IL NUOVO NADAL, IL SUPERUOMO DI PARIGI Alessandro MAstroluca
“Come artista”, scriveva Nietzsche, “un uomo non ha altra patria in Europa che Parigi”. Come tennista, l'uomo che più compiutamente ha incarnato, per sostenitori e denigratori, qualità e lati oscuri dell'Ubermensch, nemmeno. Rafa Nadal è caduto, è risorto, giace nell'Olimpo del tennis. Secondo atleta nella storia a vincere dieci volte uno stesso Slam, più anziano nell'era Open a raggiungere i 15 major, ha ridefinito se stesso e le dimensioni del dominio. Il decimo trionfo in dieci finali, il terzo senza perdere un set, è anche il suo più rapido. Ha lasciato 35 game, solo tre in più di Borg nel 1978 da leggenda. Nella Parigi della grandeur tronfia e un po' dimenticata, Rafa riceve da zio Toni una coppa che è insieme un segno dei tempi e un premio alla carriera per un campione che ha chiuso la stagione su terra con 24 vittorie, le stesse che Djokovic ha assommato dall'inizio dell'anno, e una sola sconfitta. Il primo posto nella Race, il secondo in classifica ritrovato dopo tre anni e la matematica qualificazione alle ATP Finals rappresentano i tre indizi che, insieme, valgono più della somma delle parti. Nadal è tornato re del rosso. Come negli anni di gloria. Almeno nella sostanza. La forma, invece, racconta un altro pezzo di storia, adombrato dalla luce accecante di un trionfo da leggenda. Nadal domina, è vero, come gli riusciva nel decennio scorso, ma
non è lo stesso giocatore. “Credo che avere dei dubbi su sé stessi sia positivo, perché aiuta a lavorare con più intensità, con più umiltà, e ad accettare di doversi impegnare al massimo per migliorare la situazione” ha spiegato. “Se uno non ha dubbi, probabilmente è troppo arrogante. Credo che i dubbi, e il fatto che io non mi consideri il più forte, siano fra le ragioni di tutti i successi che ho ottenuto nella mia carriera”. Dai dubbi e dal bisogno di risolverli, Nadal ha disegnato un percorso che l'ha allontanato dall'immagine delle origini: più Idra, dunque, che Minotauro. Il guerriero con pinocchietto, bandana e bicipiti rigonfi, che trasuda energia e resistenza, che ha fatto innamorare e dividere i tifosi, esacerbati anche per amor di sponsor, lascia il posto a un'icona lucida nell'assecondare il corpo che cambia e il tempo che passa. Il punto della finale, il più bello del torneo, conserva nello stupore di un colpo gli ingredienti e le ragioni del suo rinnovato
nel 99% dei parziali vinti in carriera, ha ottenuto più della metà dei punti negli scambi di media lunghezza, fra i tre e gli otto colpi. Nei numeri, passa la storia e il futuro di un'evoluzione. Nadal, più consapevole di una vigoria fisica che non può certo paragonarsi, per evidenti ragioni anagrafiche, alle sensazioni dei suoi vent'anni, ha compreso presto di dover prendere una strada diversa per andare dove vuole arrivare. La scelta dell'amico Carlos Moya, l'approccio sempre meno conservativo con il rovescio, la profondità e la pesantezza anche in lungolinea evidenziano l'ultima metamorfosi del maiorchino. successo. Il lungolinea di dritto in accelerazione che frustra la sbracciata di rovescio diagonale di Wawrinka diventa l'epifania di una finale in cui Nadal dimostra un livello totale di controllo sul gioco. Niente lo sorprende, niente lo coglie impreparato. È un dritto diverso, che viaggia a 135 kmh di media, la più alta fra quella registrata con questo fondamentale a Parigi, pur con una rotazione stabilmente sopra i 3500 giri al minuto. È un colpo meno di reazione, più propositivo con cui disegna traiettorie più basse, angolate, profonde. In quel dritto c'è anche la sua qualità di sempre, un senso della propriocezione, la percezione della posizione del corpo nello spazio, ai limiti della perfezione. E non solo. C'è anche una rinnovata fiducia nella brillantezza di piedi e di gambe, una reattivita' e una rapidità di movimenti che gli consente soluzioni più rapide. Nel primo e nel terzo set della finale, come
La mobilità nello spostamento laterale, poi, gli permette di aprirsi meglio il campo, anche dalla parte del dritto, e di insistere appena l'avversario accorcia, nella ricerca del dritto anomalo. Nell'efficacia dell'insidein, del lungolinea da destra, che gli ha dato il punto quasi nell'80% dei casi, passa la più evidente e la più importante delle trasformazioni del Rafa 3.0. La fiducia di un campione che ha raggiunto le 79 vittorie in 81 partite al Roland Garros, che a Parigi non è mai stato nemmeno portato al quinto in finale, si traduce in un servizio che è già il primo tempo della costruzione offensiva dello scambio. Nello scontro per il titolo, ha cercato con pervicacia il dritto di Wawrinka, e ha mantenuto la velocità media più elevata di tutto il suo torneo. Ha spinto soprattutto la seconda in media a 154 kmh, dieci in più rispetto alla semifinale contro Thiem, in cui però ha lavorato in maniera più estrema col kick dal rimbalzo altissimo nei punti pari.
E sui grandi prati verdi può rinascere la speranza di Rafa di tornare numero 1 del mondo. Potrebbe riuscirci già dopo Wimbledon. L'anno scorso, infatti, ha saltato completamente la stagione e non si è presentato all'All England Club. Ritorna quest'anno per dimenticare la sua ultima partita, la sconfitta contro Dustin Brown, per cercare la prima finale dopo sei anni e magari il terzo titolo a sette anni dalla finale senza storia contro Berdych nel 2010. Fare meglio di Murray, che comunque in semifinale, nonostante gli 87 vincenti di Wawrinka ha giocato la miglior partita dell'anno, gli basterebbe per risalire in vetta al ranking per la prima volta dall'estate del 2011. Lo scozzese, infatti, difende la vittoria al Queen's e a Wimbledon: 2500 punti pesanti in una fase cruciale della stagione. Certo, c'è il ritorno di Federer, c'è un Djokovic che qualche segno di ripresa l'ha mostrato, per quanto troppo breve, e un Wawrinka che avrà i consigli di Paul Annacone per sognare di completare il Career Grand Slam nello spazio di cinque finali. Ma soprattutto, nella stagione del decimo trionfo a Parigi che riporta il tempo dieci anni indietro, nella stagione di una vecchia generazione che non cede al respiro del tempo e una nuova che fatica a cogliere le grandi occasioni, c'è soprattutto lui. L'Ubermensch caduto e risorto, di nuovo nell'Olimpo del tennis mondiale.
Rafael Nadal: il campione delle avversità Akshay Kholi Rafael Nadal ha dimostrato ancora una volta che non si arrenderà velocemente perché non è una persona come le altre. La verità è che la superstar ha sofferto e abbracciato diverse forme di dolore – dall'essere indebolito dai tormenti ai tendini del ginocchio, l'ex numero 1 del mondo ha attraversato la Sindrome di Hoffa e ha dovuto assorbire la deprimente notizia di essere pesantemente ostacolato nei movimenti dal tendine della rotula parzialmente lacerato. E se il dolore fisico non fosse abbastanza, ha dovuto affrontare anche traumi emotivi e psicologici: nel 2009,
l'annuncio del divorzio dei suoi genitori l'ha lasciato in lacrime. Presentiamo una sequenza della lotta che ha reso Nadal “Il più grande nelle avversità”. Ecco un viaggio unico che permette di ricostruire come il genio ha affrontato numerosi ostacoli e superato le situazioni difficili per riapparire con rinnovato vigore.
Il primo incontro con la tragedia
Il primo incontro del numero 2 del mondo è arrivato nel 2007, quando un infortunio al piede sofferto durante la sconfitta al quinto set
contro Roger Federer in finale a Wimbledon ha continuato a disturbarlo per i successivi sei mesi dell'anno. All'inizio del 2008, ha cancellato tutti i dubbi sulla sua condizione veleggiando fino alla semifinale dell'Australian Open e proseguendo con il suo abituale dominio a Monte Carlo, Roma, Barcellona, Amburgo e al Roland Garros. Poi, per la prima volta, ha ottenuto qualcosa che nessuno aveva raggiunto, ha piegato Roger il “Re del Centrale” nel più match di tutti i tempi all'All England Club ed è così
diventato il primo a completare la doppietta Roland GarrosWimbledon dopo Bjorn Borg.
Quando il ginocchio fa male
Le ginocchia che non lo lasciano mai tranquillo nel 2009 sembrano avere molteplici punture, prima che fosse confermata la notizia: i problemi al ginocchio tornano durante la sconfitta contro Andy Murray all' ABN AMRO World Tennis Tournament di Rotterdam. Per guidare il suo corpo ha bisogno di un nuovo set di gomme.
Nadal è costretto a rinunciare a Wimbledon, non può andare a Londra a difendere il titolo e non può così sfruttare l'occasione di scendere per primo in campo sui gloriosi prati dell'SW19. Anche se rientrerà in campo dopo due mesi e mezzo non riuscirà a ritrovare la grande forma dei giorni migliori.
Il trauma emotivo
Nadal è costretto ad affrontare un enorme trauma emotivo e mentale quando i suoi genitori annunciano la separazione che avrebbe poi condotto al divorzio. Rafa era troppo legato ai genitori
per non avvertire un contraccolpo quando gli viene detto che le le due persone che per lui significavano tutto da quel momento avrebbero vissuto separati. “Le mie ginocchia erano la causa più immediata, ma sapevo che l'origine stava nel mio stato d'animo” ha scritto nella sua autobiografia, ‘Rafa: la mia storiaʼ. “Non sentivo più lo spirito competitivo, l'adrenalina si era prosciugata. Se la mente è in una condizione di stress permanente, dormi poco e sei distratto – esattamente i sintomi che mostravo all'epoca – l'impatto sul tuo fisico è devastante.
Il ritorno del Re
Con gli esperti che anticipavano la fine dello spagnolo, ha risposto ai suoi detrattori in maniera incredibile. È diventato il settimo nella storia a completare il Career Grand Slam vincendo tre major di fila, il Roland Garros, Wimbledon e lo Us Open 2010. Ha vinto cinque volte di fila a
Parigi (2010-2014) e lo Us Open 2014. La storia di Rafa è una fonte di ispirazione e speriamo che possa motivare molti piÚ giovani a iniziare questo sport e a diventare delle superstar.
