Tennis world iIalia numero 19

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Settembre - numro 20

TENNIS WORLD Nascita di un newyorker

CiCi Bellis Una giovane tennista, agli Us Open impegnata solo nei tornei juniores.

Lucic Baroni In un battito di ciglia la Lucic ha creato la sua giornata perfetta.

Tennis e Alchimia La forza che serve per vincere ed emergere


La storia degli US Open in 5 finali memorabili di Roberto Marchesani

Ashe-Okker 1968 La prima finale – da quando il torneo è Open – è subito storica. Per la prima volta un nero vince un torneo del Grande Slam. Un dilettante vince il primo US Open della storia, aperto dunque anche ai professionisti. E’ Arthur Ashe, che poche settimane prima a Merion aveva anche vinto gli US Championships riservato agli amateurs (titolo che verrà riproposto anche l’anno successivo, per l’ultima volta, con successo di Stan Smith). La finale è giocata a Forest Hills, sull’erba, nel vecchio (ma glorioso) West Side Tennis Club, un meraviglioso circolo situato nel Queens, un quartiere di media

York, è un drammatico five-setter. Una conclusione degna per un edizione che è storica per definizione. Ashe vince 14-12 5-7 6-3 3-6 6-3 in una splendida maratona di 3 ore caratterizzata da saggi di serve-and-volley da consegnare ai posteri. I 7.100 spettatori del WSTC possono dire di aver visto la miglior finale degli ultimi 20 anni, dall’indimenticabile Gonzales-Schroeder del 1949. E’ la vittoria della consacrazione per questo leggendario atleta di Richmond, che ha segnato una discreta pagina di storia tennistica. Mette a segno 28 ace (contro gli 11 di Okker) ma quello che colpisce è la sua presenza sul campo, l’abilità tecnica e strategica


E’ la corona per il ’68, un anno formidabile nel quale vince 10 tornei e mette insieme 26 vittorie consecutive durante l’estate sempre lucidissime. E’ la corona per il ’68, un anno formidabile nel quale vince 10 tornei e mette insieme 26 vittorie consecutive durante l’estate, numeri che gli avrebbero consegnato di diritto il n°1 del tennis mondiale per la stagione, sia tra gli amatori che tra i professionisti, ma che solo la presenza di un altro fenomeno come Rod Laver gli può negare. Laver vince Wimbledon, il Pacific Southwest, gli US Pro a Boston e altri 7 titoli, non potendo che essere lui il n°1. Ashe terminerà l’anno al n°2, ma il suo segno agli US Open rimane indelebile. 29 anni dopo intitoleranno il più grande campo centrale del mondo con il suo nome.


Il capolavoro di Jimmy Connors

Connors-Borg 1976 Il capolavoro di Jimmy Connors? Probabile. Un'altra finale memorabile va in scena nel 1976, l’anno del Bicentenario dell’Indipendenza degli United States of America. Si gioca sempre al West Side Tennis Club, ma sulla terra verde (la Har-Tru come la chiamano da quelle parti). E’ una terra diversa da quella europea. La composizione di base non può che essere più o meno la stessa anche se gli effetti della palla sono leggermente diversi. La terra è resa più scivolosa, leggermente più veloce, attutendo un po’ gli effetti dello spin, di conseguenza il gioco difensivo paga di meno, e premia un po’ di più chi spinge. A Connors non glielo devi certo chiedere due volte. Con il suo gioco d’istinto e quel rovescio che per me non ha avuto eguali nella storia, gioca un torneo favoloso, come tutta l’estate del resto, arriva in finale e trova Borg, il quale ha i favori del pronostico per via di una maggiore attitudine (discutibile comunque). Il vecchio ranking non mette in palio il 1° posto, ma effettivamente è una finale per il n°1. Chi vince è il Re del 1976. I due danno vita ad una finale serratissima, di un intensità che a Forest Hills non si era mai vista. Lottano per 3 ore e un quarto, iniziano di pomeriggio e terminano di sera. E’ la prima finale della storia di uno Slam che termina sotto le luci artificiali, ed è degna, altrochè.


Connors gioca divinamente il primo set, sommergendo di vincenti Borg, il quale però reagisce nel secondo e approfittando anche di un calo dell’americano rimettendo le cose in parità. Nel terzo set c’è un tie-break di 20 punti. E’ l’highlights del torneo. Connors annulla 4 setpoint (uno addirittura con l’ace! Da non credere – l’unico della sua partita!), sfodera almeno 4 soluzioni d’attacco che sono lo specchio della sua personalità, della sua concezione di vita, azzardo, con un paio di traccianti di rovescio che portano il match dalla sua. Il quarto set è lottato, ma la sensazione è che Connors il colpo decisivo l’abbia già dato e che debba solo tenere duro, controllare e chiudere. E cosi fa. 6-4 3-6 7-6 6-4.

I due nel post-match si danno appuntamento al Masters di Houston per la bella decisiva, ma entrambi non ci saranno. Connors preferirà giocare la ricchissima Challenge Cup a Las Vegas del circuito di Hunt, del WCT. Una gran finale, tra fondo campisti, ma di livello assoluto. E vedere la T-2000 contro la Donnay è sempre un gran bell’effetto, soprattutto se maneggiate da due fenomeni del genere. McEnroe-Borg 1980 Fermi tutti. Perchè se la vostra domanda è “ma c’è una finale che si possa considerare come la migliore della storia degli US Open?” beh, forse siete arrivati alla stazione giusta. Certamente ci sono, e ci saranno sempre, diversi filoni di pensiero, chi preferirà una piuttosto che un'altra, ma secondo me nessuna finale racchiude, come la seguente, un mix cosi completo ed esplosivo di fattori determinanti, per me tali da conseguirgli il titolo di miglior finale del torneo. Attesa, tensione, contrasto, qualità, intensità, equilibrio. C’è tutto. John McEnroe e Bjorn Borg avevano giocato due mesi prima la più grande finale della storia di Wimbledon. I primi due giocatori del mondo stavano dominando la scena di questo sport da quasi due anni, instaurando una rivalità che non si può descrivere.


Gli US Open erano attesissimi per una rivincita, e loro non tradiranno le attese, arrivando entrambi in finale – dopo che se ne era parlato ossessivamente per le tre settimane precedenti. Di solito (o spesso, fate voi) la grande attesa di un grande evento può essere seguito da uno spettacolo non eccezionale, a volte anche mediocre. In questo caso no. Qualche finale ha presentato una qualità media migliore di questa? D’accordo, ma non l’ha poi abbinata con tutta una serie di fattori che solo questa finale presenta nell’Era Open agli US Open. Non sappiamo quale sia il più grande rimpianto della carriera di Borg, ma questo match potrebbe essere nella sua Top3. Lo svedese ci arriva dopo aver vinto i primi 2 Slam stagionali, in piena corsa per emulare Rod Laver. Il torneo americano non l’ha mai visto trionfare. Certo che c’è il Genio dall’altra parte, ma la sensazione era che potesse essere l’anno buono.

Borg dilania (dilania) il primo set, che avrebbe vinto 10 volte su 10 se lo rigiocavano, e che forse gli avrebbe consegnato il titolo, cambiando tutte le prospettive del match. E’ in controllo dei giochi, va a servire due volte per il set (sul 5-4 e sul 6-5) ma si fa brekkare. Nel tie-break un errore clamoroso dell’arbitro gli scippa un punto, un doppio-fallo viene invece trasformato in ace di seconda per McEnroe, che vince il primo set. E’ una mazzata per l’uno, una rinascita per l’altro. Facile capire il perché il secondo set finisce in un 6-1 senza storia per l’americano. E da un possibile set a zero per Borg, lo svedese si ritrova in un amen due set a zero sotto.

Ed è qui che il vikingo parte per un impresa che sarebbe divenuta epica. Vince il terzo set al tie-break e vince il quarto 7-5 dopo un lottatissimo 12° game strappato con una micidiale risposta incrociata vincente. Sul 2 set pari McEnroe sente che fisicamente sta per cedere (lo ammetterà più tardi), Borg, l’uomo di ghiaccio, l’uomo instancabile, ha ripreso il controllo, quasi fisico, del match. Non può perderla. Nessuno pensa in quel momento che possa perderla, dopo una rimonta cosi. Ma la perderà, dopo un altro scippo dell’arbitro sul 3-3 che lo manda totalmente nel


E' qua che Wilander scrive il capolavoro della sua carriera, non solo tecnico ma soprattutto tattico pallone, due doppi falli e break – decisivo – di McEnroe, che si era salvato da campione sul 2-1 0-30. McEnroe vince 7-6 6-1 6-7 5-7 6-4, ferma Borg e si conferma campione a New York. Wilander-Lendl 1988 La finale più lunga della storia degli US Open (4h55m) non poteva non entrare nella Top5, con una lotta infinita tra Mats Wilander e Ivan Lendl. Due che hanno basato tutta la carriera sul gioco da fondo, in maniera diversa, più difensivo lo svedese, più offensivo il ceko, non potevano non dar luce ad una battaglia lunghissima – e le 4h47m della finale dell’anno prima ne sono la testimonianza (e la finale ‘87 durò pure 4 set, se andavano al quinto rischiavano le 6 ore).

Ma è qua che Wilander scrive il capolavoro della sua carriera, non solo tecnico ma soprattutto tattico, andando a rete oltre 50 volte, utilizzando il rovescio slice in alternativa a quello coperto per mandare in confusione l’avversario. Verrà premiato. Rino Tommasi diceva “Dopo la quarta ora di gioco, Mats Wilander è il più forte giocatore del mondo”. Quella notte – alle 3:17 del mattino ora italiana per chi seguiva il match in diretta su Italia Uno – Rino gridò “Mats Wilander è il primo giocatore del mondo!!!”. Si, perchè lo svedese vinse 6-4 4-6 6-3 5-7 6-4 in un match che metteva in palio il trono mondiale, detenuto da Lendl. Wilander si arrampicò sull’ultimo gradino e si


E’ l’ultima finale di Agassi, a 15 anni di distanza dalla prima, persa con Sampras. issò per la prima volta in vetta, con il suo primo (e unico) US Open, corona di una stagione fantastica con 3 Slam vinti all’attivo (Australian Open, Roland Garros e New York). Solo 3 finali finiranno al 5° set a Flushing Meadows dopo di questa : nel 1999, nel 2009 e nel 2012 con vittorie di Agassi, Del Potro e Murray. Quest’ultima – 2012 – totalizzò un tempo di 4h54m, per una manciata di secondi non eguagliò la durata la finale del 1988. Le finali più lunghe della storia degli US Open premiarono Murray e penalizzarono il suo coach, Lendl, presente nel box dello scozzese durante il trionfo che gli diede il primo Slam della carriera, il primo per un britannico dal 1936. Federer-Agassi 2005 Negli ultimi anni non c’è stata una finale che nettamente si staglia sulle altre. Posso pensare al Sampras-Agassi del ’95, alle tre Nadal-Djokovic (2010,’11,’13) straordinarie per intensità, a quelle più storiche che belle di Del Potro (2009) e Murray (2012). Premio questa del 2005, breve ma con un concentrato di qualità ed emozioni molto speciale. E’ l’ultima finale di Agassi, a 15 anni di distanza dalla prima, persa con Sampras. Gli tocca un Federer nel suo prime fisico, 24enne, mentre lui ne ha 35. Giocano una gran partita, direi sontuosa nel terzo set. Agassi avrebbe meritato quel set, anche se credo non potesse cambiare le sorti del match. Molto difficile.


Per mezz’ora i due giocano a ping-pong, è uno spettacolo assoluto. Roger in quella partita è discontinuo, un po’ come in tutto il torneo, ma arriva a dei picchi che non sono spiegabili. Per valori assoluti è il miglior Federer di sempre se consideriamo forma atletica e qualità esplosiva, paragonabile a quello dell’Australian Open 2007. E difatti ci regala almeno una ventina di punti assolutamente inspiegabili, non so trovare un altro termine cosi rappresentativo. Per mezz’ora i due giocano a ping-pong, è uno spettacolo assoluto. Il bello è che Roger arriva al tie-break, quasi soffrendo, ma poi gioca un tie-break perfetto. Perde il primo punto (fenomenale drop di Agassi) e poi ne fa 7 di fila, incorniciato con l’ultimo, una risposta di rovescio devastante che spacca la riga.

La partita finisce li, non può che finire li. Il quarto set è un assolo. Agassi saluta il pubblico e Roger si invola verso il suo 6° Slam, il 2° consecutivo a New York. Ne vincerà altri 11 di Slam da allora, e adesso si presenta 9 anni dopo ancora con l’ambizione di vincere il titolo.



Sampras, Agassi e la loro storica rivalità agli US Open di Princy Jones

“Pericolo – Seinfeld, uova – burro e marmellata, indipendente – repubblicano...” un estratto dello spot della NIKE con Pete Sampras e Andre Agassi fa così. La lista va avanti, mostrando quanto contrastanti siano nella vita, con le loro differenze che vanno oltre il campo. Uno è reticente e disinvolto mentre l’altro è stravagante e carismatico; le persone e la stampa ritengono che uno sia noioso, mentre l’altro spettacolare. Sampras ed Agassi costituiscono due estremi, nessuna meraviglia che la loro rivalità sia così affascinante! Prima di Federer e Nadal, era Sampra e Agassi. Il tennis degli anni ’90 consisteva soprattutto di questi due americani, che avevano quasi la stessa età. Agassi è diventato professionista nel 1986; Sampras due anni dopo. Il successo fenomenale di Agassi durante la sua adolescenza gli ha fatto guadagnare presto la terza posizione in classifica, e indicato come star del futuro.

Aveva anche un enorme numero di fan, grazie ai suoi look e al suo abbigliamento in campo sgargiante. Inoltre, fece scalpore quando denunciò Wimbledon per essere troppo tradizionale, attaccando il suo codice di abbigliamento. Il giovane ribelle talentuoso era una star in ogni modo. Sampras, d’altro canto, ebbe un inizio lento. Diversamente da Agassi, non aveva record sotto il suo nome, e soffrì di molte uscite premature dai tornei. Comunque, la sua svolta avvenne quando raggiunse i quarti di finale agli US Open del 1989. Quando questi due giovani giocatori (Agassi 20 anni; Sampras 19) si incontrarono nella finale degli US Open del 1990, le statistiche erano a favore di Agassi, che aveva una carriera migliore alle spalle rispetto a quella di Sampras in quel momento. Diversamente dalle aspettative, Sampras fermò Agassi in una finale a senso unico 6-4, 6-3, 6-2. Il mondo osserva con incredulità quando un timido adolescente dalla California fa arrabbiare una sostenuta superstar di Las Vegas con i capelli lunghi. Questo fu lo spartiacque nella storia del tennis, e anche nelle vite di entrambi i giocatori.


Sampras detiene il primato di vittorie con 20-14, con 4-1 solo in finali di Grandi Slam. Diventare il più giovane vincitore degli US Open della storia cambiò la vita e la carriera di Sampras. Venne catapultato alla fama e al N.5 della classifica. Nel giro di pochi anni, Sampras divenne il numero 1 del mondo e vincitore di diversi Slam. Anche se dovette affrontare avversari come Jim Courier, Stefan Edberg, Boris Becker, Goran Ivanisevic, ecc... niente poteva caricare l’emozione quanto la sua rivalità con Andre Agassi. La loro rivalità è sempre stata speciale. Anche se le statistiche mostrano Sampras molto avanti ad Agassi con i suoi 14 Grandi Slam (6 in più di Agassi). Entrambi sono stati i migliori del loro tempo – Sampras il miglior servizio e volèe; Agassi il miglior ribattitore.


Quando Agassi fece un incredibile ritorno nel ’98, nessuna sorpresa che Sampras fosse tra quelli che ha goduto maggiormente del “ritorno del figliol prodigo” Sampras detiene il primato di vittorie con 20-14, con 4-1 solo in finali di Grandi Slam. Mentre Sampras ha avuto una carriera stabile, il gioco di Agassi ha sofferto di gravi momenti di crisi dovuti al suo stile di vita e a problemi personali. La sua breve assenza dal gioco dovuta a una forma in declino ha portato via molta emozione dal tennis. Sampras in precedenza ha rimarcato: ”Il gioco ha veramente bisogno di lui; lui è quello che mette il tennis in prima pagina nella sezione sportiva. Ma penso che tornerà. È un tennista.” Quando Agassi fece un incredibile ritorno nel ’98, nessuna sorpresa che Sampras fosse tra quelli che ha goduto maggiormente del “ritorno del figliol prodigo”.

Quando la forma di Sampras ha iniziato a declinare verso la fine degli anni ’90, fu un periodo di “seconda giovinezza” per Agassi, che ancora una volta iniziò a vincere major. Dopo lo storico di Sampras a Wimbledon nel 2000, ha sofferto di siccità di Grandi Slam, una delle strisce più lunghe della sua carriera. Il 13 volte campione di Slam subì due devastanti sconfitte contro giocatori molto più giovani, Marat Safin (6-4, 6-3, 6-3) e Lleyton Hewitt (7-6, 6-1, 6-1), rispettivamente nelle finali degli US Open del 2000 e del 2001, dicendo che la sua classe non poteva nulla contro la giovane potenza ed agilità. Poi Sampras mise in mostra un tennis incredibile contro il suo arci-rivale anche in quel periodo.


Per Sampras, fu il modo perfetto per ritirarsi, dopo aver vinto il suo 14esimo titolo del Grande Slam I suoi quarti allo US Open del 2001 contro Agassi sono considerati una delle più grandi partite nella storia del tennis. Sampras vinse 6-7, 7-6, 7-6, 7-6 in una partita in cui entrambi i giocatori non furono capaci di brekkare il servizio dell’altro. Quando la partita finalmente finì, la folla fece una standing ovation. L’anno seguente fu testimone del culmine della loro affascinante rivalità quando si incontrarono ancora una volta nella finale di Flushing Meadows. Era la loro terza finale allo US Open, e anche la terza finale consecutiva per Sampras. Sembrava a suo agio e sicuro di sé contro Agassi, un rivale le cui mosse e tattiche gli erano familiari, più di qualsiasi altro giocatore. Come previsto, Sampras fece arrabbiare il suo arci-nemico in maniera significativa – 6-3, 6-4, 5-7, 6-4 – marcando così la fine del più lungo periodo di siccità e della carriera. Per Sampras, fu il modo perfetto per ritirarsi, dopo aver vinto il suo 14esimo titolo del Grande Slam. Ha finito dove ha iniziato – lo stesso campo, lo stesso rivale. Raramente la storia si ripete, e quel giorno, Flushing Meadows ne fu testimone.


