Tennis World Italia n. 34

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Nadal, a che punto siamo? by Marco Di Nardo La fine del 2015 aveva dato segnali positivi, poi l'avvio di questo 2016 aveva fatto ripiombare Rafa Nadal in quello stato mentale negativo che non gli permette di esprimere il suo miglior tennis ormai dalla prima metà del 2014. Proprio così, perché il vero Nadal, quello che sulla terra non dà scampo ad alcun rivale e sulle altre superfici resta comunque difficilissimo da battere, non lo vediamo più da molto tempo. Però da Indian Wells qualcosa sembra essere cambiato, e non parliamo più di semplici segnali positivi, ma di veri e propri risultati che somigliano molto a quelli che lo spagnolo otteneva nelle migliori annate. Senza considerare la sconfitta subita all'esordio a Miami per ritiro, contro un avversario come Dzumhur che in condizioni normali avrebbe battuto quasi sicuramente, Rafa ha infatti infilato un parziale di 9 vittorie nelle ultime 10 partite giocate, con l'unica sconfitta arrivata sul cemento di Indian Wells contro il numero 1 Djokovic, tra l'altro giocando alla pari per un set e mezzo, fino al 6-7 (con un set-point non convertito in risposta sul 5-4 in proprio favore) e 2-2 nel secondo parziale. Con la semifinale ottenuta a Indian Wells e il nono successo in carriera ottenuto sulla terra di Monte-Carlo, il maiorchino ha già migliorato lo score personale del 2015, in cui giocando tutti i nove Masters 1000, aveva raggiunto solo una finale (a Madrid) e una semifinale (a Shanghai). Risultati che, come abbiamo detto, non possono quindi essere considerati come semplici segnali di un risveglio che ormai è realtà. La buona notizia, oltre alla ritrovata fiducia derivante dalle tante vittorie, molte delle quali arrivate al set decisivo, è che Nadal ha davanti


a sé la parte di stagione in cui riesce ad esprimere il proprio miglior tennis: Barcellona, Madrid e Roma, tornei davvero importanti per il fenomeno di Manacor, che in caso di ulteriori successi potrebbe davvero ripresentarsi a Parigi come primo favorito, o almeno come numero 2 alle spalle di Djokovic in un'ipotetica griglia di partenza dei principali favoriti al Roland Garros. Numero 2 che poi non è nemmeno così lontano per Nadal: non nella classifica mondiale, in cui è ancora al numero 5, comunque molto più vicino a Wawrinka (numero 4) di quanto non fosse un paio di mesi fa; ma nella Race, la classifica che tiene conto solo dei risultati ottenuti nel 2016, in cui Rafa è al momento il numero 4, ad appena 130 punti da Milos Raonic, appunto numero 2 di questa graduatoria. Il sorpasso potrebbe giù avvenire dopo il torneo di Barcellona, in cui lo spagnolo cerca in nono titolo, per pareggiare il conto dei trofei vinti proprio con Monte-Carlo, oltre che il Roland Garros. In caso di vittoria nel torneo catalano, sarebbe inoltre per lui l'ottava doppietta Monte Carlo-Barcellona (dopo quelle dal 2005 al 2009, 2011 e 2012). Quello che è veramente cambiato nel Nadal delle ultime settimane, è stata la capacità di giocare i punti importanti e di reagire alle situazioni di difficoltà incontrate nel corso dei match. A partire da Indian Wells con la vittoria in 3 set su Muller, poi i 3 set-point consecutivi annullati nel tie-break del secondo set a Verdasco, per proseguire con il successo su Alexander Zverev annullando un match-point e rimontando da 2-5 nel terzo parziale. Anche l'apparente agevole vittoria su Nishikori è iniziata da una situazione quasi disperata, con Nadal che è partito da uno svantaggio di 1-3 15-40 nel primo set, ma ha saputo recuperare


quel quinto game, portandosi sul 2-3 quando poteva trovarsi indietro 0-5 con ben tre break subiti (anche nel primo game della partita aveva tenuto il servizio annullando una pallabreak), per poi completare la rimonta e vincere senza grossi problemi anche il secondo set. Anche nella sconfitta di Miami contro Dzumhur, Nadal era stato bravissimo a vincere il primo set, nonostante le 9 palle-break non sfruttate nel secondo game del match, in cui il bosniaco aveva poi tenuto la battuta. In altri periodi Rafa avrebbe potuto soffrire mentalmente il fatto di aver sprecato così tante chances, ma in questo caso non lo ha fatto. Poi purtroppo le condizioni estreme lo hanno costretto al ritiro nel corso del terzo set, ma si erano comunque visti ulteriori passi in avanti anche in quell'incontro. Infine Monte-Carlo, la ciliegina sulla torta in un periodo che era già positivo, anche in questo caso grazie a vittorie in partite molto complicate, come quella contro Thiem, battuto per 7-5 6-3 annullando 15 delle 17 palle-break concesse, e i due successi al set decisivo contro Murray e Monfils, in semifinale e finale. Ora manca solo la prova del nove, che potrebbe arrivare nei prossimi tornei sulla terra. Test che serviranno a Nadal sia per capire se ha davvero ritrovato se stesso, che per capire se potrà presentarsi a Parigi per cercare di ottenere il suo decimo successo al Roland Garros, obiettivo che sicuramente è nella sua testa. Prossimi risultati a parte, Rafa sembra comunque sulla strada giusta per tornare ad essere il migliore sulla sua terra rossa. E il ritorno al numero 2 a fine anno non sembra più essere un miraggio...





