ALIMENTAZIONE E PATOLOGIA ALIMENTARE DARWINIANA
GIOVANNI BALLARINI
Mat tioli 1885
L’alimentazione darwiniana, recuperando la natura biologica dell’alimentazione umana, è il nuovo paradigma necessario per il controllo delle moderne e dilaganti malattie alimentari, che non sono solo dovute agli alimenti, ma anche a come questi sono usati in cucina. Le neo-biotecnologie applicate agli alimenti, prosecuzione delle vetero-biotecnologie iniziate ottomila o forse diecimila anni fa, oggi assumono prospettive nuove. La cucina, strettamente correlata all’agricoltura ed all’allevamento, è qui esaminata nella prospettiva dell’evoluzione culturale, che l’uomo ha sovrapposto all’evoluzione biologica. Mai come oggi è evidente che la cucina rappresenta un punto di raccordo tra biologia e cultura. Un libro anche per chi non sa nulla, o quasi, dei nuovi argomenti d’alimentazione e vuole avere una sintesi.
alimentazione e patologia alimentare darwiniana GIOVANNI BALLARINI
E X P L O R A
M at t i ol i 1 8 8 5
Copia omaggio per i Signori Medici / Vendita vietata Esente da bolla di accompagnamento Art. 4 Comma 6/ DPR627-78
ISBN 88-89397-05-5
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alimentazione e patologia alimentare darwiniana
Mattioli 1885
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Autore: Giovanni Ballarini
isbn 88-89397 - 05 - 5 2006, Mattioli 1885 spa tutti i diritti riservati.
www.mattioli1885.com
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A l i m e n ta z i o n e e p a t o l o g i a a l i m e n ta r e d a r w i n i a n a
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Indice Presentazione Introduzione
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CAPITOLO I Geni, cibo e cucina: noi siamo il nostro passato alimentare. Le basi dell’alimentazione darwiniana
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Antenati La nascita della cucina Tutte le malattie derivano dall’agricoltura? Quale alimentazione umana?
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CAPITOLO II Cibo e nutrizione: argomenti d’alimentazione darwiniana
77
Alimenti animali ed alimentazione darwiniana Carnivorità: necessità biologica e culturale della carne Ittiofagia Lattofagia: dalla naturale lattofobia alla lattofilia culturale Miele: voglia di dolce
78 78 89 94 104
Alimenti vegetali ed alimentazione darwiniana Cereali: alimenti che l’uomo ha adeguato alle sue necessità Leguminose: carne e farmacia dei poveri Ortaggi, piante aromatiche e frutta: necessità nutrizionale umana Fibra alimentare: da inutile a necessaria Bevande acide, infusi e bevande nervine
107 107 113 119 129 133
Attività extranutrizionali degli alimenti e nutrizione darwiniana Attività extranutrizionali e farmacologiche degli alimenti Antibiotici ed ormoni alimentari: realtà antichissime e necessarie Antiossidanti: una preziosa protezione
135 135 143 150
Luci ed ombre degli alimenti in una alimentazione darwiniana Immunità e alimentazione: antiche radici della nutraceutica immunitaria Probiotica, nutraceutica ed alimenti funzionali: antiche radici di una nuova dimensione dell’alimentazione umana Psicodietetica: importanza di nutrire il cervello Antialimenti: una sfida alla nostra alimentazione
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Biotecnologie alimentari, uso degli alimenti e nutrizione darwiniana Enzimi e fermentazioni alimentari: veterobiotecnologie alimentari Grassi: invenzione d’un alimento Bioritmi alimentari: mangiare secondo natura
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CAPITOLO III Cibo e malattie: argomenti di patologia alimentare darwiniana
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Patologia alimentare darwiniana
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Malattie da cibi pericolosi ed alimentazione darwiniana Avversioni alimentari: quando un cibo non piace Intolleranze alimentari: quando si rompe un equilibrio tra geni e cibo Allergie alimentari: conseguenze della scomparsa dei parassiti Celiachia: intolleranza al glutine dei cereali
193 193 196 200 205
Cibo che fa male e patologia alimentare darwiniana Veleni alimentari. Sola dosis facit venenum Micotossine: invenzione agricola di ieri ed oggi Fave e favismo: antico legame tra cibo e malattie Infezioni alimentari: dalle infezioni della caccia a quelle dell’allevamento
209 209 214 218 222
Malattie da cibi buoni ed alimentazione darwiniana Obesità e sovrappeso: una moderna epidemia su di un’ancestrale base genetica Colesterolo: dalla paura alla necessità Ipertensione: sale, un appetitogeno necessario
224 224 230 234
Malattie da assenze nutrizionali e patologia alimentare darwiniana Osteoporosi: calcio e magnesio, grandi minerali necessari per la vita Ferro: una carenza mondiale Oligoelementi alimentari: importanza delle piccole quantità Carenza di fibra alimentare. Malattie del grosso intestino d’origine alimentare: patologie della civiltà Vitamine: carenze provocate dall’uomo Vitamina D: la vitamina che non era una vitamina
240 240 244 248 252 254 259
CAPITOLO IV Il nostro futuro alimentare
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Alimentazione darwiniana: una sfida globale Alimentazione darwiniana: la sfida degli alimenti e delle biotecnologie Alimentazione darwiniana: la sfida di come coltivare ed allevare Alimentazione darwiniana: nuova dimensione dell’antropologia alimentare Educazione alimentare darwiniana: il nuovo paradigma
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La nutrizione darwiniana recupera la natura biologica dell’alimentazione umana ed è il nuovo paradigma per una necessaria rivoluzione alimentare L’alimentazione, intesa nel senso più ampio e nei suoi aspetti positivi di una migliore nutrizione ed in quelli negativi degli incidenti sanitari e delle malattie nutrizionali, ha ampliato ed accentuato il suo ruolo nella nostra vita quotidiana. Se un tempo il problema era quello della fame, oggi, nelle popolazioni che hanno un’ampia disponibilità di cibi, i problemi alimentari non sono scomparsi, anzi paiono aumentati e, in ogni caso, sono cambiati. Dal cibo come salvezza dalla fame, si è passati alla paura del cibo e delle malattie da cibo (foodborne diseases). Gli alimenti e l’alimentazione, per i nuovi sistemi applicati od applicabili alla loro produzione, ad esempio gli ormoni e gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), e gli inquinamenti alimentari, spesso sotto forma di scandali, sempre più spesso occupano le pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Un ampio ventaglio d’argomenti, connessi alla produzione degli alimenti, è oggi un tema quasi fisso di dibattiti socioculturali. Da una parte questo dipende dal ritmo incalzante con cui scoperte ed innovazioni si succedono, e dalla sovrapposizione d’onde di risonanza suscitate dalle notizie. Da un’altra parte, non vi è dubbio, l’alimentazione è molto vicina al nostro io, individuale e sociale. Rovesciando l’aforisma del gastronomo e filosofo Anthèlme BrillatSavarin, secondo il quale “la scoperta di un manicaretto nuovo fa per la felicità del genere umano più che la scoperta di una stella”, oggi l’invenzione di un nuovo cibo fa più paura di una scoperta chimica o fisica. Non dimentichiamo che, in fondo in fondo, tutti noi pensiamo d’essere quel che mangiamo. Quasi nessuno resta indifferente alla notizia che una malattia è stata correlata ad un cibo od al tipo o qualità dell’alimentazione. Anche per questo, quando si annuncia una nuova tecnica per produrre alimenti, si cercano e soprattutto si enfatizzano gli aspetti negativi. Lo scandalismo alimentare non è solo una moda, ma è divenuta una consuetudine. Questo non significa che tutti siano in grado di valutare la notizia e di attribuirle il giusto peso, perché questo richiede la conoscenza di un certo numero di concetti e fatti scientifici. In proposito basta pensare alla paura che ha suscitato e continua a suscitare, il fatto che si possa modificare il patrimonio genetico di un alimento vegetale, anche quando alla pianta non si aggiunge, ma si toglie un gene. Sempre più evidente è l’ignoranza scientifica della nostra società, anche nell’ambito degli alimenti e della nutrizione. 11
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In ogni modo, oggi il cibo è divenuto un problema. Sembra che Anthèlme Brillat-Savarin abbia sbagliato, affermando che “il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di tutti i giorni: può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane per ultimo a consolarci della loro perdita” e che “la tavola è il solo luogo ove non ci si annoia mai durante la prima ora”. Nelle popolazioni dei paesi industrializzati, con la recentemente raggiunta abbondanza alimentare e l’indubbio aumento della sicurezza degli alimenti, le paure e soprattutto le malattie nutrizionali non sono scomparse. In modo quasi paradossale, invece, sembrano essere aumentate. La diminuzione ed il migliore controllo delle malattie infettive e parassitarie, assieme all’allungamento della durata della vita, ha dato spazio a nuove malattie correlate all’alimentazione: obesità, diabete e loro associazione (diabesità), disturbi nel metabolismo dei grassi (ipercolesterolemie ecc.) e patologie correlate (malattie cardiocircolatorie ecc.), malattie degenerative dei diversi organi, soprattutto del cervello e, non da ultimo, neoplasie e tumori. Nuovi e sempre più raffinati metodi diagnostici permettono oggi di scoprire malattie alimentari che un tempo rimanevano nascoste, o più semplicemente erano ignorate. Sotto nuova veste, sono ancora validi i motti “ne uccide più la gola della spada”, “i cuochi danno lavoro ai medici” e soprattutto “quel che non ammazza ingrassa”. A quest’ultimo proposito, se un tempo il cibo ammazzava per la sua cattiva qualità, oggi il cibo sano, che ingrassa, continua ad ammazzare. Appunto perché ingrassa. Com’è avvenuto tutto ciò? Com’è possibile quello che sembra essere un fallimento dell’umanità? A che cosa sono serviti milioni d’anni di selezione naturale della nostra specie e di quelle che ci hanno preceduto? E tutte le culture che hanno preceduto le attuali? È tutta colpa di aver abbandonato tradizioni alimentari? O abbiamo e stiamo sbagliando nell’educazione alimentare? Perché proprio le società che si ritengono più avanzate sono quelle che hanno sviluppato nuovi problemi nutrizionali? Sono ancora valide le pulsioni alimentari e che valore hanno nell’uomo moderno le fami specifiche o queste, da sistemi di controllo e regolazione, sono divenute cause di sregolamenti e malattie? Perché è così difficile mettersi a dieta e soprattutto mantenere la linea? Vi è una predisposizione all’obesità e tutto quanto vi è correlato? Per rispondere, almeno in parte, a questi ed altri interrogativi, è stato scritto questo libro che affronta la questione alimentare umana sotto una nuova prospettiva, quella della genetica umana, nelle sue componenti metaboliche e comportamentali, nel quadro di un’alimentazione darwiniana od evoluzionista. Chi procederà nella lettura, comprenderà meglio il perché del corsivo e potrà approfondire il paradigma dell’alimentazione darwiniana e le sue importanti applicazioni. Il messaggio contenuto nel paradigma dell’alimentazione darwiniana esposto in questo libro è semplice, almeno ad un primo esame. La nostra genetica (geni) si è evoluta in tempi lunghissimi, in buona parte preumani, in relazione ad una disponibilità e qualità d’alimenti (cibo) molto diverse dalle attuali. Con l’invenzione dell’allevamento e dell’agricoltura i cibi sono mutati, ma al tempo stesso sono stati corretti da una tecnica: la cucina. Con l’urbanesimo sono cambiati gli stili di vita. Nel passato vi era una relativa scarsità alimentare ed una vita molto attiva: circa quaranta chilometri di cammino od otto ore d’attività fisica il giorno. Oggi, almeno nei paesi industrializzati, abbiamo ad una quasi illimitata abbondanza alimentare, soprattutto energetica, con una quasi completa immobilità. La nostra genetica, che condiziona anche importanti comportamenti, soprattutto alimentari, non è cambiata. Inoltre la cucina, da sistema di correzione dei cibi 12
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prodotti dall’agricoltura e dall’allevamento e strumento di regolarizzazione dell’alimentazione, è divenuta una nuova causa di malnutrizione e di malattie alimentari. Già nel passato, ma solo per una limitata percentuale di persone delle classi abbienti (dove l’obesità era bellezza e la gotta una nobile malattia) si era rotto il delicato equilibrio tra costituzione genetica (geni), alimenti (cibo), stili di vita e cucina. Oggi il fenomeno è di massa e si sta espandendo a macchia d’olio a tutte le popolazioni dei paesi industrializzati, passando anche a quelli in via di sviluppo, e divenendo un problema sociale. Oggi sappiamo che i geni, che abbiamo ereditato, determinano una corretta alimentazione ed una regolare nutrizione. Un giusto rapporto tra geni, cibo e cucina influenza quindi la nostra salute e può determinare o condizionare malattie nutrizionali e metaboliche. In quest’orientamento è intuibile come la nutrizione darwiniana recupera la natura biologica dell’alimentazione umana ed è il nuovo paradigma per una necessaria rivoluzione alimentare, che deve passare attraverso la cucina. Le malattie e le patologie alimentari del benessere, in particolare obesità e sue conseguenze, malattie degenerative e metaboliche sono oggi in crescita per frequenza e gravità. Non hanno solo una base genetica, fisiopatologica e metabolica, ma anche una base comportamentale complessa. In modo sempre più chiaro, sta emergendo il nuovo capitolo delle patologie alimentari comportamentali, con un’evidente componente genetica. Alle malattie nutrizionali del benessere, s’affiancano le sempre più diffuse nuove carenze nutrizionali, che nei paesi industrializzati minano l’efficienza fisica e psichica delle popolazioni, nella prima ed in particolare nella terza età. Nuove malattie alimentari infettive (foodborne diseases), compaiono con un ritmo accelerato e, negli ultimi cinquant’anni, si sono quintuplicate. Molte patologie nutrizionali sono causate, favorite o in ogni modo correlate a non corretti stili di vita, d’alimentazione e ad un sempre più diffuso cattivo uso dei cibi o malacucina, tutti argomenti sotto l’attenzione dell’antropologia alimentare. Questa disciplina studia gli aspetti sociali dell’alimentazione umana nelle sue diverse sfaccettature e con i suoi complessi rapporti con la società, l’economia e la salute. Il solo aspetto antropologico non si dimostra, tuttavia, sufficiente per comprendere, quindi per controllare, i diffusi e gravi problemi della nutrizione umana. È necessario associare e soprattutto integrare un approccio darwiniano od evoluzionista dell’alimentazione umana, come sopra indicato. In modo molto incisivo, P. Kingsley (2001) ha affermato che “il passato siamo noi”. Secondo l’alimentazione darwiniana, i geni che abbiamo ereditato determinano sia una corretta nutrizione, sia la nostra salute ed indirizzano molti comportamenti che condizionano parte delle malattie che ci affliggono. In ultima analisi, “noi siamo quello che mangiamo e quello che hanno mangiato i nostri più lontani antenati”. Le nuove idee, dell’antropologia alimentare e dell’alimentazione darwiniana, oggi devono essere confrontate con la qualità e l’uso degli alimenti. Con l’agricoltura e l’allevamento, l’uomo ha aumentato la quantità degli alimenti, ma ne ha anche modificato la qualità. Modificazioni erano state apportate dalle vetero-biotecnologie fermentative (yogurt, formaggi, vino, birra, pane ecc.) e dalle altre tecnologie di cucina. Oggi si aggiunge la manipolazione biotecnologica degli alimenti, che suscita paure ed apprensioni, soprattutto perché rappresenta un ignoto che potrebbe aggredirci. Mai come oggi l’alimentazione è, inoltre, campo di disinformazione, apprensioni, paure e speranze. Drammatico è il risultato di un’inchiesta compiuta in Europa nel 2000 e secondo la quale il 35% degli intervistati credeva che nei cibi normali non fossero presenti geni, che invece sarebbero immessi in quelli transgenici. Un tempo vi era la fantasia di diventare forti 13
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come un leone, astuti come una volpe, rapidi come una lepre o resistenti ai veleni come la vipera mangiando le carni di questi animali. Oggi si è sviluppata un’inconscia paura negativa, altrettanto fantastica, che i cibi possano alterare il nostro essere (genetico). Al di fuori di fantasie, le neo-biotecnologie applicate agli alimenti e prosecuzione delle vetero-biotecnologie iniziate ottomila, diecimila anni fa, oggi assumono nuove prospettive, ma devono essere esaminate alla luce delle idee dell’alimentazione darwiniana ed in ambito di una moderna antropologia alimentare. In questo contesto bisogna considerare il nuovo ruolo della cucina. Invenzione peculiare umana e strettamene correlata alle altre invenzioni dell’agricoltura e dell’allevamento, la cucina rappresenta l’indispensabile punto di collegamento tra biologia e cultura ed il necessario punto di raccordo della genetica con una corretta nutrizione umana. Non è infine da trascurare che, in un momento come l’attuale, nel quale la scienza ed in particolare la dottrina dell’evoluzione sono oggetto di contestazione, proprio un’interpretazione scientifica ed evoluzionista dell’alimentazione e delle patologie alimentari sono l’unico paradigma capace d’interpretare la realtà e quindi di guidare uno sviluppo che non tradisca un ineliminabile passato. In questo libro, con un linguaggio facilmente comprensibile, tenendo conto delle più recenti conoscenze scientifiche, anche in merito all’evoluzione della nostra specie e di quelle che l’hanno preceduta, sulla scorta delle nuove idee dell’antropologia alimentare e del paradigma dell’alimentazione darwiniana, si spiega perché ci ammaliamo di cibo, come prevenire le malattie nutrizionali tipiche della nostra società opulenta e consumistica, quali strade percorrere per impedire l’insorgere di nuove malattie nutrizionali e, quindi, quale dovrebbe essere la nostra vera alimentazione. Sono anche affrontati e discussi rischi e vantaggi delle neo-biotecnologie alimentari e come, attraverso queste e con una buona cucina, sia possibile adeguare il cibo ai nostri geni e abitudini alimentari. Per una più facile accessibilità e leggibilità, il libro é diviso in più parti. In una Prima Parte, Geni, cibo e cucina - Noi siamo il nostro passato alimentare - Le basi dell’alimentazione darwiniana, sono considerati i più importanti aspetti dell’alimentazione evoluzionista. Nella Seconda Parte, Argomenti d’Alimentazione Darwiniana, in brevi capitoli sono illustrati, in modo sintetico, i più importanti argomenti alimentari interpretati in base al paradigma dell’evoluzione darwiniana. Nella Terza Parte, Argomenti di Patologia Alimentare Darwiniana, in brevi capitoli ed in base al paradigma dell’evoluzione darwiniana sono considerate le principali patologie e malattie alimentari. Nella Quarta Parte – Il nostro futuro alimentare, sono affrontati i temi dello sviluppo della cucina, dell’antropologia alimentare e dell’educazione alimentare, considerati in chiave evoluzionista. Una completa ed esaustiva interpretazione darwiniana dell’alimentazione umana porterebbe ad un lavoro enorme, con l’intervento di specialisti. In quest’ultima condizione, si sarebbe dovuto tenere conto delle posizioni personali. Un orizzonte che contrasta con gli interessi alimentari immediati del lettore, al quale il libro si rivolge. La mia intenzione è stata di scrivere un libro per chi dei nuovi argomenti d’alimentazione non sa nulla o quasi e che vuole avere una sintesi e, soprattutto, concretezza. Conoscere poco, ma chiaramente, è meglio che non conoscere nulla. È quest’ultima una richiesta di benevolenza per i limiti dell’esposizione? Anche, ma non bisogna dimenticare che se le schematizzazioni possono non essere tutta la verità, sono tuttavia utili, se non necessarie, per comprenderla. 14
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Da dove derivano i “nostri” geni Le più recenti indagini genetiche e soprattutto la determinazione del genoma umano sfatano l’idea di un possesso e di una specificità dei “nostri” geni. Nella quasi totalità li abbiamo ricevuti per “via verticale”, di generazione in generazione, dai nostri, anche più lontani antenati. Nel corso dell’evoluzione biologica abbiamo ottenuto geni anche per via “trasversale”, anche da batteri, attraverso una bioingegneria genetica naturale. Alcuni numeri dimostrano questa duplice eredità. 99,9% – È la percentuale dei geni che sono identici in ogni persona umana presente sulla terra. Una precisa indicazione della recente nascita della specie umana e della sua forte promiscuità. 40.000 – È il massimo numero di geni contenuti in ognuna delle cellule del corpo umano, ma possono essere anche solo 27.000. Fino a poco tempo fa si riteneva fossero 100.000. 40% – Percentuale dei geni che l’uomo condivide con quelli di un nematode (verme). 60% – Percentuale dei geni che l’uomo condivide con il moscerino dell’aceto (Drosophila melanogaster) 90% – Percentuale dei geni che l’uomo condivide con il topo. 98-99% – Percentuale dei geni che l’uomo condivide con lo scimpanzé. La principale differenza genetica consiste nella perdita dei geni che determinano la presenza di taluni zuccheri sulla superficie delle cellule. 223 – Numero dei geni, fino ad oggi identificati, che pare che i nostri antenati abbiano acquisito direttamente dai batteri, attraverso un’ingegneria genetica naturale. 500 – Numero dei geni coinvolti nei processi olfattori che nel corso della loro evoluzione gli ominidi hanno perso, a favore di geni coinvolti in altri sensi (vista ecc.). 33% – Percentuale della sequenza genomica umana fino ad oggi identificata. (Da: Time, 26 febbraio 2001 – International Herald Tribune, 2001; New Scientist, 2001 – Marks J. – Che cosa significa essere scimpanzé al 98 per cento – Feltrinelli, Milano, 2003).
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Capitolo I
Geni, cibo e cucina: noi siamo il nostro passato alimentare. Le basi dell’alimentazione darwiniana
Sottili e complicati rapporti legano il patrimonio genetico umano all’ambiente ed all’alimentazione. L’alimentazione può anche influire sull’evoluzione genetica della specie umana. Prima di addentrarci nella conoscenza dei rapporti tra Geni e Cibo, sono utili alcune considerazioni sui nostri Antenati ed in particolare su quelli della nostra specie. Esaminando la nascita della cucina e dell’agricoltura, è possibile giungere ad alcune conclusioni sui rapporti tra l’Alimentazione, la Genetica e la Cultura Umana, di cui la cucina fa parte. In quest’ambito si può considerare sotto una nuova prospettiva l’alimentazione umana, tra genetica e cultura, e porsi l’interrogativo di quale deve essere.
