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Copia omaggio per i Signori Medici - Vendita vietata

Leone Arsenio

Note Biografiche

Per milioni di anni la ricerca del cibo ha condizionato l’evoluzione, il benessere e la crescita delle popolazioni, ha contribuito a plasmare lo sviluppo sociale, ha ispirato scontri e guerre, ha affrettato la scoperta di nuovi territori e di nuovi mondi, e tutto questo si è intrecciato con le variazioni del clima, che hanno svolto un ruolo fondamentale nel modificare l’ambiente e quindi l’alimentazione e la storia dell’umanità.

ALIMENTAZIONE, CLIMA ED EVOLUZIONE DELL’UOMO

Mattioli 1885

Leone Arsenio è nato a Lecce il 9/7/1946. Si è laureato in Medicina e Chirurgia con il massimo dei voti e lode presso l’Università di Napoli nel 1970 e da quell’anno si è trasferito a Parma, dove ha conseguito i Diplomi di Specializzazione in Endocrinologia e Malattie del Ricambio, in Medicina Interna e, infine, in Biochimica e Chimica Clinica; dal 2004 è Responsabile della SSD di Malattie del Ricambio e Diabetologia. Svolge inoltre le funzioni di Professore a Contratto presso le Scuole di Specializzazione in Endocrinologia e Malattie del Ricambio dell'Università di Parma, presso Alma la “Scuola Internazionale di Cucina Italiana” di Colorno e in alcuni Master post-laurea. È membro del Comitato Scientifico di “Progress in Nutrition”, Giornale Italiano del Metabolismo e della Nutrizione. Ha già pubblicato due libri “Alimentazione ed esercizio fisico” ed “Alimentazione, Colesterolo e Aterosclerosi”.

Leone Arsenio

ALIMENTAZIONE, CLIMA ED EVOLUZIONE DELL’UOMO

Esente da bolla di accompagnamento Art. 4 Comma 6 DPR627-78

E X P L O R A

Mattioli 1885

ISBN 978-88-89397-62-6

Immagine di copertina: Andries Benedetti, Natura morta con crostaceo, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Corsini © Foto Scala, Firenze

€ 48,00


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Mattioli 1885


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Alimentazione, clima ed evoluzione dell’uomo Autore: Leone Arsenio

Disegni al tratto: Valeria Ferti Illustrazioni tecniche: Rodolfo Carlos Pazos

Isbn: 978-88-89397-62-6 2007, Mattioli 1885 spa www.mattioli1885.com

Questo libro non può essere riprodotto, interamente o in parte, incluse le illustrazioni, in alcuna forma senza il permesso scritto dell’Editore e dell’Autore.


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leone arsenio > alimentazione, clima ed evoluzione dell’uomo


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Ăˆ un dovere ed un piacere per me ricordare tutti coloro che hanno contribuito alla nascita di questo libro, sia che siano viventi, sia che non appartengano piĂš a questo mondo: i miei Maestri Luigi Cucurachi e Andrea Strata, che mi hanno introdotto alla Scienza dell’Alimentazione, i miei Genitori, che mi hanno educato e mi hanno guidato, la mia Famiglia (Amata, Vincenzo e Silvia), che mi ha aiutato, sostenuto e sopportato.


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Hieronymus Bosch La gola dalla Tavola I sette peccati mortali, 480/ca, olio su tavola, Madrid, Museo del Prado

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Prefazione Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?

Lo scopo di questo nuovo libro sull’alimentazione è quello di dimostrare che per milioni di anni la ricerca del cibo ha condizionato l’evoluzione, il benessere e la crescita delle popolazioni, ha contribuito a plasmare lo sviluppo sociale, ha ispirato scontri e guerre, ha affrettato la scoperta di nuovi territori e di nuovi mondi, e tutto questo si è intrecciato con le variazioni del clima, che hanno svolto un ruolo fondamentale nel modificare l’ambiente e quindi l’alimentazione e la storia dell’umanità. Il cibo, con i suoi nutrienti, in particolare proteine, omega 3 e colesterolo, ha contribuito alle variazioni del genoma e quindi alla selezione naturale, modificando la struttura corporea degli ominidi, rispetto ai Primati, fino alla comparsa dell’Homo sapiens: in particolare hanno contribuito all’andatura verticale (bipedismo) e all’aumento di volume del cervello. È impressionante verificare come le principali tappe della storia dell’uomo siano, in qualche modo, collegate alle condizioni ambienta-

li. Durante una glaciazione (una ogni 22mila anni circa), il freddo sottrae acqua e il livello dei mari si abbassa, mentre, durante la fase interglaciale, al contrario, lo scioglimento dei ghiacci solleva il livello dei mari, si innalzano le acque sotterranee, compaiono nuove fonti, è favorito lo sviluppo della vegetazione ed arretrano paludi e foreste. L’ultima glaciazione è finita circa 12-13mila anni fa e si è instaurato, tra 7500 e 4500 anni fa, il clima attuale, con le familiari quattro stagioni, anche se sono continuate periodiche e contenute oscillazioni termiche. L’uomo ha abbandonato il foraggiamento tradizionale (caccia e raccolta di vegetali spontanei), a causa della rarefazione degli animali da cacciare, ed è passato alla fase agricola (coltivazione dei campi e allevamento degli animali) più conveniente nella resa energetica. L’agricoltura è iniziata in Medio Oriente, nel periodo più caldo: l’uomo ha abbandonato il nomadismo ed è diventato stanziale; sono stati fondati i villaggi e poi le città, sono

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nati i mestieri specializzati (contadino, soldato, sacerdote, scriba, artigiano, ecc.) e si sono formate le classi sociali, sono stati inventati la scrittura, il commercio, il denaro, sono state varate le leggi per disciplinare la convivenza, in altre parole il branco si è trasformato in stato. Gli uomini consumavano come base nutrizionale i cereali, ma li integravano sempre in modelli alimentari più completi (“pacchetti alimentari” secondo Diamond): in Europa cereali, legumi e bestiame, in America mais, fagioli e cucurbitacee. È aumentata la quantità, ma è peggiorata la qualità del cibo e sono comparse nuove malattie da carenza nutrizionale e da infezioni, anche per la convivenza e la promiscuità con altri uomini e animali; la statura si è abbassata. Tra il 900 ed il 300 a.C. era presente un clima particolarmente fresco ed umido, con temperature mediamente inferiori di oltre 1 grado rispetto ad oggi; successivamente la temperatura è aumentata di nuovo fino a raggiungere il massimo nel momento del maggiore fulgore di Roma (periodo augusteo); quindi nuova progressiva riduzione con decadenza dell’impero romano; dal 200 al 400 d.C. il freddo ha provocato una fase arida nelle regioni dell’Eurasia centro-occidentale, che ha spinto alla migrazione verso occidente i popoli delle steppe, che hanno premuto sulle popolazioni germaniche, che, a catena, hanno invaso l’impero; tra il 400 e l’800 d.C. si è instaurata una fase particolarmente fredda, che corrisponde all’Alto Medio Evo, con il susseguirsi di carestie; tra 800 e 1300 d.C. è iniziata una nuova fase calda con almeno 1 grado più di oggi (è il periodo delle Crociate e del Rinascimento). Tra il 1550 ed il 1850 si è verificato un nuovo peggioramento generale del clima in Europa, chiamato “piccola era glaciale”, con 2,5-3 gradi meno di oggi e si è assistito ad un forte aumento dei ghiacciai sulle Alpi; negli ultimi 130 anni la temperatura è aumentata meno di 1 grado. Durante tutto questo tempo, in Europa sono

stati introdotti nuovi alimenti che hanno permesso di integrare la dieta, superando situazioni particolarmente difficili: dopo il passaggio all’agricoltura, sono stati accettati il latte dei ruminanti, i derivati del latte e le bevande alcoliche; dopo la scoperta dell’America, numerosi alimenti hanno arricchito la scelta alimentare, ma soprattutto il mais, la patata, il tacchino, alcuni legumi, il pomodoro e il cioccolato. Paradossalmente il grande successo di alcuni cibi ha comportato l’insorgenza di nuovi problemi, quali l’affermarsi della monocoltura, con gravi ripercussioni negative in caso di cattivo raccolto per avverse condizioni climatiche o malattie parassitarie. A metà Ottocento una malattia della patata provocò una grave carestia, che costrinse ad emigrazioni di massa dall’Europa verso altri continenti, dando un forte impulso allo sviluppo di questi Paesi. L’altro aspetto negativo di queste diete monotone è stato il grande numero di patologie infettive e da carenza di nutrienti, come la pellagra ed il rachitismo in Italia ed il beri-beri in Asia. Dall’Ottocento, grazie alla scoperta del vapore, è iniziata l’era industriale, con un forte incremento della disponibilità di cibo per il miglioramento delle tecniche di coltivazione, conservazione e trasporto, superando l’economia su base locale. La moderna agricoltura, figlia delle scoperte scientifiche del Novecento, nasce dall’uso coordinato della chimica, dalla selezione genetica di nuove varietà e dalla meccanizzazione. Tutto questo determina inevitabilmente vantaggi e svantaggi, quali: da un lato aumento straordinario delle rese, diminuzione dei prezzi al consumo dei prodotti agricoli, diminuzione della manodopera nelle campagne, diminuzione della superficie agricola coltivata; dall’altro, conseguenze negative sono: inquinamento dell’aria e dell’acqua (aumento dei nitriti nei vegetali, dei metalli pesanti nell’acqua di irrigazione e nei concimi, l’uso di pesticidi), le catene alimentari, le lunghe conservazioni, l’abuso di sostanze conservanti, la

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presenza di contaminanti ed infine la perdita di colture tradizionali, con il fenomeno dell’erosione genetica e riduzione della biodiversità. Due secoli sono un periodo troppo breve per variazioni del genoma, per cui l’impronta genetica dell’uomo moderno rimane, comunque, quella dei nostri antichi antenati: il nostro metabolismo funziona ancora per favorire il risparmio energetico (“fenotipo risparmiatore”). Tutte le principali patologie degenerative, dal diabete all’ipercolesterolemia, dall’ipertensione alle malattie cardiovascolari, dalle malattie reumatiche ai tumori, dalle malattie dentali alle demenze, ma prima di tutto l’obesità, drammatica “epidemia” della nostra società, trovano le loro radici nel contrasto tra l’alimentazione ricca ed abbondante di oggi rispetto al mangiare poco e “magro” del passato. D’altra parte, mai come adesso, la società assicura un elevato tenore di vita, un incredibile allungamento della vita media, l’aumento della statura media, che ci ha riportato ai livelli dell’uomo cacciatore-raccoglitore, la drastica riduzione di tradizionali flagelli, come la fame, le carestie, le malattie infettive e carenziali, i lavori massacranti. Gli uomini non hanno mai subito passivamente le condizioni ambientali, ma hanno svolto, nel bene e nel male, un ruolo attivo ed importante nel determinismo delle loro vicende storiche (evoluzione culturale). Il pensiero, la “divina scintilla”, ha permesso di incidere sulla realtà e sull’ambiente e di costruire il proprio futuro (“homo faber fortunae suae”).

Anche nelle situazioni più difficili l’uomo non si è appiattito nella semplice ricerca della sopravvivenza e non ha mai rinunciato al bello, ad onorare i morti, a dedicarsi all’arte, alla filosofia, alla religione, in una parola alla cultura: persino nel grande freddo dell’ultima glaciazione, il maddaleniano* si è dedicato alle bellissime pitture nelle grotte. L’evoluzione culturale, a differenza di quella biologica, non è casuale, ma si trasmette con le “idee”, con il bagaglio di informazioni comunicate da famiglia e società. Le “mutazioni” culturali possono avere velocità estremamente variabili, da molto lente a rapidissime, al contrario di quelle genetiche, che sono sempre molto lente, soprattutto nell’uomo che si riproduce con grande lentezza. Il singolo individuo, geneticamente molto predisposto all’apprendimento e alla comunicazione, può, a sua volta, influenzare la selezione biologica, agendo sull’ambiente. Un’ultima considerazione riguarda il futuro: l’enorme consumo di combustibili fossili, il riscaldamento del pianeta, il “buco” nell’ozono, le catastrofi climatiche, la desertificazione, la drastica riduzione della diversità biologica sono problemi strettamente collegati al clima, all’alimentazione ed all’azione dell’uomo. La scommessa, che deve assolutamente essere vinta, è riuscire a evitare i lati negativi, l’esplosione delle patologie degenerative ed il disastro ambientale, senza sacrificare i vantaggi sociali ed economici delle società industrializzate.

*Homo sapiens vissuto presso il villaggio di La Madelaine, vicino a Sarlat, nel Perigord (Francia).

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Giuseppe Arcimboldi, L’estate, Parigi, Museo del Louvre

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Indice

Parte Prima: Il cibo Il cibo e la forza Il cibo e l’uomo Il cibo e l’energia

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Parte Seconda: I nutrienti Le proteine I grassi o lipidi - Aspetti generali: gli acidi grassi - La cellula adiposa e la regolazione dell’appetito e della sazietà I carboidrati L’uomo è onnivoro? - Le alimentazioni alternative Parte Terza: L’uomo cacciatore-raccoglitore Origine della vita Origine dell’uomo Rivoluzione proteica o prima tappa della storia dell’alimentazione - La caccia e la raccolta - Le modificazioni corporee - L’ovulazione nascosta Addomesticamento del fuoco o seconda tappa della storia dell’alimentazione - La dieta del Paleolitico Il fenotipo risparmiatore - La selezione genetica - Il gene del risparmio e l’obesità - La malnutrizione prenatale - La magrezza costituzionale - Il sale L’uomo preistorico e l’arte: i Maddaleniani

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Tiziano Vecellio, Baccanale, Madrid, Museo del Prado

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Parte Quarta: L’uomo agricoltore-allevatore Le glaciazioni L’uomo agricoltore e allevatore Il Neolitico e le principali innovazioni alimentari - Latte - Latti fermentati e yogurt - Prodotti caseari - Alcolici L’alimentazione nel periodo storico Il Settecento e le principali innovazioni alimentari - Patata - pomodoro - melanzana - Riso - Granoturco o mais - Grano saraceno - Caffè - tè - Saccarosio e dolcificanti - Cioccolato

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Parte Quinta: L’uomo industriale Ottocento e Novecento - Statura - Longevità - Quale alimentazione? - Scheda: le piramidi alimentari - Obesità - Diabete di tipo 2 - Malattie cardiovascolari - Tumori - Malattie dentali - Osteoporosi - Demenze Il terzo millennio - Agricoltura biologica o tradizionale? - La sicurezza alimentare - Il futuro - Scheda: edilizia compatibile - Scheda: mobilità sostenibile

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Bibliografia e testi consigliati

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Parte Prima | Il cibo

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Il cibo e la forza

Fate combattere gli scozzesi, mentre hanno la loro razione di carne nello stomaco! Il Duca di Wellington a Waterloo

Non deve meravigliare se, fin dall’antichità, l’uomo si è posto il problema di una corretta ed adeguata alimentazione, in quanto i riflessi del cibo sulle capacità e sulle potenzialità dell’individuo sono stati sempre considerati determinanti, tanto da poter condizionare l’evoluzione della specie umana. Nell’antica Grecia si diceva che “i mangiatori di zuppa e d’orzo” (in altre parole contadini e schiavi) non potessero avere le capacità di coloro che si nutrivano di carne (le classi guerriere) (Braudel G, 1977). Già durante i giochi olimpici antichi gli atleti cercavano di migliorare le proprie prestazioni con manipolazioni dietetiche: Milone di Crotone, vincitore per sei volte alle olimpiadi nella lotta, era nutrito con 6 kg di carne ogni giorno. Ai partecipanti ai giochi olimpici, nell’884 a.C., era suggerito l’utilizzo di carne di toro per migliorare le prestazioni dei corridori, l’uso

della carne di maiale per i lottatori e gladiatori ed ancora l’uso della carne di capra ai saltatori, perseguendo lo scopo evidente di trasferire direttamente le caratteristiche biotipologiche di questi animali all’uomo. In realtà la maggior parte degli atleti olimpici era vegetariana: si nutriva con cereali, gallette di frumento, miele, fichi secchi, frutta cotta e formaggi; era proibito il vino. Filosofi e medici illustri dell’antichità sono intervenuti sul problema dell’alimentazione: Pitagora era sostenitore di un’alimentazione quasi esclusivamente vegetariana; Galeno, medico della scuola dei gladiatori di Pergamo, raccomandava di bere poco nel periodo d’allenamento e di non mangiare molta carne; Ippocrate introdusse il concetto di varietà nella qualità e quantità e di temperanza senza eccessi; Epicuro raccomandava la semplicità (“i cibi semplici ci procurano altrettanto pia-

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cere delle tavole sontuose”). Platone nella “Repubblica” così tratteggia l’alimentazione ideale: “È evidente che avranno sale, olive, formaggio, cipolle e verdura che sono il cibo dei campagnoli; per concludere il pranzo gli serviremo fichi, ceci e fave e arrostiranno sulla brace bacche di mirto e ghiande che sgranocchieranno bevendo con moderazione”. Aristofane, peraltro, negli “Acarnesi”, ribatte: “Fate bollire, arrostite al punto giusto, rimestate, togliete la lepre dal fuoco, in fretta” e nella “Pace” il soldato stanco della guerra esclama: “Mi si portino da casa un tordo e due fringuelli! A casa mia c’era anche del latticello e quattro pezzi di lepre” (Revel JF, 1979). Anche nel Medioevo era diffusa l’opinione dell’importanza della carne per primeggiare: alla figura del monaco, che abitualmente cucinava “di magro”, si contrapponeva l’immagine del nobile guerriero, combattivo e feroce, gran mangiatore di carne (Lorcin MT, 1984). Nell’888, secondo quanto riferisce Liutprando di Cremona, il Duca di Spoleto Guido fu rifiutato come re dei Franchi, perché mangiava e beveva poco in confronto ad Eudo, Conte di Parigi. Nella Chanson de Guillame si fa una diretta corrispondenza tra le straordinarie virtù militari dell’eroe e la sua capacità d’inghiottire, in un batter d’occhio, un cosciotto di porco con abbondanza di vino. Nelle società antiche la divisione delle carni

è il momento critico del banchetto, quello che serve a segnalare i rapporti di forza, a ribadire (o eventualmente ribaltare) le posizioni di potere. Il capo, l’eroe che si è mostrato più audace e coraggioso di tutti, merita il taglio migliore, e attorno a questa assegnazione può esservi concordanza d’intenti, se l’autorità del capo non viene messa in discussione; altrimenti si scatenano tensioni e lotte. In ogni caso la sala del banchetto è il teatro in cui si rappresentano gli scontri e le alleanze, in cui si consolida o si perde il potere (Montanari M, 1989). La velocità degli Eruli, la forza al giavellotto degli Unni, le capacità nautiche dei Franchi erano attribuite alle caratteristiche delle rispettive alimentazioni: vegetariani gli Eruli, prevalentemente carnivori Unni e Franchi. I lottatori Bretoni di Francesco I ritenevano che la loro invincibilità fosse legata ad un’alimentazione a base di carne e verdure. Il Rinascimento e il Barocco hanno visto il tramonto dei grandi arrosti (i buoi interi allo spiedo) e l’affermazione della carne tritata. Il mito del grosso pezzo di carne è stato ripreso ed esaltato nell’800: il “roasted beef ” in Gran Bretagna, il “pot-au-feu” in Francia, il “tafelspitz” nell’Impero Austro-Ungarico e, in Italia, il ragù napoletano (Alberini M, 1990), da non confondere con il ragù bolognese, che prevede, invece, la carne tritata.

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Il cibo e l’uomo

Il nostro cibo dovrebbe essere la nostra medicina. La nostra medicina dovrebbe essere il nostro cibo. Ippocrate

Gli animali si nutrono, l’uomo mangia, solo l’uomo intelligente sa mangiare. Brillant-Savarin

Il rapporto dell’uomo con il cibo è un fenomeno molto complesso: fino a poco tempo fa l’attenzione dei nutrizionisti era concentrata esclusivamente sui problemi legati al rifornimento energetico, indispensabile per la sopravvivenza dell’individuo (il cibo come forza vitale) e sulle patologie legate a carenze o eccessi di singoli nutrienti, anche se presenti in piccole quantità, ma in grado lo stesso di svolgere effetti positivi su una o più specifiche funzioni dell’organismo, contribuendo al mantenimento di un buono stato di salute, cioè di un benessere fisico e psichico; negli ultimi anni, l’analisi si è estesa agli aspetti sensoriali, sociali e culturali dell’alimentazione, sicuramente non meno importanti. Il mangiare è un atto quotidiano, obbligatorio, ripetitivo, come il respirare, ma, a differenza di quest’ultimo, cosciente e volontario, potendo addirittura diventare ossessivo; deter-

mina inevitabilmente sensazioni di piacere e di godimento o, all’opposto, di fastidio o di sofferenza, raramente d’indifferenza. L’assunzione del cibo è fortemente condizionata da molteplici fattori, perché, prima di tutto, l’uomo è un animale intelligente, l’unico in grado di mangiare anche quando è sazio e di non mangiare anche quando ha fame, sulla base di stimoli ed inibizioni provenienti dalla corteccia cerebrale, e l’unico capace di cucinare il cibo e di accumulare conoscenze fino a giungere alla gastronomia. La cucina è un perfezionamento dell’alimentazione e la gastronomia è un perfezionamento della cucina. La cucina deriva da due fonti: una popolare, contadina o marinara, e l’altra professionista, dotta, di corte, eseguita da cuochi, dedicati interamente a questa attività. La prima ha la caratteristica di sfruttare i prodotti locali e stagionali, in stretto contatto con la natura, di

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basarsi su un’abilità ancestrale trasmessa per le vie inconsce dell’imitazione e dell’abitudine, di applicare procedimenti di cottura pazientemente sperimentati e associati a certi strumenti e recipienti di cucina ben fissati dalla tradizione; la seconda si basa invece sull’invenzione, sul rinnovamento, sulla sperimentazione, con il rischio di un pericoloso barocchismo. In definitiva la storia della gastronomia è una serie di scambi, di conflitti, di bisticci e di riconciliazioni tra cucina popolare e dotta (Revel JF, 1979). Una curiosità è il ruolo, spesso misconosciuto, svolto dai conventi di clausura, dove il refettorio era un punto d’aggregazione e dove sono stati elaborati i primi ricettari culinari. La cucina di ciascun popolo è un punto nodale della sua cultura ed il cibo evidenzia e sottolinea un’identità personale o di gruppo, tanto che l’aroma che esala da un piatto e da un ambiente rappresenta il punto d’incontro tra la tradizione e la realtà contemporanea, esprimendosi in esperienze e riti comuni. Il primo atto d’ospitalità e di cortesia verso l’ospite forestiero, presente nella tradizione di tutti i popoli, è l’offerta di cibo. Questo atto è una presentazione, quasi una bandiera o più semplicemente un biglietto da visita, di quella famiglia e della sua cultura, perché la preparazione della tavola si basa su un patrimonio di memorie familiari e di tradizioni etniche e rispecchia lo status sociale e psicologico dell’individuo. È stato giustamente osservato che “gli odori distinguono una cultura e un Paese da un altro molto più direttamente ed effettivamente che nessuna altra caratteristica, ma i musei, con rare eccezioni, non si occupano degli odori” (Hudson K, 1991). Il mangiare cosa e con chi può rappresentare un elemento d’appartenenza o, viceversa, d’esclusione, in quanto è spesso tipico di una fascia d’età, di valori condivisi come l’amicizia, di mode sociali e filosofiche o è espressione di principi religiosi o laici, come l’agnello della Pasqua Ebraica e Cristiana, il montone del

Ramadan Islamico, il tacchino del Giorno del Ringraziamento americano, i tanti prodotti tipici italiani nell’occasione delle ricorrenze religiose (Giorno dei Morti, del Patrono, ecc.). In quest’epoca di profonde trasformazioni e d’importanti spostamenti di grandi masse di persone da un Paese ad un altro o addirittura da un continente ad un altro, con salti culturali, economici e sociali vertiginosi, la cucina mantiene vivo il senso d’appartenenza, perché cerca di ricreare e di preservare attraverso sapori ed odori un’eredità, che lega l’individuo alla terra d’origine lontana nel tempo o nello spazio. Studi effettuati su comunità d’immigrati (i coreani in USA e i vietnamiti in Veneto) hanno dimostrato che l’identità alimentare è l’ultima prerogativa ad essere sacrificata sulla strada della graduale integrazione (La Rochefoucauld: “il nostro amor proprio sopporta con più insofferenza la condanna dei nostri gusti, che quella delle nostre opinioni”). L’accettazione del modello alimentare occidentale è completo nei giorni lavorativi, perché più pratico e di facile esecuzione, mentre di sera e nei giorni festivi il cibo tradizionale rappresenta l’occasione ed il mezzo per ribadire la propria identità ed in alcuni casi, rispetta addirittura rituali tradizionali come l’offerta di cibo sull’altare degli avi (Bernardi U, 2001). Un piatto, un profumo, racchiudono frequentemente significati simbolici e psicologici per precedenti esperienze personali (memoria del cibo), che condizionano il suo consumo. L’alimentazione inoltre determina costantemente, anche se spesso inconsciamente, un collegamento ed un raffronto con l’immagine di se stessi e con i modelli vincenti della società, che esaltano l’immagine della persona magra, considerata attiva e di successo, mentre, al contrario, l’obeso risulta spesso discriminato sul luogo di lavoro. Le attuali abitudini alimentari, tipiche delle società industrializzate, che hanno sostituito

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le diete tradizionali, ricche in vegetali, si sono accompagnate ad un forte aumento delle patologie cronico-degenerative, quali obesità, diabete, ipercolesterolemia, iperuricemia, ipertensione arteriosa, che a loro volta, sono alla base dell’aterosclerosi e delle sue complicanze cardiovascolari (prima causa di morte nei Paesi industrializzati) (Yan LL, 2006). Perfino nei Paesi in via di sviluppo, la prevalenza d’obesità è raddoppiata o triplicata e nel 2025 i soggetti affetti da diabete aumenteranno di più di 2,5 volte, da 84 milioni nel 1995 a 228 milioni (Aboderin I, 2001). È stato calcolato che nel 2020 le malattie croniche saranno la causa di almeno i tre quarti di tutti i decessi nel mondo e che il 71% dei decessi sarà dovuto a cardiopatia ischemica, il 75% ad ictus e il 70% di quelli dovuti a diabete si verificherà nei Paesi in via di sviluppo (World Health Organization, 1998). Le diffusissime patologie reumatiche e l’osteoporosi, la nefrolitiasi ed infine le malattie dentali, che non incidono molto, dal punto di vista statistico, sulla mortalità, ma hanno un forte impatto sulla qualità di vita dei pazienti, sono anch’esse collegate con l’alimentazione e lo stile di vita. Recentemente numerose ricerche hanno dimostrato che anche i tumori (seconda causa di morte nei Paesi industrializzati) sono in parte correlati all’alimentazione. Si calcola che oltre il 35% dei tumori nell’uomo e tra il 40 ed il 50% nella donna sia collegato al regime dietetico: l’eliminazione del tabacco, la riduzione dell’alcol e l’aumento di frutta e verdura potrebbero diminuire del 90% i tumori della faringe, della laringe e dell’esofago; l’eliminazione del tabacco, la riduzione dei grassi e l’aumento dei cibi vegetali potrebbero ridurre dell’80% i tumori polmonari; la riduzione dei nitriti, della carne conservata e dei cibi sotto sale, oltre l’aumento di frutta e verdura, potrebbero ridurre del 70% i tumori dello stomaco; l’eliminazione del tabacco, la riduzione del colesterolo, l’au-

mento di cibi vegetali potrebbero ridurre del 60% i tumori della vescica; la riduzione dei grassi e l’aumento dei cibi vegetali potrebbero ridurre del 50% i tumori del colon-retto; l’eliminazione del tabacco, la riduzione delle calorie e del colesterolo, l’aumento dei cibi vegetali potrebbero ridurre del 50% i tumori del pancreas; la riduzione dei grassi, l’aumento dei cibi vegetali, la riduzione dell’obesità potrebbero ridurre del 40% i tumori della mammella; la riduzione dell’obesità potrebbe ridurre del 30% i tumori dell’endometrio; la riduzione dell’alcol potrebbe ridurre del 30% i tumori del fegato; l’eliminazione del tabacco e la riduzione dei grassi potrebbero ridurre del 30% i tumori del rene (Grandi M, 2004). L’assunzione di cibo è anche influenzata da una ricca offerta di consumi, in continua evoluzione, con l’introduzione di sempre nuovi alimenti, provenienti da tutto il mondo. Dal 1956 al 2006 i Mc Donald’s sono passati da 12 a 36.000 in 110 Paesi, e quattro su cinque dei nuovi ristoranti, che la catena apre ogni giorno nel mondo, si trovano fuori dagli USA (in Cina ha appena concluso un accordo per aprire oltre 3.000 ristoranti nelle stazioni di benzina), tanto che l’Economist esprime il potere d’acquisto delle diverse monete in base al costo del panino Big Mac (il Big Mac Index). La mondializzazione dell’alimentazione si sta scontrando con la persistenza ed il ritorno delle cucine regionali, che convivono accanto ai sempre più diffusi ristoranti etnici (cinesi, indiani, giapponesi, arabi, ecc.) con il risultato sia di evitare un’omologazione uniforme e senza identità, sia di permettere la conoscenza di più culture gastronomiche con arricchimento reciproco. Del resto già oggi alcuni piatti e bevande hanno superato i confini nazionali e sono diventati patrimonio comune dell’umanità, come la pizza, la pasta, l’hamburger, il sushi, il couscous, il chili con carne, il cioccolato, il caffè, il tè, le cole (il

