Non più solo Djokovic e Murray di Marco Di Nardo
Alla fine, anche in questa edizione dell'Australian Open, è stato uno dei Fab-4 a vincere. Ma qualcosa si sta muovendo, il dominio dei migliori quattro giocatori dell'ultimo decennio (Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e Andy Murray) non è più così ingombrante. Tra il Roland Garros 2011 e l'Australian Open 2012, in 3 dei 4 Slam che si disputarono, le semifinali erano composte dai Fab-4, con l'unica eccezione di Wimbledon 2011, in cui Federer fu sconfitto ai quarti di finale da JoWilfried Tsonga, mentre gli altri 3 (Nadal, Djokovic e Murray) erano ancora una volta qualificati al penultimo atto. Era un periodo in cui non c'era spazio per alcun giocatore che non fosse uno di quei quattro. Qualche cambiamento si era iniziato a vedere nel 2014, quando Stan Wawrinka vinse il suo primo Slam all'Australian Open, e Marin Cilic trionfò a New York, battendo Kei Nishikori in finale. Sembrava potesse essere l'inizio di un ciclo vincente per un nuovo gruppo di giocatori, capaci finalmente di battere quei protagonisti che negli anni precedenti sembravano essere imbattibili. Invece le ultime due stagioni hanno dimostrato che quel gruppo non era ancora pronto per compiere il sorpasso: Djokovic ha infatti dominato l'annata 2015, ed insieme a Murray ha dato vita ad un duello spettacolare nel 2016, che si è chiuso con l'ultima partita della stagione individuale, la finale delle ATP World Tour Finals, in cui il serbo e lo scozzese si sono
giocati in un solo incontro il trono mondiale stagionale. Alla fine ha vinto Andy, ma anche avesse vinto Novak, poco sarebbe cambiato. I migliori erano sempre loro, con l'unica "intrusione" di Wawrinka, capace di aggiudicarsi uno Slam all'anno (dopo l'Australian Open 2014, Roland Garros 2015 e U.S. Open 2016). Qualcosa però era già cambiato negli ultimi anni, perché Federer e Nadal non sono più stati in grado di imporsi negli Slam, e quelli che in passato erano i Fab-4, sembravano essere diventati i Big-2, ossia Djokovic e Murray. E anche i due giocatori appena citati, nel finale della scorsa stagione hanno iniziato a mettere in mostra qualche debolezza: il serbo con l'eliminazione al terzo turno di Wimbledon, e poi al primo turno del torneo Olimpico; lo scozzese con la sconfitta ai quarti di finale agli
U.S. Open, seppur arrivata in un periodo pieno di vittorie. E' in questo contesto che si è arrivati all'Australian Open 2017, lo Slam che poteva rappresentare il riscatto per Djokovic, dopo un difficile finale di 2016, e la conferma per Murray, finalmente numero 1, ma comunque alla ricerca di un buon risultato a Melbourne, sia per vincere uno Slam in cui aveva perso tutte le 5 finali disputate, sia per tornare al successo dopo la deludente prestazione di New York, ultimo Slam dell'anno precedente. Invece ha confermato sia i dubbi del serbo, che l'incapacità dello scozzese di essere costante nei grandi tornei. Djokovic ha perso al secondo turno in 5 set
contro Denis Istomin, Murray è stato eliminato da Mischa Zverev agli ottavi di finale. Così, invece di vedere i primi due giocatori al mondo nuovamente in lotta per il titolo, sono stati gli altri due, quelli che ormai quasi non erano più considerati tra i favoriti, a ritrovarsi clamorosamente in finale: Roger Federer e Rafael Nadal. Ma entrambi, per raggiungere l'ultimo atto, hanno rischiato seriamente l'eliminazione in più di una circostanza: lo svizzero ha avuto bisogno di 5 set sia per distruggere la resistenza di Nishikori agli ottavi, che per avere ragione di Wawrinka in semifinale, prima di vincere ancora al set decisivo la finale contro l'eterno rivale; Rafa, dall'altra parte, si è invece trovato indietro per 2 set a 1 contro Alexander Zverev al terzo turno, prima di vincere per 6-2 al quinto, e ha avuto bisogno di 5 partite anche per battere Grigor Dimitrov in semifinale. Proprio Zverev e Dimitrov potrebbero essere alcuni dei giocatori che nei prossimi anni avranno l'occasione di giocarsi da protagonisti i principali tornei della stagione tennistica, e già a Melbourne hanno dimostrato di poter competere contro i migliori. Qualcosa si sta quindi muovendo, e i prossimi grandi tornei ci diranno se quello che si pensava stesse succedendo già nel 2014, sta ora accadendo realmente: Federer e Nadal non hanno più la stessa continuità di un tempo, e se anche Djokovic e Murray iniziassero a perdere più frequentemente, si potrebbe davvero assistere ad una stagione spettacolare, con tanti vincitori diversi, e una corsa al numero 1 della classifica aperta a più giocatori.
Ci sono diversi punti di partenza cui aggrapparsi per raccontare una storia. Si può cominciare dal principio, dalla cronaca recente o da un antefatto che in qualche modo anticipa l’evento. Quanto avvenuto sulla Rod Laver Arena nella finale degli Australian Open non è, tuttavia, catalogabile: un qualcosa di magico ha travolto il mondo del tennis, di inedito nonostante si trattasse del capitolo 35 di una rivalità tanto longeva quanto entusiasmante, di unico, di impensabile.