Antenati
b) attuali stili di vita delle popolazioni umane, soprattutto dei paesi industrializzati; c) condizioni ambientali; d) odierna disponibilità d’alimenti e loro composizione; e) modo di trattamento ed uso dei cibi. Sfortunatamente, molte delle pratiche alimentari e dietetiche dimostrano che vi sono equivoci e fraintendimenti, anche in quella che è considerata o propagandata come alimentazione naturale. Per questo bisogna divulgare i principi ed i concetti della nutrizione darwiniana od evoluzionista, applicandoli alle moderne turbe e malattie nutrizionali, con le proposte di prevenzione e di trattamento. La nutrizione darwiniana correla la biologia e la psicologia umana al passato, alla nostra specie ed al suo processo evolutivo. Allo stesso tempo, la nutrizione evoluzionista considera gli alimenti di cui l’uomo oggi si nutre. Nella nutrizione darwiniana sono raccolti, correlati ed interpretati in chiave evoluzionista concetti quali selezione naturale, selezione artificiale, stra-
Noi siamo quello che mangiarono i nostri antenati, in particolare quelli della nostra specie. Grandi menti hanno plasmato il pensiero dei periodi storici: Socrate, Platone e Aristotele la cultura classica, Cristo la liberazione dai miti e dai dogmi, Lutero e Calvino ispirarono la Riforma, Voltaire e Rousseau l’illuminismo, Galileo Galilei la ricerca scientifica. Da Albert Einstein e da Charles Darwin dipende in larga misura la moderna concezione del mondo fisico e biologico. Nutrizione ed evoluzione La nutrizione darwiniana od evoluzionista ritiene che molte delle attuali malattie nutrizionali e disturbi alimentari, nei loro molteplici aspetti sociali, psicologici e medici, siano correlati ad un’incompatibilità tra: a) biologia umana, sia sotto l’aspetto fisico sia psichico, e quale risultato di un lunghissimo processo evolutivo; 17
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Capitolo I
tegie biologiche, effetti sociali ed ambientali delle attività umane. Una conoscenza della storia naturale della nostra specie è la base fondamentale per un’analisi biologica delle turbe alimentari e nutrizionali, con le loro relative conseguenze.
lo sviluppo della mano ed anche altri importanti fenomeni biologici: complicazioni nella gravidanza e parto, patologie di tipo alimentare e nutrizionale ecc. La posizione eretta e la locomozione bipedale comportano un dispendio energetico superiore a quello dell’uso di quattro arti. Inoltre, la mano “liberata” può utilizzare strumenti e dedicarsi a nuove attività di raccolta ma anche, in prospettiva, di produzione del cibo. Già fin dalle prime fasi dell’ominizzazione inizia un allungamento della gravidanza e dell’allattamento, con un periodo di maturazione biologica e comportamentale del neonato molto importante, con particolari esigenze nutrizionali per la madre, il feto ed il neonato. È forse in questa fase che è iniziata un’altra caratteristica biologica, che oggi troviamo nella femmina della nostra specie, di una fase non riproduttiva (menopausa), con tutte le esigenze e conseguenze nutrizionali. Una fase post-riproduttiva che oggi vediamo allungarsi sempre più. Nei primati e negli ominidi, lo sviluppo cerebrale è avvenuto anche in relazione alla disponibilità dei nutrienti (Rossi e Rossi Prosperi, 2003). In questo processo evolutivo, di cui sono stati indicati solo alcuni dei tratti salienti, s’inserisce lo sviluppo del sistema nervoso centrale, cervello in modo speciale, con le sue necessità nutritive. Senza correre troppo avanti, oggi sappiamo che il più antico genere della famiglia degli ominidi fu l’Australopitechus, diverse specie del quale, sono vissute da circa quattro milioni e mezzo ad un milione d’anni fa, nei territori dell’attuale Africa. Ancora in Africa, da due milioni e mezzo a due milioni d’anni fa, comparve il genere Homo, che sviluppò progressivamente il volume del proprio cervello ed una sempre maggiore dipendenza dalla cultura materiale di sia pur rudimentali, ma importantissimi strumenti. Un genere che circa un milione e mezzo d’anni fa, seguendo soprattutto le coste del mare ed i fiumi, si diffuse nell’attuale Eurasia.
Da dove proviene la nostra biologia La nostra biologia e molti dei nostri comportamenti sono il risultato dell’evoluzione che si è svolta nel corso di moltissimi milioni d’anni, iniziando con le prime forme di vita comparse sulla terra, molte centinaia di milioni d’anni fa. Le caratteristiche che c’identificano come mammiferi, e di cui nessuno può dubitare (ad esempio la riproduzione attraverso la gravidanza, la presenza di ghiandole mammarie e la produzione di latte, il mantenimento d’una temperatura corporea costante, una cute con peli) risalgono a circa 225 milioni d’anni fa. Delle nostre caratteristiche di primati (dita prensili, struttura dell’orecchio medio, adattamento ad una vita arborea) si hanno le prime tracce circa 65 milioni d’anni fa. La selezione indirizzata ad un’elevata acutezza della visione binoculare con gli occhi posti frontalmente, lo sviluppo della mano e del piede, un progressivo aumento del cervello in relazione alle dimensioni del corpo, il lungo periodo di maturazione fetale e soprattutto neonatale, con il correlato aumento della capacità di apprendere, iniziò 40 milioni d’anni fa, con la comparsa dei primati superiori (scimmie e preominidi). Le caratteristiche della famiglia biologica degli ominidi incominciarono a comparire in lontani antenati, circa cinque milioni d’anni fa. Gli Hominidae, ai quali apparteniamo, e com’è abbastanza facilmente documentabile dai reperti fossili, assumono una posizione eretta. La caratteristica di camminare e correre su due gambe è iniziata circa cinque milioni d’anni fa, liberando gli arti anteriori. Conseguenze della stazione eretta sono state 18
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Geni, cibo e cucina
Circa 300.000 anni fa comparve l’Homo sapiens, con grande sviluppo cerebrale, probabilmente con più specie geneticamente distinte, tra le quali hanno avuto un particolare successo quelle identificate come Uomo di Neanderthal (Homo sapiens neaderthalensis) e Uomo di Cro Magnon (Homo sapiens sapiens). Entrambe le specie, molto probabilmente non interfeconde, erano capaci di costruire utensili, d’esprimersi e di parlare, quindi di pensare, sia pure a livelli diversi. L’Uomo di Neanderthal occupò l’Europa ed il Vicino Oriente nel Paleolitico medio, da 300.000 a 35.000 anni fa. Organizzato in piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori era seminomade ed in equilibrio biologico con la selvaggina, di cui prevalentemente si nutriva. Abitava in primitive capanne e grotte, abbandonando i residui della sua vita quotidiana. Usava il fuoco e costruiva strumenti di pietra levigata. Aveva un linguaggio, come dimostrano lo sviluppo cerebrale delle aree di Broca e di Wernicke, il palato concavo e lo sviluppo dell’osso ioide, ed una cultura denominata mounsteriana (da Mounstier, in Dordogna, Francia). Il Neanderthal scomparve circa 35.000 anni fa. L’Uomo di Cro Magnon era presente in Europa fin da 35.000 anni fa e popolò anche l’Australia, l’America e le isole del Pacifico. Era un cacciatore e raccoglitore, ma anche pescatore. Costruiva strumenti di pietra, d’osso e corno. Inumava i morti, spesso assieme ad offerte. Per primo praticò il disegno, l’incisione, la pittura, la scultura e, come vedremo, sviluppò la cucina. Delle due specie, che certamente convissero almeno per un certo periodo negli stessi areali, come l’Europa, solo una, l’uomo di Cro Magnon, al quale dobbiamo le prime manifestazioni pittoriche in caverne o rappresentazioni d’immagini incise su ossa, sviluppò una cultura materiale sempre più raffinata ed elaborata, che gli permise di
diffondersi in ogni parte della terra e, soprattutto di sostituirsi completamente all’altra specie, il Neanderthal. La nostra specie, Homo sapiens sapiens, riferibile al Cro Magnon, sulla faccia della terra ha oggi superato i sei miliardi d’individui. Evoluzione culturale a gran velocità L’Homo sapiens, nonostante i cambiamenti biologici lentissimamente raggiunti, non cambiò sostanzialmente i rapporti che i suoi predecessori avevano instaurato con l’ambiente. Pur migliorando le proprie capacità di caccia e raccolta ed estendendo i territori di vita, da un punto di vista alimentare rimase sempre molto simile ai cacciatori e raccoglitori di centinaia di migliaia d’anni prima. Il suo stile di vita non era molto diverso da quello degli ominidi che l’avevano preceduto. Sulla stessa linea, si ritiene, rimase fermo l’Uomo di Neanderthal, mentre l’altra specie, la nostra o Uomo di Cro Magnon (Homo sapiens sapiens) oltre a sviluppare attività artistiche, fu l’artefice di un grande e sotto un certo aspetto drammatico cambiamento: il passaggio dalla raccolta alla produzione e manipolazione del cibo, con l’invenzione, da 10.000 a 12.000 anni fa, dell’agricoltura, dell’allevamento degli animali e lo sviluppo della cucina. Secondo alcuni ricercatori, l’invenzione fu determinante per il sopravvento del Cro Magnon sul Neanderthal e fu causata dalla progressiva diminuzione della selvaggina, sulla quale, soprattutto il Neanderthal, basava la sua alimentazione. Si calcola che gli individui di questa specie, peraltro di maggior mole del Cro Magnon, avessero un fabbisogno giornaliero di 160 grammi di proteine, in prevalenza d’origine animale, pari a 800 grammi di carne (in gran parte muscolo), oltre ad una certa quota di grasso animale, che corrispondono a circa due chilogrammi, due chilogrammi e mezzo d’animale selvatico per adulto e per giorno. Una necessità che spingeva il Neanderthal anche al cannibali19
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smo, un comportamento oggi accertato. Quando 10.000, 12.000 anni fa, nei territori sud orientali dell’odierna Turchia e poi nella Fertile Mezzaluna, fu inventata l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, l’uomo da nomade dovette trasformarsi in sedentario, costruendo il villaggio e la città, dove raccogliere e conservare gli alimenti, prodotti in brevi periodi dell’anno. Il passaggio fu graduale e non senza contrasti, come dimostra la lunga persistenza della pastorizia, fase di transizione tra una vita migratoria con la caccia degli animali ed una vita sedentaria basata sull’agricoltura, e le lotte tra popoli pastori ed agricoltori per il possesso ed una diversa utilizzazione del territorio. Contrasti che sono stati oggetto anche d’antichi miti e racconti, come quello biblico del pastore Abele e dell’agricoltore e costruttore di città Caino. Mantenendo immutata la sua biologia (genetica), in un brevissimo volgere d’anni (un attimo nell’evoluzione biologica) l’uomo cambiò la sua alimentazione, lo stile e l’ambiente di vita, rompendo antichissimi, ben consolidati e delicati equilibri. Le conseguenze dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’urbanizzazione sono state forti anche sotto il profilo alimentare e nutrizionale, e dovremo esaminarle più avanti, non prima di esserci posti un interrogativo. L’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame operata dalla nostra specie, fu la conseguenza “del caso e della necessità” come vorrebbe la regola biologica, o la conseguenza di una “scelta basata su di una previsione” per ovviare la scarsità del cibo, oppure una scelta di diverso genere, di tipo culturale? In questa scelta vi fu anche la volontà d’evitare il cannibalismo? Molto probabilmente è vera l’ipotesi culturale, come risulta dalle idee che si stanno oggi maturando sull’origine della cucina, ventimila, forse trentamila anni fa, attraverso la ricerca di droghe vegetali psicoattive. In qualunque modo l’agricoltura e l’alleva-
mento siano iniziati, il loro sviluppo ha portato ad una rivoluzione sulla faccia del pianeta terra dove, per la prima volta, una specie non è più succube dell’ambiente, non segue soltanto la regola “del caso e della necessità”, ma attraverso la cultura affronta l’ambiente, anche quello vivente, modificandolo secondo un progetto che guarda al futuro. Senza essere accusati di razzismo, meglio di specismo, si deve riconoscere che, se quanto ora indicato sarà confermato come vero, l’uomo di Neanderthal non era ”uomo”, o per lo meno un uomo completo, come oggi intendiamo e cioè capace di immaginare e quindi dominare il futuro. Il vero, primo ed unico uomo, con tutta la cautela di quest’affermazione, è stato il Cro Magnon, quindi noi. Un’affermazione che non deve essere letta come espressione d’orgoglio. Tutt’altro, ma solo come una grande responsabilità. Qui è necessario rilevare che biologia e cultura hanno tempi d’evoluzione molto differenti. I tempi d’evoluzione biologica si calcolano in migliaia di generazioni (200.000 anni sono circa 6.500-7.000 generazioni umane), mentre quelli dell’evoluzione culturale, in anni. I 10.000 anni che ci separano dall’invenzione dell’agricoltura, allevamento ed inizio dell’urbanizzazione sono, al massimo, 300 generazioni, mentre gli ultimi cento anni d’evoluzione culturale comprendono soltanto tre generazioni. Anzi soltanto due, perché l’allungamento della vita media umana ha ulteriormente rallentato il ritmo dell’evoluzione biologica. Non è improbabile che in un futuro, che è già cominciato, ed in conseguenza dell’allungamento della vita media, vi sarà una generazione e mezza ogni cento anni. Con un’evoluzione biologica che rallenta ed un’evoluzione culturale che accelera ad un ritmo esponenziale, si rompono equilibri, con conseguenze drammatiche, anche e soprattutto nell’alimentazione, nutrizione e patologie correlate. 20
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Qual è la nostra “vera” alimentazione naturale Noi siamo una specie che si è evoluta con un’alimentazione relativamente scarsa di grassi, sufficientemente ricca di proteine in gran parte d’origine animale (insetti – almeno 1286 specie secondo Ponzetta e Paoletti, 1997 - carne magra d’animali d’ogni specie, con sostenuta presenza di pesce), con molta fibra alimentare, insolubile e solubile, derivata da una larga varietà di bacche e con frutta e radici, ricche di principi attivi. Al tipo d’alimentazione ora schematizzato era ed è correlato il nostro organismo. La dentatura è sia da carnivorano (denti incisivi e canini) sia da vegetariano (denti molari). Lo stomaco ed il primo tratto intestinale è adatto ad un’alimentazione carnea e con grassi, mentre il secondo tratto (grosso intestino) è adeguato alla fermentazione della fibra vegetale, soprattutto di quella solubile. La nostra alimentazione era caratterizzata da una grandissima biodiversità alimentare, con abbondanza di composti fitochimici (Phytochemicals Nutrients) o “molecole strategiche”. Queste erano presenti negli alimenti d’origine animale, come i metalli incorporati in molecole organiche e taluni grassi della serie omega-3. Moltissime erano le “molecole strategiche” negli alimenti vegetali: vitamine, antiossidanti, fitormoni, metalli organici ecc. Non bisogna inoltre sottovalutare le necessità nutrizionali che l’uomo ha per il suo cervello che ha una corteccia cerebrale con 14 miliardi di cellule (neuroni), in confronto ai 3,5 – 3 miliardi del gorilla e dello scimpanzè (Rossi e Rossi Prosperi, 2003). I nostri antenati, anche i nostri bisnonni, esercitavano un’elevata attività fisica, dell’ordine di quaranta chilometri il giorno, a passo svelto e con intervalli di piccole corse rapide, o con un lavoro fisico per circa otto ore giornaliere. Il ritmo riproduttivo era basso, ma con un impegno metabolico intenso (gravidanza e soprattutto un lungo allattamento, di circa quattro anni) scandito da un ciclo che, in
I diecimila anni dell’agricoltura ed allevamento, rispetto ai duecentomila dell’Homo sapiens, sono solo il 5%. Se esaminiamo cos’è avvenuto in questi ultimi cento anni, che sono solo lo 0,05% della vita della nostra specie, un’inezia, ci si può rendere conto del sempre più gran divario che si è venuto a creare tra la biologia e la cultura umana! Non bisogna inoltre dimenticare che la biologia dell’Homo sapiens sapiens ha radici molto, ma molto più antiche dei diecimila anni ora considerati. La biologia, inoltre, riguarda il nostro corpo nei suoi aspetti morfologici, fisiologici, metabolici e comportamentali. Si è stimato che l’uomo abbia circa quarantamila geni, gran parte dei quali, se non quasi tutti comuni ad altre specie. La nostra genetica è quindi antica, molto antica e per taluni aspetti attinge all’origine della vita. I nostri geni determinano forme e funzioni dei nostri organi e quindi il tipo e la qualità dell’alimentazione, ma anche i nostri comportamenti, od almeno una parte di questi. Come ha da tempo dimostrato Konrad Lorenz, numerosi comportamenti, anche alimentari, sono ereditati, né più né meno degli organi. La nostra biologia e le pulsioni che sollecitano ed indirizzano i nostri comportamenti, non sono sostanzialmente mutate negli ultimi cinquantamila anni e sono state plasmate per uno stile di vita e soprattutto un’alimentazione che l’uomo ha cambiato in questi ultimi diecimila anni (95% della sua vita come specie) e drammaticamente stravolto in questi ultimi cento anni (0,05% della sua vita come specie). Le conseguenze non potevano essere che gravi, anche se vi è stato un allungamento della durata della vita. Un allungamento della vita che, sotto alcuni aspetti, sta provocando ulteriori, non piccoli problemi. Per meglio inquadrare quanto sarà discusso nei successivi capitoli, è qui opportuna una sintetica puntualizzazione sulla nostra alimentazione “naturale”. 21
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Capitolo I
condizioni normali, era di cinque anni. Un ritmo indubbiamente lento, ma estremamente utile e per questo selezionato dalla biologia e soprattutto dalla cultura. Attraverso il lungo periodo d’allattamento e quindi di stretta convivenza del neonato e del piccolo con la madre, si sviluppa l’eredità culturale, ad iniziare dal linguaggio, che ha decretato il successo della nostra specie. Le nascite si susseguivano circa ogni cinque anni e la donna passava gran parte della sua vita post - puberale allattando. Dopo il parto e per i primi due anni, il bambino era allattato esclusivamente con il latte materno, che continuava a ricevere anche per i successivi due. L’allattamento “continuo”, tra le dodici e le diciotto poppate il giorno, nella donna inibiva l’ovulazione, quindi impediva il sovrapporsi di una nuova gravidanza all’allattamento in corso. Quando l’allattamento era stato completato, nella donna riprendeva l’ovulazione ed iniziava un nuovo ciclo di gravidanza, parto e allattamento. Se vi era la morte precoce del neonato, prima del normale momento di slattamento, la donna diveniva di nuovo fertile e riprendeva il ciclo riproduttivo. La nascita di un bambino inetto, completamente dipendente dalla madre e con un lentissimo accrescimento, era ed è un notevole vantaggio, in quanto nel periodo post - natale permette un forte sviluppo del cervello e, soprattutto, la possibilità di trasmettere un’importante eredità culturale. Tuttavia, vi è la necessità di procurare cibo abbondante per la madre, che allatta e raccoglie cibo per sè ed il piccolo. Diviene quindi necessaria l’opera congiunta del maschio cacciatore, che procura alla madre ed al piccolo la tanto importante carne, pesce e grasso animale. Vi deve quindi essere un elemento di legame tra la femmina ed il maschio e questo è, senza dubbio, il sesso. Di norma gli accoppiamenti fertili avvenivano solo a lunghi intervalli. Per questo, il sistema messo in atto da altre specie, nelle
quali la femmina segnala al maschio il suo stato di fertilità con il calore, non poteva funzionare. Vi è stato, quindi, lo sviluppo d’accoppiamenti sessuali senza che la femmina segnali il suo stato d’ovulazione, con il calore od estro, come avviene nella quasi totalità dei mammiferi. Accoppiamenti senza una precisa finalizzazione riproduttiva e nell’ambito di una famiglia matriarcale sono una novità delle specie umane. Nella vita fertile di una coppia, non necessariamente monogamica, fin dal periodo paleolitico e neolitico si potevano calcolare in non meno d’uno o due accoppiamenti la settimana, quindi da settecento a millecinquecento accoppiamenti ogni cinque anni, il periodo sopra citato per avere un bambino. Attraverso il legame sessuale, svincolato dalla riproduzione, la donna ed indirettamente il bambino, ricevevano dall’uomo cibo. Non è quindi fuori luogo il detto che è stata la donna ad inventare l’amore. La mortalità umana, a tutte le età, era elevata ed aveva il vantaggio di una marcata e costante pressione selettiva, con la sopravvivenza del più adatto, anche sotto il profilo alimentare. I cambiamenti della biologia vegetale ed animale È quasi una moda mettere sotto accusa l’agricoltura intensiva e l’allevamento industriale, come causa di tutti i mali del pianeta e dell’umanità. Accuse in gran parte basate su una scarsa od insufficiente conoscenza della realtà e, soprattutto, del fatto che, in un modo o od in un altro, è necessario nutrire in modo adeguato una popolazione di sei miliardi di persone, in continuo aumento. Oggi però s’incomincia ad indagare se e quali sono i limiti, i rischi od i danni di una nutrizione con alimenti ottenuti da vegetali coltivati o d’animali allevati, indipendentemente dai sistemi. Un interrogativo che riguarda anche le cosiddette produzioni biologiche, ecologiche, naturali o naturistiche e quant’altro di simile. 22
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A questi nuovi aspetti s’interessa il presente libro che non ha finalità scandalistiche o che non mira ad un’irreale ed impossibile eliminazione di una produzione agricola o zootecnica degli alimenti, ma che ha l’obiettivo d’individuare le linee sulle quali farla evolvere, meglio adeguandola alle necessità nutrizionali della nostra specie, con i suoi organi, metabolismi e comportamenti. L’uomo non ha mutato la sua biologia, sia negli aspetti corporali e sia in quelli comportamentali. Con la sua cultura, attraverso l’agricoltura e l’allevamento, l’uomo ha profondamente cambiato i suoi alimenti ed, in particolare, sta riducendo a livelli pericolosi la “biodiversità alimentare” preistorica. Oggi l’uomo, anche il vegetariano, non ha più un’alimentazione naturale, biologicamente intesa. Non sono certamente naturali il grano e tutte le altre graminacee, come i vegetali e le frutta che sono coltivate, anche con metodi biologici. Con l’agricoltura, anche quella tradizionale, l’uomo ha modificato i vegetali coltivati esistenti, tanto da rendere difficile o talvolta impossibile individuare la loro derivazione da specie selvatiche (tipico il caso del mais, di cui s’ipotizza soltanto un’origine dal theosinte). Per non parlare degli oli vegetali, delle farine e degli zuccheri raffinati, dei latticini e di tanti altri alimenti, tutti innaturali da un punto di vista della nostra biologia, quale risulta dalla genetica che abbiamo. In modo analogo, sono divenuti innaturali gli usi di cibi. Ad esempio, l’uomo non era geneticamente adatto ad utilizzare il latte come alimento oltre i primi quattro anni di vita, come dimostra il fatto che una buona parte della popolazione umana non lo tollera, a meno di non modificarlo, come sarà detto in un successivo capitolo. Bisogna quindi ripensare il mito di un ritorno alla natura, qual è oggi presente sulla faccia del pianeta o come sognata dai vegetariani e vegani. I cambiamenti ai quali sopra si è fatto cenno hanno profondi effetti sulla salute nutrizio-
nale. Diversi ricercatori, tra i quali lo svedese Staffan Lindeberg, riferiscono all’alimentazione agricola molte malattie come cardiopatie, arteriosclerosi ed arteriopatie, diabete, osteoporosi, rachitismo, obesità, alle quali dobbiamo aggiungere le carenze di calcio, ferro e di molecole strategiche, causa di deficit mentali giovanili e degenerazioni senili. Possiamo avere una migliore conoscenza di molti problemi nutrizionali umani se si considera che la quasi totalità dell’evoluzione umana si è svolta quando i nostri antenati erano raccoglitori e cacciatori, in equilibrio con l’ambiente. Oggi però non viviamo e non mangiamo più come un raccoglitore ed un cacciatore, che cercavano di depositare l’energia sotto forma di grasso, attraverso processi biologici e comportamentali che miravano ad ottenere un risultato vantaggioso. Oggi depositare grasso è un rischio: obesità, diabete (diabesità) e tutte le patologie più o meno correlate al sovrappeso. Tornare indietro, alle caverne ed alla dieta paleolitica o neolitica? Un’ipotesi chiaramente non realistica, soprattutto per sei e più miliardi di persone. Anche la dieta paleolitica - che a volte è stata evocata – è solo una frazione di vita delle specie che ci hanno preceduto. È certamente meglio conoscere chi siamo o, con più precisione, che cosa ci hanno lasciato i nostri antenati, passandoci i geni che sono divenuti i nostri. Non stupiamoci di quest’affermazione: gli individui passano, le specie evolvono, quelli che restano, pur lentissimamente cambiando o, meglio, in gran parte si ricombinano, sono i geni, che Dawkins ha provocatoriamente definiti “egoisti”. Siamo uomini, in quanto abbiamo ricevuto i geni che erano già presenti nell’Homo sapiens di duecentomila anni fa, e che lui, in grandissima parte, aveva ricevuto dai suoi sempre più lontani antecedenti e che più recentemente ci ha passato, attraverso l’Uomo di Cro Magnon, la nostra specie di Homo sapiens sapiens. Il nostro patrimonio genetico è stato, inoltre, plasmato e selezio23
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Capitolo I
Volume cerebrale e disponibilità di alimenti dall’australopiteco all’Homo sapiens (Rossi, Rossi Prosperi, 2003 – con modifiche) Milioni anni fa
Specie
Volume cerebrale (ml)
Alimentazione
4,3-3,9
Australopitecus amanensis
400
Vegetariana
3,8-2,8
Aus. afarensis
400 - 450
Vegetariana (frugivora)
2,8-2
Aus. africanus
450 - 500
Vegetariana (vegetali fibrosi)
2-,1
Aus. Bosei
500
Vegetariana (vegetali duri, radici)
2,1-1,1
Aus. robustus
500 - 550
1,1-0,900
Homo habilis
700 - 800
Vegetariana (tuberi, proteine animali occasionali) Onnivoro (animali terrestri)
0,9-0,4
Homo erectus
1000 - 1100
Onnivoro (migrazioni, animali marini)
0 (oggi)
Homo sapiens
1300 - 1400
Onnivoro totale
Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quella attuale americana od occidentale (da Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Nutriente
Alimentazione paleolitica
Alimentazione occidentale
3000
2000-2500 (3000)
200-250
100 -200
Meno del 10%
Più del 30-40%
500
Più di 1000
Scarsi o assenti
Abbondanti
Fibra alimentare (grammi giorno)
104
10-20
Ferro (mg giorno)
87,4
10-11
Zinco (mg giorno)
43,4
10-15
Calcio (mg giorno)
1956
750
Sodio (mg giorno)
768
4000
Potassio (mg giorno)
10500
2500
Vitamina A Retinolo equivalente
2870
800-900
Carotene Retinolo equivalente
927
342-429
Vitamina E (mg giorno)
32,8
7-10
Vitamina B 1 (mg giorno)
3,91
1,08-1,75
Vitamina B 2 (mg giorno)
6,49
1,34-2,08
Acido folico
0,357
0,149-0,205
Vitamina C
604
77-109
Energia (Kcal) Proteine (grammi giorno) Grassi (% energia alimentare) Colesterolo (mg giorno) Carboidrati semplici
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Consumo di diversi nutrienti da parte dell’uomo paleolitico ed attuale (da McKully, 2001) Nutriente
Paleolitico
Attuale
33%
12-14%
20-25%
>30%
Grassi saturi (a)
6%
14%
Fibre (grammi giorno)
100
10-20
300-400
150-200
Vitamina B 6 (mg/giorno)
3
1,5
Vitamina B 12 (mcg giorno)
15
9
Acido ascorbico (mg giorno)
600
77-109
Sodio (grammi giorno)
0,7
>6
Proteine animali (a) Grassi (a)
Folato (mcg giorno)
a) Percentuale delle calorie
Alimentazione di popolazioni di cacciatori-raccoglitori, pastori, agricoltori e società industriali – Media maschi e femmine (Da Leonard, 2003) Popolazione
Energia (1)
Cibi animali (2)
CIbi Colesterolo (3) Indice massa vegetali (2) corporea (5)
Cacciatori – Raccoglitori Kung (Botswana) Inuit (Nordamerica)
2100 2350
33 96
67 4
121 141
19 24
Pastori Turkana (Kenya) Evenki (Russia)
1411 2820
80 41
20 59
186 142
18 22
Agricoltori Quechua (Altopiano Perù)
2002
5
95
150
21
Società industriali Stati Uniti d’America
2250
23
77
204
26
1 – Chilocalorie giornaliere 2 – Percentuale energia da alimenti d’origine animale 3 – Percentuale energia da alimenti d’origine vegetale 4 – Colesterolo ematico totale (mg/100 ml) 5 – Indice Massa Corporea (peso in kg / altezza in cm al quadrato) – normale 18,5 – 24,9 = Sovrappeso 25 – 29,9 = Obesità 30 ed oltre
quindi i nostri geni da una parte, e i nuovi alimenti di cui non possiamo più fare a meno dall’altra, è oggi la grande sfida alimentare, che può essere superata soltanto nella prospettiva di una nutrizione evoluzionista.