Grigor Dimitrov: la crisi parte dal servizio? by Federico Mariani

Dopo l’annata-flop targata 2015, il cambio della guardia in panchina e la separazione con Maria Sharapova, Grigor Dimitov sembra ancora avvolto nelle sue inquietudini, imbrigliato in un limbo troppo penalizzante per uno dotato del suo talento ad un’età in cui il margine ormai si assottiglia pericolosamente. Urge una svolta, un’inversione di tendenza. Dimitrov ha bisogno del fatidico salto di qualità che, però, a furia di tardare potrebbe non realizzarsi mai. Ma cos’è che è cambiato (in peggio) dopo quel 2014 che prometteva futuri splendori e che invece, ad oggi, risulta essere un estemporaneo exploit? I numeri nel tennis hanno una discreta importanza, non preminente rispetto ad altri sport, ma restano comunque un buon giudice. Per quanto riguarda il bulgaro è piuttosto interessante constatare come sia stato il servizio il colpo in meno. Quel servizio che, a ben vedere, è stato e per certi versi continua ad essere la miglior caratteristica del ventiquattrenne di Haskovo. Prima dell’avvio della stagione sul rosso, Dimitrov nel 2016 ha scagliato 118 ace in 21 incontri. Sostanzialmente poco più di 5 a partita, il che lo porta in ventiseiesima posizione. Addirittura peggio dello scorso anno quando chiuse con 396 in 54 match chiudendo al ventunesimo posto. Poco, molto poco, se relazionato al biennio precedente (2013-2014) dove per numero di ace era ai margini dei primi dieci (rispettivamente tredicesimo e dodicesimo). Ancora più indicativa è la resa della prima palla di servizio. Quest’anno il bulgaro ottiene poco più del 70% con la prima attestandosi addirittura al quarantacinquesimo posto. Per



intenderci, una percentuale pari a gente come Seppi, Goffin, Mannarino ed Haase, ovverosia giocatori che chiedono (ed ottengono) davvero poco alla battuta. Una quarantacinquesima piazza dal sapore ancor più amaro se rapportata, come in precedenza, alle annate passate. Lo scorso anno Dimitrov si attestava al 75% di resa al ventesimo posto, mentre nel 2014 era undicesimo ed un anno prima addirittura ottavo con una resa del 77%. Ad un occhio distratto due punti percentuali possono sembrare pochi, ma invece hanno un’importanza notevole in quanto si riferiscono a 67 incontri. Nel tennis odierno, molto (se non di più) dipende ed è correlato al rendimento del servizio. Il tennis di Dimitrov necessita di una buona dose dei cosiddetti punti gratis per poter essere brillante altrimenti rischia di disinnescarsi da solo, diventando un giocatore innocuo che tenderà a vincere con un certo tipo di giocatori per il vantaggio tecnico che ha e, dall’altra parte, tenderà sempre a perdere con chi è più avanti n classifica, ovverosia quel tipo di partite che occorrono per fare lo step in più. Che sia una mossa quella di prendersi meno rischi con la prima di servizio per aumentare la percentuale di prime palle in campo? I numeri, anche in questo caso, dicono di no. Dimitrov, infatti, negli ultimi quattro anni si attestato su percentuali pressoché identiche, che oscillano tra il 61% ed il 62%. Se di scelta si tratta, ad ogni modo, va considerata controproducente. E se neanche il contributo di un coach valido ed esperto come Franco Davin sta conducendo ai risultati sperati, forse allora tutte le speranze riposte in Dimitrov sono state sopravvalutate ed illusorie. Eccolo in azione a Monte Carlo contro Simon.




Rapportata, ovviamente, alla sua abitudine di dominare e sbarazzarsi di chiunque provi a mettersi sul suo cammino e perciò definibile in questo modo dopo un digiuno di successi che perdura “solamente” da agosto del 2015. La numero 1 al mondo vinceva uno dei tornei “meno” graditi come quello di Cincinnati, sollevando per la seconda volta in carriera il trofeo al cielo dopo la finale portata a casa con Simona Halep. S embrava solamente l’antipasto prima del piatto principale, il successivo Us Open in cui avrebbe potuto spazzare via un’infinità di record, ma soprattutto raggiungere Steffi Graf e completare il Grande Slam. Tra lei e la gloria eterna, però, una incredibile Roberta Vinci. In quell’11 settembre, quello bello, da ricordare la tarantina faceva impazzire Serena, mandandola in tilt con soluzioni di tocco e discese a rete. Strappava applausi al “suo” pubblico sull’Arthur Ashe. Conquistava l’accesso alla finale dopo tre set da urlo, spedendo l’americana in un vortice di insicurezze. Niente finale di stagione, niente Finals, addirittura le indiscrezioni di una gravidanza lanciate dalla band di Drake che avrebbero segnato la fine della sua carriera. Giungiamo così ai giorni nostri: Serena c’è ancora e smentisce

Il digiuno della Cannibale by Valerio Carriero


tutti con un outfit che lascia scoperto un addome tirato a lucido, altro che gravidanza. In campo, però, la sbornia post-Us Open non sembra essere assorbita del tutto. Dopo il ritiro alla Hopman Cup, la grande sorpresa agli Australian Open: Angelique Kerber batte per la prima volta dopo cinque anni Serena Williams in una finale Slam. Un campanello d’allarme che poi si trasforma in una vera e propria sirena tra Indian Wells e Miami: un’altra finale persa, questa volta da una stratosferica Azarenka, la prima in un Mandatory addirittura dopo sette stagioni, poi il crollo verticale con Kuznetsova con la miseria di tre giochi conquistati tra secondo e terzo set. Così, la numero 1 al mondo arriva alla stagione su terra senza alcun titolo in bacheca: non succedeva dal 2012, quando un infortunio alla caviglia rimediato a Brisbane la costrinse a restare ai box dopo gli Australian Open, rientrando solo sulla terra verde di Charleston. Otto mesi di punti interrogativi, forse anche di stimoli venuti meno. Serena non ha mai dato in questo avvio di 2016 l’impressione di poter azzannare i suoi match, poco carica emotivamente. L’unico sfogo, probabilmente, è arrivato durante la finale contro Azarenka, in cui disintegrò al cambio campo la racchetta. Forse uno scatto d’orgoglio, punto nel vivo da un’avversaria a tratti ingiocabile e dimostratasi tennisticamente superiore. Può quindi definirsi “crisi”? Sì, Serena non perdeva due finali consecutive e così ravvicinate dal 2004, una vita fa. Qualcosa vorrà pur dire. Sarebbe comunque paradossale pensare ad una Williams arrendersi sul più bello, ad un solo Slam di distanza dai 22 di Steffi Graf: dopo aver superato infortuni di ogni sorta e addirittura una grave embolia polmonare non sarà di certo questo piccolo grande periodo di appannamento ad arrestare la fame di successi della cannibale. Probabilmente basterà sbloccarsi, in fondo si sa, l’appetito vien mangiando.