GRAZIE !!!
di Federico Mariani
Roger Federer ha spezzato le catene che 23 volte in carriera l’hanno soffocato e ha disegnato una vittoria leggendaria, difficilmente spiegabile nel rifugio della ragione. Di fronte a imprese del genere risulta facile scadere nella banalità, evocare immagini che richiamano all’eterno, cercare un paragone con la storia perché col presente è troppo facile fare i conti. Nell’ideale mondo fiabesco del circuito Atp i ruoli sono da sempre ben definiti: l’eroe Roger bello, buono, sinuoso, sostanzialmente perfetto e l’antagonista Rafa dannato, sporco, crudele. La Nike e la suddivisione popolare di stampo pallonaro hanno contribuito ad alimentare questo filone narrativo. Poi però si scopre che Nadal tanto “contadino” non è, anzi, e Federer non è per nulla infallibile né tantomeno un’anima candida. Le credenze popolari sono spesso intriganti quanto fallaci e se da una parte il maiorchino ha completato negli anni un arsenale lussuoso, dietro al basilese si cela una fame di vittorie pari se non superiore a quella del diavolo di Manacor.
Nei loro scontri, tuttavia, queste sfumature tendevano a diradarsi facendo emergere i contorni netti e puliti, ben distanziati come bramava la folla. Tali sfaccettature sono venute meno nell’ultima sfida, al punto da confondersi, e forse è anche per questo che a Melbourne sono stati capaci di scrivere uno dei capitoli più intensi. L’idea dell’ultimo valzer nel palcoscenico australe ha preso corpo gradualmente, quasi sussurrata dopo la clamorosa uscita di scena di Djokovic e Murray, riscaldata dai milioni di tifosi delle due barricate e idealmente spinta fino alla realizzazione. Sono caduti, uno via l’altro, Nishikori e Wawrinka, Raonic e Dimitrov, eliminati con una personalità e una voglia francamente disarmanti da parte di entrambi. Così vincenti e così famelici assieme, uno spettacolo nello spettacolo. Un incastro così perfetto che se fosse stato concepito da un regista sarebbe risultato banale. Roger e Rafa di nuovo insieme in finale Major dopo quasi sei anni, dopo otto dall’incredibile partita di Melbourne. Qualcuno, tra i meno romantici, ha storto il naso alla vigilia della trentacinquesima del Fedal temendo la famosa copia di mille riassunti, un kolossal ma col finale già scritto. Ed è invece su questa tela che Roger ha dipinto il suo capolavoro, probabilmente il più pregevole della carriera, sicuramente il più inatteso. Il campione di Basilea non solo ha vinto, ma lo ha fatto al quinto set rimontando un break di ritardo per giunta quando il serbatoio pareva vuoto e quando Rafa era ormai instradato verso l’ennesimo trionfo logorante (per gli altri). Per ritrovare un Federer vincente sul terreno dei cinque set occorre un flashback lungo un decennio, mentre si tratta di
una prima assoluta se escludiamo dal computo quelle finali vinte con l’aiuto dell’erba di Wimbledon. In quei cinque game consecutivi che hanno portato in cima all’Everest Roger c’è tutto e
C’è il fedele amico-servizio - un colpo forse mai elogiato a dovere - e c’è soprattutto un rovescio stupendo che esce non solo indenne ma perfino vincente dalla diagonale più mortifera del Gioco. Ci sono le lacrime, ma quelle s’erano già viste, e c’è una volontà mai così tenace perché Federer aveva già battuto Rafa, ma mai trascinando la disputa nella bagarre. Sarebbe giusto rimarcare anche la superficie velocizzata rispetto agli anni passati e il giorno in meno di riposo per Nadal, ma questi sono dettagli che seppur importanti verranno cancellati dal tempo facendo spazio al mito. Durante la premiazione Roger ha detto che avrebbe accettato anche un pareggio per condividere il successo con l’amico Rafa. Parole che sono sincere solo perché sappiamo chi è a pronunciarle, così come fu fraterno e per nulla retorico lo splendido abbraccio riservato da Nadal a un Federer in lacrime otto anni fa sullo stesso plateau. Per molti anni si è considerata l’amicizia reciproca l’unico neo di una rivalità mozzafiato, oggi ci si accorge con gli occhi inumiditi che invece non si sarebbe potuto chiedere di meglio.
di più: c’è la rivendicazione di libertà, c’è il piede fisso sull’acceleratore senza curarsi dei possibili sbandamenti, c’è tutto il talento di un giocatore tecnicamente impossibile, c’è la ribellione all’avversario che si è sempre fatto sabbia in un ingranaggio all’apparenza perfetto.
