchia foresta di Hambach: le stime più recenti indicano che solo il 10% dei settanta chilometri quadrati di foresta originari è rimasto intatto2. A nulla è servita la resistenza opposta da coloro che protestavano contro questo stato di cose, occupando il sito per diversi anni. Il Bagger 291, qui ritratto, è un escavatore a ruota di tazze che viene utilizzato nella miniera per rimuovere il suolo di copertura.

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Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, Bagger 291, Miniera di lignite di Hambach, Germania (fotogrammi), 2018

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Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, Miniera di lignite di Hambach, Germania (fotogrammi), 2018

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A trecentocinquanta metri di profondità, sotto la superficie di Berezniki, in Russia, le talpe meccaniche sono all’opera per scavare gallerie. Così facendo portano alla luce strati sedimentari dai colori vivaci appartenuti a quello che un tempo era un fondale marino. A Zumaia (p. 61) gli strati erano stati sospinti sopra il livello del mare. Qui invece i sali minerali sono rimasti sottoterra e oggi risultano visibili grazie all’attività di estrazione del potassio, un fertilizzante indispensabile. Man mano che le talpe procedono, lasciano sulla roccia morbida impronte che per certi aspetti assomigliano ai fossili di quegli stessi organismi marini che a loro tempo formarono la roccia stessa. È in queste mura variopinte che si trovano minerali del potassio quali l’halite, la carnallite e la silvite. Filmare questi tunnel, avvolti nell’oscurità totale, si è rivelata un’impresa improba. Con una lunghezza stimata di circa tremila chilometri, la maggior parte di queste gallerie sono solide e stabili; il che significa che resteranno a testimonianza indelebile della nostra presenza sulla terra e della «bioturbazione umana», espressione con cui si indica la creazione di giganteschi tunnel sotterranei da parte dell’uomo. Nella città di Berezniki e nei dintorni ci sono cinque miniere attive e si stima che nel complesso sia stata creata una rete sotterranea di 10mila chilometri di gallerie. Ciò ha causato l’apertura nel suolo cittadino di voragini che hanno ingoiato strade ed edifici e portato alla chiusura della locale stazione ferroviaria. Per quanto le miniere offrano parecchie opportunità d’impiego, molti residenti hanno preferito andarsene. Vi sono anche stati appelli per spostare l’intera città.1 Il potassio estratto qui finisce per essere usato come concime nelle grandi fattorie industriali, come quelle dell’Imperial Valley in California (pp. 89–91).

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Edward Burtynsky, Miniera di potassa di Uralkali N. 2, Berezniki, Russia, 2017

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Edward Burtynsky, Miniera di potassa di Uralkali N. 4, Berezniki, Russia, 2017


Edward Burtynsky, Miniera di potassa di Uralkali N. 6, Berezniki, Russia, 2017

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La produzione di marmo in Italia è uno dei settori più importanti dell’economia nazionale e fornisce il 18% dell’output mondiale1. L’estrazione del marmo dalle cave di Carrara avveniva già in epoca romana. Come noto, il marmo è il materiale usato da Michelangelo (il suo David fu scolpito da un unico blocco estratto a Carrara), il quale passava anche tre mesi di seguito a supervisionare l’asportazione dei blocchi da lui scelti. Sino al XVI secolo il lavoro di scavo venne eseguito da schiavi che utilizzavano scalpelli di metallo e cunei lignei – espansi con l’acqua e infilati nelle crepe naturali della pietra per separare i blocchi dalla montagna2. Nel XVIII secolo l’attività estrattiva aumentò in modo esponenziale. L’accelerazione fu dovuta all’avvento degli esplosivi che, per quanto efficienti, producevano tuttavia enormi quantità di materiale di risulta, note ai locali come «raveneti»3. Fu a questo punto che nella regione iniziarono a prendere piede le attività di lavorazione industriale del marmo; furono così aperte importanti fabbriche in cui le lastre di marmo venivano tagliate e lucidate4. A partire dagli anni Sessanta, grazie all’introduzione di camion e scavatrici meccaniche, venne aumentata la capacità di trasporto; allo stesso tempo, la diffusione del filo elicoidale, il cui uso consente di separare con precisione il blocco dalla montagna senza ricorrere agli esplosivi che producono scarti enormi, ridusse i tempi d’incisione5. A chi recentemente gli chiedeva quanto marmo pensava fosse rimasto nella montagna, il proprietario di una cava ha risposto: «Sono sessantatré anni che scavo qui; ed è come se avessi tolto un pelo a un maiale». Per quanto queste montagne siano state sfruttate in maniera ininterrotta da oltre tremila anni, ancora adesso la loro capacità di fornire marmo sembra inesauribile. Operando su così vasta scala, le cave hanno però creato sul territorio un’«architettura negativa» le cui tracce indelebili risultano visibili persino dallo spazio.