Nadal’s Trials And Triumphs At Flushing Meadows di Laura Saggio

Il numero 2 al mondo si è ritirato. Rafa non è sceso in campo per l’ultimo Grand Slam stagionale

E così, ancora una volta, Rafael Nadal non è andato a New York. Il tormentato rapporto tra il maiorchino e lo slam americano continua, di anno in anno, dal 2009 ad oggi, a fare notizia. Già, perché gli US Open, nel bene o nel male, hanno da sempre segnato tra successi (è il torneo che gli ha regalato il prestigioso Career Slam) e infortuni la carriera del campione spagnolo. Riannodiamo i fili di questa intrecciata cronistoria partendo dal tweet di Nadal pubblicato il 18 agosto alle ore 15: Siento anunciar que no podré participar en el US Open, torneo en el que en los últimos años he tenido muy buenos... Primo febbraio 2009, si parte da Melbourne. Rafa batte in finale Roger dopo quasi 4 ore e mezza di lotta serrata. Tra lacrime e sorrisi, lo spagnolo conquista il suo sesto titolo Slam. Aggiudicatosi 4 Roland Garros, 1 Wimbledon e 1 Australian Open, Nadal punta il

suo obiettivo, per la prima volta, sugli US Open, il traguardo che lo porterebbe a realizzare il Career Slam. Inizia così la sfida al titolo senza non pochi punti interrogativi. Infatti, salvo la conquista del torneo australiano, il 2009 è un anno da dimenticare per Rafa: prima e unica sconfitta in carriera al Roland Garros per mano di Soderling, e la rinuncia alla difesa del titolo vinto a Wimbledon un anno prima a causa di una tendinite. Il campione dalla volontà di ferro rientra giusto in tempo per disputare il torneo americano. Purtroppo l'epilogo non sarà a suo favore: lascerà il torneo in semifinale sconfitto nettamente (62-62-62) dall'argentino Del Potro, che poi vincerà il torneo. 2010: l'anno di Rafa. Dopo una sconfitta nei quarti di finale agli Australian Open, lo spagnolo incassa le restanti tre prove dello Slam, tra cui finalmente il suo primo e tanto atteso US Open. Vittoria, quest’ultima, che gli consente di aggiungere nella sua già ricca bacheca tutti e quattro i titoli dello Slam (Carrer Slam). Obiettivo centrato.


2011: l'anno delle sconfitte. Perde contro Novak Djokovic tutte e sei le finali che disputa, comprese quelle di Wimbledon e degli US Open. 2012: l'anno degli infortuni. Conquista come d'abitudine il Roland Garros, ma un nuovo infortunio (un'infiammazione cronica dei tessuti del ginocchio sinistro e a una rottura parziale del tendine rotuleo) condiziona il suo gioco a Wimbledon e lo costringe a saltare le Olimpiadi insieme a tutta la seconda parte della stagione, compreso l'ultimo Slam americano. 2013: l'anno della rivincita. Salta gli Australian Open, vince per l'ottava volta su nove Parigi,

perde al secondo turno a Wimbledon, ma si riprende la rivincita e il torneo americano per la seconda volta battendo in finale la sua bestia nera, Djokovic. 2014: oggi (l'ennesimo forfait per infortunio). Il polso: il tallone d'Achille di Rafael. Un piccolo distaccamento della cartilagine articolare dell'ulna del polso destro, rimediato lo scorso 30 luglio durante una sessione di allenamento, non gli permetterà di difendere il titolo americano. La data del suo rientro è indefinita, come spiega Rafael in un'intervista a Esports IB3 TV: “Per me è difficile pensare a degli obiettivi come la Coppa Davis. Ciò che conta è che ho perso tre opportunità di giocare tre tornei molto importanti. È difficile dire quando tornerò, per ora devo solo pensare a guarire. Tornerò quando i medici lo diranno e quando potrò colpire il rovescio a due mani senza dolore”. Forse, lo stress estremo al quale Nadal ha (fin dall'inizio della carriera) sottoposto il suo fisico, che certamente gli ha permesso di essere il numero 1 al mondo anche grazie a resistenza e tenacia, inizia a chiedere con sempre più insistenza il conto. Fino a quando si potrà tirare la corda prima che definitivamente si spezzi?


Novak Djokovic, dominio spuntato di Adriano S.

Novak Djokovic, come noto, è il padrone del ranking Atp. Dopo due anni di fila da numero 1 a fine anno a partire dall'estate del 2011, anno della sua esplosione, Novak si appresta a tenere la vetta delle classifiche mondiali anche nel 2014. Il regno del serbo è stato interrotto solo per qualche mese da Federer prima e Nadal poi. Un dominio testimoniato dai risultati ottenuti nei 4 Majors negli ultimi 4 anni. Dall'US Open del 2010 Nole ha infatti disputato il 75% delle finali Slam in programma, con una spaventosa media di 3 finali su 4 all'anno. Ciò è coinciso col (teorico) momento di massimo splendore fisico di un atleta, dai 23 ai 27 anni. Numeri incredibili, ma non bastano per poter essere accostato fino in fondo a Rafael Nadal e

Roger Federer. Ecco il riepilogo dei risultati dei due più titolati giocatori della storia del tennis moderno, nel momento del loro massimo splendore, dai 23 ai 27 anni, paragonati a quelli del serbo... Nadal 2009-2013: W AO, R16 RG, FO Wi, SF USO, Q AO, W RG, W Wi, W USO, Q AO, W RG, F Wi, F USO, F AO, W RG, 2T Wi, FO USO, FO AO, W RG, 1T Wi, W USO Federer 2005-2009: SF AO, SF RG, W Wi, W USO, W AO, F RG, W Wi, W USO, W AO, F RG, W Wi, W USO, SF AO, F RG, F Wi, W USO, F AO, W RG, W Wi, F USO Djokovic 2010-2014: Q AO, Q RG, SF Wi, F USO, W AO, SF RG, W Wi, W USO, W AO, F RG, SF Wi, F USO, W AO, SF RG, F Wi, F USO, Q AO, F RG, W Wi, SF USO Legenda: AO Australian Open, RG Roland Garros, Wi Wimbledon, USO Us Open; F Finale, SF semifinale, Q Quarti di finale, R16 Ottavi di finale, 1-2T Primo-Secondo turno.


Ciò che in realtà pesa di più nel paragone è però per Nole la percentuale di vittorie: Djokovic è sotto il 50% Djokovic, con una striscia di 21 quarti di finale e 15 semifinali di fila, ha raggiunto 12 finali del Grand Slam su 20. Nadal ne ha raggiunte 'solo' 11, ma di Slam ne ha disputati in realtà 17, avendone saltati 3 per infortunio. Federer è impressionante, dall'alto delle sue 17 finali su 20, con le ineguagliabili strisce di 36 quarti di finale, 23 semifinali e 10 finali consecutive. Ciò che in realtà pesa di più nel paragone è però per Nole la percentuale di vittorie, dopo l'approdo in finale. Se Rafa (che in questo arco temporale ha perso solo da Novak, in 3 occasioni di fila nel 2011) e Roger hanno infatti il 72% e il 65% di conversione in trofei, Djokovic è sotto il 50%. Due punti possono però renderlo ottimista: in realtà Novak è esploso definitivamente solo a

2010, e avrebbe quindi ancora 3 Slam 'bonus' in più per sistemare i conti; inoltre Federer e Nadal non sono costanti come prima, nè tantomeno come il serbo, e gli altri non fanno così paura. Certo, se vincesse il prossimo Roland Garros molto potrebbe cambiare...



Nascita di un newyorker di Giulio Nicoletti

La pallina infuocata che da qualche tempo fa da logo al torneo di tennis più incredibile che vi sia, potrebbe essere agevolmente sostituita da un taco grondante improbabili salse piccanti, o da un cestello di ali di pollo al ketchup. Nessuno si offenderebbe, e nessuno riterrebbe offuscato il messaggio profondo che dà linfa vitale alla competizione. A New York vincono i newyorker, e poco importa se un americano non vi riesca dal 2003, i veri newyorker non appartengono a una nazione, ma a una genia speciale, una discendenza di uomini e donne dalla scorza dura, nella quale lo spirito di sopravvivenza esonda e protegge da qualsivoglia cedimento al quieto vivere, il cuore è palpitante, l’animo generoso, l’indole battagliera e la visione della vita in tutto simile a quella che suggeriscono le strade maestre della Grande Mela: infinite, senza limiti, senza ostacoli e dritte verso il mondo, come nel quadro di Saul Steinberg che fece da copertina al New Yorker, View of the World from

9th Avenue, un’autentica ispirazione per ognuno che senta di appartenere a siffatta stirpe. Ma tutto questo, gli affannati trangugiatori di ali di pollo, le dita intinte nel ketchup, capaci di alzarsi dalle sediole dello stadio per procurarsi il bis proprio mentre va in scena il più drammatico dei match point, lo sanno perfettamente. Benvenuti nel torneo di tennis più lontano dalle soffuse tradizioni di Wimbledon. A Flushing Meadows, i laghi scintillanti di Corona Park, zona Queens, a un tiro dall’aeroporto La Guardia, va in scena l’altra faccia dello sport giocato dai re. Qui nessuno chiede il silenzio, nessuno fa polemica per gli ansiti rumorosi delle signorine che sgobbano sudate sul campo, nessuno si adonta se nella quarta fila due giovani sposi si sono portati la cesta del picnic e addobbano la sedia di mezzo con la tovaglia, disponendo il vino in fresco e svuotando una minerale sui piedi dei vicini per lavare la frutta. L'impianto sorge su una discarica, la più grande a New York fino agli anni Settanta. Il Dna è dunque di risulta. Ma l’idea fu in linea coi sentimenti degli americani verso uno sport troppo elitario. Si giocava a Forrest Hills, in quegli anni, in un


Il tennis stava diventando popolare, dunque aveva bisogno di un contatto diretto con il popolo club esclusivo vicino all’oceano Atlantico, fra gente esclusiva, a prezzi esclusivi. Le regole erano le stesse di Wimbledon, quasi una parodia se interpretate dagli americani. Il ripensamento prese il via da molteplici considerazioni: il tennis stava diventando popolare, dunque aveva bisogno di un contatto diretto con il popolo, a costo di renderlo diverso dallo sport fin lì conosciuto; diventando popolare, il tennis avrebbe subito l’assalto delle aziende più importanti, che certo non avevano interesse a confinarsi fra le sale eleganti di una club house a Forrest Hills, quando New York era lì, a un passo; infine, si ritenne che fosse giunto il momento di fare qualcosa di diverso dagli inglesi. A suo modo, il tennis americano stava vivendo


Il primo torneo, nel 1978, ruotò intorno a un match degli ottavi, fra Jimmy Connors e Adriano Panatta una sua piccola guerra di indipendenza. Manhattan non offriva spazi, com’è logico supporre. Lì il tennis si gioca nei club al quarto piano dei grattacieli. C’era invece quest’area enorme, da risanare. Era il 1976 quando cominciarono i lavori, lo stesso anno del dipinto di Steinberg. La discarica fu coperta, sorsero laghetti e alberi. I campi vennero realizzati in cemento. Lo stadio nacque da un impianto preesistente, fu rinnovato e affiancato da uno stadio con le tribune più basse. Lo intitolarono a Luis Armstrong, che a tennis non giocò mai, ma aveva trascorso buona parte della vita da quelle parti. Il primo torneo, nel 1978, ruotò intorno a un match degli ottavi, fra Jimmy Connors e Adriano Panatta. McEnroe la ricorda ancora come una delle tre più belle partite mai viste. «Ogni colpo era un punto», ricorda Adriano, «ma per battere Connors occorreva farne tre alla volta, perché due lui riusciva a cancellarli». Mentre la tribuna dei tennisti si era riempita di campioni, attratti dalla spettacolarità di un match di cui ancora proiettano qualche immagine sui grandi schermi di oggi, per intrattenere il pubblico, Panatta salì 5-4 al quinto set e servì per il match. Sul 30 pari, un attacco molto angolato di Adriano spolverò la riga bianca proseguendo verso la tribuna. Sarebbe stato punto contro chiunque, ma Connors andò a prendere quella pallina e riuscì a ribatterla in qualche modo.


La traiettoria passò esterna alla rete e andò a cogliere l’incrocio delle righe sul campo di Adriano. «Vidi Connors esultare come un matto. Poi mi chiese scusa, e io gli feci un romanissimo gesto per indicare che una fortuna del genere non l’avevo mai vista. E invece, non si trattò di fortuna, ma di puro e semplice istinto di sopravvivenza». Gli Us Open avevano scoperto il loro primo newyorker. Ai tempi di Jimbo e di Adriano, il torneo era avvolto dai fumi dei ristoranti che sorgevano intorno ai campi. Sui due court di allenamento i tennisti giocavano tenendo la maglietta sul naso, per non respirare i vapori del Mercado Mexicano, la rivendita che sorgeva lì vicino.

Oggi l’impianto è ancora più grande, l’Armstrong è diventato il secondo stadio e il primo, l’Arthur Ashe, ospita 25 mila spettatori. Dall’alto di quelle tribune, il tennis sembra un videogame, ma la vista di New York è spettacolare se i gabbiani in cerca di cibo vi lasciano in pace. Quindici giorni di match a Flushing Meadows portano al tennis 730 mila spettatori. Sono più di quanti ne faccia la Juventus nelle sue quindici partite casalinghe. Il montepremi è salito a 38, 3 milioni di dollari (+64,6 per cento negli ultimi tre anni). Fra gli sponsor c’è anche il reverendo Foreman, una chiesa nel Texas, la boxe alle spalle, un allevamento di cavalli sui quali – dice lui, che pesa 150 chili – ama saltarci in corsa, e un presente da facoltoso imprenditore nel ramo bistecchiere. Anche gli sponsor, a Flushing, li vogliono newyorker.



Aleksandra Krunic, la bimba che ha fatto vedere l'inferno a Victoria Azarenka di Diego Barbiani

La crescita allo Spartak Tennis Club nella “sua” Mosca, l'aiuto economico di un amico di famiglia, l'imminente laurea, quel gioco così intelligente che ricorda la Radwanska. Ecco chi è Aleksandra Krunic, la bimba che ha fatto impazzire Petra Kvitova e ha fatto vedere l'inferno a Victoria Azarenka. «Non so come ho fatto, davvero! Ero entrata in campo sperando di vincere un set e divertirmi, ma mai avrei pensato di vincere!», ha dichiarato subito dopo il successo sulla regina di Wimbledon. Un'ora e mezza per sorprendere tutti, per prima se stessa, come ha rivelato in una candida ed emozionata intervista a bordo campo.

Frasi molto genuine che racchiudono il carattere di questa giocatrice serba, appena un metro e sessantatré di altezza ma con un cuore enorme. Già dopo il match vinto contro Madison Keys le sembrava incredibile quello che stava accadendo: al secondo Slam di sempre (entrambi a Flushing Meadows) non solo ha colto la prima vittoria ma ha anche raggiunto la seconda settimana del torneo. Nativa di Mosca, la sua famiglia è di origine serba e in Fed Cup difende i colori del paese balcanico. Nell'ultimo anno è andata a vivere dai suoi nonni, per star loro più vicino.


«La famiglia è un valore molto importante. È grazie a ognuno di loro che trovo la felicità nelle piccole cose anche dopo una sconfitta». La nonna, è la figura preferita. Fu lei a comprarle la prima racchetta e una pallina di spugna all'età di tre anni. «Ero piuttosto scalmanata», ricorda Alek, «correvo ovunque, colpivo la pallina dappertutto, distruggevo ogni pianta. I miei mi portarono in una scuola tennis vicino a casa e così è cominciato tutto». È entrata allo Spartak Tennis Club, l'accademia che ha ospitato anche Anna Kournikova, Elena Dementieva ed Anastasia Myskina. Lì conobbe Eduard Safonov, il suo allenatore per dieci lunghi anni.

«Devo a lui tutta la mia tecnica, i miei colpi», ha raccontato, «poi quando sono andata in Slovacchia ho avuto al mio fianco Mojmir Mihal mentre da questi US Open sono seguita da Branislas Jeremovic». I genitori lavorano in una fabbrica di elettrodomestici mentre lei come sua sorella Anastasia sta proseguendo gli studi. Ha avuto la fortuna di trovare un amico d'infanzia del padre che la sostiene economicamente fin dall'età di quattordici anni. È da sempre una giocatrice diverse dalle altre: non spacca tutto a suon di cannonate, il suo gioco è più trattenuto, più intelligente e le piace giocare con le traiettorie senza offrire due palle uguali. Alza la traiettoria, poi un colpo profondo, una palla senza peso, infine accelera. Spesso il ritmo è scandito così. Ricorda un po' Agnieszka Radwanska, che lei stessa ammira tantissimo. Dovrà lavorare per mettere su qualche chilo di massa muscolare, ma al momento la mancanza di un fisico possente è oscurata da un cuore enorme. Per due settimane ha vissuto un sogno. «È stato un onore dividere il campo con una campionessa come Petra Kvitova. Ero così emozionata che mi dicevo sempre prima di servire: “Metti questa prima, non tremare!”». Poi ancora: «Sul match point non sapevo che fare. Volevo quel punto e mi sono messa lì sperando che lei sbagliasse, volevo scaricarle


"Non mi piace troppo andare alle feste, ma adoro cenare assieme alle altre giocatrici." pressione, costringerla a forzare una volta di più» Si dice timida... «Non mi piace troppo andare alle feste, ma adoro cenare assieme alle altre giocatrici. Guardo tanti documentari su YouTube, voglio imparare molte cose sulla natura e mi piacerebbe scoprire di più sugli aeroplani anche se al momento volare è la mia paura più grande. Scoprire di più su ciò che temo è qualcosa che mi interessa e mi sto appassionando anche alla psicologia e alla criminologia». Dopo i mille complimenti ricevuti è arrivata la seconda grande prestazione contro Azarenka, alla prima su un campo centrale di un torneo dello Slam. «Questa ragazza avrà un grande futuro», ha detto la bielorussa con la faccia provata dalla fatica. Serve aggiungere



Borna Coric di Fabrizio Fidecaro

"Star is… Borna, pensammo l’anno scorso dopo averlo visto all’opera nel torneo di Umago, in tabellone grazie a una wild card. Il bimbo perse all’esordio con Horacio Zeballos, ma dopo aver a lungo messo alle corde l’argentino, che qualche mese prima si era concesso il lusso di battere Nadal – pur al rientro dopo un lungo stop – nella finale di Vina del Mar. All’epoca il giovanotto aveva 16 anni appena, era classificato 752 Atp e nel palmarés vantava solo un titolo Future, colto tre mesi prima a Bournemouth partendo dalle qualificazioni. Da allora la sua ascesa è stata rapida: nell’agosto successivo ha conquistato altri due titoli minori in Turchia, a settembre si è aggiudicato gli Us Open junior e subito dopo ha debuttato in Davis impegnando Andy Murray ben al di là del punteggio. E prima della fine dell’anno ha messo in bacheca altri due trofei Future. La nuova stagione lo ha visto mettere da parte definitivamente gli eventi under 18 per farsi le ossa nei tornei Itf e nei Challenger.