Rafael e Toni Nadal: una storia di successo Akshay Kholi
Prendendo Rafael Nadal sotto a sua ala protettiva in tenerà età, Toni Nadal ha trasformato il numero 2 del mondo nel giocatore che conosciamo oggi. La sua caparbia fiducia in questo prodigio del tennis ha generato un legame tra i più rispettabili, in campo e fuori, con suo nipote e il suo costante supporto in allenamento è stato il principale fattore nella battaglia dello spagnolo
per superare le paure degli infortuni, le classiche rivalità e un approccio combattivo fino all'ultimo punto nei confronti del gioco. Il legame è simile a quello che si crea fra un padre e un figlio e Toni ha sempre fatto in modo che Rafa prendesse le sue decisioni, facendo così crescere esponenzialmente il maiorchino come giocatore. Come Toni ha rivelato nella biografia di Nadal, “gli dico (prima di ogni match): 'Guarda, hai due strade fra cui scegliere dirti che ne hai abbastanza, e allora ce
ne andiamo, o essere pronto a soffrire e andare avanti. La scelta è tra resistere e arrendersi”. Considerando lo stile di Nadal, che è insieme misterioso e letale per il 15 volte campione Slam, le cui fragili ginocchia sono state sempre causa di preoccupazione, Toni Nadal non influenza più di tanto la meccanica del gioco, ma si limita a incoraggiare Rafa a dare il 100% in ogni singolo punto, al servizio, da fondo o a rete. La filosofia di Toni è: “Prima colpisci forte, poi vediamo come tenere la palla in campo”.
educazione si è mostrata nel suo spirito combattvo durante la finale dell'Australian Open 2014 contro Stanislas Wawrinka: nonostante un problema alla schiena, non si è mai lamentato durante i punti e tranne qualche medical timeout in campo e prolungati trattamenti fuori dal campo, ha lottato fino all'ultimo mantenendo la più elevata dignità in campo nonostante la sconfitta in quattro set. Toni non ha solo esaltato la qualifica di “Toro” in Rafael Nadal, è il mentore che l'ha reso una delle persone migliori in campo. Toni ha sempre lavorato duro perché non perdesse i principi familiari di etica del lavoro, umiltà e rispetto per gli altri. Già dai primi anni, Toni ha insegnato a Nadal di non gettare mai a terra la racchetta dopo un punto giocato male spiegandogli quanto fosse irrispettoso quesl gesto per gli spettatori che non possono permettersi di comprare una racchetta o prendersela con i fattori esterni per una sconfitta. Questa forma di
Per mantenere Nadal con i piedi per terra come qualunque persona della sua età, Toni gli ha fatto passare il tappeto dopo gli allenamenti, qualcosa che non ha mai chiesto agli altri ragazzi. Essere chiamato “cocco di mamma”, come Toni faceva sempre ogni volta che esitava, ha aumentato nel giovane Nadal la forte convinzione di poter rendere un giorno il suo zio e coach l'uomo più orgoglioso sul pianeta. In più, Toni non ha mai accettato scuse da parte di Nadal per giustificare le sue sconfitte. Credendo nel rapporto causaeffetto, Toni sa che se lavori bene nessun potere
al mondo può impedirti di raggiungere i tuoi sogni, ma se non ci metti l'impegno necessario le probabilità di fallimento aumentano. Rafa, anche per la sua natura condiscendente, non si è mai ribellato contro suo zio. Nella sua biografia, John Carlin ha spiegato bene come il duo sia durato così a lungo. “Toni era duro con Rafa perché sapeva che Rafa avrebbe potuto reggere e crescere. Non avrebbe applicato gli stessi principi con un ragazzino più debole. Questo argomento è prevalso in famiglia almeno a tal punto che nessuno, nemmeno la mamma di Rafa, ha mai affrontato Toni chiedendogli di alleggerire il suo metodo. Hanno capito che passare così tante ore con Toni è un po' estremo; ma quei due hanno raggiunto un livello per cui nessuno dei due può vivere, e ancor meno avere successo nel tennis, senza l'altro”. Questo duo dinamico ha affrontato molti periodi duri, a causa dei prolungati
problemi di Rafa alle ginocchia e il suo rischioso stile di gioco, ma con l'incesssante fiducia di Toni, Nadal, che di strada ne ha percorsa tanta, è sicuro che grazie al suo erudito coach il suo fuuro non sarà mai nell'ombra. Anche se i due non lavoreranno più insieme, la loro storia di successo è una fonte di ispirazioni per tanti coach e studenti nel mondo.
E' stata senza dubbio una delle decisioni più discusse dell'ultimo periodo, quella che ha portato Roger Federer a saltare tutta la parte di stagione sulla terra rossa, per presentarsi direttamente ai tornei sull'erba, sua superficie preferita ormai dal lontano 2001, quando lo svizzero riuscì nell'impresa di battere Pete Sampras, vincitore di 7 delle ultime 8 edizioni, negli ottavi di finale del torneo di Wimbledon. In realtà, Re Roger si era già reso conto di quali fossero le sua capacità tennistiche sui prati verdi inglesi, nel 1998, quando aveva conquistato il titolo Juniores di Wimbledon.
FEDERER, DAL CEMENTO ALL'ERBA, SENZA PASSARE SUL ROSSO Marco Di Nardo
Da quel momento, in qualche modo, Federer è sempre rimasto legato alla superficie che occupa meno spazio all'interno dell'attuale annata tennistica, in cui rappresenta solo una breve parentesi tra il Roland Garros e il ritorno sui campi in cemento. Ed è il suddetto legame, che porta l'elvetico a rifugiarsi sempre in questa piccola parte di stagione, quando ha bisogno di riposarsi, soprattutto ora che
l'età non gli permette più di poter affrontare l'intera stagione, giocando tutti i tornei. Lo aveva fatto lo scorso anno, quando dopo essersi presentato a Roma, Roger aveva deciso che di terra ne aveva già vista troppa, tornando in campo solo a Stoccarda, ossia sull'erba, appunto. E quest'anno la scelta è stata ancora più importante, perché il 18 volte campione Slam, non ha voluto nemmeno assaggiare la polvere rossa, passando dalla vittoria nel Masters 1000 di Miami, immediatamente all'erba, ancora a Stoccarda. Se la scelta sia stata corretta, saranno i risultati che riuscirà ad
ottenere tra l'ATP 500 di Halle e Wimbledon, l'appuntamento più importante nella stagione dello svizzero. Certamente, considerando lo strepitoso avvio di 2017 che ha visto protagonista Federer, l'aver saltato tutti i tornei sulla terra, gli ha tolto molte delle possibilità che
invece avrebbe avuto, se avesse giocato almeno un paio di tornei sul rosso, di tornare al numero 1 della classifica mondiale. Perché dopo aver vinto Australian Open, Indian Wells e Miami, Roger era il numero 1 della Race, con un vantaggio di circa 1800 sul numero 2, all'epoca Rafael Nadal. Poi lo svizzero ha fatto le sue considerazioni, ha preso la sua decisione, e a distanza di poco tempo, si ritrova ad inseguire Rafa, con quasi 3000 punti in meno dello spagnolo, sempre prendendo in considerazione la Race. Sicuramente, il fatto che Federer sia ancora numero 2 come numero di punti conquistati quest'anno, fa capire l'alta qualità dei
risultati ottenuti nei primi mesi della stagione. Ma ora, andare a riprendersi il trono del Ranking ATP, appare molto più difficile. Inoltre, lo svizzero potrebbe ora ritrovarsi nella situazione di dover necessariamente vincere, essendosi preparato proprio per
giocare in questa parte dell'anno, con la pressione di non poter sbagliare, anche per dimostrare che la scelta fatta abbia avuto conseguenze positive sul suo gioco, e non quelle negative derivanti dallo stare lontano dalle competizioni per un periodo temporale abbastanza lungo. Va comunque detto che a Wimbledon, Federer ha sempre avuto una grande pressione, indipendentemente dalle diverse situazioni in cui ci è arrivato, perché Roger, dentro di sé, si è sempre sentito il più forte sui campi di Church Road. E sia quando è arrivato ai Championships dopo una delusione, come nel 2004, quando perse al terzo turno del Roland Garros, sia quando ci
è arrivato dopo un grande successo, come nel 2009 (primo trionfo a Parigi), ha sempre dimostrato di saper gestire al meglio la pressione, vincendo per 7 volte tra il 2003 e il 2012, compresi i titoli nel 2004 e 2009. Sicuramente l'inizio di stagione sull'erba non è stato perfetto, visto che ha perso
all'esordio nell'ATP 250 di Stoccarda contro Tommy Haas, sprecando anche un matchpoint, ma Federer non deve preoccuparsi più di tanto. Per lui, sono sicuramente più importanti i tornei di Halle, evento a cui è da sempre legato in maniera particolare, avendolo vinto per 8 volte, e, ovviamente, Wimbledon. Ora, sarà fondamentale ritrovare le giuste sensazioni in Germania, cercando di centrare anche il successo numero 1100 in carriera (al momento sono 1099 le partite vinte dallo svizzero in carriera nel circuito maggiore), per poi tentare l'ennesima impresa su quello che negli anni è diventato il giardino di casa sua, ai Championships.
Roger Federer: oltre il campo Akshay Kholi Roger Federer ha firmato quasi ogni record che conti nel tennis maschile. Ma al di là dei record, la reputazione di Roger non è solo quella di un memorabile giocatore, ma anche di una grande persona la cui vita è una fonte di ispirazione. Diamo un'occhiata all'impatto che Federer ha avuto nel tennis oltre il normale talento che possiede.
Presidente del Players' Council ATP
Roger Federer è stato eletto nel Players'
Council dell'ATP per tre mandati (2008 2014) e dall'inizio ha fatto da presidente, indicando l'immagine pubblica che porta nel circuito.
Sotto la sua guida, il Council ha dato voce alle opinioni dei giocatori e ha portato novità e riforme nella struttura organizativa di vari tornei.
Federer ha avuto un ruolo cruciale
del mondo.
I proventi di queste partite vanno a
un'organizzazione o una fondazione benefica, ma una delle ragioni per cui vi partecipa è
aiutare a rendere il tennis più popolare, dargli
nuova vita. Il tipo di popolarità e di affetto che Roger riceve aiuta a elevare il tennis su un
nell'incrementare il montepremi per i giocatori
piedistallo più alto. I tifosi lo vedono come
contribuito in maniera determinante a
come lui.
sconfitti nei primi turni degli Slam. E ha
organizzare i compagni in una lobby coerente
un'idolo e desideranp che i propri cari diventino
che ha spinto la USTA (la federazione USA che
Un filantropo
organizzatori di Wimbledon) ad annunciare un
in nazioni come il Sudafrica e l'India per offrire
organizza lo US Open) e l'All England Club (gli significativo aumento nel prize money. Un ambasciatore del tennis
Federer ha sempre sottolineato l'importanza di restituire qualcosa al proprio sport in ogni
modo. Questo può essere confermato dalla sua presenza in numerose esibizioni in varie parti
Federer è un filantropo nel cuore, ha viaggiato supporto ai malati, a chi vive in condizioni di povertà o alle vittime di disastri naturali. Da
quando ha creato la Roger Federer Foundation nel 2003, ha aiutato a “promuovere l'accesso all'istruzione e allo sport, e a migliorare la qualità dove i fondi erano assenti o insufficienti”.
Il lavoro di questa fondazione benefica è
Nelle parole del sociologo dello sport Fabien
africane e in Svizzera, dove si sviluppano
importanza all'estero, dove le persone si
prevalentemente concentrato nelle nazioni partnership di lungo periodo con organizzazioni locali attentamente selezionati.
Un'icona corporate, il sogno dei brand
Con Sachin Tendulkar e Tiger Woods, Roger Federer ha iniziato il trend per cui le
multinazionali scelgono personaggi dello sport
come ambasciatori globali del proprio brand. Il
legame tra il campione e i suoi tifosi gli ha reso
lo status iconico di una celebrità internazionale, utilizzato appieno da compagnie come Moet
and Chandon, Gillette, Mercedes Benz e Rolex che gli garantiscono milioni di dollari come
parte dei loro accordi annuali di endorsement. Solo per il 2016, i guadagni di Roger dalle
attività fuori dal campo si stimano intorno ai 60 milioni di dollari.
Ohl, “La nazionalità di Federer non ha molta
attaccano ad altri valori, più vicini alla propria
cultura. È la sua personalità che fa la differenza. In India, Cina, Giappone e Pakistan per esempio sarà visto prevalentemente come l'ideale dell'uomo occidentale che ha successo”.
Il suo atteggiamento verso lo sport, dentro e
fuori dal campo, ha largamento aiutato il tennis
a guadagnare l'importanza centrale che assume oggi per l'industria sportiva di oggi. Le
eccellenti qualità tennistiche e il carattere umile hanno reso il campione di Basilea l'idolo
perfetto e “ciò di cui il tennis aveva bisogno
dopo Agassi e Sampras” nel mondo moderno.
Roger Federer: riviviamo le sue prime vittorie negli Slam Akshay Kholi
Sono passati 14 lunghi ann (Wimbledon 2003) da quando Roger Federer ha vinto il suo primo Slam. Curioso di scavare un po' di più nella materia, ho deciso di scrivere un artitolo sul primo titolo dello svizzero in ciascuno dei quattro major. Federer ha annunciato il suo arrivo sul grande palcoscenico del tennis nel 2001, sconfiggendo Pete Sampras negli ottavi a Wimbledon. Due anni dopo, ha trionfato per la prima volta in un major, su quello stesso campo, battendo Mark Philippoussis 7-6(5), 6-2, 7-6(3). E da allora sarebbero arrivati altri sei titoli all'All England Club. Sappiamo che ha già vinto cinque volte l'Australian Open e lo Us Open e una volta il Roland Garros. Ma per arrivarci, è dovuto partire da zero e in ogni torneo c'è stata una prima volta. Perciò, percorriamo insieme la strada della memoria e riviviamo quei momenti magici che tanti di noi hanno dimenticato!