Rafael Nadal: l'Australia per ripartire di Luigi Gatto
Alzi la mano chi solo un mese fa credeva che Rafael Nadal potesse raggiungere la finale degli Australian Open. Forte di una dura preparazione invernale Rafa ha superato, finale esclusa, ogni test, tornando ad esprimere livelli altissimi di tenuta mentale e fisica . Importantissimo per lui aver vinto due partite al quinto set, cosa che non gli capitava addirittura dal Roland Garros 2014. Tanti i segnali positivi emersi dallo Slam
downunder, a cominciare dalla condizione fisica, che rappresentava un grande punto interrogativo soprattutto dopo una seconda parte di 2016 condizionata dai problemi al polso. Se in salute, Rafa non è secondo a nessuno, tantomeno al meglio dei cinque set. In entrambi gli incontri contro Zverev e Dimitrov, il maiorchino è tornato nelle vesti di cannibale che aveva ricoperto da dieci anni a questa parte, sfiancando negli scambi lunghi gli avversari, senza accusare crolli vertiginosi che lo avevano visto arrendersi a Pouille e Verdasco l'anno
scorso al quinto set. I progressi sono evidenti anche a livello tattico grazie all'aiuto di Carlos Moya, capace di dare a Rafa la convinzione di poter giocare aggressivo soprattutto in risposta, avanzando in campo come visto in modo particolare contro Raonic. La stanchezza accumulata contro Dimitrov ha però sicuramente influito sul suo rendimento in finale. A partire dalla posizione in campo che è stata molto diversa, con Federer per lunghi tratti dominante con lo schema servizio-dritto. Un altro aspetto del gioco di Nadal che non ha portato i
risultati sperati in finale è stato il servizio, un colpo con cui aveva fatto molto bene nelle due settimane del torneo raggiungendo velocità superiori talvolta ai 200km/h, ma che contro Federer si è rivelato limitante. E così ha dovuto lottare su ogni turno di servizio nel quinto set. Anche nel 2012 a Melbourne perse cinque degli ultimi sei game contro Djokovic: un andamento similare a quello della finale 2017, giocata come 5 anni fa in rincorsa per gran parte del match, salvo poi cedere appena ottenuto il comando. Quando è andato sotto 2-1 nel computo dei set, Rafa non è mai riuscito a vincere al quinto: un dato che indica come lo sforzo fisico intacchi il suo "killer instinct", tornato efficacissimo fino alla semifinale thriller degli ultimi Australian Open. Ma vincere aiuta a vincere, e non può una finale persa cancellare quanto di buono fatto in questo mese di gennaio. Il prosieguo della stagione dipenderà a questo punto solo dalla sua integrità fisica, perché la consapevolezza di poter giocare alla pari contro i più forti c'è, la voglia di continuare su questa strada
pure. Un aspetto fisico che verrà messo a dura prova nelle prossime settimane: ragionevolmente salterà il weekend di Coppa Davis, poi giocherà Rotterdam, Acapulco, Indian Wells e Miami. Quattro tornei che ci daranno diverse indicazioni prima della stagione su terra rossa, quella da lui preferita e dove tornerà l'uomo da battere. "Posso fare grandi cose sul rosso", ha ammesso lo stesso Rafa. Certo, conquistare il secondo titolo a Melbourne sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ma la stagione è ancora lunga, e
l'Australia rappresenta solo l'inizio per chi, alla fine dello scorso anno, era considerato dai più un giocatore finito. E invece è ancora lì, tra i migliori, col rammarico sì di aver perso l'occasione di avvicinarsi in maniera importante a Federer nella speciale classifica degli Slam vinti, ma con la possibilità concreta di dire ancora la sua ai massimi livelli.
Grigor Dimitrov: vincere di più con meno... di Alex Bisi
La stagione 2016 è stata a dir poco complicata per Grigor Dimitrov, risultati scadenti, brutte figure e un livello di fiducia personale, su sua stessa ammissione, ai minimi storici. Nell’ultima parte di stagione il bulgaro ha ritrovato gioco e risultati, riuscendo a
chiudere l’anno con uno sguardo più fiducioso al 2017. Il calcolo del punteggio tennistico ha un paradosso dentro di sé, un giocatore può vincere meno punti del suo avversario ed essere il vincitore del match. Se compariamo le stagioni 2015 e 2016 del 25enne bulgaro, noteremo che ha migliorato buona parte delle sue statistiche eccetto quella dei punti vinti.
Nello specifico possiamo vedere come son distribuiti questi punti. PUNTI VINTI NEI GAME DI SERVIZIO 2015=66.3% 2016=65.2% PUNTI VINTI NEI GAME DI RITORNO 2015=37.7% 2016=37.1% Non tutti i punti si sa hanno lo stesso peso, possiamo notare in questa ulteriore analisi statistica di Atp, le prime di servizio di Dimitrov, in situazione di parità e di
vantaggio avversario sul suo turno di servizio. Il bulgaro è migliorato nella condizione peggiore, ovvero quella in cui deve salvare una palla break, probabilmente segno di una ritrovata fiducia nei suoi mezzi nei momenti critici di un match.