A inizio aprile è giunta una clamorosa vittoria in Davis contro il polacco Janowicz, per di più ottenuta in 5 set e in trasferta. Il cerchio della sua prima stagione fra i “grandi” non poteva che chiudersi a Umago, dove Borna, dopo aver superato il francese Edouard Roger-Vasselin, si è trovato di fronte al secondo round proprio Zeballos. Stavolta Coric non si è bloccato a pochi passi dall’affermazione, ma ha vinto con autorità, per poi impegnare severamente Fognini nei quarti. «In questi primi dodici mesi nel Tour professionistico ho imparato che è più difficile rispetto a quello junior, nel senso che nessuno ti regala il match se perde il primo set o subisce qualche chiamata sbagliata», ha ammesso. «Al tempo stesso, però, mi sono reso conto che il livello non è molto più alto. I giocatori sono migliori, ma, se ti abitui, tutto può cambiare rapidamente». Giunto a New York in piena fiducia, Coric, affacciatosi al tabellone preliminare degli US Open da numero 204 del mondo, si è qualificato con sicurezza per il main draw e qui ha travolto al primo turno il ceco Lukas Rosol, lasciandogli soltanto sette giochi.


Il tempo è decisamente dalla sua parte e, nella corsa tra le giovanissime stelle del circuito, Coric sta facendo le prove per mettere la freccia e sorpassare Zverev. È vero che il ceco non si è espresso al meglio dopo le fatiche accumulate nella settimana precedente per fare suo il torneo di Winston Salem. Fatto sta che Coric, solido e determinato, non si è lasciato sfuggire la ghiotta chance di eliminare una testa di serie in un Major. Si supponeva che potesse spingersi addirittura oltre, ma al secondo round un problema alla coscia sinistra, manifestatosi quando era un set pari e un break avanti nel terzo contro il dominicano Victor Estrella Burgos, lo ha condotto all’inevitabile resa. Poco male, il tempo è decisamente dalla sua parte e, nella corsa tra le giovanissime stelle del circuito, Coric sta facendo le prove per mettere la freccia e sorpassare Zverev, peraltro già sconfitto l’anno scorso per 60 al terzo nella semi degli

Us Open junior. «Penso che stiamo arrivando», ha spiegato a Flushing Meadows. «Ci sono quattro o forse cinque ragazzi, più o meno della mia età, e alcuni sono persino un po’ più giovani. Abbiamo bisogno di evitare gli infortuni e di non impazzire, e allora staremo a vedere chi riuscirà a entrare nella top ten, o anche meglio. Forse stiamo motivandoci a vicenda. Comunque, non guardo così tanto gli altri. Kyrgios ha fatto un lavoro incredibile a Wimbledon, ha mostrato che anche i più giovani possono competere con i primissimi. Ma nello stesso tempo questo non significa molto, devo guardare semplicemente a me stesso».


«No, non sento alcuna pressione su di me», ha dichiarato a New York con la sicurezza del predestinato. «Se tutti mi osservano, dimostrerò a ognuno quello che valgo». Sulle potenzialità di Borna scommette ciecamente l’amico campione Ivanisevic, e anche Cilic è prodigo di consigli nei suoi riguardi («Ho parlato molto con loro e sono riconoscente, mi hanno aiutato tanto»). Il 17enne di Zagabria ha una teoria sul buon momento del tennis croato. «La situazione da noi non è facile, non abbiamo le condizioni migliori per allenarci, non disponiamo di soldi:  Se vuoi farcela devi essere tosto. Non siamo viziati, lavoriamo duro». La mentalità sembra quella giusta, il bagaglio tecnico e atletico è di prim’ordine. Insomma, non sarebbe sorprendente vederlo scalare a grandi passi la classifica. Con la baldanza del teenager, Borna ha indicato il n.1 come sua aspirazione.


Il Dominatore di Giulio Nicoletti

"The dominator”, il dominatore. Già il soprannome, la dice lunga sull'idea che in molti si sono fatti di lui. Sul suo futuro... Ma Dominik Thiem, nato a Wiener Neustadt in Austria, il 3 settembre 1993, ha da pochi giorni compiuto 21 anni. Con la racchetta nel DNA (sia mamma Karin sia papà Wolfgang, insegnano a giocare a tennis da una vita); Dominik è uno di quei predestinati che solo a guardarli, fanno venir voglia di riuscire a impattare la pallina allo suo stesso modo. Con quello stile pulito, naturale... Rovescio classico, a una mano; dritto solido e una prima di servizio che fa male. Tanto. Thomas Muster al riguardo, in una recente conferenza stampa, ha scherzosamente dichiarato: «Una cosa importante per lui, sarà quella di saper

maneggiare le pressioni e le paccate sulle spalle che potrebbero rivelarsi fastidiose. In Austria, c'è questo problema... Si creano troppe aspettative. Ma con lui, abbiamo di nuovo un tennista che potrebbe progredire fino ad arrivare alle prime posizioni in classifica. Deve ancora raggiungere risultati importanti, ma ha tutto il potenziale per farcela». È uno che ha ampi margini di miglioramento Thiem. Uno che ha nel destino di abitare i piani alti del ranking del futuro... Senza se e senza ma... Come a dire: «Ehi ok, voi siete già qui a “tirare somme” su di me, ma guardate che lo spettacolo è appena iniziato». E come dargli torto? Le conoscenze famigliari certo gli sono state d’aiuto... «Avevo 11 anni. Mio padre voleva passare al “coaching professionale” ed è stato assunto presso l’accademia di Gunter Bresnik a Vienna. A un certo punto gli ha detto che aveva un figlio a cui piaceva giocare a tennis e gli ha chiesto di darmi un’occhiata. All’inizio, giocavo una sola volta a settimana con lui.


"Quando ho scambiato per la prima volta con Gunter, avevo un rovescio a due mani ed ero un giocatore molto difensivo. Mi ha modificato tutto." Poi man mano, abbiamo aumentato il numero di lezioni; e così due anni più tardi, è diventato il mio allenatore ufficiale. Quando ho scambiato per la prima volta con Gunter, avevo un rovescio a due mani ed ero un giocatore molto difensivo. Mi ha modificato tutto. Mi ha fatto passare al rovescio a una mano e mi ha portato ad adottare uno stile di gioco più aggressivo. È stata dura, perché all’epoca ero il numero uno junior in Austria e con tutti questi cambiamenti la mia classifica è scesa molto. Ma ora ho la certezza che ne sia valsa la pena». Ma cosa fa realmente del ragazzo, un elemento su cui poter investire? Per cominciare, le “molle di lancio” relative ai quarti di finale raggiunti nel 2013 negli “ATP 250” di Kitzbühel e Vienna,

sono da considerarsi come un ottimo punto di partenza... Per non dimenticare poi, la prima qualificazione a un “Atp 500” sul cemento di Rotterdam (in cui si è fermato soltanto per mano di Sir Murray, dopo un’agguerrita battaglia); o quelle attinenti i “Master 1000” di Indian Wells e Miami (datate entrambe 2014), a cui dopo hanno fatto seguito il terzo turno di Madrid (dov’è riuscito a battere per la prima volta un “top ten”; Stanislas Wawrinka) e la finale sulla terra battuta di Kitzbühel (sempre di quest’anno). Eppure c’è dell’altro... Tanto per concludere in bellezza difatti, è d’obbligo citare anche gli ottavi di finale di questi ultimi Us Open; in cui (tra l’ammirazione della stampa, del pubblico e degli addetti ai


"È davvero bello che la mia famiglia non sia più obbligata a mantenermi. Ora sono anche indipendente economicamente." si è arreso in tre set soltanto contro un solido Berdych. Quali sono i punti da dover rivedere allora? Che cosa c’è da migliorare? Sicuramente il gioco al volo (sia come tecnica, sia come approccio e posizionamento); unito a un po’ più di solidità nei punti strategici del match (quelli in cui bisogna far prevalere la mente; l’esperienza)... Per il resto, però, Dominik lascia ben sperare. Il tempo è dalla sua, come lo sono il fisico (1 metro e 85 centimetri, per 82 chilogrammi); e la posizione in classifica (attualmente tra i primi 50 giocatori del mondo)… «Il mio vero sogno per quest’anno, è quello di vincere un torneo in Austria. Mentre l’obiettivo primario, è quello di salire più posizioni

possibile. È difficile, ma se continuo a giocare così bene e costantemente ce la posso fare. È davvero bello che la mia famiglia non sia più obbligata a mantenermi. Ora sono anche indipendente economicamente. Infine sulla Davis, penso che sia bello giocare in squadra 2/3 volte l’anno. Amo il mio Paese e sono convinto che se tutti noi diamo il meglio, possiamo battere un bel po’ di squadre». «Salire più posizioni possibile»... Ecco, dove può arrivare? Primi dieci? Numero uno? Di sicuro non perderà occasione per farsi notare. D’altra parte, gli austriaci sono un popolo a cui non piace passare inosservato. E lui non è che l’ennesima eccezione che tenta di confermare la regola... Per piacere e anche fortuna dei nostri occhi.


Intervista alla CiCi Bellis di Francesca Cicchitti

Una giovane tennista, fino a pochi giorni prima degli Us Open impegnata solo nei tornei juniores, quasi sconosciuta, che in un batti baleno viene travolta da un interesse mediatico che ha pochi precedenti in tutti gli Stati Uniti e la fa diventare famosa. È la storia vissuta in queste ultime settimane da CiCi Bellis, appena 15 anni, numero 1208 del ranking WTA. Una bella storia che ha preso forma dalla prima impresa firmata dalla bimba nella sua carriera ancora tutta da scrivere. Una storia che ha fatto impazzire letteralmente tutti gli appassionati americani di tennis. Cici ha giocato la sua prima e vittoriosa partita nel tabellone principale di un

Open, proprio quello di casa, sul campo numero 6 del Billie Jean King National Tennis Center, durante una giornata caldissima. Campo privo di copertura televisiva, ma strapieno di pubblico, di fan americani che la volevano conoscere, e ammirare il suo gioco aggressivo, soprattutto dopo aver saputo che si era aggiudicata il primo set (6-1) contro la "cipollina" Cibulkova, finalista a gennaio in Australia e numero 13 del seeding. Colta al volo l’opportunità, anche la ESPN decideva lì per lì di inviare un cameraman per immortalare l'evento. Di certo la Bellis, non è la prima giovane a cogliere un risultato importante in uno Slam, basti ricordare Martina Hingis e


Arantxa Sanchez, Monica Seles e Jennifer Capriati, e non sarà neanche l'ultima, ma intorno a lei si è creata un’ondata di interesse immediato. E la vittoria sulla slovacca è stata accolta da una vera e propria standing ovation. Cici è riuscita ad accedere al tabellone principale grazie a una "wild card" assegnatale per aver vinto gli ultimi campionati americani under 18. Alla stessa età era riuscito anche alla connazionale Lindsay Davenport, nel 1991. La Bellis si era già distinta, arrivando tre anni fa in finale all'Orange Bowl under 12, e in Italia vincendo il trofeo Bonfiglio battendo l'australiana Baines. Così, gli Stati Uniti si sono innamorati di Cici Bellis. Per il tennis aggressivo costruito su un fisico ancora esile, per la grinta, e anche per le scelte tattiche. Una ragazza spigliata, che parla chiaro e senza troppi giri di parole. È la n. 2 della classifica juniores, e sono i tecnici i primi a considerarla davvero molto dotata: ha un dritto incisivo e la cosa che impressiona di più è il suo

approccio psicologico in partita. Sa caricarsi e affrontare i momenti più difficili. Alti e bassi sono però inevitabili. Lo si è visto nel match successivo, contro la kazaka Zarina Diyas. Catherine, come sei riuscita a portare a casa questo risultato così importante? «Dovevo essere convinta di riuscire a vincere, questo dovevo avere in testa. Il mio allenatore me lo aveva ripetuto tante volte prima della partita. "Se giochi bene puoi vincere, se non ci credi hai una sola possibilità, se al contrario ci credi avrai due opzioni: puoi crederci e perdere, oppure crederci e vincere. Ma se non ci credi perderai comunque".

Se devo essere sincera, sapevo che era una grande opportunità per me ma, non credevo di uscire vincente». Da dove viene questo tuo nome così curioso? «Il mio primo nome é Catherine e il secondo Cartan, così ho deciso per Cici». Spiegaci questa tua decisione di rinunciare ai 60.000 dollari che ti spetterebbero per aver superato il primo turno ed aver giocato il secondo di uno Slam. «Per adesso voglio pensare solo al tennis, restare una tennista "dilettante", voglio tenermi


Sono nata a San Francisco e gioco a tennis da quando avevo tre anni. la strada aperta per l'università, non si sa mai, potrei avere degli infortuni o altro...». Ti piacerebbe passare al professionismo un giorno? «Sì, mi piacerebbe diventare professionista, ma non è ancora il momento. Per ora voglio concentrarmi solo sul tennis». Puoi dirci qual è il tuo primo ricordo degli US Open? «Sono nata a San Francisco e gioco a tennis da quando avevo tre anni. Uno dei primi ricordi è di quando avevo sei o sette anni... Guardavo la tv e c'era la Sharapova che giocava». È lei la tua giocatrice preferita? «No, ho sempre preferito Kim Clijsters. L'ho seguita sempre fino a quando si é ritirata. Mi piaceva molto come si muoveva in campo, e anche di più dopo, quando è tornata da mamma e ha vinto anche più di prima. L'ho sempre ammirata». Come Kim, Cici Bellis ha sempre giocato a tennis ma ha avuto un attimo di indecisione per l’altro grande amore sportivo, il calcio. Poi, fatta la scelta, i genitori l’hanno dovuta tenere a freno: Cici avrebbe voluto giocare tutti i giorni anche se era troppo piccola per farlo. Da qui il patto con la mamma, che riuscì a spuntare un giorno a settimana di assoluto riposo. Ha condotto gli studi, finora, tramite Internet.



David Goffin: “Non voglio essere un altro dei tanti giganti” di Ivan Pasquariello

David Goffin non corrisponde esattamente allo stereotipico prototipo del tennista moderno. Non è alto, non è muscoloso, abbronzato, non sfoggia capi all’ultima moda nei momenti spesi fuori dal campo. David potrebbe essere facilmente scambiato per un fan che si è intrufolato nell’area riservata ai media a Flushing Meadows, per rubare qualche autografo e assistere alle conferenze stampa dei grandi campioni. Biondo, poco sopra il metro e 80, occhi azzurri, molte ragazze lo identificherebbero come il classico principe azzurro delle fiabe bambinesche. Un candidato a interpretare il ruolo del piccolo principe in un eventuale adattamento cinematografico del classico di Antoine de Saint-Exupéry. Comunque la si voglia vedere, Goffin sembra tutto tranne che il cattivo ragazzo, ma piuttosto quello buono, protagonista o amico che sia. Le prime impressioni ad ogni modo, sono quello che sono, impressioni. Niente a che vedere con

la realtà dei fatti e basterebbe guardare David all’opera anche solo cinque minuti per capire che il belga non solo è effettivamente un tennista a tutti gli effetti, ma anche un buon tennista, una stella nascente nel circuito maschile. Il suo tennis è tutto di tocco, timing, velocità. La palla che esce dalle corde del belga è pulita, il suono che sa di sinfonia. E corre David, corre assatanato a rimandare le palle di muscoli e forzatura, inventandosi nuove traiettorie. Il 2014 è stato un anno fondamentale per il belga. Dal challenger olandese di Scheveningen, Goffin ha messo insieme una striscia di 25 vittorie consecutive, che lo hanno riportato nei primi 100 del ranking e gli hanno consegnato il primo titolo ATP vinto sulla terra di Kitzbuhel. Arrivato agli US Open improvvisamente come un nome da tenere d’occhio, il belga ha messo in difficoltà Grigor Dimitrov nella sua prima apparizione al terzo turno dello Slam newyorkese, perdendo in quattro set. Prima di affrontare il bulgaro semifinalista di Wimbledon, David è stato intervistato esclusivamente per Tennis World. Goffin ha spiegato il suo percorso e successo, piccolo in


un mondo di giganti, rimanendo fiero di essere se stesso, senza voler mai diventare un altro dei tanti. David hai vinto 25 partite consecutive. Ormai ti sei abituato al successo, ma ti ricordi ancora la tua prima vittoria nel circuito ATP? “Si certo, è stata nel 2011 nel torneo di Chennai. Sfidavo Devvarman, un giocatore di casa al primo turno, dopo essere passato dalle qualificazioni. Un’emozione unica, considerato anche che giocavo con il pubblico contro. Sicuramente uno dei miei ricordi più belli”. Ci credevi già 3 anni fa, che solo un anno

dopo saresti entrato nei primi 50 del mondo? “Credevo in me e nel mio tennis, ma allora non mi mettevo pressione, cercavo solo di godermi il momento. Sono sempre stato un ragazzo con i piedi ben piantati per terra. Ho preso quello che mi arrivava, dando sempre il meglio”. Ovviamente il tuo gran momento è arrivato nel 2012, quando hai sfidato il tuo idolo Federer sul Suzanne Lenglen nel quarto turno del Roland Garros. Ti ricordi quel momento? “Si, certo, tutti i giornalisti parlano sempre di quel momento, come potrei mai dimenticarlo (risata)? Me la ricordo come un’esperienza fantastica e anche un po’


imbarazzante. Ricordo di aver detto che per me Roger era un idolo, che avevo il suo poster gigante in camera. Stavo incontrando il mio idolo e non sapevo come rispondere alle domande che mi venivano fatte. E’ stato divertente”. Hai mai più parlato con Roger da quel giorno? “Si, è sempre stato molto gentile con me. Ci siamo incontrati altre volte nei tornei e ogni volta che gli ho chiesto di allenarsi con me ha sempre accettato. Mi ha anche dato suggerimenti e consigli, è sempre stato molto educato. E’ stato un bene sai, quando incontri il tuo idolo non puoi mai sapere come andrà a finire, rischi di rimanere deluso. Io sono stato fortunato”

a fare meglio per me, ad allenarmi duramente. Rispetto al 2012 credo di essere migliorato molto. Ho cambiato coach, ho cominciato a colpire meglio la palla e a essere più continuo. Credo che il mio gioco sia migliorato costantemente durante gli anni. E’ bello vedere i risultati del duro lavoro”. Il tennis è diventato uno sport molto fisico. Vedi i migliori giocatori e sono alti e muscolosi. Poi ci sei tu, non sembri propriamente il classico tennista moderno… “Lo so, sono molto più magro rispetto agli altri giocatori. Chiaramente, non ho