nato, nel corso di milioni d’anni, almeno fino alle radici dei mammiferi, dall’alimentazione. Per questo noi siamo anche quel che tutti i nostri antenati hanno mangiato. Una Nuova Alleanza tra la nostra biologia, 25
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La nascita della cucina
• Mescolanza d’alimenti differenti ed in particolare di diversa origine: animale e vegetale. • Aggiunta di spezie, condimenti, aromi ecc. • Regole d’uso nello spazio e nel tempo (tradizioni, costumi, divieti ecc.; calendari alimentari stagionali, mensili, giornalieri). Come recentemente hanno affermato Delluc e Roques (1995), non abbiamo conoscenza in epoca preistorica di una cucina, che non fosse soltanto uso del fuoco. D’altra parte la preparazione e cottura degli alimenti ha avuto importanti conseguenze sull’evoluzione e struttura sociale degli ominidi e della nostra specie ( Wrangham e coll., 1999) e sull’evoluzione culturale dell’Homo sapiens sapiens. Quando, perché e come l’uomo ha elaborato una cucina, nei termini che conosciamo? Tutto fa ritenere che la cucina sia stata un’invenzione umana molto recente, esclusiva della nostra specie di Homo sapiens sapiens o Cro Magnon, in stretto collegamento con l’agricoltura e l’allevamento.
Solo l’uomo, più probabilmente la donna, assieme all’agricoltura ed all’allevamento, ha inventato e sviluppato la cucina. Tutto fa ritenere che la cucina, madre di tutte le tecniche, sia stata la conditio sine qua non per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, la creazione di nuovi alimenti ed il successo della nostra specie. Cucina, non solo fuoco Circa mezzo milione d’anni fa, forse ancor prima, anche un milione e quattrocento mila anni fa (Gowlett e coll., 1981), l’Homo erectus ed i suoi antenati conoscevano ed utilizzavano il fuoco, per riscaldarsi, mantenere lontano le fiere e, si ritiene, anche per la cottura di qualche alimento. Il fuoco è essenziale per ogni cucina, anche se, certamente, esiste una “cucina del crudo” che va dal midollo d’ossa lunghe di grossi animali ai crostacei marini, dalle uova a taluni pesci, senza dimenticare un gran numero di vegetali, in particolare erbe e foglie giovani, ma soprattutto frutta. Ancor oggi ostriche, pesci, uova, vegetali e frutta si mangiano crudi. La cucina è altro e ben più dell’uso del fuoco. La cucina fa parte di un complesso sistema, nel quale è compresa una vasta serie d’operazioni che, partendo dalla produzione e conservazione degli alimenti, s’interessa della loro trasformazione, degli accostamenti e accoppiamenti, regole d’uso e quant’altro l’uomo ha inventato prima che il cibo arrivi alla bocca. La preparazione degli alimenti combina azioni comprese nelle seguenti aree. • Procedimenti di conservazione. Quasi inscindibili sono i legami della cucina con essiccazione ed affumicamento, macerazione e fermentazione, salagione degli alimenti. • Cottura e uso del fuoco in diverse forme (azione diretta, indiretta e mediata). • Manipolazione degli alimenti: macinazione, fermentazione ecc.
La madre delle necessità È opinione comune che la necessità sia la madre dell’invenzione. In altre parole, come ha discusso recentemente Diamond (1998), le invenzioni nascerebbero quando vi è un bisogno comune, fortemente sentito, cui la tecnologia esistente non dà risposta o risponde in modo parziale. Quest’opinione si basa su molte osservazioni ed esperienze, soprattutto moderne, ma è tutt’altro che una realtà comune, come dimostra anche la resistenza, persistente e diffusa, che vi è nell’accettare le novità. Che la necessità sia la molla che spinge alla ricerca del nuovo, e quindi porti all’invenzione, è contraddetto da gran parte della storia umana. Che bisogno vi era della stampa a caratteri mobili, dell’automobile e del frigorifero, per fare tre esempi, quando culture e società d’altissimo livello - basta citare la Grecia classica ed il Rinascimento italiano 28
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- si erano sviluppate senza queste invenzioni? (Ovviamente vi fu chi, come Gutemberg, che nel 1445 inventò i caratteri mobili prevedendone un’applicazione pratica e soprattutto per ottenere un vantaggio economico. Questo è il caso di un inventore e soprattutto di un innovatore ben definito, come oggi siamo abituati a vedere.) Gran parte della storia dimostra che, solo dopo che una nuova tecnica è stata inventata, se ne può vedere l’enorme potenziale di sviluppo. Per questo, in una misura certamente provocatoria e da non prendere come un dogma assoluto, Diamond afferma che spesso l’invenzione è la madre delle necessità e non viceversa. Se un tempo non vi era la necessità della stampa, dell’automobile e del frigorifero, chi riuscirebbe oggi a farne a meno? Soprattutto oggi, che siamo entrati in un sistema, nel quale l’asse portante è il cambiamento più che la tradizione. È inoltre molto difficile stabilire chi ha “veramente” inventato questa o quella cosa. Pur non mancando la possibilità d’attribuire a qualche individuo il titolo d’inventore, nella gran parte dei casi la tecnologia progredisce accumulando le esperienze di molti. Gli usi di un’invenzione vengono di solito alla luce in un secondo tempo, perché quasi mai un oggetto s’inventa pensando di soddisfare specifici bisogni. Queste considerazioni sono applicabili soprattutto alle oscure ed incerte vicende delle prime tecnologie (veterotecnologie), di cui la cucina fa parte, anzi n’è quasi certamente la madre o, come s’usa dire, l’incubatrice. Quando gli uomini dell’era glaciale si accorsero che la combustione della sabbia con il calcare lasciava nei loro focolari strani residui, non potevano prevedere la lunga serie di scoperte, spesso fortuite, che attraverso i primi oggetti vetrificati in superficie (circa 6.000 anni fa), i manufatti egiziani e mesopotamici di 4.500 ed il primo vaso in vetro di 3.500 anni fa, avrebbero portato alle prime finestre di vetro dei romani, 1900 anni
fa. E, proseguendo, a tutto il fiorire di tecnologie vetrarie che sono oggi sotto ai nostri occhi. Come indicano le osservazioni delle culture primitive, ancora esistenti fino a metà del secolo scorso, tutte le invenzioni sembrano originare da un lungo processo di tentativi ed errori, senza una precisa finalizzazione iniziale e, quindi, senza un progetto e, soprattutto, in un quadro molto ampio di non specializzazione. Una condizione molto diversa da quella che siamo oggi abituati a considerare (o sognare?). Bisogna ritenere che non una persona, ma più facilmente un piccolo gruppo familiare o tanti piccoli gruppi familiari, “giocavano” attorno alle stesse cose: il fuoco, il cibo e la sua raccolta e quant’altro. Molti, importanti indizi fanno ritenere che attorno al fuoco l’uomo abbia sviluppato molte delle sue peculiarità: dallo stare seduto, allo sviluppo di un linguaggio articolato, dalla produzione di più o meno elaborati strumenti, soprattutto d’abbigliamento, alla cucina in tutte le sue manifestazioni e, come vedremo, ad inalare fumo d’erbe inebrianti. Si può ipotizzare che nel complesso quadro di discorsi e giochi attorno al fuoco, un ruolo preponderante, per quanto riguarda il cibo e quindi lo sviluppo della cucina, sia stato svolto dalla componente femminile. Se così fosse e considerato il ruolo che la cucina ha avuto nel processo di sviluppo umano, è forse vera l’ipotesi che il primo uomo fu una donna. Queste brevi considerazioni sono importanti quando affrontiamo l’origine delle tecniche e, tra queste, della cucina, madre di tutte le tecniche. È nato prima il brodo della pentola Molto probabilmente è stato il brodo a richiedere la costruzione di una pentola, prima di terra cotta e, molto tempo dopo, di metallo. Secondo le attuali conoscenze archeologiche e le osservazioni sulla cucina dei popoli pri29
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mitivi (Perlès, 1987) la cottura d’alcuni alimenti, soprattutto carni, risale alla scoperta ed utilizzazione del fuoco, almeno nel paleolitico inferiore. Le tracce od i resti di supporti di spiedi (certamente sono state utilizzate ossa di mammut) sono più recenti. Fin dall’inizio gli alimenti erano cotti direttamente sulla brace o sulla cenere, oppure arrostiti a contatto di pietre roventi. Qualche indizio testimonia a favore di una cottura a vapore, in piccole fosse dove si alternavano braci, pietre, carni avvolte in foglie. A questo punto siamo già nell’area di manipolazioni abbastanza complesse, che identificano e caratterizzano la cucina, come dimostra, ad esempio, una ricetta mongola che c’è arrivata. Ancora agli inizi del secolo ventesimo i mongoli (Perlès, 1987) usavano cuocere un animale con la pelle dura (capra o marmotta) nel seguente modo. Dopo il taglio del collo, si estraevano i visceri, la carne e le ossa, lasciando intatta la pelle, che era trasformata in un sacco. Questo era riempito con la carne ridotta in piccoli pezzi, eventuali verdure di farcitura e pietre roventi d’adatte dimensioni. Si procedeva alla legatura del sacco e, dopo circa un’ora e mezza, la carne era cotta a puntino. Per mangiare la carne, bastava aprire il sacco. Contrariamente ad un’idea abbastanza diffusa, anche in periodo preistorico era possibile riscaldare alimenti liquidi in assenza di vasellame. Una tecnica molto diffusa, in tutte le culture primitive, era di gettare pietre roventi in un liquido contenuto in un sacco di pelle. È anche provato che si possono far bollire liquidi direttamente sul fuoco, usando recipienti di fibre vegetali, cortecce fresche, canne di bambù, otri di pelle od ottenuti da stomaci e prestomaci animali. Quasi certamente il brodo di carne e di vegetali è stato inizialmente ottenuto senza pentole, che sono state sviluppate in tempi successivi. Le popolazioni nomadi potevano agevolmente usare gli otri, ma non il vasellame impiegato
dalle popolazioni sedentarie e quando è arrivata l’agricoltura. Se abbiamo qualche idea sulle prime tecniche di produzione del brodo, da chi e perché è stato inventato? Non si potrà mai trovare l’inventore del brodo (come dell’acqua calda!). Quest’invenzione ha avuto molti padri o, più probabilmente, molte madri, in tempi e luoghi differenti. È plausibile che il brodo (con la pentola) sia un’invenzione di taglio femminile, come testimonia l’antropologia ed, in una certa misura, la psicanalisi, mentre l’arrosto e lo spiedo hanno forti valenze maschili. Gli inizi del brodo sono incerti e si sono senza dubbio avvantaggiati dei risultati della cottura a vapore, sopra citata, nelle fosse con pietre roventi od in sacchi di pelle. Un’ipotesi accattivante è quella che con la cottura umida si siano volute estrarre dagli alimenti particolari virtù, in una concezione magica della vita, di cui abbiamo le prime prove nelle pitture rupestri e delle caverne, che la nostra specie iniziò a produrre circa 30.000 anni fa. Il brodo, con le sue origini magiche, quasi farmacologiche più che alimentari, è stato molto importante per l’origine della cucina, perché ha spinto all’invenzione ed alla produzione di nuovi contenitori, di terra cotta, ceramica, metallo. Senza pentole la cucina è ben povera. Ma il brodo ha un antenato, il fumo. Il fumo prima del brodo Ogni storia ha la sua preistoria, spesso oscura e di difficile decifrazione. Com’è nata la cucina ed in particolare perché e come, dopo un lunghissimo periodo, forse un milione d’anni, durante il quale l’uomo aveva usato il fuoco, fu inventata una cucina che poi, rapidamente e nel volgere di qualche migliaio d’anni, è arrivata alle altezze della gastronomia? Gli archeologi non danno risposte, mentre gli antropologi avanzano ipotesi, al tempo stesso stimolanti ed inquietanti. Due aggettivi non casuali, dato che la preistoria della cucina sembra trovare luogo nell’uso di 30
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droghe stimolanti ed inebrianti, assunte per inalazione (fumo). Tra gli antropologi si va diffondendo l’idea che le sostanze psicoattive possano essere considerate parte integrante della costituzione d’ogni cultura umana. Sherratt (1995) ritiene che dozzine, forse centinaia, siano le sostanze psicoattive usate dalla comunità umana e che siano fondamentali per il comportamento sociale dell’uomo. Un’ipotesi che trova conferma nella constatazione che anche in talune specie d’animali vi è la ricerca di sostanze inebrianti, secondo il principio che quanto vi è nella specie umana si può trovare, anche a livello di barlume, in specie animali. Significativa è la ricerca della valeriana da parte dei felini o di vegetali fermentati da parte degli erbivori. Secondo la schematizzazione di Sherratt (1995), al centro delle zone continentali del pianeta dove ebbero origine l’agricoltura e la vita urbana, si rileva l’uso di bevande alcoliche ottenute da frutta e cereali. A Nord di tali zone, foglie e semi narcotici di piante annue – papavero, hashish, tabacco, stramonio e altre – sono state invece consumate, solitamente mediante il fumo. Per quanto riguarda l’Eurasia orientale quest’uso è avvenuto nell’ambito della cultura degli sciamani. A Sud delle zone agricole, invece, foglie e frutti stimolanti d’arbusti perenni – cola, qat, caffè, the, betel, coca, picheri ed altri – erano masticati e talvolta inalate, oppure messi in infusione. Masticare e fiutare sembrano essere state le modalità originarie di consumo di vegetali contenenti sostanze psicoattive. In seguito od anche contestualmente, nel corso del milione d’anni durante i quali i nostri antenati impararono ad utilizzare il fuoco, le stesse sostanze psicoattive furono inalate sotto forma di fumo. Come ha fatto notare Von Gernet (1995), bruciare sostanze psicoattive e respirarne i fumi, rispetto all’assunzione per via gastrointestinale, offre vantaggi fisiologici e assume rilevanza simbolica. Le mucose respi-
ratorie e soprattutto i polmoni hanno un’enorme superficie - nell’uomo paragonata a quella di un campo da calcio - che permette un rapidissimo assorbimento d’alcaloidi presenti nel fumo. L’atto di soffiare e di aspirare il fumo è inoltre percepito quale metafora sciamanica del passaggio di un potere spirituale. In era preistorica, come indicano le osservazioni in popolazioni primitive studiate nel secolo XIX e XX, stati di coscienza alterati erano prodotti grazie a diversi mezzi, singoli od associati: prolungato isolamento, danza ritmica, digiuno, ma soprattutto con una modificazione della biochimica organica ottenuta con l’assunzione di sostanze psicoattive. L’assunzione di sostanze psicoattive per inalazione è da considerare un procedimento diffuso, anche se è stato studiato soprattutto nell’area americana, utilizzando testimonianze culturali e botaniche. Su questa linea, antropologi e botanici si rifanno alle migrazioni di gruppi di cacciatori e raccoglitori, con la cultura degli sciamani, che per lo meno 15.000 anni fa migrarono dalla Siberia all’America settentrionale e da qui, nel corso d’alcuni millenni, si diffusero fino alla Terra del Fuoco. Una migrazione relativamente rapida che ha posto il problema della conoscenza, da parte di piccoli gruppi, dei nuovi vegetali che incontravano nel loro migrare. Oggi si ritiene che le popolazioni, spostandosi nel nuovo ecosistema, mantennero le proprie caratteristiche di cacciatori (cibo sicuro), mentre per gli ignoti e pericolosi vegetali di raccolta, utilizzarono la loro predisposizione culturale all’uso di piante psicoattive, saggiandone le loro caratteristiche e potenzialità attraverso il fumo. Spostandosi nel Nuovo Mondo gli uomini non cercarono soltanto cibi per la sussistenza, quali bacche e noci, ma anche prodotti della flora in grado di dare sostegno e sviluppo ai principi fondamentali della cultura degli sciamani. L’esistenza preistorica in Eurasia di una cultura del fumo trova testimonianze antiche, 31
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ad iniziare da quella d’Erodoto (446 circa avanti l’Era Corrente) sull’uso dell’hashish da parte degli Sciiti, che inalavano il fumo prodotto dai semi di canapa (hashish – Cannabis sativa) e d’altri vegetali delle steppe eurasiatiche, gettati su pietre roventi. Una pratica confermata dai ritrovamenti archeologici di piccoli bracieri associati a strutture megalitiche. In area europea sarebbe stato utilizzato anche il papavero da oppio (Papaver somniferum). Goodman e Lovejoy (1995) affermano che gli europei avevano una profonda conoscenza delle piante psicoattive e ne consumavano in misura ben maggiore di quanto siamo portati a credere. Non è tuttavia da sottovalutare che oggi si sta osservando il diffondersi di vegetali comuni che, assunti per via inalatoria, hanno effetti allucinogeni: salvia (Salvia divinorum o salvia dei veggenti), lattuga (L. silvestre) ed altri vegetali sopra citati, assunti per inalazione. L’uso inalatorio del fumo dei vegetali sarebbe stata la prima tappa di un processo che avrebbe portato alla cucina. È attorno al fuoco che le popolazioni preistoriche di cacciatori e raccoglitori, chiacchierando, mangiando carni e semi abbrustoliti ed inalando fumi inebrianti ancor prima di aver inventato l’agricoltura e l’allevamento, diedero inizio ad un tipo di cucina più elaborato, che dobbiamo associare alle cotture umide ed alla possibilità di mescolare i cibi. Riguardo alla cucina, un vecchio aforisma recita che “l’arrosto viene prima del bollito”. Da quanto indicato, l’aforisma dovrebbe essere aggiornato e completato ricordando che, almeno per i vegetali, “il fumo viene prima dell’arrosto e del bollito”. Il fatto che specie vegetali selvatiche con attività psicoattive fossero note prima dell’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, permette d’ipotizzare che una coltivazione orticola sia partita o per lo meno sia stata agevolata dall’interesse per le droghe (Winter, 1991). Un’ipotesi questa molto interessante, in quanto permette di superare una
difficoltà riguardante gli inizi dell’agricoltura. È stato fatto notare, infatti, che le popolazioni di raccoglitori e di cacciatori non avevano bisogno di coltivare ed allevare per sfamarsi e che con uno strumento di selce un uomo poteva raccogliere in un giorno più di quanto gli fosse necessario per vivere. Diverso è stato quando i nostri antenati hanno iniziato la ricerca delle piante con attività psicoattive. Una coltivazione di queste piante, non necessarie alla sopravvivenza, ma particolarmente gradite, avrebbe permesso di mettere a punto le tecniche agricole che, successivamente, sarebbero state applicate anche agli altri vegetali nutrizionali. Se la combustione era il metodo migliore per godere delle piante psicoattive, per quelle nutrizionali fu necessario sviluppare altre tecniche, soprattutto quelle delle fermentazioni e del calore umido, che caratterizzano la cucina. Se le cose andarono come ora indicato, almeno all’inizio della coltivazione dei vegetali non vi fu un progetto nutrizionale, e non si poteva neppure immaginare quanto ne sarebbe derivato, soprattutto in termini di popolazione. Anche se le determinazioni numeriche non sono facili e restano ipotetiche, un milione d’anni prima della nostra era si stima che sulla terra vi fosse una popolazione umana, con una dieta frugivora e carnivorana, di circa mezzo milione d’individui. Alla fine dell’ultima glaciazione, circa nel 10.000 prima dell’Era Corrente, la popolazione umana aveva raggiunto i circa tre milioni d’individui. Nel 3.000 prima dell’E.C., dopo solo settemila anni dalla scoperta dell’agricoltura, la nostra specie sembra avesse raggiunto i 100 milioni di persone. Origine delle bevande fermentate Vino d’uva, vino di riso, idromele e kumis sono bevande alcoliche note fin dall’antichità. L’uva contiene il fruttosio, dall’amido dei cereali si ottiene il maltosio, il miele ha il glucosio ed il latte il lattosio. Da questi zuc32
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cheri, tramite fermentazione, si ottengono bevande inebrianti contenenti alcole (Sherratt, 1995). Non bisogna poi dimenticare da altri vegetali zuccherini, dai datteri alla polpa dell’agave, dal succo d’acero a quello della canna da zucchero, dalla patata al riso ed a diversi tuberi africani e, più vicino a noi, dallo zucchero di barbabietola, è stato prodotto alcole. Non vi è vegetale e frutto (mela, pera, fico, albicocca, ciliegia e via dicendo) ricco di zuccheri, o d’amidi trasformabili in zuccheri, che l’uomo non abbia utilizzato per produrre alcole. Perché vi è stata una ricerca dell’alcole, e come questa abbia influenzato l’invenzione dell’agricoltura e della cucina, sono interrogativi che iniziano ad avere una risposta. La ricerca dell’alcole non è solo umana, come dimostra il gradimento che molti animali erbivori hanno per vegetali spontaneamente fermentati. La ricerca dell’alcole, per le sue attività inebrianti, si collega alla ricerca che l’uomo, e certamente alcuni suoi antenati, facevano di vegetali inalandone i fumi. Non è infine da sottovalutare che con la fermentazione alcolica l’uomo poteva disporre di un inebriante, l’alcole, in ogni stagione dell’anno, facilmente trasportabile, senza limiti di quantità e, con la sua concentrazione (come sarebbe avvenuto in tempi a noi molto vicini) di gran potenza. Quale vegetale fu usato per primo nella produzione d’alcole? Una domanda alla quale è difficile rispondere. È infatti probabile che non vi sia un primo vegetale, ma molti. Si è sostenuto che la prima bevanda fermentata sia stata la birra, anche come iniziale utilizzazione dei cereali. È invece più probabile che questi fossero tostati e soffiati, come l’attuale pop corn, e dopo essere schiacciati o macinati, ridotti in pappa da cuocere sulle pietre roventi. La fermentazione dei cereali, trasformati in birra, era tuttavia nota in Egitto e Mesopotamia dall’età del bronzo, quando già si conosceva il vino di dattero e d’uva. Una bevanda fermentata ottenuta dai