Benvenuto Grisha ! di Federico Mariani
Se la notizia del ritorno a livelli eccelsi di Federer e Nadal, coronata dalla finale onirica degli Australian Open, è la più sorprendente che lo Slam downunder porta in dote, il volo di Grigor Dimitrov in questo squarcio di 2017 è la più lieta in ottica futura. Il bulgaro ha cominciato meravigliosamente la stagione infilando dieci vittorie consecutive – con tanto di titolo a Brisbane – prima di chinare il capo di fronte a Rafa Nadal nella semifinale di Melbourne, non prima però di aver regalato alla Rod Laver Arena un match antologico che sarebbe anche potuto girare in favore del venticinquenne di Haskovo. È evidentemente un Dimitrov ritrovato, scintillante, convincente, brillante e soprattutto vincente. Grisha pare aver finalmente abbinato la sostanza a quella forma da sempre sontuosa, ma spesso fine a se stessa: è un giocatore rinnovato, nello spirito prima che nel gioco, e il bagaglio australiano potrebbe aver fornito il serbatoio di quella fiducia necessaria a fargli compiere quel passo che quasi tutti auspicavano già da diverse stagioni. Riposti nel dimenticatoio i fastidiosi quanto blasfemi paragoni con Federer, la carriera di Dimitrov pareva naufragare in due stagioni, le ultime, troppo grigie per essere vere, animate da un’avvilente
mediocrità. Pareva l’ennesima – forse una delle più menzognere – promessa non mantenuta. Dimitrov non aveva dato seguito alla puntata tra i top-ten raggiunta con la splendida semifinale di Wimbledon del 2014 fino al tonfo – nel tennis e nei nervi – registrato durante la finale di Istanbul, persa contro il modesto Schwartzman e terminata per squalifica con le racchette distrutte come i nervi di un aspirante campione che pareva arrivato al capolinea. Al termine della scorsa edizione di Wimbledon il ranking del bulgaro era precipitato in quarantesima posizione, un imbarazzo dell’estetica se soppesato all’erudizione del suo talento. Se è vero che toccato il fondo si può solo risalire, Dimitrov ha scelto Dani Vallverdu per ritrovare se stesso e, conseguenzialmente, scalare la classifica verso orizzonti più consoni quantomeno. Già nella seconda parte dell’anno sono arrivati segnali confortanti come lo swing nordamericano chiuso con un quarto di finale e una semi, prima di raccogliere tragicamente cinque game contro Murray a New York e perdere – sempre contro il campione di Dunblane – la finale a Pechino. Con l’anno nuovo poi pare essere scoccata la scintilla: a Brisbane è tornato a vincere un titolo, fenomeno che mancava dal curriculum di Dimitrov dal preistorico giugno 2014, battendo tre top-ten in fila. E poi Melbourne
con quella cavalcata interrotta sulle due palle break che avrebbero spedito Dimitrov con un
proprio la chiarezza la base del Vallverdupensiero: ”servizio, dritto, rapidità.
solo turno di battuta a separarlo dalla più illustre vittoria della carriera e, soprattutto,
Questi sono i punti di forza, il resto andrà
dalla prima finale Slam.
affinato gradualmente”. Dimitrov ha bisogno di certezze prima di poter dare
Federer ci ha messo un po’ a mettere
risposte.
insieme i pezzi di un arsenale senza precedenti per qualità e quantità. È stato
Ora che ha dato un colpo, Dimitrov non deve
ripetuto fino alla noia che l’ampiezza del ventaglio di soluzioni replicabili dall’elvetico
trasformare la fiammata australiana in un isolato exploit, ma la prestazione di
ha finito per confonderlo in gioventù ed è
Melbourne deve essere il punto di partenza
verso qualcosa di grande. Grisha, come del resto Nishikori, Raonic e Tomic, appartiene a
l’ingiustificabile ritardo, quanto visto a Melbourne suona come un “benvenuto” tra i
quella definita come “lost generation”, ovverosia quei giocatori colpevolmente in
grandi da salutare con l’entusiasmo che si riserva alla speranza. Perché Dimitrov può
ritardo per l’inflazionato ricambio generazionale, in realtà mai ultimato. In
rivelarsi – tecnicamente e mediaticamente – salvifico per il baraccone Atp, un felino
attesa di un’altra generation – la next – il
che dopo una vita da predatore tra
presente è appannaggio di questi giocatori e tra loro certamente Dimitrov non è il meno
qualche anno sarà costretto a leccarsi le ferite e rimpiangere un’età dell’oro che
dotato, anzi è vero l’esatto contrario.
mai tornerà.
Accantonato l’amaro in bocca per
Taylor Fritz: una speranza americana per il 2017 di Alex Bisi Ad Agosto 2015 il17enne statunitense Taylor Fritz era numero 685 al mondo, ed era appena stato eliminato da Luca Vanni al primo turno di qualificazioni degli UsOpen. Subito dopo, 11 vittorie consecutive in 4 mesi;Ottobre 2015 vittoria nel Challenger di Sacramento e Fairfield, finalista a Novembre nel Challenger di Champaign e a Gennaio 2106 vittoria in Australia nel challenger di Onkaparinga.
Con quei numeri ha migliorato la sua classifica di 530 posizioni salendo al numero 155 accendendo i riflettori dell’attenzione dei media americani e internazionali su di sé, finendo l’anno al numero 76 con un career high al 53 nel mese di agosto. In America, attendono da anni un giocatore di livello, e naturalmente vista l’età le aspettative sul Californiano sono elevate. Il servizio è la sua arma migliore, tanto da esser il numero 52 nelle statistiche Atp dedicate ai migliori di specialità, con un 30imo posto nella classifica dei punti ottenuti con la prima di servizio con un bel 73,2%; inoltre serve 8,4 ace
di media a partita. Quando a Wimbledon è stato sconfitto in 4 set da Stan Wawrinka, il suo servizio più veloce ha viaggiato a 246 km/h, una vera bomba. Come molti giovani giocatori deve cercare, per continuare a crescere, di migliorare la fase di risposta. Mettendolo a confronto con altri giocatori della #NextGen come Kyle Edmund (n ° 45) e Alex Zverev (n° 24), si può notare che le sue percentuali, in differenti situazioni di punteggio sul servizio avversario, son inferiori rispetto agli altri giocatori. Statistica migliore invece è quella relativa ai punti break salvati dove, con il 64%, è al 21imo
posto grazie al suo servizio che lo toglie dai guai nei momenti di difficoltà, con una percentuale di prime maggiori dei primi due della classe Andy Murray e Novak Djokovic, 77% contro 74%. Non è cosi sicura invece la seconda dove la percentuale scende sotto il 50% , 47 per la precisione, mentre i due big si attestano sul 56% per Murray e 57% per Djokovic. A 19 anni c’è ancora molto da fare ma il californiano sembra aver gettato le basi per un roseo futuro.