Allora, prima di affrontare Federer avevi detto che non ti interessava vincere, volevi solo capire a che livello fosse il tuo tennis. Su che livello pensi di essere oggi? D.G: “Quella partita è stata una grande i muscoli che ha Rafael Nadal. Sembro più un ragazzo normale. A essere onesto però, mi piace così, non voglio essere uno dei tanti, un altro dei “giganti”. Sai, ci sono molti vantaggi con l’essere più piccoli. Sono molto rapido, leggo la direzione dei colpi meglio di molti, ho una buona velocità di braccio. Ovviamente continuo a lavorare sul fisico, ma non andrò mai in palestra per diventare grande e muscoloso, voglio rimanere come sono e concentrarmi su quelli che sono i miei punti di forza, la mia velocità e il mio timing” Una tua conterranea, Justine Henin,


affrontò un processo simile, piccola e magra all’epoca della rivoluzione targata Williams nel tennis femminile. Ti sei mai sentito una Henin del circuito maschile? “Justine era una grandissima campionessa. Molti hanno sempre parlato dei lei in Belgio e crescendo è stata un’ispirazione. In un certo senso si, possiamo dire che io sono la Henin del circuito maschile. Mi ha sempre divertito vedere giocare Justine, specialmente quando sfidava e batteva le Williams. Ho bei ricordi di quando la guardavo giocare in tv”. Hai mai incontrato Justine o Kim Clijsters? “Veniamo da generazioni differenti,

perciò non ci siamo mai incontrati sul tour. Quando loro vincevano i loro ultimi tornei dello Slam io vincevo le mie prime partite nel circuito. Fuori dal campo però, ho avuto il piacere di conoscere entrambe, e sono stati begli incontri. Specialmente con Justine, visto che veniamo anche dalla stessa federazione”. Dicono che il tennis diventi un lavoro remunerativo solo dopo l’ingresso nei primi 50. Concordi con questa affermazione? E’ stato anche il tuo caso? “Certamente, i soldi diventano di più e riesci a viaggiare con meno preoccupazioni. La cosa più importante per me ad ogni modo, è che bazzicando per i tornei principali, la gente impara a conoscerti e a interessarsi a te, quindi hai più possibilità di lavorare con persone valide. Per me più soldi significa poter portare in viaggio con me il mio team e anche selezionare il miglior team possibile. Essere nei primi 50 significa anche doverci rimanere e quella è la parte più dura. Affrontando sempre i migliori, rischi di uscire spesso al primo turno. A quel punto devi aspettare una settimana per giocare di nuovo e senza ritmo è difficile trovare la fiducia. Quest’anno mi sento più pronto rispetto al 2012, ho molta più confidenza e credo nei miei mezzi. Sono nei primi 50 di nuovo, stavolta per rimanerci”.


Intervista a Lucic Baroni di Diego Barbiani

Quanto può durare un ace? Un battito di ciglia, forse. Ecco, in un battito di ciglia Mirjana Lucic ha creato la sua giornata perfetta, quella che non dimenticherà mai. E se l'è presa con forza, senza mai dare l'idea di voler gettare la spugna. Simona Halep, la n.2 del mondo, è caduta sotto i vincenti della croata, che ha rimontato da uno svantaggio di 2-5 (e servizio per la rumena) nel primo set. Mirjana, la ragazzina prodigio che nel 1999 ha raggiunto la semifinale di Wimbledon eliminando Monica Seles e Nathalie Tautiaz, non c'è più. Al suo posto una signora di 32 anni, sposata con l’imprenditore italiano Daniele Baroni, che per anni ha portato dentro di sé

e paure e che finalmente, in un attimo, ha sfogato tutta la propria tristezza alzando le braccia al cielo. La sua storia comincia da lontano. È una di quelle giocatrici esplose in maniera molto precoce, di quelle che spingevano i soliti “aruspici” a sbilanciarsi: «Questa sarà la prossima n.1 nel giro di qualche anno». Classe 1982, ad appena quindici anni ha vinto il primo titolo Wta, a diciassette la semifinale nello Slam più rappresentativo, dove da sempre si fa la storia di questo sport. A quell'età, però, il suo incubo era già in una fase irreversibile. Mirjana aveva conosciuto l'inferno già a cinque anni e


per i successivi undici doveva nascondere tutto all'occhio delle altre persone per paura di dover pagare conseguenze, chissà, ancora peggiori. «Tieni, vai a prenderti un gelato», le ha detto una volta suo padre dopo averla colpita con una Timberland per quaranta minuti a causa di una sconfitta. Non fu un caso isolato. I maltrattamenti si ripetevano da quando lei aveva cinque anni. L’incubo, Mirjana, ce l'aveva in casa, lo vedeva ventiquattro ore al giorno e non poteva farci nulla, solo subire. Marinko Lucic era un atleta del decathlon, che ha preso parte anche alle Olimpiadi, e come tanti padri ed ex atleti dell'est non aveva pietà verso i propri figli. Il loro è un insegnamento molto rigido, fatto di

infernali e volti a un unico scopo: vincere, sempre. Non ci riuscivano? Giù botte. Il motivo? Devono essere perfetti o non sono abbastanza degni dei loro padri. Mirjana è cresciuta così, chiudendosi nella sua cameretta alla sera e nascondendosi sotto le lenzuola per piangere silenziosamente. Il pensiero che il padre la potesse sentire, in quei momenti in cui lasciava sfogare la sua tristezza, la attanagliava quasi più di quando riceveva gli schiaffi. Lei non ha mai avuto il coraggio di rivelare tutto fino a quando a essere minacciata fu anche la madre Andelka. Aiutati anche da Goran Ivanisevic, scapparono da casa durante la notte e dopo diciannove giorni passati a nascondersi fuggirono definitivamente negli Stati Uniti. Il terrore che il padre li raggiungesse per mettere in atto le sue minacce (era arrivato al punto di parlare di «sequestri e omicidi») era sempre vivo ma Mirjana proseguiva, in qualche modo, con la propria passione per il tennis. Il padre nel frattempo meditava vendetta. Non potendo più metterle le mani addosso decise di ridurla sul lastrico. Qui, le storie viaggiano fra verità e leggenda e non si è mai saputo davvero come siano andate. Qualcuno dice che Marinko giunse a intentare una causa alla figlia, accusandola di abuso di farmaci. Ma forse sono solo voci...


La sua favola ha cominciato a scriversi quando nessuno credeva in lei. Di fatto, dopo tutti questi problemi Mirjana smise con il tennis e ricominciò solo anni più tardi. Sul volto della bella signora di oggi, le sofferenze di quel sogno infranto si vedono ancora, anche se la storia è finalmente cambiata, anche se il matrimonio a Sarasota con l’imprenditore italo.americano Daniele Baroni le ha ridato serenità. Così, Mirjana è rientrata per la prima volta fra le prime cento solo nel 2010, rimanendo sempre nel limbo, a cavallo tra quel limite. Tanti problemi fisici sembravano allontanare definitivamente le sue speranze di rientro completo, poi è arrivata l'occasione della vita a New York. In pieno stile da film americano, la sua favola ha cominciato a scriversi quando nessuno credeva

in lei. È giunta a Flushing Meadows da n.121 al mondo e ha passato le qualificazioni in maniera rocambolesca, infine, al terzo turno del tabellone principale, il capolavoro sulla n.2 del mondo. Ora è la numero 80 del mondo. E pazienza se la Errani le ha impedito di continuare a sognare, stavolta Mirjana non può che essere felice per la vittoria più inattesa ed emozionante, nel Paese che l'ha accolta per ricominciare una nuova vita lontana da chi voleva impedirglielo.


Intervista a John Isner di David Cox

“Non avrei mai pensato di poter fare quello che sto facendo ora”

“Non avrei mai pensato di poter fare quello che sto facendo ora,” dice John Isner con aria di mite frustrazione. “Sono nella top 20 da quattro anni fila ora. Non pensavo avrei potuto farcela. Non sono mai stato indicato come il prossimo grande giocatore americano. Sono andato al college per quattro anni, quindi la cosa è molto diversa. Sto facendo buone cose e non mi importa di quello che dicono gli altri. Sto solo provando a fare quello che posso finchè ci riesco e questo è quanto.” L’etichetta di N.1 americano non si da molto facilmente con un Isner che si ritrova a diventare leggermente teso con i media dietro al Grande Slam e con la sua nazione che aspetta invano l’arrivo di un altro fuoriclasse. Questo è tempo di esami per il tennis maschile americano con una siccità senza precedenti ai vertici e spesso il primo sulla linea di fuoco è Isner – un giocatore che ha ottenuto risultati considerevoli – che si ritrova a dover sopportare

il peso dell’insoddisfazione di una nazione con il corrente stato delle cose. “Ho fatto cose abbastanza buone. Sono il N.15 del mondo, quindi non è così male,” insiste. Ma quando l’America produrrà un altro giocatore con l’abilità di fronteggiare le vette scalate da Sampras, Agassi, Roddick, Courier, giusto per citarne alcuni? “A dire il vero non penso che la cosa mi riguardi,” risponde Isner. “Penso che ci siano alcuni giocatori dietro di me nelle classifiche, un po’ più giovani di me che continueranno a migliorare. Jack Sock è uno di loro.” “Si è appena trasferito a Tampa da Los Angeles, quindi quella sarà la sua base. Ho passato molto tempo con Jack e so quanto sia talentuoso e quanto stia lavorando duramente. È un ragazzo che dovrete tenere d’occhio insieme a Steve Johnson e Ryan Harrison. E Sam Querrey, è solo questione di tempo prima che faccia la svolta. Non sembra così bravo sulla carta immagino, ma non è così male come sembra.” Isner non lo ammette sempre, ma dietro le quinte sta facendo la sua parte per incoraggiare e allevare alcuni dei più giovani, così come fecero


Fish e Blake furono così carini con me e mi lasciarono entrare nel loro ambiente, nelle loro case. a suo tempo stelle affermate come James Blake e Mardy Fish quando lui era un novellino del tour. “Fu importante per me perché quando mi trasferii a Tampa subito dopo il college, Fish e Blake vivevano là e li conoscevo abbastanza bene. Entrambi furono così carini con me e mi lasciarono entrare nel loro ambiente, nelle loro case. Ho cenato con loro, ho giocato a golf con loro e loro mi hanno insegnato un po’ quelli che sono i trucchi del mestiere. Mi considero molto fortunato.” Come esordiente che passa dalla molto differente atmosfera del tennis del college all’ambiente spietato del tour, ci è voluto un po’ a Isner per trovare il posto ma una volta che le vittorie hanno iniziato ad arrivare non si è mai

guardato indietro, debuttando al terzo turno degli US Open. “E’ stato un cambiamento duro all’inizio perché ero così abituato ad essere in una squadra ed avere molte cose fatte per me,” dice. “Al college ti trattavano tutti così bene, soprattutto quando giocava per la squadra. All’epoca non mi dovevo mai preoccupare di biglietti aerei, prenotazione dell’albergo, questo e quello. Ero sempre con la squadra e andavo a cena con gli amici e cose così. Ma una volta che ho iniziato ad abituarmi al tour pro, è diventato molto più facile. Quando ho iniziato per la prima volta dovevo tagliare qua e là e fortunatamente per me ho ottenuto qualche successo e ora non mi devo preoccupare più di tanto.”


Isner dice che si è sempre considerato come un giocatore di squadra

Isner dice che si è sempre considerato come un giocatore di squadra, nessuna sorpresa, che alcune delle sue migliori prestazioni siano arrivate in Coppa Davis, l’unica competizione del tennis che riproduce il cameratismo del tennis del college. “A volte l’ambiente è un po’ turbolento,” dice.”C’è molto in lizza nella Coppa Davis, molta pressione e devi in qualche modo abbracciare la pressione, uscire fuori e godertela. Come in ogni partita. Ma quando giochi per qualcun altro oltre che per te stesso e giochi per i tuoi compagni di squadra, per il capitano, per il allenatore e per il tuo paese, si sente molto di più.” Alcuni si sono chiesti se Isner possa guadagnare più di un vantaggio in tour mettendo insieme un team più grande intorno a lui e ricreando un po’ di quella atmosfera su basi settimanali, come ha fatto Andy Murray con successo, ma lui non è d’accordo. “Sono più i compagni di squadra che fanno la differenza, se sai cosa intendo,” dice.”Io viaggio con due persone che penso sia assolutamente sufficiente. La maggior parte dei ragazzi al vertice viaggia con due persone, almeno nella top 30 comunque. Sono il mio allenatore e il mio chiropratico, e fa più che aggiustarmi, fa un sacco di cose positive.”


Isner sta ancora cercando l’ingrediente extra che possa portarlo a passare i quarti di un Grande Slam Comunque Isner sta ancora cercando l’ingrediente extra che possa portarlo a passare i quarti di un Grande Slam per prima volta nella sua carriera. L’atmosfera spesso concitata degli US Open gli fornisce la miglior occasione di raggiungere questo obiettivo e lui crede che sia alla sua portata. “Ho sempre giocato piuttosto bene agli US Open e spero di potermi ripetere quest’anno,” ha detto. “E’ sicuramente uno dei miei tornei preferiti. Ho molta della folla dalla mia parte e mi diverto molto.”


Se son stelle brilleranno di Brent Kruger

Laggiù in fondo si intravede uno spiraglio di luce. Il tunnel è ancora lungo, certo, ma qualcosa si sta muovendo. Sembra che il declino dell’impero americano possa rallentare e, forse, fermarsi del tutto. Quelli che un tempo erano i padroni del vapore ora sono costretti ad arrancare nelle retrovie e, quel ch’è peggio, con pochissime prospettive. Per cercare di capire quanto sia importante la crisi del tennis a stelle e strisce, proverò ad aiutarmi con qualche cifra. Nelle classifiche mondiali che ATP (dal 1973) e WTA (dal 1975) stilano al termine di ogni stagione agonistica, gli Stati Uniti hanno avuto un loro rappresentante al numero uno per 18 volte nel maschile e per 21 volte nel femminile. In certi periodi, quello statunitense è stato un autentico dominio con vette di ben sette giocatori nella Top-10 di fine anno come accadde nel 1979 tra gli uomini (Connors, John McEnroe, Gerulaitis, Tanner, Ashe, Solomon e Dibbs anche se in testa

alla graduatoria c’era lo svedese Borg) e nel biennio 1981/82 tra le donne, con addirittura quattro americane ai primi posti (Evert, Navratilova, Austin e Jaeger) oltre a Shriver, Bunge e Potter. La situazione è andata peggiorando a partire dal nuovo millennio. L’ultimo uomo a piantare la bandiera USA sulla cima della montagna ATP è stato infatti Andy Roddick, nel 2003; da allora, una voragine ha progressivamente inghiottito l’intero movimento maschile yankee. Meglio è andata nel versante femminile, in cui però Lindsay Davenport prima e le sorelle Williams dopo hanno solo parzialmente mascherato l’evidente mancanza di ricambio generazionale. Infatti, se l’eccellenza balza agli occhi e fa notizia, l’indicatore più attendibile per misurare la validità del lavoro di una Federazione resta pur sempre il rapporto tra qualità e quantità. Perché se è vero che il talento può nascere in qualsiasi parte del mondo, è altrettanto vero che da un bacino ampio ci sono maggiori possibilità di trovare la vena d’oro nascosta.


E in questo anche le donne americane, nonostante Serena, hanno fatto registrare cifre preoccupanti. Per loro l’anno zero, nel vero senso del termine, è stato il 2006: nemmeno una giocatrice tra le Top-20 e appena 11 tra le prime 100, anche se in questa graduatoria il fondo è stato toccato nelle stagioni 2008 e 2009 con cinque sole tenniste entro la centesima posizione del ranking, quando trent’anni prima (1979) erano addirittura 61! In quanto a statistiche mortificanti, gli US Open appena conclusi a Flushing Meadows hanno fatto registrare un nuovo record negativo: erano 113 anni che gli americani non piazzavano almeno un

loro giocatore nella seconda settimana dello slam di casa. Grazie a cinque inevitabili wildcard, nel tabellone principale del singolare maschile c’erano dodici statunitensi e solo due, i soliti Querrey e Isner, hanno raggiunto il terzo turno; altri nove sono usciti subito e Tim Smyczek ha vinto un match perdendo il secondo. Un’ecatombe. A fronte di un campo di partecipazione più nutrito e meglio qualificato, le femmine non sono andate tanto meglio. A parte la solita Serena, che non fa testo, le altre sedici collocate nel main-draw (di cui 4 teste di serie) non hanno superato il terzo turno tra tante delusioni e qualche inattesa sorpresa. Ci si attendeva qualcosa di più da Sloane Stephens (eliminata dalla svedese Larsson) e Venus Williams (fatta fuori dalla Errani al termine di un match dall’andamento quantomeno curioso); pure le “erbivore” Keys e Vandeweghe, che qualche mese prima avevano conquistato il primo titolo WTA in carriera rispettivamente a Eastbourne e ‘sHertogenbosch, hanno fallito l’occasione di contrassegnare il loro cammino con qualche risultato importante facendosi battere rispettivamente dalla qualificata Krunic e dalla spagnola Suarez Navarro, entrambe al secondo turno.