cereali, riportabile alla birra, era conosciuta in Mesopotamia fin dall’età sumerica. E’ improbabile che il miele nell’antichità fosse così abbondante da essere largamente usato per la produzione dell’idromele. Il latte, soprattutto di cavalla, fermentato per ottenere il kumis, aveva un’area molto ristretta e tipica della cultura degli Sciiti. La fermentazione alcolica, nel vecchio mondo, sembra essere partita dall’uso di frutta, prima selvatica e poi coltivata: datteri, uva, fichi. La coltivazione di questi frutti è databile a quattromila prima dell’era corrente, all’inizio dell’era urbana nelle pianure alluvionali della Mesopotamia, con ramificazioni in tutto il Vicino Oriente. Tra le diverse piante, la palma è quella che potrebbe essere stata all’origine delle bevande fermentate, dato che già la sua linfa fermenta naturalmente. L’esperienza maturata con l’uso di frutti soggetti a fermentazione può aver offerto l’incentivo all’avvio della coltivazione d’altri frutti. Certamente le viti erano adatte alla coltivazione delle zone collinose del Mediterraneo e delle fasce costiere dell’Asia Minore, dove probabilmente ebbe inizio la viticoltura. Questo avvenne nel corso del quarto millennio prima della nostra era ed entro il terzo millennio la produzione di vino era ben avviata nell’Egeo. La sperimentazione nei processi di fermentazione ed il trasferimento dei vari lieviti naturali presenti nei frutti selvatici (vino di palma prima e d’uva poi) consentì l’estensione della produzione alcolica ai cereali (birra), al miele (idromele) e forse al latte di giumenta (kumis). Come dimostra il caso dell’uva, coltivata per il principale fine di produrre vino, la ricerca di una sostanza inebriante come l’alcole non è stata senza importanza per il passaggio dalla raccolta dei vegetali all’agricoltura. Le prime cucine Perlès (1987), sulla base di ricerche archeologiche eseguite nella località greca di Franchthi e riguardanti la fine del paleolitico su33
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periore ( Jacobsen, 1976; Hansen, 1978; Payne 1973), ricostruisce un banchetto costituito da sardine alla griglia con erbe profumate, zuppa di mandorle sgusciate aromatizzate con aglio, cervo e cinghiale allo spiedo, focacce d’avena arrostite, lenticchie e veccie, acqua ed una bevanda fermentata a base di bacche di ginepro. Da recenti ricerche di Franco Rollo dell’Università di Camerino, sappiamo invece con certezza il menu degli ultimi due pasti consumati cinquemila anni fa sulle Alpi dal cacciatore e forse sciamano Ötzi, l’uomo di Similaun: carni di cervo rosso e di capra selvatica (capriolo) con contorno od in una zuppa di cereali. Tutto questo ci dice poco di come i cibi fossero preparati. Dalla nostra interminabile preistoria, rileva Bottéro (1987) non ci restano che vestigia materiali: residui alimentari, utensili, focolari, forni, ceramiche, ma nulla che ci precisi in che modo fossero utilizzati. Solo i documenti scritti possono darci l’idea di una cucina. Siccome la comparsa della scrittura è del terzo millennio prima della nostra era, è soltanto a partire da quest’epoca che possiamo conoscere qualche cosa della cucina e da qui tentare di risalire a ritroso per scoprirne le origini. Pare che la cucina più antica del mondo, che noi conosciamo, sia quella mesopotamica, per il semplice fatto che le popolazioni che abitavano tra il Tigri e l’Eufrate, circa nel 3.300 prima della nostra era, inventarono la scrittura. La cucina mesopotamica è sconvolgente, in quanto dimostra un alto grado di maturità ed ha già superato l’incerto confine che la distingue e la separa dalla gastronomia, nella quale gli aspetti edonistici ed artistici sopravanzano quelli strettamente nutrizionali. Questa cucina dimostra un alto grado d’integrazione con l’agricoltura e l’allevamento. Tutto questo ha una sola spiegazione: la prima cucina che conosciamo doveva avere un lungo, lunghissimo passato (Perlès, 2004; Milano, 2004). Nella Mesopotamia di cinquemila e trecento
anni fa, la cucina si basava sui seguenti alimenti: cereali, verdure, frutta (cocco, mele, pere, fichi, melograni, datteri, uva), leguminose (lenticchie, fave ecc.), bulbi e radici, tartufi e funghi, erbe di condimento, carni grasse e di bestiame minuto (maiali, pollame ecc.), uova, cacciagione, pesci di mare e d’acqua dolce, insetti (cavallette), latte e suoi derivati fermentati, burro ed altri grassi animali (strutto) e vegetali (sesamo e ulivo), manne prodotte da alberi vari, miele e sali minerali (Bottéro, 1987). Solo un’agricoltura ed un allevamento ben sviluppati potevano dare una tale varietà d’alimenti. Parimenti, erano già consolidati i sistemi di trasformazione e conservazione degli alimenti tramite fermentazione (formaggi - sembra di oltre venti tipi - birra, vino ecc.), essiccamento (cereali e leguminose, fichi e datteri, carni e pesce), salagione e forse affumicatura (carni e pesce). Probabile l’uso di insaccare la carne nei budelli di cavallo, quindi presenza di salami (Bottéro, 1987). Sviluppate erano le tecniche di cottura a fuoco diretto ed indiretto, come documenta il vasellame di ceramica ed anche di bronzo, ma soprattutto lo studio delle ricette recuperate da Bottéro (1987). Tra queste, di gran lunga predominanti erano quelle dei bolliti, brodi, intingoli, ma non mancavano le ricette di pasta e carni. Milano (2004) riporta anche ricette burlesche, decrittate nella biblioteca di Ninive e risalenti al VII secolo prima dell’Era Corrente. Nell’alimentazione mesopotamica, almeno in quella dei palazzi, e dove si scriveva, la cucina si era già evoluta nella gastronomia. Anche se su quest’argomento sarà necessario tornare più avanti, è qui utile accennare che cucina e gastronomia sono le due principali polarizzazioni dell’alimentazione umana. La cucina è tradizionale, conservativa, popolare e quindi etnica, territoriale, stagionale, naturale e semplice, di taglio femminile e con utilizzo di brodi con lessi e bolliti ed uso della pentola. La gastronomia, invece, è inno34
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Geni, cibo e cucina
vativa, evolutiva, del palazzo, internazionale, che ricerca le primizie, artificiale ed elaborata, di taglio maschile, con uso di spiedo per arrosti, ma soprattutto di tegami per sughi. Il ruolo antropologico della gastronomia non è stato ancora sufficientemente indagato, ma tutto fa ritenere che il passaggio dal cuocere al fare cucina sia dipeso dalla nascita di una nuova dimensione antropologica alimentare.
un’occhiata alle prime e principali aree geografiche di sviluppo dell’agricoltura, è facile costatare che sono le stesse nelle quali vi è stata una cucina importante, con caratteri di gastronomia. Nell’area del Vicino Oriente, della Fertile Mezzaluna e dell’Egitto, accanto alla già citata cucina e gastronomia mesopotamica, bisogna citare la cucina faraonica dell’antico Egitto e poi, nel bacino del Mediterraneo, le cucine della Grecia e di Roma, anche se queste sono da considerare cucine derivate dalle altre precedenti. Anche in queste ultime aree si sono sviluppate gastronomie, con importanti testimonianze letterarie. Altrettanto significativa è stata e rimane la cucina e la gastronomia della Cina, collegata ad un’antica agricoltura, con diffusione a tutta l’area asiatica. Coltura agricola, cultura della cucina e gastronomia sono fenomeni strettamente collegati. La cucina e la gastronomia, che n’è la sublimazione, compare e raggiunge elevati livelli di qualità, quando all’agricoltura ed all’allevamento del bestiame si associano i seguenti elementi, primari e secondari. Particolarmente importante è un più o meno completo abbandono del nomadismo, col passaggio ad una vita sedentaria e costruzione d’insediamenti stabili, anche se, in quest’ultimo caso, rimangono importanti i collegamenti con la pastorizia e la raccolta di frutti spontanei e soprattutto d’animali selvatici (pesci, selvaggina). Per lo sviluppo della cucina è inoltre indispensabile l’invenzione di tecnologie di conservazione degli alimenti, una gestione centralizzata del territorio con sistemi di scambi e di commercio ed, in modo speciale, una produzione agricola diversificata, nella quale sono compresi “pacchetti” di piante agricole, ed in particolare quelli di cereali e leguminose. Sono elementi accessori, ma sempre significativi, una gerarchia sociale sviluppata e l’esistenza di sistemi di comunicazione tramite registrazioni (scrittura).
Quando è stata inventata la cucina Torniamo al quesito di quando è stata inventata la cucina, senza considerare la fase di precucina, costituita dall’uso del fuoco per cuocere la carne ed abbrustolire qualche vegetale per ottenere fumi inebrianti. Limitandoci al caso rappresentativo della cucina mesopotamica, bisogna fare due considerazioni. La prima è l’alto grado di maturità, che testimonia come questa cucina sia nata molto prima del terzo millennio avanti l’era corrente: considerando i plausibili tempi d’evoluzione delle prime tecniche, un tempo da calcolare in millenni. La seconda considerazione, è che la cucina mesopotamica si basa su di una varietà d’alimenti che solo un’agricoltura ed un allevamento sviluppati possono offrire. Collegando le due considerazioni, in modo fondato si può ritenere che la cucina in esame sia nata e si sia sviluppata in stretto contatto con l’agricoltura e l’allevamento, partendo da una radice comune, che può essere riportata a dodicimila e più anni fa. Una data, questa, che giustifica pienamente la presenza, oltre cinquemila anni fa, di una cucina mesopotamica con alto grado di maturità. Allargando l’orizzonte e considerando le diverse cucine elaborate dalle culture umane (senza per ora precisare il ruolo della cucina stessa nello sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento) si conferma l’ipotesi che ogni cucina è sorta e si è ampliata in relazione all’agricoltura ed all’allevamento. A conferma di quest ’ultimo orientamento, se diamo 35
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Capitolo I
Cronologia dell’introduzione di alcuni alimenti in alimentazione umana Anno
Alimenti vegetali
Alimenti animali
1.000.000 avanti l’Era Corrente (E. C.)
Frutta, bacche Vegetali diversi
Termiti ed altri insetti Lumache e crostacei Uova
500.000 a. E. C. 175.000 a. E. C.
Carne, pesce (selvaggi) Cottura a fuoco diretto (carne allo spiedo, grani tostati)
100.000 a. E. C. 30.000 a. E. C.
Carne umana (cannibalismo) Vegetali con attività psicofarmacologiche Inalazione di fumi psicoattivi
9.000 a. E. C.
Carne d’ovini e caprini domestici
8.000 a. E. C.
Frumento monococco (einkorn) Lenticchie
7.000 a. E. C.
Fagioli, noci
6.000 a. E. C.
Cottura con acqua (brodo)
6.000 a. E. C.
Mais, datteri, broccoli
5.500 a. E. C.
Piselli
5.000 a. E. C.
Canna da zucchero, zucca, olio d’oliva
5.000 a. E. C.
Fermentazioni vegetali (vino, birra e pane)
Fermentazioni animali (latti fermentati)
4.000 a. E. C.
Uva e vini, arance, angurie
Formaggi
3.600 a. E. C.
Mais scoppiato (pop corn)
Carne di maiale
Miele selvatico
3.200 a. E. C.
Polli allevati
3.000 a. E. C.
Carote, fave, cipolle Graminacee fermentate, pane lievitato
2.900 a. E. C.
Fichi
2.830 a. E. C.
Soia
2730 a. E. C.
The
2600 a. E. C.
Funghi
2500 a. E. C.
Patate
1600 a. E. C.
Cioccolato
Apicoltura (miele domestico)
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Geni, cibo e cucina
Cronologia delle principali aree agricole e cucine Data piĂš antica (a. E. C.)
Area geografica
Principali vegetali e animali
Grandi Cucine
8.500
Vicino Oriente Fertile Mezzaluna
Farro e altri cereali Pisello e altre leguminose Olivo Pecora e capra
Cucina mesopotamica 3.000 a.C.
7.500 - 7.000
Cina
Riso e miglio Maiale (baco da seta)
Cucina cinese 3.000 a.C.
7.000
Valle dell’Indo Importazione dal vicino oriente
Cereali Animali avicoli Piccoli ruminanti Grandi ruminanti
Cucina indiana 3.000 a.C.
6.000
Egitto Cereali (importazione dal Vicino Asino Oriente)
Cucina egizia 3.000 a.C.
6.000 - 3500
Europa occidentale Farro e altri cereali (importazione dal Vicino Leguminose Oriente) Olivo Piccoli ruminanti Maiale
Cucina greca Cucina romana Cucine mediterranee
5.500 - 5.000
Iran o Caucaso Sahel (?) Etiopia (?)
Vite (vino) Sorgo e riso africano Gallina di faraone
4.000 - 3500
Mesoamerica
Mais, fagioli e zucca Tacchino
4.000 - 3500
Ande e Amazzonia
Patate e manioca Lama e cavia
Principali elementi di collegamento tra agricoltura e cucina A) Elementi primari Vita prevalentemente sedentaria e costruzione d’insediamenti stabili Invenzione e sviluppo di tecnologie di conservazione degli alimenti Gestione centralizzata del territorio Sviluppo di sistemi di scambi e di commercio Produzione agricola diversificata B) Elementi accessori Gerarchia sociale sviluppata Sistemi di comunicazione tramite registrazioni (scrittura)
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Capitolo I
Il cacciatore e raccoglitore abbrustolisce e cuoce, l’agricoltore fermenta e cucina Il riconoscimento dei fattori che hanno accompagnato la nascita e sviluppo della cucina, indicando uno stretto rapporto tra questa e l’agricoltura, non fornisce una precisa indicazione perché questo sia avvenuto, dato per scontato che sia possibile averne una precisa conoscenza. La comparsa della cucina ed il suo relativamente rapido sviluppo (in Mesopotamia, tra l’invenzione dell’agricoltura ed il costituirsi di una cucina matura passano solo alcuni millenni) sono avvenuti almeno dopo 25.000 anni da che la nostra specie, l’uomo di Cro Magnon, era rimasta sola, dopo l’estinzione dell’uomo di Neanderthal. Senza contare il lunghissimo periodo precedente, per la nostra specie, la caccia, la raccolta del cibo ed il fuoco, si erano dimostrati più che sufficienti non solo per sopravvivere, ma anche per una sua diffusione sul pianeta. Anche i risultati delle indagini sulle ossa degli uomini cacciatori e raccoglitori non segnalano sistematici e prolungati periodi di carestia. Perché, più o meno improvvisamente, secondo i tempi biologici, la nostra specie ha inventato l’agricoltura ed ha sviluppato l’allevamento? Molto si è indagato e discusso in proposito, come a livello di buona divulgazione anche recentemente ha riferito Diamond (1998). Sono state anche individuate le condizioni che hanno portato all’innovazione agricola. In modo analogo, sono state studiate le conseguenze dell’agricoltura e dell’allevamento su tutti, o quasi, gli aspetti dello sviluppo delle culture umane. Molti aspetti sono stati esaminati, ma non quello della cucina e, di conseguenza, della gastronomia. In particolare non si è studiato quale ruolo abbia avuto la cucina sull’invenzione agricola. L’idea prevalente e diffusa, tanto ovvia da non essere stata, molte volte, neppure discussa, è che una volta inventata e sviluppata la produzione agricola, la cucina sia stata solo una conseguenza.
Senza escludere che l’uomo abbia potuto apprezzare alimenti vegetali abbrustoliti o mescolati a carni selvatiche sottoposte al calore, come nel caso della sopra menzionata cucina mongola, e l’uso dei fumi psicoattivi ottenuti dai vegetali, l’interpretazione di una cucina conseguenza dell’agricoltura è l’unica possibile e, soprattutto, è corretta? Una domanda alla quale bisogna rispondere, considerando, in chiave evoluzionista, i numerosi problemi alimentari e sanitari provocati dagli alimenti agricoli, esaminati nella terza parte di questo libro. Valutando ora in una prospettiva evoluzionista la nascita della cucina, in rapporto all’agricoltura ed all’allevamento, il quadro cambia in modo sostanziale. Pur non sottovalutando il ruolo d’eventi casuali, un esame dettagliato ed approfondito dei rapporti tra agricoltura e cucina induce ad assegnare alla cucina un ruolo non secondario o successivo all’agricoltura, ma, all’opposto, un ruolo trainante. In modo simile a quanto indica l’esempio del brodo nato prima della pentola o suggerisce il ruolo dell’inalazione di fumi psicoattivi ottenuti da vegetali o la fermentazione di cibi zuccherini per la produzione d’alcole, tutto fa ritenere che sia stata la cucina a trainare, o per lo meno a favorire in modo decisivo lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento. Rimandando alla seconda parte per molti alimenti, qui bisogna fare alcune puntualizzazioni. Non si può ragionevolmente pensare ad uno sviluppo della cerealicoltura, senza un collegato utilizzo delle granaglie, tramite procedimenti tecnologici abbastanza ricercati: conservazione tramite l’essiccamento o l’uso di fosse od altri contenitori privi d’ossigeno; produzione di bevande fermentate (birra, che nell’antico egiziano aveva una denominazione corrispondente a “pane liquido”); elaborazione di cibi che comportavano una macinazione ed una fermentazione associata alla cottura (produzione di pane lievitato). Questi trattamenti, in modo efficace contra38
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stano gli effetti antinutrizionali dei cereali. Altro esempio classico, dei rapporti tra tecniche di cucina e caratteristiche negative dei cereali, è l’utilizzo alimentare del mais, che ha provocato la pellagra quando da una cottura a secco ed in ambiente alcalino (tortillas della cucina messicana), si è passati alla bollitura (polenta della cucina europea). In modo analogo è avvenuto per molte leguminose, dotate d’effetti antinutrizionali. In proposito, tra tutti gli esempi, è da citare l’uso della soia nella cucina cinese: dal latte di soia ai formaggi di soia, ottenuti con procedimenti che inattivano i fattori antinutrizionali ed allergenici della leguminosa. Altrettanto dimostrativo è il latte, alimento “innaturale” oltre i quattro anni di vita, che l’uomo primitivo ha utilizzato fermentandolo, per inattivare il lattosio ed anche per produrre alcole. Al riguardo è da ricordare il cosiddetto fregio di Baghdad, detto della latteria, datato a circa cinquemila anni fa, nel quale sono rappresentate le operazioni casearie della trasformazione fermentativa del latte. Ricordando che è nato prima il brodo della pentola, che il fumo dei vegetali nell’uomo ha accompagnato il loro uso alimentare e che è stata la trasformazione casearia ad indurre la produzione d’animali da latte, estendendo il concetto, e ve ne sono tutte le buone ragioni, almeno nella fase iniziale della transizione neolitica bisogna ritenere che la cucina, se non ha causato l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, in modo netto ha comunque avuto un ruolo trainante e di primo piano. In altri termini, si può anche affermare che se l’uomo cacciatore e raccoglitore abbrustolisce e cuoce, è l’agricoltore che fermenta e cucina.
vantaggi dei trattamenti culinari, anche di conservazione, schematizzati in una tabella. In sintesi, si può ritenere che la cucina abbia portato a vantaggi differenziati per gli alimenti d’origine animale e per quelli vegetali. Per gli alimenti d’origine animale, in particolare le carni, i vantaggi sono almeno di tre tipi. Il primo riguarda la migliore digeribilità, ma non è un elemento assoluto, tanto che ancor oggi sono in uso preparazioni culinarie di carni crude o poco cotte (tartare francese ecc.). Il secondo vantaggio è di migliorare gli aromi ed il gusto delle carni, anche attraverso la conservazione fermentativa. Il terzo vantaggio è lo sviluppo d’alimenti completamente nuovi, come i salumi fermentati, i latti fermentati e gli yogurt, i formaggi ed il burro e tutti i prodotti caseari Rilevanti sono i vantaggi che la cucina sviluppa negli alimenti vegetali. L’uomo, per la sua costituzione anatomica, fisiologica e comportamentale, ha un’alimentazione di frugivoro, in altre parole di mangiatore di frutta, di bacche e giovani virgulti. Sotto quest’aspetto, l’alimentazione vegetale umana non è stata ancora ben studiata in tutti i suoi risvolti. Quando si è però studiata l’alimentazione delle scimmie, si è costatato che queste apprezzano la frutta non ancora completamente matura (acida e ricca di molecole strategiche, ad iniziare dall’acido ascorbico o vitamina C), e che nella frutta ricercano in primo luogo eventuali vermi, fonte di proteine “animali”. È inoltre sorprendente come le scimmie, che hanno imparato ad apprezzare il carbone vegetale, che assorbe tossine introdotte con il cibo, hanno ampliato la loro alimentazione digerendo di tutto, anche cibi a rischio (Struhaker e coll., 1997). Gran parte dei vegetali sviluppati dall’agricoltura, sono per l’uomo più o meno innaturali o dotati d’attività negative di tipo fisico, meccanico o biochimico. Ad esempio, la grande usura dei denti dell’uomo preistorico è ridotta dai procedimenti di macinazione e cottura dei cereali e d’altri alimenti vegetali.