Wimbledon (2003)
Numero di apparizioni prima di vincere il primo titolo: 4 Set persi nell'anno del primo titolo: 1 Avversario in finale: Mark Philippoussis Punteggio della finale: 7-6(5), 6-2, 7-6(3)
Ranking ATP: 5 Federer ha iniziato il conto dei suoi titoli nei major nello Slam più antico del mondo, battendo l'australiano allora numero 48 del mondo. Arriva alla finale dopo il notevole successo in tre set su Andy Roddick e The Scud lo mette decisamente in difficoltà nel primo set. Federer però applica il serve and volley e la strategia funziona molto bene.
Australian Open (2004)
Numero di apparizioni prima di vincere il primo titolo: 4 Set persi nell'anno del primo titolo: 2 Avversario in finale: Marat Safin Punteggio della finale: 7-6(3), 6-4, 6-2 Ranking ATP: 2 Il titolo che ha aiutato Federer a iniziare il suo regno da numero 1 del mondo è arrivato a Melbourne, quando ha sconfitto
in tre set Marat Safin. Per due settimane, ha giocato un tennis straordinario perdendo solo due set, contro Lleyton Hewitt e David Nalbandian. Il russo arriva in finale stanco dopo tre battaglie al quinto set e altrettante al quarto e Federer riesce a prevalere..
US Open (2004)
Numero di apparizioni prima di vincere il primo titolo: 4 Set persi nell'anno del primo titolo: 3 Avversario in finale: Lleyton Hewitt Punteggio della finale: 6-0, 7-6(3), 6-0 Ranking ATP: 1 La vittoria di gran lunga più larga in una finale Slam vale a Federer il primo titolo allo Us Open. A chi ripensa alla finale dello Us Open del 2004 viene in mente un assoluto annichilimento.
Roland Garros (2009)
Numero di apparizioni prima di vincere il primo titolo: 10 Set persi nell'anno del primo titolo: 6 Avversario in finale: Robin Soderling Punteggio della finale: 6-1, 7-6(1), 6-4 Ranking ATP: 2 Dopo 10 tentativi, l'undicesimo è quello giusto per Federer che completa il Career Grand Slam vincendo il Roland Garros dopo aver raggiunto la sua quarta finale consecutiva a Parigi. Supera Robin Soderling, che aveva eliminato Rafa Nadal agli ottavi. Era questa l'occasione più semplice per Federer per conquistare il titolo e lo svizzero l'ha sfruttata al massimo, battendo lo svedese in tre set. È diventato così il sesto giocatore a vincere tutti i quattro major.
Da lucertolina, il piccolo Lacoste non prometteva granché Stefano Semeraro
Magro, quasi gracile, non certo alto, gli occhi nerissimi e un po' languidi, aveva più l'aria del secchione che dello sportivo. Al tennis, lui nato a Parigi nel 1905, era arrivato quasi quindicenne sottraendo la racchettona di legno pesante alla sorella
maggiore che si rifiutava di accompagnarlo al club. Imberbe, ma già dotato di una adulta testardaggine da rettile, René, come tanti altri campioni avrebbero fatto dopo di lui, elesse allora a campo di allenamento il muro della casa dei genitori, al Bois de Colombes. Lacoste senior, un ex nuotatore diventato poi ingegnere, quindi amministratore delegato della filiale francese della HispanoSuiza, ramo automobili di lusso, per favorirne lo svezzamento tecnico e agonistico lo iscrisse a ben tre club, la crème parigina. Lo si vedeva con assiduità al Racing, d'inverno più
facilmente allo Sporting di Rue de Saussure, altre volte allo Stade Francais. Era la mascotte e insieme il tormento dei soci, che estenuava con continue richieste di palleggi, di allenamenti. I primi risultati, in tornei sociali e giovanili, nonostante le lezioni di uno dei più quotati coach del tempo, Henri Darsonval, non furono però incoraggianti. Tanto che dopo una sonora batosta rimediata ai Campionati studenteschi, babbo Lacoste gli chiese se non fosse il caso di piantarla lì e dedicarsi ad altro. René pregò e contrattò, strappando una specie di
scommessa dilazionata: sarebbe diventato il migliore del mondo entro cinque anni, o avrebbe smesso.
impugnati con una poco elegante presa a mezzo manico che solo la Lenglen lo convinse ad abbandonare.
Un muro di libri «Per diventare un campione sono necessarie due cose - scriverà poi Lacoste nella sua autobiografia - una collezione completa di libri sul tennis e un muro». Provando e riprovando, con una acribia da tomista completata dalla dedizione di uno Stakanov, René mise in opera il suo piano quinquennale, alternando il tennis alle lezioni al Liceo Carnot - forse non casualmente il nome di un sublime geometra, teorizzatore di angoli e bisettrici. Leggeva, osservava, sperimentava. Ripeteva. Gli avversari, i differenti stili, i punti forti e le debolezze altrui finivano schedati e catalogati in quaderni accuratissimi. I difetti, le lacune del proprio gioco, René invece li lavorava al tornio di allenamenti continui, dove si esercitava a produrre "pezzi" il più possibile simili fra di loro, calibrati alla perfezione: passanti incrociati, lob, dritti e rovesci lungolinea
«Non si stancava mai di allenarsi - testimoniò a Gianni Clerici il suo collega "moschettiere" Cochet - Io mi stancavo per primo, Borotra scappava via con la scusa degli affari, Brugnon si rassegnava a restare in campo, ma alla fine decideva che il bridge non poteva più aspettare. Fu costretto a inventare il lanciapalle!». Tutti per uno... Cochet, Borotra, Brugnon: i tre moschettieri a cui, come D'Artagnan, nel 1923 venne aggregato René, a completare probabilmente la più forte squadra di Davis di tutti tempi. Una èquipe dove caratteri, estrazioni, vocazioni diverse si miscelavano alla perfezione. Borotra l'estroverso, il divo "à la Lenglen”, eternamente diviso fra affari e sport, quasi nullo da fondocampo ma straordinario acrobata sotto rete; il geniale Cochet, figlio del custode dei campi del tennis club di Lione, che giocava un tennis tutto talento e
mezze volate, avaro e sublime insieme; Toto Brugnon, il più anziano, il doppista intellettuale, l'uomo-squadra, figlio di un grande avvocato, nato dieci anni prima di Lacoste. René sapeva di non avere un talento naturale da predestinato, tanto che lo scrisse apertamente; ma suppliva con la resistenza assoluta e con l’applicazione tattica che lo rendevano spesso invulnerabile. A cementare la squadra fu Pierre Gillou, dirigente illuminato e sapiente, autentica eminenza grigia della federazione. I quattro si ritrovarono per la prima volta riuniti a Wimbledon, nel '22, Brugnon e Cochet persero al terzo turno, Lacoste già al primo. Nel '23 esordirono anche in Davis, contro l'Irlanda, e l'anno seguente inaugurarono quella che a Wimbledon chiamarono "the French era": per cinque anni filati, dal '24 al '29 con la sola eccezione del '26, finalista e vincitore furono sempre due "coq". Nascita di un soprannome Lacoste nel '24 arrivò in finale ai campionati di Francia, ancora riservati ai soli tennisti indigeni, e a
stampa americana l'anno dopo: «Avevo fatto una scommessa con il capitano della nostra squadra. Mi aveva promesso una valigia in pelle di coccodrillo se avessi vinto un match importante, e finì che il soprannome mi rimase addosso, a sottolineare la tenacia che mettevo sempre nei miei match. Così il mio amico Robert George disegnò per me un coccodrillo che feci ricamare sui blazer da indossare in campo». Wimbledon, battuto in entrambe le finali da Borotra. Ma l'anno dopo era già il numero 1 di Francia, e si vendicò del "basco saltellante", come era stato soprannominato Borotra per le sue danze sottorete. Contro Jean vinse infatti in tre set a Parigi, che nel frattempo si era aperto agli stranieri, e a Wimbledon in quattro set. E poi c'era la Davis. Nel '24 i galletti si erano visti negare a Boston l'accesso al Challenge Round dall'Australia di Gerald Patterson e O'Hara Wood. Nel '25 finalmente approdarono alla sfida finale e René, che secondo Wallis Myers «aveva
fantasticato sul suo primo match contro Tilden fin dalla prima volta che aveva messo piede su un campo», impegnò Big Bill in un match epico. L'americano fu capace di rimontare da due set di svantaggio e 0-4 nel terzo, salvando anche quattro matchpoint nel quarto. Sudato e stravolto, Tilden ad ogni cambio di campo sul centrale del Germantown Cricket Club fissava Lacoste come Capitan Uncino avrebbe guardato - ca va sans dire - il coccodrillo dell'Isola Che Non C'è.
Le ansie del rettile Nel '26 di nuovo i francesi uscirono umiliati dal Challenge Round contro i due Bill, Tilden e Johnston, ma Lacoste riuscì, a risultato acquisito, a sconfiggere Big Bill per 8-6 al quarto: il primo affronto per Tilden, dopo sei anni di imbattibilità. Il 1927 fu invece l'anno dell'apoteosi della squadra nel suo complesso, e del Coccodrillo in particolare. Dall'anno della sua istituzione fino al '26 la Coppa era stata vinta solo da Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia, le tre potenze anglosassoni.