Possono, allora, gli squilli di tromba (magari anche un po’ esagerati) fatti registrare dagli exploit della giovanissima Catherine Cartan Bellis e di Nicole Gibbs rappresentare seriamente un’iniezione di fiducia per il morale piuttosto basso del tennis a stelle e strisce? Forse sì. Perché quando le vacche sono magre, basta poco per sfamarle… Così la vittoria al primo turno di “CiCi” Bellis, californiana classe 1999 e in tabellone grazie alla wild-card ottenuta vincendo il titolo nazionale Under 18, sulla slovacca Dominika Cibulkova (dodicesima favorita del torneo stando alle teste di serie ma in rottura prolungata, dopo aver conquistato la finale degli Australian Open in gennaio) ha suggerito paragoni quantomeno azzardati con le campionesse teen-ager del tempo che fu (Tracy Austin, Andrea Jaeger, Jennifer Capriati e Martina Hingis). E pure i due successi al terzo set di Nicole Gibbs, che di anni ne ha già ventuno ma è ancora 135 del ranking WTA e anch’essa bisognosa di una wc per evitare

le insidie delle qualificazioni, maturati contro due avversarie toste come Garcia e Pavlyuchenkova, rappresentano segnali di una qualche importanza. Tuttavia, questo è il bicchiere mezzo pieno. Giustificato anche dall’età media della nuova generazione di giocatrici americane nella Top100, con 8 di loro che hanno meno di 25 anni. E dietro, oltre alla Bellis, una nuova ondata di “colored” promette continuità: Sachia Vickery, Victoria Duval, Taylor Townsend e le “tempestose” sorelle Black: Alicia Tornado e Tyra Hurricane. Ma il bicchiere mezzo vuoto ci ricorda che la canadese Eugenie Bouchard, classe 1994, è già

Top-10 e nella stagione in corso è stata semifinalista a Melbourne e Parigi e finalista a Wimbledon e, soprattutto, che la svizzera Belinda Bencic era n°58 del mondo prima degli US Open, in cui ha raggiunto i quarti a spese di due Top-10 come Kerber e Jankovic. E la Bencic ha appena 17 anni e mezzo… Insomma, come detto in apertura, le americane possono vedere la luce in fondo al tunnel. E gli americani? Notte fonda. Sotto i vent’anni, solo Jared Donaldson e Mackenzie McDonald lasciano aperto qualche spiraglio di gloria futura. Il primo, classe 1996, ha giocato a Washington il suo primo match in un tabellone ATP.


Il secondo invece ha stabilito, un anno fa a Cincinnati, un record difficilmente superabile: è stato il primo tennista senza ranking a qualificarsi per il main-draw di un Masters 1000. La settimana precedente, il diciassettenne Mackenzie, seguito dal sudafricano Wayne Ferreira, aveva perso negli ottavi ai campionati statunitensi under 18. Quella seguente, grazie a un invito di Jay Berger, ha sconfitto il connazionale Johnson e il francese Mahut prima di perdere nettamente contro il belga Goffin. Niente male, si potrebbe dire, ma pure in questi casi la legge del bicchiere mezzo vuoto è inesorabile e spietata. L’australiano Nick Kyrgios, di undici giorni più giovane di

numero 60 ATP prima degli US Open e dopo aver vinto tre challenger e raggiunto i quarti a Wimbledon a spese del numero 1 mondiale Rafael Nadal. E il connazionale Kokkinakis, che ha un anno in meno, si è preso il lusso di debuttare con una vittoria nello slam di casa prima di perdere con lo stesso Nadal. Che in Australia abbiano capito la lezione e stiano iniziando a rialzare la testa, dopo tre lustri di crisi? Può essere. Come può essere che Patrick McEnroe, appena dimessosi dalla carica di direttore generale del programma di sviluppo dei giocatori dell’USTA, abbia ragione quando sostiene che i talenti in America non mancano ma vanno seguiti anche dopo i 14 anni e gli va insegnato loro a vincere le partite, oltre che colpire bene la palla e possibilmente tirare più forte possibile il servizio. Altri invece sostengono che, per iniziare a vincere, gli americani devono imparare a giocare sulla terra. Certo, quando avevano i “marziani” Connors, McEnroe, Sampras, Agassi e Courier, che bisogno avevano di studiare le strategie vincenti? Ma adesso il tennis si è ulteriormente universalizzato e per restare in scia occorre una svolta. Staremo a vedere.


Il tennis statunintense sempre più in crisi di Marco Di Nardo

E' ormai uno degli argomenti di cui si parla da qualche anno. Dopo il ritiro di Andy Roddick gli Stati Uniti non riescono più a trovare un campione, nonostante a livello numerico abbiano un'importantissima presenza nel ranking Atp. Abituati a campioni come Ashe, Connors, Courier, Chang, Agassi, Sampras, e appunto Roddick, gli americani non possono accontentarsi dell'attuale situazione, con nessun giocatore nella Top-10, appena uno nella Top-20 e sei nella Top-100 della classifica mondiale. L'unico giocatore che aveva dato l'impressione di poter sostituire, o almeno provare a non far rimpiangere i campioni statunitensi del passato, era stato John Isner. A 29 anni il tempo per conquistare qualche titolo importante ancora

c'è, anche se il livello di classifica del gigante americano sembra essere tra il 10° e il 20° posto, e il fatto di non aver ancora vinto alcun Masters 1000 in carriera fa pensare che difficilmente riuscirà a fare meglio in futuro. In questa stagione ha vinto i tornei Atp 250 di Auckland e Atlanta, ma il miglior risultato nei Masters 1000 è stata la semifinale di Indian Wells, il migliore a livello Slam il quarto turno al Roland Garros. Dietro Isner c'è l'eterna promessa Donald Young, che al numero 47 del ranking Atp (prima degli U.S. Open) è in uno dei momenti migliori della sua carriera. Questo la dice lunga sulle difficoltà che ha incontrato il tennista a stelle e strisce dopo aver dominato e vinto due Slam nel circuito Under 18. I migliori risultati in carriera di Donald sono la finale raggiunta a Bangkok nel 2011 e le due semifinali di Washington (2011 e 2014). Anche puntare su di lui sembra un azzardo.


un fenomeno, e probabilmente farà fatica a conquistare un posto nella Top-20. Stesso discorso per Jack Sock, attuale numero 55 Atp, più giovane di due anni rispetto a Johnson ma comunque molto in difficoltà quando si trova ad affrontare i migliori. Poi c'è Sam Querrey, giocatore ancora relativamente giovane con i suoi 27 anni da compiere a ottobre, e arrivato fino a un best ranking di numero 17 a gennaio del 2011. Sam detiene il record di aces messi a segno consecutivamente, ben 10, nel match dei quarti di finale di Indianapolis 2007 giocato contro James Blake. Un servizio che può quindi essere devastante quello di Querrey, che nel 2012 è

anche riuscito a battere il numero 2 del mondo Novak Djokovic nel Masters 1000 di ParigiBercy. Ora però l'americano è solo al 57simo posto del ranking Atp, e se non si riprenderà in fretta sarà un'altra delle scommesse perse dal tennis statunitense. Tra i più "anziani" continua invece a girare per i tornei il 36enne Michael Russel, che nell'ormai lontano 2001 andò a un passo dall'impresa contro Gustavo Kuerten agli ottavi di finale del Roland Garros, arrivando a match-point, prima che il brasiliano riuscisse a conquistare il suo terzo titolo a Parigi. Michael in questa stagione ha conquistato addirittura una semifinale Atp, a Memphis, ma ovviamente gli Stati Uniti non possono aspettarsi di essere risollevati da un giocatore a fine carriera. Uno dei migliori erbivori americani, e questo pensando a Roddick mette i brividi, è probabilmente l'attuale numero 147 del mondo Rajeev Ram, vincitore del torneo di Newport nel 2009. Ram in questo 2014 ha vinto il Challenger di Leon sul cemento, mentre sull'erba ha conquistato la semifinale al Challenger di Nottingham, perdendola contro Groth per 7-6 76 nonostante abbia perso appena 15 punti in 12 turni di battuta. A fine match Rajeev aveva vinto cinque punti in più rispetto a Groth: nel tennis capita di perdere avendo vinto più punti


La situazione è abbastanza critica per il movimento tennistico statunitense, che deve cercare tra i giovanissimi un nuovo campione. rispetto al rivale, ma è davvero raro a livello statistico che succeda in un match di due set. La situazione è quindi abbastanza critica per il movimento tennistico statunitense, che deve cercare tra i giovanissimi un nuovo campione che sembra non arrivare mai. Jared Donaldson, classe 1996 e numero 303 del mondo potrebbe essere la soluzione ai problemi, ma è difficile dirlo così presto, o Francis Tiafoe, addirittura classe 1998, che a Washington ha messo in difficoltà il numero 111 Atp Donskoy, perdendo per 6-4 6-4. In ogni caso l'impressione è quella che gli Stati Uniti debbano aspettare ancora qualche anno per vedere un loro giocatore vincere in un torneo importante.



Canada: sorpasso tennistico agli USA di Alessandro Varassi Milos Raonic e Eugenie Bouchard, ma non solo: i canadesi possono aspirare a diventare la vera superpotenza del Nord America, con buona pace degli Stati Uniti

La recente Rogers Cup, principale torneo sul suolo canadese che si disputa tra Toronto e Montreal, è stata l’occasione per gli appassionati locali di ammirare da vicino i propri beniamini: Milos Raonic e Eugenie Bouchard sono ormai qualcosa di più che semplici promesse del mondo tennis, con risultati di rilievo che li hanno proiettati nella top 10 delle rispettive categorie, ATP e WTA. Con le due giovani stelline, a buon ragione i canadesi possono guardare con ottimismo al futuro che si prospetta, e che li vedrà certamente protagonisti. Proprio mentre i vicini più potenti, gli Stati Uniti, conoscono una delle crisi peggiori.

Sebbene a livello numerico il confronto tra le nazioni sembri impietoso (gli Usa possono vantare 6 top 100, e 9 top 150, contro rispettivamente 2 e 4), la sensazione generale è che il sorpasso allo stato attuale sia stato compiuto. Dietro John Isner, infatti, gli statunitense sembrano ben poca cosa, con l’unica eccezione forse di Steve Johnson, che ultimamente si sta facendo valere nei tornei su cemento, e Jack Sock, che appare ancora lontano dal salto di qualità, che chissà se arriverà mai. I primi due giocatori canadesi, invece, sono Milos Raonic e Vasek Pospisil, il primo top 10 ed il secondo top 30, e tra l’altro recente vincitore di


Dopo la Bouchard le canadesi si fanno desiderare, la prima che si incontra nel ranking è Sharon Fichman Wimbledon in doppio proprio con Sock. La giovane età è un vantaggio indiscutibile (Raonic e Pospisil sono under 25, Isner ha 29 anni e probabilmente ha già toccato il picco della carriera), suffragato poi da una crescita oggettiva nelle ultime stagioni. Discorso forse leggermente diverso se passiamo alla WTA: Serena Williams è ancora la numero 1 del mondo, e dietro di lei ci sono l’eterna sorellona Venus e la giovane Sloane Stephens; oltre alla Bouchard, invece, le canadesi si fanno desiderare, la prima che si incontra nel ranking è Sharon Fichman. C’è da dire però, come per gli uomini, che le Williams non sono di certo più giovinette, e l’addio potrebbe essere più vicino di quel che si pensa. Il circuito femminile, senza


Uno dei segreti, secondo gli addetti ai lavori, dell’ascesa del tennis canadese è stato assumere tecnici stranieri Serena, potrebbe essere apertissimo, come hanno dimostrato i recenti tornei dello Slam, e Eugenie Bouchard (semifinalista a Melbourne e Parigi, e finalista a Wimbledon) sembra poter recitare il ruolo della protagonista, non solo fuori dal campo per l’indubbia avvenenza. Del resto, Genie in patria è già un fenomeno mediatico, nonché la giocatrice canadese che ha conquistato il ranking più alto nella storia. Uno dei segreti, secondo gli addetti ai lavori, dell’ascesa del tennis canadese è stato assumere tecnici stranieri, che hanno lavorato anche sulla testa dei tennisti, spingendoli a credere di poter non solo giocare buoni incontri, ma anche di vincere, come conferma Louis Borfiga, coach francese che ha lavorato con i giovani Jo

Wilfried Tsonga, Gael Monfils e Gilles Simon. Lo stesso Raonic, una volta chiaro alla Federazione che potesse fare il salto di qualità, fu finanziato dalla federazione per allenarsi in Croazia e Spagna, così come la Bouchard in Florida, in modo da crescere su più superfici e lavorare con allenatori migliori. Bisognerà certo vedere se la scuola statunitense tirerà fuori dal cilindro qualche asso, certo è i tempi del dominio, basti pensare a Andre Agassi e Pete Sampras, sembrano lontani secoli. E vedersi sorpassati dai vicini, che prima vedevi solo in lontananza nello specchietto retrovisore, potrebbe essere la spinta per l’USTA ad intervenire.


Solo in America.. di Alex Bisi

Così recitava Apollo Creed nel celebre Rocky. La patria delle grandi opportunità la definiva, dando ad uno sconosciuto pugile di Filadelfia l’opportunità di combattere per il titolo dei pesi massimi di pugilato. E’ un po’ quello che è successo agli ultimi UsOpen, che ha visto due esordienti in finale, dove a trionfare è stato il croato Marin Cilic, non di certo un habitué di questi palcoscenici. L’allievo di Ivanesivic ha giocato un grande torneo, non perdendo un set dai quarti in poi, ed eliminando con un netto 3-0 persino Roger Federer, grande favorito assieme a Nole Djokovic per la conquista dello Slam newyorkese. Il suo avversario in finale, Nishikori, è arrivato all’atto conclusivo probabilmente un po’ scarico, avendo speso molte energie per eliminare Raonic,

Wawrinka e lo stesso Djokovic. Il match conclusivo non è stato dei migliori come livello, con Cilic praticamente ingiocabile sui turni di servizio e che non sbagliava praticamente nulla durante gli scambi. Prima volta in assoluto per Cilic e prima grande vittoria per il suo coach, che scherzando nel dopo partita ha detto che può già ritirarsi sereno. Il talento nipponico ha dimostrato di esser un giocatore solido e che regge benissimo i grandi incontri, confermando che la finale di Madrid con Nadal non è stato un caso isolato, se gli infortuni lo lasciano in pace sicuramente sarà un cliente molto pericoloso. E gli altri?I grandi delusi sono sicuramente le prime due teste di serie del torneo, Federer e Djokovic estromessi dal torneo al penultimo atto. Partiti entrambi sollevati, dall’assenza di Nadal, uno che solitamente quando torna da uno stop è più agguerrito che mai, non sono riusciti a mettere in scena la rivincita dello slam Londinese. Lo svizzero era capitato in un tabellone decisamente favorevole, ha giocato un ottimo torneo, perdendo un set con Granollers e


La grande delusione: Djokvoic

recuperando con un match da vero campione due set a Monfils. Contro il croato partiva da favorito invece non è mai stato in grado di opporsi al gioco dell’avversario. Dall’altra parte del tabellone, Djokovic ha avuto vita facile fino ai quarti, dove ha trovato Murray, ancora un po’ indietro fisicamente, e la semifinale, sembrava una formalità dopo che Wawrinka era stato eliminato, sprecando molto, dal giovane nipponico. Sicuramente grande delusione per il serbo soprattutto dopo la vittoria di Wimbledon, ma il numero uno del seeding arrivava agli Open decisamente scarico, con due brutte prestazioni nei tornei pre Slam, probabilmente l’imminente maternità gli ha

rubato un po’ di energie nervose. Monfils, con il supporto dell’amico Simon come coach, e da giocatore ha eliminato David Ferrer, ha giocato un gran torneo, dando spettacolo come sempre, eliminando un altro giovane in rampa di lancio, ma che ancora dimostra grossi limiti in alcune fasi delicate dei match, quale Dimitrov. Raonic è stato eliminato da Nishikori, che deve aver fatto tesoro delle sconfitte precedenti, avendo i due incrociato spesso le racchette, ma continua a dimostrare ogni torneo gran miglioramenti , e di non esser solo un giocatore tutto servizio. I nostri son usciti presto, Fognini con grande sorpresa contro Mannarino e Seppi eliminato dall’istrionico Kyrgios, ma abbiamo avuto la


Gli italiani non hanno brillato.

positiva della prima vittoria Slam di Paolo Lorenzi, sperando sia una buon auspicio per il delicato match di Davis in terra svizzera. Con la vittoria Slam di Cilic, tre slam su quattro sono andati in questa stagione, a giocatori allenati da vincitori di Slam delgli anni passati, con addirittura la finale di Wimbledon che ha visto opposti due allenatori che su quel terreno avevano dato vita a grandi match, quali Becker e Edberg. Solo in America recitava Apollo Creed , e sicuramente questo Slam ne è stata una chiara dimostrazione.


Istantanee dal paradiso

di Brent Kruger

Errani-Vinci

D’ora in poi li chiameremo “momenti Vinci” e credo non ci sia nulla di irriguardoso o azzardato in tale affermazione. Se il compianto David Foster Wallace andava in trance ammirando le gesta di Roger Federer, io provo sensazioni analoghe per Roberta Vinci. A Wimbledon, come Thelma & Louise, la 31enne di Taranto (ma palermitana d’adozione) e l’inseparabile compagna Sara Errani hanno finalmente trasformato un incubo nella liberazione e ora possono anche lanciarsi nel Grand Canyon, che un posto di rilievo nella storia del tennis mondiale non glielo toglie più nessuno.