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Messico ha appena superato gli USA nel consumo pro-capite di Coca-Cola). Nei Paesi industrializzati, peraltro, l’aumento della quantità d’alimenti disponibili si associa ad una drastica riduzione della loro varietà e, soprattutto, ad una modificazione della qualità. Il cibo è fonte di un numero impressionante di molecole bioattive d’origine animale e vegetale, in grado di soddisfare diverse esigenze extranutrizionali dell’organismo. Questa ricchezza dipende soprattutto dalle particolarità nella composizione di ciascun alimento, grazie alle differenze biologiche esistenti fra i vari gruppi d’alimenti e nell’ambito dello stesso gruppo ed, in definitiva, alla diversità biologica. La diversità biologica, definita dalla Commissione Europea Direzione Generale Agricoltura (Agri DG, 1999) come “… la variabilità della vita e dei suoi processi includente tutte le forme di vita, dalla singola cellula agli organismi più complessi, a tutti i processi, ai percorsi e ai cicli che collegano gli organismi viventi alle popolazioni, agli ecosistemi e ai paesaggi”, è la condizione indispensabile per conservare questo patrimonio, e la ricerca deve garantire la qualità anche extranutrizionale dell’alimento, nell’arco dell’intera filiera produttiva. Soltanto un apporto variato può permettere all’organismo di rispondere ai cambiamenti ambientali, odierni e futuri, in modo da favorire la capacità d’adattamento e di soddisfare diverse esigenze nutrizionali ed extranutrizionali. In altre parole la biodiversità deve essere considerata una “banca genica”, un patrimonio prezioso dell’umanità da difendere e da trasmettere alle generazioni future. Questo moderno concetto ha, in realtà, origini antiche, se si considera che già Carlo Magno impose per legge agli agricoltori l’obbligo di coltivare 90 specie di piante in via d’estinzione (Matassino D, 2001). Comportamenti sociali nuovi irrompono sullo scenario, tanto che oggi si parla d’alimentazione post-moderna, cioè del depreca-

bile, a mio parere, tramonto del pasto tradizionale, seduti attorno ad un tavolo, in compagnia di familiari o amici, ad orari fissi, e della sua sostituzione con pasti solitari e veloci, con orari variabili e saltuari e con cibi già pronti, spesso surgelati e riscaldati, o, addirittura, con piccoli spuntini sparsi nella giornata (qualcuno ha detto: “mangiare è una pessima abitudine, che l’uomo moderno, obbligato ad essere lucido e dinamico per tutta la giornata, deve assolutamente perdere”). Nel 2001 circa il 70% della popolazione italiana continuava a considerare il pranzo come pasto principale e, di questi, il 75% lo consumava a casa (in calo rispetto all’85% del 1993). Al Centro-Nord mangiava in casa il 35,4% degli occupati, mentre il rimanente si distribuiva soprattutto tra la mensa aziendale ed il bar (entrambi per 14,8%), mentre al Sud consumava il pranzo a casa il 73% degli occupati (Bernardi R, 2001). Secondo stime 2004 della Federalimentare, i prodotti “non tradizionali” rappresentano il 35% del fatturato del settore alimentare, con la crescita soprattutto dei prodotti “a più alto contenuto tecnologico”. La tendenza è un incremento del “fast-food”, che ha visto un progressivo ampliamento delle scelte a favore di prodotti più variati, ossia dal panino con la mortadella si è passati a piatti di insalate, di pasta o riso, di yogurt, di cibi integrali ed anche esotici, ma anche al diffondersi dell’“instant-food”, alimenti già pronti da prelevare dagli appositi distributori. Accanto a questi, è in forte sviluppo il cibo tecnologico, cioè modificato con apposite supplementazioni o integrazioni per renderlo più salutare, fino ad arrivare ai “nutraceutici”, che sono una via di mezzo tra alimenti e farmaci. In contrapposizione avanza spedito anche lo “slow-food”, che esalta il cibo “vero”, in sintonia con un ritrovato equilibrio tra pasti, lavoro e tempo libero. Francesco Alberoni, in un recente editoriale sul Corriere della Sera, ha così riassun-

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to “l’etica del cibo contro la barbarie del pensiero frantumato”:... “Il processo incomincia dall’agricoltura, dalla preparazione del terreno, dalla scelta del seme, delle piante, l’innesto, la lotta ai parassiti, la raccolta corretta del frutto. E poi il cucinare: scegliere gli ingredienti, sentirne la consistenza, la freschezza, il sapore, poi tagliarli nel modo giusto. Dopo, il rito della cottura: alcuni ingredienti devono essere posti prima, altri dopo, altri vanno cucinati a parte e aggiunti al momento opportuno. E poi l’olio, il burro, il sale, le spezie, tutte nella quantità e nel momento opportuno e il fuoco alto o basso, l’uso o il non uso del coperchio. Basta uno sbaglio e il cibo è rovinato come in una composizione musicale quando sbagli una nota. E poi il tavolo, le stoviglie, le zuppiere, i piatti di portata, i bicchieri, le posate ciascuna per una sua funzione. Il cibo, dalla preparazione al consumo, è perciò sempre scelta, vigilanza, attenzione, misura, equilibrio. Incorpora un’etica…”. Io aggiungerei: i commensali. Anche senza scomodare Socrate e Platone, il pasto è sempre stato un momento di socializzazione e di educazione, di controllo e di autocontrollo, di dialogo, di confronto e, in conclusione, di crescita culturale. Alimentazione e genoma L’alimentazione e l’attività fisica hanno influenzato l’espressione genetica e hanno contribuito a modellare il genoma umano. La vita è la capacità di riprodursi, cioè di generare figli identici o quasi a se stessi; nell’uomo che si riproduce per via sessuata, ognuno dei due genitori contribuisce con un patrimonio ereditario completo, detto “genoma”, costituito nell’uomo da circa 3,15 miliardi d’elementi detti “basi”, per cui l’uomo ha un doppio genoma, per metà paterno e per metà materno. L’insorgenza di ogni cambiamento, detto mutazione, evento casuale, raro e trasmissibile del patrimonio genetico, produce individui diversi. Il doppio genoma ha il vantaggio che,

se uno dei due contiene una mutazione dannosa, l’altro potrebbe compensare oppure la mutazione tenderebbe a ridurre le probabilità di sopravvivenza dell’individuo. L’evoluzione, quindi, è un meccanismo di “prova ed errore” (“trial and error”), cioè la mutazione genera la variazione ereditaria, che è selezionata automaticamente in modo da aumentare in media l’adattamento all’ambiente (Cavalli-Sforza LL, 2004). Il genotipo è nascosto nel DNA, mentre il fenotipo è ciò che la selezione genetica rende visibile; il fenotipo è il risultato dell’interazione dei geni e dell’ambiente, di cui il cibo è parte importante (“nature e nurture”, in italiano “natura e nutrizione”) (Cavalli Sforza LL, 2004). Uno stesso fenotipo può addirittura essere espressione di genotipi differenti (Manzi G, 2006). L’adattamento all’ambiente per via genetica è molto lento, specialmente per l’uomo, che si riproduce con grande lentezza, per cui è necessario attendere moltissime generazioni affinché avvengano cambiamenti desiderabili. Una recente ricerca, peraltro, studiando i mutamenti in tre popolazioni (una africana, una asiatica e una europea), ha scoperto 700 regioni del genoma che recano traccia di selezioni naturali risalenti ad un periodo relativamente recente, compreso fra 15mila e 5mila anni fa, interessanti i sensi del gusto e dell’olfatto, della digestione, della struttura ossea, del colore della pelle e delle funzioni cerebrali (Voight BF, 2006). Altri studi hanno esplorato diversi aspetti: una ricerca condotta presso l’Università di Stanford e coordinata da Marcus Feldman, facente parte del cosiddetto Human Genome Diversity Project, ha esaminato frammenti di DNA di 1056 persone appartenenti a 52 differenti popolazioni, e ha dimostrato che esistono cinque gruppi diversi, corrispondenti alle cinque maggiori aree geografiche (Africa, Europa, Asia, Oceania e Americhe), ed essi hanno in comune almeno il 95% della variabilità genetica; un altro studio, condotto nel

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2000 da un gruppo di genetisti dell’Università di New York, ha analizzato le caratteristiche genetiche del cromosoma Y, presente soltanto nei maschi, ed ha concluso che ebrei, siriani, libanesi e palestinesi sono fratelli genetici; un altro, condotto su DNA dei mitocondri, organelli cellulari trasmessi soltanto dalla madre, ha dimostrato che gli europei discenderebbero soltanto da sette “madri” originarie (Altichieri A, 2000). In estrema sintesi è così possibile riassumere l’informazione genetica: nel DNA del nucleo cellulare è contenuta, in codice, tutta l’informazione genetica richiesta per la costruzione cellulare. Gli acidi nucleici sono di due tipi, il DNA e l’RNA, costituiti dall’unione di monomeri, detti nucleotidi, a sua volta formato da uno zucchero (ribosio nell’RNA e deossiribosio nel DNA), da un gruppo fosfato e da una base azotata (adenina, timina, guanina, citosina, uracile), complementari tra loro a due a due. Le molecole del DNA sono formate da due filamenti di nucleotidi avvolti a elica, quasi sempre associati a proteine (istoni); i due filamenti possono separarsi e ciascuna delle due catene serve da stampo per la sintesi di due nuovi filamenti con la formazione di due molecole di DNA identiche (replicazione cellulare). In questo modo è garantita la trasmissione e l’ereditarietà dei caratteri nelle cellule figlie. La sequenza dei nucleotidi codifica la posizione degli aminoacidi nella catena polipeptidica e quindi la sintesi proteica: ad ogni tripletta di nucleotidi corrisponde un solo aminoacido. Il trasferimento dell’informazione genetica è mediato da un meccanismo complesso che coinvolge l’RNA messaggero (mRNA), l’RNA di trasporto, i ribosomi e un numero elevato di enzimi. L’informazione genetica contenuta nel DNA è dapprima trasferita nell’RNA (trascrizione) e realizzata nella sintesi di proteine specifiche (traduzione), seguendo il codice determinato dalla sequenza dei nucleotidi. RNA cortissimi

(microRNA) si legherebbero saldamente a DNA o mRNA e ne regolerebbero l’attività favorendola o impedendola, fungendo da regolatori dell’accensione e del funzionamento di altri geni. Esistono proteine che, a loro volta, possono svolgere funzioni regolatrici sul DNA e quindi sull’espressione genica. Un’ipotesi ammette che le regioni del DNA che influenzano la trascrizione abbiano spesso una struttura “a moduli” costituita da brevi sequenze di DNA (6-15 nucleotidi), che legano un corrispondente numero di proteine regolatrici, alcune delle quali sono ubiquitarie, mentre altre sono presenti in particolari cellule o in determinati momenti; alcune proteine regolatrici attiverebbero la trascrizione, altre la potrebbero reprimere; gli stessi moduli e le stesse proteine regolatrici possono influenzare l’espressione di molti geni, suggerendo che la combinazione differenziale di un numero limitato di elementi a funzione regolativa possa determinare il controllo dell’espressione di un elevato numero di geni e tutto ciò potrebbe essere estremamente rilevante da un punto di vista evolutivo. Peter e Rosemary Grant, sulla scia di Darwin, hanno studiato 14 specie di fringuelli delle isole Galapagos e hanno dimostrato che i semi, di cui essi si nutrono, variano a seconda delle condizioni climatiche, e che, quelli con il becco più adatto alle dimensioni e durezza del seme di quell’anno, hanno maggiori probabilità di sopravvivere. Le femmine inoltre scelgono i maschi in base al loro canto, che è tramandato ai piccoli, favorendo un isolamento riproduttivo tra gruppi, precondizione essenziale per la formazione di una specie. L’isolamento riproduttivo, però, non è completo e gli ibridi, in caso di vantaggio della sopravvivenza, aumentano la diversità genetica dei fringuelli (Grant PR, 1989). Un altro esempio di questo intreccio tra geni, alimentazione, attività fisica ed evoluzione è rappresentato dal colore della pelle. Nella

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Preistoria gli antropoidi, durante la quotidiana ricerca del cibo (foraggiamento), andavano incontro ad un grande consumo energetico per le elevate prestazioni muscolari: lunghe marce (gli spostamenti, circa 40 km giornalieri) intervallate da improvvise corse nell’ambiente della savana. Tutto questo fu reso possibile dalla perdita del mantello peloso, perché in questo modo l’ominide riuscì a termodisperdere meglio il calore durante la corsa, divenendo però più esposto agli effetti dannosi dei raggi solari. È verosimile quindi che il colore nero della pelle, dovuto alla presenza di melanina, abbia svolto un ruolo di salvaguardia, perché proteggeva dagli effetti dannosi degli ultravioletti e permetteva di sfruttarne gli effetti benefici, quali la sintesi della vitamina D. La migrazione dall’Africa verso le altre regioni del globo ed in particolare quelle settentrionali, dove l’irradiazione solare era minore ed il freddo induceva a coprirsi con degli indumenti, esponendo meno la pelle alla luce, ha portato ad una riduzione della melanina con un progressivo schiarimento del colore cutaneo ( Jablonski NG, 2000). Tutto questo è stato compensato da una modificazione delle abitudini alimentari: le popolazioni più settentrionali, gli esquimesi, sono sopravvissuti solo perché hanno mangiato prevalentemente cibi animali, ricchi in grassi e vitamina D. È interessante rilevare che la sintesi della melanina nella cute è regolata dall’ormone melanocitostimolante (MSH), che a livello ipotalamico svolge un ruolo importante nel controllo dell’alimentazione. La donna potrebbe avere comunemente la pelle più chiara dell’uomo per una maggiore necessità di vitamina D per la gravidanza e l’allattamento ( Jablonski NG, 2002). Anche l’attività fisica può influenzare il fenotipo: un recente

studio ha dimostrato un aumento delle dimensioni cerebrali (40% di cellule dell’ippocampo in più) nei cuccioli delle cavie che hanno praticato attività fisica durante la gravidanza (Bick-Sander A, 2006). Accanto alla selezione genetica, l’evoluzione dell’uomo è stata influenzata dalla selezione culturale, ossia dall’intervento della trasmissione di fattori quali il linguaggio e il comportamento “rituale”, ripetitivo, caratteristico di un gruppo sociale (Cavalli Sforza LL, 2004), in grado di fare la differenza in situazioni critiche. Nell’uomo il comportamento è largamente appreso per insegnamento diretto e per l’esempio fornito dalla società. La trasmissione culturale può essere verticale ed orizzontale. La prima è legata soprattutto all’influenza della famiglia ed è lenta e conservativa, tende cioè a “formare” il comportamento del figlio secondo il modello dei genitori ed anche dell’ambiente sociale. La trasmissione orizzontale è innovativa, può essere lenta, ma anche rapidissima, è trasmessa da uno a molti individui, come ad esempio nella scuola, o da molti ad un solo individuo, ad esempio nelle regole del “conformismo” sociale. La cultura è stata un meccanismo di adattamento rapido, totipotente, dotato di grande flessibilità, in grado di diffondersi rapidamente a tutta la popolazione e di influenzare il futuro degli uomini. A partire dal Sapiens, l’evoluzione culturale sembra dominare su quella biologica. Durante gli ultimi 10mila anni non si sono manifestate modificazioni sostanziali del patrimonio genetico, mentre, soprattutto negli ultimi secoli, si è assistito ad un’esplosione culturale. Non per niente, soltanto l’Homo Sapiens è stato capace di sopravvivere nel difficile periodo della glaciazione di Wurm.

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Il cibo e l’energia

La dieta non fa vincere una gara, ma una dieta sbagliata la può far perdere.

L’energia meccanica “bruciata” durante l’attività fisica deriva dagli alimenti (il “carburante” della macchina umana), in grado di fornire energia meccanica o termica per trasformazione dell’energia chimica. Le nostre fonti energetiche sono i lipidi, che forniscono 9,46 Kcal/g, le proteine 4,32 Kcal/g e i glucidi che assicurano 4,18 Kcal/g, valori classici di riferimento ottenuti misurando la quantità d’energia calorica prodotta ossidando completamente tali nutrienti in un apposito strumento (bomba calorimetrica adiabatica di Berthelot). Il fabbisogno energetico è stato definito dalla Commissione Scientifica della Comunità Europea (1993) come “l’apporto d’energia d’origine alimentare destinato a compensare la spesa energetica d’individui che mantengano un livello d’attività fisica economicamente necessaria e socialmente desiderabile e che abbiano dimensioni e

composizione corporea compatibili con un buono stato di salute a lungo termine”. La porzione maggiore delle necessità energetiche di un individuo è generalmente rappresentata dal metabolismo basale, cioè dall’energia necessaria per il mantenimento delle funzioni vitali dell’organismo in condizioni basali, vale a dire in completo riposo ed in equilibrio termico con l’ambiente. Questo consumo energetico comprende il lavoro svolto per tutti i processi d’accrescimento e moltiplicazione cellulare, il lavoro osmotico per assorbire e accumulare sostanze e il lavoro meccanico e funzionale dei vari organi, legati alle funzioni fisiologiche sostenute a riposo, come la circolazione sanguigna, la respirazione, la digestione e il tono muscolare involontario. Il metabolismo basale in un individuo sedentario rappresenta circa il 6575% della spesa energetica giornaliera ed è

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FIGURA 1 L’energia necessaria per la vita deriva dai processi ossidativi a carico dei nutrienti. L’ossigeno deriva dall’aria inspirata ed il mediatore chimico prodotto è l’ATP

soprattutto una funzione del metabolismo epatico (con un peso di 1,6 kg raggiunge una spesa energetica del 27%), cerebrale (peso 1,4 kg, spesa energetica del 19%), cardiaco (peso 0,32 kg, spesa del 7%), renale (peso 0,29 kg, spesa del 10%) e degli altri muscoli (peso 30 kg, spesa 18%). L’energia chimica contenuta negli alimenti non è direttamente utilizzabile, ma deve essere in un primo tempo trasferita a particolari mediatori chimici, i quali assumono il ruolo di trasportatori e accumulatori d’energia; fra questi il più importante è l’adenosintrifosfato o ATP che fornisce l’energia alla fibra muscolare (Fig. 1). A sua volta l’ATP viene rapidamente ricostituito a partire da adenosindifosfato (ADP) e dai legami fosforici ad alta energia del creatinfosfato (CP). La disponibilità di ATP e CP è assicurata dalla fosforilazione ossidativa delle molecole

originate dai nutrienti energetici (soprattutto lipidi e glucidi), attuate nei mitocondri delle cellule muscolari. Il primo processo si svolge in anaerobiosi, senza produzione di acido lattico ed è di breve durata (da zero a 20 secondi). In questo periodo di tempo la capacità, cioè la quantità globale d’energia prodotta, è estremamente limitata ma è sviluppata molto rapidamente e quindi con potenza, cioè con quantità d’energia fornita nell’unità di tempo, elevatissima. Un secondo meccanismo di produzione di ATP interviene nella demolizione del glucosio, proveniente dal glicogeno muscolare: comincia 20 secondi dopo l’inizio dell’esercizio e dura almeno due minuti. Questo processo, medio, si svolge in anaerobiosi lattica per trasformazione del piruvato in lattato ed ha una capacità maggiore, ma una potenza minore rispetto al primo sistema. Un terzo processo

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GLUCOSIO (Glicogeno)

PIRUVATO

LATTATO ACIDI GRASSI, AMINOACIDI, CHETONI

Ac. - CoA OSSALACETATO

ACIDO CITRICO

CICLO DI KREBS

CO2

AMINOACIDI

AMINOACIDI ACIDI GRASSI

H+

FIGURA 2 Nel ciclo di Krebs confluiscono le vie ossidative del glucosio, degli acidi grassi, degli aminoacidi e dei chetoni tramite l’acetilCoA. Per ogni ciclo, si liberano molecole ridotte, che, tramite la catena respiratoria, cedono l’idrogeno all’ossigeno, formando acqua e CO2 e liberando energia

si svolge in aerobiosi alla fine della contrazione muscolare e sfrutta la combustione completa del glucosio attraverso il ciclo di Krebs fino a formare acqua e anidride carbonica, con ricostituzione delle riserve di ATP. In questa fase si ha un’utilizzazione preferenziale degli acidi grassi attraverso l’acetilCoA, quale fonte di energia da parte del muscolo. Questo terzo sistema presenta una capacità elevata ma una potenza modesta. Dal metabolismo aerobico risultano 36 molecole di ATP per molecola di glucosio ossidata; da quello anaerobico solo due. In condizioni di buona ossigenazione l’acetilCoA entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici o di Krebs, combinandosi con l’ossalacetato per formare citrato e, quindi in successione, isocitrato, ketoglutarato, succinato, fumarato, malato ed, infine, nuovamente

ossalacetato, con ripresa del ciclo. In questo ciclo possono confluire acidi grassi ed aminoacidi, confermando il ruolo centrale dei carboidrati nel metabolismo energetico (“i grassi bruciano al fuoco dei carboidrati”) (Fig. 2) (cfr. capitolo “I carboidrati”). Ad ogni tappa del ciclo è rimosso un atomo di idrogeno e quindi un paio di elettroni. In definitiva sono ottenute per ogni ciclo 3 molecole di NADH+H, 1 FADH2 e 1 GTP. Queste molecole trasferiscono tramite la catena respiratoria (coenzima Q10, citocromi) l’idrogeno fino a formare acqua con l’ossigeno, e liberando energia con produzione di ATP (Fig. 1). A livello del sistema citocromo ossidasi mitocondriale, 1 molecola di ossigeno è ridotta mediante 4 elettroni con formazione di 2 molecole di acqua e con generazione di 3 molecole di ATP. Proprio a

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livello del CoQ10 possono avvenire delle “trasmissioni” di elettroni (“leakage”) direttamente all’ossigeno con formazione di anione superossido, acqua ossigenata e radicali idrossilici. Tale processo è incrementato da disaccoppiamenti della fosforilazione ossidativa, da trattamenti con ossigeno iperbarico, dall’invecchiamento, dalle fasi di ischemia-iperossia, da alterazioni dei lipidi mitocondriali per deficit di acidi grassi polinsaturi o per eccesso di acidi grassi saturi o per perossidazione lipidica. Nelle molecole normali gli elettroni orbitanti attorno all’atomo sono in numero pari, dato che si accoppiano a due a due per dare luogo ad un sistema normalmente privo di attività elettromagnetica. Un sistema di atomi che possiede un solo elettrone (“elettrone spaiato”) è fortemente magnetico. I radicali liberi sono sostanze, atomi o frammenti di molecole, fortemente reattive, caratterizzate da uno squilibrio di elettroni nell’orbita esterna, per cui tendono ad accettare o donare singoli elettroni per acquistare stabilità, con tutte quelle sostanze con cui è possibile formare orbitali molecolari costituiti da coppie di elettroni (idrogeno, metalli, ecc.). I radicali liberi si formano tutte le volte che, conferendo energia a molecole ordinarie attraverso radiazioni, reazioni di ossido-riduzione, alte temperature, si rompono gli usuali accoppiamenti di due elettroni in un orbitale molecolare. La stabilità può essere raggiunta o accettando (quindi ossidazione) o donando (quindi riduzione). Queste sostanze vivono frazioni di secondo e sono continuamente formate e continuamente neutralizzate dalle sostanze antiossidanti. L’ossigeno molecolare (O2) ha due elettroni spaiati nell’orbita esterna ed è tecnicamente un diradicale. L’aggiunta di un singolo elettrone all’O2 . genera il radicale anione superossido O2, l’aggiunta del secondo elettrone forma il perossido d’idrogeno (H2O2). La successiva reazione con il radicale anione superossido

. O 2, genera il radicale libero idrossilico . (OH ), che rappresenta la forma di gran lunga più reattiva, che deve essere subito bloccata dalle cellule. Altre sostanze reattive sono l’ozono (O3) e il radicale derivato dal . diossido di azoto (NO ). Le principali fonti interne di sostanze ossidanti sono rappresentate dalle catene mitocondriali e microsomiali, dagli enzimi ossidanti (ciclossigenasi, xantina-ossidasi, monoamino-ossidasi, urato-ossidasi, aldeide-ossidasi, ecc.), dal sistema del citocromo P450 del reticolo endoplasmico, dalle cellule immunitarie. Un antiossidante è una sostanza capace di ritardare o prevenire l’ossidazione di un substrato, che può essere proteico, lipidico, glucidico o nucleico (DNA). Le sostanze che neutralizzano i radicali liberi possono essere raggruppate in due categorie: preventivi ed attivi. I primi prevengono l’inizio della reazione a catena, che genera radicali liberi, (radical quenching) e comprendono principalmente ceruloplasmina, transferrina e albumina (capacità di legare i metalli). I secondi interrompono il processo ossidativo (chain breaking) perché reagiscono con intermediari della reazione a catena, formando prodotti stabili e comprendono principalmente le vitamine C ed E, l’urato e proteine con gruppi SH. Gli antiossidanti si suddividono in lipofili (vitamina E), idrofili (vitamina C) e anfifilici, in parte lipofili e in parte idrofili (flavonoidi e fenoli). Il più importante scavenger o spazzino intracellulare dei radicali liberi è il glutatione (GSH), tripeptide in grado di passare dalla forma ridotta alla ossidata e viceversa. Importante è anche il ruolo svolto dalle vitamine C, A ed E, con azione di scavenger. Nella fase lipidica della cellula, i più importanti antiossidanti sembrano essere la vitamina E (alfatocoferolo), il beta-carotene e il coenzima Q10, conosciuti come efficaci sostanze in grado di bloccare i radicali liberi. Esistono sostanze denominate “proossidanti”, che

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possono stimolare il danno dei radicali liberi nei componenti non lipidici. Quando il bilancio tra antiossidanti e proossidanti si altera e si incrementa la produzione di radicali liberi o le difese immunitarie totali si abbassano, si può produrre una situazione di stress ossidativo. Qualora non siano prontamente inattivati, i radicali liberi danneggiano le molecole, che costituiscono le membrane cellulari, con vari meccanismi: a) i lipidi, che vanno incontro a perossidazione; b) le proteine con ossidazione degli enzimi contenenti gruppi sulfidrilici, con formazione di legami covalenti con altre macromolecole e con distruzione di coenzimi; c) i glucidi con depolimerizzazione; d) gli acidi nucleici con idrossilazione delle basi con possibile comparsa di mutazioni. I fenomeni di ossidazione e lo stato di ossido-riduzione hanno certamente influenzato l’evoluzione della vita. L’ATP è sintetizzato durante la catena respiratoria tramite fosforilazione ossidativa, che si svolge a livello della membrana mitocondriale interna dei tessuti. Per consentire una maggiore produzione di ATP è attiva, nel muscolo, anche una sua resintesi a partire da due molecole di ADP con formazione di 1 molecola di adenosinmonofosfato (AMP) e di una molecola di ATP. In condizioni di riposo sono consumati 1,6 kg/h di ATP, mentre in condizioni di strenuo esercizio si arriva fino a 30 kg/h di ATP. L’ossigeno necessario alla ossidazione proviene dall’aria che respiriamo, mentre il prodotto finale delle ossidazioni dei nutrienti è l’anidride carbonica. La quantità di ossigeno varia inoltre in relazione al grado di attività fisica. Il consumo di O2 e l’accumulo di CO2 comportano l’intervento di meccanismi di recupero da parte dell’organismo. I due sistemi, che svolgono questo compito, sono il sistema respiratorio e il sistema cardiocircolatorio. Il sistema respiratorio provvede attraverso l’inspirazione ad assorbire l’O2

necessario ad ossigenare il sangue, che circola a livello polmonare, e, contemporaneamente, attraverso l’espirazione, ad eliminare l’eccesso di CO2, presente nel sangue. Il sistema cardiovascolare provvede a smistare il sangue ossigenato, proveniente dai polmoni, dal cuore alla periferia, attraverso le arterie fino ai capillari, e a ricondurre il sangue periferico dai capillari venosi fino al polmone per effettuare nuovamente gli scambi respiratori. Il trasporto avviene tramite l’emoglobina contenuta negli eritrociti ed è direttamente proporzionale al contenuto di emoglobina ematica (ogni grammo di emoglobina può trasportare 1,34 ml di ossigeno). Il tessuto muscolare è costituito da proteine contrattili, che, eccitandosi, sono in grado di muovere le leve ossee, alle quali è collegato tramite inserzioni tendinee, o di aumentare la pressione in organi cavi (cuore, ecc.), con il conseguente spostamento di gas o liquidi. Dal punto di vista anatomico, il muscolo scheletrico è racchiuso in una lamina connettivale (epimisio), formata principalmente da collagene, che rappresenta una superficie di scorrimento per i muscoli circostanti; a sua volta, il muscolo è formato da fasci grossolani, rivestiti da una guaina connettivale (perimisio); a loro volta, i fasci muscolari sono composti da fibre, rivestite dall’endomisio; ogni fibra è costituita da una cellula muscolare, che rappresenta il mattone costruttivo del muscolo; le fibre, quindi, sono costituite da fibrille ed, infine, queste ultime sono formate da filamenti, dati da proteine contrattili. Le proteine, che compongono i filamenti, sono miosina, actina, tropomiosina e troponina. Il muscolo si contrae per scorrimento dei filamenti di actina su quelli di miosina, che avviene con un complesso meccanismo di rottura e ricostruzione di legami chimici fra le due componenti. Il processo attraverso il quale l’impulso nervoso trasmette alla fibra muscolare il messaggio contrattile è detto accoppiamento

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“eccitazione-contrazione” e prevede l’intervento di vari ioni, soprattutto calcio, e di molecole in grado di fornire energia (ATP). Un ruolo importante è svolto dal sistema creatina-creatinfosfato (CP), che interviene rapidamente per la resintesi delle molecole di ATP e rappresenta quindi una forma di riserva energetica rapidamente utilizzabile e funge da trasportatore di energia dai mitocondri a diversi siti dotati di attività ATPa-

sica nel citoplasma; il declino della forza sviluppata durante una contrazione muscolare intensa potrebbe essere collegato al depauperamento delle riserve di CP, con conseguente rallentamento della velocità di rigenerazione dell’ATP. Il rendimento del “motore umano” è pari a circa il 20-25%, cioè su 4 calorie introdotte una si trasforma in lavoro e 3 in calore.