Ecco perchè Monfils ha avuto il suo anno migliore di Alex Bisi
Il francese Gael Monfils ha chiuso l’anno al settimo posto del ranking ATP, con un career-high alla posizione numero 6 nel mese di novembre, concludendo di fatto la sua miglior stagione, guadagnando 17 posizioni da inizio anno. Con un ruolino di 44 vittorie a fronte di 17 sconfitte, la stagione di Monfils dimostra, statisticamente, un netto miglioramento nei game di risposta. Se mettiamo a confronto le
stagioni 2015 e 2016 notiamo che i game di risposta giocati durante l’anno son circa gli stessi, 654 nel 2015 e 660 nel 2016, ma la percentuale di break guadagnati è cresciuta di 5 punti percentuali.
Break Point convertiti sulla prima di servizio 2015=71 2016=87
Nel 2015 145/359 40,6% , nel 2016 189/416 45,4%.
Monfils nella stagione conclusa, è stato il terzo miglior convertitore di brak point del circuito, ed addirittura il leader su terra con il 53.8%.
Da un’analisi di Atp emerge il salto di qualità effettuato da LaMonf nelle varie situazioni di punteggio. Altro dato interessante della stagione del francese è sui punti convertiti sulla prima e sulla seconda di servizio in fase di game di risposta.
Break Point convertiti sulla seconda di servizio 2015=74 2016=102
Vedremo se nell’anno a venire riuscirà a confermare queste medie veramente notevoli.
La tattica contro la smorzata di Federico Coppini
Oggi trattiamo una tematica tattica piuttosto ricorrente, nel tennis specialmente a livello di club ed in special modo sulla terra rossa: come gestire una smorzata avversaria. Perchè dico in special modo a livello di club? Perchè è soprattutto a questi livelli che si vedono decine di smorzate, specie di rovescio, e le ragioni sono spesso intuibili e si possono riassumere in:
1 - Spesso a questo livello la preparazione atletica è carente e quindi molte smorzate risultano irraggiungibili o creano molte difficoltà per chi le deve raggiungere 2 - Si fanno molte smorzate perchè si cerca di chiudere il punto con essa, non avendo a disposizione un rovescio alternativo che possa far male all’avversario 3 - La velocità ridotta della palla nello scambio
permette l’utilizzo della smorzata come opzione quasi ad ogni punto, mentre quando la palla viaggia maggiormente non è più così facile dosare il colpo Detto questo vediamo cosa è razionalmente più conveniente fare quando un avversario vi gioca molto spesso una smorzata efficace. Le 3 opzioni comuni per controbattere una smorzata 1 - Fintare la smorzata e giocare profondo nel campo 2 - Fare una controsmorzata diritta 3 - Fare un controsmorzata incrociata Analizziamo ora le tre possibilità
Fintare la smorzata e giocare profondo
E’ una buona tattica, a patto di usarla quando abbiamo raggiunto la smorzata avversaria prima che sia troppo bassa, altrimenti va da sé che non potremo giocare troppo lungo e l’avversario ci passerà agevolmente
Giocare una palla corta dritta
E’ la soluzione che di solito sconsiglio vivamente ai miei allievi (ma anche a me stesso, visto il braccio di “ghisa” che mi ritrovo :-) ). Giocare un colpo corto dritto avanti a sé, mentre si è in corsa verso la rete sottintende di avere una buona dose di sensibilità, perchè occorre giocare un tocco molto lieve Se non riesco a dosare bene la forza, infatti il successivo rimbalzo porterà la palla ben dentro al campo e quindi facilmente giocabile dall’avversario che il più delle volte ci finirà inesorabilmente
incrociato è sempre molto maggiore di quello diritto: questo vuole dire che se anche giocherete un pò troppo “pesante” la vostra smorzata questa avrà molto più margine per essere efficace lo stesso, cosa che non accade sulla traiettoria diritta. 2 - Se anche non giocherete troppo corto nel campo avversario il rimbalzo tenderà sempre ad avere una traiettoria uscire e quindi porterà fuori posizione il vostro avversario
Giocare la controsmorzata incrociata E’ la tattica nel tennis razionalmente più efficace e che consiglio di usare 8 volte su 10
3 - Giocando incrociato è più facile utilizzare il taglio sotto in backspin e quindi la vostra palla rimbalzerà più bassa: se siete molto vicini a rete ,infatti, per giocare dritto sarete costretti più spesso a toccare in maniera piatta la palla
quando dovrete fronteggiare una smorzata avversaria.
per alzarla e quindi il rimbalzo sarà più alto e più facilmente raggiungibile
Tre motivi per cui dovete sempre controsmorzare incrociato (specie se non siete dotati di tocco eccelso)
Per questo in generale cercate sempre di tenere bene a mente qual’è la soluzione più razionale in termini di efficacia e lasciate il colpo più rischioso solo a pochi momenti di estrosità, forse sarete meno spettacolari, ma porterete a casa sicuramente più punti.