Il nomignolo a Lacoste glielo avrebbe affibbiato la
Nel '27 i Moschettieri superarono la Romania a
Parigi, poi faticarono non poco contro l'Italia di De Stefani e De Morpurgo nel secondo turno della zona europea. Contro il Sud Africa, a Eastbourne, e il Giappone, a Boston, per i ragazzi di Gillou furono invece due passeggiate concluse senza perdere un solo match. Rimaneva il Challenge Round. Di nuovo a Philadelphia, di nuovo contro Tilden. I francesi presero alloggio alle Greenhill Farms, un albergo appena fuori città dove Lacoste, che prima dei match importanti cadeva in una trance solipsistica, rifiutò una stanza che aveva il bagno in comune con quella di Gillou e pretese il completo isolamento, arrivando anche a farsi servire i pasti in camera. L'ansia da prestazione sprofondava regolarmente il Coccodrillo in crisi terribili di fiducia, e lo spingeva ad allenarsi ancora più spesso del normale, toccando vertici in cui perfezionismo e psicosi erano divise da una sottilissima dogana. Come sparring partner, ad esempio, volle per rodare sé e la squadra Jean Washer, il campione del
Belgio, mancino e in possesso di un dritto paragonabile a quello di Little Bill Johston. Ma René non si allenava solo in campo. Una sera Borotra, che aveva la camera confinante con quella del più giovane compagno, allarmato da strani tonfi fece irruzione nella tana del coccodrillo: lo trovò intento a provare il servizio contro il dorso del divano. La Davis è francese Tilden nel frattempo era dilaniato da una faida con la sua federazione per la scelta
del doppista, Hunter o Johnston. Lacoste sperava in un sorteggio utile a sfiancare l'immenso yankee, ormai 34enne e costretto a sostenere quasi da solo l'urto dell'équipe francese, e fu accontentato. Il primo giorno Cochet perse al quarto contro Tilden, affaticandolo, poi René scherzò Little Bill. Nel doppio i francesi andarono sotto, ma durante il tradizionale banchetto del venerdì Lacoste si dimostrò insolitamente ottimista: «Ne sono sicuro -
vaticinò alzandosi dal tavolo - domani batterò Tilden». Come riuscì nell'impresa, lo racconta Gianni Clerici in "500 Anni di tennis": «Crocodile gli giocava in centro per impedirgli di usare la lunghissima leva del braccio, lo spostava avanti e indietro, variando la lunghezza dei colpi e, infine, in risposta ai suoi drive più aggressivi, gli indirizzava un mezzo pallonetto sul rovescio, una palla leggerissima e soporifera. Quando Bill, un poco svelenito dopo la perdita del primo set, ebbe arraffato il secondo e passò all'attacco, Lacoste, con precisione inumana, iniziò a distillargli dei cross cortissimi, seguiti da pallonetti vertiginosi». Tilden, che confesserà poi che durante il match si era sentito tanto impotente da voler prendere il Coccodrillo a racchettate in faccia, finì il match a rete, complimentandosi da gentleman assoluto: «Bravo René, hai fatto proprio quello che dovevi fare per battermi». I due si sedettero poi accanto per vedere il match decisivo, con Lacoste che nonostante il caldo continuava a coprirsi di
maglioni e fu poi costretto a sostituire sulla sedia del capitano un Gillou troppo nervoso, e applaudire da lì la tribolata vittoria di Cochet su Johnson. La Francia aveva conquistato la Davis. Dai rovesci alle polo In quel 1927 Lacoste riservò altri due schiaffi al grande rivale. Nella finale di Parigi salvò due matchpoint e vinse in cinque set - una distanza che lo favoriva -, nei Campionati Usa disegnò il campo in lungo e in largo con i suoi mirabili rovesci impedendo a Tilden di strappare un solo set. L'anno successivo, nel nuovissimo impianto del Roland
Garros, costruito proprio per ospitare i match dei Moschettieri e inaugurato in occasione della finale interzone con l'Italia, Big Bill ripagò il Coccodrillo con la sua moneta. L'americano vinse al quinto set quel match, l'ultimo in Davis di René, ma non potè evitare il successo finale della Francia, che trattenne così al Bois de Boulogne l'Insalatiera. Lacoste vinse ancora al Roland Garros nel '29, poi una grave forma di bronchite cronica lo costrinse ad abbandonare il tennis proprio prima del Challenge Round. Nel '31 fece di nuovo sua
la Coppa da capitano, e nel '32 ritornò anche brevemente alle gare, ma dopo aver passato tre turni a Parigi capì di non potercela fare. Si sposò con una entusiasta spettatrice dei suoi match, la golfista Simon Thion de la Chaume, vincitrice del British Open femminile, e nel '33 insieme al più grande industriale tessile francese dell'epoca, Andre Gillier, fondò una ditta di abbigliamento destinata a un certo successo. Il marchio? Un coccodrillo. «Ci sono cose che non hanno una vera spiegazione - raccontò poi a proposito dell'animaletto stampato sulle famose
polo in Jersey Petit Piqué - Se avessi scelto un animaletto carino e simpatico magari non sarebbe successo nulla. Ad esempio un galletto: sarebbe stato più francese, ma probabilmente non avrebbe avuto lo stesso impatto». Gli amici e i colleghi lo avevano sconsigliato di firmare le sue creazioni: pareva volgare, poco chic. Ma René non diede retta. Aveva capito che ogni maglietta indossata da una celebrità, da uno sportivo o anche da un semplice cliente si sarebbe trasformata in uno slogan pubblicitario. Era nata la
“polo”, la mitica “1212”, il primo capo di abbigliamento sportivo capace di “fare moda”. E un nuovo, rivoluzionario modo di fare comunicazione. Durante i suoi viaggi giovanili in America, un Paese che adorava, il cucciolo di manager Lacoste aveva studiato il taylorismo, incontrato Henry Ford, che nel ’28 gli fece visitare il suo centro studi, e visitato i laboratori della General Electric a Menlo Park, nel New Jersey, dove assistette a una delle prime trasmissioni televisive. Da uomo d’affari maturo a partire dagli anni ’30, si occupò di
automobili e di motori aeronautici, entrò nel consiglio di amministrazione dei cantieri navali della Loira, fondò la società Air Equipment, per conto della quale negli anni ’60 e ’70 avrebbe seguito in prima persona la nascita dei progetti Concorde e Airbus. Ebbe tre figli, fra i quali una campionessa di golf, nel 1950 gli fu assegnata la Legion d'onore. Nel '60 inventò il "pad"
antivibrazioni per la racchetta, nel '67, su un suo brevetto del '63 - ma concepito negli anni ’20! la Wilson lanciò una racchetta in metallo, la T2000, che impugnata fra gli altri anche da Jimmy Connors e da Billie Jean King, ha conquistato ben 46 titoli dello Slam. Elegante, sorridente, iperattivo, tenace, geniale: lo stile Lacoste. «Nel 1994 ricorda Christian Bimes, l’expresidente della
federazione francese di tennis mi convocò per mostrarmi un suo prototipo, e lo trovai sulla veranda della sua casa che testava una pallina attaccata ad un elastico. Non dimenticherò mai quella scena!». Nel 1996, a 92 anni compiuti, il coccodrillo decise che poteva bastare, e ci lasciò. Senza versare una lacrima
Lendl-McEnroe Roland Garros 1984
IL GRANDE FRATELLO
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Remo Borgatti
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Buongiorno a tutti. Sono Joseph Malden e nessuno di voi mi conosce. È naturale: io non esisto. Sono stato cancellato, come tutti coloro che si sono trovati dalla parte sbagliata della Storia. Ma non è argomentando sulla mia insignificante presenza nel Barnum della vita che intendo trattenervi. Vi annoiereste a morte, ve l’assicuro. Invece vi parlerò di un uomo e delle nefandezze a cui il Grande Fratello l’ha sottoposto, fino a divorargli l’anima e trasformargli il cuore. Il 1984 stava finendo e Winston Smith era il mio migliore amico. Eravamo colleghi al Ministero della Verità, sebbene io avessi un incarico diverso dal suo e i nostri incontri avvenissero perlopiù in clandestinità. Ma di questo parleremo in seguito. A quelli come lui, il Partito aveva affidato il compito di rettificare le notizie riportate in precedenza sui giornali e manipolarle affinché propagandassero al meglio la filosofia Socing e facessero apparire perfetto in ogni sua manifestazione il Partito stesso. Volete un esempio? Noi tutti sapevamo che Oceania ed Eurasia erano state alleate non più tardi di quattro mesi prima ma, essendo adesso in guerra tra loro, ogni notizia del passato che avesse menzionato questa alleanza andava cancellata e riscritta. Perché la verità è menzogna. E viceversa. Quella volta però Winston cercò di ribellarsi, perché gli sembrava che ribaltare
l’esito di quella memorabile sfida fosse semplicemente intollerabile. Alla fine però, dopo aver transitato nella famigerata Stanza 101, fu costretto a ritrattare. L’episodio risaliva al 10 giugno di quello stesso anno e il Times ne aveva dato notizia il giorno successivo. Questo è il testo che troverete negli archivi del Partito, debitamente corretto da Winston. Parigi, 10 giugno Alla fine il genio, la fantasia e la classe, qualità che sempre contraddistinguono i nostri atleti, hanno prevalso sulla forza bruta. Si giocava la finale del torneo maschile di tennis in corso di svolgimento sui campi del Roland Garros e la sorte aveva messo di fronte John McEnroe, dell’Oceania, contro un certo Ivan Lendl, proveniente dall’Eurasia. Mister Lendl, nato in quella che fu la Cecoslovacchia, sapeva benissimo ciò che l’attendeva. Ci aveva combattuto cinque
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volte in quella stagione. Inutilmente. Aveva aspirazioni da campione, l’eurasiatico, ma quando sbatteva contro il nostro erano guai. Guai seri. Pensate che Mister Lendl, nell’anno in questione, aveva perso solo contro McEnroe, fatta eccezione un paio di ritiri. Ma il nostro “mostro” non aveva perso mai. Mai. Quarantadue partite, quarantadue vittorie. Per chi ancora ignorasse di chi stiamo parlando, John McEnroe è quel tipo che fu in grado, primo nella storia del più celebrato tra i tornei di tennis Wimbledon -, di conquistare le semifinali partendo con l’handicap delle qualificazioni. Era da poco diciottenne, a quel tempo, e la sua aria da ribelle trovava degno sfogo nella massa riccioluta rossa come il fuoco, che tradiva le sue origini irlandesi. Ma McEnroe, da qualche buonanima di collega ribattezzato SuperMac, è un oceanico di razza pura, nato solo per caso in Eurasia. Nella ex-Germania Ovest,
figuratevi… Adesso il nostro ha smarrito lungo il percorso qualche capello mentre la sensibilità che il braccio sinistro trasmette alla racchetta è aumentata in proporzione, fino a raggiungere livelli insopportabili. Per gli avversari. E l’esangue, filiforme Ivan Lendl rappresenta l’avversario per antonomasia. Da schiacciare. La finale è durata poco più di due ore e John l’ha largamente dominata, fatto salvo il terzo set nel quale il malcapitato rivale ha avuto la forza di reagire e rendere meno amara la sconfitta. Enorme il divario di classe tra i due, con il nostro campione che ha saputo unire il dilettevole per sé e per il pubblico, che ha mostrato di apprezzare tutto il repertorio di McEnroe all’utile e l’eurasiatico che ha necessariamente raccolto ciò che gli è stato concesso. Rapidi i primi due parziali per McEnroe (6-3 e 6-2 in poco più di sessanta minuti) che ha subìto la reazione di Lendl (6-4) prima di tornare padrone del campo e chiudere 6-2 il quarto. John McEnroe non aveva mai vinto al Roland Garros e in questo 1984 è ancora imbattuto. Difficilmente qualcuno potrà fare meglio nella storia di questo sport. Questo invece è il testo originale. È stata una grande sfida, che ha rinsaldato i rapporti di lealtà tra due potenze amiche, ed è stato bello assistere in diretta a un avvenimento così emozionante. Nella finale del torneo di tennis del Roland Garros, John McEnroe e Ivan Lendl non hanno giocato solo per se stessi, bensì per i rispettivi popoli che rappresentano: oceanico il primo, eurasiatico il secondo. Inutile nascondere la punta di amarezza che alla fine si è fatta strada negli animi di noi
dell’Oceania, ma la fierezza e la virtù che albergano sempre nei nostri cuori e nei nostri cervelli ci hanno permesso di tenere lontano lo sconforto e tributare il giusto merito al nostro avversario. John McEnroe era il favorito. Aveva vinto tutti e quarantadue gli incontri disputati in questo anno solare e nelle cinque occasioni che aveva affrontato il suo avversario di ieri lo aveva sempre sconfitto con autorità. Ivan Lendl era lo sfidante e l’Eurasia puntava molto su di lui, nonostante le ripetute delusioni del passato avessero in parte incrinato la fiducia e il sostegno dei suoi tifosi. Quando la posta in palio si alzava, il pallido Ivan diveniva pavido, incapace di sostenere sulle quadrate spalle il peso della responsabilità. Era già successo quattro volte nelle finali dei tornei che un tempo venivano identificati come major o slam. E c’erano tutti i presupposti affinché questa fosse la quinta. Erano di fronte due modi assolutamente opposti di intendere la disciplina del tennis. Fantasia, classe, tocco e imprevedibilità McEnroe; potenza, regolarità e concretezza Lendl. Volendo, c’era un particolare nell’abbigliamento dei due contendenti che simboleggiava le caratteristiche appena citate. Mentre l’eurasiatico si presentava in campo con gli avambracci fasciati da due rassicuranti e robuste polsiere, il nostro non indossava nulla del genere, quasi potesse, quella spugna elastica, contenerne in qualche modo l’irrefrenabile estro. Sole, 82°farenheit e umidità di poco superiore al 50%; queste le condizioni atmosferiche all’interno del campo centrale, gremito tutt’attorno da diciassettemila spettatori elettrizzati per l’importanza dell’evento.