Perché, con la vittoria sul prato spelacchiato del Centrale per antonomasia, le Cichi hanno completato il fatidico Career Grand Slam, vale a dire la vittoria in ciascuno dei quattro major. Impresa, quest’ultima, riuscita nell’Era Open solo ad altre tre coppie di giocatrici: NavratilovaShriver, Gigi Fernandez-Zvereva e le sorelle Williams. Ma torniamo alle istantanee dalla finale dei Championships, trasformatasi ben presto nel paradiso delle azzurre. Fuori piove e si gioca con il tetto chiuso. Dall’altra parte della rete ci sono due walchirie bionde nate a quattro giorni di


Le Cichi hanno dimostrato che, anche nell’era dei muscoli, saper trattare con i guanti quelle sfere ricoperte di feltro giallo può essere il modo giusto per arrivare a toccare il cielo con un dito. distanza nel maggio del 1993; una è la francese Kristina Mladenovic, di genitori serbi, e l’altra è l’ungherese Timea Babos, che questo torneo l’ha già vinto da juniores in coppia con la statunitense Sloane Stephens. Sulla carta non dovrebbe esserci partita ma la “terba” di Wimbledon non è proprio il pavimento preferito dalle italiane, che qui hanno quasi sempre versato lacrime e sorriso assai poco. E ci sono andate vicino tanto così anche stavolta, a piangere. Dopo essere state entrambe cacciate fuori all’esordio del singolare da due terribili “giovinastre”, in doppio Roberta e Sara sono sopravvissute a cinque match-point avversi contro le Kichenok, gemelle d’Ucraina.


Si era al secondo turno e pareva proprio che la maledizione londinese avesse colpito di nuovo. Ma, si sa, quando non ti abbattono, le avversità finiscono per rafforzarti. E così è stato. Al confronto, le sfide successive sono state delle passeggiate, pur contro formazioni sulla carta più impegnative come le australiane BartyDellacqua o le specialiste Hlavackova-Zheng. In alcuni frangenti sembra perfino che le coppie in campo interpretino due sport diversi. Strappi e potenza le franco-ungheresi, tocco e poesia le italiane. Errani-Vinci azzannano subito la finale alla giugulare e non la mollano più, in una miscela di tattica e classe che disorienta le già emozionate avversarie.

La storia della partita è avara di spunti suggestivi e allora il pubblico di Londra può stropicciarsi gli occhi e mormorare soddisfatto dopo certe volee di Roberta, che lasciano senza parole. Dietro, Sara, che pur non ha imbarazzi nei pressi della rete, a fare il lavoro sporco; davanti la pugliese a ricamare. Complicato tirarle giù, quando le azzurre sono sulla nuvola… Nel primo set Mladenovic e Babos non riescono mai a tenere la battuta: 6-1. Nel secondo invece decide un solo break, quello che la magiara si autoinfligge con tanto di doppio fallo conclusivo nel sesto game: 6-3. Prima, dopo e durante è tutto uno show delle italiane, compreso l’inevitabile abbraccio finale su quell’erba che negli altri tentativi gli era stata ostile. Ma stavolta è speciale. Stavolta è troppo importante, perché quando si prende appuntamento con la storia non si può mancare. E meno che mai arrivare in ritardo. Così “da Vinci” inventa colpi di cui detiene l’esclusiva. Il copy-right. Come la risposta in back di rovescio controllato seguita dalla volee vincente del minuto 19. Oppure la semi-veronica e successiva stop-volley angolata di dritto al minuto 35. Scrivo i minuti perché i momenti magici hanno bisogno di un riferimento temporale. E si arriva così al 6-1, 5-3 e 30-30 quando sempre lei chiude le ostilità con un ace e


una prima di servizio vincente. Finalmente anche l’Italia può stringere la mano del duca di Kent e ricevere un trofeo di Wimbledon. Anzi due. Sono le coppe che Thelma & Louise possono alzare al cielo, non prima di aver calorosamente salutato i rispettivi coach. Le Cichi hanno dimostrato che, anche nell’era dei muscoli, saper trattare con i guanti quelle sfere ricoperte di feltro giallo può essere il modo giusto per arrivare a toccare il cielo con un dito. Così diverse e così uguali, Roberta e Sara. Ha compiuto 31 anni lo scorso 18 febbraio, Roberta Vinci, e quando ne aveva quattordici il doppio lo giocava insieme alla corregionale Flavia Pennetta (di Brindisi…). Proprio a Brindisi, nel ’98, le due vinsero il loro primo

futures e appena tredici mesi dopo si imposero al Roland Garros. Versione juniores, naturalmente. A quel tempo, il circuito WTA non era ancora (quasi) monopolizzato dal rovescio bimane. Graf e Navratilova prima, Henin e Mauresmo dopo, sostennero la causa del backhand classico con risultati più che eccellenti e un’altra italiana di estremo valore qual è Francesca Schiavone portò il colpo a disputare due finali a Parigi, di cui una vinta. Eppure, a una domanda specifica che le feci qualche anno fa a Melbourne, Roberta Vinci mi disse che nel gioco moderno il suo back di rovescio dava assai meno fastidio alle avversarie di quanto le stesse non la asfissiassero con le loro bordate bimani. E lo confessò con un


abbozzo di tristezza, quasi come se stesse tradendo la sua propria natura. Sarà, pensai, ma, nell’estrema standardizzazione del tennis femminile, una voce fuori dal coro in grado di trovare quegli acuti che alle altre sono negati per natura vale da sola il prezzo del biglietto. A prescindere dai risultati, che pure ci sono. Le stigmate della doppista, e non solo in quanto pugliese, Roberta le ha sempre avute. Non a caso fece centro alla seconda apparizione nel main draw di un torneo del circuito principale; accadde a Doha, insieme alla francese Sandrine Testud, e fu il modo migliore per festeggiare l’ingresso nel mondo delle maggiorenni. Era il 18 febbraio 2001. Nello stesso anno, sempre con la futura signora Magnelli, Roberta arriverà nei quarti a Parigi, in semifinale a New York (a spese nientemeno che di Suarez-Ruano Pascual e Navratilova-Sanchez) e in finale a Zurigo, tanto da meritarsi la qualificazione per il Master a Monaco di Baviera.

Ora però non ridurrò a un elenco di dati e statistiche il tortuoso percorso della Vinci nel doppio, specialità che l’ha vista cambiare diverse partner ad inizio carriera. Si sappia solo che il connubio con Sara avviene durante il 2009 (ma solo a livello di Fed Cup) dopo che la nostra aveva fatto coppia con tante altre connazionali, senza peraltro raccogliere successi. La “benedizione” si ha in Tasmania, ad Hobart, appuntamento in cui Thelma & Louise raggiungono le semifinali sconfitte dalla taiwanese Chuang e dalla ceca Peschke. Le due non devono attendere molto per celebrare la prima vittoria; accade in aprile, a Marbella, in

Sara e Roberta battono in finale la coppia russokazaka composta da Kondratieva e Shvedova. La settimana successiva le azzurre concedono il bis a Barcellona ma, per il 2010, quello sarà anche l’ultimo titolo conquistato. Dopo un anno, il 2011, di transizione con alcuni titoli minori ma senza particolari acuti, la coppia italiana cambia marcia e agli Australian Open ’12 conquista la finale; Kuznetsova e Zvonareva si impongono in rimonta (5-7, 6-4, 6-3) ma ErraniVinci capiscono proprio a Melbourne di essere sulla buona strada.


Inevitabile che sia la terra battuta a decretare la vera svolta. Il volo interminabile delle Cichi, in quella magica primavera, parte da Acapulco e fa scalo in Spagna (Barcellona e Madrid) e in Italia (Roma) prima di atterrare sul complesso parigino dedicato proprio ad un aviatore per cogliere il primo major. Al Roland Garros sono due coppie russe a tentare di fermarle ma né Makarova-Vesnina nei quarti e né KirilenkoPetrova in finale vanno oltre la conquista di un set. È la prima volta che una coppia femminile italiana si impone in un torneo dello slam. Battute nei quarti a Wimbledon da HlavackovaHradecka, Sara e Roberta consumano la vendetta a freddo regolando le ceche nella finale

Open diventando così le numero uno del mondo. L’amicizia tra le due non è per nulla intaccata dalla sorte che le pone di fronte in singolare per un posto in semifinale; vince la Errani in due brutti set, giocati da entrambe con scarsa tranquillità e troppa tensione. Qualora ce ne fosse veramente bisogno, la consacrazione delle Cichi avviene a Melbourne, nel gennaio del 2013. Nei quarti di finale degli Australian Open, Errani-Vinci sconfiggono le sorelle Williams con il punteggio di 3-6, 7-6, 7-5 spalancandosi la porta per la conquista del terzo slam, ottenuto a spese delle australiane BartyDellacqua in finale. Purtroppo, il ko subìto nella finale di Parigi contro Hsieh-Peng impedirà alle nostre di alimentare un sogno dentro il sogno, vale a dire la conquista del Grand Slam. A ripensarci, il destino è veramente beffardo: proprio sul rosso, dove le Cichi hanno posto le fondamenta della loro fortezza, sono state tradite da una giornata storta. Nessuno però gioca attualmente il doppio meglio di Thelma & Louise e l’appuntamento con la leggenda potrebbe solo essere rimandato di un anno. Per ora accontentiamoci, si fa per dire, della Storia e dei “momenti Vinci”; la prima si è fatta a Wimbledon, i secondi sono ancora in produzione.


Genie sfida Masha a colpi di "cara" bellezza di Laura Saggio Eugenie Bouchard si è definitivamente imposta nella classifica WTA attuale numero 8- per il suo tennis esplosivo (a suon di sponsor)

Questione di business? Certo e non solo, ovviamente. La giovanissima ventenne Eugenie sembra non temere confronti e prosegue la sua scalata verso le vette delle classifiche WTA e Marketing. Già, perché l'allieva pare aver imparato bene la lezione dalla maestra Masha: diventare forti sul campo e bellissime (sinonimo di ricchissime) fuori. L'una -dote- senza l'altra non dura (Kournikova docet). Così a soli 19 anni la determinatissima Bouchard è entrata nella storia come la prima tennista in assoluto a essersi qualificata alla finale del torneo di Wimbledon. Messo in tasca questo primato, guarda, non troppo a distanza, quello

universale che detiene incontrastata quello di essere la tennista più pagata al mondo da almeno otto anni. Il potere si sa, ha molte facce e il lato commerciale è una delle più forti, o quanto meno universalmente riconosciuta. Per questo diventare testimonial dei principali prodotti di consumo, torna utile. Detto fatto: la biondina in erba sarà il volto di Coca Cola e Coca Cola Diet Canada per i prossimi tre anni. Una partnership d'eccezione, che si aggiunge ai già prestigiosi accordi con Nike, Babolat, Rogers Communications e USANA.


La Bouchard strizza dunque l'occhiolino alla biondona, che quest'anno registra (sul fronte sportivo) la vittoria a Wimbledon e (sul fronte guadagni) l'ennesima impennata commerciale. La Bouchard strizza dunque l'occhiolino alla biondona, che quest'anno registra (sul fronte sportivo) la vittoria a Wimbledon e (sul fronte guadagni) l'ennesima impennata commerciale. Per completezza d'informazione, Brand Sharapova, è già testimonial di Avon e Porsche, tra gli altri. Inoltre, ultimamente ha lanciato un business di dolciumi, “Sugarpova”, suscitando non poche polemiche: “Trovo abbastanza criticabile da parte degli sportivi il sostegno a prodotti alimentari poco sani come dolciumi e bevande gassate” - ha dichiarato al Financial Express Tom Sanders, professore presso Diabetes and Nutritional Sciences al King's College di Londra, - l'abitudine di promuovere il fumo attraverso le magliette dei campioni è

finito trent'anni. Ora è il caso di fare lo stesso con i prodotti poco salutari”. Vedremo se anche la piccola Eugenie sarà vittima (con la sua bevanda a base di acqua colorata e zucchero) dello stesso ferreo parere etico-nutrizionale, intanto incassa/no. Ora veniamo al tennis giocato, argomento che più ci compete. Sintetizzando in numeri, la Bouchard ha conquistato la top 10; vanta 1 solo titolo (vinto a Norimberga battendo in finale Karolina Pliskova); è la prima tennista canadese ad aver raggiunto la posizione più alta nella classifica WTA, la numero 7. Convincente per essere una 'esordiente'. E, anche se nei tornei di Montreal e Cincinnati non è andata oltre il secondo turno, ha tutti i


Il suo atteggiamento freddo in campo e fuori è la sua forza

riflettori puntati per gli US Open. Per quanto riguarda invece i precedenti tra le due tenniste, i risultati parlano chiaramente e a favore della sette anni più esperta Maria: tre vittorie su tre negli scontri diretti. La partita più recente ed entusiasmante è stata la semifinale al Roland Garros di quest'anno dove, per poco, l'allieva batteva la maestra. Insomma Genie ha tutte le carte -e gli assi- in regola per diventare una giocatrice di vertice e una star da copertina. Il suo atteggiamento freddo in campo e fuori è la sua forza, come ha dichiarato più volte lei stessa: “Questo distacco emotivo mi serve da protezione”. Le troppe e varie distrazioni (dentro e fuori dal campo) fanno calare la capacità attentiva, meglio mantenere alta la lucidità, perché, come spiega Genie: “ è difficile coltivare amicizie, sopratutto femminili, in questo ambito. Ci sono interessi economici in ballo, oltre che i nostri sogni”. Nuda e cruda.



Il lento declino di Ferrer di Marco Di Nardo

Forse non deve essere considerata una vera e propria sorpresa l'eliminazione al terzo turno degli US Open di David Ferrer. Lo spagnolo, dopo tante stagioni di altissimo livello, prima o poi avrebbe dovuto attraversarlo un periodo di flessione, e questo è arrivato nel 2014. A Flushing Meadows il giocatore di Javea ha superato il bosniaco Dzumur al primo turno, cedendo anche un set, poi ha beneficiato del walkover di Bernard Tomic, prima di essere dominato ai sedicesimi da Gilles Simon. Lo spagnolo ha poi dato forfait nella sfida di Davis contro il Brasile, e ha dichiarato che si sottoporrà ad alcuni controlli medici per verificare le sue condizioni fisiche, visto che in passato non si era mai sentito stanco in campo. Così, dopo dieci tornei del Grande Slam consecutivi in cui David aveva sempre ottenuto almeno i quarti di finale, tra Wimbledon e U.S. Open sono arrivate due sconfitte nei primissimi turni. Basterebbe questo per capire che il momento dell'iberico è uno dei più difficili

delle ultime stagioni. In realtà la stagione di Ferrer non è stata completamente negativa, anche se ci eravamo abituati a vederlo sempre andare molto lontano nei tornei più importanti. David a febbraio ha conquistato a Buenos Aires quello che fino a questo momento è il suo unico titolo stagionale, dopo aver raggiunto i quarti di finale all'Australian Open. La più grande impresa della sua annata è stata probabilmente la vittoria su Nadal ai quarti di finale del Masters 1000 di Monte-Carlo. Il maiorchino non perdeva prima della finale nel Principato addirittura dal 2003, e veniva da nove finali consecutive, con otto successi dal 2005 al 2012. Ferrer aveva poi perso in semifinale da Wawrinka, e si era arreso al penultimo atto anche al Masters 1000 di Madrid contro Nishikori. Al Roland Garros l'ultimo dei sopracitati dieci quarti di finale consecutivi a livello Slam, sconfitto in quattro set da Nadal dopo due set giocati alla pari. Poi il flop di Wimbledon, con la sconfitta al secondo turno subita addirittura dal numero 118 Atp Andrey Kuznetsov. Il torneo di Amburgo sembrava poterlo risollevare, anche se la finale persa


David a trentadue anni deve fare i conti con gli anni che passano, e il suo gioco fatto di tanta corsa e regolarità, non lo aiuta. contro Leonardo Mayer non poteva dargli grande fiducia in vista dei Masters 1000 dell'estate nordamericana. A Toronto David ha perso ai quarti contro Federer, mentre a Cincinnati, dopo aver annullato due match-point all'esordio a Kohlschreiber, si è arrampicato fino alla finale, prima di essere sconfitto ancora da Federer, risultato che gli ha permesso di salire al quinto posto nel ranking Atp, dopo essere sceso dalla terza piazza di inizio anno alla settima nel mese di giugno. Così a New York, complice l'assenza di Nadal, Ferrer era stato accreditato della quarta testa di serie, posizione del seeding che proietta teoricamente fino alle semifinali, ma purtroppo lo spagnolo ha confermato di non essere più il giocatore quasi infallibile contro chi gli si trova dietro in classifica, caratteristica che gli aveva permesso in passato di raggiungere traguardi incredibili, come la finale al Roland Garros e il terzo posto in classifica nel 2012. David a trentadue anni deve fare i conti con gli anni che passano, e il suo gioco fatto di tanta corsa e regolarità, non lo aiuta da questo punto di vista. Con una finale Slam, una finale alla Masters Cup, sette finali nei Masters 1000 (compreso un successo), e ventuno titoli in totale su quarantacinque finali disputate, Ferrer può comunque essere molto soddisfatto di quello che ha ottenuto. E se lo spagnolo ha sorpreso molte volte in passato, non è detto che non riuscirà a farlo ancora anche in futuro.