1 - Avrete meno problemi nel gestire il vostro tocco in quanto, a parità di profondità nel campo, la distanza che percorre il vostro colpo
Ma chi è stato? Chi l’ha detto per prima? Chi l’ha inventato? di Marco Mencaglia
Vicino ormai al mezzo secolo, dopo circa 15 anni di carriera tennistica e 20 di insegnamento sarei ben felice di sapere chi è stato? Voi vi chiederete: “ma chi sta cercando il Maestro Mencaglia”? Sarà il caso che mi spieghi meglio ovviamente. Nella seconda metà degli anni 70 cominciava il mio tennis. “fai il finale davanti all’occhio sx per il dritto” e “davanti a quello dx per il rovescio” guai a sbagliarti, il maestro lo prendeva come un affronto anche se la tua palla andava a 50 cm dalla riga o nell’angolo; poi negli anni 80 arrivarono le rotazioni e i campi d’impugnatura, dal ‘90 si cominciò a tirare molto forte anche grazie al cambio dei materiali. Nel secolo nuovo tante cose si sono evolute, sono cambiati gli appaggi sul dritto, i finali sono molteplici e tanto altro come è giusto che sia nel tennis come nella vita!!! Una delle cose che proprio non è cambiata mai e questo mi fa impazzire è un concetto che ancora oggi va di moda. Sia chiaro che per me non era giusto all’epoca e non lo ho è neanche oggi!! Volete proprio sapere qual è la frase incriminata? Mi rivolgo a tutti coloro che hanno ancora a mente il proprio inizio da principiante bambini o adulti che siate fa niente; purtroppo quello che sto per dirvi colpirà anche molti che già
giocano benino!!
Oggetto: gioco a rete “la posizione giusta per attendere la voleè è: braccio teso in avanti + lunghezza della racchetta..devi toccare la rete”…alzi il braccio chi ha sentito questa frase e vi accorgerete che tutti saranno con una leva alzata, sbaglio? Tutti voi avrete detto dentro di voi: “è vero lo hanno detto pure a me”!!! Ora io mi chiedo come sia possibile predicare, insegnare, trasmettere una cosa del genere? Ma il pallonetto chi lo prende? Vi siete mai chiesti perché in allenamento le voleè funzionano benissimo ed in partita un disastro? Come facciamo ad arrivare così vicino alla rete
dopo l’attacco? Cosa ci sto a fare così vicino alla rete?
sente da anni senza meditarci neanche un attimo..perché non ha voglia!
L’unica risposta sarebbe rivolgendosi all’avversario” ei tu al di là del campo, io mi attacco alla rete così tu puoi scavalcarmi, ma poi se tu sei più Pollo di me puoi giocare teso così io chiudo”!!!
Io raramente sento parlare di bloccarsi nella discesa a rete prima che l’avversario colpisca, di spiegare bene la differenza tra colpo in corsa e colpo in dinamica.
Comunque sia in attacco o già posizionati a rete a quella distanza non ci si può stare mai almeno che tu non sia uno dei fratelli Bryan alti 1.90 con elevazione sopra il metro e con una visione di gioco di un altro pianeta!! Questa purtroppo è la cultura di molti insegnanti, radici lontane difficilmente sradicabili!! Chi non studia e non si aggiorna ripete ciò che
Se attacco corto la palla mi tornerà subito e allora avrò tempo di avvicinarmi molto alla rete? Se attaccherò molto profondo avrò sicuramente più tempo ma secondo voi l’avversario in recupero quale colpo tirerà? E allora quando riusciremo ad aspettare la palla vicino la rete? Ci servirà? La voleè andrà colpita il più possibile vicino la rete ma solo se la velocità della palla ci permetterà di muoverci in avanti…e sempre dopo il colpo dell’avversario!! Molti dei miei allievi mi aggredivano decretando che la voleè lontano dalla rete fosse difficile; è vero ed è per questo che va imparata perché altre soluzioni non esistono!! Anche io a pallone vorrei calciare sempre da 2 mt dalla porta per avere più facilità nel segnare ma l’avversario me lo consente? Se qualcuno di voi ha una soluzione scrivetemela e ve ne sarò grato..!!!! Se poi saprete indicarmi l’inventore di questa furbata…ve ne sarò riconoscente per tutta la vita!!! Intanto come sempre…”provare per credere”
La meccanica e la dinamica: “la catena delle sensazioni” di Federico Coppini
Comunicare con la palla vuol dire soprattutto interiorizzare alcune norme “implicite” riguardo determinati elementi facenti parte della situazione di gioco- quali ad esempio l’orientamento spazio-temporale nel campo, la percezione delle traiettorie, delle velocità e delle rotazioni- con conseguenti effetti sulla ricerca di essa e sulla meccanica esecutiva del colpo. Il tutto però inteso come insieme armonioso e dinamico di movimenti sinergici, coordinati, combinati tra loro. Il “troppo” pensare alla tecnica esecutiva rende il movimento meccanico ed il giocatore quasi simile ad un robot, che sa cosa deve fare ma non distingue le situazioni, nel tennis imprevedibili e subitanee e che in quanto tali implicano adattamenti peculiari e tempestivi in itinere. Così come nella comunicazione con gli altri è necessario differenziare alcuni parametri, tra cui ad esempio i piani linguistici, in base all’interlocutore con cui si ha a che fare e al contesto in cui avviene lo scambio interpersonale, allo stesso modo considerando la palla come essere dotato di vita (vita che noi stessi gli conferiamo finché la teniamo in gioco facendola viaggiare da una parte all’altra del campo) e quindi di potere comunicativo, gli adattamenti ai fini della riuscita di un preciso piano d’azione (l’esecuzione corretta del colpo) risultano fondamentali ed indicano una sorta di
collaborazione con essa in vista dell’esito finale (del singolo colpo, di un punto, del match intero). Il contatto “vero” con la palla implica una specie di scioltezza controllata, che potrebbe rientrare nell’ordine di una “velocità trattenuta”: la palla resta a contatto con le corde per il lasso di tempo che occorre affinché la restituzione e l’invio di essa nel modo auspicato e nello spazio di campo avversario mirato siano ottimali, senza ostacolare la velocità dell’esecuzione del colpo. Tale capacità, chiamiamola di “trattenere”, scaturisce principalmente da una evoluta coscienza interna, propriocettiva, data anche da un lavoro e da un impegno costanti nel tempo tesi ad affinarla. Ogni volta che si colpisce si cede una parte di se stessi alla palla e ciò si ripercuote sulla risposta dell’avversario; è come se mandassimo
di catena cinetica - ormai frequentemente riscontrabile nella pratica- come collegamento sequenziale di tutte le spinte (dei segmenti corporei) che si snodano dal terreno fino a giungere alla palla per generare potenza secondo una corretta biomeccanica, ci si rende conto di cosa significhi approcciare “dall’interno” il nostro sport: provare e riprovare sensazioni, staccate o connesse tra loro, di diversa o simile intensità, che possano diventare man mano un insieme di riferimento utile per orientarsi non solo nell’apprendimento motorio dei gesti specifici (grazie soprattutto ai feedback di ritorno dal sistema muscolotendineo e dagli organi di senso), ma anche nelle attitudini mentali e nella gestione della sfera emotiva in uno sport ad alto tasso di imprevedibilità come il tennis.