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Parte Seconda | I nutrienti

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Le proteine

Le proteine sono sostanze quaternarie costituite da carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, con l’aggiunta talvolta di zolfo o fosforo o ferro o rame, ecc. e rappresentano la base della struttura plastica dell’organismo: senza proteine saremmo una massa informe. L’elemento proteico più semplice è rappresentato dagli aminoacidi (AA) (Fig. 3), che costituiscono i “mattoni” per la costruzione delle proteine. In realtà soltanto 20 dei possibili AA sono coinvolti nella sintesi proteica e dalle varie combinazioni di questi, analogamente alle lettere dell’alfabeto, derivano innumerevoli combinazioni proteiche; una proteina può contenere da 100 fino a 1000 AA, legati tra loro con legami peptidici fra un gruppo carbossilico di un aminoacido e un gruppo aminico di un altro aminoacido. Tra gli aminoacidi presenti in natura, alcuni sono definiti essenziali (AAE) per l’uomo,

NH2 R

C

COOH

H FIGURA 3 Struttura base di un aminoacido

perché il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli, e devono essere perciò introdotti preformati in quantità adeguate dall’esterno con gli alimenti (valina, leucina, isoleucina, treonina, fenilalanina, triptofano, lisina, istidina, metionina) (Tab. 1), mentre sono considerati semiessenziali cisteina e tirosina, perché in

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Aminoacido Lisina Leucina Fenilalanina + Tirosina Valina Isoleucina Treonina Metionina - Cisteina Triptofano

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mg/kg peso corporeo 42 39 39 24 23 21 16 6

TABELLA 1 Apporti giornalieri obbligatori di aminoacidi essenziali

grado di risparmiare rispettivamente metionina e fenilalanina. Fra gli aminoacidi essenziali si distinguono quelli a catena ramificata (Branched Chain AminoAcids o BCAA) e cioè la valina, la leucina e l’isoleucina, che non sono, come tutti gli altri, metabolizzati nel fegato, ma in altri tessuti (rene, tessuto adiposo, cervello) e soprattutto nel tessuto muscolare. Tutti gli altri “non essenziali” sono sintetizzati direttamente e in modo autonomo dall’organismo. Alcuni AA, glicina, prolina, arginina, glutamina e taurina (derivato della cisteina), sono definiti “condizionatamente essenziali”, perché in alcune condizioni fisiologiche non sono sintetizzati dall’organismo a velocità sufficiente. Le proteine animali hanno un valore biologico maggiore rispetto alle proteine vegetali, in quanto hanno uno spettro aminoacidico più completo, il che ne permette una migliore utilizzazione. Infatti, la sintesi proteica dipende dalla contemporanea presenza di tutti i diversi aminoacidi partecipanti alla struttura proteica ed è sufficiente la mancanza di un solo aminoacido per bloccare l’assemblaggio anche di centinaia d’aminoacidi, coinvolti nella sintesi di una proteina. Un eventuale eccesso d’altri aminoacidi non supplisce quello caren-

te, per cui il frammento meno presente rappresenta il fattore limitante la sintesi delle proteine (legge del minimo). Le proteine d’origine vegetale sono in genere carenti di uno o più aminoacidi essenziali: ad esempio il granoturco è povero di triptofano, il frumento di lisina ed i fagioli di metionina. La diversità degli aminoacidi carenti (o limitanti) permette di superare questo problema attraverso l’associazione di diversi alimenti vegetali e, ancor meglio, animali. Ogni giorno esiste un turnover di circa 250300 g di proteine, contro un apporto giornaliero di 70-100 g: una quota elevata, quindi, degli aminoacidi, proveniente dalla proteolisi endogena, è riutilizzabile e soltanto una quota d’aminoacidi (circa 30-40 g/die) è degradata in maniera tale da non poter più essere riutilizzata e deve essere rimpiazzata (Fig. 4). L’emivita delle proteine è differente nei vari organi e nelle varie strutture endocellulari e si basa su un controllo estremamente selettivo e strettamente regolato per evitare di danneggiare gravemente la funzione cellulare. La sintesi proteica provvede alle sintesi prioritarie (anticorpi, ormoni, enzimi, ecc.) e al rimpiazzo delle proteine demolite sulla base di informazioni provenienti dai geni: un gene codifica la struttura di una o più proteine. La realizzazione delle diverse attività vitali richiede la partecipazione di proteine variabili nel numero, nella qualità e nella quantità combinatoria tra loro. Elemento essenziale è che si stabiliscano delle interazioni fisiche e funzionali, in modo che si formi una rete funzionale. La struttura primaria di una proteina, costituita dalla semplice sequenza aminoacidica, rappresenta il primo passo dell’organizzazione. I ripiegamenti per tratti più o meno lunghi in strutture regolari, dette alfa-eliche e foglietti beta, costituiscono la struttura secondaria. Il ripiegamento su se stessa della lunga catena polipeptidica fino a formare strutture spaziali tridimensionali complesse, ad esem-

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Proteine totali corporee 10 kg

Proteine dieta 100 g

Secreti 20 g Fegato 25 g

Muscoli 50 g

Leucociti 20 g

TURNOVER TOTALE DELLE PROTEINE 250 g

Secreti intestinali 70 g

Aminoacidi liberi 100 g

Assorbiti 160 g

Ritenuti 5g

Hb 8g

Pelle 2g

I N T E S T I N O

Azoto fecale 10 g eq. proteico

FIGURA 4 Turnover giornaliero di proteine dell’intero organismo e di alcuni organi nell’uomo di 70 kg

pio gomitoli, costituisce la struttura terziaria. Infine la struttura quaternaria è data dalla combinazione o aggregazione di due o più molecole proteiche, a cui si può legare un gruppo prostetico non proteico. Il passaggio dallo stato di filamento alla struttura solida tridimensionale rende possibile l’interazione temporanea o permanente con altre proteine o con gli altri tipi di macromolecole (ad esempio acidi nucleici). Altre modifiche sono di tipo chimico, come ad esempio l’attacco di un gruppo fosfato, che permette il passaggio dallo stato inattivo a quello attivo, innescando una catena di reazioni, in cui la proteina iniziale comunica con altre proteine o altre molecole, cambiando struttura per breve tempo per poi ritornare allo stato iniziale, mentre il segnale avanza a catena. Altro aspetto è la possibilità

di riarrangiamenti strutturali, che trasformano una singola proteina in un mosaico di segmenti con proprietà diverse, che conferiscono alla proteina la capacità di interagire con molecole differenti per uno scopo comune (ad esempio un segmento si lega ad un ormone ed un altro segmento, dopo questo legame, diventa capace di legarsi al DNA, attivando uno o più geni). In definitiva è evidente il fondamentale ruolo che le proteine svolgono sulla stessa trasmissione dell’informazione genetica, cioè su tutte le informazioni necessarie alla conservazione, alla trasmissione e all’espressione dei caratteri ereditari degli organismi viventi. La proteolisi ha il compito di individuare ed eliminare selettivamente le proteine che si sono avvolte in maniera anomala a causa d’er-

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rori genetici o di mutazioni o di danni perossidativi, di rifornire d’aminoacidi essenziali le sintesi prioritarie, quali la produzione d’anticorpi o d’ormoni o d’enzimi, e di mettere a disposizione materiale energetico, soprattutto a spese dei muscoli, in condizioni di grave carenza nutritiva o di cachessia neoplastica o di altre malattie. Questo processo avviene soprattutto tramite tre vie: la via autofagocitica-lisosomiale è presente nel fegato, muscolo, cuore; la via ATP-ubiquitina-proteosoma; la proteasi calcio-dipendente, che probabilmente inizia la degradazione delle miofibrille intatte. La degradazione delle proteine ad opera di un proteosoma (grande complesso per la degradazione delle proteine citosoliche) avviene in due stadi: la proteina è prima marcata e quindi demolita. La marcatura (targeting) avviene legando covalentemente un piccolo polipeptide di 76 AA, detto ubiquitina. Il processo di marcatura richiede una serie di complicati passaggi che si concludono con il legame di diverse molecole di ubiquitina al gruppo NH2 di vari residui di lisina della proteina substrato. Le proteine attivate sono allora riconosciute e degradate da enzimi proteolitici (protesomi). Questo sistema è attivato o inibito da vari fattori tossici, infiammatori o ormonali. La perdita di oltre il 30% del patrimonio proteico comporta inizialmente riduzione della forza muscolare, della forza respiratoria, della funzione di tutti gli organi ed infine la morte. Una carenza proteica, inoltre, riduce le difese immunitarie contro le infezioni, in particolare l’immunità cellulare, la produzione di citochine, la funzione fagocitaria; una malattia respiratoria o intestinale, a sua volta, diminuiva le probabilità di sopravvivenza dell’uomo primitivo. In definitiva è evidente che: le proteine rappresentino la struttura plastica dell’organismo; siano indispensabili per produrre ormoni,

anticorpi, enzimi; siano precursori di neuromediatori e di importanti molecole (vitamina PP, glutatione, ecc.); l’intero sistema funzionale delle proteine sia significativamente influenzato dall’alimentazione. Resta da sottolineare adeguatamente il fatto che le proteine svolgano un ruolo fondamentale nella contrazione muscolare e quindi nella raccolta e nella caccia dell’uomo primitivo (Bramble DM, 2004). Gli aminoacidi introdotti in eccesso sono catabolizzati a scopo energetico, previo distacco del gruppo aminico per deaminazione o transaminazione, mediante la successiva utilizzazione dello scheletro carbonioso nelle vie metaboliche dei glucidi o dei lipidi (aminoacidi glicogenetici e chetogenetici). I primi sono soprattutto quelli non essenziali e producono glucosio; i secondi, corrispondenti in parte agli aminoacidi essenziali, producono prevalentemente corpi chetonici. La velocità, con cui gli aminoacidi in eccesso sono avviati alla conversione e demolizione, è superiore rispetto, nell’ordine, a quella dei glucidi e dei lipidi, in rapporto alla facilità crescente di deposito, come riserva energetica, di questi nutrienti. Il nostro organismo, infatti, non dispone di riserve proteiche, cioè tutte le proteine presenti nel corpo sono proteine funzionali e non esistono proteine superflue. Soltanto i grassi hanno una potenzialità di deposito quasi senza limite, mentre i glucidi non possono accrescere, oltre determinati livelli, la quantità di deposito nel fegato e nei muscoli anche per il forte richiamo di acqua. In altre parole sembra che, in condizioni di surplus energetico, la “macchina umana” bruci più rapidamente i nutrienti che ha crescenti difficoltà a depositare come riserva. Per inciso, esclusivamente l’alcol etilico, che non è corretto considerare un nutriente energetico e che non può depositarsi nell’organismo, ha una velocità catabolica maggiore rispetto agli aminoacidi. Fino a pochi anni fa si riteneva che le pro-

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teine non fossero in alcun modo utilizzate nell’esercizio muscolare, a condizione che il rifornimento calorico in lipidi e glucidi fosse adeguato. Attualmente le opinioni sono discordanti: per alcuni l’ossidazione degli aminoacidi è da considerarsi trascurabile in condizioni di base (Cerretelli P, 1993) e per un esercizio sottomassimale (di durata inferiore ad 1 ora), mentre durante un esercizio prolungato le proteine fornirebbero dal 3 al 15-18% dell’energia richiesta (Dohm GL, 1985; Lemon PWR, 1980; Siliprandi N, 1989); secondo altri Autori, già a riposo le proteine contribuiscono per un 17% ai consumi energetici (Cipolla M, 1990). Mediante la tecnica della marcatura degli aminoacidi, sperimentata in attività di endurance (soprattutto corsa e ciclismo), si è dimostrato che l’ossidazione degli aminoacidi si verifica anche nelle prime fasi dell’esercizio ed acquisisce importanza sempre maggiore con il perdurare e l’intensificarsi dello stesso. La disponibilità di glucidi influenza molto l’utilizzazione delle proteine come combustibile, con evidente effetto pro-

teino-risparmiatore (Kreider RB, 1993). L’incremento dell’utilizzo di proteine quale fonte energetica è tanto più elevato quanto più è limitata la quota di carboidrati disponibile all’inizio dell’esercizio (Felig PL, 1987; Rennie MJ, 1981). L’attività muscolare è perciò caratterizzata da una marcata riduzione o anche inibizione della sintesi proteica, a causa di una messa a disposizione di importanti quantità di aminoacidi, quali substrati energetici per l’attività contrattile (Rennie MJ, 1981). A questa condizione si associa un aumento della degradazione delle proteine tissutali allo scopo di incrementare la disponibilità di aminoacidi liberi (Rennie MJ, 1981) (Fig. 5). Nello sforzo muscolare protratto, la normale sintesi delle proteine è ridotta del 10-12% in rapporto alla durata dello sforzo. Le ragioni di questa riduzione sarebbero dovute: a) ad una carenza d’aminoacidi liberi, in quanto utilizzati come fonte d’energia dal muscolo; b) ad una diminuzione dell’ATP, necessario per i processi di sintesi proteica; c) ad una libera-

CHETOANALOGHI

AMINOACIDI RAMIFICATI

ALANINA

GLUTAMMATO

ALFA-CHETOGLUTARATO

NH3

PIRUVATO

GLUTAMMINA FIGURA 5 Transaminazione degli aminoacidi ramificati nel muscolo con formazione di alanina e glutammina

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zione di enzimi proteolitici dai lisosomi. Questa prevalenza della degradazione proteica si prolungherebbe anche durante la prima fase del recupero (Dohm GL, 1985), probabilmente allo scopo di fornire aminoacidi necessari per riparare fibre muscolari danneggiate. Nel periodo successivo l’attività muscolare determina invece un incremento della sintesi proteica oltre i valori basali e una riduzione della degradazione. Il protrarsi dell’attività fisica porta ad un processo d’ipertrofia muscolare, a condizione che sia presente una notevole disponibilità d’aminoacidi, utilizzati nella sintesi di proteine muscolari, sotto il controllo degli ormoni anabolizzanti. La somministrazione di BCAA (10 g) durante e dopo esercizi prolungati aumenterebbe i livelli d’insulina e testosterone ed il rapporto testosterone/cortisolo. L’azione degli ormoni sarebbe dovuta all’inibizione degli enzimi proteolitici lisosomiali. Effetto simile avrebbero le vitamine A, E, C e alcuni minerali quali selenio, manganese, molibdeno, rame e zinco. Nell’animale digiunante l’esercizio intenso determina ugualmente un aumento delle masse muscolari impegnate, a detrimento delle masse non impegnate, ove si accentuano invece i processi di proteolisi. Tutti questi fenomeni plastici sono proporzionali all’intensità e alla durata dell’attività. L’allenamento induce un più intenso utilizzo degli aminoacidi, soprattutto ramificati che sono ossidati direttamente dal muscolo con produzione d’energia, mediante intervento di L-carnitina (Van Hinsberg VWM, 1978). Durante l’attività fisica si ha inoltre un aumento della sintesi di alanina, per una maggiore disponibilità di piruvato e di gruppi aminici provenienti dai BCAA (Bernardi R, 1989). L’alanina ha il compito di trasportare gruppi aminici dal muscolo al fegato con un’attivazione dei processi di detossicazione, particolarmente importante in chi pratica molta attività muscolare a causa del forte

aumento della produzione d’ammoniaca, evidenziato da un’elevazione dell’urea plasmatica. Un altro processo di detossicazione a partire dai BCAA si esplica attraverso la formazione di glutammina, che svolge un ruolo fondamentale nel trasporto d’ammoniaca al fegato per la formazione d’urea e al rene per la sua escrezione (Fig. 5). L’aumentata produzione di alanina, aminoacido glicogenico, permette inoltre un incremento della neoglucogenesi epatica. Un aspetto particolare del metabolismo di alcuni aminoacidi è la loro possibilità di modificare i livelli dei neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale. Infatti, l’attività fisica provoca un aumento dell’ossidazione a livello muscolare dei BCAA, che determina una diminuzione dei loro livelli plasmatici (Blomstrand E, 1988). Si verifica inoltre un aumento dei livelli ematici del triptofano libero, non legato all’albumina, e pertanto in grado di diffondere, mediante un “carrier” comune, attraverso le barriere biologiche (Blomstrand E, 1988). Infine si osserva un aumento dell’ammoniemia che può raggiungere notevoli livelli per un’attività fisica rilevante (Bernardi R, 1989). Tutti i tre fenomeni considerati concorrono nel facilitare il trasferimento oltre la barriera ematoencefalica di più elevate quantità di triptofano, che, quale precursore della sua sintesi, induce un aumento della serotonina. La maggiore concentrazione di serotonina nelle strutture cerebrali (Bernardi R, 1989) determina interferenze sul tono dell’umore, una riduzione della capacità di concentrazione e sonnolenza. Il fenomeno è legato all’esistenza di uno stesso “carrier” (sistema di trasporto L, leucina-preferring) per il triptofano e per gli aminoacidi a catena ramificata per superare la barriera ematoencefalica, fatto che determina una situazione di competitività, per cui, durante l’esercizio, il flusso della molecola di triptofano, a concentrazione più elevata, prevale su quella dei BCAA, che sono invece in

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fase riduttiva (Bernardi R, 1989). Inoltre l’aumentata concentrazione ematica di ammoniaca, presente anche nel liquor e nelle strutture cerebrali, induce un aumento di glutammina, che rappresenta la risorsa mobile e non tossica dei radicali ammoniacali; la glutammina si trasferisce peraltro in senso opposto, dal liquor al sangue circolante, mediante un “carrier” analogo a quello degli aminoacidi ramificati; il triptofano circolante trova perciò ancora livelli più elevati di carrier disponibili per il trasporto inverso (Bernardi R, 1989). In definitiva l’aumentato flusso di triptofano determina una maggiore produzione di serotonina, a cui consegue una precoce comparsa di affaticamento. Al contrario un apporto di notevoli quantità di aminoacidi ramificati, assunti per via orale, ridurrebbe l’innalzamento dell’ammoniaca plasmatica, contrasterebbe il passaggio di triptofano ed in definitiva l’eccessiva produzione di serotonina e quindi ridurrebbe e ritarderebbe la comparsa della sensazione di fatica e migliorerebbe la performance mentale, prevenendo i sintomi di sovrallenamento (Newsholme EA, 1992; Parravicini R, 1991; Wilson WM, 1992). Un aspetto particolare del metabolismo aminoacidico riguarda infine quello degli aminoacidi solforati (cisteina e metionina), che, quando usati a scopo energetico, formano un residuo acido. Lo zolfo residuo, infatti, è trasformato in solfato di calcio, magnesio e sodio. Normalmente le capacità di regolazione dell’organismo compensano anche un consumo di notevoli quantità di aminoacidi solforati, senza sviluppo di acidosi. I cataboliti acidi, in caso di grosse quantità, potrebbero però ostacolare l’evacuazione dei lattati dai muscoli con prolungamento della fase di recupero. Per questo motivo è opportuna un’alimentazione con prevalenza di cibi alcalinizzanti (Tab. 2). La differenziazione degli alimenti in acidogeni e alcalogeni si basa sulla caratteristica di produrre nell’organismo acidi oppure basi.

Elementi acidificanti sono cloro, fosforo e zolfo, mentre sono alcalinizzanti calcio, sodio, potassio e magnesio. I cibi possono essere classificati come acidificanti, alcalinizzanti e neutri in rapporto al loro contenuto di minerali, che contribuiscono all’acidità, alcalinità o neutralità dei fluidi corporei e delle urine. I minerali acidificanti predominano nei cibi prevalentemente proteici, con l’eccezione del latte e degli alimenti ricchi in calcio. A questa regola sfuggono il grano, che è acidificante nonostante un modesto contenuto proteico, per la presenza di fosforo sotto forma di fitati. Frutta e verdura sono generalmente alcalinizzanti, compresi alcuni dal sapore acidulo, come agrumi, pomodori e rabarbaro, perché contengono alcuni acidi organici, come il tartarico, il citrico, il malico, i quali intervengono nelle regolazione dell’equilibrio acido-base dell’organismo, aumentando la riserva alcalina del sangue, producendo CO2, che con l’acqua forma acido carbonico, e tamponando nel sangue gli acidi che si formano dopo uno sforzo muscolare intenso o in seguito ad un regime alimentare iperproteico. Susine, prugne e mirtilli sono invece acidificanti, perché contengono acidi organici, che non sono metabolizzati e passano immodificati nelle urine. Mandorle, castagne e cocco sono alcalinizzanti, mentre noci e arachidi sono acidificanti. La presenza di emulsionanti, di fitati e di grandi quantità di fibre possono modificare le caratteristiche degli alimenti, ad esempio legando il calcio e impedendone l’assorbimento. Recentemente è stata sottolineata l’importanza dell’apporto di arginina ed ornitina, allo scopo di incrementare la massa muscolare. L’arginina favorirebbe la secrezione dell’ormone ipofisario GH, che accresce la massa muscolare; l’ornitina stimolerebbe la produzione di creatina e di fosfocreatina e, in sinergia con l’arginina, favorirebbe la miogenesi. Da tutte queste considerazioni risulta, quindi, evidente l’importanza dell’integrazione

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Acidificanti Tuorlo d’uovo Ostriche Coniglio Prosciutto affumicato Carne magra di bue Uovo intero Pollo Spaghetti Maccheroni Farina Sgombro Cuore di bue Rognone di vitello Fegato di bue Riso Oca Rognone di bue Pane completo Pane bianco Cioccolato Formaggi Merluzzo fresco Albume d’uovo

Alcalinizzanti 26.6 15.2 14.8 12.5 11.8 11.1 10.7 10.5 10.5 9.6 9.3 9.1 8.4 8.2 8.1 7.7 7.6 7.3 7.1 6.8 5.5 5.5 5.2

Fichi Albicocche secche Spinaci Datteri Barbabietole Carote Sedano Lattuga Succo di ananas Patate Albicocche Ananas intero Fragole Succo di pomodoro Ciliegie Banane Arance Pomodoro Cavolfiore Pesche Cavolo Pompelmo Succo di limone Funghi Mela Pera Uva Ananas in conserva Ravanelli Latte fresco Cipolle Piselli freschi

100.9 31.3 27.0 11.0 10.9 10.8 7.9 7.4 7.0 7.0 6.8 6.8 6.6 6.2 6.1 5.6 5.6 5.6 5.3 5.0 4.5 4.2 4.1 4.0 3.7 3.6 3.1 2.9 2.9 2.4 1.5 1.3

TABELLA 2 Cibi acidificanti e alcalinizzanti (espressi in ml di un acido o di un alcale forte) corrispondenti a 100 g di ogni singolo alimento crudo. Un valore più alto indica un più elevato potere acidificante o alcalinizzante di quell’elemento (Tomasi, 1982)

della carne nell’alimentazione degli antropoidi. L’uomo primitivo, costretto ad elevate prestazioni muscolari (nomadismo, raccolta e caccia), aveva, indubbiamente, un importante fabbisogno di aminoacidi, soprattutto essen-

ziali, e l’abbondanza di proteine animali ha fornito una “marcia in più”, ritornando al paragone motoristico iniziale, rispetto ai Primati.

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I grassi o lipidi

Aspetti generali: gli acidi grassi Se le proteine garantiscono qualità, i grassi sono la più grande e duratura fonte energetica per l’organismo. Il tessuto adiposo rappresenta di gran lunga il maggior deposito di riserva energetica (in un uomo-tipo di 70 kg, normopeso, sono presenti in media 15 kg, circa 140.000 Kcal!) con una disponibilità di rifornimento molto prolungata nel tempo, raggiungendo teoricamente le 70 ore nel caso di prestazioni di moderata intensità (Tab. 3). L’utilizzo preferenziale dei grassi come deposito energetico si spiega anche per il contemporaneo deposito intracellulare di acqua: i trigliceridi, infatti, richiamano nella cellula una modesta quantità di acqua (10%), mentre il glicogeno e le proteine, rispettivamente, 23 g e 3-4 g di acqua per ogni grammo. Per questo motivo il nostro cervello, che è rac-

chiuso in una scatola ossea rigida, pur avendo un metabolismo energetico quasi totalmente dipendente dal glucosio, non ha depositi di glicogeno. Dal punto di vista quantitativo, il carburante per il “motore muscolare” è rappresentato principalmente da glucidi e lipidi (Arrigo L, 1985; Fink WJ, 1982; Siliprandi N, 1982); tale utilizzo varia però in rapporto alla durata e all’intensità dell’esercizio, che il “motore” deve compiere. In condizione di riposo i nostri muscoli deriverebbero l’energia di cui abbisognano per l’87% degli acidi grassi e solo per il 13% dalla utilizzazione dei glucidi. Per un lavoro di intensità lieve o per una prestazione di breve durata, le necessità energetiche sono coperte per il 50% dalla combustione dei grassi e per il 50% degli zuccheri. Per un lavoro molto intenso e per una durata breve il rifornimento è fornito prevalente-

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Deposito energetico Tessuto adiposo Glicogeno (fegato) Glicogeno (muscolo) Trigliceridi (muscolo) Glucosio (sangue) Proteine

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g

kcal

9000 90 350 400 20 8800

80543 360 1434 3597 76 2103

TABELLA 3 Depositi energetici approssimati nell’uomo [adattata da Newsholme e Leech 1983; da Miller SL, Wolfe RR. Eur J Clin Nutr 1999; 53 (suppl 1), S112]

mente dai carboidrati; per un lavoro intenso, per un tempo uguale e/o superiore alle 3 ore, di nuovo sono prevalentemente i grassi ad essere utilizzati ed in ragione del 70% per rifornire di energia il “motore muscolare”, mentre solo del 30% è l’utilizzo dei glucidi (Bergstrom J, 1966; Bergstrom J, 1967; Bjontrop P, 1991; Costill DL, 1988; Coyle EF, 1991; Fink WJ, 1982; Hargreaves M, 1991; Hultman E, 1974; Maughan RJ, 1990; Proia M, 1982; Ticca M, 1982). Oltre alla funzione energetica i lipidi sono indispensabili all’organismo perché: a) sono componenti fondamentali delle membrane cellulari di tutti i tessuti; b) sono precursori di ormoni, vitamina D e prostaglandine; c) rendono gli alimenti più appetibili; d) veicolano le vitamine liposolubili e ne permettono l’assorbimento intestinale; e) contribuiscono all’isolamento termico del corpo. I lipidi sono formati da carbonio, idrogeno e ossigeno e rappresentano un gruppo eterogeneo di sostanze che hanno in comune tra loro una bassa solubilità nell’acqua, mentre sono rapidamente solubili in alcuni solventi. Sono principalmente costituiti da trigliceridi, cere, fosfolipidi e steroli. I trigliceridi risultano dall’unione di glicerolo e di acidi grassi (AG), che, a loro volta, sono formati da una catena di atomi di carbonio (C) sempre in numero pari. La lunghezza

della catena varia da 4-6C (AG a catena corta), a 8-12 C (AG a catena media) e 1418C (AG a catena lunga) e 20 e più C (AG a catena molto lunga). Sono uniti da legami semplici (AG saturi) o doppi (AG insaturi) con un gruppo carbossilico all’estremità della catena. Se è presente un solo doppio legame si chiamano AG monoinsaturi (ad esempio acido oleico); se più di un doppio legame, AG polinsaturi (ad esempio acidi linoleico, alfa-linolenico, arachidonico, eicosopentanoico, ecc.) ed hanno un numero di 18 o più C (Tab. 4) (Fig. 6). Tra gli acidi grassi polinsaturi sono presenti quelli essenziali (AGE o vitamina F), cioè quelli che non possono essere sintetizzati dal fegato e che sono indispensabili nelle membrane (biosintesi fosfolipidica della retina, del sistema nervoso centrale, del fegato, delle gonadi e della neurotrasmissione). In realtà i veri AGE sono due: l’acido linoleico (omega 6) e l’alfa-linolenico (omega 3). Con la dizione “omega” o “n” seguita da un numero si indica la posizione del primo doppio legame a partire dal gruppo metilico (CH3) terminale della molecola. È possibile un intervento di allungamento degli AGE nell’organismo, mediante l’azione di enzimi come la delta-6desaturasi, sufficientemente presente solo nella prima parte della vita dell’uomo (fino a circa 35 anni). Le due famiglie di polinsaturi utilizzano e, quindi, competono per gli stessi enzimi, trasformando l’acido cis-linoleico in acido gamma-linoleico e l’acido alfa-linolenico in acido stearidonico (C18:4 n-3), tenendo presente che l’acido linoleico ha un’affinità molto maggiore per la delta-6-desaturasi rispetto all’acido alfa-linolenico e rappresentano quindi la via preferenziale. L’attività catalitica dell’enzima è inibita o bloccata da: grassi saturi, acidi grassi trans, iperglicemia, alcol, invecchiamento, adrenalina, glucocorticoidi, dieta ipoproteica, virus oncogeni, radiazioni ionizzanti.