Perché è stata inventata la cucina Torniamo al quesito: perché é stata inventata la cucina? Una risposta sembra più facile dopo quanto indicato e considerando i notevoli 39
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Capitolo I
Principali effetti nutrizionali della cucina Trattamento
Inattivazione effetti sfavorevoli
Effetti favorevoli ed altri vantaggi
Trattamenti meccanici
Eliminazione gusci, cortecce, parti non alimentari ecc.
Produzione di fumo tramite tostatura Cottura a secco
Eliminazione di veleni
Riduzione masticazione e migliore attività della saliva Estrazione d’olio e grassi Inalazione di molecole psicoattive
Cottura umida
Inattivazione infezioni e parassiti Inattivazione fattori antinutrizionali
Cotture multiple
Diminuzione degli effetti negativi dei singoli sistemi di cottura Diminuzione di singoli alimenti con caratteri negativi
Associazione d’alimenti
Inattivazione infezioni e parassiti Inattivazione fattori antinutrizionali
Aggiunta di piante aromatiche, odorose Uso d’alimenti minerali (sale ecc.) Essiccamento (con o senza affumicamento)
Inattivazione parassiti e infezioni
Salagione
Inattivazione infezioni e parassiti
Macerazione
Inattivazione infezioni, parassiti e principi antinutrizionali Inattivazione infezioni e parassiti Inattivazione principi antinutrizionali o d’intolleranza (lattosio, glutine ecc.)
Fermentazione acida
Fermentazione alcolica
Trattamenti associati Congelazione
Miglioramento digeribilità Gelatinizzazione del connettivo Sviluppo d’aromi (reazione di Maillard) Miglioramento digeribilità Gelatinizzazione degli amidi e dei connettivi Estrazione e concentrazione di principi nutritivi Conservazione delle preparazioni di cucina Intersupplementazione nutrizionale Utilizzo nutrizionale d’alimenti contenenti molecole strategiche Apporto di molecole strategiche (vitamine, antiossidanti, oligoelementi di tipo organico ecc.) Apporto di minerali (sodio, iodio, calcio ecc.) Possibilità di conservazione e commercializzazione Miglioramento digeribilità Possibilità di conservazione e commercializzazione Miglioramento digeribilità Miglioramento della digeribilità
Possibilità di conservazione e commercializzazione Miglioramento digeribilità Produzione d’aromi e sapori Produzione di bevande acide Inattivazione infezioni e parassiti Possibilità di conservazione e Inattivazione principi antinutrizionali commercializzazione o d’intolleranza (lattosio, glutine ecc.) Miglioramento digeribilità Produzione di bevande alcoliche Riduzione effetti negativi di singoli Sinergia tra gli effetti positivi dei trattamenti singoli trattamenti Inattivazione parassiti Possibilità di conservazione
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Geni, cibo e cucina
Prime fasi di sviluppo della cucina (anni prima dell’Era Corrente) Fase
Procacciamento
Procedimenti tipici
Caccia Raccolta
Fuoco diretto
Raccolta erbe psicoattive
Produzione di fumi inebrianti
Caccia Raccolta
Spiedo Cottura con pietre e su pietre roventi
Agricola 10.000 – 8.000 .a E. C.
Agricoltura Allevamento
Tegami e cotture umide Forno
Urbana 4.000 – 3.000 a. E. C.
Commercio alimentare
Fermentazioni (vino, birra, latte) Estrazioni (olio) Macinazione (farina) Salagione
Gastronomica 3.000 – 2.000 a. E. C.
Alimentazione indipendente dalle stagioni e dai luoghi
Trasferimenti degli alimenti Innovazioni tecnologiche
Selvatica (precucina) 200.000 - 150.000 a. E. C. Sciamanica 30.000 a. E. C. Primitiva
esempio quelli lattiero-caseari, ma non spiega in modo esauriente perché è stata inventata la cucina. Le ricerche che riguardano le prime fasi dello sviluppo della cucina, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di fumi inebrianti e di bevande alcoliche, fanno ritenere che, con ogni probabilità, la cucina iniziò con la ricerca di sistemi per procurarsi, dai vegetali, delle droghe e sostanze inebrianti, come l’alcole e l’agricoltura sarebbe stata sviluppata per averne una continua disponibilità. In modo analogo pare sia avvenuto anche per l’allevamento animale, il cui inizio sarebbe iniziato per motivi magici o per procurarsi oggetti d’ornamento (penne e piume), lana e pellicce. In quest’orientamento, lo sciamanesimo e concezioni magiche analoghe avrebbero avuto una notevole importanza, con una serie di variazioni e d’implicazioni nelle quali sarebbero state coinvolte valenze di tipo maschile e femminile, amplificate nelle società patriarcali prevalentemente pastorali ed in quelle matriarcali prevalentemente agricole.
In modo analogo, gran parte degli effetti antinutrizionali degli alimenti vegetali (leguminose, graminacee ecc.), dei fattori d’intolleranza e dei potenziali allergenici sono inattivati dai trattamenti di cucina. La cucina è stata e si mantiene indispensabile per un’alimentazione con una rilevante e non naturale quota di vegetali, anche se, non bisogna dimenticare, l’agricoltura ha cercato di sviluppare vegetali coerenti con le richieste nutrizionali della biologia della nostra specie e gastronomiche delle culture umane. L’agricoltura ha permesso il soddisfacimento delle richieste nutrizionali della specie umana, fino a quando questa ha mantenuto stili di vita naturali, vale a dire con un rilevante dispendio energetico, e vi è stato un corretto rapporto con la cucina. Diversa è stata la risposta dell’agricoltura, quando sono stati richiesti alimenti dotati di particolari caratteristiche gastronomiche, non correlate alle necessità nutrizionali umane. Tutto porta a ritenere che la cucina sia stata la conditio sine qua non per lo sviluppo dell’agricoltura e la creazione di nuovi alimenti, ad 41
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Capitolo I
È nata prima l’agricoltura o la cucina? Una domanda mal posta conduce ad una risposta difficile, se non impossibile. Con ogni probabilità, infatti, cucina ed agricoltura sono coeve. I rapporti tra agricoltura e cucina devono essere visti nella prospettiva preistorica e storica, nella quale si sono formate durante il passaggio che l’uomo ha fatto tra uno stile di vita di cacciatore e raccoglitore, a quello d’agricoltore ed allevatore. Un passaggio molto lento e di lungo periodo, mai netto e definitivo, sottoposto a fluttuazioni, che oggi sono studiate per i singoli territori, ad esempio quello dell’attuale Palestina (Finkelstein e Silberman, 2002). Le indagini archeologiche eseguite nel Medio Oriente indicano che, per molti millenni, le popolazioni hanno avuto la capacità di passare rapidamente dalla vita di caccia e raccolta a quella di piccoli insediamenti e di un villaggio con allevamento degli animali, o viceversa di ritornare dalla pastorizia all’agricoltura stanziale, senza mai abbandonare la raccolta nei terreni incolti, secondo le condizioni climatiche o politico - economiche. Una situazione che non deve stupire, se consideriamo come ancor oggi l’urbanesimo e l’agricoltura intensiva possono coesistere con la caccia e la pesca in aree selvatiche o rinselvatichite. Tornando al passato ed ai lunghi inizi dell’agricoltura e dell’allevamento, in ogni regione molti gruppi sono stati in grado di modificare il loro stile di vita, anche alimentare, secondo le migliori opportunità del momento. Come in modo efficace si esprimono Finkelstein e Silberman (2002), il sentiero che portava dalla vita sedentaria del villaggio al nomadismo pastorale e da questo alla caccia e raccolta è sempre stato percorso in entrambe le direzioni. Un percorso che ha coinvolto le diverse realtà, anche quell’alimentare e, quindi, della cucina. Una volta iniziata l’agricoltura, gli agricoltori continuavano ad avere bisogno dei nomadi per un regolare approvvigionamento di car-
ne, latticini, pelli e lana. I nomadi avevano bisogno dei mercati dei villaggi sedentari per ottenere grano ed altri prodotti agricoli, che avevano iniziato ad apprezzare. Le due controparti non erano però equivalenti. Gli abitanti dei villaggi potevano fare affidamento sulle loro produzioni per sopravvivere, mentre i pastori nomadi non potevano vivere interamente dei prodotti del loro gregge: nella misura in cui avevano abbandonato o ridotto la raccolta dei vegetali, avevano bisogno di grano per bilanciare la loro dieta. Da qui diversi e fluttuanti sono stati a lungo i rapporti tra popolazioni di cacciatori e raccoglitori, di pastori nomadi e d’agricoltori stanziali. Rapporti che hanno coinvolto anche l’alimentazione e la cucina. Come indicato, i cacciatori ed i pastori, nomadi, cuociono, al più utilizzando focolari occasionali o recipienti di pelle. Anche il pane viene cotto avvolgendo la pasta su di una pietra rovente. Gli agricoltori stanziali, invece, sono dotati d’attrezzature adeguate, di ceramica e successivamente di metallo e di un forno stabile, che permettono di cucinare, con tutti i già indicati vantaggi. Sia pure attraverso una serie di fluttuazioni tra vita nomade, di caccia, raccolta e pastorizia e di vita agricola stanziale, la cucina si è sviluppata in stretto collegamento all’agricoltura, in modo particolare per contrastare le caratteristiche nutrizionali negative delle produzioni agricole. È nata prima l’agricoltura o la cucina? Si è già sostenuto che è questa una domanda mal posta, che comporta una risposta difficile, se non impossibile. Agricoltura e cucina sono strettamente collegate, anche se, da un punto di vista funzionale, è stata la cucina, vale a dire la trasformazione dei cibi, che ha dato avvio ed assicurato il successo dell’agricoltura. Aspetti evoluzionisti nella nascita della cucina L’alimentazione umana si dipana tra biologia e cultura. L’uomo non è soltanto biologia, ma è anche cultura. 42
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Se l’alimentazione umana è biologia, la cucina è soprattutto cultura. La cultura è entrata prepotentemente nell’alimentazione da quando l’umanità ha inventato l’agricoltura e l’allevamento, con la produzione degli alimenti, non più soltanto la loro raccolta. Ancor più prepotentemente, la cultura è entrata nell’alimentazione umana da quando, molto probabilmente la donna, ha iniziato a manipolare gli alimenti, trasformandoli in cibo, tramite la cucina, in tutti i suoi aspetti, dalla conservazione, trasformazione, cottura, assemblaggio, fino ai riti di consumo. La cucina, in quanto espressione di un’attività al tempo stesso recente e antica, deve essere confrontata con il pensiero di Charles Darwin, che spiega il progetto funzionale degli organismi e che ha portato alla biologia evolutiva, e quindi alla scoperta ed allo studio dei geni, ed è una delle idee capaci di modificare la scienza dell’alimentazione e della nutrizione. Il concetto dell’adattamento, come mezzo di selezione, permette di meglio comprendere i meccanismi nutrizionali e l’alimentazione, sia normale sia patologica, i costi degli adattamenti anche non corretti, ma necessari per contrastare situazioni ambientali e, o alimentari, gli scontri maladattativi tra il progetto animale e le condizioni ambientali e, o alimentari e così via. La cucina è la maggiore e più diffusa tecnologia inventata dall’uomo per regolare i rapporti tra la biologia umana (geni) e le caratteristiche d’alimenti (cibo), prodotti dall’agricoltura e dall’allevamento e sempre meno naturali e, da soli, non più rispondenti ai mutati stili di vita umana, almeno nelle società tecnologiche ed industriali. Comprendere la funzione dell’idea evoluzionista di Darwin in alimentazione, con particolare riguardo alla cucina, in altre parole costruire una cucina corretta, per una nutrizione evoluzionista o darwiniana, non è una nuova moda alimentare più o meno alternativa, ma è una prospettiva aggiuntiva, che non serve tanto a curare o prevenire patologie e malat-
tie nutrizionali, ma a meglio comprendere le cause evolutive di gran parte, se non tutti i problemi dell’alimentazione e della patologia nutrizionale umana. Le cause e spiegazioni prossime di cui si occupa l’alimentazione e la scienza della cucina classica riguardano le strutture ed i meccanismi biologici e rispondono alle domande di “che cosa?”, “come?”. Che cos’è una malattia nutrizionale? Da chi e com’è generata? Qual è la cucina migliore e più sana? Domande indispensabili per sapere dove e come intervenire. Le spiegazioni evolutive rispondono invece ai “perché?” sull’origine delle strutture e funzioni, sia normali sia, soprattutto, patologiche. La nuova dimensione della nutrizione evoluzionista serve a comprendere l’origine evolutiva dei disturbi e delle malattie nutrizionali, una conoscenza che si dimostra molto utile per raggiungere gli scopi stessi di una corretta alimentazione che sia veramente biologica, nel senso più vero e profondo del termine e cioè legata alla vita (bios). Tre nuove prospettive: produzione degli alimenti, cucina ed educazione alimentare La fame e la malnutrizione non sono la conseguenza delle moderne tecnologie del secolo diciannovesimo o ventesimo, o della cattiva distribuzione degli alimenti. Non bisogna dimenticare le malattie e soprattutto le carestie del passato. Nonostante che le malattie alimentari, le carestie e le sofferenze umane siano antiche, è l’attuale scala di grandezze di questi mali, documentata dalle indagini statistiche, che fornisce dimensioni impressionanti del grave problema alimentare mondiale. Si tratta di un problema con molteplici dimensioni, ma soprattutto d’ordine morale. Quello che oggi è divenuto maggiormente evidente è la dimensione assoluta del problema, vale a dire la quantità numerica della popolazione umana colpita da fame, anche se vi è stata una riduzione percentuale del problema. Vi è anche da considerare che il 43
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Capitolo I Bottéro J. Il banchetto più antico del mondo. In Ferniot e Le Goffe (1987) Bottéro J. La più antica cucina del mondo. In Ferniot e Le Goffe (1987) Bottéro J. Ricettario del passato. In Ferniot e Le Goffe (1987) Bresciani E. Mense imbandite nell’Egitto Antico: tra ideogramma e realtà. L’Alimentazione nell’Antichità, Parma 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985 Cafulli L. Hanno imparato ad apprezzare il carbone e ora le scimmie digeriscono di tutto. Corriere della Sera, 12 ottobre 1997 Consiglio C., Siani V. Evoluzione e alimentazione. Il caminno dell’uomo. Bollati Boringhieri, Torino, 2003 Delluc G., Roques M. La nutrition prehistorique. Pilotes 24, Perigieux, 1995 Diamond J. Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Einaudi, 1998 Ferniot F., Le Goff J. (a cura di). La cucina e la tavola. Dedalo, Bari, 1987 Finkestein I., Silberman N. A. Le tracce di Mosè. Carocci, Roma, 2002 Forni G. Gli albori dell’agricoltura. REDA, Roma, 1990 Goodman J., Lovejoy P.E. Postfazione. In Goodman e coll., 1995 Goodman J., Lovejoy P.E., Sherratt A. (Eds.) Usi sacri, consumi profani. Il ruolo storico e culturale delle droghe, ECIG, Genova, 1995 Gowlett J.A.J., Harris J.W.K., Walton D., Wood S.A. Early archaelogical sites, hominid remains and traces of fire from Chesowanga, Kenia. Nature, 294, 125-129, 1981 Graff J. Living in the Past. Time, April 23, 2001 (p. 53-59) Graaf J. Agriculture is bad for you. Time, April 23, 2001 (p. 59) Hansen J. The Earliest Seed Remains from Greece: Paleolithic trough Neolithic at Franchthi Cave. Berl., Deutsch. Bot., Ges., 91, 39, 1978 Jacobsen T.W. 1700 Years of Greek Prehistory. Scientific American, June, 76-78, 1976 Mc Cully K.S. Dalla paleodieta all’alimentazione moderna. Alimentazione & Prevenzione, 1 (2), 73, 2001 Milano L. La Mesopotamia. In: Montanari e Sabban (2004), vol. I, pag. 18-27, vol. II p. 436-441 Montanari M., Sabban. F. (a cura di). Atlante dell’Alimentazione e della Gastronomia. UTET, Torino, 2004
problema della fame ha assunto una nuova dimensione nelle subcarenze: di tipo energetico, proteico, vitaminico e minerale. Le popolazioni colpite da subcarenze subiscono gli effetti negativi che si manifestano con una diminuita resistenza alle malattie, minore attività intellettuale, ridotta lunghezza della vita e così via. Altrettanto importante è la malnutrizione, che colpisce sia le popolazioni povere sia le ricche. Nelle seconde, sono espressione di malnutrizione gli eccessi energetici, le carenze di molecole strategiche e di fibra alimentare, solubile ed insolubile. Da non dimenticare l’obesità che colpisce i popoli ricchi, ora anche quelli in via di sviluppo, e che è una forma di malnutrizione. Un altro orientamento si va facendo strada in tutte le società: le radici della malnutrizione sono prevalentemente culturali. In quest’ambito sono da inserire le concezioni religiose in senso lato, le abitudini e le mode che in un certo senso confermano l’opinione degli antropologi e storici alimentari funzionalisti. D’altra parte non è possibile introdurre un alimento od un modello alimentare, pur adeguato alle necessità fisiologiche o nutrizionali, senza tenere conto della cultura della popolazione che deve riceverle. La nutrizione culturale, nell’ambito di un’alimentazione evoluzionista, può concretamente contribuire alla soluzione dei problemi nutrizionali del mondo moderno. Di conseguenza, è un importante strumento per la costituzione di un equilibrio alimentare mondiale, necessario al raggiungimento di una pace planetaria. Bibliografia Anonimo. Cereali, carne di cervo e di capra l’ultimo pasto dell’uomo di Similaun. La Repubblica, 17 settembre 2002 (p.24) Ballarini G. Radici antiche del formaggio grana e suo uso nella cucina tradizionale padana. L’Alimentazione nell’Antichità, Parma 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985
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Geni, cibo e cucina Payne S. Animal Bones. Esperia, 42, 59-66, 1973 Perlès C. Le “specialità” della preistoria. in Ferniot e Le Goff (1987) Perlès C. Risorse selvatiche, risorse domestiche. In: Montanari e Sabban (2004), vol. I, pag 402-425 Pernigotti S. Fra alimentazione e religione nell’antico Egitto: un animale “maledetto”. L’Alimentazione nell’Antichità, Parma 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985 Saporetti C. Cucina mesopotamica. In “L’Arcano Convito”. Verona, 7-11-1989. A cura di J. di Schino (Roma, 1989) Saporetti C. Desinare in Mesopotamia. L’Alimentazione nell’Antichità, Parma 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985 Sassatelli G. Cibo, alimentazione e banchetto presso gli Etruschi. L’Alimentazione nell’Antichità, Parma 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985
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Capitolo I
Tutte le malattie derivano dall’agricoltura?
quando si rendeva disponibile una grande preda. Seguendo il variare delle stagioni e le migrazioni degli animali, l’uomo si spostava nelle zone in cui poteva trovare alimenti vegetali maturi, e continuamente inseguiva gli animali che gli davano carne e grasso. Un tipo di vita, e si è già citato, che comportava spostamenti che sono stati calcolati fino a quaranta chilometri il giorno. Poco più di dieci secoli prima dell’era corrente, dopo un relativamente lungo periodo di precucina, con la coltivazione dei vegetali, la pastorizia e l’allevamento animale, la nostra specie, rimasta l’unica del suo genere sulla terra, diede avvio alla prima delle grandi rivoluzioni alimentari, con un’importanza enorme sull’evoluzione della specie. Per diversi motivi, oggi si ritiene che l’agricoltura e l’allevamento, sviluppati dall’uomo in poche aree del pianeta ed in tempi assai diversi, si diffusero in due modi: tramite l’apprendimento delle tecniche da parte dei popoli confinanti, ma soprattutto con la diffusione territoriale dei primi agricoltori. Tutto questo avvenne in momenti differenti nelle varie parti del mondo. In alcune aree in cui le condizioni climatiche erano favorevoli, tuttavia e come fa notare Diamond (2000), l’agricoltura non nacque, né fu portata in tempi preistorici, e l’uomo vi continuò a vivere per millenni come cacciatore e raccoglitore, fino a quando non venne in contatto con il mondo moderno.