un messaggio “attivo” (di azione appunto) che ritorna sotto forma di un altro nuovo messaggio, e tale scambio interattivo continua finché uno dei due giocatori non decide di interrompere la comunicazione (con la palla!). Il ritorno comunicativo da parte della palla si ottiene nel momento in cui essa cade come e dove era stato previsto, attestando la capacità del giocatore-emittente di averle trasmesso i giusti input o dati riguardo il percorso che doveva seguire.
Se siamo in pace e in armonia con noi stessi e con il nostro corpo, lo siamo anche con ciò che ci circonda e riusciamo a trasferire con coscienza una parte di noi nell’oggetto della nostra azione e nella situazione reale e specifica in cui vogliamo e decidiamo di operare. Già a partire dalla considerazione del concetto
Secondo la “piramide dei bisogni” di Maslowda cui dipende la motivazione o spinta ad agire di quasi tutti gli esseri umani- subito dopo quelli di ordine fisiologico (fame, sonno, ecc.) ci sarebbero tra gli altri quello di sicurezza e a seguire (a salire, per ordine di importanza) quello di autostima (fiducia in se stessi e nelle proprie capacità), direttamente antecedente e presupposto per l’autorealizzazione. Pertanto reiterare o cercare di riprodurre nel tempo determinati movimenti per “rivivere” precise sensazioni in grado di generare piacere e apportare soddisfazione potrebbe essere un metodo piuttosto valido per allontanare stati d’ansia, facendo confluire la propria attenzione e le proprie energie verso obiettivi o fini costruttivi, che nel tempo possano inoltre attutire il rischio e la conseguente paura dell’errore.
Sensazioni positive producono atteggiamenti positivi.
La motivazion e e l’autostima nello sport
Dott.ssa Marina Gerin Birsa La motivazione è un "motore interno" che si mette in azione quando il soggetto vuole raggiungere degli obiettivi e determina dei comportamenti che tendono a modificare l’ambiente. Le motivazioni e gli interessi cambiano con l’età e non tenerne conto sarebbe un
grosso errore. Durante l'infanzia quello che più ci interessa al di sopra di ogni cosa è il divertimento, che ci spinge a muoverci, a giocare, a correre e a godere della nostra corsa: il bambino non futurizza, è completamente calato nel presente, nel "qui ed ora" e non riesce ancora ad immaginare che il suo impegno nello sport ma anche nella vita gli potrebbe regalare delle opportunità. A lui questo per il momento non gli interessa, è attirato dalla sua evoluzione, dal socializzare con gli altri e giocare in gruppo, dal trarre
piacere nel semplice gesto motorio: a volte a questa età i genitori sono molto più motivati del bambino nel praticare una determinata disciplina sportiva, lo iscrivono a un corso di sci piuttosto che di nuoto o si presentano con lui nella più vicina associazione calcistica ascoltando purtroppo solo ciò che suscita il proprio interesse e trascurando le naturali inclinazioni fisiche e psicologiche del bambino. Il bambino imparerà i fondamentali di quella disciplina e durante l'allenamento si volterà spesso in direzione del genitore per vedere se lo sta
osservando e per ottenere la sua approvazione: "se gioco bene papà mi vorrà ancora più bene, sarà fiero di me", ecco quello che sarà portato a pensare. Questo può essere l'inizio di una felice carriera sportiva se il bambino, nel corso dei mesi e poi degli anni, riuscirà a trovare delle motivazioni personali che favoriranno il suo impegno e miglioreranno i suoi risultati: di certo le sole motivazioni genitoriali non saranno sufficienti per sostenere tutti i suoi sacrifici che metterà in atto durante gli allenamenti e le partite. Inizierà a svilupparsi in lui una sana competizione che lo spingerà a confrontarsi ad armi pari con i suoi piccoli compagni e l'allenatore diventerà, oltre ai genitori, un grosso punto di riferimento. Durante l'adolescenza le cose cambiano: le motivazioni presenti nei primi anni di attività decadono per lasciare il posto a nuovi stimoli per continuare a fare sport, se ciò non avverrà ci troveremo di fronte ad un ragazzo che con tutta probabilità abbandonerà la disciplina perchè non nutre abbastanza interesse per
essa. Il giovane atleta intesse relazioni più intense con gli altri, è interessato alla sua forma fisica, al suo corpo che sta cambiando rapidamente e che gli dà non poche preoccupazioni, proprio perchè tutto scorre talmente in fretta che egli rimane disorientato dalla diversa prospettiva degli elementi, dalle nuove potenzialità che va scoprendo e dalla capacità di immaginarsi nuovi, inaspettati scenari futuri. Egli si sente protagonista facendo sport, gode dei suoi risultati che lo gratificano molto più di prima: è sempre interessato a ciò che pensano gli altri, non solo i