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Acido grasso

Struttura

Origine

Punto di fusione (°C)

Saturi Acido laurico

C12:0

Grasso di cocco

44

Acido palmitico

C16:0

63

Acido stearico

C18:0

Olio di palma, latte, burro, formaggio, cacao, carni bovine, suine e ovine

69

Acido beenico Acido lignocerico

C22:0 C24:0

Alcuni oli di semi, soprattutto arachidi

80 84

Insaturi Acido oleico

C18:1

Olio d’oliva, l’acido grasso più frequente

11

Acido linoleico

C18:2

Olio di mais, olio di semi di soia, olio di girasole, olio di semi di girasole

-5

Acido linolenico

C18:3

Olio di semi di lino

-11

Acido arachidonico

C20:4

Oli di pesce

-50

Acido eicosopentaenoico Acido decosoesaenoico

C20:5 C24:6

Merluzzo, salmone, sardine, cozze, ostriche

-54

TABELLA 4 Acidi grassi: struttura, origine e punto di fusione

I principali acidi grassi saturi della dieta sono il laurico (12:0), il miristico (14:0), il palmitico (16:0) e lo stearico (18:0), presenti soprattutto nei prodotti animali, quali le carni bovine, suine ed ovine, nel latte e latticini ed in alcuni oli tropicali, quali quelli di palma e di cocco. Se si esclude l’acido stearico, che si trasforma in oleico nell’organismo umano, i grassi saturi rappresentano il maggiore fattore ipercolesterolemizzante della dieta. L’acido oleico (18:1) rappresenta il più importante acido grasso monoinsaturo della famiglia degli omega 9. Si ritrova soprattutto in oli vegetali, come quello d’oliva, ma un discreto contenuto è presente anche nei grassi delle carni bovine e suine. Un’alimentazione ricca in acido oleico ha dimostrato possedere un’azione ipocolesterolemizzante. L’acido linoleico (18:2) è il maggiore rappresentante dei polinsaturi della serie omega

6. Le maggiori fonti dietetiche sono oli vegetali del tipo semi di soia, di mais, di girasole, di vinacciolo e di cartamo e, in misura minore, in alcuni prodotti animali, carne di maiale e di pollame, e nel latte materno. Anche la somministrazione di acido linoleico, al posto degli acidi grassi saturi, nella dieta induce una riduzione della colesterolemia totale. L’acido alfa-linolenico e inoltre l’acido eicosopentanoico (EPA) (20:5), docosapentanoico (DPA) (22:5) e il docosaexaenoico (DHA) (22:6), di cui sono ricchi gli estratti della carne dei pesci, soprattutto di acque fredde (rispettivamente, sgombro 1,4 g, salmone, aringa e pesce azzurro 1,2 g, tonno e trota di mare 0,5 g, merluzzo e pesce spada 0,2 g per 100 g) sono i principali polinsaturi della serie omega 3. L’acido α-linolenico è anche presente in alcuni oli vegetali (colza, soia, germi di grano,

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COOH

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Acido arachidonico (20:4 ω6)

FIGURA 6 Formula di struttura degli acidi grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi

D

H3C

Acido grasso polinsaturo della serie ω-6 (C 18:ω-6)

C

H3C

Acido grasso monoinsaturo (C 18:ω-9)

COOH

COOH

H3C

G

H3C

F

Acido docosaesaenoico (22:6 ω3)

Acido eicosapentaenoico (20:5 ω3)

COOH

COOH

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B

Acido grasso polinsaturo (C 18: ω3)

COOH

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H3C

Acido saturo (C 18:0)

E

A COOH

H3C

H3C

CH3 — CH2 — CH2 — CH2 — CH2 — CH2 — CH2 — CH2 — COO

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noce, lino), in alcune carni (cavallo, selvaggina), nel burro, nel latte materno. È stato dimostrato che il consumo di pesce una volta la settimana può ridurre il rischio di coronaropatie fatali di oltre il 40% rispetto a soggetti che non consumano pesce (Ascherio A, 1995; Burr ML, 1989; Daviglus ML, 1997; Gillum RF, 1996; Mozaffarian D, 2003; Singer P, 2004), mentre apporti più elevati non miglioravano la protezione (Lapidus L, 1986; Morris MC, 1995). I componenti del pesce responsabile di questo effetto protettivo sono gli acidi grassi polinsaturi omega 3 (Burr ML, 1989; Siskovick DS, 1995; Singh RB, 1997), sempre che il loro apporto sia accompagnato da adeguate quantità di antiossidanti come l’alfa-tocoferolo e il coenzima Q10, per evitare la perossidazione delle LDL. L’arricchimento della dieta con questi acidi grassi porta ad un calo dei livelli ematici della trigliceridemia soprattutto nei soggetti ipertrigliceridemici. Gli acidi grassi polinsaturi omega 3, attraverso interferenze con il metabolismo delle prostaglandine, determinerebbero inoltre una diminuzione dell’aggregabilità piastrinica e un allungamento del tempo di emorragia con un effetto antitrombotico e protettivo del sistema cardiovascolare. Altri importanti effetti si ipotizzano sul sistema immunitario (riduzione della sintomatologia dell’artrite reumatoide), sullo sviluppo del sistema nervoso e sui tumori (colorettali) per la localizzazione nelle membrane biologiche specializzate. Non è ancora stato chiarito il meccanismo attraverso il quale gli AG omega 3 riducano il livello di trigliceridi. È abitualmente accettata l’ipotesi di una riduzione della sintesi epatica, con una ridotta secrezione in circolo di lipoproteine ad alto contenuto di trigliceridi, mentre meno probabile sarebbe l’aumentato catabolismo (Nenseter MS, 1992). L’EPA ed il DHA stimolano la beta-ossidazione perossisomiale (Gronn M, 1992; Willumsen N, 1993), mediante l’attivazione dei Recettori

nucleari per i PPARs (Attivatori della Proliferazione dei Perossisomi), stimolando il gene che codifica per l’acil-CoA deidrogenasi, enzima chiave che regola la velocità del processo ossidativo (Forman BM, 1997; Kliewer SA, 1997). I risultati degli studi clinici permettono di ipotizzare che il contenuto di EPA+DHA nelle membrane dei globuli rossi, espresso come percentuale sul totale degli acidi grassi (Indice Omega 3), potrebbe essere considerato un nuovo fattore di rischio di mortalità da cardiopatia ischemica e specialmente di morte improvvisa cardiaca (Harris WS, 2004). Un deficit di omega 3 interferisce con il comportamento umano, favorendo le depressioni maggiori (Maes M, 1996), ed un basso livello sierico di acido docosaesaenoico ed un elevato rapporto omega6/omega3 predicono la comparsa di comportamento suicida nei pazienti con depressione maggiore (Sublette ME, 2006). L’acido linoleico è il più abbondante acido grasso polinsaturo presente nell’epidermide (Chapking RS, 1986), ed è l’unico tessuto umano dove è metabolizzato ad acido 13-idrossioctadienoico (13-IODE), che gioca un ruolo fondamentale nel modulare l’iperproliferazione cutanea e migliorare di conseguenza la capacità di resistenza della pelle alla disidratazione. Fra gli acidi grassi insaturi ha importanza la configurazione strutturale, in quanto le frazioni della molecola possono essere disposte dallo stesso lato rispetto al doppio legame (forma cis) oppure sui due lati spaziali (forma trans). La forma cis prende generalmente una forma ripiegata su se stessa, mentre più raramente, in natura, si dispiega e si stende in lunghezza (forma trans). Si ottengono così degli isomeri geometrici, chimicamente simili, ma dotati di proprietà diverse. L’acido grasso trans più comune è l’elaidinico, isomero dell’acido oleico. Industrialmente le forme trans sono prodotte quando i grassi insaturi sono idrogenati per innalzare il loro punto di

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fusione rendendoli solidi a temperatura ambiente, come ad esempio le margarine e altri grassi da spalmare. In tal modo fino al 30-50% dei grassi vegetali possono trasformarsi in trans, con possibili e forse probabili ripercussioni negative sull’organismo. Secondo l’INRAN in Italia l’apporto medio giornaliero è di 1,6 g di trans, pari allo 0,5% dell’energia totale. Dal 1991 è in vigore una legge comunitaria per cui il contenuto di trans in alcuni prodotti per l’infanzia non deve eccedere il 4% del totale dei grassi. Nel 2003 la Food and Drug Administration (FDA) ha formulato una proposta che è entrata in vigore dal 2006, in cui la dizione: “Trans Fat Free” è utilizzabile solo per gli alimenti che contengono meno di 0,5 g di trans. La più grande fonte dietetica di trans non è più rappresentata dalla margarina ma dai “grassi di pasticceria” (prodotti da forno, dolci, oli per le fritture delle industrie alimentari contenenti dell’11 al 34% di trans): una porzione media di patatine fritte contiene 56 g di trans, una frittella dolce 2 g (Katan MB, 2002). Questi alimenti, inoltre, sono in rapida ascesa per il diffondersi del mangiare fuori casa, soprattutto nelle classi più giovani. È quindi auspicabile la sostituzione dei grassi parzialmente idrogenati con grassi non idrogenati, vincendo le resistenze dei produttori perché questa sostituzione può diminuire l’appetibilità e la conservabilità dei prodotti (Katan MB, 2002). Come spesso succede, però, la natura è più complicata delle schematizzazioni, fatte dall’uomo. Sono stati evidenziati acidi grassi trans che sembrano esplicare effetti utili per l’organismo e spiegare perché alcuni alimenti animali, come latte e latticini, hanno rappresentato e rappresentino tuttora delle buone soluzioni nutritive. Con il termine CLA (Conjugated Linoleic Acid) si intende l’insieme degli isomeri geometrici e di struttura dell’acido linoleico, che possiedono due doppi

legami coniugati, cioè separati da un solo legame singolo, detti dieni coniugati (nel comune acido linoleico i doppi legami sono separati da due legami semplici). Questi doppi legami coniugati di configurazione cis/trans, trans/trans, trans/cis, cis/cis possono situarsi in posizioni differenti sulla catena dell’acido grasso, identificando fino a nove differenti isomeri del CLA nel latte bovino, nei latticini e nelle carni dei ruminanti, soprattutto l’acido rumenico 9cis-11trans, che rappresenta l’80-95% dei CLA totali. Gli oli vegetali, le carni di animali non ruminanti ed i pesci contengono quantità molto basse di CLA. Nell’uomo sono presenti nel tessuto adiposo e nei fluidi biologici; nel plasma il valore medio è di 7-9 micromol/l e derivano dagli alimenti. Nel latte umano sono presenti 2,23-5,43 mg/g di materia grassa, che tradotte in peso significano da 0,02 a 0,30 mg/g di latte, mentre nei latti alternativi in commercio mediamente si aggirano intorno a 1,35 mg/g di materia grassa (Bracco U, 2002). Nel latte vaccino la concentrazione di CLA aumenta se l’alimentazione della vacca è basata sul pascolo estivo e sul fieno in inverno (0,8% sul grasso), mentre le diete “indoor” (insilaggio e ricche in cereali) la riducono (0,34% sul grasso). Una possibile spiegazione è che le diete “ecologiche” aumentano la concentrazione di acido linoleico con possibile conversione in CLA. Gli effetti fisiologici dei CLA si esplicherebbero nella prevenzione dei tumori, dell’aterosclerosi e sulla composizione corporea. Diete con 0,5-1-1,5% di CLA ridurrebbero l’incidenza dei tumori, rispettivamente del 17-42-50% nel colon e nello stomaco e del 32-56-60% nella mammella (Bracco U, 2002). Un recente studio conferma che i latticini ad alto contenuto di grassi ed acido linoleico coniugato (CLA) (formaggi) possono ridurre il rischio di tumore colorettale (Larsson SC, 2005). Il meccanismo d’azione ipotizzato sarebbe legato alla ridu-

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zione della massa dell’epitelio mammario per inibizione della proliferazione, soprattutto durante l’adolescenza e la pubertà. In vitro sono state descritte inibizioni significative della proliferazione delle cellule tumorali di melanomi M21-HPB, colorettale HT-29, mammella MCF-7, ADK polmonare A 427, glioblastoma A172, per inibizione della sintesi di proteine e nucleotidi, dell’attività della lipossigenasi e quindi della formazione di eicosanoidi (leucotrieni), per incremento dei CLA intracellulari, che rende la cellula tumorale più sensibile allo stress ossidativo (Bracco U, 2002). Sul sistema immunitario i risultati sono discordanti. Nel metabolismo lipidico i CLA inibirebbero l’attività dell’ACAT (acil-coenzima A trasferasi), responsabile dell’esterificazione del colesterolo, aumentando l’escrezione fecale degli steroli neutri. L’attività anti-obesità sarebbe dovuta alla riduzione del rapporto massa grassa/massa proteica per inibizione dell’attività della lipoproteinlipasi, per stimolazione della carnitin-palmitoil-trasferasi con aumento della beta-ossidazione lipidica, per inibizione della proliferazione e dell’accumulazione dei pre-adipociti e per diminuzione della leptina negli adipociti (Bracco U, 2002). Eventuali effetti tossici non sono stati evidenziati a dosi di 5 g/die, tanto che sono stati immessi in commercio in USA ed in Europa come “food supplement”, con il messaggio “stimola il sistema immunitario”. Secondo recenti ricerche alcuni risultati contrastanti registrati, sarebbero dovuti al fatto che gli isomeri CLA modulano in modo differente lo sviluppo dell’aterosclerosi: c9,t11CLA impedisce, mentre t10,c12-CLA promuove l’aterosclerosi (Arbones-Mainar JM, 2006). Nei primi periodi di vita l’uomo assume soltanto grassi animali attraverso il latte; successivamente l’alimentazione diviene mista con presenza di cibi animali e vegetali in proporzione variabile secondo le tradizioni, la

disponibilità e le latitudini. Nei popoli nordici prevalgono i lipidi animali, nei popoli mediterranei quelli vegetali. Generalmente si consiglia un apporto paritario (10% ciascuno) fra AG saturi, monoinsaturi e polinsaturi (linoleico 7-8% e alfalinolenico 2-3%). Nel caso di soggetti a rischio è preferibile ridurre al 7% la quota dei saturi e dei polinsaturi e contemporaneamente aumentare quella dei monoinsaturi. La differenza tra un olio e un grasso è determinata dal punto di fusione, cioè dalla temperatura alla quale esso passa da una consistenza solida ad una consistenza liquida. Essa dipende dalla lunghezza della catena carboniosa, dal numero di doppi legami e dalla disposizione spaziale. In altre parole aumenta con la lunghezza (laurico-C12 44°C, stearico-C18 70°C), diminuisce con il numero di doppi legami (oleico-C18:1cis 13°C, gamma-linolenico-C18:3cis 11°C), aumenta negli isomeri trans (oleico-C18:1cis 13°C, elaidico-C18:1 trans 44°C). In definitiva, sulla tavola, il burro, che fonde a circa 32°C è solido, mentre l’olio è liquido (Tab. 4). Le cere derivano dalla combinazione di un alcol con un acido grasso, con formule più complesse dei trigliceridi e sono usate da alcuni animali e dalle piante per rendere impermeabili i propri rivestimenti. Il colesterolo (Fig. 7) è lo sterolo predominante negli animali vertebrati ed è un derivato del ciclo-pentano-peridrofenantrene; può essere libero o esterificato con un acido grasso legato al radicale idrossile in posizione 3 della molecola. Nella forma libera è alla base della sintesi degli acidi biliari, della vitamina D, degli ormoni steroidei e dei mediatori metabolici come oxisterolo; interviene nello sviluppo dei neuroni cerebrali, nel processo di apprendimento e nella memoria; è parte integrale delle membrane cellulari e influenza il contenuto di altri lipidi dentro le membrane, specialmente sfingomielina, rendendo il cole-

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OH

OH

Colesterolo

β-Sitosterolo

OH

Campesterolo

FIGURA 7 Struttura del colesterolo e di alcuni fitosteroli

sterolo un fondamentale mediatore metabolico per l’attivazione e per la propagazione dei segnali a cascata, tra i quali i segnali hedgehog: i “sonic hedgehog” sono responsabili del differenziamento e sviluppo del sistema nervoso centrale. Durante lo sviluppo embrionale iniziale, infatti, le cellule non sono differenziate e la grande maggioranza delle cellule neurali è pluripotente; il neuroectoderma primario si suddivide, si originano telencefalo, diencefalo, mesencefalo e romboencefalo: i fattori di trascrizione del DNA e le molecole segnale (morfogene), tra cui il colesterolo, sono indispensabili per “informare” sul posizionamento e il differenziamento neuronale. Durante la gravidanza la placenta rifornisce di colesterolo il feto, sommandosi al colesterolo endogeno ed assicurando una

quantità di circa 8 grammi durante il periodo fetale. Molti bambini con disordini nello spettro dell’autismo (ASD) presentano livelli anormalmente bassi di colesterolo, e ciò potrebbe svolgere un ruolo nella patogenesi dell’ASD. Secondo uno studio dell’Am J Med Genet del 2006, questo deficit deriva apparentemente dall’incapacità di produrre colesterolo, e non da un apporto dietetico inadeguato o da problemi dell’assorbimento intestinale. Un’ulteriore conferma del ruolo del colesterolo ci viene dalla zoologia: la trasformazione del bruco in farfalla avviene soltanto dopo la trasformazione degli steroli in colesterolo. Il colesterolo presente nell’intestino origina o dalla bile (nell’adulto abitualmente 6001000 mg/die) o dagli alimenti (250-500

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mg/die nella dieta occidentale). Il fegato costituisce la principale sede di sintesi del colesterolo a partire dall’acido acetico, con tre possibili destini metabolici: ingresso nel sangue; sintesi degli acidi biliari; secrezione nella bile e quindi nell’intestino. Circa il 50% del colesterolo biliare è riassorbito e ritorna al fegato (circolo entero-epatico), controllando mediante un meccanismo di feedback la quantità di nuovo colesterolo sintetizzato. I recettori LDL portano il colesterolo dentro l’epatocita e riempiono il pool regolatorio del colesterolo nel reticolo endoplasmico. Quando il pool è depleto come risultato di un basso apporto di grassi saturi e colesterolo o in risposta all’azione inibitoria delle statine, il processo delle SREBP (Sterol Regulated Element Binding Protein), che sono il fattore chiave di trascrizione, è attivato aumentando RNA messaggero e accrescendo la sintesi dei recettori LDL e di PCSK9 (proteasi proprotein convertase subtilisin/kexin type 9). Dato che l’attività della proteasi PCSK9 porta alla degradazione dei recettori LDL, l’azione è probabilmente controregolatoria e previene un eccessivo uptake di colesterolo dentro la cellula (Tall AR, 2006). Contemporaneamente anche gli acidi biliari (97%) seguono un circolo entero-epatico circa sei volte al giorno, cioè due volte per pasto. Questo spiega perché soltanto il 30-60%, in media il 50%, del colesterolo presente nel lume intestinale, con ampia variabilità individuale, può superare la barriera intestinale ed essere assorbito, mentre il rimanente 50% è eliminato come steroidi fecali neutri e perché il colesterolo alimentare aumenta i livelli di colesterolemia soltanto in circa un terzo dei soggetti (Arsenio L, 1995; McNamara DJ, 1990; McNamara DJ 2000) e non ha un significativo impatto sul rischio cardiovascolare (Lee A, 2006). L’assorbimento del colesterolo è un processo facilitato da proteine trasportatrici presenti sulla superficie luminale degli enterociti,

molto selettivo, con grande variabilità interindividuale. Un’ipotesi verosimile è che esistano portatori eterozigoti, apparentemente sani, di mutazioni di questo gene, in grado di provocare un aumento dell’assorbimento degli steroli (soggetti “iperresponders” o “iperassorbenti” al colesterolo della dieta). Accanto all’assorbimento di colesterolo, gli enterociti dispongono di un sistema che controlla il processo inverso, cioè l’escrezione di colesterolo dalla membrana cellulare verso il lume intestinale, tramite una proteina di trasporto denominata ABCA1, la cui concentrazione sarebbe aumentata dalla somministrazione di alcuni derivati dell’acido retinoico, che stimolano l’espressione del gene ABCA1 (Repa JJ, 2000). Due gruppi di ricercatori (Berge KE, 2000; Lee MH, 2001) hanno individuato mutazioni genetiche che codificano due proteine appartenenti alla classe dei trasportatori ABC, denominate ABCG5 e ABCG8; queste due proteine agirebbero a livello intestinale secernendo nel lume intestinale una parte del colesterolo dietetico e degli altri steroli vegetali, assorbiti dall’enterocita e a livello dell’epatocita secernendo il colesterolo epatico nella bile. Di recente è stata identificata una proteina Niemann-Pick C1 Like1 (NPC1L1), che possiede probabilmente un ruolo importante nell’assorbimento del colesterolo per endocitosi dal lume intestinale, visto che in topi geneticamente modificati che non producono questa proteina l’assorbimento è ridotto del 70% senza che il ciclo degli acidi biliari sia coinvolto (Altmann, 2004; Garcia-Calvo M, 2005; Yu L, 2006). La complessità dei sistemi di regolazione del metabolismo del colesterolo e la mancanza di una via demolitiva dello stesso rendono conto dell’importanza di questa sostanza per lo sviluppo e il funzionamento dell’organismo umano. Un recente studio ha addirittura evidenziato che gli ultrasettantenni con valori elevati di colesterolemia sono meno colpi-

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ti da demenza (Mielke MM, 2005). Gli analoghi del colesterolo nel mondo vegetale sono rappresentati dai fitosteroli (Fig. 7); nell’uomo arrivano solo dalla dieta tramite l’assorbimento intestinale, perché sono componenti minori presenti negli oli e grassi vegetali a livello 0,3-0,5%, nei cereali, nei semi e foglie di legumi e vegetali (spinaci, meloni, bietole, zucche). L’assunzione media giornaliera da queste fonti é di circa 250-300 mg, con valori che raddoppiano nelle diete vegetariane. Strutturalmente sono simili al colesterolo per quel che concerne l’anello steroide centrale, con la classica idrossilazione in C-3 ed insaturazione in C5-C6, ma ne differiscono per la configurazione della catena laterale dove sul C24 sono presenti rispettivamente un gruppo etile ed un gruppo metile sui due fitosteroli più rappresentativi, il sitosterolo e il campesterolo: il sitosterolo rappresenta circa il 95% degli steroli totali dell’olio d’oliva. Queste piccole differenze di struttura hanno un importante impatto sul comportamento di questi composti nel tratto intestinale. Nell’individuo sano solo il 5% dei fitosteroli della dieta è assorbito, mentre per il colesterolo si hanno valori medi intorno al 50%: sono stati riportati livelli plasmatici di fitosteroli di 0,3-1,7 mg/dl nell’uomo con diete giornaliere di 160-360 mg di fitosteroli. I fosfolipidi sono costituiti da un polialcool esterificato con uno o con altri acidi grassi, o l’acido fosforico ed una base azotata. Fra questi la fosfatidil-colina o lecitina, costituita da glicerolo esterificato dell’acido fosforico e dalla colina (fosforilcolina) e da due acidi grassi, rappresenta il 70% dei fosfolipidi ematici. Sono costituenti indispensabili delle membrane cellulari, perché posseggono sia gruppi idrofili sia catene idrofobiche. Questa doppia polarità permette di disporsi a ponte nelle membrane, con la testa polare verso l’esterno e le due code idrofobe verso l’interno, del tessuto nervoso, dei muscoli, del fegato;

hanno la capacità di regolare l’assorbimento dei grassi. Un adeguato apporto dietetico si aggira sui 3 g/die. La cellula adiposa e la regolazione dell’appetito e della sazietà Nel nostro organismo sono presenti due tessuti adiposi, bianco e bruno. Un ruolo centrale nel metabolismo lipidico è svolto dalla cellula adiposa bianca, che è il luogo di deposito dell’energia sotto forma di trigliceridi, che si accumulano nei periodi di bilancio positivo e che sono scissi in acidi grassi e glicerolo e immessi in circolo nei periodi di bilancio negativo tra entrate ed uscite energetiche. A questo scopo gli adipociti si riempiono di trigliceridi sotto forma di gocce lipidiche e sono capaci di aumentare il proprio diametro fino a dieci volte e il proprio volume fino a mille volte. Accanto all’attività di deposito, esiste una produzione di numerosi mediatori metabolici (“adipochine”), prodotti dal tessuto adiposo, soprattutto quando infiltrato da macrofagi, come si verifica nel caso dell’obesità, caratterizzata da uno stato infiammatorio subacuto o cronico. In primo luogo la leptina, citochina (proteina di 167 aminoacidi), prodotta dal gene Ob, prodotta in misura proporzionale alla quantità di trigliceridi presenti nell’adipocita, attraversa la barriera emato-encefalica e segnala al cervello la quantità di tessuto adiposo corporeo, bloccando l’assunzione di cibo. In caso di carenza di leptina, l’organismo riduce la spesa energetica, la crescita e la funzione riproduttiva, mentre la spinta a mangiare diventa irresistibile. Nel topo geneticamente obeso, per alterazione del gene Ob, l’adipocita non riesce a produrre leptina e il suo livello ematico è molto basso, mentre nell’uomo obeso, invece, i livelli di leptina rimangono elevati, ma non bloccano l’assunzione di cibo, probabilmente per un difetto di

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trasporto della leptina attraverso la barriera ematoencefalica verso i centri ipotalamici (obesità leptino-resistente). L’adiponectina, il cui gene è codificato dal cromosoma 3q27, è espressa esclusivamente nel tessuto adiposo bianco e bruno; è un’altra proteina adipocitaria, citochina, i cui livelli circolanti sono ridotti nell’obesità, soprattutto viscerale, e che agirebbe, tramite due recettori (AdipoR1/2) a livello epatico e muscolare, attivando l’enzima AMPkinasi e inibendo la produzione di glucosio e riducendo i livelli di trigliceridi; gli ormoni sessuali maschili, una dieta iperglucidica, lo stress ossidativo riducono i livelli di adiponectinemia, mentre aumentati livelli sono associati con la riduzione del sovrappeso, con gli oli di pesce e con le proteine di soia; un basso livello di adiponectina è un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di diabete e aterosclerosi coronarica. La resistina è un’altra proteina adipocitaria aumentata nell’obesità e che potrebbe avere un ruolo nell’insulinoresistenza della stessa obesità, con un meccanismo non chiaro; anche l’interleuchina 6 (IL-6) e il tumor necrosis factor-α (TNF-α) sono citochine proinfiammatorie espresse dall’adipocita ed aumentate nell’obesità. In definitiva nell’obesità conclamata l’eccessiva produzione di citochine proinfiammatorie può favorire l’insulinoresistenza e l’aterosclerosi. Altre citochine, come l’interleuchina-1 (IL-1) potrebbero, al contrario, essere efficaci, soprattutto in uno stadio precoce, per prevenire lo sviluppo di obesità, probabilmente tramite un’aumentata sensibilità alla leptina (Freychet P, 2006). L’adipocita bianco, inoltre, interferisce sull’azione degli ormoni steroidei (cortisolo, androstendione). Oltre i segnali di origine adipocitaria, ai centri del sistema nervoso centrale giungono segnali nervosi ed endocrini originati dall’apparato digerente. Due aree cerebrali controllano il comportamento alimentare: il mesolimbico, dove è controllata la gratificazione ed

il piacere del cibo, e l’ipotalamo, dove sono localizzati i neuroni che producono neuropeptidi inibenti l’appetito (anoressizzanti) e stimolanti l’appetito (oressizzanti). Ruoli importanti sono svolti dal sistema mesolimbico dopaminergico e da quello degli endocannabinoidi, che partecipano ai cosiddetti circuiti del piacere. L’abbondanza e la sovrapponibilità dei segnali nella stimolazione dell’appetito è comprensibile alla luce dell’importanza della nutrizione per la sopravvivenza (Flier JS, 2004). In condizioni di peso stabile, infatti, i cambiamenti dovuti a iperalimentazione o digiuno determinano modifiche fisiologiche a cui l’organismo si oppone: con la perdita di peso aumenta l’appetito e si riduce il dispendio energetico; con l’iperalimentazione, invece, si riduce l’appetito e aumenta il dispendio energetico. Questo ultimo meccanismo è, in realtà meno efficiente, permettendo facilmente l’insorgenza di obesità. L’ingestione di nutrienti determina numerosi stimoli neuroendocrini ed ormonali. La stimolazione neuronale avviene principalmente attraverso la stimolazione del nervo vago attraverso la via cefalica o gastro-pancreatica e attraverso il riflesso enteropancreatico vago-vagale. Gli ormoni secreti dalle mucose duodeno-digiunali, definiti “incretine”, sono rilasciati in risposta a nutrienti ed includono colecistochinina (CCK), gastrina, somatostatina, GIP e GLP-1 (glucagon-like peptide-1). La CCK è stimolata soprattutto da acidi grassi e proteine ed in minore misura dal glucosio; la gastrina dalle proteine; la somatostatina, rilasciata dalle cellule D della beta-cellula pancreatica, da un pasto misto, da aminoacidi, ed in risposta a GIP, CCK e VIP, mentre la motilità gastro-intestinale è inibita dalla secrezione di insulina, glucagone, GIP, VIP, CCK, gastrina. Il GIP, secreto dalle cellule K del duodeno e del digiuno prossimale, appartiene alla famiglia del glucagone, ed è stimo-

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lata dai monosaccaridi. Il GLP-1, secreto dalle cellule L del basso intestino stimola la secrezione insulinica in presenza di iperglicemia, sopprime la secrezione di glucagone, stimola la biosintesi di insulina e riduce la velocità di svuotamento gastrico; inoltre riduce l’assunzione di cibo. Un altro ormone prodotto dallo stomaco è la grelina, peptide di 28 aminoacidi, derivato da prepropeptide di 117 aminoacidi (preprogrelina), con azione stimolante l’assunzione di cibo tramite un’azione sul nucleo arcuato, favorente l’aumento di peso corporeo e regolante l’attività gastrointestinale. Nell’adipocita bianco la grelina promuove la sintesi e deprime l’ossidazione lipidica, mentre nell’adipocita bruno riduce la termogenesi (Theander-Carrillo C, 2006). I livelli ematici di grelina sono influenzati dai pasti, con un incremento 1-2 ore prima e una riduzione dopo 1 ora dall’ingestione di cibo; anche la composizione in macronutrienti del pasto modifica la risposta della grelina: un pasto iperglucidico determina un picco maggiore di soppressione, mentre un pasto iperproteico provoca una riduzione nettamente più prolungata, raggiungendo i 180 minuti (Tannous dit El Khoury D, 2006). Dalla preprogrelina origina un altro peptide, l’obestetatina, che sopprime l’assunzione di cibo e lo svuotamento gastrico, con effetto antigrelina. L’obestatina non influenza i livelli ematici di leptina o di GH e la sua concentrazione non cambia durante l’alternanza digiuno-alimentazione (Zhang JV, 2005). Quindi sono presenti due ormoni con effetti opposti, uno oressizzante e l’altro anoressizzante, che prendono origine dallo stesso precursore, a conferma dell’estrema complessità del sistema di controllo di appetito e sazietà. In definitiva l’ipotalamo è il luogo di incontro e di integrazione di vari segnali, neurali, ormonali e metabolici, che influenzano il bilancio energetico. Gli stimoli neurali vagali

trasportano informazioni sulla distensione viscerale. Gli stimoli ormonali comprendono segnali afferenti a lungo termine dal tessuto adiposo (leptina) e dal pancreas (insulina), oltre al cortisolo, e a breve termine, segnali afferenti dall’intestino, includenti inibitori dell’appetito (peptide YY-PYY, GLP, CCK) e stimolanti l’appetito (grelina) e segnali efferenti (neuro peptide Y-NPY, peptide Agouticorrelato-AgRP, ormone α-melanocitostimolante-α-MSH e melanin-concentrating hormone-MCH) in periferia, che regolano appetito, spesa energetica, equilibrio ormonale, suddivisione energetica, riproduzione e accrescimento e promuovono un inconscio mantenimento di adeguati depositi energetici. Un ulteriore fattore può interferire: i segnali provenienti dalla corteccia cerebrale legati a fattori culturali o religiosi o sensoriali (sensazioni di piacere o di fastidio). Un altro aspetto del comportamento alimentare è legato all’influenza genetica: un recente studio (Breen FM, 2006) ha esaminato l’ereditarietà della preferenza di quattro gruppi di cibi (verdura, frutta, dolci, carne e pesce) in un campione di 214 coppie di gemelli di cui 103 monozigoti e 111 dizigoti; l’ereditarietà della preferenza per la carne ed i pesci ricchi in proteine sarebbe alta, con un effetto genetico cumulativo calcolato di 0.78, confrontato all’ereditarietà bassa dei dessert (0.2) e delle verdure (0.37), per i quali i fattori ambientali sarebbero molto più determinanti. Il tessuto adiposo bruno (brown adipose tissue, BAT) svolge un ruolo completamente differente rispetto al tessuto adiposo bianco, perché tende a disperdere l’energia depositata attraverso la termogenesi. L’attività metabolica è stimolata dalla leptina tramite il sistema nervoso simpatico. Nell’uomo il tessuto adiposo bruno regredisce rapidamente dopo la nascita, ad eccezione della sede perirenale ed omentale; è fornito di un grande corredo mitocondriale, in cui è presente una proteina disaccoppian-

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te (UCP-1), di circa 3100 dalton, localizzata sulla membrana interna, che agisce come canale protonico alternativo e dissipa il gradiente di idrogenioni nella catena ossidativa respiratoria. Mentre abitualmente il rientro dei protoni nei mitocondri attraverso il canale dell’ATPasi, trasforma l’energia liberata in energia legata ad ATP, l’utilizzo di questo canale alternativo disperde tutta l’energia sotto forma di calore. In questo modo possono disaccoppiare l’ossidazione degli acidi grassi dalla produzione di ATP e dissipare come calore l’energia prodotta. Un altro sistema utilizzato dal BAT è il ciclo futile esterificazione-idrolisi degli acidi grassi, in seguito alla stimolazione noradrenergica indotta dal freddo e dalla sovralimentazione, e dalla pompa Na+/K+. Una recente ipotesi sostiene che tutti i depositi adiposi possono contenere adipociti sia bianchi sia bruni in percentuali diverse e la predominanza relativa può dipendere da molteplici fattori, quali sesso, età, temperatura ambientale ed equilibrio ormonale. In definitiva l’organo adiposo ripartirebbe l’energia, indirizzandola, alternativamente, tramite la componente cellulare bianca verso l’accumulo

energetico e la ridistribuzione agli altri organi, indipendentemente dai pasti, e tramite la componente bruna verso la termogenesi. La componente facoltativa della risposta termogenetica può essere ridotta nei soggetti obesi (Garrel DR, 1994). Gli AG polinsaturi, soprattutto omega 3, possono modulare il bilancio energetico indirizzando il glucosio verso il deposito come glicogeno e gli acidi grassi verso l’ossidazione. Inoltre gli AG polinsaturi sembrano avere la capacità unica di innalzare la termogenesi: 1) aumentando la trascrizione della proteina-3 disaccoppiante i mitocondri; 2) inducendo i geni codificanti le proteine coinvolte nell’ossidazione degli acidi grassi (carnitina palmitoiltrasferasi e acil-CoA ossidasi) e simultaneamente 3) riducendo la trascrizione di geni coinvolti nella sintesi lipidica (acidi grassi sintasi), riducendo la deposizione di grassi corporei (Clarke SD, 2000). Sono state identificate nei roditori e nell’uomo due proteine, omologhe della proteina disaccoppiante del BAT, chiamate UCP-2 e UCP-3: la prima è espressa ampiamente nei tessuti, mentre la seconda è espressa prevalentemente nel muscolo scheletrico.