I paradossi del tennis by Valerio Carriero


Immaginate il tennis senza alcuna sorpresa, seguendo un filo logico che non permetterebbe di assistere a colpi di scena impensabili. Cosa ne sarebbe di uno sport che vive dell’imprevedibilità, di partite che girano su un paio di punti? Di uno sport che proprio per questo motivo dà un’occasione nuova ogni settimana, per trasformarla nel torneo della vita o in una cocente delusione per l’obiettivo sfumato e rinviato all’anno successivo. Nascono così alcune situazioni paradossali, vediamo quali sono le più eclatanti dell’ultimo decennio. Iniziamo da Juan Martin Del Potro. Indiscutibile il valore dell’argentino (e non solo dal punto di vista sportivo), riabbracciato dal circuito da poco dopo un calvario apparentemente infinito. La torre di Tandil fu autore di una splendida estate nel 2009, culminata con il trionfo agli Us Open contro Federer in finale. Il paradosso? L’albiceleste non ha in bacheca nessun Masters 1000, gradino “inferiore” rispetto ai Major. Ancor più curioso il caso di un altro suo connazionale, David Nalbandian. “El Rey” vanta solamente una finale Slam, quella persa a Wimbledon nettamente da Hewitt, ma può

comunque considerarsi “Maestro”: sue le Finals del 2005 in una drammatica finale, ancora una volta, con Federer, in cui rimontò uno svantaggio di due set. Un talento cristallino che si manifestò probabilmente in tutto il suo splendore in quelle due magnifiche settimane nell’autunno del 2007, quando mise in riga Federer e Nadal nell’asse Madrid-Bercy: lui, che non aveva mai vinto un 1000, ne vinse due di fila. Ne sa qualcosa anche Nikolay Davydenko, altro “maestro” senza “laurea”. L’uomo “playstation” sorprese tutti nell’ultimo torneo stagionale del 2009, superando nel giro di pochi giorni tutti i campioni Slam di quella stagione: Nadal nel girone, Federer in semi, e Del Potro in finale. Anche la Wta ha un suo caso e risponde al nome di Agnieszka Radwanska. Alla polacca si rimprovera da sempre la scarsa consistenza nei Major (solamente una finale a Wimbledon), ma a novembre dello scorso anno è arrivato il successo più importante della sua carriera, approfittando dell’assenza di Serena Williams e scampando per miracolo all’eliminazione nel Round Robin.


E per i big del circuito maschile? Anche per loro alcune situazioni paradossali. In ordine gerarchico, partiamo da Novak Djokovic. Numero 1 indiscusso e dominatore del circuito ma a caccia perennemente del Career Slam. A Nole manca l’affermazione nel Roland Garros, vero e proprio caso particolare considerando che il serbo ha nel palmares ben sette Masters 1000 sul mattone tritato. Per Rafael Nadal, invece, il problema sembra essersi spostato (soprattutto) sull’erba di Wimbledon. Dopo le 5 finali consecutive ­ non contando l’assenza del 2009 ­ dal 2006 al 2011, il maiorchino non si è più nemmeno affacciato ai quarti, raggiungendo al massimo gli ottavi prima di venire eliminato da Kyrgios nel 2014. E Federer? Roger ha paradossalmente vinto l’oro olimpico in doppio e non in singolare (“solo” argento), specialità in cui ha disputato solamente 218 partite dal 1998. Chiudiamo con qualche caso curioso riguardante le finali. Il più famoso, ovviamente, è il triste record di Julien Benneteau fermo a 0-10 negli atti conclusivi sul circuito maggiore. Il francese è probabilmente il tennista più forte a non mai aver assaporato la gioia del trionfo. Al contrario, uno come Ernests Gulbis, che non fa proprio della continuità il suo punto di forza, ha per ora un record immacolato: 6 su 6. E nel femminile è Sloane Stephens sulle sue tracce: sulla terra verde di Charleston, l’americana ha portato a casa il suo quarto titolo su quattro finali disputate…



Costruirsi un'arma vincente by Federico Coppini I grandi campioni hanno spesso un colpo che li caratterizza e che conferisce loro quel qualcosa in più , rispetto agli altri giocatori. Così Andre Agassi ha nel diritto l'arma vincente che tutti gli avversari cercano di evitare, Jimmy Connors giocava il rovescio come pochi altri giocatori al mondo e Goran Ivanisevic (ricordiamo i 206 aces messi a segno nel torneo di Wimbledon) ottiene dal suo servizio tantissimi punti preziosi. E ancora Stefan Edberg e Martina Navratilova facevano del serve & volley il punto fermo su cui basare il loro gioco d'attacco. Questi e tanti altri campioni, quando sono chiamati a dare il massimo danno sfogo alla loro combattività attraverso il gesto tecnico che li contraddistingue. Dopo la sconfitta patita ad opera di Ivanisevic nei quarti di finale di Wimbledon'92, un frustrato Stefan Edberg ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Nel quinto set ho avuto subito una palla break e lui l'ha annullata con un ace. Poi sono arrivato 5-3 15/40 e lui ne ha tirati altri due. Poi ancora una palla break e ancora un ace. Di solito hai la speranza di giocarti qualche break-point su una seconda di servizio, ma con Goran non funziona così". Da non dimenticare inoltre come Jimmy Connors abbia sempre basato le sue rimonte impossibili sull'anticipo del suo rovescio e sulla cieca fiducia che Jim Courier ripone nel suo diritto. Facendo le debite proporzioni, anche un giocatore di club può perfezionare un aspetto del proprio tennis per dare una connotazione precisa al proprio gioco e avere così un solido punto di riferimento su cui fare affidamento per demolire la resistenza degli avversari e al

quale aggrapparsi nei momenti difficili. Per prima cosa è necessaria la giusta dose di obiettività per capire quale sia realmente il colpo che può essere trasformato in un'arma vincente e non fare scelte poco avvedute solo per emulare il campione preferito. Una volta stabilito il colpo su cui puntare dobbiamo allenarlo con cura in modo da eliminare eventuali problemi tecnici e da incrementare sempre più la fiducia che riponiamo nelle sue capacità offensive. Il colpo preferito deve essere tenuto costantemente sotto controllo; ciò non significa che bisogna dare meno importanza agli altri aspetti del gioco, al contrario, è consigliabile però dedicare quotidianamente una parte dell'allenamento al colpo in questione per mantenere sempre vivo il timing (tempismo) sulla palla e per non smarrire tutte quelle sensazioni coordinative (oculomanuali e spazio-temporali) e psicologiche che stanno alla base della sicurezza del giocatore. Supponendo che la nostra arma vincente sia il diritto, ecco alcuni suggerimenti per