Tsonga torna tra i grandi di Marco di Nardo

Forse qualcuno si era dimenticato di Jo-Wilfried Tsonga. Il tennista franco-congolese, dopo un periodo difficile, sembra essere tornato finalmente a giocare il suo tennis esplosivo e propositivo, e ora può pensare a lottare per la conquista della qualificazione alle Atp World Tour Finals di Londra. Tutto è infatti ancora possibile. Al momento Jo è il numero 11 della Race-to-London, e una buona stagione asiatica e sul cemento indoor europeo potrebbe permettergli di tornare a giocare nel torneo dei grandi, come era già riuscito a fare nel 2008, 2011 e 2012. Il francese, dopo una stagione abbastanza regolare ma senza particolari acuti, sembrava essersi assestato tra la 15esima e la 20sima posizione del ranking Atp, ma al Masters 1000 di Toronto è tornato ai

riuscendo dagli ottavi alla finale a superare uno dopo l'altro il numero 1 Atp Novak Djokovic, Andy Murray (9), Grigor Dimitrov (8) e Roger Federer (3). Quattro successi di fila su altrettanti Top-10 che gli hanno permetto di tornare a sua volta tra i primi 10 del ranking Atp. Parlavamo di stagione regolare per Tsonga, ed infatti, escluso l'acuto del Canada, è stato proprio così. Per la prima volta nella sua carriera, Jo ha infatti raggiunto gli ottavi di finale in tutti i tornei dello Slam, pur venendo eliminato sempre a livello dei migliori 16. In Australia è stato sconfitto da Federer, a Parigi e Wimbledon da Djokovic, e a New York da Murray, proprio tre dei quattro giocatori sconfitti a Toronto dagli ottavi in avanti. Sintomo del fatto che, almeno sulla distanza dei due set su tre, il francese può giocarsela con tutti. Ora per il francese, che in questa stagione ha raggiunto anche la finale di Marsiglia (perdendola contro Gulbis), arriva quindi la parte più importante della sua stagione. Al Masters 1000 di Shanghai può vantare due quarti di finale (2010 e 2012) e una semifinale lo


L'obiettivo è difficile da raggiungere, ma non impossibile. mentre a Parigi-Bercy ha vinto il titolo nel 2008, conquistato la finale nel 2011, e può vantare anche due quarti di finale (2009 e 2012). Due tornei e una superficie (il cemento indoor) che esaltano il gioco del transalpino. In questo momento nella Race davanti a lui ci sono David Ferrer, Milos Raonic, Grigor Dimitrov, Tomas Berdych, Andy Murray e Kei Nishikori. Jo dovrà superare almeno tre di questi sei se vorrà centrare la qualificazione a Londra, e contemporaneamente difendersi dagli attacchi di Gulbis e Cilic. Nishikori, Berdych e forse Ferrer sembrano quelli più vulnerabili in questa parte della stagione, anche se lo spagnolo ha un bel vantaggio in termini di punti. Il francese ci proverà comunque fino alla fine.


Unione Vincente? di Alex Bisi

Era il 18 dicembre 2013 quando Novak Djokovic annunciava con stupore degli addetti ai lavori, l’inizio della collaborazione con Boris Becker. A detta di molti sembrava solo una mossa pubblicitaria, con Lendl che ai tempi allenava Murray e le voci sempre più insistenti di Edberg pronto a sedersi all’angolo di King Roger,senza tralasciare tra i top player del momento Wawrinka allenato da Norman. Becker ha una personalità abbastanza ingombrante e tutti sono dubbiosi sull’effettivo apporto che il tedesco possa dare al gioco di Nole, non propriamente un giocatore dotato delle caratteristiche che hanno reso famoso e vincente Becker. Djokovic ,ai giornalisti risponde che non vuole diventare un giocatore da serve & volley,ma che Boris gli sarà molto utile nella fase di gestione mentale di momenti clou del match, che proprio nella stagione 2013 lo hanno visto cedere il passo a Nadal in quasi tutti gli scontri diretti per

un calo di istinto killer, che invece è uno dei maggiori punti di forza proprio del maiorchino. L’inizio della stagione non è dei migliori, Djokovic sembra aver ancora dei black out mentali, e agli Australian Open esce per mano di Wawrinka con qualche scelta discutibile a rete nei momenti decisivi del match. Gli scettici storcono il naso quando i primi titoli per Nole arrivano con il solo Vajda nell’angolo del serbo,con Becker fermo per un’operazione, alimentando l’opinione comune che l’apporto del nuovo coach al fenomeno serbo sia poca cosa, soprattutto dopo le dichiarazioni di Djokovic sul fatto che aver avuto Vajda nell’angolo in questi due tornei gli ha dato tranquillità. Djokovic smentisce ogni possibile frattura o dissapore nel team, e a Roma arriva la prima affermazione con tutto il team al completo. L’obbiettivo Roland Garros sfuma per mano di Nadal(ovviamente), e a Wimbledon Nole arriva con grande pressione sulle spalle visto l’andamento degli ultimi Slam. Djokovic non mostra una forma eccellente durante il torneo,ma arriva in finale con Federer. La finale sappiamo come è andata, con Djoker


Nel momento più difficile, Nole ha recuperato calma e nervi saldi portando a casa una vittoria che sembrava già svizzera,proprio quello per cui è stato assunto Becker che spreca ma sull’orlo del precipizio si riprende e porta a casa il suo secondo Wimbledon. Nonostante Djokovic abbia subito detto che non sarebbe diventato un giocatore da rete, guardando i suoi match si nota come le sortite in quella zona di campo siano molto più frequenti. Sicuramente sta cercando nuove tattiche per non disperdere troppe energie durante i match, i risultati son ancora altalenanti ma comunque la mano di Becker qui c’è. Il gioco a rete purtroppo non si può imparare, lo si può migliorare, ma è fatto in gran parte di istinto all’attacco e di timing, e naturalmente di dote di tocco. La scelta di tempo all’attacco è una delle caratteristiche in cui difetta Djoker, spesso parte sempre un attimo dopo rendendo l’attacco poco efficace e rischiando, di esser infilato dal suo avversario.


Rafael Nadal, ciò che non uccide fortifica di Adriano S.

Ciò che non uccide fortifica. Un detto che calza a pennello a Rafael Nadal. Il frastuono creato dall'ennesimo forfait del maiorchino ha nuovamente preoccupato, inquietato, fatto interrogare, fatto malpensare, stordito. Cercando di usare meno pancia e più cervello, con pazienza, ripercorrendo le cadute più rovinose di Rafa, possiamo accorgerci di come lo spagnolo sia sempre tornato in piedi ancora più forte. I guai iniziano già nel 2004. Lo scafoide del piede sinistro fa crac e lo costringe a saltare il suo primo Roland Garros. Una bella botta per un astro nascente, già fermato l'anno prima da un problema alla spalla. Lui torna in agosto e vince il suo primo Atp a Sopot. Ma non è tutto: perde e piuttosto nettamente da Roddick agli Us Open, poche settimane dopo. A novembre lo batte e porta la Coppa Davis alla Spagna. Qualche mese più in là riuscirà finalmente a partecipare al French Open, vincendolo. Lo scafoide del piede sinistro torna a dargli

problemi a fine 2005: questa volta Rafa scopre di avere una malformazione congenita dell'osso tarsiale. Salta la stagione indoor e si parla addirittura di ritiro. Sarà la prima, non l'unica occasione in cui accadrà. La sua risposta è sul campo. Torna nel 2006 dopo gli Australian Open e batte Federer a Dubai, prima del filotto Montecarlo-Barcellona-Roma-Roland Garros. Arriva persino in finale a Wimbledon, contro ogni pronostico. E' solo un pallettaro, dicevano. Anzi dicevamo. Lui nel 2008 Wimbledon lo vince e diventa numero 1 strabiliando anche su cemento. Nell'autunno 2008 si accende la spia 'riserva' sui suoi tendini rotulei. Salterà sia la Masters Cup di Shanghai che la finale di Coppa Davis contro l'Argentina. Nessun problema, la Spagna vince anche senza di lui, che torna agli Australian Open 2009 e trionfa contro un Federer in lacrime. Le ginocchia però non ne possono più. Nello stesso anno perde per la prima (e chissà, ultima?) volta al Roland Garros da Soderling. La batosta si fa sentire: salta Wimbledon e soffre per quasi un anno. Sembra scarico, a tratti cagionevole. Si parla nuovamente di ritiro. Nel 2010 però lui vince 3 Slam di fila e torna numero 1.


Ogni paura sembra fugata, il numero 1 al sicuro. Invece agli Australian Open 2014 la schiena.... Il peggio sembra passato, e invece...2011 L'infortunio più grave della sua carriera, lo stop più lungo: la sindrome di Hoffa, infiammazione del cuscinetto adiposo tra tendine e rotula lo tiene fuori dal circuito dalla sconfitta al secondo turno a Wimbledon contro Rosol sino a Febbraio 2013. Ovviamente si parla ancora una volta di ritiro. A rivederlo al rientro a Vina del Mar, il timore è in effetti lecito. Soffre nei primi tornei, poi vince il Roland Garros. Per alcuni un ultimo acuto. In estate strabilia in Nord America, giocando il miglior tennis della sua carriera. Ogni paura sembra fugata, il numero 1 al sicuro. Invece agli Australian Open 2014 la schiena, che in effetti mancava alla sua collezione di sfortune, lo mette fuori causa in finale. Bella botta.

L'ennesima. A Parigi si presenta come secondo favorito, per la prima volta. Ma a vincere è ancora lui, non Djokovic. Poi l'ultima parte del corpo ancora esule da acciacchi decide di dargli noia. Il polso sinistro gli costa 4000 punti: salta l'intera stagione americana su cemento. Chissà, potrebbe tornare di moda il discorso ritiro. Più facilmente si presenterà alle Atp Finals di Londra da favorito.



Il fuoco della competizione arde ancora per Martina Hingis di David Cox

20 anni dopo aveva annunciato per la prima volta il suo esordio nel circuito femminile come prodigio 14enne, il fuoco della competizione rimane vivo per Marina Hingis. La cinque volte campionessa di Grandi Slam si è già ritirata due volte dalle competizioni, ma il richiamo della competizione e l’insistente sospetto che abbia ancora quello che serve per stare tra i migliori continuano a farla tornare indietro. Avendo passato lunghi periodi a rimpiazzare l’emozione della competizione andando a cavallo, sciando e viaggiando, la Hingis ha deciso di accettare l’idea che la sua vita sarà sempre intrecciata con il tennis in un modo o

Si è cimentata come allenatrice, godendosi la breve ma di successo con Anastasia Pavlyuchenkova nel 2013 prima di unire le forze con Sabine Lisicki per un po’ quest’anno. Comunque anzichè condurre all’inizio della sua prossima carriera, entrambe le avventure sono solo servite per convincere la Hingis che non è ancora del tutto pronta per appendere al chiodo la racchetta delle competizioni. “Mi sono allenata con Anastasia e abbiamo giocato un set di allenamento contro (Elena) Vesnina e (Ekaterina) Makarova,” ha detto. “Dopotutto ho pensato che potrei avere ancora qualche partita in me e che dovrei provarci.”


La Hings ha fatto il suo ritorno durante la stagione sul sintetico in Nord-America insieme all’amica di vecchia data Daniela Hatuchova l’anno scorso. Comunque la loro collaborazione non si è rivelata di successo, ottenendo solo tre vittorie in cinque tornei. Aveva considerato il ritiro definitivo ma poi è arrivata la Lisicki e un nuovo ruolo come allenatrice/partner di doppio. Il duo ha battuto tre delle coppie migliori del mondo per vincere il titolo di Miami in marzo e la gioia della Hingis per i momenti importanti è tornata. “Non continuerei se perdessi sempre al secondo o terzo turno,” mi ha detto. “Vincere un titolo ti da la fiducia che tu possa ancora farcela e questo

è l’obiettivo giusto? Andare ai tornei e vincerli. È stato bello da parte di Sabine che lo facesse accadere me ancora una volta. Non sono qui solo per partecipare, non sono il tipo.” A 33 anni la Hingis è ancora tre mesi più giovane della recente finalista della Rogers Cup Venus Williams e solo un anno più grande di Serena. E paragonata alla 43enne Kimiko DateKrumm è una giovincella ma lei insiste che non deve pianificare il suo rientro nella carriera del singolare. “Non si può paragonare Kimiko Date alle persone normali,” ha detto. “Penso che lei sia una vera eccezione. Correva maratone quando non giocava a tennis. Si deve coprire solo metà campo. Servono un atteggiamento e una dedizione completamente diversa per giocare i singolari quando si è stati fuori negli ultimi due, tre mesi.” La Hingis si è separata dalla Lisicki appena prima di Wimbledon ma ha rivelato che è stato deciso in base a desideri completamente diversi. La Lisicki voleva tagliare le sue apparizioni in doppio per concentrarsi sui singolari mentre la Hingis per il momento avrebbe preferito giocare tornei di doppio occasionalmente invece di cimentarsi a tempo pieno nella carriera da allenatrice. “Non è stata una decisione improvvisa quella presa con Sabine”, ha detto.”Lei deve


concentrarsi sui suoi singolari e fare i doppi era un po’ troppo per lei visto che voleva concentrarsi veramente su una cosa. E i doppi devono nuovamente gradualmente diventare il mio focus principale. Forse potremmo ancora lavorare o giocare insieme in futuro, ma fare entrambi stava diventando troppo.” La Hingis conosce la Lisicki da quando avevano dieci anni, quando è arrivata al centro di allenamento di sua madre ed entrambe hanno continuato a darle consigli quando cercava di raggiungere la seconda finale di un Grande Slam. Per adesso la Hingis ha ambizioni più grandi per lei visto che è a caccia di un titolo importante con la sua vecchia amica Flavia Pennetta. Hanno raggiunto la finale di Eastburne in giugno ma la Hingis dice che dev’essere più intelligente quando pianifica queste giornate perché il recupero non è così facile. “Giocare quattro partite di fila è un po’ dura,” sorride. “Una volta che sei tornata alla routine è un po’ più facile ma bisogno essere intelligenti

La Hingis si sta anche abituando a vedere una delle sue ex avversarie in tour, Amelie Mauresmo – ora coach di Andy Murray. La Hingis battè la Mauresmo alla finale degli Australian Open del 1999 e non sono sempre state grandi amiche ma lei dice di avere una grande ammirazione per la francese che ha accettato un lavoro di così grande profilo. “Serve molto coraggio,” dice. “Specialmente proprio prima di Wimbledon, il torneo che ha vinto l’anno scorso. Mette in mostra carattere. Cioè cosa vuoi insegnare a Andy Murray? Può andare sia bene che male, entrambe le cose. È decisamente un livello diverso. Lei ha aiutato Llodra prima è comunque stata nel giro del

maschile prima ma è un livello diverso dal gioco femminile.” Se la Hingis diventasse un’allenatrice tra qualche anno, dice che sicuramente non allenerebbe nell’ATP Tour ma pensa che la Mauresmo abbia le qualità necessarie per avere successo. “Un cosa che fa la differenza è che lei è molto intelligente nella pianificazione del gioco e tutto il resto. Riguardo quello che può insegnare a Andy Murray, penso che a volte si tratti di dare motivazione e coraggio e solo così hanno qualcuno che crede in loro. Penso che a questo livello possa fare la differenza.”


VIGORO: lo sport che univa tennis e cricket di Laura Saggio Il Vigoro vide la sua nascita all'inizio del ventesimo secolo. A inventarlo fu John George Grant, che considerava il tennis“uno sport effeminato”.

Scordiamoci per un momento oggi, il tennis di oggi, la sua grandissima diffusione a livello globale, il suo fascino, i suoi campioni e tutto il business che gli ruota intorno. Proviamo invece ad immaginare un tennis diverso mescolato allo sport più in voga (insieme al calcio) cent'anni fa, il cricket. Il risultato? Un ibrido chiamato Vigoro. Nessuno di noi può capire per quale assurda motivazione il tennis in quegli anni veniva definito come uno sport, diciamo così, poco vigoroso e attraente. Eppure nell'immaginario collettivo dell'epoca il nostro tennis veniva visto come un evento di svago sociale, piuttosto che pura attività sportiva. Forse il leale scontro a distanza tra due avversari, ben definito da regole e spazi, sembrava poco coinvolgente? Forse l'eleganza dei gesti tecnici di bianco vestiti, pareva poco virile? Forse, chissà. Forte di queste 'sensazioni' collettive, agli inizi del '900, George Grant provò ad inventare uno sport, il vigoro appunto, che combinasse il

tennis. I giornali dell'epoca accolsero questa invenzione come positiva, convinti che il tentativo di Grant avesse l'intento di rendere il tennis più mascolino. E, probabilmente, farlo diventare uno sport di squadra avrebbe contribuito in tal senso. Ma il vigoro era uno sport molto più simile al cricket che al tennis. Le squadre erano composte da otto a undici giocatori che si misuravano usando le stesse regole del cricket. Anche i ruoli dei giocatori erano identici (battitore, lanciatore, fielder), l'unica differenza era che per colpire la palla utilizzavano una racchetta da tennis. Si serviva praticamente come nel tennis, mentre il fielder intercettava (rispondeva) alzando la pallina in un lob per poi fermarla con le corde della racchetta quando ricadeva. Infine, non c'erano restrizioni nel numero di over. Ad ogni modo, il gioco ebbe il suo momento di gloria. Gli venne attribuito l'appellativo: “vigoroso e rinvigorente”, e fu particolarmente apprezzato per non avere le restrizioni tipiche del campo da tennis. Addirittura la novità del vigoro allora piacque anche alle federazioni del tennis e del cricket, che forse la videro come sponsor indiretto dei due già praticati sport.


Così, nel 1902, venne organizzato un match di vigoro tra due squadre, una capitanata da una tennista, E.H. Miles, e l’altra dal battitore di cricket Bobby Abel. I tennisti dimostrarono fin dalle prime battute di cavarsela molto meglio con l'attrezzo a loro più familiare e vinsero piuttosto facilmente la sfida. Si scoprì così che con i wicket più ampi e l'utilizzo del nuovo attrezzo, che permetteva di servire a una velocità maggiore, era quasi impossibile rispondere. Per questi motivi il vigoro non decollò, nonostante i tentativi di Grant di aggiustarlo e spostarlo verso dinamiche tecnico-tattiche più vicine al cricket, sostituendo anche la racchetta

tennis. Il Times, nel 1909, chiosò così: “Ha certamente delle caratteristiche attraenti e può anche essere interessante da guardare, ma ci si aspetterebbe che fossero i giocatori a trarne il maggiore divertimento”. Attualmente questa disciplina è praticata (con discreto seguito) solamente in Australia, con alcune modifiche alle regole e alle attrezzature. Il merito di questa sopravvivenza, un po' forzata, è comunque da attribuire alla tenacia di Grant, che durante un viaggio in Australia si mise in contatto con Ettie Dodge (cui Grant lasciò il marchio dopo la sua morte nel 1927), presidente del New South Wales Women’s Vigoro Association dal 1932 al 1966 e fondatrice del All Australian Vigoro Association. L'idea di Grant fu per il suo piccolo rivoluzionaria, o almeno egli provò che divenisse tale. E magari, in un futuro indefinito, potrà anche rinascere sotto altre vesti. Ma, certo è, che sia il cricket (fino a qualche decennio fa) che sopratutto il tennis (divenuto poi uno degli sport più praticato a tutti i livelli), non avrebbero mai interrotto la loro strada verso la propria affermazione per fondersi, avventurosamente, in uno sport -forse- con poca personalità e identità.