suoi genitori ma anche l'allenatore e i componenti dello staff atletico, però anche ciò che pensa lui sta diventando importante. Le motivazioni si fanno via via sempre più complesse e diversificate rispetto a quando era bambino, comincerà a pensare a possibili guadagni, alla fama, al raggiungimento del successo, al desiderio di diventare qualcuno e di affermarsi nel proprio ambiente come atleta. Motivazione allo sport e autostima. Secondo le più recenti indagini psicologiche le motivazioni più frequenti che spingono gli atleti all’attività agonistica sono le
seguenti : aspetto socializzante della pratica sportiva benessere fisico passione per una determinata disciplina sportiva bi sogno di stare in attività, in movimento attrazione verso l’agonismo e desiderio di competere frequentazione di un ambiente diverso divertimento realizzazione di sè attraverso il successo sportivo pressioni familiari (desiderio da parte dei genitori c he il figlio abbia successo) stare con gli amici desiderio di emergere nella società e diventare famosi Un atleta di successo, creativo ed interessato al gioco, non gareggia per dimostrare a sè stesso che è qualcuno che sente di DOVER ESSERE, ma gareggia per rendersi più consapevole di chi è lui veramente, di quali sono i suoi intenti, comprendendosi ed accettandosi nei suoi limiti ma soprattutto nelle sue potenzialità.
L’acquisizione di fiducia in sè è la vera chiave della motivazione : se io ho fiducia in me stesso e in quello che potrei fare non solo sono molto motivato, ma accresco le mie probabilità di avere successo. Fino a quando l’atleta cercherà solo nell’ambiente esterno di soddisfare i suoi bisogni di sicurezza, stima ed approvazione, la vittoria gli sfuggirà, poichè il suo senso di identità personale sarà dipendente da fattori esterni di cui avrà bisogno. Il passaggio avviene quando l’atleta inizia a scoprire queste qualità DENTRO di sè.
Invece di cercare approvazione trova il suo senso di intimo VALORE. Diventa abbastanza sicuro di sè da essere in grado di comprendere di essere un atleta valido anche se commette degli errori. L’accettazione ed il riconoscimento delle proprie qualità sono le chiavi del successo. Lo sport diventa un veicolo attraverso il quale egli è in grado di esprimere sè stesso. STRATEGIE PER ACCRESCERE LA PROPRIA AUTOSTIMA Concedersi una possibilità di vittoria prima c
che la gara a cui si tiene stia per iniziare. Vincere non vuol dire solo arrivare primi, ma anche aver compiuto un'impresa perso nale. Bisogna ricordarsi spesso precedenti successi sportivi o anche di altra natura e soffermarsi su come ci si sentiva soddisfatti. Concedersi un rinforzo positivo (premio) ogni volta che si raggiunge un obiettivo o che si migliora la prestazione; dobbi amo festeggiare, regalarsi qualcosa, fare qualcosa che ci faccia stare bene. Non bisogna fermar si a pensare che
e gli altri forse sono più forti di noi, ma ci si deve concentrare piuttosto sulle nostre qualità; ciò non significa ignorare gl i avversari (sarebbe un grosso sbaglio), ma questo pensiero aiuterà a ridimensionarli nei nostri pensieri. Ricordare sempre le nostre MOTIVAZIONI, il perché ci troviamo qui e dove vogliamo arrivare. Fidarsi di noi stessi e del nostro valore IN OGNI MOMENTO DELLA GARA, questa è la cosa più importante; ci aiuterà a resta re calmi e sereni nei momenti di
ifficili. Vi propongo una visualizzazione che ha lo scopo di accrescere la vostra motivazione: rilassatevi, mettetevi comodi, chiudete gli occhi ed iniziate a visualizzare: - Ora comincia ad immaginare te stesso mentre stai per entrare in campo: è una bella giornata, e riesci a percepire il calore del sole sul tuo viso. - Osserva con attenzione la scena, esamina quello che ti circonda, ascolta i suoni presenti e senti il contatto con il terreno con entrambi i piedi. - Inizia a giocare
proponendo il tuo miglior servizio: imprimi poco effetto alla palla, puntando sulla massima potenza. Lancia la pallina sopra la testa, in avanti, e colpiscila in posizione avanzata rispetto al corpo. - Piega il polso per ottenere maggior accelerazione e forza, inclina bene la spalla sinistra, protendi il corpo in avanti e per mantenere l’equilibrio solleva il piede più arretrato. - Sta andando tutto bene, sei soddisfatto e tutto
procede nel migliore dei modi. - Sei contento, riesci a sentire perfettamente il tuo corpo e in particolare la forza del tuo braccio. Ecco le parole chiave: sicurezza, soddisfazione, motivazione, forza. - Questo non è il momento di accontentarsi, questo è il momento di attaccare. - Tu sei capace di sentirti così ogni volta che lo vuoi, ogni volta che ti serve, ogni volta in cui ti trovi in
difficoltà durante il match: nella tua mente c'è l’immagine del tuo migliore servizio e la puoi utilizzare quando vuoi. - Lentamente fai qualche movimento ed apri gli occhi.