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La finale prendeva il via alle 15:26 e fin da subito si atteneva con estremo puntiglio alle regole tattiche imposte dai due grandi rivali. McEnroe avanzava nel campo e tendeva a guadagnare centimetri di terra rossa verso la rete; Lendl invece prediligeva correre in laterale, quasi che la linea di fondo fosse un binario entro il quale muovere le sue lunghe gambe. Altra importante differenza: ogni volta che ne aveva la possibilità, il nostro era seriamente intenzionato a intercettare la palla prima che questa toccasse il terreno di gioco dove invece l’altro amava farla rimbalzare e dunque ponderare maggiormente sul da farsi. Come un ballerino, McEnroe preparava i suoi colpi alzandosi il più volte sulle punte delle scarpe, alla leggiadra ricerca dell’anticipo. Ci riusciva divinamente nella doppia volee di rovescio con cui conquistava il 30-0 nel terzo gioco e di nuovo trenta secondi più tardi, quando seguiva a rete il servizio e si toglieva la palla dal petto accarezzandola con le corde molli della sua Dunlop per indirizzarla laddove il suo rivale poteva raggiungerla solo con lo sguardo mesto. Però Lendl non stava certo a piangersi addosso e tirava fuori il meglio di sé. Ad esempio nel passante in corsa di dritto che lo portava sul 40-15 nel quarto gioco, preludio alla parità che arrivava di lì a qualche secondo: 2-2. Tra le tante anomalie che caratterizzano il gioco di John McEnroe, la posizione che egli stesso assume per eseguire il servizio è quanto di più antitetico alla didattica di base si possa immaginare. In pratica l’oceanico porge le terga all’avversario e colloca il piede destro parallelo alla linea di fondo e quello sinistro a disegnare un angolo di circa 60/65°; prima di lanciare la
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pallina in aria, lascia cadere il busto verso il basso mentre entrambe le braccia oscillano quasi impercettibilmente. Da lì, con un movimento tanto rapido quanto armonioso, inarcando la schiena e spostando il peso sulle ginocchia flesse, trasferisce la palla verso il cielo e con la racchetta la colpisce indirizzandola nel rettangolo di battuta dell’avversario con il solo scopo di crearsi le migliori condizioni per eseguire la volee. In questo modo, con battute illeggibili per Lendl, il nostro si portava sul 3-2 ma era nel sesto game che la partita prendeva la prima piega importante. L’eurasiatico sciorinava insospettabili doti di tocco chiudendo di mezzo volo lo scambio del 15-15, poi scaraventava inopinatamente in rete una schiacciata impossibile da sbagliare e, sul pari-30, scopriva la guardia alla risposta di McEnroe che non si faceva pregare per attaccare in contro-tempo e mettere a segno il break: 4-2. La qualità eccellente del gioco veniva alimentata da entrambi i contendenti, come dimostrava nel primo quindici del game
successivo la risposta in allungo con cui Lendl vanificava l’attacco del rivale e collocava la palla nell’unico spicchio di campo in cui McEnroe non sarebbe mai arrivato. Ma il vantaggio dei mancini è anche quello di servire i punti dispari dalla parte che preferiscono, la sinistra, in modo da sfruttare la traiettoria ad uscire sul rovescio dei destri, costretti loro malgrado a spostarsi di lato per impattare la risposta. Se quest’ultima non è vincente, e su queste battute non è quasi mai vincente, la volee del battitore diventa un gioco da ragazzi. Così l’oceanico si toglieva due volte dalle secche mentre il punto del 5-2 arrivava con l’ace al centro. Un’altra interessante differenza nella filosofia di gioco tra McEnroe e Lendl risiede nel punto d’impatto sulla palla. Il nostro la colpisce mentre sale e quindi anticipa, mette fretta. L’altro attende che scenda, rischia meno ma consente all’avversario di organizzarsi. Nel secondo punto dell’ottavo gioco, la prima di Lendl veniva chiamata out dal giudice di sedia e l’ex-cecoslovacco, pur accettando la decisione, chiedeva a Dorfmann con fare minaccioso se per caso avesse paura di McEnroe. Uno sfogo quasi incomprensibile, che tradiva il nervosismo dell’eurasiatico, bravo però a recuperare da 0-30 e portarsi 3-5 su una stop-volley troppo “stop” che si fermava sulla Dunlop di John McEnroe. L’oceanico serviva per il primo set nel nono game, risaliva da 0-30 non prima di aver malamente affossato in rete una volee di rovescio che non sbagliava dal ‘77 e infine chiudeva il quarto punto consecutivo allungandosi sulla sinistra e bloccando di volo un buon tentativo di passante di Lendl: 6-3. All’inizio del secondo set, sul 40-0 in suo favore, Lendl commetteva un peccato
capitale andando a sfidare McEnroe sul terreno infido delle finezze: una sua smorzata di dritto veniva intuita dall’examericano che scivolava leggiadro sulla terra del Roland Garros e si produceva in una contro-smorzata taglia gambe. Sembrava un punto qualunque; sembrava soprattutto che Ivan potesse contare ancora su un buon margine di vantaggio e invece John si aggrappava a quel piccolo quindici per infilarne altri quattro consecutivi in cui evidenziava una chirurgica lucidità nella scelta del tempo d’attacco. Avanti di un set e un break, il nostro sembrava intoccabile. E lo era, in ogni fase del gioco. Anche quando rovesciava la propria tattica, come nel terzo gioco, invitando Lendl a venire a rete con palle morte a metà campo per poi infilarlo con il passante di rovescio. Una superiorità indiscutibile, sancita dal secondo break (3-0) e evidenziata dal ciuffo disperatamente madido di sudore dell’eurasiatico, che si guardava intorno con aria smarrita durante il cambio di campo. Ben intenzionato a battere il ferro caldo, McEnroe incamerava un altro servizio a zero chiudendolo con una combinazione da far vedere e rivedere mille volte nelle scuole tennis: servizio a uscire seguito dalla volee bassa incrociata di rovescio che depositava la palla a un metro dalla linea laterale, rendendo vana la corsa affannosa di Lendl. Poi il nostro amministrava lo score e in un’ora appena abbondante di lezione saliva a condurre due set a zero: 6-3/6-2. Come nel cielo azzurro di Parigi non si vedeva una sola, anche piccolissima nube, così pure in terra non sembrava che Ivan Lendl potesse in qualche modo scalfire la
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baldanzosa sicurezza della sua nemesi tennistica. Il ragazzino che avesse voluto avvicinarsi allo sport della racchetta prendendo McEnroe quale riferimento avrebbe commesso un errore grossolano, per quanto del tutto comprensibile. Perché il tennis del nostro non è imitabile, quantunque egli lo interpreti con una semplicità apparente e per questo ingannevole. La velenosa palla corta vincente di rovescio con cui John si portava 40-0 nel terzo game del secondo set, giocata da metà campo, aggiungeva un’istantanea al nutrito album di prodezze dell’oceanico e
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aumentava la frustrazione del suo avversario. Eppure, nonostante il dominio, McEnroe stava sempre a braccetto con il suo peggior nemico: il nervosismo. Così, sul 15-30 del gioco seguente, sparava in rete un drittaccio dopo aver disegnato il campo come Giotto al solo scopo di fiondarsi come una furia su un fotografo e requisirgli per un attimo l’attrezzo di lavoro. Lendl approfittava del calo di concentrazione del rivale per risalire la china e strappare gli applausi del pubblico dopo aver incamerato con la volee di rovescio un punto clamoroso, in cui l’eurasiatico si era prodigato a rincorrere smorzate e pallonetti. Ecco: se c’era un punto identificabile come
spartiacque dell’incontro, era proprio quello che mandava Lendl al cambio di campo in vantaggio 2-1 e con la ferma convinzione di poter invertire la rotta. Come una laboriosa formichina, Ivan metteva a fuoco la risposta e si guadagnava le prime opportunità di strappare il servizio a McEnroe, peraltro annullate dall’ex-americano con la solita classe. Così, sfumata la possibilità di irrobustire il vantaggio, Lendl si faceva aggredire nel quinto gioco e vedeva il burrone sotto i suoi piedi. Attacco in controtempo del nostro e volee di rovescio: 0-40 e tre mini matchpoint. McEnroe sbagliava nei primi due e nel terzo finiva per le terre, vanamente proteso
ad intercettare il passante incrociato dell’avversario. Ce n’era anche un quarto, ma il rovescio di John si prendeva una vacanza e alla fine Lendl rimaneva con anima e corpo dentro la finale: 3-2. Ogni minuto che passava portava acqua fresca al mulino di Lendl e venefiche tossine nelle gambe di McEnroe. L’improvviso caldo scoppiato a Parigi favoriva il maratoneta eurasiatico e insidiava i muscoli elastici dell’oceanico, bisognoso di freschezza per alimentare il genio che è in lui. Infatti, Lendl si appropriava del servizio di John grazie a una robusta risposta doppiata dal fulminante passante di dritto e saliva 4-2. Adesso anche i capelli di McEnroe apparivano bagnati e a poco valeva che il nostro, alternando dritti profondi a rovesci corti e lenti, riequilibrasse subito il conto dei break: il monologo era diventato recita corale e Ivan stava prendendo consapevolezza delle proprie virtù. Le prodezze del nostro continuavano a meravigliare il pubblico, peraltro incline per natura alla battaglia e quindi desideroso di maggiore equilibrio, e sortivano lo sgradito effetto di elevare la qualità delle soluzioni in dotazione a Lendl. McEnroe pareggiava (4-4) affidandosi alle variazioni di dritto un drop-shot accompagnato con la mano e un tracciante anticipato da fondo campo ma Ivan insisteva sul rovescio del mancino e tornava avanti di un game, garantendosi ancora qualche minuto di speranza. Costretto a servire per salvare il set, John McEnroe scopriva suo malgrado che il cilindro del rivale conteneva un paio di conigli di rara bellezza tecnica sotto le sembianze di altrettante risposte di rovescio e in un baleno l’ex-cecoslovacco era 15-40; l’allettante, per lui, prospettiva di allungare la contesa stava diventando realtà. Ivan non indugiava nemmeno un
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attimo sulla palla incerta di McEnroe e lo attaccava, costringendolo ad affossare in rete il passante: 6-4 e due ore di gioco. Iniziava qui il peggior incubo del nostro campione, mentre il sogno di Lendl poteva prendere forma. La fiducia è benzina per il coraggio e Ivan lo sapeva bene. All’inizio del quarto set, un delizioso lob di dritto, un rovescio vincente e un ace lo mandavano subito avanti e McEnroe si vedeva costretto agli straordinari per tenere la battuta nel secondo game. Ecco cos’era cambiato: adesso il nostro doveva estrarre il meglio di sé, come la rasoiata di rovescio che gli dava l’1-1, per rimanere agganciato a Lendl. Non più per distanziarlo di chilometri. Però l’eurasiatico non poteva distrarsi un attimo che subito il talento di McEnroe ristabiliva le distanze. C’era un primo break per John, ma Lendl vanificava il tentativo di fuga dell’oceanico con un paio di gioielli rari (un lob all’incrocio delle righe e una risposta di dritto che passava laterale al paletto e rientrava miracolosamente in campo). Due
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ace non compensavano tre brutti errori e Ivan cedeva di nuovo la battuta (2-3); stavolta il nostro confermava il break, tornando per qualche minuto quello irresistibile di inizio contesa proprio quando Lendl pareva all’improvviso afflitto da un calo di motivazioni. Sul 30-30 del settimo gioco, McEnroe aveva sulle corde la volee che avrebbe potuto spezzare in due la finale ma i minuti di gioco e i gradi di temperatura si facevano sentire e la ghiotta occasione sfumava. Per non tornare più. Costretto a cambiare racchetta sulla palla del 3-5, Lendl trovava nel nuovo attrezzo un alleato fedele e due terribili risposte incrociate di rovescio lo rimettevano in corsa. Da quel momento, il gioco seguiva fedelmente i servizi e il centrale di Parigi si trasformava nel Colosseo, anche se non era possibile intuire chi fosse la fiera e chi il cristiano da sacrificare. Quando il tie-break pareva la soluzione più ovvia, il 12° gioco prendeva una brutta piega per McEnroe che smarriva più volte la prima e sulla seconda si offriva ai passanti di Lendl. Sulla seconda palla-break, la volee di dritto del nostro non era definitiva e lo sguardo eloquente con cui seguiva la parabola del pallonetto vincente di Lendl era tutto un programma. Tre ore di gioco e due set ciascuno, ma la bilancia del Roland Garros ora pendeva dalla parte dell’eurasiatico. Lendl si portava per la prima volta in vantaggio tenendo il gioco d’apertura della quinta partita e la fatica non annebbiava più di tanto le idee ai protagonisti. I numeri di McEnroe a rete e il fitto bombardamento di Lendl da fondo campo erano sale e pepe di una finale memorabile che stava cambiando padrone. Tuttavia, a questo punto della disputa, gli intenditori di questo sport si sarebbero
equamente divisi nell’indicare un favorito per la vittoria. A parità di stanchezza, il tennis “facile” di McEnroe pareva potersi esprimere con minor sforzo rispetto alle laboriose trame del suo avversario ma l’evidenza tecnica si concentrava nel colpo che più di ogni altro avrebbe condizionato il gioco del nostro campione: il servizio. Con la prima in campo, merce però divenuta assai rara e preziosa, John trovava il tempo dell’attacco; sulla seconda invece, a cui doveva ricorrere sempre più di frequente, era costretto a scambiare e quando finalmente guadagnava la via della rete, lo faceva in debito di lucidità. Nel quarto gioco, Lendl aveva due occasioni per il break ma se le giocava male e alla fine, non senza enorme sofferenza, McEnroe impattava sul 2-2. Due game interlocutori e, nel settimo, quel tram chiamato desiderio passava per l’ultima volta dalle nostre parti. Dal vaso di Pandora dell’oceanico usciva un morbido passantino di rovescio per il 15-30 e un minuto dopo Lendl sbagliava un dritto di pura stanchezza: due palle-break che assomigliavano ad altrettanti match-point. Sprecata la prima, sulla seconda Ivan azzardava un attacco poco convinto ma veniva graziato dal passante in rete dell’examericano. Era l’ultima corsa per il paradiso e, anche se John McEnroe si inginocchiava disperato sul centrale, lassù più nessuno avrebbe ascoltato i suoi appelli. Meno che mai il suo rivale, rinfrancato dal succedersi degli eventi tanto da prodursi prima in una ostica volee bassa vincente e infine nella soluzione che Lendl si porta da casa, il passante in corsa. Arriveranno altri gioielli a corredo della sfida ma, con l’avvicinarsi della quarta ora, l’eclissi del genio si farà irreversibile. Costretto a rincorrere nel punteggio, il nostro si
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manteneva nei pressi di Ivan fino al dodicesimo gioco quando i decimi di secondo di ritardo con cui conquistava la rete spalancavano la porta ai passanti dell’eurasiatico. Sulla situazione di 5-6 e 15-40, dunque con due palle del titolo da salvare, McEnroe ci illudeva con un efficace serve-volley ma nel punto seguente accompagnava in corridoio la volata di dritto a campo aperto. Finiva così, in modo del tutto diverso da com’era iniziata, ma lo sport è anche questo e dobbiamo rendere merito al valore di Ivan Lendl, bravo soprattutto a non farsi travolgere dalla prima ora di tennis impossibile messo in mostra dal nostro campione.