“Tutte le malattie umane provengono dall’agricoltura e dall’allevamento del bestiame” Mirko D. Grmek Agricoltura, allevamento e cucina, le prime vetero-biotecnologie Solo la nostra specie di Homo sapiens sapiens, tra tutti gli esseri viventi, ha sviluppato attività tecnologiche e non solo strumentali, e soprattutto artistiche. In quest’ambito è stata creata una complessa serie di tecnologie applicate al cibo (cucina), che sono state portate a livelli artistici (gastronomia). Il tutto in relazione alla coltivazione dei vegetali ed all’allevamento degli animali, altre due attività sulle quali gli antropologi ancora stanno indagando in merito alle precise motivazioni, di come e perché siano nate e poi sviluppate. Per centinaia di migliaia d’anni i nostri progenitori, e per decine di migliaia d’anni la nostra specie erano vissuti raccogliendo vegetali e cacciando animali. Per un lungo tempo le specie umane erano ricorse al fuoco per modificare le caratteristiche degli alimenti, come si è già detto. L’alimentazione era stata al tempo stesso occasionale e continua, con numerosi piccoli pasti nel corso della giornata ed ogni volta usando un cibo diverso, vegetale o animale, in un quadro d’elevata “biodiversità alimentare”. Non erano rari periodi di digiuno, seguiti da abbuffate, ad esempio Le grandi rivoluzioni alimentari umane (XX) - XV - X Secoli prima dell’era corrente
Agricoltura, allevamento e cucina – Vetero-biotecnologie
XV - XVI Secolo era corrente
Diffusione mondiale delle specie vegetali e animali produttrici d’alimenti
XIX Secolo era corrente
Inizio dell’industrializzazione alimentare
XX Secolo era corrente
Mondializzazione del commercio d’alimenti
XXI Secolo era corrente
Ingegneria alimentare (neo biotecnologie) Mondializzazione degli stili alimentari 46
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Geni, cibo e cucina
conservare gli alimenti. Molti dei nuovi alimenti agricoli non si dimostrarono perfettamente adatti alla biologia umana ed alle sue necessità nutrizionali. Tutto questo portò alla necessità di sviluppare tecnologie (veterobiotecnologie) di conservazione degli alimenti (essiccamento, salagione, fermentazione ecc.) ed una cucina, sempre più specializzata e raffinata, come già considerato.
I popoli che divennero agricoltori per primi guadagnarono un gran vantaggio sugli altri, ma dovettero anche subire l’impatto negativo delle malattie provocate dalla nuova alimentazione e dallo stretto contatto con il bestiame: malattie nutrizionali e malattie infettive e parassitarie. Come anche recentemente ha fatto rilevare Diamond (2000) le testimonianze archeologiche ci mostrano che i primi agricoltori erano spesso più gracili e malnutriti dei loro colleghi cacciatori raccoglitori a causa di patologie nutrizionali. Erano anche più soggetti a malattie infettive e parassitarie contratte dagli animali ed oggi note come zoonosi. L’avvento dell’agricoltura, allevamento e cucina sono alla base della prima delle cinque grandi rivoluzioni alimentari. Queste rivoluzioni sono l’espressione dell’evoluzione culturale che, nell’uomo, si è innestata sull’evoluzione biologica, dando una nuova dimensione alla storia dell’umanità, e di tutta la vita sul pianeta. Nella prima rivoluzione alimentare, con la pastorizia, iniziale forma d’allevamento del bestiame, l’uomo mantenne il nomadismo, caratteristica umana consolidata. Con l’agricoltura, da nomade o migratore l’uomo divenne sedentario, prima per più o meno brevi periodi, ad esempio per compiere un raccolto, poi definitivamente. In questo modo comparve il possesso della terra, si creò il villaggio, la città, lo stato e soprattutto iniziò a cambiare lo stile di vita. Non scomparve e non diminuì sostanzialmente l’attività fisica e le circa otto ore di lavoro giornaliere presero il posto dei circa quaranta chilometri di cammino. Con l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, gli orizzonti alimentari iniziarono a cambiare. Altri mutamenti arriveranno, si svilupperanno e si assommeranno nelle successive rivoluzioni alimentari. Fin dalla prima rivoluzione alimentare iniziò a ridursi la biodiversità alimentare, che fino allora aveva caratterizzato l ’alimentazione umana. In modo analogo divenne necessario
Come si sono sviluppate le veterobiotecnologie La coltivazione delle piante e l’allevamento del bestiame sono necessari? Quali rischi e danni hanno portato alla salute umana? Questi interrogativi si pongono a monte dell’affermazione di Mirko D. Grmek che tutte le malattie umane provengono dall’agricoltura e dall’allevamento del bestiame. In modo analogo, Jared Diamond (2000) dedica un capitolo di un suo libro a Il dono fatale del bestiame, nel quale considera l’evoluzione degli agenti patogeni e come l’addomesticamento abbia favorito, se non determinato la comparsa di malattie infettive umane. Affermazioni che si collegano a quanto sopra già accennato e che sono state oggetto d’ampi dibattiti, arrivati anche a livello giornalistico (ad esempio il servizio curato da J. Graff, 2001). Va tuttavia rilevato che nella pur ampia e dettagliata analisi delle malattie provocate dall’agricoltura e dall’addomesticamento del bestiame, scarsa attenzione è stata dedicata all’altrettanto importante capitolo delle malattie non infettive e non parassitarie dovute alle caratteristiche degli alimenti ottenuti dalle piante coltivate e dagli animali allevati. Per meglio comprendere quale debba essere la nostra alimentazione, è qui opportuno esaminare non tanto perché la nostra specie ha addomesticato piante ed animali ed ha inventato l’agricoltura e l’allevamento, ma come questo è avvenuto, come sono cambiate le caratteristiche degli alimenti agricoli e d’allevamento e soprattutto con quali tecnologie l’uomo è intervenuto per produrre nuovi alimenti. 47
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Capitolo I
Dalla selezione naturale a quella artificiale Con ogni probabilità - in proposito vi è un largo consenso tra gli studiosi - l’agricoltura e l’addomesticamento degli animali sono iniziati e si sono sviluppati quando l’uomo, quasi certamente la donna, è intervenuta sostituendosi alla selezione naturale, spesso andando contro questa, come ben dimostrano alcuni esempi. Un argomento questo che, recentemente, è stato dettagliatamente discusso da Diamond (2000). Il grano, uno dei primi vegetali coltivati, ha una spiga che ad un certo momento di maturazione rilascia i singoli semi (o grani) che, con l’aiuto anche di una sottile arista e seguendo il vento, possono allontanarsi, infilarsi nel terreno (come ancora oggi fanno i forasacchi), diffondendo la specie. Queste spighe deiescenti non possono essere mietute senza perdere il raccolto. Ogni tanto (una spiga su mille, diecimila?) vi è la comparsa di una mutazione genetica, a seguito della quale la spiga non rilascia i grani. I grani non si diffondono; al massimo tutta la spiga, cadendo, dà origine ad un’altra pianta, nello stesso posto. La spiga non deiescente è una mutazione sfavorevole al successo della specie selvatica, ma è molto utile per l’uomo che può raccoglierla integra. L’uomo, da queste spighe mutate, con la battitura ottiene i grani da mangiare o che può seminare nei luoghi e nelle concentrazioni più opportune, dando avvio ad un’agricoltura. Con l’osservazione che i grani germogliano con più facilità e danno un raccolto più abbondante attorno ai luoghi di defecazione, all’uomo è venuta l’idea di una concimazione. In questo modo, l’uomo ha iniziato anche a scegliere e seminare i grani più grossi e ricchi d’amido, i frutti più grossi, carnosi e succosi, di piante meglio adatte ai singoli terreni e climi. Nel primitivo farro l’uomo ha anche scelto casuali variazioni di grani particolarmente grossi, perché la pianta aveva un maggior numero di cromosomi (grani poliploidi) e passare quindi dal farro al frumento. Si trat-
ta quindi d’organismi scelti perché hanno una genetica diversa, oggetto di selezione, quindi da considerare Organismi Selettivamente Modificati (OSM) con risultati che sostanzialmente non si differenziano dai recenti Organismi Geneticamente Modificati (OGM), se non per la diversa tecnologia utilizzata dall’uomo (e la sua efficacia). Una strada intermedia è stata applicata con successo nel secondo dopoguerra con l’irradiazione delle piante, per aumentare la frequenza delle mutazioni casuali, dello stesso tipo di quelle spontanee. Usando la selezione, nei suoi spostamenti da sud - est a nord - ovest, raggiungendo zone sempre più fredde, l’uomo ha adattato i cereali a nuove condizioni climatiche. Si è così arrivati, nel corso dei millenni, agli attuali frumenti, nelle varietà di grani teneri e duri. Inoltre, è divenuto possibile avere frumenti resistenti alle avverse condizioni climatiche (vento ecc.) ed aumentare la loro produttività, soprattutto in ambienti favorevoli, perché concimati o dalla cenere di un incendio, casuale o provocato, o dai residui organici. La quasi totalità del grano usato oggi deriva da una lunghissima serie di mutazioni che l’uomo ha scelto (selezione artificiale). Non è quindi eccessivo affermare che nell’odierno frumento, pur coltivato nel modo più naturale possibile, non vi è quasi più nulla di naturale. Quanto indicato per il farro è avvenuto per tutte le altre graminacee che sono state coltivate (orzo, segale, panico, mais, riso ecc.). Lo stesso è avvenuto per le leguminose, gli alberi da frutto e tutte le piante oggi coltivate. Dove l’uomo ha portato e sviluppato la propria presenza sulla terra, il successo della selezione artificiale è stato così grande che in un caso, come quello già citato del mais, è riuscito a sostituire completamente la specie naturale di partenza, oggi non più ritrovata. Anche nelle specie animali, con il passaggio dalla selezione naturale a quell’artificiale, è avvenuto un processo analogo. È interessante notare che Charles Darwin enunciò la sua 48
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teoria sull’Origine della Specie attraverso la selezione naturale, osservando anche i risultati che gli allevatori inglesi avevano ottenuto con la selezione artificiale, costruendo razze animali molto diverse dai progenitori selvatici e dai comuni animali domestici. Negli animali si è anche attuata una selezione artificiale dei comportamenti. Sfruttando anche meccanismi comportamentali quali l’imprinting ed i segnali infantili, nei cuccioli d’animali selvatici fu azzerata la distanza di fuga e poterono essere incorporati nella comunità umana, che così divenne una nuova “famiglia allargata”, d’uomini e animali. Dapprima nella famiglia umana entrò il lupo, che divenne cane, poi i piccoli ruminanti che furono trasformati in pecore e capre, seguiti dai grossi ruminanti e dal cavallo, mentre altri animali per lungo tempo mantennero una posizione ambigua, tra il selvatico ed il domestico. È il caso dei volatili e dei cinghiali che vivevano attorno ai villaggi umani, in uno stato di domesticazione lassa, anche come spazzini dei residui umani. Sugli animali gli interventi di selezione riguardarono il comportamento (animali docili e con elevata affettività umana) e le loro caratteristiche morfologiche: cani di diverse taglie, aspetto ed attitudine comportamentale, secondo l’uso: guardia del gregge, caccia ecc.; pecore con vello lanoso o con disposizione ad ingrassare; capre capaci di dare molto latte; maiali con grasso abbondante; cavalli agili e veloci o lenti e potenti, e così via. Per i vegetali la concimazione ha avuto una notevole importanza. In modo analogo, per gli animali, l’addomesticamento ha interessato soprattutto quelli con un’alimentazione che non era competitiva con quell’umana, secondo la regola che l’animale non doveva rubare cibo all’uomo, ma aumentarlo, con un bilancio nutrizionale positivo. Il cane ad esempio serviva a catturare la selvaggina od a proteggere i greggi, ma era alimentato con scarti (ossa ecc.). Tra gli animali vegetariani hanno avuto successo i ruminanti che si nu-
trono di ciò che il loro rumine fermenta, partendo da materiali e vivendo in territori assolutamente inutilizzabili per l’alimentazione umana. Tipico è il caso di steppe e zone semidesertiche, dove i cammelli e le capre trovano nutrimento, mentre l’uomo morirebbe di fame. Questi ruminanti divengono alimento per l’uomo. Sulla stessa linea si pongono i cinghiali e tutti gli animali spazzini (polli, oche ecc.) attraverso i quali l’uomo può riciclare cibi da lui scartati od inutilizzabili. Origine e sviluppo della domesticazione L’origine e lo sviluppo della domesticazione è uno dei problemi più difficili che si pongono a chi s’interessa delle società umane e, di conseguenza, della loro alimentazione. Sull’argomento esiste una bibliografia vastissima e non è questa la sede per affrontare il grave e complesso problema. Ai fini della presente esposizione e nei limiti qui concessi, basterà dare alcuni cenni, particolarmente indirizzati al tema specifico dell’alimentazione, e che si aggiungono a quanto già considerato sull’origine della cucina. Come è già stato indicato, le popolazioni di cacciatori e raccoglitori hanno molto tempo libero e non possiedono piante od animali addomesticati. Questa situazione si è mantenuta per un lungo periodo, certamente per più di due milioni d’anni. Che cosa è, o quali sono stati i motivi che hanno indotto i nostri progenitori o, meglio, quelli di un’unica specie, la nostra, a cambiare radicalmente le proprie abitudini, inventando la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali? A questa domanda abbiamo in parte già dato una prima risposta, considerando il ruolo della cucina. Qui è opportuno aggiungere che, in linea di massima, è oggi accettato che la domesticazione, vegetale o animale, non è avvenuta solo come una risposta diretta ad uno stato di carestia, di siccità o comunque ad un periodo di situazione sfavorevole. Questi ultimi eventi avrebbero richiesto una soluzione immediata e non a lungo termine, 49
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Capitolo I
com’è, appunto, la domesticazione. È invece molto più agevole immaginare che la domesticazione sia iniziata in un periodo ed in una fase di cibo abbondante e di riposo, e che si sia rivelata preziosa in una successiva (ed imprevedibile) fase di carenza o, comunque, di difficoltà. Da qui sorge la domanda: perché lo sviluppo dell’addomesticamento vegetale e animale? In un non recente, ma già classico lavoro, Harlan (1967) ha dimostrato che un uomo con una falce di pietra (selce) può raccogliere con facilità una quantità di grano selvatico sufficiente alle necessità alimentari della sua famiglia. Lo sviluppo della domesticazione fu inizialmente intenzionale o soltanto un fenomeno accidentale? Non sembri strana l’ipotesi di una domesticazione accidentale, che ad esempio fu sostenuta da Zeuner (1963). Questa potrebbe essere avvenuta in uomini ed animali costretti a convivere in aree ristrette od in aree geografiche confinate, come strette valli lungo un fiume, piccole oasi isolate in ampi deserti, od aree di terra circondate dai ghiacci durante la glaciazione del Pleistocene. In queste situazioni è facile immaginare l’istituirsi tra uomini ed animali di scambi di neonati. Fino a pochi anni fa nell’Amazzonia le donne allattavano indifferentemente i propri piccoli o quelli della cagna, come i bambini succhiavano dalle mammelle degli animali del villaggio. Si sarebbe così costituita quella che è stata chiamata la “via del latte” della domesticazione animale. Sempre accidentale potrebbe essere stata, almeno all’inizio, la domesticazione delle piante, che sarebbero cresciute rigogliose sui rifiuti abbandonati dai cacciatori e raccoglitori, ai margini dei loro insediamenti temporanei; al ritorno nello stesso posto dopo una migrazione annuale avrebbero trovato un raccolto particolarmente abbondante (Anderson, 1952). In modo analogo, l’uomo avrebbe potuto accorgersi che alcune piante a lui utili crescevano particolarmente rigo-
gliose sul letame presente in recinti dove erano stati tenuti animali selvatici o semiselvatici (Grivetti, 1980). Recentemente Diamond (2000) indica soprattutto cinque condizioni alla base dell’avvio dell’agricoltura: 1) declino delle risorse naturali; 2) aumento della disponibilità delle specie domesticabili; 3) progressi tecnologici nella raccolta, trasformazione e conservazione del cibo; 4) legame di causa ed effetto tra la crescita della densità della popolazione e la crescita della produzione del cibo; 5) successo dei popoli che, avendo adottato l’agricoltura, poterono crescere numericamente e quindi sopravanzare i popoli dei cacciatori e raccoglitori. In ogni caso, era necessaria, da parte dell’uomo, un’acuta osservazione dei fenomeni e, soprattutto, la possibilità d’immaginare il futuro. Un atteggiamento mentale particolare, collegato alla possibilità di rappresentare la realtà e di descriverla. Da qui il collegamento dell’agricoltura e dell’allevamento al linguaggio ed alle immagini artistiche che l’uomo Cro Magnon tracciava sulle pareti e sulle volte delle grotte. Non mancano tuttavia ricercatori che ritengono che la domesticazione, animale e vegetale, abbia avuto fin dall’inizio un ben preciso scopo. A questo riguardo si notano due tendenze: domesticazione per la produzione di cibo; domesticazione per altri scopi economici o per motivi, in senso lato religiosi. Secondo la prima tendenza, gli animali possono essere stati addomesticati per i loro prodotti come il cuoio e la lana, o come animali da lavoro da tiro, da soma, da sella (Child, 1951; Laufer, 1927). Non è da sottovalutare che il bovino sembra sia stato il primo grande animale addomesticato proprio per il lavoro e poi sia diventato un animale da carne e solo dopo da latte. La religione, nel più ampio senso del termine, può avere fornito validi motivi di domesticazione, perché gli animali sono necessari all’uomo, come dimostra l’attuale sviluppo dell’animale da compagnia, per motivi estetici, come og50
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getti di sacrificio e quindi tramite con la divinità, o come produttori d’oggetti rituali, ad esempio corna, penne e così via (Hahn, 1896; Palmieri, 1959). Per le piante, è difficile pensare ad una domesticazione a scopo alimentare. Anche le ricerche sull’utilizzazione delle piante selvatiche nelle società contemporanee suggeriscono che il loro uso psicoattivo, già considerato, ma anche decorativo, come fibre per fabbricare vestiti, nei quali la componente ornamentale è sempre preminente, se non esclusiva, per usi magici od impieghi medicamentosi, è più diretta alle specie vegetali selvatiche o semiselvatiche. Queste ultime specie sarebbero state prelevate dalla savana o foresta e trapiantate in vicinanza dell’insediamento umano e curate dall’uomo, ma non per usi alimentari (Grivetti, 1976 e 1978; Led, 1973). La domesticazione animale e vegetale, ritenute tra loro strettamente connesse, consecutive a situazioni accidentali od effettuate per ben precisi motivi, collegate almeno all’inizio a situazioni alimentari o non, hanno radicalmente modificato la disponibilità d’alimento per la popolazione umana e cambiato profondamente l’attività e l’economia della specie. I dati archeologici disponibili suggeriscono che la prima comparsa delle piante e degli animali domestici sia avvenuta in Cina e nel Sud-Est Asiatico, in un periodo che supera i ventimila anni avanti Cristo (Chang, 1973; Gorman, 1969; Solheim, 1971). Quest’inizio è nettamente più antico di quello che è stato possibile datare nella Fertile Mezzaluna che, com’è ampiamente noto, si estende dall’Iran orientale e passando dalla Mesopotamia e Palestina, arriva fino all’Egitto (Aykroyd e Doughty, 1970; Storcke e Teague, 1952). Le conseguenze della domesticazione animale e vegetale sono state immense. La prima è stata l’aumento della popolazione umana. Precedentemente alla domesticazione, l’uomo era presente sulla faccia della terra in concentrazioni molto ridotte, e que-
sto spiega come con la caccia e la raccolta potesse ampiamente soddisfare le sue esigenze alimentari con una notevole facilità. Una bassissima concentrazione della popolazione umana sul territorio è un altro motivo, oltre a quelli prima citati, che fa ritenere poco probabile una motivazione alimentare della domesticazione. Precise e recenti ricerche, alle quali hanno partecipato diversi ricercatori tra i quali Cavalli Sforza, tendono a dimostrare che l’incremento della popolazione collegato alla domesticazione è stato alla base di un’espansione dei popoli d’agricoltori e allevatori. Quest’espansione nell’area asiatico - europea si è svolta nell’arco di oltre cinquemila anni e, partendo dalla Fertile Mezzaluna, si è spostata verso le estreme regioni del Nord Europa con una velocità di circa un chilometro l’anno. Precise indagini di genetica umana, eseguite da Ammerman e Cavalli Sforza (1984, 1986), da Luigi e Luca Cavalli Sforza (1997) hanno inoltre dimostrato che si è trattato di spostamento delle popolazioni che praticavano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame e non di trasmissione dell’invenzione ad altre popolazioni autoctone dei nuovi territori. In ogni caso, è importante notare che in molti casi, con l’agricoltura e l’allevamento, le popolazioni adottarono non tanto uno specifico alimento, ma dei “pacchetti alimentari” (come li definisce Diamond (2000), costituiti da alimenti ricchi d’energia (amidi e, o grassi) e di proteine. Ad esempio nel Sud-Est dell’Europa i popoli locali attorno al 6.000 prima dell’era corrente adottarono il pacchetto mediorientale costituito da cereali, legumi e bestiame. Nell’America, circa nel 2.500 prima dell’era corrente fu adottato il pacchetto costituito da mais, fagioli e cucurbitacee. È facile intuire che il successo del sistema agricolo non dipende tanto dalla coltivazione di un solo vegetale, ma di un pacchetto di vegetali capaci di sostenere un’adeguata nutrizione umana. 51
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Capitolo I
Alcuni esempi di specie vegetali ed animali addomesticate (da Diamond, 2000 - con modifiche) Area geografica Domesticazione autoctona Asia, Africa (America?) Vicino Oriente (Fertile Mezzaluna) Cina Mesoamerica Ande ed Amazzonia America settentrionale Sahel (?) Africa equatoriale (?) Etiopia Nuova Guinea (?)
Vegetale
Animale
Data più antica
–––
Cane
10.000 a. E. C. (12.000 - 9.000 a. E. C.?)
Granaglie diverse Pecora, capra (farro, frumento, orzo, ecc.), piselli, olivo Riso, miglio
Maiale, baco da seta
Prima del 7.000 a. E. C.
Mais, fagioli, zucca
Tacchino
Prima del 3.500 a. E. C.
Patate, manioca
Lama, cavia
Prima del 3.500 a. E. C.
Girasole, chenopodio
Nessuno
2.500 a. E. C.
Sorgo, riso africano
Gallina di faraone
Prima del 5.000 a. E. C.
Igname, palma
Nessuno
Prima del 3.000 a. E. C.
Caffè, teff
Nessuno
Ignota
Canna da zucchero, banana
Nessuno
7.000 a. E. C. (?)
Nessuno
6.000 - 3.500 a. E. C.
Sesamo, melanzana
Bovini asiatici
7.000 a. E. C.
Sicomoro, chufa
Asino, gatto
6.000 a. E. C.
––––
Coniglio
200 circa a. E. C.
Dopo l’arrivo di specie alloctone Europa occidentale Papavero, avena Valle dell’Indo Egitto Mediterraneo
8.500 a. E. C.
Date approssimate di prima domesticazione di alcune specie animali (Diamond, 2000) Specie Cane Pecora Capra Maiale Bue Cavallo Asino Bufalo d’acqua Lama, alpaca Cammello Dromedario
Data (a. E. C.)
Area
10.000 8.000 8.000 8.000 6.000 4.000 4.000 4.000 3.500 2.500 2.500
Asia sudoccidentale, Cina, America settentrionale Asia sudoccidentale Asia sudoccidentale Cina, Asia sudoccidentale Asia sudoccidentale, India, Nordafrica (?) Ucraina Egitto Cina (?) Ande Asia centrale Arabia
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Principali specie d’animali erbivori addomesticate nell’antichità (Diamond, 2000 - con modifiche) Specie maggiori e progenitore
Area geografica
Pecora – Muflone Capra – Bezoar Bue – Uro Maiale – Cinghiale Cavallo - Cavallo selvatico Dromedario - Dromedario selvatico Cammello della Battriana - Cammello selvatico Lama e alpaca – Guanaco Asino - Asino selvatico Renna - Renna selvatica Bufalo d’acqua o asiatico - Bufalo selvatico Yak - Yak selvatico
Asia centrale ed occidentale Asia centrale Eurasia e Africa settentrionale Eurasia e Africa settentrionale Russia meridionale Arabia Asia centrale Ande Africa settentrionale (Vicino Oriente) Eurasia settentrionale Sud-Est asiatico Himalaia e Tibet
Principali coltivazioni alimentari preistoriche (Diamond, 2000, con modifiche) Area
Cereali e piante erbacee
Leguminose
Radici, tuberi
Cucurbitacee
Fertile Mezzaluna
Farro, Triticum monococcum, Orzo
Piselli, Lenticchie, Ceci
==
Melone
Cina
Riso, panico, miglio perlato
Soia, Phaseolum angularis, Ph. aureus
==
(Melone)
Mais
Fagioli (Ph. vulgaris, ecc.)