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I carboidrati (o zuccheri, o glucidi o saccaridi)

Se l’organismo utilizzasse solo carboidrati come fonte energetica, le riserve glucidiche si svuoterebbero in circa due ore (Sherman WM, 1995). Questo peraltro non significa una loro minore importanza rispetto ai grassi. Questi ultimi, nonostante siano nettamente prevalenti da un punto di vista quantitativo, necessitano di un livello minimo di ossidazione glucidica per essere utilizzati come fonte energetica (“i grassi bruciano al fuoco dei carboidrati”) (cfr. capitolo “Il cibo e l’energia”). Sono stati ipotizzati vari meccanismi per spiegare il motivo della limitata capacità del muscolo di ossidare grassi e della sua dipendenza dai glucidi. Uno dei più accettati si riferisce alla parziale inibizione del trasporto degli acidi grassi attraverso la membrana mitocondriale, condizionato dall’attività dell’enzima carnitin-pal-

mitoiltransferasi (Elayn IM, 1991) (Fig. 8). Ad elevati livelli di prestazione muscolare, inoltre, l’utilizzazione dei grassi non è conveniente, perché la lipolisi è un processo lento e non apporta ATP in modo sufficientemente veloce e perché il consumo di ossigeno è più vantaggioso per i carboidrati. Infatti, il glucosio fornisce 5,10 kcal per litro di ossigeno, mentre i grassi 4,62 kcal per litro di ossigeno (Gollnick PD, 1989). Il glucosio (6 atomi di carbonio) produce 36 ATP, mentre l’acido stearico (18 atomi di carbonio) 147 ATP, con un rapporto apparentemente favorevole all’acido grasso (1,3 volte maggiore). Tuttavia per ossidare la molecola di glucosio sono necessarie 6 molecole di ossigeno contro le 26 per l’acido stearico, quindi la richiesta di ossigeno per il glucosio è del 77% inferiore rispetto a quella dell’acido stearico (Sherman WM, 1995). È ovvio che, durante prestazioni

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MEMBRANA MITOCONDRIALE INTERNA

CITOSOL

MITOCONDRIO

Trigliceridi Fosfolipidi

Carnitina CoA

Glicerolo—3—P Acetil CoA

Carnitina Acil carnitina

Acetil CoA

CAT

β-ossidazione

Piruvato

Lipogenesi

Malonil CoA

Acetil CoA

Corpi chetonici

Acetil CoA

Citrato

Citrato

TCA

CO2

FIGURA 8 Trasporto intramitocondriale degli acidi grassi (da Shafrir E, 1991)

intense, come la corsa, in cui l’ossigeno scarseggia, l’utilizzazione del glucosio risulta più conveniente per il muscolo. I carboidrati, sono composti ternari, solubili in acqua, costituiti, come i grassi, da carbonio, idrogeno ed ossigeno. Sulla base della struttura biochimica si suddividono in glucidi semplici e complessi. Gli zuccheri alimentari possono essere suddivisi in monosaccaridi e disaccaridi (per convenzione definiti zuccheri), oligosaccaridi (grado di polimerizzazione pari a 3-9 residui monosaccaridici) e polisaccaridi (≥ 10 residui monosaccaridici). I principali monosaccaridi sono glucosio, fruttosio e galattosio (proveniente dal lattosio), mentre i disaccaridi comprendono saccarosio, lattosio e maltosio. Fra i monosaccaridi alcuni inclu-

dono gli zuccheri alcolici (sorbitolo, maltitolo, ecc.), presenti in alcuni frutti e, soprattutto, nell’industria alimentare. Gli oligosaccaridi comprendono soprattutto raffinosio e stachiosio (legumi), scarsamente digeribili nel piccolo intestino e attaccati dai batteri colici con produzione di gas, fruttoligosaccaridi (aglio, cipolla, cicoria) in grado di fermentare e favorire lo sviluppo dei bifido-batteri colici, e le destrine derivate dall’amido. I polisaccaridi comprendono il glicogeno, unico polisaccaride del mondo animale, e gli amidi, che nel mondo vegetale sono costituiti da amilopectina (grandi molecole fatte da oltre diecimila residui di glucosio con legami α-1-4 e α-1-6 glicosidici) (70-80% del totale) e da amilosio (molecola più piccola con solo legami α-1-4

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glicosidici) (20-30% del totale) (Cummings JH, 1995). Una quantità variabile sfugge alla digestione a causa dell’intervento di fattori intrinseci ed estrinseci: quelli intrinseci dipendono o dalla presenza di una parete cellulare rigida (legumi), o di una struttura granulare (cereali), o dalla preparazione industriale (spaghetti); quelli estrinseci sono la masticazione, il tempo di transito, la concentrazione di amilasi, la quantità di amido e la presenza di altri cibi. L’amido non digerito raggiunge il grosso intestino, dove è fermentato e in parte passa nelle feci. La struttura parzialmente cristallina dell’amido, dovuta soprattutto all’amilopectina, determina la suddivisione in tre tipi: l’amido “A” è termodinamicamente molto stabile e si trova nei cereali, il tipo “B” è caratteristico di banane, patate e altri tuberi, il tipo “C” è presente nei legumi (Cummings JH, 1995). La taglia e la natura cristallina dei granuli di amido influenzano la loro suscettibilità agli enzimi digestivi. In generale i tipi B e C tendono ad essere più resistenti all’amilasi pancreatica (Cummings JH, 1995). Gli amidi sono insolubili in acqua fredda, ma con la cottura si rigonfiano, si rompono e perdono la loro cristallinità, diventando rapidamente attaccabili dagli enzimi. Questo processo, legato alla cottura, è conosciuto come gelatinizzazione; con il raffreddamento l’amido gelatinizzato ricristallizza (retrogradazione) (Cummings JH, 1995). L’amido retrogradato, particolarmente l’amilosio, è più resistente all’attacco enzimatico nell’intestino umano, per cui si comporta come i polisaccaridi nonamido o gli oligosaccaridi non digeribili. La digeribilità influenza l’indice glicemico (GI), che è definito come l’area di incremento della curva glicemica di una porzione di 50 g di carboidrati di un alimento in confronto ad un cibo standard (abitualmente il glucosio) assunto dallo stesso soggetto. Sono definiti a basso GI gli alimenti con un valore ≤55

(pasta, latticini, legumi e la maggioranza della frutta), ad elevato GI quelli con ≥70 (pane bianco, riso, cornflakes, biscotti, alcune bevande dolci), intermedio GI tra 55 e 70. In definitiva si osserva la presenza di un amido rapidamente digeribile (pane, patate e cornflakes), di uno lentamente digeribile (spaghetti e legumi) e di uno resistente (legumi e patate raffreddate). La diversa digeribilità dell’amido sembra altamente correlata con l’indice glicemico degli alimenti. I polisaccaridi non-amido comprendenti cellulosa, emicellulosa, pectine, gomme (gomma arabica), mucillagini (ispagula), polisaccaridi batterici (xantani) e composti sintetici (polidestrosio) sfuggono in gran parte alla digestione nel piccolo intestino e sono attaccati nel colon dalla flora anaerobica, fermentando e producendo acidi grassi a corta catena (Cummings JH, 1995). La prima digestione dei carboidrati inizia nella bocca grazie alla triturazione degli alimenti durante la masticazione e all’azione della α-amilasi salivare (ptialina). Nello stomaco i movimenti peristaltici mescolano gli alimenti e tendono a portare i componenti liquidi verso il piloro, in modo che passino nel duodeno prima dei componenti solidi. La velocità di svuotamento dello stomaco è regolata dal grado di riempimento, dall’osmolarità, dall’acidità, dalla presenza di grassi. La velocità di svuotamento può essere mediata da ormoni pancreatici ed intestinali: colecistochinina, secretina, insulina, amilina e GLP-1. Gli ultimi due sono potenti inibitori dello svuotamento gastrico. L’amilina, insieme al suo analogo pramlintide, è immagazzinata e co-secreta con l’insulina nei granuli secretori della beta-cellula, riducendo la glicemia ed inibendo la secrezione di glucagone. Anche l’iperglicemia ridurrebbe la velocità di svuotamento gastrico. La digestione per via idrolitica è necessaria per l’assorbimento nel piccolo intestino e la successiva utilizzazione

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dei monosaccaridi (in gran parte glucosio proveniente da amido e saccarosio). L’amido è idrolizzato prima dall’α-amilasi salivare (ptialina) e poi da quella pancreatica, che può rompere i legami α-1-4 glicosidici, presenti nell’amilosio e parzialmente nell’amilopectina, ma non le ramificazioni α-1-6 glucosidiche dell’amilopectina, residuando il maltosio dall’amilosio e una miscela di maltosio, isomaltosio e destrine dall’amilopectina. Le destrine sono successivamente idrolizzate dall’enzima saccarosio-isomaltasi. I disaccaridi (lattosio, maltosio e soprattutto saccarosio) sono rapidamente idrolizzati, ad eccezione del lattosio, ed assorbiti più velocemente del solo glucosio (Figg. 9, 10) La membrana cellulare è quasi impermeabile alla molecola del glucosio, che non è in grado di attraversarla, se non attraverso l’intervento di proteine “effettrici”, specifici trasportatori di membrana o GLUT, che agiscono mediante un meccanismo di diffusione facilitata, superando un gradiente di concentrazione tra l’esterno e l’interno della cellula. Questi trasportatori sono una famiglia di proteine, che risiedono nelle membrane e

legano in modo specifico e reversibile le molecole di glucosio. Sono state identificate numerose isoforme di GLUT, con diversa affinità per il glucosio; gli organi presentano specifici recettori a seconda delle caratteristiche dell’organo di captare il glucosio a livelli glicemici elevati (bassa affinità, come ad esempio GLUT 2 nelle beta-cellule pancreatiche) oppure bassi oppure molto bassi (alta affinità, come, ad esempio, GLUT 3 per il sistema nervoso centrale). GLUT 1, GLUT 2 e GLUT 4 sono i trasportatori più importanti per il metabolismo del glucosio nell’organismo. Il GLUT 1 è un trasportatore ubiquitario presente in quasi tutti i tessuti, soprattutto negli eritrociti e nelle cellule endoteliale dei vasi cerebrali, e facilita il trasporto basale del glucosio, anche in assenza di insulina. Il GLUT 2 consente il flusso bidirezionale del glucosio nel fegato, verso l’epatocita e dall’epatocita nel sangue a seguito della neoglucogenesi. Il GLUT 2 si trova anche nelle betacellule pancreatiche: è un costituente dell’apparato sensore del glucosio che consente alla beta-cellula di secernere insulina in relazione ai livelli glicemici. Il GLUT 3 è espresso nei

AMIDO

LEGAMI - 1,4 LEGAMI α - 1,6

ATTIVITÀ α AMILASICA

Sintesi

Demolizione

FIGURA 9 Ramificazione e deramificazione nel glicogeno (sintesi e demolizione)

MALTOSIO MALTOTRIOSO

DESTRINE

FIGURA 10 Digestione dell’amido per opera della alfa-amilasi. I cerchi aperti rappresentano unità di glucosio

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neuroni e insieme al GLUT 1 nella barriera emato-encefalica e cellule gliali, permette al glucosio di entrare nel cervello. Il GLUT 4 aumenta il trasporto del glucosio in risposta all’insulina ed alla concentrazione ed è il trasportatore più importante per gli effetti dell’insulina, perché è selettivamente espresso nei tessuti insulino-sensibili (tessuto muscolare scheletrico, miocardio e tessuto adiposo) e il suo funzionamento è legato all’insulina. In presenza di insulina legata al suo recettore cellulare, il GLUT 4 muove verso la membrana cellulare e si fonde con essa (traslocazione del GLUT 4) con aumento della velocità di trasporto del glucosio. Sarebbe presente una riduzione dell’espressione di GLUT 4 nelle fibre di tipo 1 a contrazione lenta di pazienti con diabete di tipo 2 rispetto a soggetti obesi e degli obesi rispetto ai magri, ipotizzando che questa riduzione possa contribuire al ridotto uptake del glucosio stimolato dall’insulina nel muscolo scheletrico del diabetico di tipo 2 (Gaster M, 2001). Il fruttosio utilizza il trasportatore GLUT 5 e il meccanismo del suo assorbimento non è del tutto chiaro, è più lento ed irregolare e sembra influenzato dal glucosio e dall’aminoacido glicina, dal galattosio, dal saccarosio, dall’amido, mentre sorbitolo e destrine non hanno nessun effetto. Il GLUT 8 sembra essere importante nello sviluppo della blastocisti, mediata da insulina e IGF-1; è stato trovato dentro i neuroni cerebrali, testicolo e ghiandole adrenergiche. Il GLUT 9 è presente in cervello e tessuti linfatici, mentre il GLUT 10 è stato trovato nel fegato e nel pancreas. È opportuno ricordare che il muscolo scheletrico umano è composto da fibre ossidative a contrazione lenta e da fibre glicolitiche a contrazione rapida; le fibre muscolari a contrazione lenta sono più sensibili e reattive nei confronti dell’insulina rispetto a quelle veloci (Kriketos AD, 1996; Zierath JR, 1996) e sono

caratterizzate da una capacità ossidativa elevata e glicolitica scarsa e da un aumento dell’ossidazione degli acidi grassi e dall’accumulo di trigliceridi rispetto alle fibre veloci (Kriketos AD, 1995; Nolte LA, 1994). La distribuzione dei tipi di fibre muscolari è notevolmente variabile, potendo oscillare da >65% o <35% di fibre lente nel muscolo vasto laterale di caucasici, dovuta per il 45% a fattori genetici e per il 40% a fattori ambientali (Simoneau JA, 1995). È stato riportato che la frazione di fibre muscolari lente è inversamente correlata all’adiposità e significativamente inferiore nei diabetici di tipo 2 rispetto ai soggetti obesi o controllo (Kriketos AD, 1995). I principali tessuti bersaglio dell’insulina sono il muscolo scheletrico, il tessuto adiposo e il fegato. Nel muscolo l’insulina attiva sia la captazione sia il metabolismo intracellulare del glucosio; nel tessuto adiposo, oltre a stimolare la captazione del glucosio, esercita una forte attività antilipolitica; a livello epatico l’insulina inibisce la produzione di glucosio. Il legame dell’insulina sulla subunità α recettore innesca una serie di reazioni a cascata; questi è attivato e si comporta come un vero enzima, subisce dei cambiamenti di conformazione, lega ATP, si autofosforila e fosforila in tirosina una serie di proteine, delle quali la più importante è l’insulin receptor substrate 1 (IRS-1), che a sua volta aggancia e fosforila altre proteine cellulari. Negli ultimi anni sono state individuate proteine “inibitrici”, che regolano l’azione dell’insulina mediante inibizione di diverse molecole coinvolte nella cascata di eventi che trasmettono ed attuano gli effetti biologici dell’insulina. I segnali attivati sulla superficie cellulare amplificano e regolano gli effetti biologici dell’ormone (ingresso ed utilizzazione del glucosio). Il recettore insulinico, capostipite della famiglia di proteine “traduttrici”, il cui compito è quello di portare il segnale insulinico

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dall’esterno della cellula agli effettori finali, è una glicoproteina tetramerica composta da due subunità alfa e da due beta, unite tra loro da ponti disolfuro. Le subunità alfa sono interamente extracellulari, mentre le subunità beta sono costituite da una porzione extracellulare ed una intracellulare. Tra i fattori che regolano l’attività del recettore sono stati descritti il TNF-α (Tumor Necrosis Factor α) e la proteinochinasi C (PC), che agirebbe attraverso il fosfolipide componente della membrana cellulare, fosfatidilinositolo-4,5difosfato (PIP2). Il glucosio, una volta captato, segue due diverse vie o destini metabolici: 1) la via della glicogenosintesi, che si incrementa con l’aumento dei livelli insulinemici postprandiali e che è attiva soprattutto nel fegato e nel muscolo (ma anche nel rene), organi che assorbono la maggior parte del glucosio; 2) la via degradativa glicolitica, presente in tutti i tessuti, massimamente attiva a digiuno e che porta alla formazione del piruvato-lattato (Fig. 2), i quali sono in parte ossidati nel ciclo di Krebs (con liberazione di energia “chimica di legame”) e in parte liberati in circolo. La piruvato deidrogenasi e la glicogeno sintetasi sono i due enzimi-chiave, con azione limitante, che controllano rispettivamente la glicolisi e la glicogenosintesi. La glicogeno sintetasi passa dalla forma inattiva, defosforilata, a quella attiva, fosforilata, alternativamente. Il complesso multienzimatico della piruvato deidrogenasi permette l’ingresso del piruvato, prodotto finale della glicolisi anaerobia, nel ciclo di Krebs, per essere ossidato all’interno del mitocondrio e produrre NAD ridotto per la sintesi di ATP nella catena respiratoria. In realtà esistono altre vie metaboliche, che comprendono lo shunt dei pentosi o via ossidativa diretta, che attraverso la conversione a gluconolattone porta alla formazione di frut-

tosio-6-P e gliceraldeide, e la via dell’acido glucuronico, che attraverso l’uridintrifosfato porta alla formazione di altri zuccheri, come il mannosio e la galattosamina. Infine il glucosio-6-P può essere defosforilato e riconvertito in glucosio, soprattutto nel fegato e nel rene, e rimesso in circolo. Dopo un pasto ricco in carboidrati l’aumento della concentrazione di glucosio e insulina nella vena porta, insieme alla riduzione della concentrazione di glucagone, sopprime la produzione epatica di glucosio ed incrementa la captazione epatica di glucosio e la glicogenosintesi, limitandone l’immissione nel circolo sistemico e minimizzando le escursioni della glicemia per assicurare un flusso di glucosio costante al sistema nervoso centrale, che è dipendente dal glucosio circolante. Lontano dai pasti, con un picco a mezzanotte, la glicogenolisi e la neoglucogenesi epatica e, in minore misura, renale forniscono il glucosio al cervello ed agli altri tessuti, che ne hanno bisogno durante il sonno. La glicogenolisi procede alla velocità di circa 100 mg/min e, considerato che il contenuto di glicogeno epatico non supera 60-80 g, in 10 ore di digiuno notturno si avrebbe una completa demolizione, se la produzione di glucosio non fosse sostenuta anche dalla neoglucogenesi per circa il 30%. Gli stessi livelli di glicemia sono in grado di modulare la produzione epatica di glucosio, risentendo dello stato metabolico prevalente. L’acetil-CoA, prodotto dalla beta-ossidazione degli acidi grassi, svolge un ruolo regolatore tramite l’attivazione allosterica della piruvato-carbossilasi e fosfoenol-piruvato-carbossichinasi. La lipolisi fornisce glicerolo, substrato neoglucogenetico, mentre il processo beta-ossidativo produce le molecole di ATP necessarie alla spesa energetica della sintesi del glucosio. La glicogenosintesi, oltre che dal glucosio, può essere indirettamente favorita dalle unità tricarboniose (lattato, alanina, glicerolo, piruva-

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to) mediante formazione di glucosio, a seguito di pasti poveri in carboidrati. Nello stato post-assorbitivo, quando le concentrazioni plasmatiche di insulina sono basse, la massa di tessuto muscolare e di tessuto adiposo (circa il 60% del peso corporeo) consumano non più del 20% del glucosio dell’organismo, probabilmente attraverso l’azione dei trasportatori di membrana insulino-indipendenti GLUT1. La maggior parte del consumo basale di glucosio avviene nei tessuti noninsulino dipendenti: sistema nervoso centrale, globuli rossi e midollare renale; di questa ossidazione basale del glucosio ben il 70-80% si verifica nel sistema nervoso centrale. Nel frattempo nel muscolo scheletrico la produzione di energia è largamente dipendente dall’ossidazione degli acidi grassi liberi, con un minimo contributo del glucosio intracellulare. Oltre che essere convertito in glicogeno oppure ossidato, il glucosio può essere utilizzato per la sintesi degli acidi grassi (lipogenesi), sotto lo stimolo dell’insulina, che regola l’attività della lipoprotein-lipasi e della lipasi ormono-sensibile, tramite la formazione di alfa-glicero-fosfato, metabolita-chiave per la riesterificazione degli acidi grassi nell’adipocita. Il costo energetico della conversione del glucosio in glicogeno è pari a circa il 5% del contenuto energetico dello stesso glucosio, mentre la conversione a grasso incrementa il costo energetico dell’operazione a circa il 24%. Una parte del piruvato-lattato prodotto dai tessuti intestinale, nervoso, muscolare e dai globuli rossi, è liberata nel sangue (insieme con alanina, prodotta per aminazione del piruvato) e quindi captata dal fegato e convertita prima in glucosio e quindi in glicogeno (Fig. 9). La capacità del fegato di accumulare glicogeno può raggiungere circa 60-80 g, mentre la quantità che può essere immagazzinata nei muscoli è dell’ordine di 150-300 g. In sintesi il fegato opera in due direzioni opposte in funzione dello stato nutrizionale.

In fasi lontane dall’assorbimento (bassa insulinemia) garantisce un flusso di glucosio sufficiente a garantire la richiesta dei tessuti strettamente glucosio-dipendenti, soprattutto il SNC; nelle fasi assorbitive (elevata insulinemia) diviene sede di utilizzazione del glucosio con aumento del deposito di glicogeno. Un breve cenno merita il metabolismo del muscolo cardiaco, che si differenzia notevolmente rispetto agli altri muscoli. Il cuore è una pompa incredibile, che lavora incessantemente per tutta la vita, senza potersi fermare mai, contraendosi e rilassandosi, in media, circa trentasei milioni di volte in un solo anno. Tuttavia la quantità di ATP e di CP presenti nel muscolo cardiaco è estremamente bassa (circa 3 mg/g di miocardio), sufficiente soltanto per 80-90 battiti, poco più di 1 minuto, rendendo indispensabile il continuo rifornimento di substrati energetici e di ossigeno, necessario per la loro ossidazione, attraverso la circolazione coronarica. Il flusso coronarico è in grado di adeguarsi con grande rapidità, in assenza di stenosi vasali, alle situazioni di aumentata richiesta energetica (riserva coronarica) per effetto della liberazione di nitrossido di azoto (NO) e di aumento dell’adenosina. Il combustibile preferito dal miocardio è costituito dagli acidi grassi liberi, soprattutto in condizioni di riposo; in caso di maggiore attività, invece, aumenta l’importanza dei lattati, quale fonte energetica (fino al 50% del totale), parallelamente all’incremento della concentrazione della lattacidemia, ad eccezione del cuore ischemico. Infine la via metabolica glicolitica, anaerobia, è abitualmente utilizzata dal cuore, anche se è di importanza secondaria, per cui il miocardio è un tessuto strettamente aerobio. In definitiva le diverse vie metaboliche (betaossidazione degli acidi grassi, glicolisi, shunt dei pentosi, ciclo di Krebs) sono tutte presenti ed utilizzabili secondo le necessità e i substrati.

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L’uomo è onnivoro?