Siamo certi che a McEnroe non mancheranno le occasioni per vendicarsi di questa inattesa sconfitta, che peraltro non scalfisce anzi, forse ingigantisce la considerazione che il Grande Fratello ha di lui. Ecco, questo è quanto avreste letto all’indomani di quella partita. Io c’ero e
posso confermare. Winston sapeva e non avrebbe voluto nascondere la verità, per quanto amara essa sia. Ci ha provato a ribellarsi ma il sistema l’ha manipolato e indotto alla resa. Quando ci trovavamo di nascosto alla Confraternita, parlavamo un po’ di tutto e io ero uno dei pochi di cui si fidasse. Mi aveva confidato di avere due passioni: Julia e il tennis. Dell’amore tra lui e Julia sapete già tutto. Ciò che forse non potevate immaginare era il suo interesse per il tennis. Avrebbe dato qualsiasi cosa per raggiungermi a Parigi, quella domenica di giugno. Ecco perché non voleva riscrivere quell’articolo. Era un giusto, Winston. Anche se McEnroe era il suo idolo, diceva che bisognava accettare il verdetto del campo e che Ivan Lendl diventerà un campione. Può essere. Sarà il futuro a stabilirlo. Ma, mi domando, quale futuro? Chi controlla il passato controlla il futuro. E chi controlla il presente controlla il passato. Winston sapeva che il Grande Fratello non l’avrebbe perdonato ma ci ha provato lo stesso a ribellarsi. E ha perso. Se per caso vi capitasse di incontrarlo al Bar del Castagno, non evitatelo. Non se lo merita. Ma non chiedetegli nemmeno di quel Lendl-McEnroe del 1984 a Parigi. Lui adesso è convinto che abbia trionfato il nostro. Ma non è vero. Ha vinto Lendl in cinque set ed è stata una grande partita. Forse la più bella di sempre. Parola di Joseph Malden. Che quel giorno era uno dei 17 mila.
Quando Sam Querrey azzeccava la fatidica giornata ed estrometteva in un apparentemente anonimo terzo turno Novak Djokovic da Wimbledon, la sensazione avvertita era la medesima un po’ per tutti: quella del sogno infranto, dell’impresa-Grande Slam riposta nel cassetto. Un rinvio, quello dei quattro Major nello stesso anno, che pare sempiterno con l’antesignano Laver mai più superato. S’era avvicinato Federer più volte, fermandosi però sempre a Parigi con quel diavolo di Nadal e, quando ha festeggiato il Roland Garros nel 2009 con tanti ringraziamenti a Soderling, era
SI È OSCURATA LA VALLATA-DJOKOVIC Federico Mariani
arrivato a Bois de Boulogne dopo la cocente sconfitta di Melbourne, quella del “this is killing me” tra le lacrime nella Rod Laver Arena. E quindi ecco Djokovic che, dopo la “canonica” vittoria australiana, riusciva a sfatare il tabù Parigi dominando il torneo. Il difficile è alle spalle, si pensava. Il serbo aveva impresso al circuito un dominio talmente asfissiante da apparire noioso, tanto erano scontate le sue vittorie. Com’è cambiato l’orizzonte in appena dodici mesi, come si è oscurata la vallata del regno di Novak, passato dal detenere tutti e quattro gli Slam a perderli in successione uno via l’altro fino ad arrivare al capitombolo
parigino, una stesa clamorosa subita da Dominic Thiem, lo stesso scherzato qualche settimana fa a Roma 6-0 6-1 e distrutto lo scorso anno in semifinale proprio al Roland Garros. Anche il ranking ha cominciato a infierire ed evidenziare una crisi profonda già palese: la cambiale non rispettata a Parigi unita agli ottimi tornei di Nadal e Wawrinka - costa a Nole uno scivolone di due posizioni fino al numero 4 del ranking. Fa impressione costatare che l’ultima volta fuori dai primi due è lontana 325 settimane, un’era fa. Le sconfitte non hanno lo stesso sapore, così come differisce il modo di perdere, e il 6-0 subito nel terzo set contro Thiem è un inequivocabile segnale di una rottura interna del ragazzo. Una non-reazione incredibile, una non-volontà di ribellarsi che poco si confà al blasone del giocatore. A Djokovic manca serenità, è evidente, e le cause vanno rintracciate verosimilmente fuori dal rettangolo di gioco. Non ha suscitato effetti la collaborazione-lampo con Andre Agassi, e del resto sarebbe stato pretenzioso attenderli già a Parigi, mentre in tale contesto difficilmente si spiega la scelta di liquidare in blocco lo staff storico, quello zoccolo duro che ha svezzato Djokovic fino a portarlo sul tetto del mondo. Sul divorzio, da quanto trapela, pesa la scelta di inserire in pianta stabile nel team il guru del pace&amore Pepe Imaz, maldigerito sicuramente da Boris Becker e probabilmente anche da Marian Vajda. In ultimo, durante il Roland Garros s’è rincorsa la voce di una possibile e ulteriore collaborazione con Radek
Stepanek, sulla carta giocatore ancora in attività, che da tempo ha un rapporto di amicizia con Nole e che pare rispondere all’identikit elaborato dallo stesso Djokovic “un coach giovane che possa stare in campo con me”. Se da una parte è vero che il miglior coach è una combinazione tra il tecnico “di campo” e l’ex campione, capace di dare pochi ma determinanti consigli in situazioni da lui già vissute, dall’altra parte difficile far coesistere nel caso di Nole il marasma di personalità tutte differenti che orbitano attorno al giocatore. Manca ordine, gerarchia, consapevolezza. Quindi, che fare? Estremamente difficile impersonare Djokovic in questo momento. Ufficialmente, il serbo tornerà a Wimbledon bypassando i tornei di adattamento sull’erba leggasi Halle e Queen’s per i big
come del resto ha quasi sempre fatto nella sua carriera. Dopo la debacle parigina, qualche media aveva caldeggiato al belgradese una pausa lontano dai campi per chiarirsi e ritrovarsi con la speranza di bissare gli effetti portati a Federer e Nadal che, dopo la fermata ai box, sono tornati scintillanti quest’anno. D’altro canto, tuttavia, nella fugacità delle carriere sportive lasciare andare senza che vi siano infortuni dietro anche solo un paio di Slam a trent’anni suona come un delitto. Che la vittoria del Roland Garros e il conseguente completamento del tanto agognato Career Grand Slam abbia saziato gli appetiti del campione serbo? Se fosse così, Nole farebbe bene a fermarsi per cercare dentro di sé nuovi stimoli. Ma se avesse ancora fame come ci si auspica vista la portata storica e il blasone del giocatore allora no, Djokovic dovrebbe continuare la corsa e riprendere la retta via, quella che porta alla storia del Gioco.
Intervista a Paolo Lorenzi, che svela il segreto della sua longevità Niccolo' Inches
Parigi Incontriamo un sorridente Paolo Lorenzi al termine della sua vittoriosa terza uscita in doppio (in tandem con il brasiliano Dutra Silva) che lo ha proiettato per la prima volta nei quarti di finale del tabellone di un Grande Slam. Citando Andreas Seppi, “Credo sia normale [giocarlo] anche dal punto di vista economico, girano abbastanza soldi negli Slam”, ammette subito Paolino con la consueta spontaneità, “Però io ho sempre cercato di giocarlo. Mi piace, serve comunque per migliorare, si possono giocare più volée e non si sa mai in chiave Davis... come quando sono stato schierato contro l’Argentina (in Davis a febbraio, ndr)”. EXPLOIT E ONERI Doppio a parte, la notizia vera di quest’edizione del Roland Garros è stata l’accesso di
Lorenzi al secondo turno del major rosso, traguardo raggiunto all’ottavo tentativo e che puntella ulteriormente il suo percorso di maturazione. Ma quanto è dura restare a questi livelli? Quanto pesa conservare una certa classifica o difendere (per la prima volta in carriera, tra l’altro) un titolo da campione uscente, come avverrà in estate a Kitzbuhel? “Il probema più grande non è difendere punti ma pensare a farne, vincere più partite possibile. Normale che in certi momenti dell’anno si faccia più fatica, ma per dirti quest’anno dovevo
difendere la semifinale a Quito (Ecuador, tappa Atp 250 ndr) e per poco non vinco il torneo [contro Estrella Borgos]. Semplicemente bisogna allenarsi per migliorare e cercare di vincere”. Dopo il Roland Garros, Lorenzi ha in programma di volere a Caltanissetta dove gli organizzatori del Challenger locale gli hanno riservato una wild card. La circostanza ci permette di affrontare un tema che tradizionalmente riguarda parecchi tennisti italiani: una certa tendenza quasi una “comfort zone” a preferire la partecipazione ad eventi minori, magari in Italia,
piuttosto che rischiare le qualificazioni in tornei più prestigiosi o su altre superfici. “Nel mio caso è diverso, Caltanissetta è il primo torneo che gioco in italia quest’anno (avendo saltato Roma per infortunio, ndr) e l’unico challenger, che tra l’altro è diventato un 150 mila”, replica Paolo, “Dal mio punto di vista è giusto alternare tornei grossi e altri minori, comunque Gaio ad esempio ha provato le quali in diversi tornei maggiori, così come Giannessi. Mi pare che la tendenza
stia cambiando”. NEXTGEN E NEXTCOACH Avendo menzionato Gaio e Giannessi, due con cui si allena a Tirrenia, è a questo punto impossibile eludere il capitolo-futuro. A conferma di quanto anticipato qualche giorno fa dopo l’esordio vittorioso con Berankis, Paolo ci conferma la sua aspirazione a “produrre tennis”... fuori dal campo, nelle vesti di coach. Già, ma qual’è il giovane azzurro che vorrebbe allenare? “Un nome solo non lo posso fare, anche perché
non saprei farne”, glissa prevedibilmente lui, “Li vedo ancora come avversari. In ogni caso mi piace dare una mano ai giovani italiani, già da ora negli allenamenti. Più ce ne sono tra i primi 100 è meglio è per il tennis italiano. Ma se ora aspettano a battermi mi fanno un favore (sorride, ndr)”. Fuori dal territorio nazionale, invece, Lorenzi non nasconde di metterne alcuni su un piedistallo: “Tra gli stranieri ce ne sono tantissimi che mi piacciono, su tutti Zverev,
Kyrgios, Khachanov (che ha battuto Berdych qui a Parigi, ndr)”. Qual è invece la parte del gioco su cui coach Lorenzi lavorerebbe con più insistenza? “Nel tennis di oggi le cose sono molto cambiate, ma direi che il servizio è diventato il colpo più importante. Fino a qualche anno fa non era così. Anche i cosiddetti NextGen sono molto competitivi dal quel punto di vista, prendi sempre Zverev, Kyrgios, lo stesso Fritz. Quella ormai è la chiave del gioco”. A proposito di NextGen, che ne pensa il Lorenzi (ancora) giocatore sulle regole innovative del torneo in programma a Milano a novembre? “A mio parere il set a 4 giochi è ridicolo. Già era stato provato (alle esibizioni IPTL, ndr) e non mi pare una gran trovata. Il fatto di consentire agli spettatori di muoversi durante le partite, poi, rappresenta un cambio di mentalità, dato che il tennis è sempre stato uno sport di élite. Bisognerebbe provarlo, per ora fa strano pensarlo. Forse la novità del coaching, anche a
distanza, la vedo più fattibile... a gesti certe cose già si fanno adesso (sorride). Le altre novità però sono esagerate”.
mentre mi alleno! (sorride) Forse quello in cui sono più bravo degli altri è la ricerca a migliorarmi ogni volta di più.