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Edward Burtynsky, Cave di marmo di Carrara, Cava di Canalgrande N. 2, Carrara, Italia, 2016

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Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier Lastre di marmo in caduta, Carrara, Italia (fotogramma), 2018 Cava di Canalgrande, Carrara, Italia (fotogramma), 2018


Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier Laboratorio per la lavorazione del marmo, Carrara, Italia (fotogrammi), 2018

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Queste immagini ritraggono grandi foreste pluviali in crescente difficoltà. Le foreste pluviali temperate della costa nordoccidentale del Pacifico sono siti di straordinaria biodiversità. La Columbia Britannica, raffigurata in queste immagini, occupa solo il 10% dell’estensione geografica del Canada; ciò nonostante, la provincia ospita più della metà della fauna vertebrata e della flora vascolare – nonché tre quarti degli uccelli e delle specie mammifere – presenti nel paese1. Alcuni degli alberi più alti al mondo si trovano nelle antiche foreste vergini di questa regione. L’industria per la produzione del legname venne avviata su Vancouver Island nella seconda decade del XIX secolo, mentre le prime segherie aprirono intorno al 18602. Con l’introduzione del motore a combustione, aree forestali fino ad allora inaccessibili diventarono siti di disboscamento e a partire dagli anni Quaranta il camion divenne il principale mezzo di trasporto del legname3. Attualmente, il 90% dell’attività di produzione del legname viene condotta su terreni demaniali4. L’attività di disboscamento si svolge su una superficie che rappresenta meno dell’1% delle aree forestali provinciali5, eppure su Vancouver Island il ritmo con cui si produce legname dalle foreste pluviali primarie – ovvero in cui non si sono mai abbattuti degli alberi – è triplo rispetto a quello delle regioni tropicali6. Ai primi del XXI secolo, su Vancouver Island restava solo il 10% delle foreste vergini ma l’attività di disboscamento è comunque continuata fino al 20177. Nel 2017, la quantità di pino con valore commerciale prodotta all’interno della Columbia Britannica si era più che dimezzata a causa dell’infestazione da coleottero dei pini che aveva colpito le foreste della provincia8. Siccome per effetto (uno fra i tanti) del cambiamento climatico infestazioni di questo tipo continuano a diffondersi nell’interno, le aziende produttrici di legname finiscono per orientare le loro esportazioni sul materiale prodotto lungo le coste9. Come avviene nelle segherie di Makoko in Nigeria, anche qui si usano i cosiddetti «foderi» (log booms) per trasportare i tronchi dall’area di raccolta ai depositi centrali di legname (pp. 97 e 105). La spinta all’esportazione di massa di risorse locali che si manifesta tanto nella Columbia Britannica quanto in Nigeria è frutto di un’economia sempre più globalizzata. Nella Columbia Britannica, in particolare, fra il 1990 e il 2014 più della metà delle segherie della provincia ha chiuso in seguito alla delocalizzazione delle lavorazioni10. Non a caso, fra il 2013 e il 2016 sono stati esportati dalla Columbia Britannica quasi 26 milioni di metri cubi di legname senza il valore aggiunto di lavorazioni locali. Uno studio della Ancient Forest Alliance mostra come l’esportazione di legname renda conveniente anche andare a disboscare in aree sempre più remote11. Le aree ricoperte di foreste vergini della Columbia Britannica – così come quelle delle foreste primarie del Borneo, ormai in via di estinzione – svolgono un ruolo cruciale nella cattura del carbonio, che viene assorbito a tassi assai superiori rispetto alle foreste secondarie (nelle quali l’opera di abbattimento è già iniziata) o degradate. I visitatori di Cathedral Grove hanno probabilmente l’impressione di trovarsi immersi in un bosco che si rigenera continuamente, ma farebbero bene a tenere presente che queste foreste sono tanto maestose quanto vulnerabili.

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Edward Burtynsky, Cathedral Grove N. 1, Vancouver Island, Columbia Britannica, Canada, 2017–2018

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Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier Disboscamento, Vancouver Island, Canada (fotogrammi), 2018


Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier Abbattimento di alberi, Vancouver Island, Canada (fotogramma), 2018 Ritratti di alberi antichi, Vancouver Island, Canada (fotogramma), 2018

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