Il cervello è apparentemente formato sempre dagli identici elementi: neuroni, sinapsi e cellule gliari. Nei vertebrati, uccelli compresi, i gangli della base (struttura sottocorticale) costituiscono la maggior parte del cervello, mentre nei mammiferi la corteccia cerebrale acquista grande prevalenza. Dal punto di vista evolutivo, la funzione olfattiva si esplica per prima: in tutti i vertebrati non mammiferi la corteccia cerebrale è rimasta ad un livello evolutivo basso (archipallio) e svolge funzioni prevalentemente olfattive, collegate verosimilmente alle attività fondamentali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, la riproduzione e la nutrizione. Soltanto a partire dai mammiferi la corteccia cerebrale si sviluppa tanto da regolare in modo più ampio la condotta ed il comportamento, dato che le attività intellettive sono strettamente correlate con il grado di sviluppo della stessa cortec-

cia, la quale raggiunge un livello sempre crescente dai carnivori, ai primati e infine all’uomo. La neocorteccia, l’involucro più esterno che ricopre il cervello, nell’uomo è più grande, più spessa e più estesa di quella di tutti gli altri esseri viventi. La maggiore estensione è dovuta alla presenza di un numero considerevole di solchi e pieghe, che circoscrivono dei rilievi, dette circonvoluzioni, e che dividono il cervello in lobi. Nell’uomo questi lobi sono denominati frontali, parietali, temporali ed occipitali. L’impressione è che la crescita del cervello sia stata più grande e più veloce di quella del volume del cranio, costringendo la corteccia a ripiegarsi su se stessa, formando solchi e pieghe (Rossi A, 2003). Considerato che il cervello umano utilizza ben il 20-25% del totale energetico a riposo contro l’8-10% dei primati e il 5% negli altri

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animali, alcuni ricercatori americani (Leonard WR, 2003; Leonard WR, 1994) hanno sostenuto che l’aumento del cervello nell’uomo è potuto avvenire soltanto perché era stata adottata una dieta ricca in calorie e la carne, soprattutto se grassa, è una fonte calorica molto maggiore rispetto ai vegetali, che allora erano selvatici, poco digeribili e spesso tossici. La carne era, inoltre, la fonte principale di proteine, l’unica in grado di rendere possibile un apporto proteico giornaliero di circa 150 grammi, pari a circa 2 grammi pro kg di peso corporeo (PatouMathias M, 1997); secondo altri autori gli alimenti d’origine animale coprivano dal 45 al 65% dell’energia con un apporto proteico pari al 19-35% (Cordain L, 2000). Da sottolineare che si trattava comunque di carne derivata da animali selvatici, povera di grassi saturi e ricca di polinsaturi, di colesterolo (il cervello è ricchissimo di colesterolo!), di aminoacidi essenziali, di vitamina B12 e di oligoelementi (ferro, zinco, cromo, selenio). Un ruolo di rilievo aveva anche il pesce, che, tra l’altro, è molto ricco di acidi grassi polinsaturi della serie omega 3 e 6, che sono importantissimi per lo sviluppo ed il funzionamento cerebrale. Il salto nello sviluppo del cervello avviene con la comparsa dell’Homo Erectus che abbandona le savane e raggiunge ambienti misti (terra-acqua), dove erano presenti situazioni nutrizionali più favorevoli per un ulteriore sviluppo del cervello. Vicino all’acqua l’uomo si riforniva, tramite i pesci, soprattutto molluschi e crostacei, di colesterolo e di AG polinsaturi omega 3, in particolare di acido decosaesanoico, che è essenziale per la funzione e la crescita dei neuroni cerebrali. Oltre la modificazione quantitativa, è avvenuta una modificazione qualitativa: i neuroni sono costituiti per oltre il 60% di lipidi, in particolare colesterolo, glicolipidi e fosfolipidi. Tra questi ultimi i glicerofosfolipidi sono ricchi in AG

polinsaturi a lunga catena, formati da 20 o più atomi di carbonio e 4 o più doppi legami, e derivanti soprattutto dall’acido decosaesanoico, attraverso processi di elongazione e denaturazione, processi lenti e variabili con l’età. La prevalenza di decosaesanoico mantiene le membrane neuronali ben funzionanti; il decosaesanoico è anche un agente antinfiammatorio naturale e protegge le membrane cellulari dal danno ossidativo, contribuendo a mantenerle fluide e funzionanti (Weber PC, 1988; Packer L, 1995). I nostri antenati hanno iniziato a utilizzare le tecniche di conservazione della carne (salatura ed affumicatura) già decine di migliaia di anni fa ma soltanto dal V secolo a.C. sono presenti testimonianze specifiche (Aristofane parla di salsicce in una sua commedia). Anche in Italia, l’uso delle carni di maiale, soprattutto salate e trasformate in salumi, ha radici antiche. Inizialmente il bestiame veniva allevato unicamente per soddisfare le necessità della famiglia o del villaggio. Solo in epoca etrusca iniziano a prendere vita le prime forme di allevamento stabile, specializzato e finalizzato anche al commercio. Una forte testimonianza arriva dagli scavi di Forcello (V secolo a.C.), nel mantovano, dove furono ritrovati 50.000 resti di ossa animali, di cui il 60% di suini. Nasce forse allora il concetto di salume. In epoca romana l’interesse si concentra progressivamente sulla coscia di suino; il prosciutto diventa l’elemento di maggior pregio ricavato dal suino. Con le successive invasioni barbariche il suino diventa una delle risorse più importanti del villaggio e delle campagne sotto forma di insaccati e di carni conservate; prosciutti, spalle e pancette, diventano addirittura moneta corrente. Nel Medio Evo il pascolo del suino ha un rilievo particolare al punto che i boschi sono misurati in base alla loro capacità di nutrire suini, più che in base alla loro superficie. In Italia,

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tra il XII e il XVII secolo si osserva un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni del maiale. In quel periodo si affaccia la figura del “norcino” che, grazie alla sua abilità, dà vita alla creazione di nuovi prodotti di salumeria. Tali figure professionali iniziano a organizzarsi in corporazioni o in confraternite e ad assumere importanti ruoli all’interno della società. A Bologna sorge la Corporazione dei Salaroli, a Firenze, all’epoca dei Medici, sorge la Confraternita dei facchini di San Giovanni decollato della nazione norcina, dedita anche al mecenatismo e all’arte. Il Papa Paolo V, nel 1615, riconosce la Confraternita norcina dedicata ai Santi Benedetto e Scolastica e, più tardi, il suo successore Gregorio XV la elevò ad Arciconfraternita alla quale, nel 1677, aderì anche l’Università dei pizzicaroli norcini e casciani e dei medici empirici norcini. Laureati, benedetti e patentati, i norcini accrebbero la loro fama anche al di fuori dello Stato pontificio. Una serie di dati legati sia a ritrovamenti archeologici sia ad osservazioni biologiche permettono, comunque, di concludere che l’uomo rimane un animale onnivoro, in quanto è provvisto di caratteristiche tipiche degli erbivori, quali la dentatura posteriore, il secondo tratto dell’apparato digerente, mentre la dentatura anteriore (incisivi e canini) e il primo tratto dell’apparato digerente presentano caratteristiche proprie dei carnivori. Nella vista la preferenza è per i colori più che per il movimento, come negli erbivori. Anche la distribuzione e gli orari dei pasti differiscono notevolmente rispetto a quelli dei carnivori e degli erbivori: l’uomo non è, infatti, un “mangiatore occasionale”, come i grandi felini, e neanche un “mangiatore continuo”, come ad esempio gli equini o i bovini o gli ovini, ma al contrario consuma regolarmente dei pasti, che, con il passare degli anni, diventano meno numerosi e più distanziati nell’arco della giornata. L’uomo è l’unico essere vivente che

mangia abitualmente sia vegetali, sia animali erbivori, sia animali carnivori, e non fa parte di catene alimentari naturali. Le alimentazioni alternative In contrapposizione ai precetti dell’alimentazione tradizionale onnivora, esistono altre alimentazioni, basate su orientamenti culturali o filosofici (Pitagora, Platone, Diogene) o religiosi (Certosini e Minimi tra i cattolici, Quaccheri, Avventisti del 7° giorno e Mormoni tra i protestanti, Sufi tra i mussulmani e settori delle religioni orientali, Induisti, Jainisti, Buddisti, Zoroastriani, Hare Krishna), che comportano importanti riflessi sullo stile di vita e sull’alimentazione degli adepti. Il numero di adepti a queste alimentazioni è notevolmente cresciuto e si calcola che siano 2,5 milioni in Italia, di cui 1,5-1,8 milioni latto-ovo-vegetariani, 1 milione in Francia, 4 milioni nel Regno Unito, 48 milioni negli USA. Alimentazione macrobiotica: consiste in dieci stadi di apprendimento, sempre più restrittivi e privilegia gli alimenti di tipo integrale, di stagione e adatti al clima locale, in particolare cereali integrali, legumi e derivati, verdure cotte e crude, noci e frutta secca, frutta di stagione, piccole quantità di cibo animale, come pesce e molluschi, alghe marine e alimenti fermentati; assenti latte, uova, formaggi e frutta; si basa su principi filosofici cinesi (taoismo) secondo i quali anche il mantenimento della salute è legato all’equilibrio tra le due forze fondamentali yin (femminile) e yang (maschile): sono cibi yang il sale, la carne, le uova, il pollo, il pesce, il formaggio stagionato; sono yin zucchero, miele, tè, caffè, alcol, spezie, succhi di frutta, latte, yogurt, panna; sono neutri cereali, legumi, semi oleosi, frutta; sono comunque sconsigliati zucchero, caffè, droghe ed alcolici. Alimentazione vegetariana (il gruppo più numeroso, a sua volta suddiviso in latto-ovo-vegetariani, ovo-

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vegetariani, latto-vegetariani): si basa sull’eliminazione della carne e del pesce, che sono sostituiti con vegetali crudi e cotti, frutta fresca e secca, legumi, cereali e, a seconda dei casi, da derivati animali come uova, latte, formaggi e yogurt. Alimentazione secondo il movimento “Vegano” (Vegani): sono i vegetariani più rigidi; sono consigliati esclusivamente alimenti vegetali, escludendo qualsiasi prodotto animale e derivato. Semivegetariani: riducono notevolmente la carne, specialmente quella rossa, ma assumono saltuariamente pollo e pesce. Alimentazione secondo il movimento igienista (Crudisti): si basa sul concetto che il cibo vegetale crudo è un alimento vivente, facilmente digeribile e molto nutritivo. Preferisce, quindi, frutta e verdura rigorosamente crude, cereali e legumi germinati, noci e mandorle, latte crudo fresco e miele. Alimentazione secondo i “fruttariani”: basata sulla filosofia ayurvedica, originaria dell’India, consiglia prevalentemente frutta fresca e secca (esisterebbero tre tipi costituzionali di base, che sono Vata, Pitta e Kapha ed alcuni cibi sarebbero efficaci per la diversa costituzione individuale, utilizzando particolari spezie, oli e metodi di cottura). Alimentazione dissociata: consiste nel separare carboidrati e proteine durante lo stesso pasto. Il presupposto alla base è che, separando gli alimenti del gruppo “carboidrati” dagli alimenti del gruppo “proteine”, si ottengono risultati migliori; al termine della giornata, comunque, il consumo complessivo sarebbe lo stesso. Se la dissociazione di proteine e carboidrati non è rispettata, le conseguenze sarebbero un senso di pesantezza, flatulenze e acidità di stomaco, dato che la digestione degli amidacei inizia nella bocca, mentre la digestione delle proteine inizia nello stomaco. Se consumati assieme, deriverebbe un’insufficiente

digestione degli amidacei, che poi fermenterebbero nell’intestino per effetto del calore e dell’umidità. Sarebbe, quindi, opportuno consumare le proteine con le verdure a mezzogiorno e gli amidacei con le verdure la sera. In realtà, non esistono in natura alimenti con un solo tipo di nutrienti. Una ricerca sui regimi alimentari vegetariani ha comunque dimostrato che nei bambini possono provocare deficit delle funzioni cognitive anche a distanza di anni, da mettere in relazione verosimilmente a minori livelli plasmatici di cobalamina e di metilmalonico (Louwman MWJ, 2000). D’altronde, deve essere ricordato che la percentuale di sovrappeso e obesità tra le donne onnivore è maggiore (40%) rispetto alle semivegetariane e alle vegane (29%) e alle lattovegetariane (25%) e che in definitiva un consumo abbondante di vegetali e una moderata riduzione di carne e prodotti animali può aiutare nel controllo del peso corporeo (Newby PK, 2005), e che l’apporto di proteine vegetali è inversamente associato all’ipertensione, mentre non vi è alcuna associazione con l’apporto di proteine animali (Elliot P, 2006). Un breve cenno anche a regimi dietetici fantasiosi, proposti come salutari e capaci di prevenire o addirittura curare i tumori, senza avere alcuna validazione scientifica: Dieta di Bristol, basata su cibi integrali, frutta e verdura crude, cereali grezzi, pesce, pollo e uova, con divieto per latticini, carni rosse, sale, zucchero e bevande nervine; Dieta di Gerson, basata su frutta e verdure organiche, sotto forma di succhi, proteine da animali di piccola taglia, estratti di fegato; Dieta di Manner, basata su cibi naturali e megadosi di vitamine; Ampeloterapia, basata sull’assunzione di grandi quantità di cibo ad alto tenore di acqua, soprattutto uva.

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Parte Terza | L’uomo cacciatore-raccoglitore

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HOMO SAPIENS HOMO ERECTUS HOMO HABILIS AUSTRALOPITHECUS

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MILIONI DI ANNI

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Percorso evolutivo della specie umana, schematizzato e semplificato

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Origine della vita

In principio Dio creò il cielo e la terra... .. Dio disse: “Sia la luce”. E luce fu... .. Dio disse: “La terra produca germogli... .. Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo le loro specie...

Non è il più intelligente né il più forte che soppravviverà ma il più pronto ed abile ad adattarsi C. Darwin. L’origine della specie, 1859

Genesi 1,22

Secondo le più recenti ipotesi scientifiche, circa 13-14mila milioni di anni fa è nato l’Universo e circa 4600 milioni di anni fa si è formata la Terra; l’atmosfera primitiva era essenzialmente composta da idrogeno ed elio, come la nebulosa da cui derivava, perdendo alcuni elementi più volatili come idrogeno, argon, azoto, neon, elio. Una “seconda atmosfera”, composta da azoto (N2), ammoniaca (NH3), anidride carbonica (CO2), idrogeno solforoso (H2S), gas solforoso (SO2) e vapore acqueo (H2O), fu costituita per emissioni provenienti dal mantello e da sorgenti di acqua calda. Originariamente l’irradiazione solare era meno intensa di ora, ma la temperatura terrestre era più alta (60°C) per un maggiore effetto serra, per la prevalenza di CO2, H2O, metano, ossido nitrosi, per cui i raggi infrarossi solari arrivavano mentre gli infrarossi terrestri, con una diversa lunghezza

d’onda, erano trattenuti (“weak Sun paradox” o paradosso del Sole debole). Con il progressivo raffreddamento della crosta terrestre il vapore acqueo si condensò, provocando intense piogge, che riempirono d’acqua grandi zone del nostro pianeta. L’atmosfera si è raffreddata per una forte riduzione del CO2, dovuta probabilmente a piogge molto acide, che hanno eroso i silicati della crosta, con la formazione di bicarbonati, depositati come calcare e silicati, e susseguente formazione delle immense formazioni scogliere della Pangea, che raggruppava tutte le terre emerse. Secondo la teoria dell’evoluzione biologica, l’azione combinata dei raggi solari, del calore prodotto dall’attività vulcanica e dai fulmini avrebbe fornito l’energia sufficiente per la formazione delle prime molecole organiche (evoluzione chimica). Questi composti pre-

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senti negli oceani avrebbero costituito il brodo primordiale, da cui avrebbe avuto origine la seconda fase, cioè la formazione di grosse molecole organiche, come proteine e acidi nucleici, essenziali per la costituzione di un essere vivente. Nella terza fase (evoluzione biologica) i composti organici si sarebbero uniti formando strutture sferiche microscopiche capaci di accrescersi e riprodursi; da questi si sarebbero poi evolute le prime cellule. Alla teoria evoluzionista, basata sul concetto di caso e di evento casuale, si contrappone la cosiddetta teoria del Progetto Intelligente, che ammette, invece, la presenza di una causa e di una finalità, sulla base di un progetto messo in atto da un agente animato. Circa 3800 milioni di anni fa sarebbero comparse le prime forme di vita, i “procarioti”, che si nutrivano di carbonio per fotosintesi, senza rilascio di ossigeno; circa 2000 milioni di anni fa comparvero cellule eucariote, fotosintetiche, monocellulari, da cui si originarono alghe multicellulari, all’origine sia dei vegetali sia degli animali, che fissavano CO2 e liberavano ossigeno. La conseguente riduzione del CO2 abbassò ulteriormente l’effetto serra e la temperatura media del pianeta, portando alla prima glaciazione (2300 miliardi di anni fa), con un abbassamento del livello dei mari, giunto fino a 600 metri. Circa 600 milioni di anni fa (periodo cambriano) il mare è essenzialmente popolato da invertebrati; nell’ordoviciano (da 500 a 435 milioni di anni fa) la fauna marina ha continuato a diversificarsi e a colonizzare le terre emerse, in seguito alla regressione del livello marino. Circa 450 milioni di anni fa sono nati i primi pesci corazzati, dotati di uno scheletro cartilagineo, cioè i primi vertebrati. Il riscaldamento porta ad uno sconvolgimento globale; nel siluriano e nel successivo devoniano (da 408 a 360 milioni di anni fa) la fauna marina è ricchissima e sono comparsi i primi vertebrati terrestri. Dopo l’intuizione nel 1915 di

A. Wegener sulla “deriva dei continenti” si è chiarito che circa 320 milioni di anni fa la Pangea si è fratturata e le terre emerse sono raggruppate in due supercontinenti, la Laurasia, comprendente Groenlandia, Nord America, Scandinavia e Russia, e il Gondwana, separati dalla Tetide. Circa 385 milioni di anni fa è sopraggiunta una nuova catastrofe biologica con estinzione del 75% delle specie. Nel carbonifero (tra 345 e 280 milioni di anni fa) si è avuto lo sviluppo di grandi foreste e la diffusione di anfibi e insetti e sono comparsi i primi rettili; nel permiano (280-230 milioni di anni fa) si sono sviluppati anfibi di grandi dimensioni ed i rettili hanno conquistato ampi spazi. Con il mesozoico sono finite le grandi modificazioni della crosta terrestre e si è instaurato un clima caldo-umido che ha favorito lo sviluppo dei vegetali. Nel triassico (tra 230-195 milioni di anni fa) si sono diffusi anfibi di grandi dimensioni, rettili e sono comparsi i primi piccoli mammiferi; nel giurassico (tra 195 e 140 milioni di anni fa) si è avuta la grande diffusione dei dinosauri e nei cieli degli pterosauri, rettili volanti, i più grandi animali che abbiano mai volato, dotati di ali formate da una membrana attaccata ai lati del corpo, che era mantenuta in estensione dagli arti superiori, in particolare dal IV dito, estremamente allungato e robusto, e con ossa cave, separate in cellette; nel cretaceo (tra 140 e 65 milioni di anni fa) si sono formate masse continentali separate e sono comparse le piante con i fiori (angiosperme). Alla fine del triassico (da 250 a 203 milioni di anni fa) una nuova estinzione di massa colpì il mondo vivente. Tra 203 e 65 milioni di anni fa il mondo è dominato dai dinosauri (circa 600 specie), fino a quando per il raffreddamento climatico, causato dalla caduta di un asteroide o per gigantesche effusioni di lava, scomparvero tutti i rettili terrestri, ad eccezione di coccodrilli, tartarughe, lucertole e serpenti. È verosimile che abbia contribuito il fatto che depo-

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nessero le uova senza covarle, come è invece tipico degli uccelli. Con il cenozoico (tra 65 e 2 milioni di anni fa), durato circa 63 milioni di anni, le terre emerse hanno assunto una conformazione simile all’attuale ed il clima ha cominciato a differenziarsi nelle stagioni. I mammiferi, comparsi già 195 milioni di anni fa, sono animali a sangue caldo, meglio termoregolati rispetto ai rettili, ed hanno resistito alla catastrofe che chiude l’era dei dinosauri, occupando gli spazi lasciati liberi e sviluppando oltre 4050 specie differenti. Secondo alcune teorie i piccoli mammiferi predatori avrebbero favorito l’estinzione dei dinosauri depredando i nidi e mangiando i cuccioli e quindi spinto l’evoluzione dei dinosauri a dinosauri piumati e volanti (Pterosauri), come dimostrato dal ritrovamento di un fossile di 130 milioni di anni fa, nel settore nord orientale della Cina, di un mammifero, antenato del gatto (Rapenomamus Robustus), lungo circa 60 cm e del peso di circa 7 kg, che aveva mangiato un piccolo cucciolo di dinosauro erbivoro (Psittacosaurus o dinosauro pappagallo), lungo 13 cm. L’affermarsi dei mammiferi è stato aiutato dalla presenza della placenta, che offre molti vantaggi rispetto all’uovo per lo sviluppo fetale del cervello: con la placenta si ha un apporto più costante di principi nutritivi specie durante i periodi critici di sviluppo (Crawford MA, 1992). La placenta separa il sangue materno da quello fetale, permettendo lo scambio di prodotti metabolici e gassosi tra madre e figlio e viceversa. Durante l’ultimo trimestre di gravidanza nella specie umana avviene un selettivo e progressivo passaggio dalla placenta al feto di acido arachidonico e decosaesanoico, acidi grassi polinsaturi a lunga catena, per soddisfare le necessità di accrescimento dell’encefalo. La presenza di una temperatura globale molto più alta di oggi, ha portato alla scomparsa delle foreste di cacadacee e delle felci giganti, contenenti

AG della serie omega 3, e alla contemporanea comparsa delle piante a fiore, produttrici di semi contenenti molti AG omega 6, precursori dell’acido arachidonico, il composto più importante della placenta; il prevalere fra i vegetali degli omega 6 rispetto agli omega 3 ha agevolato sicuramente lo sviluppo dei mammiferi (Crawford MA, 1992; Innis SM, 1991; Sinclair AJ, 1978). Da notare che le leggi darwiniane evoluzioniste non sembrano valere per le blatte, che sono rimaste invariate da 320 milioni di anni. In questo periodo si sono sviluppati ecosistemi complessi: crescevano palme alle latitudini di Alaska e di Gran Bretagna e le scogliere coralline erano presenti in Europa, mentre nei sedimenti marini si formavano depositi di oli pesanti (la metà dei depositi petroliferi conosciuti si sono formati in rocce cenozoiche) ed il cielo si è popolato di uccelli, derivati dai rettili. Intanto è proseguito il posizionamento dei continenti: circa 50 milioni di anni fa (Eocene) l’India è entrata in collisione con il Tibet, sollevando l’Himalaia e contemporaneamente si sono formate Alpi, Ande e Pirenei; circa 23 milioni di anni fa (Miocene) la Tetide ha cominciato a chiudersi ad est ed ovest con l’unione Europa-Africa, con la possibilità di migrazione di animali africani e asiatici verso l’Europa (mastodonti, ippopotami e rinoceronti); circa 5,3 milioni di anni fa (Pliocene), lo stretto di Gibilterra si è fratturato, permettendo l’afflusso di acqua dall’Atlantico, che ha riempito il Mediterraneo in secca, mentre 2,5 milioni di anni fa l’istmo di Panama ha collegato le due Americhe. Circa 37 milioni di anni fa (Oligocene) sono comparse le piante a foglia caduca. Circa 35 milioni di anni fa il clima è diventato molto più freddo, con l’Antartico circondato dai ghiacci, ma con un clima all’emisfero Nord piuttosto mite. Sono comparsi ghiacciai continentali alla

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fine del cenozoico (3 milioni di anni fa) con un abbassamento del livello dei mari, che alla fine del Pliocene (1,75 milioni di anni fa) ha raggiunto il livello attuale. Inizia il neozoico o quaternario (Pleistocene ed Olocene) e con esso il fenomeno delle glaciazioni. Durante questa fase le flore hanno assunto fisionomie attuali, anche se distribuite in modo differente, e la fauna africana classica si è diffusa in tutto il continente (rinoceronti, elefanti, ippopotami, giraffe, ecc.); coesistevano equidi, scimmie, tigri dai denti a sciabola. In estrema sintesi ho riassunto uno spazio

temporale di enorme durata, che spesso è raffontrato con un anno solare (dall’ora 0 del 1 gennaio alla mezzanotte del 31 dicembre). I primi esseri viventi sarebbero comparsi (3800 milioni di anni fa) nel mese di maggio, i Primati il 25 dicembre, l’Homo sapiens nelle ultime 10-12 ore del 31 dicembre, il paleolitico superiore corrisponderebbe a 6 minuti e 30 secondi prima della mezzanotte e la nostra era cristiana comincerebbe venti secondi prima di mezzanotte, Leonardo dipingerebbe la Gioconda a meno di 4 secondi dal tocco.

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Origine dell’uomo

E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” Genesi 1,22

Noi, gli ominidi, non siamo altro che scimmie che camminano su due zampe Richard Leakey

Prima di parlare dell’origine dell’uomo è necessario prendere in considerazione i Primati, che sono comparsi circa 65-75 milioni di anni fa, con un patrimonio genetico differente soltanto per il 2-4% da quello umano (addirittura 1,6% nel caso dei bonobi o scimpanzé nani) e con caratteristiche che preludono a quelle umane: flessibilità degli arti, che sono ben articolati rispetto al tronco; mantenimento di cinque dita in mani e piedi; mani prensili (opposizione del pollice) in grado di manipolare; occhi posti frontalmente con visione cromatica, binoculare e quindi tridimensionale e colorata, indispensabile per individuare il cibo colorato tra le foglie, con predominio della vista sugli altri sensi; progressiva perdita della sensibilità olfattiva, importante anche per il controllo della sessualità, con riduzione del prognatismo facciale. Queste caratteristiche anatomiche correla-

no molto bene con un habitat arboricolo (grandi foreste pluviali, ricche di frutti e di foglie, quasi impenetrabili per i predatori). Inoltre sono già presenti cure parentali molto attente e prolungate nel tempo: i piccoli sono accuditi a lungo. Alla fine del Miocene e inizio del Pliocene (tra 8 e 5 milioni di anni fa) inizia la separazione evolutiva tra uomo e scimmia, che, peraltro, non è possibile dimostrare per l’assoluta mancanza di fossili di esseri intermedi (“buco nero dei fossili”). Il motivo di questa completa assenza non è chiaro, anche se si ipotizza che non si siano formati probabilmente per difficoltà ambientali (foreste, piogge acide, ecc.) oppure che semplicemente non sia mai esistito un individuo metà uomo-metà scimmia. La ricerca dell’“anello mancante” fra l’uomo e la scimmia ha portato anche alla costruzione di falsi, di cui l’esempio più

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FIGURA 1 L’evoluzione del piede. Dall’alto: - Piede di scimpanzé: l’alluce sporge lateralmente e può afferrare. - Piede di Australopithecus afarensis: l’alluce si è allungato e rafforzato per permettere di camminare eretti su due piedi. - Piede di Homo sapiens moderno: l’alluce è perfettamente allineato alle altre dita e ha solo funzioni di stabilità, le ossa della caviglia si sono allargate.

famoso è l’“uomo di Piltdown” (Sussex) (cranio umano con mandibola di scimmia), accettato come vero all’inizio del novecento e smascherato nel 1953. La maggior parte degli studiosi ritiene che l’origine dell’umanità sia in Africa, lungo la Rift Valley, la grande frattura geologica che taglia il continente da Sud a Nord passando per il Sudafrica, la Tanzania, l’Etiopia, il Mar Rosso e termina ai piedi del Caucaso. Questa frattura si è prodotta per imponenti eruzioni vulcaniche, tra circa 8 e 10 milioni di anni fa,

con sprofondamento della superficie di 7 km e successiva formazione di un invaso ricoperto da materiali portati dalle piogge acide fino a raggiungere un dislivello di 1,2 km. Alla fine rimase un imbuto, in cui si incanalarono i venti secchi del Nord: la zona ad Ovest continuò ad essere attraversata da venti dominanti umidi provenienti da Ovest, mentre la foresta dell’Africa orientale, meno irrigata, si frammentò in piccole macchie arboricole e fece lentamente spazio alla savana. Le piccole scimmie, che l’abitavano, non poterono spostarsi ad Ovest, bloccate dalla faglia, dovettero scendere dagli alberi, ormai assolutamente insufficienti per sfamarle, e quindi abituarsi alla vegetazione alta della savana, caratterizzata da un clima con piogge stagionali (grandi piogge e piccole piogge) e con variazioni cicliche (circa decennali) (le “vacche grasse e le vacche magre” della Bibbia?). Allo scopo di procacciarsi il cibo erano costrette a fare lunghe migrazioni (circa 40 km giornalieri) per seguire il ciclo delle risorse alimentari: durante la stagione delle piogge diventavano abbondanti le piante con fiori e frutti; alla fine delle piogge il clima cominciava a farsi arido e la principale fonte di cibo era costituita dai semi delle graminacee (frumento, ecc.) e poi dai rizomi sepolti delle erbe, estratti dapprima con semplici pezzi di legno che in seguito diventarono “bastoni da scavo”, tagliati da una parte e induriti con il fuoco dall’altra. Considerato che il cibo era poco nutriente ma molto diffuso, era necessario muoversi in continuazione. La traccia biologica di questo comportamento è rappresentata dalla raccolta odierna di vegetali (funghi o asprelle) in particolari mesi dell’anno. Le scimmie si spostavano camminando diritte, per guardarsi meglio attorno, al di sopra della vegetazione della savana, per sfuggire all’assalto dei predatori. Tutto questo ha modificato il piede, facendogli assumere caratteristiche intermedie tra quelle umane e quelle dei

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FIGURA 12 Liberazione degli arti superiori dalla locomozione con il progressivo sviluppo delle interrelazioni mano-cervello

primati, umane per la parte posteriore e scimmiesche per l’alluce, che rimaneva prensile per arrampicarsi sugli alberi al bisogno (Fig. 11). Contemporaneamente ha liberato gli arti superiori dalla locomozione con il progressivo sviluppo delle interrelazioni mano-cervello (Fig. 12). Così è iniziato il cammino verso la comparsa dei primi Ominidi, tra i quali deve essere ricercato l’antenato comune degli Australopitechi (ominidi poi estinti) e dell’Uomo. È comunque doveroso ricordare che la teoria dell’origine nella Rift Valley è stata recentemente rimessa in discussione dal ritrovamento in Ciad, a 2500 km ad ovest della Rift Valley, di due fossili di Australopiteco. Per la specie umana attualmente si ammette una precisa sequenza evolutiva, anche se non esiste un’unica linea, ma più diramazioni

con la possibilità di parziali sovrapposizioni temporali, con specie differenti e relazioni tra esse tutte da indagare. In definitiva ci sarebbe stato uno sviluppo a cespugli, favorito dalla breve vita media (18-20 anni) degli ominidi e dalla dispersione dei piccoli gruppi in grandi spazi, riassumibile come segue (Fig. 13). Pre-Australopitechi comparsi tra 5 e 8 milioni di anni fa, comprendenti l’Ardipithecus ramidus, scoperto nel 2000 e soprannominato “Uomo del millennio”, comparso circa 6 milioni di anni fa con separazione tra ominidi e scimmie e l’Ardipithecus ramidus kababba, i cui resti fossili di ossa e denti, ritrovati nel sito di Middle Awash in Etiopia, appartenenti a 5 individui, indicano che l’ominide era senz’altro bipede e che aveva una dieta diversificata rispetto a quella delle scimmie.