La battaglia dei prize money di Alessandro Varassi I big vogliono più alti quelli dei Masters 1000, ma intanto a livello Futures sono pochi quelli che arrivano in parità a fine mese. ITF e ATP cosa aspettano ad intervenire?

Lo ha annunciato Eric Butorac, a margine della Rogers Cup di Toronto. “I giocatori vogliono avere di più” ha affermato il vice presidente del consiglio dei giocatori. Si badi, la frase non riguarda, come si potrebbe pensare, tutti i tennisti, ma solo quelli impegnati nei Masters 1000: i ricavi di questi tornei stanno infatti crescendo, e il precedente accordo (aumento del 9% dei prize money) ora non va più bene ai top player, se paragonato alla crescita media del fatturato (circa 7% annuo) dei Masters. Il punto centrale, sostenuto dai giocatori, è che questi eventi beneficiano della popolarità del tennis

maschile, ed in particolar modo dei Fab 4: avere Federer, Nadal, Djokovic e Murray rende il torneo sicuramente più interessante, e quindi i tennisti vorrebbero essere ricompensati adeguatamente, chiedendo il raddoppio dei prize money nel giro di quattro anni, contro un’offerta decisamente più bassa, che porterà a dei negoziati inevitabili. Una situazione paradossale, se si pensa invece alla situazione dei tornei minori, Futures in particolare. Matteo Trevisan, ex numero 1 juniores, che ora viaggia tra la 300esima e 400esima posizione, ha confessato che la


recente vittoria al torneo ITF di Pontedera gli ha fruttato un premio lordo di 840 euro. Ed è stato, a suo dire, uno dei migliori tornei, vivendo lui a pochi passi dalla sede del torneo e potendo così risparmiare sui costi di alloggio. Infatti, se a questo assegno lordo si levano i costi che un tennista deve sostenere, rimane davvero poco, se non nulla; e la situazione peggiora per chi non riesce a vincere il torneo, ma magari si ferma al primo turno: il lordo si aggira sui 100 dollari in un 10mila $, 150 in un 15mila. Va ancora peggio a chi non riesce a qualificarsi, o a chi gioca solo nella disciplina del doppio, che si vede destinato di norma il 25% del prize money totale del torneo.

Davvero troppa la differenza, se si pensa che il vincitore di Toronto, oltre ai 1.000 punti, intascherà qualcosa come circa 600mila $, e con il primo turno si arriva comunque a 11mila. Una differenza abissale, anche nel doppio (una sconfitta al primo step vale più di 6mila $), su cui il presidente ATP Kermode ha affermato di voler lavorare, per ridurre la disuguaglianza. Un intervento che, sebbene sembri doveroso, si configura come davvero difficile da attuare, data la resistenza dei top player. La carriera di un tennista non è certamente lunga, ma si assiste ad una disparità di trattamento davvero enorme, che può incidere anche sul futuro post agonismo dei giocatori: da un lato i top player, non solo i Fab Four ma anche coloro i quali hanno giocato per anni Slam e Masters 1000, che possono “vivere di rendita”, specie se sapientemente hanno amministrato le fortune guadagnate durante l’attività. Dall’altro, i tennisti di basso profilo, che dovranno comunque trovare il modo di vivere anche dopo aver appeso la racchetta al chiodo. Non tutti riescono a reinventarsi allenatori, e anche di maestri di tennis ce ne sono parecchi, non sempre così lautamente pagati. Come intervenire quindi? La risposta non è così facile, anche perché i tornei Futures, come gli Slam, sono organizzati dall’ITF, non dall’ATP. Servirebbe quindi una sorta di tavola rotonda,


per cooperare e salvaguardare i diritti dei tennisti minori. Qualche migliaio di dollari in meno nei prize money vinti da Federer o Nadal difficilmente cambierebbe loro la vita, anche futura, e potrebbe aiutare gli altri ad emergere, potendo programmare in maniera migliore la propria attivitĂ agonistica, disputando tornei che ad oggi sembrano preclusi (si pensi per esempio ai tornei americani o australiani, dove parecchi non vanno, o se lo fanno con sacrifici enormi, si ricordi la traversata di Giallo Naso per gli Australian Open 2013, seguita dalle telecamere di SuperTennis TV), e che potrebbero aiutare sensibilmente la dura salita nel ranking. Le parole di Botorac suonano quindi quanto

stonate in un contesto del genere, e la speranza di tutti i tennisti che battagliano settimanalmente sui campi polverosi di Futures e Challenger è che si possa finalmente intervenire per consentire a chi sceglie di essere professionista di farlo con maggiore serenità .


Arriva il “Trofeo Città di Anzio”, l’open di tennis firmato Nettunia

Dopo il successo del primo “KK Tennis Show”, esibizione di tennis alla quale ha partecipato la tennista Karin Knapp, n. 74 nel ranking WTA e n. 4 in Italia, tenutasi lo scorso 25 luglio presso la Polisportiva Anzio Tennis, l’Associazione Giovanile Nettunia è pronta a presentare una nuova manifestazione sportiva. Avvicinare i giovani allo sport, trasmettere importanti ideali di solidarietà e correttezza, favorire la realtà locale promuovendone le bellezze naturali e incentivandone il turismo sportivo. Il “Trofeo Città di Anzio”, torneo open di tennis che si terrà dal 17 al 31 ottobre 2014 presso la Polisportiva Anzio Tennis, si prefigge di essere tutto questo. Promosso dall’Associazione Giovanile Nettunia, la Comunità Giovanile di Anzio e Nettuno, il torneo avrà un montepremi complessivo di euro 2.000,00 e sarà organizzato in

collaborazione con la Polisportiva Dilettantistica Comunale Anzio – Sezione Tennis e la Federazione Italiana Tennis e con il Patrocinio del Comitato Regionale Lazio CONI e della Città di Anzio. L’evento, di rilevanza regionale e nazionale, favorirà la diffusione del gioco del tennis, particolarmente tra i giovani, recuperando quel ruolo educativo della pratica sportiva e motoria, attraverso il coinvolgimento di molte realtà territoriali comprese le scuole di Anzio, di Nettuno e dei comuni limitrofi. Anche i più piccoli potranno quindi seguire da vicino le competizioni. Durante il torneo lo sport si unirà all’enogastronomia e alla promozione dei prodotti tipici del territorio. Al termine delle qualificazioni si terrà un “Player Party” durante il quale gli atleti potranno degustare i prodotti tipici della Città di Anzio e del territorio laziale. La partecipazione al torneo è rivolta ad atleti professionisti e non, e mira a coinvolgere appassionati di ogni sesso e categoria (NC, 4a, 3a, 2a e 1a) provenienti da tutta Italia, compresi atleti diversamente abili, che verranno inseriti in tabellone insieme agli altri atleti.


“Siamo pronti – spiegano gli organizzatori – ad accogliere atleti provenienti da tutta Italia. Madrina della manifestazione sarà la campionessa Karin Knapp, che ha recentemente ottenuto il suo primo successo internazionale conquistando in Uzbekistan il Tashkent Open. Sarà inoltre un’occasione unica per la città di Anzio, che potrà intensificare la sua visibilità e promuovere i propri prodotti turistici. Gli atleti – continuano gli organizzatori – potranno approfittare del torneo per scoprire le bellezze della ridente località tirrenica, a due passi da Roma, ricca di storia e notoriamente rinomata per la buona cucina e il mare pulito, che grazie al clima mite 365 giorni l’anno la rende una meta turistica ideale per trascorrere le proprie

vacanze o un weekend in relax”. La Città di Anzio ha ottenuto quest’anno la decima Bandiera Blu, la quinta consecutiva, grazie un’eccellente qualità delle acque di balneazione. Tra i criteri esaminati ai fini dell’assegnazione c’è anche la depurazione delle acque reflue, la gestione dei rifiuti, la regolamentazione del traffico veicolare, la sicurezza ed i servizi in spiaggia. La manifestazione si terrà presso le strutture sportive della Polisportiva Anzio Tennis che, grazie all’oculata gestione dei dirigenti che si sono succeduti negli anni, può contare oggi su n. 8 campi da tennis, n. 6 in terra rossa di cui n. 2 coperti e n. 2 in play-it, la cui copertura sta per essere ultimata.


Per informazioni su dove mangiare, dove dormire e trovare le strutture convenzionate è possibile consultare il nuovo portale turistico della Città di Anzio www.visitanzio.it. Gli atleti potranno inoltre usufruire della palestra e della Club House, 300mq con bartavola calda, TV con SKY e un’ampia terrazza che si affaccia sui campi da tennis e sul mare. Verrà inoltre messa a disposizione degli atleti una navetta che trasporterà gli stessi dal circolo di tennis alle strutture alberghiere convenzionate. Per informazioni e iscrizioni è possibile contattare la segreteria al numero di telefono n. 06 9874020, cellulare n. 334 9023424 oppure scrivere all’indirizzo email tennisanzio@libero.it, il regolamento del torneo è stato pubblicato sul Portale Unico Competizioni della Federazione Italiana Tennis su www.federtennis.it.



Il tennis, l'alchimia, l'armonia di Sara Di Paolo

Treno alle 7,20; aereo con scalo alle 9,50 e campo di allenamento prenotato per le 18,00 (ora locale)... Borsoni pesanti da portare in spalla e iPod sempre necessariamente carico e aggiornato sulle ultime canzoni. Ecco, più o meno è questa una delle "giornate tipo" di molti tennisti. Non tutti, ma di una buona parte, sì. È una realtà che mette a dura prova. Non solo a livello fisico. Non solo riguardo alle capacità... Un buon braccio? Una buona tecnica? Chi l'ha detto che possono bastare? La forza che serve Dietro c'è molto altro. C'è la forza da trovare, da richiamare a sé per superare i "momenti no". Quella per resistere ai lunghi periodi lontani da

casa, dagli affetti; e non ultima, quella che serve a fronteggiare il distacco forzato dal “comune”. Dal divertimento, dagli amici, dagli studi. La tua famiglia diventa il mondo. La idealizzi nel tuo team; negli operatori del circuito e negli altri giocatori. Ti rifai alla condivisione degli hotel; degli spogliatoi o delle transportation, per tirare brevi sospiri di sollievo. Di quelli che ti fanno sentire meno "solo"; un po' più compreso. E così sopravvivi... Tra risultati e vittorie sugli infortuni, tra fans e contratti; sopravvivi... Per di più grazie ai tuoi colleghi. Ai tuoi "nemici", (spesso) non sempre tali. Ma questo naturalmente, non è un pensiero comune. Dalla parte opposta, c'è anche chi non la vede allo stesso modo... Come ha appunto dichiarato Genie Buchard: «Non sono sicura che il tennis, sia la situazione adatta per avere dei "migliori amici". Il tennis è rivalità. È importante ricordarsi che ci si affronta nei match. Non siamo qui per fare una rimpatriata; questo è davvero un ambiente molto competitivo. Io di "migliori amiche" in un torneo, non ne ho. Tutto qui».


Formula affiatamento Pensieri dettati dall’età? O forse dalle maggiori difficoltà, dovute a un po’ di “sana” competitività femminile? L’alchimia eppure esiste. È materiale, riscontrabile, redditizia… Ha aspetti collegati sia al gioco, alla sua impostazione, sia agli elementi psico/fisici. In chimica parlano di formule; sul campo da tennis si parla di affiatamento. D’altra parte, quando non si è soli, diventa tutto più semplice. Un dolore diviso è dimezzato; una felicità condivisa è raddoppiata. “Questione di feeling”? Sembrerebbe...

Condividere la vita Nestor e Zimonjic, Llodra e Mahut, Soares e Peya, Roger Vasselin e Benneteau, ma anche Vesnina e Makarova, Babos e Mladenovic, le “diversamente cinesi” Hsieh (di Taipei) e Peng (della Repubblica), e ovviamente le due azzurre, Sara Errani e Roberta Vinci. Queste coppie a quanto pare, potrebbero spiegarcelo bene… Ma come ci si arriva? Fino a che punto vale la pena, rimediare alle carenze dell’altro? «Io e Mike dividiamo la vita da quando siamo bambini; oltre alle sfide alla Play Station, il tennis è sempre stato il centro del nostro divertimento. Il nostro segreto, sta nel fatto di sentirci entrambi i migliori; ma allo stesso tempo, siamo capaci di spalleggiarci e spronarci a vicenda. Grazie al nostro legame speciale, sappiamo quando è il momento di tirar fuori le unghie anche per l’altro. Insieme stiamo bene; in campo siamo una cosa sola». Non è solo merito dei “legami di sangue”, come nel caso dei gemelli Bryan, tuttavia… Certo, sono dei supplementi che possono aiutare (Venus e Serena Williams, ne sono a esempio un’ulteriore conferma); ma la verità, è che non sono sufficienti. Proprio no. Perché? Semplice. Condividere l’infanzia, i parenti,


l’educazione; unisce, rende simili. Però? Non basta. Serve empatia, stima, attrazione… Occorre amicizia. Voglia di sacrificarsi e rinunciare a qualche soddisfazione personale, per il compagnoo per la compagna; per le aspirazioni comuni. La realtà delle Cichi’s Un po’ come nella realtà delle “Cichi’s”… Sara Errani e Roberta Vinci. «La passione per il tennis ci permette di divertirci sfruttando quello che facciamo ogni giorno. I nostri teams e le nostre famiglie poi, sono sempre lì pronti per sostenerci. Senza di loro sarebbe impossibile tutto questo. Abbiamo una voglia di competizione, che non ci abbandona mai. Grazie all’esperienza che abbiamo fatto in Fed Cup, siamo riuscite a costruire la nostra “isola felice». Qual è il loro vero segreto? Un affetto solidale, vero, scevro da ogni antagonismo (che uno sport individuale come il tennis, potrebbe suscitare), di sicuro.

Ma c’è dell’altro… Non l’aggiunta di dollari sul montepremi personale. O meglio, anche, ma non solo. Mettere avanti l’armonia A meritare un’attenta considerazione, c’è prima di tutto una scelta (che in molti arrivati tra i “top 10” fanno); ma che in questo frangente, sembra quasi non voler esser presa in considerazione… Quella della rinuncia ai tabelloni di doppio; per cercare di ottimizzare al massimo, le proprie prestazioni in singolare. Come mai la romagnola non la fa? Per armonia. Per esaltazione e fiducia nelle qualità dell’altra…

Per intesa. Per sintonia. La stessa che ti salva dai chilometri di distanza dai “punti fermi”. La stessa che andrebbe impartita ai bambini, già a partire dalle prime lezioni, accanto ai “back and drive”. Perché per quanto ci si possa trovar di fronte, a una disciplina in cui regna un’anarchia individualistica; il bisogno di aggregazione dettato dalla società, i suoi impulsi prima o poi li lancerà sempre. E non per debolezza. Ma per natura…


La Peak-performance di Laura Saggio

Analizzata (nei numeri precedenti) la capacità attentiva, la sua rifocalizzazione e l'importanza dell'immaginazione, vediamo ora la preparazione mentale in funzione del match. Le abilità mentali giocano un ruolo determinante in qualsiasi sport, alcune sono uguali in tutti gli sport (la gestione dell'ansia, la tenuta della concentrazione) altre sono specificatamente collegate alle caratteristiche intrinseche di ogni attività sportiva. Nel tennis (che è uno sport individuale, che non prevede possibilità di pareggio, che non ha limiti di tempo ed il risultato è garantito solo a fine partita ), la preparazione mentale è forse l'aspetto più discriminante, specie durante la gara. Si dice sempre, e a tutti i livelli:“nel tennis la testa fa la differenza”, ed è vero. A parità di livello, vince chi è più forte mentalmente, chi si è allenato ad essere più costante, resistente, lucido.

Il Mental Traning, ossia la preparazione mentale dell'atleta, consiste nell'apprendimento di diverse tecniche psicologiche che puntano al controllo e alla modifica di alcuni comportamenti mentali ed esperienze. Lo scopo di questa tecnica è quello di lavorare sullo sviluppo psicologico dell'atleta al fine di migliorare la sua prestazione e il suo rendimento. Dunque, il Mental Traning è un allenamento sistemico delle attitudini mentali; e come tutti gli allenamenti può essere appreso e produce un effetto di crescita. Nel caso specifico, a beneficiare di un'accurata preparazione psicologica, sono gli atteggiamenti comportamentali e le strategie tecnico-tattiche. L'affaticamento, lo stress, la tensione, così come decidere l'angolo migliore per attaccare, sono fattori che interessano sia la preparazione tecnico-motoria che mentale. Uno degli scopi del Mental Traning è il raggiungimento della Peak-Performance: una particolare condizione psico-fisica, risultato di una compensazione tra le funzioni dei due emisferi celebrali. 1) 1) emisfero sinistro, dominante, analizzatore, sede dei centri matematici e linguistici. Presiede


alla contrazione dei muscoli, all'attività motoria, all'apprendimento del gesto tecnico e delle strategie tattiche. 2) 2) emisfero destro, integratore, interessato nell'elaborazione delle immagini, dei processi creativi, presiede al controllo dei movimenti automatizzati. Quanto più un atleta riesce, attraverso esercizi mentali, a tenere sotto controllo le funzioni dell'emisfero sinistro, lasciando libero campo a quelle dell'emisfero destro, tanto più ottiene la Peak-Performance: lo 'stato di grazia' che consente una prestazione 'facile', spontanea, quasi senza sforzo. Le principali caratteristiche della Peak Performance sono: - superamento dello standard abituale - chiara focalizzazione dell'attenzione sull'attività - alto livello di performance spontaneità e forte senso del sé

Lo sportivo, nello stato di Peak-Performance, si sente fluido tecnicamente e sciolto a livello muscolare, libero, sicuro, leggero, con un timing superiore, concentrato, focalizzato sugli aspetti a lui favorevoli, capace di gestire ansie e compiere esatte scelte strategiche. Visto da fuori, il tennista sembra quasi assente, come se nulla lo coinvolgesse o disturbasse, tanto è concentrato positivamente e pienamente sulle sue sensazioni pisco-fisiche e tecnico-tattiche. Ancora una volta abbiamo visto che la mente è il centro-motore di questo sport. Se si apprendono strategie cognitive efficaci, il giocatore avrà un vantaggio notevole sull'avversario che stenta a mettere a fuoco l'allenamento psicologico.

Controllare la propria mente è il primo 15 di ogni game.



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