SI VIVE DI SOLO TENNIS (GIOCATO) Lorenzi coach potenziale, Lorenzi “fratello maggiore” per i giovanissimi, Lorenzi esempio di impegno e sacrificio per tutto il movimento italiano. Ma non è un’etichetta che comincia a star stretta? “Pensare che la gente mi considera un esempio mi fa piacere, ma quello che dico sempre è: non è che gli altri stanno in vacanza
Infatti dal punto di vista tecnico gioco sempre meglio”. Passando dai giovani ai “vecchietti” del movimento di casa nostra, Lorenzi parla dei suoi compagni d’avventure di Coppa Davis e fa sua la definizione che avevano coniato Fabio Fognini e Andreas Seppi relativamente al loro rapporto: “Credo che sia normale, la definizione di amici professionali mi pare un buon compromesso”,
spiega Paolo, “Vero, passiamo del tempo insieme ma ognuno poi ha il suo coach e restiamo avversari nei tornei. In vacanza ci vado con i vecchi amici. Possiamo far serate, ma quando si hanno momenti liberi dal circuito li passo con gli amici d’infanzia”. Per restare nell'ambito dei veterani azzurri, non si poteva non chiedere un parere sulla vicenda Francesca Schiavone e la wild card negata agli Internazionali di Roma. Paolo però, come si dice in politichese, ammette di
“non conoscere le carte”: “Io sinceramente ero in America, mi ero fatto male. Ho seguito marginalmente il caso. Non so cosa sia successo tra lei e la Federazione”. Il senese ci offrirà poi indirettamente la controprova della sua condotta “monastica”, tutta tennis&abnegazione, quando gli chiediamo un parere sull’idea di boicottare (e ribattezzare) la Margaret Court Arena dopo le frasi anti-gay dell’ex campionessa australiana: “Non apro i siti di tennis”, fa
simpaticamente spallucce Lorenzi, “Sinceramente negli spogliatoi non parliamo di queste cose... Non ho seguito nulla, non saprei”. AUSTRALIA FELIX A proposito di Australia, Paolo non mostra invece alcuna reticenza quando gli chiediamo quale sia il suo Slam preferito: “A me piace Melbourne. Fa caldo, certo è lontana ma come organizzazione è spettacolare”. E sulla partita d’addio al circuito dei sogni, tra una sfida a Nadal sul Philippe Chatrier del Roland Garros e un
incontro con Federer nel Centrale di Wimbledon... “Sceglierei una partita più facile! (ride). Probabilmente però prenderei Wimbledon”. A forza di evocare il suo ritiro, magari la carriera di Paolino si allunga e magari riuscirà davvero a disputare il torneo olimpico del 2020, come
sperato. D'altra parte, tutto il resto può attendere, anche se... “La paternità? Adesso non l’ho messa in conto, ci godiamo il matrimonio (ride, ndr). In futuro vediamo, è una cosa che mi piacerebbe”, e su un’ipotetica carriera in cabina di commento, come sperimentato da alcuni suoi colleghi, il nostro si
mostra possibilista: “In questo momento mi piacerebbero tante cose... quando smetto dovrò tenermi occupato! La priorità sarebbe allenare, ma non escludo nulla”. Niccolò Inches inviato al Roland Garros per Tennis World Italia .
Jelena Ostapenko, il sorriso della sfrontatezza Giorgio Perri
Non è necessario, né tantomeno prolifico, affidarsi alla retorica per raccontare una storia. L'infausta discrepanza tra realtà e destino gioca brutti scherzi e - soprattutto non traccia linee concrete. Trovare degli incastri è compito arduo, cercare delle premesse lo è ancor di più. E allora si possono fare dei piccoli passi indietro, ci si può crogiolare nella nostalgia: quando Ivan Gotti interrompe un dominio straniero di 5 anni e riporta il Giro d'Italia nelle grinfie della madre-patria, Guga Kuerten - alla prima finale in carriera - disegna passione sulla terra di Bois de Boulogne e acciuffa il primo (storico) titolo proprio al Roland Garros. È l'8 giugno quando il mistico si unisce all'incredibile, quando - a Riga viene alla luce Jelena Ostapenko, figlia di Jevgēnijs - ex portiere del Metalurh Zaporizhya - e Jeļena Jakovļeva. Quello del 2017, a Parigi, doveva essere il torneo delle certezze, delle sorprese, delle conferme e delle prime volte. Lo è stato, sì, forse più di quanto ci si aspettasse. Parigi ha confermato e certificato l'inenarrabile indecisione che circonda il tennis femminile e giustificato - qualora ce ne fosse bisogno - l'impellente necessità di una padrona. Lo Slam parigino si è altresì fatto teatro di coppe-e-di-campioni: ha dato la Dècima a Nadal, ma ha ridimensionato la qualità della flotta azzurra e sgretolato - poco a poco tutte le convinzioni delle favorite (o presunte tali) fino a far emergere dalla
penombra un sorriso nuovo. Il sorriso della sfrontatezza, della spregiudicatezza, dell'incoscienza. Ma della favola di Jelena Ostapenko - se può ritenersi tale - non sorprende totalmente il risultato: a sorprendere è il modus operandi, la concretezza, la sensibilità. Prendendo il pacchetto di mischia della classe 1997, composto anche da Ana Konjuh e Daria Kasatkina, sbilanciarsi - se non altro prima del Roland Garros - sarebbe stato quanto meno azzardato. Di favorite d'obbligo, comunque, ce n'erano poche. La già faticosa marcia di Simona Halep verso la finale aveva dato un'idea, le disfatte di Kerber e Muguruza avevano silenziosamente fatto un buco nell'acqua. "E allora chi?" Jelena Ostapenko è riuscita dove tante troppe - prima di lei avevano fallito. Di contro - se si analizzasse il gioco della lèttone da un punto di vista prettamente tattico - trovare delle falle sarebbe fin troppo facile. Lo sarebbe anche giustificarsi.
Perché di dubbi sul talento quasi non ce n'erano. I dubbi - soprattutto dopo la non brillantissima stagione sulla terra viaggiavano quasi tutti su altri lidi: dalla gestione del match alla tenuta mentale, dalla poca stabilità negli scambi prolungati alla scarsa capacità di variare con il rovescio. Jelena Ostapenko, però, sa fare male con i due fondamentali e sa trovare gli angoli con una semplicità disarmante. In egual misura sa quand'è il momento di attaccare, quand'è giusto difendere. Nel tennis 2.0 ha trovato le chiavi per sopperire a gravi mancanze - evidentemente del tutto irrilevanti - nella migliore maniera possibile, con coraggio e autorità. Non avere paura è una scelta, non una necessità.
un mondo - quello del tennis femminile poco variegato ed eccessivamente statico. I mezzi tecnici per apportare decise migliore a un tennis potente e preciso ci sono: le basi per scalare la vetta pure. Il Roland Garros ha coronato una regina inusuale, atipica, distante dai canoni di un regolarismo catalizzatore, delle Kerber e delle Halep. Una regina che preferisce le superfici rapide, che a Wimbledon - nel 2014 - aveva portato a casa il trofeo più importante quand'era poco più di una bambina. Una regina sorridente, nata in un giorno importante per la storia del tennis, un giorno che nessuno - a vent'anni di distanza - avrebbe mai pensato di poter rivivere con la stessa e identica passione.
I margini di miglioramento, a patto che i punti forti rimangano tali, sono praticamente immensi. Se dovesse migliorare dal punto di vista fisico, trovare una maggiore solidità in battuta e aggiungere qualche variazione in più con il rovescio, la lettone potrebbe pericolosamente penetrare nelle viscere di
Tra le innumerevoli conquiste parigine, Jelena Ostapenko è diventata anche la prima lèttone della storia a trionfare in un torneo dello Slam. La prima unseeded a vincere il Roland Garros. La prima, forse, a tracciare le linee di un domani possibile.
Il tennis non ha mai avuto troppo spazio sul grande schermo, ma con diverse storie che probabilmente bollono in pentola, direttori e produttori sembrano desiderosi di romanzare e rendere più popolare questo sport. Con l'uscita del film “Battle of the Sexes” (“La battaglia dei sessi”) prevista per il 2017, abbiamo scelto alcuni dei film sul tennis usciti negli anni Novanta. In amore nessuno è perfetto (1990) - È la storia di un tennista che gioca per la scuola e si innamora di una giocatrice interpretata da Gail O'Grady. Per esserle più vicino, si
Tennis e cinema Akshay Kohli
finge donna. Alla fine, riescono a disputare in coppia un match di doppio che finiranno per vincere al tiebreak del terzo set. Mr.Deeds (2002) In questa pellicola John McEnroe interpreta se stesso in un cameo e convince il protagonista che dà il titolo al film, interpretato da Adam Sandler, a dedicarsi al tennis. Wimbledon (2004) È una commedia romantica e l'unico ritratto cinematografico del famoso Slam inglese. Paul Bettany interpreta il ruolo di Peter Colt, un tennista inglese sui trent'anni scivolato in classifica dal numero 11 al 119 del mondo. Ottiene una wildcard per Wimbledon dove incontra
Lizzie Bradbury, interpretata da Kirsten Dunst, la nuova stella del tennis statunitense. Si innamora di lei e questo cambia il suo punto di vista sulla vita. Gli restituisce anche il desiderio di vincere. Con molte scene di gioco e un match intenso, appassionante, il film compare anche nella lista di preferiti di Kim Sears, la moglie di Andy Murray che, a quanto pare, invece non ha mai visto film sul tennis. Tennis, Anyone...? - Realizzato nel 2005, è la storia di due amici che cercano redenzione, riscatto e un senso alle loro vite attraverso tornei di tennis per celebrità. Tuttavia, l'unica salvezza del film è il ruolo di Jason Isaacs (il Lucius Malfoy della serie di Harry Potter) che interpreta una stella del cinema disonesta, arrogante e ipocrita Turn Around (2007) e Overcome (2008) Hanno quasi la stessa trama. Una giovane giocatrice promettente ha un incidente e il suo futuro sembra andare in pezzi. Ma alla fine riesce a raggiungere il suo obiettivo attraverso la riabilitazione, il lavoro duro e l'aiuto di uno dei ragazzi responsabili del suo infortunio. Unstrung (2008) È un documentario su sette promesse del circuito junior nella stagione 2005. Largamente prodotto da Jim Courier, contiene molte sequenze di gioco e i commenti di Pete Sampras, Andre Agassi, Andy Roddick, John McEnroe e Nick Bollettieri.
Come effettuare la palla corta Federico Coppini
La palla corta è, solitamente, uno dei modi migliori per uscire da uno scambio intenso e atleticamente dispendioso. Con questo colpo si spezza il ritmo del gioco per concluderlo: è un mezzo risolutivo. Da un punto di vista tecnico dovete seguire alcuni precisi punti:
Nascondete più che potete le vostre intenzioni. Fate finta di voler colpire un dritto o un rovescio normale, in modo che il vostro avversario non intuisca che state per rifilargli una palla corta;
Compite un movimento con la racchetta che và dall’alto verso il basso; Accarezzate la palla “di taglio” sempre dall’alto verso il basso e non colpitela direttamente. Tecnicamente parlando, la palla corta è un gesto tecnico molto semplice. Ciò che è davvero complesso è capire quando un colpo del genere và eseguito.