l'allenamento: 1) Esercitazioni in fase di palleggio a ritmo medio-basso per "sentire" la palla, privilegiando la fluidità di movimento, l'impatto bene davanti al corpo e il trasferimento del peso del corpo sulla palla. 2) Esercitazioni a cestino e in palleggio per allenare il colpo alle diverse altezze: A = Basso (impatto al di sotto dell'altezza delle ginocchia) B = Medio (impatto compreso fra le ginocchia e le spalle) C = Alto (impatto sopra l'altezza delle spalle). Non bisogna dimenticare di fare riferimento ai diversi settori dei campo dove il giocatore può trovarsi a colpire e dove dovrà applicare le opportune variazioni tecnico-tattiche. L'allenamento deve prevedere quindi esercitazioni a cestino e in palleggio con spostamenti e impatto nelle diverse zone del campo: a) 2-3 metri dietro la linea di fondocampo b) in prossimità della linea di fondo e) a 3/4 di campo d) a metà campo e) in prossimità della rete f) diritto anomalo giocato

nella zona di campo riservata comunemente al rovescio. 3) Allenare l'anticipo, cercando di colpire la palla in fase ascendente. 4) Giocare punti "spingendo" con il diritto e ricercando soluzioni vincenti dalle varie posizioni del campo. Non sempre però le caratteristiche tecniche e fisiche di un giocatore gli consentono di eccellere in un fondamentale. Per arma vincente, non si intende necessariamente un colpo, ma anche qualità fisiche e mentali che all'occorrenza possono fare la differenza trascinare il tennista alla vittoria.Esemplare è il caso di Emilio Sanchez che è riuscito a issarsi fino ai 7° posto del ranking mondiale (30 aprile 1990) senza possedere colpi particolarmente incisivi, ma basando tutto il suo tennis sul gioco di gambe. L'atleta spagnolo, ha così fatto tesoro della sua rapidità di spostamento che spesso è risultata determinante per dominare i suoi avversari.


Intervista: sport agonistico fin dalla tenera eta’, pro e contro by Federico Coppini Ho pensato di proporvi questa intervista perchè avendo un bimbo primogenito di 7 anni e vivendo in un paese estremamente competitivo riguardo sia alle attività scolastiche che extrascolastiche stavo riflettendo ultimamente su quale sia l’atteggiamento giusto da tenere come genitore. Alle

volte mi viene da difendere i miei figli e proteggerli dalla competizione ma poi penso che una “sana” competizione e una “sana” ambizionesiano utili nella vita e vadano coltivate fin da piccoli. Ma come? Io da piccola ero molto competitiva, mi piaceva fare sport in modo agonistico ma mi veniva anche voglia di cambiare spesso, forse un po’ troppo. Mi sono dedicata molto anche alla musica ma un po’ non volevo rinunciare troppo al tempo libero, un po’ consideravo la scuola comunque il mio impegno principale. I miei genitori erano abbastanza neutrali sulle mie passioni, comunque per loro la scuola era la cosa

più’ importante. E così’ nessun “talento” è sfociato in qualcosa di più’ serio. Da chi dipende? Dal bambino o dalla spinta/ appoggio dei genitori? Come cercare i talenti dei nostri figli e come appoggiarli tenendo comunque presente che stanno costruendo il loro futuro e la loro indipendenza da noi? Come insegnare loro che una volta scoperto un proprio talento, questo va coltivato a volte anche con tantisacrifici? Per esplorare meglio quale deve essere l’atteggiamento da genitore nei confronti di un bambino/a che dimostra un reale interesse per uno


sport, ho pensato di intervistare una mamma, Elena Petrucciano, che è stata unatennista di serie A e ha anche finito l’università in modo brillante. Certo è un esempio speciale, ma può essere utile per capire come è la stata la sua giovinezza e quanto i suoi genitori abbiano influito sui suoi successi. Ciao Elena, ti presenti brevemente ? Sono una napoletana di nascita, vissuta sempre a Roma. Fino a diciotto anni sono stata una sportiva a tempo pieno. Prima pattinatrice di buon livello, poi tennista. Ero tra le prime d’Italia e d’Europa del mio

anno, convocata dalla nazionale juniores, ho giocato dai 14 anni nel circuito pro WTA, vinto la serie A a squadre e vari titoli nazionali e internazionali. Poi finito il liceo ho deciso di lasciare la carriera da professionista e di iscrivermi ad Economia. Mi sono laureata con lode e in tempi brevi e ho iniziato a lavorare nel marketing in una multinazionale ma non ho mai lasciato il tennis. Ho continuato a giocare la serie A e ho iniziato ad insegnare. Nel 2011 mi sono trasferita a San Francisco con mio marito e l’anno scorso ho avuto il mio primo figlio, un bellissimo maschietto di nome Nicolas. Raccontaci come è iniziato il tuo percorso sportivo. A che età hai iniziato a giocare a tennis? Il mio percorso sportivo è iniziato molto presto, prima del tennis. Avevo tre anni quando ho cominciato a pattinare e a sei già facevo delle gare in giro per l’Italia. Il pattinaggio è uno sport molto precoce e già così piccola facevo l’agonistica. Il tennis l’ho iniziato piuttosto tardi paragonandomi ad altre tenniste, avevo 8 anni. Nel frattempo ho fatto altri sport come ginnastica artistica, nuoto e cavallo, ma non ad

alto livello. Hanno subito individuato che avevi un vero talento per il tennis? Come l’hanno presa i tuoi? Quando ho iniziato a giocare a tennis il fatto che fossi già un’atleta, con il fisico e la mentalità da agonista, non è sfuggito ai miei primi maestri di tennis. Hanno visto in me delle buone potenzialità e hanno chiesto ai miei genitori se volessi passare subito ad un livello più avanzato ed allenarmi meglio. Il fatto che fosse una scuola tennis tra le migliori di Roma in quegli anni ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale nella mia crescita tennistica. I miei genitori erano contenti di questa mia dote sportiva e si sono dati da fare per coltivarla. Mi hanno accompagnato e “scarrozzato” in giro per anni. Come è stata la tua infanzia/adolescenza? A cosa hai dovuto rinunciare? Hai sofferto o è andato tutto liscio? Pensandoci ora, vedendo le cose in modo obiettivo e paragonando la mia adolescenza a quella dei miei amici, penso di essere stata molto fortunata e di aver