Jicama
Zucche (Cucurbita pepo, ecc.)
Ande, Amazzonia
Quinoa, (mais)
Fagioli comuni e di Lima, arachidi
Manioca, patata, patata dolce
Zucche
Africa occidentale e Sahel
Sorgo, miglio africano, riso africano
Fagioli dall’occhio, arachidi
Igname
Cocomero, zucche (Laginaria)
(Grano, orzo, riso, sorgo, miglio)
Fagioli (Ph. aureus, Ph. mungo ecc.)
==
Cetriolo
Miglio, teff (grano, orzo)
(Piselli, lenticchie)
==
==
Orzo (Pusillum), Phalaris, Chenopodium
==
Girasole, articiocco
Zucca (C. pepo)
Canna da zucchero
==
Igname, taro
Mesoamerica
India Etiopia Stati Uniti orientali Nuova Guinea
Tra parentesi le specie d’antica importazione
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quanto osservato da tre archeologi (Gordon Hilman, Susan Colledge e David Harris e riportato da Diamonds, 2000) nel sito archeologico di Tell Abu Hureyra, situato in Siria, ai margini della valle dell’Eufrate. Tra il 10.000 ed il 9.000 prima dell’Era Corrente, gli abitanti del luogo, sebbene già stabilizzati in un insediamento permanente, vivevano ancora di raccolta. L’agricoltura ebbe inizio nel millennio successivo. Gli scavi hanno rivelato grandi quantità di resti carbonizzati - probabilmente usati per produrre fumi psicoattivi - di piante selvatiche che erano certamente raccolte altrove e poi trasportate al villaggio. L’analisi di 700 campioni, ognuno contenente una media di 500 semi identificabili appartenenti a 70 specie diverse, ha portato a conclusioni sorprendenti. Gli indigeni raccoglievano almeno 157 specie di piante, senza contare quelle che non si è riuscito ad identificare. Le 157 diverse specie rappresentano solo una parte di quelle esistenti nei dintorni e sono di tre categorie. Molte hanno semi immediatamente eduli. Altre, come i legumi e le piante affini alla senape, sono tossiche, ma divengono commestibili, con una certa facilità, dopo cottura, fermentazione ecc. Altre piante erano usate per ottenere tinture, farmaci o fumi psicoattivi. Tutto fa ritenere che le specie selvatiche che non erano raccolte, erano o tossiche od inutili. Altri studi confermano le osservazioni di Hilman e collaboratori che indicano la grande biodiversità alimentare dell’uomo preistorico e la sua approfondita conoscenza dell’ambiente e della flora. Recentemente Rollo e coll. (2002) esaminando il contenuto intestinale della mummia dell’uomo di Similaun, circa cinquemila anni fa, hanno documentato che negli ultimi pasti aveva mangiato carne di cervo rosso e di capra, cereali e funghi. La gran varietà dei cibi (biodiversità alimentare), ognuno assunto in piccole quantità, aveva due vantaggi. Il primo vantaggio è
Le ultime tappe della popolazione umana mondiale 1 miliardo 2 miliardi 3 miliardi 4 miliardi 5 miliardi 6 miliardi
1804 1927 - 123 anni dopo 1960 - 33 anni dopo 1974 - 14 anni dopo 1987 - 13 anni dopo 1999 - 12 anni dopo
Alimentazione dell’uomo preistorico L’alimentazione dell’uomo preistorico, in modo speciale quella della nostra specie, è stata oggetto di numerose indagini e rassegne, tra le quali è da citare quella del biologo Jared Diamond (2000), che si è occupato anche delle relazioni con l’agricoltura e l’addomesticamento animale, considerando il ruolo delle differenze ambientali, senza però considerare le conseguenze di tipo sanitario non infettivo che l’alimentazione agricola ha indotto sulla nutrizione umana. Quali equilibri alimentari, a proposito degli stili di vita, si erano raggiunti in un processo di selezione biologica e d’evoluzione culturale, durato almeno duecentomila anni, senza considerare quanto avvenuto nel precedente mezzo milione d’anni nei preominidi e negli ominidi? Sulla base dei reperti ossei e delle feci fossili (coproliti) e delle ricerche eseguite sugli uomini preistorici che vivevano fino a pochi decenni fa in alcune regioni del pianeta, oggi abbiamo un quadro abbastanza preciso dell’alimentazione dei nostri antenati. Senza entrare in eccessivi dettagli si può affermare che si trattava di un’alimentazione mista, comprendente cibi d’origine vegetale ed animale, caratterizzata da una grandissima varietà di specie, che cambiavano nel corso delle stagioni. Non vi era pianta o animale, soprattutto di piccole dimensioni, dai molluschi agli insetti, e recentemente si è anche riconosciuto l’importante ruolo del pesce, che non fosse mangiato. Interessante è 54
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l’intersupplementazione. Se un alimento era ricco di un principio nutritivo e scarso di un altro, mangiato assieme o nello stesso giorno con un altro alimento con caratteristiche opposte, portava ad un equilibrio alimentare, nel quale ogni alimento era di supplemento all’altro. Esempio d’intersupplementazione è l’associazione tra un cereale ed il latte (due alimenti che, come vedremo oltre, sono “innaturali”) e la cui combinazione sfocia in un buon equilibrio alimentare. Altro esempio è l’associazione tra cereali e leguminose. Il secondo vantaggio è la sicurezza. Alimenti non completamente favorevoli o dotati d’attività antinutrizionali e soprattutto causa d’intolleranza, non producono effetti negativi e danni apprezzabili, se assunti in piccola quantità. Anche l’uomo preistorico applicava, sia pure inconsciamente, il principio enunciato da Paracelso che sola dosis facit venenum. Com’erano scelti gli alimenti? Nel passato, più d’oggi, nell’uomo erano sviluppate le fami specifiche, di cui erano espressione anche le “voglie delle gravide” (segni di carenze o subcarenze nutrizionali). L’organismo, sia pure con una certa approssimazione, segnalava la necessità di talune categorie d’alimenti. Da qui la voglia di grasso e d’alimenti dolci e zuccherini (necessità energetica), o la ricerca del sale, d’alimenti acidi (frutta acerba, acida e ricca di vitamine) e così via. Con l’agricoltura, la biodiversità alimentare si riduce, inizialmente di poco e poi in modo sempre più intenso. L’intersupplementazione è più rara e gli squilibri alimentari si diffondono, divenendo sempre più gravi. L’uomo vive male, alimentandosi con pochi alimenti, soprattutto se non gli sono completamente adatti. Da qui la necessità di modificarli con tecnologie e così si sviluppa la cucina. Gradualmente e con modalità diverse, all’agricoltura si associò l’allevamento del bestiame che, per lungo tempo, non ha avuto un’esclusiva o prevalente finalizzazione alimentare, come ha oggi. Nel passato le pecore
erano utilizzate soprattutto per la produzione della lana, il bovino per i riti sacrificali (certamente nell’Antico Egitto e probabilmente nella cultura cretese), il cavallo ed i bovini per i lavori, rispettivamente rapidi e leggeri o lenti e pesanti. Le capre sono state addomesticate per la produzione di latte ed il maiale, spesso mantenuto in semidomesticità, per la carne, come gli animali da cortile, che davano anche le uova. Conseguenze alimentari dell ’agricoltura e dell’allevamento Una delle più importanti conseguenze della domesticazione è stata la riduzione della varietà di fonti alimentari. La riduzione della biodiversità alimentare riguarda l’uomo e gli animali addomesticati. A quest’ultimo proposito è utile ricordare che, mentre in un prato stabile naturale esiste una consociazione floristica, con la presenza di almeno cinquanta specie foraggiere per metro quadrato, nei moderni erbai esiste al massimo un’associazione di tre foraggiere (due leguminose ed una graminacea) e molti pascoli sono costituiti da una sola specie botanica, per di più di un’unica varietà. In una consociazione floristica complessa esistono fenomeni di compensazione nutrizionale di una specie vegetale rispetto ad un’altra. Inoltre, in caso di condizioni atmosferiche avverse, gli effetti negativi saranno solo parziali. La monocoltura, invece, fornisce un’alimentazione unilaterale, è fortemente sensibile alle condizioni atmosferiche (Dewey, 1979; Doudgty, 1979; Pirie, 1962) ed agli attacchi dei parassiti, ai quali risponde secondo la legge del tutto o del nulla. La dipendenza alimentare da un ristretto numero di specie vegetali ed animali permette all’uomo d’avere una grand’abbondanza di cibo, ma lo espone anche ai gravissimi rischi di una nutrizione unilaterale e di carestie. Non è certamente una prova, ma è per lo meno significativo, che la prima descrizione storica di una carestia, il periodo di 55
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sette vacche magre citato dalla Bibbia, sia avvenuto in un’area della Fertile Mezzaluna dove era stata iniziata la coltivazione dei campi. Altrettanto celebre è la grave carestia che colpì l’Irlanda, quando le coltivazioni di patate, divenute il cibo quasi esclusivo della popolazione, furono distrutte dalla dorifora. In modo analogo, anche l’uomo è esposto ai rischi di un’alimentazione unilaterale. Un esempio è la pellagra, per un uso prevalente di mais, le cui proteine sono carenti d’alcuni aminoacidi ed è un cereale scarsamente dotato di vitamine essenziali biodisponibili per l’uomo. L’uomo del passato aveva una gran diversificazione alimentare, anche se con chiare predilezioni (come ancora oggi i baboni selvatici) per alimenti che otteneva con la caccia, la raccolta, l’allevamento, l’agricoltura, l’orticoltura, la pesca e che si procurava anche tramite baratto, dono o acquisto. Questa diversità aveva un ruolo importante per una corretta nutrizione, la già citata intersupplementazione. Evidentemente, nessuno oggi vuole tornare indietro e rinunciare agli indubbi vantaggi della domesticazione ed in particolare dell’agricoltura. Al tempo stesso bisogna però rendersi conto dei gravi rischi della monocoltura vegetale e animale. Un non piccolo problema è infine quello se lo sviluppo agricolo e zootecnico, oltre all’incremento della quantità d’alimento, ha portato e porta ad un miglioramento dei livelli di nutrizione delle popolazioni umane. Come già da tempo hanno fanno rilevare Grivetti (1981), Dewey (1980) e Robson (1976) ed altri, la risposta non può essere univoca, dato che non ci si può aspettare che ad un’aumentata produzione d’alimenti (e pur senza entrare in merito alla loro qualità) segua automaticamente un incremento della salute od un miglioramento della nutrizione nella popolazione umana. Il miglioramento dello stato di nutrizione di una popolazione è solo uno dei molti componenti di un com-
plicato sistema che collega la cultura, l’ambiente, la salute. Un cambiamento dell’alimentazione può dare dei vantaggi, ma non è automaticamente certo, come dimostrano alcuni esempi divenuti ormai classici e, primo tra tutti, quello della pellagra da alimentazione unilaterale con mais. Inoltre l’agricoltura ha portato malattie, infettive e non, prima di scarso rilievo nelle specie umane, ma oggi all’attenzione dei ricercatori e delle quali si sono occupati diversi studiosi: tra i più recenti Grmek (1985) e Diamond (2000). Modificazioni degli alimenti, della dieta e riduzione della biodiversità alimentare Nonostante possa apparire sconcertante, la produttività alimentare attraverso l’agricoltura e l’allevamento non è un “peccato” moderno, ma è alla base delle tecnologie (oggi definite veterotecnologie o, meglio, vetero-biotecnologie) che hanno portato ad un sistema che, nel bene e nel male, ha permesso all’umanità di superare i sei miliardi d’individui. In periodi di fame, che riguardano ancora una rilevante percentuale della popolazione, l’obiettivo predominante è stato d’aumentare la quantità di cibo. Al di fuori di sogni o d’ideologie che non corrispondono alla realtà, la qualità del cibo e soprattutto la sua adeguatezza ad una corretta nutrizione umana era marginale. Secondo una “regola” abbastanza credibile, ci s’interessa della qualità degli alimenti solo quando una classe sociale od una popolazione si è liberata dalla fame, disponendo di almeno tremila chilocalorie lorde giornaliere. Non ci si deve quindi stupire che la produzione d’alimenti tramite l’agricoltura e l’allevamento abbia fornito all’uomo cibi diversi da quelli che aveva utilizzato nel corso di tutta la sua vita di specie o delle specie che lo avevano preceduto (Non bisogna dimenticare che tra l’uomo moderno e lo scimpanzè, che non è un suo antenato ma un suo collaterale, le differenze genetiche sono solo dell’uno per cento). 56
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Le modificazioni più importanti, se non drammatiche, connesse all’agricoltura ed allevamento riguardano tre ambiti: alimenti, dieta, biodiversità alimentare.
come ancor oggi negli animali selvatici, erano abbastanza sviluppate, con comportamenti che rimangono, ma sono molto attenuati. Oggi, invece, la dieta è determinata da una folla di condizionamenti culturali e la grande, se non illimitata disponibilità d’alimenti del tipo più gradito (grassi, dolci, salati ecc.) ha trasformato le fami specifiche (voglia di grasso, voglia di dolce, voglia di salato, voglia d’acido) in trappole pericolose e, nel lungo periodo, anche mortali.
Modificazioni degli alimenti - Non è facile comprendere le diversità che vi sono tra la composizione degli alimenti selvatici e quelli dell’agricoltura e dall’allevamento. Gran parte dei consumatori moderni non conosce o non gradisce il selvatico, che spesso considera cattivo, puzzolente, troppo forte e così via. Basta l’esempio della carne di cinghiale, che oggi è accettata in quanto, almeno in Italia, gran parte degli animali hanno una ridotta selvaticità, avendo subito incroci con animali domestici ed un’alimentazione basata non solo sui frutti del bosco, ma anche da coltivazioni agricole (patate, mais ecc.) che questi animali hanno imparato a devastare. In linea di massima, nelle produzioni agricole e zootecniche è aumentata la quota d’amido, zuccheri semplici e grassi di deposito (non di struttura) scarsamente presenti in ciò che era raccolto o cacciato dalle popolazioni paleolitiche e neolitiche. È drasticamente diminuita la quantità di fibra alimentare, insolubile e solubile, che tanta importanza ha nel corretto funzionamento del grosso intestino e per il metabolismo energetico. Sono diminuite le molecole aromatiche, che danno sapore, sono dotate d’importanti attività biologiche e sono inquadrate tra le “molecole strategiche”: vitamine, antiossidanti, bioregolatori ormonali ecc.
Riduzione della biodiversità alimentare - Oggi siamo divenuti particolarmente attenti alla biodiversità vegetale ed animale, ma dimentichiamo o sottovalutiamo il ruolo che la biodiversità ha avuto e deve continuare ad avere nell’alimentazione umana. Sono solo 150 le specie di piante coltivate nel mondo, su un totale di ben oltre 600.000 specie vegetali esistenti. Delle specie coltivate solo 30 producono il 95% del fabbisogno umano di calorie e proteine ed il 60% dei nostri alimenti deriva da tre di queste: riso, mais, frumento. La drastica perdita della biodiversità alimentare umana ha una grande importanza economica: una crisi nella produzione di una di queste coltivazioni avrebbe conseguenze planetarie gravissime. Inoltre, le necessità nutrizionali umane sono complesse e non vi è nessun alimento che, da solo, possa soddisfarle. Il problema era stato risolto dalla selezione naturale anche attraverso alcuni comportamenti. È da ripetere che, dopo le scoperte di Konrad Lorenz, i comportamenti, anche quelli alimentari, sono da considerare quasi come organi e come questi, almeno in parte, oggetto di selezione naturale e d’ereditarietà. Il comportamento alimentare umano è di tipo continuo, variato e guidato da alcune fami specifiche (già considerate). Nell’uomo vi era e permane il comportamento di alimentarsi in continuazione, con tantissimi, piccoli pasti, e con i cibi più diversi. L’uomo mescolava alimenti vegetali e animali, in relazione al momento stagionale
Modificazione della dieta – L’alimentazione dell’uomo cacciatore e raccoglitore, come quella dei suoi antenati, a cui si è già accennato, era variata, nel corso della stessa giornata, settimana, mese ed anno. La dieta era determinata dalla disponibilità degli alimenti, in base al territorio che continuamente variava con le migrazioni umane ed il cambiare delle stagioni. La dieta era guidata dalle fami specifiche che nell’uomo primigenio, 57
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Alcuni numeri dell’agricoltura mondiale (Fonte: elaborazione dati IPGRI e FAO 2001 - Castelnuovo, 2001) Le piante • 600.000 le specie vegetali conosciute (selvatiche o coltivate) e raccolte nella Banca Dati dell’IPGRI (Istituto Internazionale per le Risorse Fitogenetiche) • 7.000 le specie vegetali usate in alimentazione umana. • 3 coltivazioni (frumento, riso e mais) forniscono il 60 per cento delle calorie nella nutrizione di tutti gli abitanti della Terra. Seguono le banane e le patate. La biodiversità vegetale e l’ambiente • Perdita di biodiversità nel pianeta: 2 per cento l’anno. • 10 le varietà di frumento coltivate oggi in India, contro le 30 di 50 anni fa. • Previsione di perdita di biodiversità nelle foreste: 2 - 8 per cento nei prossimi anni. • 5 - 7 milioni d’ettari sottratti ogni anno all’agricoltura. • 300.000 ettari di foresta distrutti o degradati ogni anno. I bisogni alimentari umani • 8 milioni di persone nei paesi industrializzati e 26 milioni di persone nei paesi in transizione soffrono di denutrizione • Nei prossimi 50 anni le derrate alimentari dovranno aumentare del 25% per cento per soddisfare i bisogni di circa 9 miliardi di persone. • Nei paesi industrializzati almeno un quarto della popolazione è sovralimentata (soprappeso ed obesità)
ed al territorio, che cambiava con il continuo migrare, non raramente ciclico, il tutto guidato dalle fami specifiche. Tra queste vi era e permane la ricerca dell’energia nel grasso soprattutto dolce (richiamo al latte, anche attraverso un imprinting alimentare) e la ricerca del salato, mentre sono ancora discusse le fami specifiche per taluni minerali ed anche per l’acido. In questo modo si ottenevano i seguenti vantaggi. • Introduzioni di piccole quantità di singoli alimenti che, se avevano caratteri avversi, non erano d’entità tale da dare sostanziali disturbi. Anche in alimentazione vale il principio che sola dosis facit venenum. • Contestuale introduzione d’alimenti diversi, con loro intersupplementazione. • Alimentazione continuamente variata che permette di equilibrare eccessi o carenze momentanee ed, inoltre, di sopperire ad un metabolismo influenzato dal clima, caldo o freddo.
• Le caratteristiche, anche tossicologiche, degli alimenti vegetali sono spesso condizionate dal terreno e, fin dagli anni trenta del secolo XX, erano stati individuati i cosiddetti “orti del cancro” quando il terreno era ricco di particolari minerali, ad iniziare dall’arsenico. Nell’uomo cacciatore e raccoglitore, in perenne migrazione, questi rischi erano controllati dal cambiare dei terreni di raccolta. Famiglia allargata ed infezioni alimentari Ogni concentrazione d’animali è seguita da malattie e la stretta convivenza degli uomini con gli animali addomesticati facilita le trasmissioni infettive. Non deve stupire, se lo storico delle malattie dell’uomo Mirko D. Grmek, ha affermato che le malattie umane provengono dall’agricoltura e dall’allevamento del bestiame. In modo analogo, Diamond (2000) considera le malattie infettive umane come Il Dono Fatale del Bestiame. 58
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Due affermazioni che, come tutte quelle nette e definite, hanno del vero e del falso. Affermazione che hanno spinto a ricerche che stanno dando risultati interessanti, in particolare quelle che riguardano la ricostruzione degli alberi genealogici delle specie batteriche causa d’infezioni comuni all’uomo ed agli animali. Mai come oggi ci si è resi conto che, se le ricerche sul genoma possono aiutare a comprendere il presente ed a progettare un futuro, sono assolutamente indispensabili per interpretare il passato. Il problema delle infezioni, e tra queste quelle alimentari, è molto complesso e può essere schematizzato come segue. 1. La concentrazione di molti animali della stessa specie o di specie affini, come pecore, capre, buoi e vacche, bufali, tutti ruminanti, facilita successivi e rapidi passaggi degli agenti infettivi da un animale ad un altro, con un aumento del loro potere patogeno (virulentazione). 2. Le condizioni d’allevamento e soprattutto una nutrizione animale inadeguata diminuiscono le resistenze organiche e permettono l’insorgere d’infezioni da microrganismi opportunisti. 3. Negli allevamenti vengono a mancare molti dei meccanismi di controllo nella trasmissione d’infezioni tramite vettori (parassiti), che in condizioni naturali mantengono bassa la quantità d’infezione trasmessa (anche per le infezioni vale il principio della dose). 4. In linea di massima, con l’evoluzione naturale ed attraverso diversi meccanismi, in ogni specie animale si sviluppa un equilibrio con le infezioni alle quali la specie è esposta. La contestuale presenza, in una stessa comunità, d’animali di differenti specie e con patrimoni infettivi diversi, facilita il passaggio d’infezioni tra gli animali, ma soprattutto tra questi e l’uomo. Da qui l’origine di molte zoonosi (infezioni comuni agli animali ed all’uomo) e di malattie, quali tubercolosi, brucellosi ecc.