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Gorilla

Scimpanzè A. afarensis

A. boisel A. robustus

A. africanus A. aethipicus

Homo rudolfensis H. abilis H. ergaster

Homo sapiens H. antecessor

A. garhi H. erectus

H. heidelbergensis H. neanderthalensis

3 milioni di anni fa

2 milioni di anni fa

1 milione di anni fa

Oggi

FIGURA 13 “Albero” evolutivo dell’umanità caratterizzato da più diramazioni con parziali sovrapposizioni temporali fino al Sapiens

Australopitechi (da 3,6 a 2,6 milioni di anni fa) comparsi in Africa orientale e meridionale, con una capacità cranica tra i 350 e i 600 cc ed una statura tra 120-150 cm, e ritenuti a lungo come i primi ominidi a camminare eretti, anche se probabilmente conservarono a lungo abitudini arboricole, e producevano semplici utensili di pietra scheggiata; in questo gruppo sono compresi almeno quattro differenti esemplari: l’Australopiteco Afarensis, con una statura di circa 1 metro e un peso di circa 30 kg, che si alimentava attraverso la raccolta e, nonostante il perfetto bipedismo, possedeva ancora braccia e piedi che conservavano la capacità di arrampicarsi sugli alberi della foresta; nelle savane semiaride l’Australopiteco Africanus (statura 120 cm, peso 45 kg, capacità del cranio 500 cc), che si nutriva soprattutto di carne e di bacche; l’Australopi-

teco Robustus (peso 40-90 kg, statura indeterminata) mangiava foglie e frutti della foresta; l’Australopiteco Boisei (peso 50-100 kg, statura 148-168 cm), dotato di enormi molari, che basava la sua alimentazione su germogli e duri semi delle erbe; in definitiva l’alimentazione era prevalentemente vegetariana, ricca di AG omega 6, utili alla maturazione del cervello. Homo Abilis (da 2,4 a 1,4 milioni di anni fa), che presentava un incremento nel volume cerebrale (600-750 cc), una statura di 150 cm, e realizzava utensili di pietra scheggiata con caratteristiche costanti, utilizzando prima ciottoli di roccia e poi la selce, le cui scaglie si sfaldano regolarmente; in tal modo otteneva una notevole varietà di forme e dimensioni con un filo tagliente. L’alimentazione era onnivora con maggiore apporto di carne, fatto

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che permette un salto evolutivo, caratterizzato dall’aumento di volume del cervello. Homo Erectus (da 1,8 milioni a 200 mila anni fa), che è migrato dalle savane verso ambienti misti (terra-acqua), con un nuovo, ancora più marcato, salto del cervello (10001100 cc), e produceva utensili evoluti, bifacciali, a forma di mandorla, utilizzava il fuoco, ha popolato alcuni continenti (Africa, Asia ed Europa), mentre Australia ed Americhe sono rimaste spopolate fino alla comparsa dei Sapiens. Homo Sapiens comparso circa 150 mila anni fa, con una capacità cranica di 1450 cc ed una statura di 170 cm. Il processo evolutivo cerebrale ha compiuto l’ultimo e più importante salto: il numero dei neuroni cerebrali è aumentato fino a circa 14 miliardi, contro i 3 miliardi dello scimpanzé ed i 3,5 miliardi del gorilla (il topo ha solo 30 milioni di neuroni). Il coefficiente volumetrico cellulare, che esprime il rapporto fra la quantità totale della sostanza grigia e la quantità di neuroni, è nell’uomo molto piccolo. Questo significa che, oltre al numero di neuroni, sono aumentate soprattutto la quantità delle ramificazioni dei neuroni corticali e il numero di sinapsi, cioè di legami, che ogni neurone possiede: si ipotizza un milione di miliardi di contatti sinaptici. Le sinapsi sono molto plastiche e continuano a formarsi e rinnovarsi nel corso della vita, migliorando i collegamenti e le associazioni tra i neuroni, permettendo al cervello di funzionare attraverso un costante flusso di ioni e di informazioni elettriche (Crawford MA, 1992). Anche i vasi sanguigni nell’uomo sono più sviluppati e ramificati con un maggiore apporto di ossigeno. Il cervello del Sapiens è più grande, più sviluppato e più associato e permette maggiori possibilità di apprendimento e comunicazione: la sua organizzazione funzionale aumenta il numero di contatti e struttura aree funzionali specifiche e aree associative sempre

più ampie ed efficienti. L’aumento della corteccia cerebrale ha permesso anche una ridondanza funzionale e quindi la possibilità di compensi funzionali molto efficienti (Rossi A, 2003). In definitiva sono enormemente aumentate le potenzialità, la plasticità e l’elasticità funzionale del cervello umano, in grado di essere plasmato attraverso gli stimoli sensoriali, il linguaggio, la gestualità, in una parola l’educazione, ma anche aiutato nello sviluppo da una adeguata e completa alimentazione, come dimostrato da recenti studi, effettuati con nuove metodiche diagnostiche come la tomografia ad emissione di positroni (PET), sui rapporti tra funzionalità cognitiva ed efficienza cerebrale e alimentazione (Small GW, 2006). La carne di animali terrestri e marini ha permesso l’apporto di grassi animali importanti, ma anche di ferro, di zinco, di retinolo, calciferolo, vitamina B12, calcio, fosforo, selenio e aminoacidi essenziali. Il primo ingresso del sapiens in Europa è avvenuto circa 42mila anni fa, proveniente dall’Asia, probabilmente per la via dell’Ucraina; fra i suoi discendenti gli scheletri trovati a Cro Magnon, datati 24mila anni fa. L’Homo Neanderthalensis (300 mila anni fa) viveva già in Europa ed in Asia e poi si è estinto. Gli scheletri di Neanderthal si differenziano da quelli di Sapiens perché il primo ha una struttura ossea più robusta con statura più bassa ed un cranio con arcate sopracciliari più marcate ed un naso più grosso (verosimilmente per riscaldare l’aria molto fredda inspirata), fronte più bassa e sfuggente e contenuto cerebrale minore rispetto al Sapiens. La tecnica di amplificazione genetica PCR (Polimerase Chain Reaction), applicata su uno scheletro fossile, ha permesso di escludere che i Neanderthal siano discendenti dal Sapiens e indicano una separazione tra le due linee evolutive stimata a circa 600mila anni fa (Manzi G, 2006). Secondo Richards M. (rif. da Bignami L,

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Corriere della Sera 27/5/01), che si è basato sul confronto tra le caratteristiche ottenute per mezzo di un’analisi delle proteine delle ossa fossilizzate di Homo sapiens rinvenute nel Regno Unito, Repubblica Ceca e Russia, confrontate con fossili di uomini di Neanderthal, che popolavano sino a circa 35 mila anni fa varie regioni europee, l’Homo sapiens si procurava metà delle proteine da pesci e uccelli acquatici, come le anatre, mentre i Neanderthal si cibavano quasi esclusivamente di erbivori di taglia medio-grande, soprattutto bovini, mammuth, cervi, rinoceronte lanoso. La capacità di nutrirsi anche di pesci e forse di conoscere delle tecniche per la con-

servazione, al fine di costituire riserve alimentari, ha permesso all’Homo sapiens di avere una dieta più differenziata e di sopraffare i Neanderthal, provocandone l’estinzione. La durata dell’infanzia è determinante per lo sviluppo del cervello, sia nelle dimensioni sia nelle capacità. Sulla base di un’analisi delle linee microscopiche, presenti in 350 campioni di denti di 30-50mila anni fa, comparate con quelli di tre attuali popolazioni umane, si è concluso che la durata dell’infanzia dell’uomo di Neanderthal era uguale alla nostra e non inferiore del 15%, come ritenuto precedentemente (Guatelli-Steinberg D, 2005).

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Rivoluzione proteica o prima tappa della storia dell’alimentazione Dio non fa le cose, ma fa in modo che si facciano Teilhard De Chardin

Tutti i reperti fossili confermano che gli ominidi vivevano in Africa, in zone tropicali, in ambienti ricchi di acqua e vegetazione. La loro alimentazione si è progressivamente modificata, integrando i tradizionali cibi vegetali delle scimmie con quelli carnei, inizialmente utilizzando le carcasse (sciacallaggio) di animali morti naturalmente o abbattuti dai grandi carnivori della savana (in particolare le tigri dai denti a sciabola, che per la particolare conformazione dei denti potevano infliggere profonde ferite alle loro prede, ma avevano successivamente grosse difficoltà a spolparle) e, contemporaneamente, consumando cibo animale del terreno, quali vermi, insetti, lumache, rane e uova d’uccelli (la cosiddetta “rivoluzione proteica” o I tappa della storia dell’alimentazione). I predatori cacciavano solitamente al tramonto o di notte, mentre gli ominidi erano diurni e di notte si rifugiavano sugli

alberi. In definitiva gli erbivori (zebre, gnù, ecc.) si avvicinavano attirati dalla vegetazione e dall’acqua, i predatori cacciavano gli erbivori e gli ominidi al risveglio erano i primi a scorgere le carcasse. Gli ominidi avevano grosse difficoltà a incidere la pelle elastica e resistente degli animali perché non possedevano canini, artigli o i rostri degli uccelli, ma impararono presto ad utilizzare pietre taglienti e bastoni, che permettevano di frantumare le ossa per mangiare cervello e midollo e strappare parti consistenti della carcassa per portarle in salvo rapidamente sugli alberi. In epoca molto più recente gli antropoidi si riunirono in gruppi più numerosi per procedere alla caccia grossa e gli animali cacciati furono i grandi mammiferi, tra cui elefanti, rinoceronti, cervidi, felini, orsi e anche mammiferi di taglia inferiore (marmotte, caprioli, camosci, ghiottoni, castori, lepri), come attestano gli affreschi rupestri.

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La capacità di utilizzare la carne nella propria alimentazione stabilì rapporti profondamente nuovi tra gli ominidi e i Primati, consentendo una grande varietà di scelta degli alimenti con un apporto di nutrienti più completo, in modo da superare i momenti difficili (occasionali banchetti intervallati da frequenti digiuni di durata imprevedibile). L’importanza della carne, senza dubbio la più completa fonte proteica, è sottolineata dal fatto che tutte le proteine nelle cellule dei mammiferi e, quindi, dell’uomo sono continuamente degradate e rimpiazzate. La caccia e la raccolta La caccia è un modo di vita, non una mera tecnica di sussistenza William Laughlin Il passaggio dal semplice sciacallaggio alla caccia ebbe probabilmente un periodo intermedio in cui gli ominidi attuarono una strategia per competere e scacciare i predatori dalla preda, contando sul numero, sul lancio di sassi e sulla capacità di infastidire con gesti e urla, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che il linguaggio parlato sia iniziato con queste azioni di disturbo. Un importante passo in avanti nella caccia fu l’uso della pietra, come arma di lancio e offesa, dapprima casuale (ciottoli di fiume), poi sgrezzata ed elaborata, in modo da permettere una più facile caccia all’animale di piccola-media taglia. Pareri discordanti sono stati espressi sull’importanza nell’alimentazione della caccia grossa, che sicuramente è stata praticata, come attestano le pitture rupestri. Secondo alcuni studiosi il ruolo della caccia era addirittura predominante: circa 140.000 anni fa i nostri progenitori africani, che si differenziavano dall’uomo moderno soltanto per lo 0,003% del patrimonio genetico, vivevano soprattutto di battute di caccia ad animali selvatici e la raccolta dei vegetali rimaneva una

fonte energetica complementare ed alternativa nei momenti di difficoltà di reperimento di selvaggina (se gli antropoidi si fossero cibati soltanto di vegetali, avrebbero dovuto consumarne più di 10 kg/die) (Mann FD, 1998). Secondo altri studiosi, invece, esistono troppi elementi contrari: gli antropoidi disponevano di armi assolutamente primordiali, almeno fino alla costruzione di archi e frecce; era inevitabile un rischio elevato nell’affrontare animali di grossa taglia; infine era necessario riunire un numero elevato di antropoidi e quindi indispensabile una cooperazione tra più gruppi. Tutto questo depone contro l’ipotesi che questo tipo di caccia potesse costituire la base dell’alimentazione quotidiana. Risulta più plausibile che la battuta di caccia rappresentasse un avvenimento saltuario con risvolti sociali e culturali e che ribadisse gerarchie interne ed esterne. Una conferma indiretta viene da recenti scoperte archeologiche che hanno dimostrato che proprio il maddaleniano, che conosceva il giavellotto ma non arco e frecce e che ci ha lasciato le più belle pitture rupestri relative alla caccia, era in realtà un grande mangiatore di lumache. Il fatto che la caccia sia stata celebrata e immortalata nelle pitture in grotte nascoste sottolinea la grande importanza attribuita al fenomeno caccia, perché l’uomo ha utilizzato le espressioni artistiche (archi, colonne, statue, pitture, ecc.) per ricordare episodi importanti. La caccia grossa, oltre ad un approvvigionamento spesso imponente di carne (pensiamo ai problemi che comportava conservare le tonnellate di carne di un mammuth), ha permesso, comunque di procurarsi pelli per il vestiario, tendini per gli archi, corde per le trappole, ossa per gli utensili; infine poteva assicurare la cattura di cuccioli di animali, che erano affidati ai bambini perché osservassero ed imparassero il comportamento degli animali da predare. La caccia prevedeva inoltre l’addestramento tramite osservazione, informazione e interpretazione

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dei dati e cioè esplorazione del territorio e conoscenza del comportamento dell’animale, e l’apprendimento delle tecniche per inseguire, immobilizzare e utilizzare le prede; ha favorito la nascita dello spirito di collaborazione tra i membri dello stesso branco, la spartizione volontaria del cibo e la specializzazione nelle funzioni. Al maschio era riservata la caccia, alla femmina lo scuoiamento delle pelli, la parziale raccolta e la cottura del cibo. Tutto questo fu possibile perché l’ominide aveva imparato non solo a memorizzare esseri ed ambienti favorevoli o pericolosi, incontrati sul suo cammino, ma anche a riprodurre mimicamente agli altri membri del suo gruppo tutto ciò che aveva memorizzato. Era, quindi, l’unico animale che riuscisse a trasformare la memoria individuale in patrimonio collettivo, cioè nasceva la cultura, che potrebbe essere definita l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita (Cavalli Sforza LL, 2004). Il grande salto rispetto agli altri animali è stato reso possibile dal linguaggio, cioè dalla sua capacità di combinare in modo infinito dei simboli finiti. Il linguaggio, imparato nei primi tre-quattro anni di vita, è una proprietà veramente unica dell’Homo sapiens, dato che persino il Neanderthal sembra fosse privo di questa capacità o almeno non sapesse usarne allo stesso grado. Le regole di tipo sintattico che determinano l’ordine delle parole sarebbero controllate da una rete neuronale che coinvolgerebbe in modo preferenziale l’area di Broca nell’emisfero sinistro. La struttura del linguaggio non sarebbe lineare e non si organizzerebbe con posizioni fisse di parole, ma con aggregazioni di parole, secondo guide determinate fisiologicamente, che farebbero capo all’area di Broca. Studi effettuati con la risonanza magnetica dimostrerebbero che

tutte le lingue e i dialetti seguirebbero questa impostazione, per cui un insieme di parole, ordinate in modo differente secondo una “grammatica impossibile”, non farebbero più capo all’area di Broca, ma sarebbero deviate all’emisfero destro. Studi recenti avrebbero evidenziato che nel Sapiens entrambe le regioni temporali erano originariamente dedicate all’orientamento ed erano più sviluppate nel maschio per sviluppare una mappa cerebrale precisa dei territori di caccia. Con l’arrivo del linguaggio, l’area temporale sinistra ha assunto mansioni verbali, più sviluppate nelle donne, tanto che solitamente le bambine imparano prima a parlare. Attualmente l’area destra resterebbe fondamentale per orientarsi nei grandi spazi aperti, mentre quella sinistra per permetterci di esprimere la rappresentazione linguistica dello spazio, oltre ad una certa capacità di orientamento nei piccoli spazi chiusi: persone gravemente lese in questa area hanno gravi disturbi della parola e si perdono in casa propria mentre si orientano in una foresta sconosciuta. Accanto agli alimenti ottenuti per mezzo della caccia e della pesca, continuarono ad essere mangiati prodotti vegetali spontanei, soprattutto frutti selvatici, bacche, tuberi, rizomi, bulbi, radici, germogli. Un prodotto particolare, in realtà di origine animale, fu il miele selvatico, come illustrato da una pittura rupestre di Cueva de la Arana (Spagna). Questo stile di vita parassitario, in cui l’antropoide si limitava a sfruttare le risorse presenti nell’ambiente, presupponeva una bassa densità di popolazione: meno di un individuo per km2, con gruppi non superiori a 25 individui. La varietà alimentare rappresentò la principale e decisiva innovazione rispetto agli orientamenti dietetici delle specie più vicine all’uomo nella scala zoologica, cioè le scimmie.

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Le modificazioni corporee

FIGURA 14 Tipologie dei crani (di fronte e di profilo) della specie di Homo diffusesi nel mondo, dall’alto: - Homo erectus evoluto (Arago, Francia, 400.000 anni fa); - Homo sapiens arcaico (Petralona, Grecia, 250.000 anni fa); - Homo neanderthalensis (La Ferrassie, Francia, 50.000 anni fa); - Homo sapiens (Cro-Magnon, Francia, 28.000 anni fa). La disposizione non implica relazioni filogenetiche e segue solamente criteri temporali dal più antico reperto (in alto) al più recente (in basso)

Le innovazioni nutritive hanno favorito negli ominidi alcuni importanti cambiamenti, indispensabili per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita. La prima, grande modificazione è stata l’aumento della capacità cranica con una corteccia cerebrale composta da 14 miliardi di neuroni contro i 3,5-3 miliardi del gorilla e dello scimpanzé (Rossi A, 2003). Questo aumento si è realizzato anche per il miglioramento della qualità del cibo, perché la carne ha aiutato a sviluppare un grande cervello (il cervello è ricchissimo di AG polinsaturi omega 3 e di colesterolo), ed è stato accompagnato dalla riduzione delle necessità olfattive e dal decremento del prognatismo facciale. La conseguenza anatomica è stata la modificazione dei denti canini, che hanno ridotto la loro sporgenza, con accorciamento delle mascelle, mentre nei Primati i canini rappresentano fondamentalmente dei segnali di minaccia. I molari rimangono molto sviluppati per la necessità di una prolungata masticazione del cibo crudo e sono scomparsi gli spazi interdentali (nel gorilla i canini sono separati dagli incisivi per alloggiare i canini dell’arcata opposta) (Fig. 15). Il foro occipitale del cranio è situato in basso, in modo che il cranio poggi sulla colonna vertebrale. Il grande aumento della capacità cerebrale nell’uomo è stato permesso anche dal fatto che la testa in un bipede è allineata con il baricentro del corpo, mentre in un quadrupede è fuori asse e pende in avanti, sostenuta soltanto dai muscoli del collo (Figg. 14, 16). L’altra grande modificazione è stata la trasformazione in bipedi o bipedismo (deambulazione in posizione eretta), con la colonna vertebrale sagomata a S. L’anatomia dei piedi è profondamente cambiata con l’alluce perfettamente allineato alle altre dita, in modo da dare maggiore stabilità al cammino. Nonostante questo, la posizione eretta è rimasta

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FIGURA 15 Confronto tra l’arcata dentaria dell’uomo (sopra) e del gorilla (sotto). Si nota la grande differenza del canino

sostanzialmente poco stabile, come è dimostrato dal fatto che lo stare diritti in piedi (sull’attenti) costringe a fare un considerevole sforzo coinvolgendo anche i muscoli della schiena, rimanendo comunque molto instabili. La nostra camminata è caratterizzata da un movimento a pendolo, cioè dallo spostare un arto in avanti verso quello controlaterale, sostanzialmente per evitare la caduta in avanti, per cui in definitiva possiamo definirci dei bipedi barcollanti. Gli arti inferiori si sono accresciuti, invertendo il rapporto di forza rispetto a quelli superiori, tipico dei Primati. La corsa inoltre è stata favorita dalla perdita del pelo (“la scimmia nuda” di D. Morris), che ha consentito una migliore termodispersione del calore. Il camminare ha esposto i piedi ad una serie di aggressioni (pietre aguzze, fango, insetti, ecc.) (Fig. 16). Una delle prime preoccupazioni fu di proteggerli mediante scarpe rudimentali, inizialmente paglia o foglie e successivamente suole di cuoio ovale con una

rete di corde vegetali, imbottita di fieno, come dimostrano reperti di 9mila anni fa in California e dell’Uomo di Similaun in Sud Tirolo (Erik Trinkaus, Washington University di SaintLouis) e quindi veri sandali di cuoio. Dopo di allora le scarpe si sono evolute fino agli stivali di pelle, acquisendo anche funzioni e usi differenti per sesso e per età, per casa e per strada, per tipo di terreno e di lavoro, per il quotidiano e per l’occasione, utilizzando vari materiali, colori e fogge. Il bipedismo ha favorito la liberazione degli arti superiori, che si sono sviluppati, divenendo formidabili strumenti per la presa, in modo da migliorare la raccolta del cibo e l’utilizzo ed il lancio di oggetti, ed anche la trasmissione di informazioni al cervello (sviluppo del senso del tatto); la mano è dotata di un pollice molto più articolabile e completamente opponibile. La rappresentazione della mano (e anche del piede) a livello cerebrale risulta molto più grande delle dimensioni morfologi-

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che effettive (Homunculus) (Fig. 12). Altre condizioni indispensabili alla trasformazione in bipedi (Fig. 16) sono state la rotazione e l’allargamento del bacino, che hanno comportato: 1) il raggiungimento di una verticale che va dai talloni all’estremità cefalica, passando per l’articolazione coxo-femorale ed il rachide a S; 2) la parallela riduzione delle masse muscolari degli arti inferiori ed il maggiore sviluppo dei muscoli glutei, che assicurano una maggiore stabilità; 3) lo spostamento della regione genitale in posizione inferiore nelle donne, in modo che l’uomo si trasformò nell’unica specie, capace di avere rapporti sessuali preferenzialmente in posizione frontale; 4) il formarsi, al momento della nascita, di un canale del parto stretto ed orientato in avanti; 5) il nascondersi alla vista della regione vulvare delle donne, che ha creato una discontinuità con le scimmie, che spesso utilizzano proprio questa regione durante il periodo fertile dell’ovulazione per lanciare segnali visivi ai maschi e stimolare l’accoppiamento. L’ovulazione nascosta Il ciclo femminile è rimasto incredibilmente un mistero anche per la scienza medica fino al 1930 circa. La stessa donna non è consapevole del momento dell’ovulazione e, a complicare le cose, la durata del ciclo mestruale spesso varia da una donna all’altra, e da un ciclo all’altro nella stessa donna. La gravidanza, quindi, è rimasta a lungo un fatto incomprensibile per gli uomini, tanto da fare ipotizzare un intervento divino. Certo l’accoppiamento era evidentemente necessario ed anche piacevole, ma non spiegava perché soltanto alcune volte era seguito da un successo. La “teoria dell’ovulazione nascosta” spiega perché da un lato la donna, a differenza di tutte le altre specie di mammiferi, con l’eccezione forse dei bonobi e dei delfini, doveva essere continuamente recettiva all’accoppiamento e perché

dall’altro lato l’uomo è stato costretto ad accoppiamenti frequenti nella ricerca della procreazione. Il sesso ha stabilito, quindi, rapporti duraturi tra uomo e donna, che, in cambio della disponibilità sessuale, avrebbe ricevuto aiuto per le necessità quotidiane e protezione per i piccoli, creandosi in tal modo le basi della futura famiglia. Gravidanza e parto rappresentavano per la donna, anche se inconsciamente, un momento di eccezionale gravità perché non sapevano se la gravidanza sarebbe iniziata e se sarebbe arrivata a concludersi felicemente, se il neonato sarebbe nato sano e vitale, se la stessa donna sarebbe sopravvissuta (“… lei che affronta i tormenti della morte in ogni vita nascosta nel suo grembo…” R. Kipling - La femmina della specie). Il sesso per i Primati, invece, è limitato al breve periodo dell’ovulazione ed è un lusso pericoloso, perché durante l’accoppiamento sono più facilmente esposti a predatori o rivali, tanto che l’atto sessuale nella maggior parte dei Primati è molto breve: nel gorilla 1 minuto, nei bonobi 15 secondi, nello scimpanzé 7 secondi e soltanto nell’orango arriva a 15 minuti. Rapporti frequenti e monogami hanno obbligato gli esseri umani a stimolare la fantasia per ravvivare l’attrazione sessuale. In definitiva si è passati dal fulmineo accoppiamento dello scimpanzé alla sessualità ed all’erotismo dell’uomo, come dal pasto crudo si è arrivati alla cottura del cibo ed alla gastronomia. Una conferma indiretta ci viene dal fatto che siamo dotati di organi sessuali vistosi, come le mammelle nella donna, che rimangono sempre grandi, indipendentemente dall’allattamento (cfr. le “veneri” preistoriche), a differenza di tutti gli altri mammiferi, e il grande pene dell’uomo, nettamente più sviluppato rispetto ai Primati: nell’uomo mediamente circa 12-13 cm contro 3 cm del gorilla, 4 cm dell’orango, 7-8 cm dello scimpanzé, tanto che gli antropologi parlano di “organi da parata”, analogamente alla coda del pavone o alla cri-

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FIGURA 16 Confronto fra l’apparato muscolo-scheletrico del gorilla (sopra) e dell’uomo (sotto). Il bipedismo dell’uomo si caratterizza soprattutto per la stazione eretta verticale con testa appoggiata sul collo, la rotazione del bacino, l’allungamento degli arti inferiori rispetto a quelli superiori, il rafforzamento dei muscoli glutei e la riduzione dei muscoli di coscia e gambe, il rafforzamento dei muscoli del dorso, la presenza dell’arco plantare

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niera del leone. Un’altra differenza importante è data dal fatto che l’uomo è l’unico mammifero che si apparti per l’accoppiamento (il sesso è un fatto privato), verosimilmente perché esso era diventato un’importante fonte di piacere; la sua visione avrebbe potuto creare tensioni e rivalità nell’ambito del gruppo (l’uomo è sempre stato un animale sociale). Da tutto questo sarebbe originato da un lato il “comune senso del pudore” e dall’altro la notevole frequenza del sesso extraconiugale, da parte maschile per accrescere il numero di figli e da parte femminile per migliorare la “qualità” dei figli, introducendo elementi di varietà genetica (i genetisti considerano l’adulterio un “vantaggio” per la selezione naturale). Anche nell’adulterio il comportamento si differenzia nei due sessi: la donna adultera tende, infatti, ad essere più selettiva degli uomini adulteri (Diamond J, 2006). In definitiva, il sesso ha rappresentato un ulteriore elemento di differenziazione rispetto ai Primati e agli altri mammiferi, con importanti risvolti personali e sociali.

L’enorme aumento dell’encefalo ha verosimilmente comportato la nascita dei bambini in epoca molto immatura, nonostante l’allungamento delle gravidanze, perché il parto in un periodo di sviluppo cerebrale analogo a quello dei Primati avrebbe comportato una pelvi ed un canale del parto irrealisticamente grandi. La particolare immaturità del cervello del neonato ha costretto i genitori a curare a lungo la crescita e l’educazione dei loro figli: l’allattamento si protraeva per 3-4 anni e le cure parentali fino all’adolescenza. Una memoria genetica di questo periodo è la particolare sensibilità delle donne verso i sapori, soprattutto l’amaro, i cui geni sarebbero localizzati nel cromosoma 5, allo scopo di proteggere il feto da quantità anche piccole di sostanze tossiche alimentari, che frequentemente hanno cattivo sapore, mentre la selezione ha favorito gli uomini che si nutrivano di frutta dolce e di vegetali ad elevato valore energetico (frutta secca).

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Addomesticamento del fuoco o seconda tappa della storia dell’alimentazione

Il pieno controllo del fuoco (II tappa della storia dell’alimentazione), avvenuto ad opera dell’Homo Erectus circa 400 mila anni fa, ha rappresentato un enorme passo in avanti perché: a) ha permesso di sterilizzare con la cottura gli alimenti, soprattutto la carne, allungandone anche il tempo di conservazione; b) ha reso più masticabili e digeribili i vegetali (cereali e legumi); c) ha messo a disposizione una potente arma per cacciare e, contemporaneamente, per proteggersi dagli animali selvatici; d) ha permesso la vita in climi più freddi di quelli africani; e) ha combattuto il buio, causa di terrore per il pericolo dei predatori notturni; f ) ha favorito il progresso tecnologico, partendo dal bastone indurito e arrivando alla fusione dei metalli;

g) nel periodo agricolo, infine, il fuoco ha messo in condizione di praticare il disboscamento e la concimazione col sistema del “taglia-brucia”. L’importanza maggiore del fuoco è stata, però, a mio avviso, legata alla possibilità di riunire insieme, attorno ad esso, i membri del gruppo, in modo da favorire la comunicazione tra loro (sviluppo del linguaggio articolato), lo scambio di informazioni e l’acquisizione di nuovi dati, la produzione di nuovi strumenti (i maddaleniani hanno costruito l’ago con la cruna con uno spessore di un decimo di millimetro, il che permetteva loro di cucire vestiario di pelle e di pelliccia, sempre meglio isolanti e pesanti rispetto a quelli dei neanderthaliani). La sacralità del fuoco è verosimilmente legata anche ad un altro aspetto controverso e dibattuto, cioè di permettere l’inalazione attraverso il

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fumo di sostanze con effetti eccitanti. Secondo numerosi antropologi, l’uomo ha, fin dall’antichità, ricercato ed utilizzato sostanze psicoattive, differenti a seconda della distribuzione geografica e l’ambiente: nelle zone agricole si è diffuso l’uso di bevande alcoliche, nel Nord foglie di semi di piante annue (papavero, hashish, tabacco, stramonio) mediante il fumo, al Sud delle zone agricole foglie e frutti stimolanti di arbusti perenni (cola, qat, caffè, te, betel, coca, ecc.) mediante masticazione (Sherrat A, 1995). Erodoto riferisce che gli Sciiti inalavano fumo prodotto da semi di hashish e di altri vegetali gettati su pietre roventi. In area europea era utilizzato papavero da oppio (Goodman J, 1995). Gli sciamani utilizzavano preferibilmente la via inalatoria, che è anche la più rapida ed efficace, essendo la superficie alveolare polmonare molto estesa. L’utilizzo della marijuana a scopi medicali e ricreativi è riportato in diverse epoche storiche ed in differenti culture (Peters H, 1999). La scoperta delle metodiche atte a conservare e ricreare il fuoco, strofinando l’una contro l’altra pietre di selce, fu vissuta dagli uomini quasi come un furto agli Dei di un loro segreto prezioso (mito di Prometeo). Platone nel Protagora fornisce una suggestiva spiegazione a questo mito: dopo avere plasmato gli animali “facendo una mescolanza di terra e di fuoco”, gli dei affidarono al fratello di Prometeo, Epimeteo, il compito di distribuire loro le varie facoltà naturali. Questi assegnò ad alcune specie la forza senza velocità, ad altre la velocità senza forza, ad altre diede le ali, ad altre peli folti e pelli spesse; assegnò differenti cibi (erbe della terra, frutti degli alberi) e concesse ad alcune di predare altre specie animali, stabilendo che i predatori fossero poco prolifici e gli altri molto. Arrivato all’uomo, si accorse di avere esaurito tutte le doti essenziali per la sopravvivenza, “mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme”. Prometeo ebbe pietà e pensò, allora, di offrire all’uomo la sapienza tecnica, attraverso il fuoco e le tecnologie ad esso associate, ed andò

a trafugarlo dalla dimora di Atena ed Efesto. “In tal modo l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita”, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa era in mano a Zeus e Prometeo trovò sbarrate le porte dell’acropoli di Zeus. L’importanza del fuoco era tale da scegliere alcune donne per dare loro l’incarico sacro di conservarlo (ad esempio le Vergini Vestali nell’antica Roma). Da allora il fuoco ha accompagnato sempre l’uomo, tanto che tuttora nei monumenti, sacrari, chiese o cerimonie solenni (ad esempio durante le Olimpiadi) sono accese fiamme perenni. La dieta del Paleolitico Sulla base dei reperti ossei e delle feci fossili (coproliti) e delle ricerche eseguite sugli uomini preistorici, è ipotizzata un’alimentazione mista, comprendente numerosi cibi d’origine vegetale ed animale, che cambiavano in base al territorio e nel corso delle stagioni; recentemente è stato riconosciuto un importante ruolo al pesce. La grande varietà dei cibi è sicuramente molto vantaggiosa, perché permette di sostituire facilmente gli alimenti carenti con altri e poi sfrutta le diverse caratteristiche alimentari per completare l’assunzione dei nutrienti, anche di quelli presenti in piccole quantità. Gli esempi più citati sono la supplementazione di aminoacidi essenziali negli alimenti vegetali (ad esempio tra cereali e legumi) o tra cereali e cibi animali e il ruolo svolto da vitamine (A, B6, C, E) e da alcuni minerali (ferro, zinco, selenio) nelle difese immunitarie contro le infezioni. Un altro aspetto spesso trascurato è rappresentato dal fatto che la varietà permetteva la diluizione delle sostanze tossiche e dannose, che rimaneva bassa in un mondo in cui gli alimenti non erano stati sensibilmente modificati dall’uomo. Sebbene la dieta non fosse universalmente omogenea, essa in media conteneva un’alta quota di proteine, la maggior

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26 24

% CONTENUTO FIBROSO DEI PRINCIPALI CEREALI

22 20

CACCIATORI

Setaria Brassica Amaranthus Chenopodium Rumex Panicum Polygonum Plantago

- RACCOGLITORI

18 16 AGRICOLTURA NEOLITICA

14 Farro piccolo

12

Farro grande

10

6 4

DIFFUSIONE COLTIVI DEL NUOVO MONDO

Miglio Grano Orzo

8

RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Patate - Patate dolci

AFFERMAZIONE COLTIVI DEL NUOVO MONDO

Zea - mais (3,1-4,0) MACINAZIONE CON RULLI DI ACCIAIO

2

Pane di segale (0,5) Pane bianco (0,15-0,24)

106

105

ESTRAZIONE E DEPURAZIONE

104

103

102

10

0

ANNI DA OGGI

FIGURA 17 Apporto di cereali e di fibre (su scala logaritmica), nel corso del tempo, in Europa e Medio Oriente, nella dieta partendo dal cacciatore-raccoglitore ad oggi

parte delle quali da carni rosse con soltanto il 4% di grasso rispetto al 7-19% delle carni attuali. I grassi fornivano il 20-25% dell’intero apporto energetico con un’elevata quota di acidi grassi polinsaturi (28%) ed un rapporto tra polinsaturi e saturi di 1,41, rispetto allo 0,44 presente oggi negli USA (Eaton SB, 1997; Eaton SB, 1985). I carboidrati assicuravano il 50% delle calorie, delle quali il 20-25% derivava da frutta e vegetali crudi con grande apporto di fibre (Fig. 17). Questo tipo di alimentazione è stata per lungo tempo predominante e ha indubbiamente influenzato le caratteristiche

genetiche umane (impronta genetica), indirizzando e condizionando il nostro metabolismo verso questi consumi alimentari. Il confronto tra l’alimentazione del Paleolitico in America e quella attuale evidenzia grandi differenze nell’apporto giornaliero anche di vitamine e minerali: rispettivamente, proteine 33 vs 12-14%; grassi 20-25 vs >30%; grassi saturi 6 vs 14%; folato 300-400 mcg vs 150-200 mcg; vit. B6 3 mg vs 1,5 mg; vit. B12 15 mcg vs 9 mcg; vit. C 600 mg vs 77-109 mg; fibre 100 g vs 10-20 g; sodio 0,7 g vs >6 g (McKully KS, 2001).