avuto una bellissima adolescenza. Sempre all’aria aperta, in giro per l’Italia e l’Europa, in circoli e posti belli, ottenendo spesso soddisfazioni, premi etc. In quegli anni invece pensavo di essere l’unica tra i miei compagni a non uscire la sera, credevo che loro facessero chissà cosa e quindi, anche se mi divertivo molto in giro per tornei, pensavo di rinunciare e perdermi qualcosa. Certo, non è andato tutto liscio sempre. Mi sono spesso allenata da sola, ho viaggiato da sola tante volte e la comitiva o le uscite pomeridiane non sapevo cosa fossero.

Per te il tennis era proprio una passione per cui avresti lottato anche da piccola o ti ci sei semplicemente trovata in mezzo? Mi ci sono trovata. Mia mamma mi ha iscritto perché un suo collega portava la figlia in quel circolo e dicevano che era una buona scuola tennis. Le sembrava un’ambiente migliore del pattinaggio e così mi ha fatto provare. Il fatto che poi i maestri mi abbiano subito spronato e incoraggiato molto mi ha esaltato e da buona competitiva quale ero ho cominciato ad appassionarmi a questo sport.

Come hai vissuto il rapporto con la scuola? Sono stati i tuoi a trasmetterti l’importanza di continuare? L’ho vissuto sempre molto serenamente, e secondo me è stato merito sia del mio carattere diligente che dei miei genitori che non mi hanno mai imposto nulla. I compiti e la scuola erano una mia responsabilità e sapevo che non avrei potuto mai essere bocciata, ma per il resto me la potevo gestire io come volevo. I compiti li facevo nei ritagli di tempo e non mi piaceva fare brutte figure né a scuola, né a casa, quindi studiavo e andavo bene. La scelta dell’Università al posto della


carriera da professionista poi è stata assolutamente una mia scelta. I miei hanno pianto per questo! Cosa ne pensi di in tutti quei numerosi sportivi che cercano di fare dello sport un lavoro ma magari non riescono ad arrivare a livelli top? Penso che se un ragazzo ha talento, ha dei buoni risultati e una forte passione è giusto che ci provi. Il fatto che io fino a diciotto anni abbia “lavorato”, allenandomi quasi sette ore al giorno tutti i giorni, andando a scuola fino alle 11 di sera e non abbia fatto vacanze anziché essere andata in giro nel pomeriggio e in Sardegna d’estate, mi ha solo agevolato poi nella vita. Per me tutto è diventato meno faticoso negli anni successivi. Mi sono accorta che l’università, il lavoro e la vita in generale per me sono vissuti in modo più semplice di come la vivono mediamente gli altri, perché per anni io ho messo a dura prova il mio fisico e la mia mente e mi sono allenata a ritmi duri. Come ti comporterai con tuo figlio nell’età dei primi approcci sportivi: sperimentazione o focalizzazione? Mio figlio per esempio a 7 anni è

ancora nella fase in cui vuole fare 3 sport diversi senza scegliere. Quasi tutti i bambini, giustamente, tendono solo a divertirsi quando fanno gli sport. Vogliono sperimentare, stare con gli amichetti e scherzare. Ed è giusto che sia così. Sono pochissimi i bambini che da soli decidono di ammazzarsi di fatica per raggiungere un obiettivo o un traguardo. Quello della focalizzazione è un concetto che va insegnato e secondo me è molto importante perché aiuta nella vita. Mio padre lo ha trasmesso a me e io farò altrettanto con i miei figli. è giusto provare diversi sport quando si è molto piccoli ma poi, se si vuole ottenre qualche soddisfazione e

risultato, bisogna impegnarsi e concentrarsi su una sola cosa. Essere bravi in qualcosa e non dei medi in tutto, accresce molto l’autostima di un ragazzo. Cosa ti ha insegnato lo sport vissuto così intensamente fin da piccola? Come, secondo te, ha influenzato lo sviluppo del tuo carattere? Lo sport mi ha reso molto disciplinata e responsabile. Mi ha insegnato a non montarmi la testa quando le cose vanno bene e a saper perdere quando vanno male. Mi ha insegnato che non sempre si vince anche se si da il massimo, bisogna rispettare se stessi e i propri limiti. Mi ha insegnato a rimanere concetrata e lucida per ore e a superare i


momenti di stanchezza e fatica. Infine, lo sport mi ha aiutato nella gestione e organizzazione del tempo. Quando il tempo è poco per far tutto non si può sprecare un minuto! Quanti talenti “sprecati” ci sono in giro, secondo te, e quanto dipende dalla famiglia il loro emergere o meno? Molti. La famiglia è sicuramente fondamentale per far emergere uno sportivo, però ci vuole anche molta fortuna nel trovare lo sport e la struttura giusta. Un ragazzo con un grande talento per il tennis ad esempio, con un maestro non bravo non potrà mai diventare forte. E se un

ragazzo avesse un talento per uno sport che non ha mai provato sarebbe un peccato, ma d’altronde è un po’ come i fidanzati..non si possono provare tutti per sapere quale sia il migliore! Ti auguri un figlio sportivo agonista o uno che ha voglia semplicemente di divertirsi e tenersi in forma? Io mi auguro di riuscire a trasmettere a mio figlio la passione per lo sport, per la vita sana e all’aria aperta. Avereserietà nelle cose che si fanno è molto importante secondo me, ma non per forza deve essere uno sport. Anche la musica, l’arte o lo studio se fatti seriamente possono dare gli stessi

benefici e insegnamenti dello sport. Quindi spero di essere in grado di identificare il talento di mio figlio e far sì che lo coltivi e impari che se vuole diventare bravo e ottenere qualche risultato il talento non basta. Le soddisfazioni non arrivano solo con il divertimento e dote naturale, ma anche con qualche sacrificio e forza di volontà. Ha senso dedicarsi solo allo sport trascurando completamente l’educazione accademica? Dipende da che età si parla secondo me. è chiaro che fino a diciotto anni la scuola è obbligatoria. è un diritto e un dovere di ognuno per poter vivere nella società.