Quando?
La domanda è elementare: quando dovete effettuare una palla corta? palla
corta La risposta è altrettanto semplice: quando il vostro avversario è ben lontano dal campo. Se, per ipotesi, il vostro avversario si trova con i piedi ben dentro il terreno di gioco e vi sta
martellando in maniera aggressiva, quello NON è il momento adatto. Visto che è molto vicino alla rete, prenderebbe comodamente la vostra smorzata. Per esclusione, dunque, il momento migliore per effettuare una palla corta è quando il vostro avversario è ben lontano dalla riga di fondo. Essendo distante dalla rete le probabilità che arrivi sulla vostra smorzata sono assai ridotte. Chiaramente il vostro colpo deve essere ben eseguito e non rimbalzare a metà campo, altrimenti
sarà tutto inutile. Costruitevi dunque il punto con accortezza: cercate di buttare fuori dal campo il vostro avversario il più possibile e dopo infilzatelo con una palla corta. Un modo molto utilizzato per allontanarlo dalla riga è il topspin. Usatelo!
La solidità tecnica.. Quanto è importante per pianificare la tattica e la strategia? Federico Coppini
La solidità tecnica.. Quanto è importante per pianificare la tattica e la strategia? Prima di sviluppare qualsiasi tattica e strategia di gioco, devi già possedere delle buoni basi di gioco. Devi poi necessariamente essere in grado di giocare
con una buona profondità. Puoi considerare le cinque cose elementari che puoi fare in opposizione al tuo avversario: • Giocare sul lato sinistro • Giocare sul lato destro • Giocare una palla alta • Giocare nei piedi • Giocare addosso all’avversario Elaborare una strategia significa sviluppare,
imparare e, in qualche modo “forzarti” in un concreto sistema di gioco che ti consenta di affrontare il tuo avversario. Ad esempio, se sei un principiante la regola sarà “gioca profondo e in mezzo” che di norma funziona su qualsiasi superficie in quanto: • Tieni il tuo avversario dietro la linea di fondo • La rete al centro è più bassa che ai lati quindi meno probabilità di errori • Maggiore concentrazione sul colpo • Giocando al centro il tuo avversario avrà maggiore difficoltà a giocare in diagonale La difficoltà è rappresentata dal fatto che, giocando al centro, il tuo avversario può girare attorno alla palla e colpirla forte con il
suo colpo migliore. D’altronde se i tuoi colpi saranno sufficientemente profondi, controllerai il gioco e sarai anche in grado di indirizzare leggermente i colpi sul lato più debole del tuo avversario. Purtroppo la maggior parte dei giocatori non è in grado di colpire in modo consistente da qualsiasi posizione del
campo, per cui preoccuparsi della strategia può complicare il loro gioco. In quei casi è meglio preoccuparti di colpire correttamente la palla, senza pensare alla strategia. CONQUISTARE LA RETE ALLA PRIMA OCCASIONE Premesso che giocare lungo e al centro deve restare un aspetto fondamentale della tua strategia, è altresì importante potere prendere la rete alla prima occasione. Il giocatore intermedio, spesso esita nel prendere la rete davanti a una palla corta e con l’avversario in difficoltà. L’anticipazione è un elemento chiave per lo sviluppo di un
giocatore avanzato. In effetti è molto probabile che il tuo avversario a un certo punto accorci il colpo, e allora dovresti essere in grado di prevedere questa possibilità e farti trovare pronto, ben dentro il campo per sfruttare l’occasione. Il tennis è un gioco di opportunità, il punto va chiuso quando c’è l’occasione per farlo, senza lasciare che l’avversario rimetta la
palla. Oltretutto il tuo avversario saprà che sei pronto a prendere la rete non appena lui giocherà corto, e questo gli metterà maggiore pressione. GIOCA IN PERCENTUALE Se si guarda alle statistiche di una partita si vedrà che praticamente sempre gli errori sono superiori ai punti vincenti. Lo scopo, per uscire vincenti da un incontro è di ridurre al minimo gli errori. Quindi semplifica la strategia, mantieni la palla sicura, profonda e al centro, anche nel caso in cui l’avversario ti mette in difficoltà, gioca un colpo sicuro e profondo e sopra la rete ti eviterà l’errore. Prova un vincente per tirarti
fuori dai guai, è una scommessa, neanche buona, e non un gioco di percentuali. Se stai vincendo, continua con la stessa strategia, continua a giocare nel modo che ti sta facendo vincere. Provare qualcosa di diverso, che magari non sai fare bene, potrebbe far girare la partita. Intanto vinci la partita, i nuovi colpi li proverai domani.
SOTTO PRESSIONE GIOCA IL COLPO GIUSTO La pressione dovrebbe farti giocare un colpo sicuro. Quello che invece succede è che la pressione faccia “saltare” l’intero sistema biomeccanico di preparazione e controllo del colpo. Si ha quasi una sensazione di ansia, sai cosa fare ma non riesci a farlo. Il risultato sarà una palla inconsistente che il tuo avversario potrà colpire con aggressività. SE SEI IN DIFFICOLTA’ GIOCA UNA PALLA ALTA Se nel corso di uno scambio si è costretti fuori dal campo, spesso si tira sperando in
un vincente, ma commettendo invece un errore. La cosa migliore, che ti fa guadagnare tempo e riprendere la posizione è giocare una palla ben sopra la rete (2-3 mt). L’avversario anche se sarà sceso a rete avrà la certezza che non gli farai giocare una palla facile. Quindi una palla alta e con molto top renderà la volèe difficile. Se vedi il tuo avversario prendere la rete puoi alzare
maggiormente la palla e giocare un lob. Se invece è rimasto sulla linea di fondo dovrà aspettare che la palla scenda perdendo l’opportunità. Inoltre la sua fiducia verrà intaccata nel vedere che anche il suo colpo migliore tornerà indietro ROMPI IL RITMO AL TUO AVVERSARIO Se stai giocando contro un avversario che tira forte e con ritmo, alza delle palle morbide che sarà costretto a colpire in modo diverso. Per vincere non serve il bel gioco. Per esempio molti giocatori bimani giocano meno bene la palla se sono fuori dalle condizioni ideali per colpire. In questi casi giocare palle corte e basse alternate a
palle alte in top manderà il giocatore fuori dal proprio ritmo naturale. L’idea di base è fare eseguire all’avversario i colpi che non vuole fare. EVITA DI FAR GIOCARE AL TUO AVVERSARIO IL SUO COLPO PIU’ FORTE Se il tuo avversario ha un dritto molto forte e un rovescio debole, non consentirgli di
vincere la partita usando il suo colpo più forte. Cerca di anticipare le sue intenzioni e gioca prevalentemente su suo lato debole oppure forzalo a giocare il suo colpo meglio di quanto sappia fare. Per esempio se gioca un diritto piatto, gioca un back molto basso. Questo vanificherà le sue sicurezze sul suo colpo più forte. GIOCARE INCROCIATO Spesso si ha la tendenza colpendo con il diritto di giocare un colpo lungo linea sul rovescio dell’avversario. In realtà è molto più sicuro giocare incrociato per queste ragioni; la rete al centro è molto più bassa che ai lati, il campo è più lungo (25,15 mt in
diagonale contro i 23,77 lungolinea), hai più tempo per riprendere la posizione. Inoltre in base alla legge di riflessione è più facile restituire una palla lungo il suo percorso di origine. Nel giocare il colpo lungolinea c’è pochissimo margine di sicurezza. Se il tuo avversario gioca sul tuo rovescio, il colpo più sicuro da eseguire sarà quello incrociato. E’ una tendenza naturale del
corpo, e solo un giocatore talentuoso è in grado di colpire la palla diritta lungolinea, e a meno che il colpo non sia eseguito perfettamente, avrai meno tempo e più spazio da ricoprire per riprendere la posizione. COLPISCI CON SCOPO I giocatori più esperti sanno che gli errori sono sempre maggiori dei vincenti. Questa conoscenza evita di tirare colpi rischiosi, privilegiando colpi sicuri consistenti e con uno scopo. Ad alti livelli è difficile trovarsi il campo aperto per chiudere il colpo. Quello che sembra un campo aperto lo è solo per un attimo. E’ molto più importante tirare il
colpo giusto al momento giusto, e non importa se l’avversario è fuori posizione o meno. Il colpo produrrà il punto direttamente o ci consentirà di chiudere facilmente il successivo.
Perfezionate la vostra dieta pre-partita Federico Coppini
Gli atleti professionisti e amatori scrupolosi estendono la loro preparazione prepartita includendo i giusti cibi e bevande prima di entrare in campo. Un’adeguata preparazione pre partita significa che non siete necessariamente stressati da quello che accadde fuori dal campo,
permettendo di concentrarvi mente e corpo sulla partita vera. Così come preparano la loro borsa con tutto l’equipaggiamento necessario a giocare, e studiano punti forti e deboli del loro avversario, l’atleta professionista e l’amatore scrupoloso estendono la loro preparazione a mangiare a bere in maniera sensata, ed evitando cibi o bevande che possano esacerbare lo stress sul corpo.
Concentrarsi sul cibo
La nostra dieta può influenzare come ci sentiamo; alcuni cibi ci fanno sentire più o meno ansiosi, di solito innescando certe sostanze nel corpo che influenzano l’attività dei neurotrasmettitori e del sistema nervoso autonomo. Prima delle partite, è meglio evitare alcuni cibi, inclusi: - quelli con alto contenuto di zuccheri, come dolci e torte
- quelli contenenti carboidrati raffinati, come pane bianco Questo tipo di cibo può creare uno scompenso nel livello sanguezucchero, esacerbando l’ansia. Troppo zucchero produce una condizione conosciuta come ipoglicemia, che produce sintomi molto simili a quelli che si sperimentano in stato d’ansia. È meglio fare una dieta salutare ed equilibrata, che contenga verdure, frutta e cereali integrali.
Bere in maniera sensata
Similmente, è meglio evitare certe bevande prima di una partita, in particolare caffè o altre bevande, come the o alcuni soft drinks contenenti caffeina. La caffeina blocca certi neuro-trasmettitori del cervello e ed è la sostanza che altera l’umore più usata nel mondo. Allerta il senso d’allerta, la
concentrazione e la memoria ed è perciò uno stimolante; ma troppa, produce iperstimolazione, specialmente se uno è suscettibile e se ha già un sistema nervoso sovra-stimolato. In studi sperimentali, è stato dimostrato che la caffeina induce ad attacchi di panico, ed
esacerba stress ed ansia. Stimola la secrezione di insulina del corpo. È stato dimostrato che l’assunzione di caffeina scatena il dolore muscolare, irritabilità e ansia.
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supporto a livello posturale. Flavio Totino, nato a Rosario (Argentina) il 09/07/1962, è attualmente Responsabile Tecnico della A.S.D TENNIS MILANO (www.tennismilano.it). Flavio proviene professionalmente dalla “ Escuela Argentina Profesores de Tenis” da cui sono usciti campioni del passato come Guillermo Vilas, Alberto Mancini, Gullermo Perez Roldan, Gabriella Sabatini, e tra quelli attuali, David Nalbandian e Juan Martin
Del Potro. 1. Quali prodotti Noene ha testato? Le nuove ErgoPro AC+. 2. Come ha conosciuto le solette e i plantari Noene®? Da vostro contatto e dal nostro negozio di riferimento, Doctor Tennis. 3. In quale situazione e per quanto tempo ha testato le solette e i plantari Noene®? Utilizzo i plantari quotidianamente, durante la mia professione di maestro di tennis.
4. Quali effetti generali ha riscontrato a livello di prestazione? Miglior assorbimento dell’impatto, maggior stabilità nell’appoggio, ottima sinergia tra la scarpa e la soletta. Molto utile il supporto arco plantare. 5. Secondo lei, quali benefici apportano allo sport che lei pratica? Maggior stabilità e di conseguenza aiuto a livello posturale. 6. In base alle sua esperienza, consiglierebbe le solette e i plantari Noene® a quanti soffrono delle stesse patologie fisiche e/o praticano il suo sport? Si lo consiglierei, come sto già facendo con i miei allievi. 7. Qualche suggerimento all’azienda? Continuare con questo tipo di rapporto con chi, come me, può consigliare e influire sull’acquisto del prodotto nei confronti di allievi e collaboratori.