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Il fenotipo risparmiatore (thrifty phenotype) Non credo che l’uomo abbia grandi capacità di evolversi. Ha fatto quel che ha potuto, e non è stato granchè. Oscar Wilde

La selezione genetica Durante il processo evolutivo l’alimentazione e l’attività fisica hanno indubbiamente influenzato l’espressione genetica e hanno contribuito a modellare il genoma umano (cfr. Parte Prima). È stato dimostrato che molti nutrienti, come vitamine ed antiossidanti, possono influire sull’attività di specifici geni, con meccanismi diversi, agganciandosi a determinate proteine. Gli acidi grassi omega 3 sopprimono o fanno diminuire l’mRNA di un’interleuchina, che è elevata nell’aterosclerosi, nell’artrite e in altre malattie autoimmuni, mentre gli acidi grassi omega 6 non svolgono questa azione (Simopoulos AP, 2001). Un altro esempio è il rapporto tra i folati e le malattie cardiovascolari: una singola mutazione genica riduce l’attività di un enzima implicato nel metabolismo dei folati (MTHFR), associato con un mode-

rato aumento (20%) dell’omocisteina sierica e con un elevato rischio sia di cardiopatia ischemica sia di trombosi venosa profonda (Wald DS, 2002). Infine è stato recentemente scoperto che il CoQ10 influenza l’espressione dei geni coinvolti in funzioni di segnale a livello di varie tappe del metabolismo (Groneberg DA, 2005). I geni definiscono la predisposizione alle malattie, mentre i fattori ambientali determinano quali individui suscettibili svilupperanno la malattia. Secondo la teoria detta “Common Disease/Common Variant”, la base genetica di determinati comportamenti sarebbe costituita da un numero relativamente limitato di mutazioni a bassa penetranza; ognuna di queste varianti sarebbe abbastanza frequente nella popolazione normale ed il combinarsi di più forme alle eliche “negative” sarebbe la base della suscettibilità ad una condizione patologica. Gli alleli responsabili si sarebbero

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generati prima della dispersione degli uomini e potrebbero essere stati selezionati positivamente in ambiente antico (Cocozza S, 2005). Nell’arco di tempo durato milioni di anni, caratterizzato da frequenti periodi di “digiuno”, intervallati da saltuarie “abbuffate”, gli antropoidi, prima, e l’Homo sapiens, poi, hanno sviluppato una straordinaria capacità di adattamento fisiologico e selezionato molteplici meccanismi genetici indirizzati alla capacità di immagazzinare energia sotto forma di grasso (gene “del risparmio” o “thrifty phenotype”), favorendo la sopravvivenza e l’affermarsi dei soggetti più dotati di questa capacità, in grado quindi di sopportare meglio i periodi di carestia (Hill JO, 2003; Neel JV, 1962). Il gene del risparmio e l’obesità Risulta evidente, quindi, che se cambiano le condizioni socioeconomiche di una popolazione, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, è possibile l’improvvisa esposizione di un corredo genetico predisponente alle malattie croniche. La teoria del gene del risparmio è stata sviluppata sulla base di numerosi studi sulle migrazioni e sull’occidentalizzazione dello stile di vita nei Paesi in via di sviluppo. In Micronesia (isole Nauru) e in Polinesia (Western Samoa) la prevalenza di obesità ha superato l’80% della popolazione in stretto collegamento con il cambiamento dello stile di vita (Seidell JC, 2002). Gli indiani Pima, una tribù originaria del Canada, trasferitesi nel XVIII secolo a Sud, stabilendosi in una regione che successivamente è stata separata dal confine USA-Messico, hanno assistito ad un destino profondamente differente. I Pima residenti in Arizona (USA) hanno da alcuni decenni adottato uno stile di vita simile agli altri statunitensi, caratterizzato dal consumo prevalente di alimenti ad alta densità energetica, ricchi in grassi saturi e zuccheri semplici, e dalla ridotta attività fisica, mentre i loro parenti, residenti in

Messico sulle rive del fiume Maycoba, hanno conservato abitudini tradizionali. Gli ultimi dati rivelano che il 75% dei Pima “statunitensi” è obeso e il 50% diabetico con una prevalenza molto più elevata rispetto ai loro parenti “messicani” ed anche rispetto al resto della popolazione generale statunitense (Fig. 18). In Nigeria i valori medi di BMI (Body Mass Index) per gli uomini e per le donne sono 21,7 e 22,6; i nigeriani trasferiti negli USA hanno valori medi di BMI pari a 27,1 per gli uomini e 30,8 per le donne (Seidell JC, 2002). Similmente negli aborigeni canadesi Oji Cree, residenti nel Sandy Lake Reserve, nel ventennio 1980-2000 si è verificato un aumento di tre volte della patologia coronarica, a seguito del profondo cambiamento dello stile di vita tradizionale. L’esplosione di queste patologie sarebbe verosimilmente legata proprio alla presenza di un’impronta (imprinting) genetica, selezionata nei millenni per le difficili condizioni di vita e svelata recentemente dal rapido e radicale mutamento delle condizioni ambientali. Accanto alle variazioni dietetiche, la sedentarietà ha forse la parte più importante. All’inizio del Novecento il 50% della popolazione degli USA e l’80% di quella italiana lavoravano in agricoltura, mentre oggi le percentuali sono scese al 5%. Il fattore etnico, su base genetica, incide notevolmente (dal 30 al 70%) (Bouchard C, 1988; Rankinen T, 2002; Dove A, 2001) sulla prevalenza di obesità: negli Usa il 22% delle donne di ceppo europeo sono obese contro il 30% delle donne afro-americane e il 34% delle donne messico-americane. Anche l’aspetto sociale riveste grande importanza, perché l’idea che mangiare poco fa bene, può essere compresa soltanto da chi mangia molto: nei Paesi industrializzati sovrappeso ed obesità sono più diffusi tra le classi meno istruite e con minori entrate economiche; in Gran Bretagna l’obesità colpisce il 10,7% delle donne nelle classi sociali più elevate e il 25% in quelle più basse (Seidell JC, 2002). Negli USA

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Indiani Pima

Prevalenza di diabete di Tipo 2 (%) 100 80

Cibi ricchi di grassi animali e glucidi Vita sedentaria

60

Stile di vita tradizionale

40

Dieta povera di grassi animali

20

Attivita fisica 0 20-44

50% effetti da diabete di tipo 2 75% sovrappeso o obesi

45-54

55-64

65-74

Età (anni) Donne Pima

Donne Usa

Uomini Pima

Uomini Usa

Numero esiguo di persone affette da diabete di Tipo 2 o obese

FIGURA 18 Confronto tra lo stile di vita degli Indiani Pima del ramo “statunitense” e di quello “messicano” e relative conseguenze metaboliche: i Pima “statunitensi” sono, in media, nettamente più obesi e più diabetici rispetto ai loro parenti, che vivono in Messico e che hanno conservato abitudini e stili di vita tradizionali, ed anche rispetto al resto della popolazione statunitense

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il fenomeno raggiunge livelli eclatanti: a New York la 96a strada rappresenta l’invisibile barriera di due mondi, con i bianchi che costituiscono l’84% degli abitanti e con soltanto il 6,2% di indigenti nella zona a Sud e con neri e ispanici che rappresentano 88% degli abitanti e con 38% di indigenti nella zona a Nord; a Sud gli obesi hanno una prevalenza del 7% e i diabetici dell’1%, mentre a Nord sono obesi 31% e diabetici 16% degli abitanti (Gaggi M, 2006). L’eccesso di queste patologie negli afro-caraibici non dovrebbe, quindi, essere visto come ereditario ed inevitabile, ma dovrebbe essere trattato come modificabile e prevenibile mediante interventi sullo stile di vita, l’esercizio fisico, l’assunzione di sale e la prevenzione dell’obesità (Kalra L, 2006). La malnutrizione prenatale Una preoccupante ipotesi suggerisce che la malnutrizione prenatale per denutrizione delle madri potrebbe predisporre all’obesità ed a patologie metaboliche. Secondo un rapporto dell’ONU del 1999, ogni anno, 20 milioni di neonati (16% dei nati vivi) sono sottopeso alla nascita e questi bambini, che nascono affamati, possono sfuggire alle malattie della povertà per morire di una malattia dell’abbondanza (Barker DJ, 1998; Barker DJ, 2002; Eriksson JG, 2003; Rosenboom TJ, 2000). Questa ipotesi mette in evidenza l’abilità degli organismi in fase di sviluppo di rispondere ai cambi di condizioni ambientali modificando la taglia del corpo, la struttura ed i processi di controllo omeostatico. Dato che l’embrione ed il feto non possono avvertire direttamente l’ambiente esterno, i meccanismi di trasmissione sono trasmessi dalla madre, via placenta, e comprendono ormoni, come i glucocorticoidi, e gli stessi nutrienti come glucosio ed ossigeno. Le risposte evocate in questo concetto sono parte di uno spettro di risposte predittive adattative (PARs). Se la predizione è corretta, PARs

dovrebbero conferire un vantaggio di maggiore sopravvivenza. Se la predizione è inappropriata, il rischio postnatale di patologie è maggiore. L’esempio più chiaro di risposta di PARs è proprio il fenotipo risparmiatore, basso peso alla nascita con ridotta massa muscolare scheletrica e bassa densità capillare nei muscoli e obesità viscerale e tendenza alla resistenza insulinica. Quando questi individui si ritrovano in un ambiente ipercalorico/ ridotto consumo energetico, è facile che s’instauri l’obesità nell’infanzia-adolescenza. I processi sottostanti PARs forzerebbero il normale contenimento materno della crescita fetale: abitualmente gli alleli materni avrebbero un’azione di contenimento nella curva di crescita fetale, in contrapposizione agli alleli paterni. Il contenimento della crescita interverrebbe sempre nella normale gravidanza, sebbene sia accentuato nelle primipare, nei gemelli e nella gravidanza adolescenziale. L’ipotesi è che tutto questo derivi dalla stazione eretta: una volta adottato il bipedismo, la rotazione del bacino porterebbe ad un contenimento della crescita intrauterina, per evitare rischi di morte della madre, al momento del parto. Una seconda ipotesi è che il contenimento dello sviluppo intrauterino e la PARs preparerebbero alla difficile situazione ambientale del cacciatore-raccoglitore ed indurrebbero un deposito preferenziale di grasso addominale in risposta al pasto. Ricerche su ratti rivelano che una restrizione dietetica durante la gravidanza porta ad un quadro simile all’uomo (ipertensione, disfunzione endoteliale, ridotta tolleranza glucidica), ma anche preferenza per la dieta cosiddetta “caffetteria” (hamburger, patatine fritte, salsine, cole, ecc.), obesità, ridotta attività fisica. In definitiva il grasso addominale, riserva energetica umana, somiglierebbe alla gobba del cammello, piazzata in modo da non impedire il movimento e non interferire con la termoregolazione (Hanson M, 2003).

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La magrezza costituzionale Questione speculare è la magrezza costituzionale o resistenza all’obesità, che può essere definita come il non diventare obesi anche se esposti sperimentalmente a diete ipercaloriche e iperlipidiche (Levin B, 1989). Nessun magro costituzionale diventa obeso neanche in lunghi periodi di osservazione (Nakatsuka H et al, 1989). I fattori chiamati in causa sono molteplici, ma comunque la magrezza non è correlata con l’attività sportiva o il fitness, mentre, al contrario, lo è con il fidgeting (elevata attività fisica involontaria) (Levine JA et al, 2000). Questa, definita anche come “termogenesi non da esercizio fisico” (nonexercise activity thermogenesis, NEAT), esprime tutte quelle attività fisiche, che si praticano nel corso della giornata, come il muoversi continuamente, le contrazioni muscolari spontanee e il mantenere la postura e potrebbe spiegare il non ingrassare di alcuni soggetti, considerato che l’iperalimentazione è compensata dall’aumentato dispendio energetico quotidiano. Altri fattori sono stati considerati: rapporto favorevole massa magra-massa grassa, efficaci processi di saziamento-sazietà (satiation-satiety, la satiation determina la fine del singolo pasto, la satiety regola la frequenza dei pasti), elevato metabolismo basale, ridotta preferenza per cibi ad alta densità energetica. In realtà tutti questi elementi possono a loro volta ricollegarsi ai processi di regolazione dell’apporto calorico a livello mesencefalico-ipotalamico del SNC (cfr. capitolo “I grassi”). Il sale “Il sale della tua alleanza con Dio; con ogni tua offerta dovrai portare sale” Levitico, 2:13 Un altro aspetto dello stile di vita dell’uomo preistorico che ci condiziona ancora oggi è

quello collegato al consumo di cloruro di sodio (il comune sale da cucina). Il sodio è il più importante soluto extracellulare, per cui un suo aumento determina un aumento conseguente dell’acqua trattenuta nell’organismo per mantenere costante la sua concentrazione; abitualmente l’organismo di un uomo medio contiene da 60 a 80 g di sodio. Il sodio, sebbene in percentuali diverse, è contenuto in quasi tutti gli alimenti, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un gusto salato, ed è facilmente assorbito dall’intestino per l’azione contemporanea di sistemi di cotrasporto che coinvolgono altre molecole e per l’azione combinata della sodiopotassio-ATPasi, enzima abbondantemente rappresentato sulle membrane basocellulari degli enterociti. L’escrezione avviene con le feci, il sudore, la saliva, il latte materno e soprattutto le urine. L’eliminazione del sodio con le urine è regolato da un complesso sistema: il sodio è filtrato liberamente dal glomerulo e riassorbito a livello del tubulo; tutto questo regolato dal sistema renina-angiotensina-aldosterone e dal peptide natriuretico atriale. Contribuisce all’osmolarità del plasma e del liquido intracellulare, influenza la pressione arteriosa, forma gradienti elettrochimici a livello delle membrane cellulari. La necessità del foraggiamento costringeva i cacciatori-raccoglitori ad essere grandi camminatori e corridori. Queste elevate prestazioni muscolari sono state favorite dalla perdita del pelo (la “scimmia nuda” di D. Morris), che ha consentito una migliore termodispersione del calore a spese di una maggiore e più diffusa sudorazione rispetto ai Primati e agli altri mammiferi. La conseguente ed inevitabile perdita con il sudore di quantità abbondanti di minerali, in particolare di sodio, hanno selezionato linee genetiche che più erano capaci di “risparmiare” il sodio e hanno spinto l’ominide a ricercare il sale negli alimenti (è evidente la similitudine tra le parole sale e salute). L’appetito per il sodio divenne importante per la

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sopravvivenza. Una traccia genetica è rappresentata dal fatto che il gusto salato è tutt’ora uno dei quattro gusti fondamentali ed è il maggior stimolatore dell’appetito. Tra i mammiferi, gli erbivori posseggono abilità innate e acquisite nel cercare, trovare e ricordare i depositi naturali di sale, come rocce salate, che leccano avidamente; i carnivori si radunavano nei medesimi luoghi per attaccare gli erbivori e gli uomini allevatori si stabilirono vicino ai luoghi graditi alle greggi. Anche nel periodo successivo (uomo agricoltore-allevatore) il lavoro dei campi ha comportato profuse sudorazioni, spingendo le popolazioni non solo a cercare ma anche a “produrre” sale, con la costruzione delle saline, anche per la necessità di conservare gli alimenti. Molte città sorsero vicino a delle saline o miniere di salgemma. Il sale era raccolto tramite evaporazione solare o bollitura: i Maya usavano l’evaporazione 2mila anni fa; i Celti avevano una fiorente industria del sale 3mila anni fa. Il commercio del sale è molto antico: Gerico era un sito di commercio del sale già 10mila anni fa. Le vie del trasporto erano i fiumi ed anche strade costruite appositamente come la via Salaria dei Romani. Gli stati hanno spesso imposto un monopolio del sale, già dimostrato 2mila anni fa in Cina e hanno tratto notevoli fondi da queste gabelle. Nei secoli si sono susseguite rivolte contro le tasse sul sale, di cui la più famosa è quella della marcia del sale di Gandhi, in India, nel 1930. Soltanto da alcuni decenni il sale è disponibile a prezzi irrisori (salario è tuttora il termine per indicare la ricompensa per il lavoro prestato), ed è stato utilizzato dalla ristorazione e dall’industria agro-alimentare, per la preparazione su larga scala di prodotti alimentari “salati”, trascurando altri mezzi, quali erbe e spezie, utilizzati tradizionalmente per insaporire i cibi. Oltre tutto, si manifesta spesso un’assuefazione al sapore salato per cui c’è la tendenza ad aumentare progressivamente le dosi. In realtà oggi c’è un abuso del comune sale

da cucina. In condizioni normali il nostro organismo elimina giornalmente da 0,1 a 0,6 g di sodio ed ogni giorno l’adulto italiano ingerisce in media circa 10 g di sale (cioè 4 g di sodio), quindi molto più (quasi dieci volte) di quello fisiologicamente necessario. Il processo di urbanizzazione porta ad un progressivo abbandono delle abitudini alimentari contadine, caratterizzate da poco sodio e molto potassio, verso diete di tipo industriale con molto sodio e poco potassio. Un consumo eccessivo di sale può favorire l’instaurarsi dell’ipertensione arteriosa, soprattutto nelle persone predisposte (soggetti sale-sensibili), ed elevati apporti di sodio aumentano il rischio per alcune malattie del cuore, dei vasi sanguigni e dei reni, sia attraverso l’aumento della pressione arteriosa sia indipendentemente da questo meccanismo. Un elevato consumo di sodio è inoltre associato ad un rischio più elevato di tumori dello stomaco, a maggiori perdite urinarie di calcio e quindi, probabilmente, ad un maggiore rischio di osteoporosi. All’opposto una carenza prolungata e marcata di sodio può comportare gravi rischi per la salute. D’altronde, ridurre troppo l’apporto di sale può favorire una condizione d’inappetenza, capace di creare un rischio di malnutrizione, ad esempio nel soggetto anziano. Studi recenti hanno confermato che un consumo medio di sale al di sotto di 6 g al giorno, corrispondente ad un’assunzione di circa 2,4 g di sodio, rappresenta un buon compromesso tra il soddisfacimento del gusto e la prevenzione dei rischi legati al sodio. Le fonti di sodio nell’alimentazione sono di varia natura: il sodio contenuto allo stato naturale negli alimenti (acqua, frutta, verdura, carne, ecc.); il sodio contenuto nel sale aggiunto nella cucina casalinga o a tavola; il sodio contenuto nei prodotti trasformati (artigianali e industriali). Tra i prodotti trasformati, anche se la principale fonte di sale nella nostra alimentazione abituale è rappresentata dal pane e dai prodotti da forno (biscotti, crackers, grissi-

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ni, ma anche merendine, cornetti e cereali da prima colazione), perché sono consumati tutti i giorni e in quantità elevate, la quota più “incriminata” è rappresentata dagli insaccati, dai formaggi, dalle conserve di pesce o dalle patatine fritte, che sono consumati in quantità minori ma in assoluto contengono maggiori

quantità di sale. Un’altra importante fonte deriva dai condimenti aggiunti ai piatti, sia direttamente, per esempio con l’aggiunta di sale su una bistecca o sull’insalata, sia, sempre più spesso, a causa del sodio contenuto in salse come la senape o il ketchup o nei dadi per brodo.

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L’uomo preistorico e l’arte: i Maddaleniani Respice finem (rifletti sulla fine) Solone

All’improvviso, circa 30mila anni fa, durante l’ultima glaciazione, sono comparse le prime creazioni artistiche che possiamo dividere in due forme diverse: piccole sculture o incisioni raffiguranti animali o donne e vivaci pitture di animali. Nella prima fase (30-27mila a.C.) si tratta di incisioni schematiche; tra 25 e 18mila a.C. sono comparse figure animali tracciate in modo schematico (la Dama del Corno, riparo di Laussel) e le impronte negative delle mani (grotta di Gargas). Numerosi oggetti in osso del Paleolitico superiore presentano incisioni e serie di tacche, che sono state dapprima interpretate quasi come un registro di caccia, ma che analizzati al microscopio hanno mostrato una singolare complessità. La sequenza coincide con le fasi e con i mesi lunari e rappresentano verosimilmente dei calendari lunari, indispensabili per conoscere il passare delle

stagioni e prevedere il passaggio migratorio delle mandrie di animali selvatici. L’industria litica maddaleniana è assai ricca come lame sottili e ritoccate; sono presenti strumenti in osso di corna di cervidi e più raramente in avorio, spesso decorati di belle incisioni e sculture. Le figure antropomorfe sono rare, mentre i maddaleniani preferivano le riproduzioni d’animali (teste di cavallo del Mas d’Azil, bisonti d’argilla del Tuc d’Audubert, la testa d’orso in pietra d’Isturitz, le due renne d’avorio di Bruniquel, lo stambecco d’avorio del Mas d’Azil). Le “veneri” sono piccole statuette in pietra, osso o avorio, di altezza fino a 2022 cm, rappresentanti figure femminili in posizione eretta; caratteristica comune è l’esagerazione delle zone sessuali, mammelle e bacino. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di amuleti a carattere propiziatorio della procreazione. Esemplare è la venere di Willen-

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La venere di Svignano

Bastone forato del Maddaleniano

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Venere di Lespugue alt. 10-12 cm. 20.000 a.C.

Grotta “Trois Freres”

dorf (23mila a.C., Vienna, Naturhistorisches Museum). Accanto a queste, esistono statuine come la Dama di Brassempouy (23mila a.C., Saint-Germain-en-Laye, Musee des Antiquitees Nationales), che per la precisione dei particolari del viso deve essere considerata un vero ritratto. I maddaleniani hanno utilizzato il colore in caverne e ripari sottoroccia in una area geografica ben delimitata, il Perigord e i Pirenei del Sud-Ovest della Francia e la regione cantabrica nel Nord della Spagna: grotta di Lascaux in Dordogna Francia, 15-14mila a.C., grotta di Niaux, Ariege Francia, 2115mila a.C., riparo di Laussel, Dordogna, Francia, 20mila a.C., grotta di Gargas, Haute-Pyrenees, Francia, grotta di PechMerle, Lot, Francia, grotta di Altamira, Spagna, 13-11 a.C. Appendici di pitture rupestri si ritrovano nel Sahara (Tassili-n-Ajjer), nel

Tibesti (Ciad) ed in alcune località italiane. Le pitture sono monocrome o policrome e rappresentano animali e scene di caccia. Sono raffigurati prevalentemente animali come mammut, bisonti, renne, cavalli, cervidi, che da soli rappresentano la maggioranza delle figure. Le pitture e le incisioni non sono mai state eseguite nelle caverne abitate dall’uomo, ma dentro grotte profondissime, nelle quali non giungeva mai la luce, raggiungibili solo attraverso gallerie strettissime, corridoi impervi, strisciando e sorpassando veri baratri. L’ipotesi più probabile è che fossero dei luoghi sacri, in cui si svolgessero riti propiziatori alla luce di fumose lampade di pietra a scopo propiziatorio per la caccia. Secondo alcune teorie, si tratta di raffigurazioni sotto l’influenza di droghe ad attività psicotropa (in Europa l’Amanita Muscari, in Africa la Cannabis Indica), per cui le pitture sarebbero narrazioni di

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Due pitture parietali della celebre grotta spagnola di Altamira

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Bastone forato del Maddaleniano

viaggi sciamanici nel mondo dello spirito. Altri autori hanno proposto la copiatura delle ombre proiettate sulle pareti rocciose, soprattutto mani, come origine dell’arte rupestre. Nella grotta di Lascaux, lungo 250 metri con un dislivello di 30 metri, strutturata con una serie di gallerie e di ambienti, sono raffigurate bellissime immagini di tori, cavalli, cervi e raramente uomini. I colori adoperati erano il nero per delineare i contorni e ocra, rosso e giallo con varie tonalità per le figure. Le scene mostrano animali feriti ed impressionano per la precisione anatomica, la cura dei dettagli, l’esattezza della prospettiva. Le tecniche differivano, partendo dal semplice uso del dito, di un aculeo o di una punta di legno. I pigmenti usati erano il carbone, la polvere di argilla, coloranti vegetali e minerali con l’uso di materiali come leganti (urina, sangue, grassi animali, latte, succhi di piante). La grotta di Chauvet, dal nome dello scopritore, rappresenta l’ultimo grande ciclo di pitture rupestri, scoperto nella regione del fiume Areche (Francia meridionale). I dipinti, risalenti al 20.000-17.500 a.C., rappresentano varie scene o cicli (dei cavalli, dei leoni), con teste di cavalli, di uri, di leoni, di rinoceronti lanosi, tracciati con la successione di più profili, quasi

Incisioni su osso di età maddaleniana (grotta di La Mairie). Corno di stambecco scolpito

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Dama del Corno (20mila a.C.). Riparo di Laussel, Dordogna, Francia

con l’intenzione di dare una visione spaziale. Con la fine del Paleolitico la civiltà maddaleniana, con le sue bellissime pitture, scompare. Con il Neolitico le espressioni artistiche sono rappresentate da statuette in argilla o pietra o rilievi rappresentanti divinità femminili e maschili a carattere religioso. Tra 5 e 2mila anni a.C. è comparso il Megalitismo, cioè strutture composte da grandi blocchi di pietra: singoli blocchi allungati conficcati nel terreno (menhir), camere composte da due blocchi verticali e un architrave di copertura (dolmen), che a loro volta possono articolarsi in strutture più complesse, di cui l’esempio più noto è Stonehenge. Il significato può essere

Arte Paleolitica “Venere di Willersdorf”. 10.000 a.C.

differente: pratiche religiose, sepolture, osservazioni astrologiche e astronomiche, fino a raggiungere funzioni abitative e di difesa come nei nuraghi sardi. Comunque rimane il mistero su come e perché i maddaleniani raggiunsero così elevati livelli artistici, una meteora che ricorda altri illustri periodi storici di eccezionale fulgore, come Atene classica, Firenze rinascimentale, Parigi ottocentesca. Un altro interessante aspetto della psicologia del maddaleniano è la pietà per i defunti. Le pratiche funerarie, che sono già comparse precedentemente, assumono particolare evoluzione: le sepolture sono curate, i cadaveri

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dipinti in rosso e provvisti di un rudimentale corredo funebre. La preoccupazione di rifornire i defunti di tutto il necessario, per affrontare nel migliore dei modi la vita ultraterrena, dimostra che questi nostri antenati avevano paura della morte, credevano nell’Aldilà e si ponevano

umanamente il problema del senso dell’esistenza: chi siamo, dove andiamo. In definitiva l’uomo è l’unica forma di materia vivente che riesca a concepire il Divino, mentre nessuna specie animale sente l’esigenza di capire le Leggi Fondamentali della Natura.

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