Per quanto riguarda l’università invece è tutto un altro discorso. Non tutti sono portati per lo studio e non vedo perché si debbano perdere anni di vita preziosa per fare esami di cui non si è interessati quando si potrebbe utilizzare quel tempo per imparare un mestiere e fare qualcosa di più adatto alle proprie potenzialità. A diciotto anni secondo me si è grandi e bisogna prendersi le proprie responsabilità. Se uno ragazzo è veramente intenzionato a fare il cantante, lo sportivo, il musicista, l’artista, lasciando completamente gli studi, si spera che sappia che la strada verso il successo è molto difficile e tortuosa e se

nonostante ciò ci vuole provare bisogna appoggiarlo, ma mettendo in chiaro che si assume la responsabilità delle sue azioni e se la dovrà cavare da solo se dovesse andar male poi. Continuare a studiare invece dà sempre una chance in più secondo me. Una sorta di piano B che è bene avere. Ma ognuno fa le sue scelte! Per finire, com’è l’ambiente sportivo? Credi che il tennis abbia delle caratteristiche diverse o si vive un po’ in tutti la stessa atmosfera? Direi che ormai sono più o meno tutti simili gli ambienti. Prima alcuni sport erano solo per ricchi e altri per poveri. Adesso anche il golf, sport

per ricchi per eccellenza, è diventato accessibile quasi a tutti. E così il tennis. è sempre uno sport caro ma non più di altri. In generale direi che si trovano ovunque i genitori fanatici e maleducati e quelli pacati e tranquilli. Anche tra i maestri c’è un po’ di tutto! Quello che è importante è scegliere il posto giusto dove fare sport. Una buona struttura e un maestro serio e competente possono veramente fare del bene ai bambini, qualsiasi livello essi raggiungano, perché lo sport insegna.




Come affrontare un mancino by Federico Coppini Innanzitutto questi pessimi "clienti" stravolgono la nostra concezione del match: utilizzano angoli che non siamo abituati a coprire, invertono rotazioni e direzioni del gioco. E si trovano, per esempio, a utilizzare il loro servizio più insidioso nelle situazioni cruciali del gioco, cioè sui "vantaggi". Per semplificare le cose ho individuato quella che è a mio parere la tipologia classica del mancino: prevalentemente in back, dritto più solido e "arrotato", insidioso servizio slice, specie "ad uscire" (avete presente McEnroe?). È una schematizzazione, e bisogna sempre tenere a mente che ogni avversario, sul campo, ha le sue caratteristiche. Ma torniamo al nostro avversario "ideale": cercheremo di metterlo in difficoltà con le sue stesse armi, e di colpirlo nei suoi punti deboli. Uno dei punti forti dei mancini è il servizio slice giocato da sinistra verso destra. Proviamo dunque a rubargli l'idea e, quando

serviamo da destra mettiamo anche noi un po' di rotazione slice nella nostra battuta, andando a "cercare", con una traiettoria più lenta ma insidiosa, il rovescio dell'avversario. Il back del mancino potrebbe avere difficoltà a contrastare un servizio del genere; nel caso di una risposta corta noi saremo già pronti a entrare in campo e ad attaccare verso il lato del campo scoperto. L'avversario, infatti, tenderà istintivamente a coprire il

lato del rovescio, dove si sente più debole, concedendo metri preziosi al nostro approccio. Ricordatevi, invece, quando voi vi troverete a fronteggiare il servizio, di non "aspettare" la palla, ma al contrario di entrare in campo per tagliare la traiettoria slice evitando che la rotazione vi allontani troppo dalla riga.


Equilibrio tra stress e recupero by Federico Coppini Il concetto di allenamento è basato sulla gestione dello stimolo del lavoro, cioè dello stress. Il corpo si adatta gradualmente all’aumento del livello di stress e diventa a poco a poco suscettibile di una maggiore capacità di lavoro. Quando lo stimolo del lavoro è eccessivo, il risultato spesso è di scarsa performance, ma anche uno stress insufficiente conduce ad una cattiva performance e quindi ad un miglioramento scarso o nullo. Ecco allora 10 regole da seguire: 1. L’allenamento deve essere

mirato all’equilibrio tra lo stress e il recupero; 2. Il rapporto stress/recupero deve essere controllato accuratamente, se la massima performance è avvenuta nel periodo desiderato; 3. I cicli di lavoro e riposo devono essere precisati in anticipo su apposite tabelle; 4. Lo stress deve essere correttamente alternato al recupero, altrimenti non può essere ottenuta una buona performance; 5. Non ci si può allenare sempre ai massimi livelli; 6. Periodi lunghi di stress portano ad una scarsa performance; 7. I periodi di riposo sono tanto importanti quanto quelli di lavoro; 8. Esiste una relazione tra stress e divertimento; 9. Lo stress è sia fisico che

psichico; 10. Quando lo stimolo di lavoro è eccessivo rispetto ai periodi di recupero, il meccanismo di stress si ferma. Le pulsazioni sono una forma di alternanza quasi ondulata tra consumazione di energia (stress) e recupero di energia. Ogni cellula del corpo batte secondo il suo ciclo stress/recupero. Pulsazioni del cuore e attività celebrale e muscolazione producono onde misurabili che rispecchiano i cilci di stress/ recupero. Il massimo della performance e della salute si raggiunge quando tutti gli orologi vengono perfettamente sincronizzati. Ciò si può realizzare controllando le pulsazioni del cuore durante gli allenamenti, in modo che i periodi di stress siano bilanciati da intervalli di recupero e rilassamento.


Pensiero positivo by Federico Coppini


Alla fatidica domanda riguardo quale parte del bicchiere si guardi più spesso, non tutti rispondono il "bicchiere mezzo pieno". Una buona parte della popolazione, infatti, tende a porre maggior attenzione al negativo ("bicchiere mezzo vuoto"). E succede che ciò che, inizialmente, sembra essere solo una predisposizione poi diventa inevitabilmente un'abitudine. E' proprio così, nella grande differenza interindividuale, c'è chi spontaneamente, aprendo la porta di una stanza sconosciuta (come la vita), guarda (o cerca) prevalentemente gli oggetti, gli arredi, le cose piacevoli e chi, invece, altrettanto naturalmente, guarda (o cerca) prevalentemente gli oggetti, gli arredi, le cose spiacevoli. Il perché di tale realtà è, certamente, radicato su dinamiche psicologiche complesse che, a seconda dei casi, poi trova conferme e/o disconferme nell'esperienza della quotidianità. Una verità ancor più importante è che in ogni individuo, senza alcuna ombra di dubbio, il positivo c'è. In alcune persone è chiaro, evidente ed in bella mostra, in altre è da ricercare con il lumicino, ma c'è. Il

pensiero positivo, quindi, prima ancora di essere una tecnica di preparazione mentale, è una filosofia di vita. Senza tale approccio interiore, senza cioè ricercare il positivo esistente negli altri, è davvero difficile e quantomeno bizzarro utilizzare questa importante tecnica di mental training. Si cadrebbe, empaticamente, in contraddizione. La tecnica. Per poter effettuare tale pratica, è importante che lo psicologo sportivo conosca bene l'atleta in modo da sapere qual'è la sua predisposizione iniziale "a pensare positivo". Bisogna capire come l'individuo, che si vuole preparare, vive gli eventi positivi e quelli negativi. In seguito a cosa, a suo avviso, si è vinto o perso. Bravura, fortuna, fatalità? Anche da questi elementi è possibile valutare l'autostima dell'atleta e l'autoefficacia (autostima gesto-specifica) sapendo che chi pensa spesso in negativo, probabilmente, ha


una bassa autostima E' bene, pertanto, aiutare l'atleta a cercare, inizialmente insieme, ciò che di lui è positivo per poi cominciare a "tirarlo fuori". E' un allenamento continuo: spostare il negativo, vedere positivo, stoppare i pensieri neri, far avanzare solo quelli chiari. Mano a mano, ciò che sembra uno sforzo diventa naturale. L'atleta scopre che ha imparato a pensare positivo. E siccome il pensiero positivo è "contagioso", senza rendersene pienamente conto, l'atleta comincia ad insegnare a pensare in positivo a chi sta accanto a lui. Questa è la migliore prova che la tecnica è stata compresa, accettata e praticata.



Quale atteggiamento è utile in gara? by Federico Coppini Si provi a chiedere ad un atleta qual'è stata la sua prestazione migliore. Si scoprirà (e la sorpresa non sarà solo dell'intervistatore) che egli di quella gara ricorda praticamente tutto. La data, l'orario, la città, il campo da gioco, le condizioni atmosferiche, gli avversari, la giuria, ma soprattutto le sensazioni interne. Quelle sensazioni positive che il proprio fisico gli "rimandava" e che hanno preceduto e accompagnato una grande prestazione, si noterà, sono state "scolpite" nella memoria. L'atleta, probabilmente non se ne è nemmeno accorto, ma da quel fatidico giorno qualcosa dentro di lui è cambiato, cambiato in positivo. Nel momento della sua prestazione migliore (Peak Performance) ha sperimentato delle sensazioni interne così diverse, coinvolgenti e particolari che hanno reso quella esperienza di gara diversa da tutte le altre. Se l'atleta racconta che tutto era facile, naturale, automatico, piacevole, che il tempo era sembrato fermarsi, molto probabilmente, durante quella competizione egli è andato incontro ad uno stato di Flow; per tale motivo, la sua mente ha "deciso" di fissare per sempre quei momenti assieme a quelli immediatamente precedenti o successivi l'evento. Approfondendo i concetti di Flow e di Peak Performance, si capirà come quella

meravigliosa esperienza, che tutt'ora l'atleta ricorda, può aiutarlo ancora nel raggiungimento di obiettivi sempre più alti e straordinari. Lo stato di Flow. Può essere definito come l'esperienza ottimale in cui si è così immersi in ciò che si sta facendo, che tutto il resto sembra non avere importanza. E' un esperienza estremamente entusiasmante, fonte di soddisfazione e motivazione profonda. E' caratterizzato da un equilibrio tra sfida ed abilità, unione tra azione e coscienza, mete chiare, feedback immediato, concentrazione sul compito, senso di controllo, perdita della autoconsapevolezza, destrutturazione del tempo, esperienza autotelica. Peak Performance. E' una prestazione


superiore allo standard individuale ed è caratterizzata da forti contenuti emozionali di gioia e di profondo appagamento. E' caratterizzata da un focus attentivo chiaro, alto livello di performance, iniziale fascino per il compito, spontaneità, forte senso di sé. Vedi relazione tra Flow e Peak Performance. Appare chiaro, a questo punto, come uno degli obiettivi principali della preparazione mentale sarà quella di ricreare tutte quelle condizioni psicologiche affinché l'atleta possa risperimentare uno stato di Flow con la conseguente maggior probabilità di effettuare una Peak Performance. Gli strumenti che meglio di altri possono favorire tale obiettivo sono: · visualizzazione · concentrazione · propriocettività · imagery o allenamento ideo motorio


Prima di rispondere al servizio, salta by Federico Coppini Quali sono i colpi più importanti nel tennis? Tutti. Il servizio e la risposta al servizio sono però quelli che negli ultimi anni sono stati oggetto di maggior sviluppo e interesse. Campi veloci, racchette leggere, giocatori alti e le scoperte della biomeccanica hanno fatto del servizio un'arma letale che arriva a scagliare palline oltre i 200 km/h. Trovarsi di fronte a certi “bombardieri” ha necessariamente aumentato la ricerca di un modo migliore e più efficace per rispondere ed evitare di perdere i games a “zero”. La risposta al servizio deve essere allenata per due ragioni principali: 1- saper tener testa e mandare al di là della rete le fucilate di servizio dell'avversario 2- aggredire i servizi più lenti e prendere così il controllo dello scambio Roba da professionisti?Assolutamente no! Anche gli atleti dei club affrontano giocatori che utilizzano un servizio più o meno potente e angolato, quindi se vogliamo migliorare il nostro gioco dobbiamo allenare anche la risposta. Dove mettersi? Sulla linea di fondo campo, vicino alla linea del singolo. Che posizione assumere? Posizione d'attesa con la racchetta davanti al corpo, gomiti in avanti, peso sugli avampiedi e

piedi larghi oltre le spalle. E poi? Effettuare lo split step e andare a colpire. Cos'è lo split step? E' il saltello che si deve fare quando l'avversario sta per colpire la palla e una volta atterrati ci permette di essere in equilibrio pronti a scattare verso la direzione della pallina senza perdite di tempo. La risposta al servizio è caratterizzata anche dallo spostamento verso la palla, dal movimento della racchetta, dalla posizione da assumere dopo l'impatto e varia in base a fattori come le abitudini di servizio dell'avversario, le rotazioni e dove vogliamo


giocare la palla. E' molto importante però iniziare dallo split step. Troppo spesso infatti giochiamo male la risposta perchè ce ne stiamo fermi ad aspettare con le gambe dure e impotenti di fronte al servizio dell'avversario sperando in un suo errore o perchè impigriti dal concetto che la risposta si gioca “da fermi”. La prossima volta che sarete alla risposta provate a fare un saltino quando l'avversario sta per impattare la palla e vedrete la differenza!


Il tennis e la postura by Marco Bucciarelli - fisioterapista In questi ultimi anni molti esperti di scienze biomeccaniche stanno studiando, nei vari sport, i movimenti degli atleti nel compiere il gesto tecnico nelle varie fasi di gioco, tutto questo grazie anche all’ausilio di sofisticati macchinari che consentono di valutare la massima efficienza nel gesto. Lo scopo è proprio quello di raggiungere la massima efficacia tecnica con il minor sforzo fisico. E’ necessario mettere in evidenza che, quando si ripete per infinite volte un movimento personalizzato al fine di ottenere un risultato agonistico migliore, si va incontro a seri traumi sia per le articolazioni che per le fasce muscolari. Nel tennis i muscoli sono fortemente sollecitati.

Cambi di superficie, lunghi spostamenti, tempi di recupero ridotti, gesti atletici ripetuti spesso in condizioni di una scorretta postura, possono esser causa di una lesione muscolare o articolare. Ciò accade sia nell’atleta professionista, sia nell’atleta che svolge l’attività fisica a livello non agonistico. Causa principale dell’insorgere di problemi fisici nell’amatore sono una cattiva preparazione atletica, un inadeguato allenamento e un ridottissimo riscaldamento muscolare. Sicuramente riuscire a mantenere una buona postura ergonomica, mirata e studiata per ogni singolo movimento, può aiutare ad ottenere due benefici: in primis la potenza muscolare che lavora sullo scheletro e produce la massima efficienza, portandoci a ridurre la possibilità di piccoli stiramenti o incidenti; in seguito l’autonomia, che garantisce il controllo del corpo in movimento in modo coordinato, ed


attiva tutti i circuiti funzionali che con i loro muscoli pluri-articolari e mono-articolari propongono l’azione motoria coordinata dalla testa alla mano e dalla testa al piede. Quindi è necessario che il tennista sviluppi la propria consapevolezza corporea, la stabilità dei propri movimenti e la coordinazione occhio mano. Occorre sottolineare come sia il tennis che tanti altri sport asimmetrici influiscano in positivo sui dismorfismi della colonna vertebrale come ad esempio la scoliosi. Sport come il tennis o la scherma possono sviluppare di più i muscoli di un lato del corpo, ma non provocare o far peggiorare una scoliosi in fase iniziale. L’attività fisica deve essere sempre accompagnata anche da una ginnastica posturale o correttiva al fine di consentire il recupero dell’equilibrio dei due emilati corporei e correggere gli squilibri di movimenti disfunzionali in schemi motori corretti.


Il vento: amico o nemico? by Federico Coppini Quante volte avete pronunciato la frase:" ma con questo vento non riesco proprio a giocare" oppure prima di una gara: " proprio oggi che ho una partita importante doveva esserci vento, sarà un disastro" oppure " oggi non è stato divertente giocare con questo vento". Dai bambini agli adulti passando per gli atleti, in tanti anni di lavoro sui campi ne ho sentite di tutte i colori inclusi i classici lamenti e le solite scusanti: sole, campi, palle, rumori e movimenti esterni sono tutti fattori che contribuiscono al calo della qualità in una partita ma quello che l'ha sempre fatta da padrone e' il Dio dei venti: Mr. Eolo! Combattere con il vento non piace a nessun giocatore perché tutte le situazioni di gioco saranno diverse e più' difficili. Il proprio standard e la propria performance non potranno essere realizzati in un giorno ventoso. Il problema e' proprio qui....riuscire a capire che quel giorno le nostre aspettative dovranno essere diverse, le nostre capacità dovranno essere di adattabilità superiore alle difficoltà presenti e che l'indirizzò mentale dovrà essere spostato nella situazione specifica. Un giocatore di medio - alto livello alla domanda se preferirebbe giocare con vento contro o a favore ti guarderebbe con l'aria disorientata chiedendosi se, chi gli ha posto la domanda e' un pazzo o un incapace. Naturalmente tutti i bravi players vorrebbero sempre il vento a favore ma quelli di basso livello: no!!! Questo perché il controllo della palla risulta più facile, la spinta contro dell'aria ti perdona il colpo senza però realizzare che il territorio non verrà mai conquistato e la difesa sarà eterna. Come è possibile risolvere il problema? Cambiando


semplicemente i riferimenti, sempre comunque se il nostro atteggiamento mentale sarà pronto ad affrontare la situazione. Vento a favore e colpo da fondo campo: Atteggiamento prudente e di attesa per l'attacco - non giocare troppo profondo - non giocare teso - non giocare troppo piano Gioca con rotazione più alto sopra la rete mirando nei pressi della metà campo avversaria, la palla si allungherà in sicurezza e dominerai il campo così' alla prima palla più corta attaccherai ma sempre in sicurezza lontano dalle righe. Vento contro e colpo da fondo campo: Atteggiamento pronto al sacrificio, difesa in attesa dell'errore dell'avversario - non giocare teso - non provare a chiudere Gioca spinto e alto mirando almeno sulla trequarti avversaria così proverai a non perdere troppo campo e quando capiterà (raramente) una palla corta attacca e il vento ti proteggerà dal pallonetto Come in tutte le difficoltà nella vita anche nel tennis sapersi adattare e' la prima regola per raggiungere dei buoni risultati.

Quindi: chi si adatta correttamente al vento non solo avrà un grande alleato con sè ma migliorerà le sue capacità interiori.







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