5. La coesistenza in luoghi e tempi ristretti d’infezioni diverse, permette anche l’ibridazione tra i microrganismi e la formazione di nuove varianti genetiche, quindi di nuove infezioni. Un fenomeno, quest’ultimo, ben studiato per le infezioni influenzali, nelle quali sono coinvolti virus tipici d’uccelli migratori selvatici, uccelli domestici, maiali e uomini che vivono in stretto contatto, ad esempio sulle foci dei grandi fiumi asiatici. 6. La concentrazione d’animali e uomini, nella famiglia allargata dell’allevamento divenuto rapidamente stanziale, comporta una concentrazione fecale inusuale. Consegue una trasmissione infettiva attraverso l’acqua inquinata dalle deiezioni animali ed umane, con rischi ulteriormente aumentati dalla concimazione ed irrigazione. Da qui la facilitazione d’infezioni intestinali e d’origine alimentare, oggi inquadrate tra le foodborne diseases. 7. Anche nelle città primitive e di dimensioni limitate, vi erano condizioni di promiscuità tra uomini ed animali e affollamento umano, associati a cattive condizioni igieniche (fecalizzazione ecc.) favorevoli alla diffusione d’infezioni e soprattutto di foodborne diseases. Principali infezioni umane derivate dagli animali
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Malattia umana
Infezione animale
Morbillo
Peste dei ruminanti Cimurro del cane
Tubercolosi
Micobatteriosi dei ruminanti
Vaiolo
Vaiolo vaccino, vaiolo d’altri animali
Influenza
Influenza aviare (Peste aviare classica)
Plasmodiosi (Malaria)
Plasmodiosi dei primati
AIDS
Retrovirosi dei primati
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L’invenzione delle veterobiotecnologie della cucina Sulla base dell’idea di Grmek (1985) per l’agricoltura e di quanto mostrato anche dalle indagini citate da Diamond (2000), oggi stiamo intuendo che uno dei maggiori pericoli nutrizionali è la ridotta biodiversità alimentare. Per dare una risposta ai problemi della ridotta biodiversità alimentare, contemporaneamente all’agricoltura l’umanità ha sviluppato il trattamento degli alimenti, dando vita alla cucina. Questa migliora l’utilizzazione dei principi alimentari contenuti nei cibi, inattiva molti fattori antinutrizionali, tossici o sgraditi, libera elementi nutrizionali importanti (ad esempio la cottura a secco in ambiente alcalino trasforma la trigonellina del mais in vitamina PP) e facilita le intersupplementazioni Sviluppando quanto già visto sull’origine della cucina, sono necessarie alcune precisazioni. Se il frumento è carente di taluni aminoacidi, l’unione nello stesso piatto con leguminose migliora sensibilmente il valore nutritivo. La zuppa di lenticchie (non solo lenticchie!) d’Esaù, già ai tempi biblici era una raffinatezza alimentare. In modo analogo la puls romana ed i tradizionali minestroni medievali di cereali a grani minuti e grossi, con leguminose e tante erbe rappresentavano sistemi di completamento ed equilibrio alimentare. Con la cucina è possibile, nello stesso piatto o pasto, avere un buon equilibrio nutrizionale, associando alimenti vegetali ed animali. Sviluppare un’agricoltura significa diventare sedentari e avere raccolti in certi mesi dell’anno e non in altri. Furono necessari sistemi di conservazione degli alimenti e non è certamente un caso che nelle città più antiche, una di queste Gerico, compaiono strutture destinate a conservare il frumento, l’olio ed altri alimenti. La cucina non è estranea ai processi di conservazione degli alimenti, tramite essiccamento, salatura e fermentazioni, con le quali si sono prodotti alimenti, ancor oggi tenuti in gran considerazione: latti fer-
mentati e prodotti caseari, vino, birra ed altre bevande alcoliche, pane, salumi, diversi vegetali fermentati. Le malattie che l’uomo ha potuto e può ancora contrarre dal bestiame allevato, anche attraverso gli alimenti, le già citate zoonosi alimentari, sono contrastate dai trattamenti di cucina, in particolare dalla cottura, essiccamento e salagione, fermentazioni. La cucina, sviluppando caratteristiche d’edonismo alimentare e quando vi sono le disponibilità, un tempo rare ed oggi sempre più ampie, soddisfa le richieste del gusto, in misura che va ben al di là delle necessità fisiologiche. Se la cucina è mal usata, quindi è una malacucina, provoca danni, causando le cosiddette malattie da eccessi o del benessere, giustificando l’antico detto che ne uccide più la gola della spada e che i cuochi procurano il lavoro ai medici. L’agricoltura e l’allevamento hanno dato avvio alla prima e più importante rivoluzione alimentare, che ha completamente cambiato la vita dell’uomo ed ha permesso lo sviluppo numerico della specie. La cucina che si è formata con l’agricoltura e si è dimostrata capace di controllare rischi derivanti all’uomo dagli alimenti agricoli e dall’allevamento, quando è mal usata può causare eccessi e, divenendo una malacucina, provocare le patologie del benessere. Bibliografia Anonimo. Cereali, carne di cervo e di capra l’ultimo pasto dell’uomo di Similaun. La Repubblica, 17 settembre 2002, p. 24 AA. VV. L’alimentazione nell’antichità. Parma, 2-3 maggio 1985. Cassa di Risparmio di Parma, Parma, 1985 Alciati G., Fedeli M., Pesce Delfino V. La malattia dalla preistoria all’età antica. Laterza, Roma Bari, 1987 Ammerman A.J., Cavalli Sforza L.L. Mesuring the rate of spread of early farming in Europe. Man, 6, 574-688, 1971 Ammerman A.J., Cavalli Sforza L.L. La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa. Boringhieri, Torino, 1986
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Quale alimentazione umana?
catori che si pone in una situazione intermedia, ritenendo che l’uomo primitivo fosse onnivoro e che utilizzasse una relativamente equilibrata miscela d’alimenti d’origine animale e vegetale (Teleki, 1973, e molti altri, tra i quali l’autore di questo libro). Fino a poco tempo fa i reperti archeologici usati per sostenere l’una o l’altra delle idee guida su esposte avevano il grave difetto d’essere incompleti e soprattutto selettivi. Oggi però le cose sono cambiate ed attraverso indagini dettagliate si può ricostruire la dieta dei nostri antenati, soprattutto di quelli della nostra specie, l’uomo di Cro Magnon od Homo sapiens sapiens. Abbastanza agevole è una conservazione di resti d’ossa, denti e chitina, mentre i tessuti animali e vegetali vanno perduti nella loro quasi totalità, salvo casi eccezionali. Sulla base dei resti alimentari è praticamente impossibile una dettagliata e precisa valutazione della composizione della dieta dell’uomo primitivo. Non mancano tuttavia le sorprese, come quelle dell’uomo di Similaun, che ci è arrivato conservato dai ghiacci alpini e del quale conosciamo la composizione degli ultimi due pasti (Rollo e coll., 2002). Moderne metodologie d’indagine molto raffinate, applicate alla paleozoologia, paleobotanica, paleoclimatologia, paleopatologia aiutano nella conoscenza della nutrizione umana antica. All’alimentazione dei nostri antenati si sono dedicati diversi ricercatori, tra i quali sono da ricordare Archer e coll. (2001), Carpenter (1992), Cunnane e coll. (1993), Delluc e coll. (1995), Eaton S. Boyd da solo e con collaboratori (1985, 1988, 1990, 1991, 1992, 1997, 2000, 2001), Peleg (1994), Richards (2002), Sebastian e coll. (2002), Simopoulos (2001), Ulijaszek (2002) ed altri, ai quali si rimanda per ulteriori approfondimenti. Sulla base degli elementi che si sono accumulati, unitamente ad una serie d’argomenti di morfologia comparata, si deve ritenere che gli uomini primitivi in generale avessero una dieta non specializzata (Benz, 1980) e soprat-
Qual è la corretta alimentazione dell’uomo e quali i moventi che l’hanno indirizzata? Molte teorie sono state avanzate, ma tutto converge verso un’onnivorità umana, biologica e culturale e l’idea evoluzionista si sta dimostrando la più efficace per comprenderle. Nella storia della vita, la specie umana ha sviluppato la cultura alimentare, che non può dimenticare come alcuni comportamenti umani siano ereditari. L’alimentazione culturale ha accelerato l’evoluzione umana, ma ha anche dato avvio a gravi e pericolosi squilibri in relazione all’ineliminabile patrimonio genetico. La cucina, tipica espressione della cultura umana, deve essere considerata quale indispensabile collegamento tra una biologia fissa ed una cultura innovativa.
Evoluzione dell’alimentazione umana Con lo studio di cibi popolari e di schemi alimentari semplici e largamente diffusi, risalendo nel tempo è facile arrivare ai limiti della storia. È il caso della carne arrostita, del pane, vino e birra, del latte e formaggi, e così via. Accanto al problema di come tali cibi si siano mantenuti per millenni e del come e perché si siano modulati in una quasi infinita varietà, vi è quello di come la specie umana abbia sviluppato la propria alimentazione. Oltre a quanto già considerato, è opportuno riconoscere che nei riguardi dell’evoluzione dell’alimentazione umana si sono andate delineando due idee guida. La prima suppone che gli uomini primitivi ed i loro antenati fossero prevalentemente carnivori (Hamilton e Busse, 1978). La seconda idea guida, all’opposto, ritiene che gli uomini primitivi, ma soprattutto gli ominidi ed i preominidi fossero prevalentemente vegetariani ( Jolly, 1970, Consiglio e Siani, 2003). Come in altri casi non manca una notevole schiera di ricer63
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tutto che fossero degli onnivori (Delluc e coll., 1995). L’Homo sapiens, sia il neaderthalensis che il sapiens o Cro Magnon, è un onnivoro, carnivorano e vegetariano al tempo stesso. È inoltre un onnivoro al tempo stesso “biologico” e “culturale”. Se le basi e le componenti biologiche dell’onnivorità biologica sono state ben studiate, non altrettanto è avvenuto per l’onnivorità culturale. In una prospettiva onnivora, sono da considerare l’alimentazione carnivora e vegetale dell’uomo. Nella stessa prospettiva è importante considerare anche la nutrizione del cervello, che l’uomo ha sviluppato in misura molto superiore a tutte le altre specie (Rossi, Rossi e Prosperi, 2003). Secondo le ultime ricerche, il cervello dell’uomo si è evoluto e può funzionare in modo ottimale in rapporto alla presenza, nella sua alimentazione, d’acidi grassi a lunga catena e di adeguate proporzioni di acido arachidonico ed acido decosaeseonico (DHA), presenti in una alimentazione onnivora, con presenza d’animali terrestri e marini.
ne od ormoni, e fitormoni che interferiscono con gli equilibri ormonali umani. La cottura neutralizza la maggior parte delle proprietà negative dei vegetali, ma la cottura dei vegetali è relativamente recente ed alcuni studiosi la datano a non più di trecentomila anni fa, ma è probabile sia molto più recente. Se datiamo l’origine degli ominidi e dei preominidi a circa due milioni e mezzo di anni fa, per circa l’ottanta per cento della sua vita sulla terra queste specie non hanno avuto a disposizione il fuoco per preparare cibi vegetali. Una condizione che deve tenere conto della già più volte richiamata biodiversità alimentare e delle piccole quantità d’uso di ciascun vegetale. Più recentemente, alcuni ricercatori americani (Leonard, 1994 e 2003) hanno sostenuto che l’aumento di volume del sistema nervoso centrale, in particolare del cervello, non potè avvenire fin a che gli ominidi non adottarono una dieta sufficientemente ricca di calorie e comprendente particolari sostanze nutritive, tali da soddisfare gli aumentati costi energetici assorbiti dal cervello e dalla posizione eretta. Non è da sottovalutare che nell’uomo a riposo il cervello utilizza il 2025% dell’energia metabolica (basale), mentre nei primati non umani questa percentuale è solo dell’8-10% e non supera il 5% negli altri animali. Studi comparativi indicano anche che i primati con il cervello più grande (relativamente al peso corporeo) si nutrono d’alimenti più ricchi. L’uomo ha il cervello di maggiori dimensioni e per questo ha necessità di una dieta con alimenti d’origine animale. Le popolazioni di cacciatori e raccoglitori giunte fino ai nostri giorni, ricavano il 40-60 per cento dell’energia da alimenti d’origine animale (carne, pesce, uova insetti e molluschi ecc.), contro il 5-7% degli scimpanzè. Gli alimenti d’origine animale, a parità di peso, contengono molte più calorie e sostanze nutritive di quelli vegetali che si trovano in natura. Ad esempio 100 grammi di muscolo (carne magra) forniscono circa
L’uomo è un carnivorano Diverse caratteristiche anatomiche e fisiologiche umane sono quelle, già citate, comuni ai mammiferi carnivorani: denti incisivi e canini, stomaco relativamente piccolo ecc. Non è da sottovalutare, inoltre, la “fame di carne” che si manifesta in tutte le società umane, anche primitive. Il ruolo della carnivorità in relazione all’evoluzione umana, è stata recentemente analizzata in dettaglio da Mann (2000). Il principale argomento a favore della tesi di una dieta prevalentemente carnivorana, tuttora controversa, è stato discusso nel periodo passato da Leopold e Ardrey (1972) e si basa sulla tossicità di molti vegetali. Una tesi recentemente riconsiderata da Diamond (2000). Molte piante selvatiche sono tossiche per l’uomo, a causa della presenza d’allergeni, inibitori d’enzimi digestivi, sostanze irritanti o tossiche, antagonisti delle vitami64
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180 chilocalorie, ma se la carne è grassa le calorie possono anche raddoppiare. La stessa quantità di frutta e di foglie contiene rispettivamente solo 50-100 o 10-20 chilocalorie. Una dieta basata su carne d’animali selvatici, in associazione a vegetali, questi ultimi in piccole quantità, ma con un’elevata varietà, può essere sana, per questo si può supporre che l’introduzione delle piante, su di uno schema d’alimentazione carnivora, sia avvenuto lentamente, a seguito di lunghe prove di tentativi ed errori, sotto la spinta di pressanti necessità, ad esempio carestie. In quest’orientamento può anche essere incluso l’uso dei cereali abbrustoliti o tostati e la fermentazione dei vegetali che, eseguita dentro all’organismo come nei ruminanti, o al di fuori come l’uomo che ha elaborato una serie d’alimenti fermentati, distrugge parte degli elementi tossici o negativi presenti negli alimenti vegetali. Coloro che ritengono che l’uomo fosse prevalentemente carnivorano - tra questi anche Diamond (2000) - pensano anche che l’uomo, almeno in talune condizioni ambientali, possa avere provocato una più o meno completa distruzione della fauna selvatica, precludendo anche una successiva, possibile domesticazione degli animali. L’idea che l’alimentazione dell’uomo fosse prevalentemente carnivora pone il problema della sicurezza degli alimenti d’origine animale. Nonostante le paure che recentemente si sono diffuse per le carni, gli alimenti ottenuti dagli animali sono da ritenere sufficientemente sani. In una concezione evoluzionista non bisogna escludere che nel corso dei tempi vi sia stata anche un’evoluzione della resistenza verso le malattie trasmesse con le carni (foodborne diseases). In linea di massima, quest’evoluzione potrebbe essersi svolta secondo due linee, con una premessa, che riguarda il tipo di malattie trasmissibili con gli alimenti d’origine animale. Non è, infatti, possibile riportare al passato la situazione odierna. È anche da ritenere che nel passato
gran parte delle attuali infezioni alimentari non esistessero e che siano state amplificate e create, sia dall’allevamento del bestiame, sia dalla conservazione degli alimenti. Una resistenza della nostra specie alle infezioni presenti negli alimenti d’origine animale potrebbe essere derivata dalla selezione di linee genetiche umane resistenti alle infezioni presenti negli animali più frequentemente cacciati. Un meccanismo che, pur con certi limiti, pare avere una certa importanza. Ad esempio i canidi non sono stati interessati alla trasmissione della BSE (Encefalopatia Spongiforme Bovina) mentre ne sono stati interessati i gatti. I canidi hanno da sempre cacciato i ruminanti e se ne sono cibati, non i gatti, per i quali i grandi ruminanti sono un alimento biologicamente nuovo. Si potrebbe quindi ritenere che i canidi abbiano subito una selezione che ha eliminato le linee genetiche sensibili alla BSE, il che non sarebbe avvenuto per i gatti. In modo analogo può essere avvenuto per molte altre infezioni. Una seconda via di resistenza è quella di una tolleranza immunologica del feto, e di una sorta di vaccinazione naturale del neonato verso le infezioni presenti negli animali. Per il neonato bisogna considerare due meccanismi che si attivano nella lunga fase d’alimentazione con il latte materno (in condizioni naturali, primi quattro anni di vita). Il primo è costituito dall’assunzione di piccole cariche infettanti, in relazione al tipo d’alimentazione del neonato e poi del bambino. Il secondo meccanismo è quello dell’assunzione di cariche infettanti, assieme ad una protezione degli anticorpi contenuti nel latte materno. Un aspetto particolare del carnivorismo umano è il cannibalismo. Un’idea che per lungo tempo è rimasta nell’ombra, forse per la paura d’evocare un peccato d’origine o di distruggere il mito di una passata età felice. Indizi di cannibalismo nei fossili umani erano rari, ma con la ricerca sono divenuti più frequenti ed oggi è chiaro che questa pratica ha radici profonde nella nostra storia. At65
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tualmente il cannibalismo ancestrale è sempre meno un’ipotesi ed è sempre più una realtà, tanto che recentemente White (2001) non ha avuto paura di intitolare un suo articolo “Quando eravamo cannibali”. La ricerca d’indizi di cannibalismo si basa sull’analisi di resti ossei che presentano tracce di macellazione e cottura: segni di taglio, martellature, fratture, aperture del cranio o bruciature postmortali. Criteri archeologici rigorosi hanno anche permesso d’associare a pratiche di cannibalismo resti umani del sito archeologico di Gran Dolina, in Spagna, della grotta di Moula-Guercy, vicino Marsiglia, e del sito Anasazi di Mancos Canyon, in Colorado (White, 2001; Osborne, 1997).
Le società umane primitive devono aver sviluppato meccanismi per sceverare, nel vastissimo mondo dei vegetali, quanto è sicuro dal pericoloso. Un processo avvenuto in un lunghissimo periodo di tentativi, prove ed errori, durante il quale molti individui hanno sofferto d’avvelenamenti o fenomeni tossici. Quando una pianta era identificata come sana o sicura, l’informazione era trasmessa anche attraverso il linguaggio. È questa un’ipotesi non irreale, in quanto ha anche un appoggio nell’alimentazione comparata. In questo modo le colonie di ratti, ma anche di molti animali onnivori, inseriscono nella loro alimentazione alimenti nuovi e ne trasmettono l’uso alla propria colonia, con un meccanismo culturale di trasmissione delle informazioni. Le cose non sono però semplici, come potrebbero apparire. Le società primitive che esercitavano la caccia, ma soprattutto la raccolta, non rimanevano ferme in un territorio. Ad esempio il continente americano fu popolato dall’uomo in un tempo relativamente breve. Tra l’Alaska, da dove gli uomini penetrarono nel Nuovo Mondo tramite il ponte di terre emerse che lo univa all’Asia, alla Terra del Fuoco vi è una distanza di circa ventiquattromila chilometri, con un’enorme varietà d’aree climatiche, zone vegetali e nicchie ecologiche botaniche. La diffusione umana nel continente americano si ritiene sia stata relativamente rapida, nell’ordine di migliaia d’anni. Se l’ipotesi di prove e tentativi è corretta, come hanno fatto tali popolazioni a percorrere una così gran distanza, mantenendo un’alimentazione vegetale stabile e sicura? Per rispondere a questa domanda sono stati intrapresi due ordini di ricerche. Il primo riguarda i primati selvatici ancora esistenti e nei quali è stata studiata l’alimentazione in condizioni che si suppongono simili a quelle degli ominidi. Il secondo ordine di ricerche concerne i comportamenti alimentari di società contemporanee di cacciatori e raccogli-
L’uomo è un vegetariano Almeno in parte la morfologia umana della mandibola e dei denti molari è a favore di quest’ipotesi. È anche da ricordare il buon sviluppo del grosso intestino, deputato alla fermentazione degli alimenti vegetali, anche se non paragonabile a quello degli animali erbivori, come tra l’altro testimonia nell’uomo la scomparsa dell’intestino cieco, ridotto alla vestigia d’appendice. I già citati Leopold e Ardrey (1972) hanno sollevato il problema della sicurezza degli alimenti in relazione all’evoluzione della dieta dell’uomo primitivo, considerando in modo particolare quelli vegetali. Come hanno fatto gli uomini primitivi a far evolvere nel senso della sicurezza la loro dieta? Un aspetto che, recentemente, è stato esaminato e discusso anche da Diamond (2000). Nonostante molte piante tossiche siano amare e quindi facilmente identificabili, ve ne sono molte che, pur essendo tossiche o dotate d’effetti negativi, sono di buon sapore e ben palatabili. D’altra parte, il solo sapore amaro non impedisce di mangiare piante tossiche ed il fatto che ogni anno si verifichino casi d’avvelenamenti di bambini che mangiano piante ornamentali tossiche ne è una conferma. 66
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tori, analizzando come risolvono il problema alimentare, mantenendo un soddisfacente stato nutrizionale.
sembra essere stata di tipo prevalentemente frugivora. Alimentazione dei popoli cacciatori e raccoglitori Numerose sono le ricerche eseguite sui popoli che fino a tempi recenti praticavano la caccia e la raccolta e sono da ricordare gli ancora validi lavori di Lee (1979), Lee e De Vore (1968), Marshhall (1976). Una recente rassegna è stata compiuta da Diamond (2000) e da Leonard (2003). Da non dimenticare le indagini sull’alimentazione dell’uomo paleolitico, in parte già citate, di Broadhurst (1997), Cordain e coll. (2000), Eaton e coll. (1985, 1997, 1998), Hallberg e coll. (1998), Mann (2000). Tutte le ricerche smentiscono l’ipotesi che nelle società primitive la ricerca del cibo occupasse gran parte del tempo e che pertanto non ne restasse per compiere innovazioni, invenzioni od anche una semplice specializzazione. Le ricerche di Hiatf (1967), Lee (1965), Lee e De Vore (1968) hanno dimostrato che ben poco tempo è impiegato per la caccia effettuata dai soli maschi, mentre le donne si dedicano alla raccolta dei vegetali, per cui tre, quattro giorni per settimana sono completamente dedicati al riposo ed allo svago. Nei popoli di cacciatori e raccoglitori si può rilevare che la settimana lavorativa è di tre, quattro giorni e più breve di quella che oggi è denominata settimana corta. Ritorna quindi la questione del perchè l’uomo ha addomesticato le piante e gli animali, inventando l’agricoltura e l’allevamento, da dove ora deriva gran parte, se non la quasi totalità dell’alimento. La risposta più probabile è quella già data della ricerca di sostanze psicoattive.
Alimentazione dei primati in libertà Di questo argomento si sono recentemente occupati Consiglio e Siani (2003). Dalle ricerche di Hamilton e Busse (1978) risulta che i baboni in libertà preferiscono la carne più d’ogni altro alimento; secondariamente si rivolgono a frutta, semi e germogli e solo da ultimo alle erbe e foglie. I vegetali che non sono accettati come cibo, sono graditi se previamente abbrustoliti, ad esempio per un incendio. I baboni tendono a mangiare - se ve ne è a sufficienza - un unico cibo e non gradiscono la varietà d’alimenti. Inoltre amano sia il dolce sia l’acido e nell’accesso al cibo analogamente ad altri animali con vita sociale - stabiliscono delle gerarchie. Molto importante è che in ben tre anni d’osservazioni non è mai stato visto che adulti, maschi o femmine, dessero da mangiare od imboccassero i giovani, ad eccezione dell’allattamento. Non si sono ottenuti elementi a favore del fatto che gli schemi alimentari dei giovani dipendessero dall’osservazione degli adulti. È tuttavia noto che giovani scimmie possono insegnare a coetanee la pratica di bagnare con acqua salata le patate dolci. Non è in ogni modo chiaro come possa avvenire la trasmissione da una generazione all’altra delle nozioni relative la sicurezza o pericolosità dei cibi. D’altra parte si tratta di un problema molto generale, che almeno per altre specie, ad esempio i topi ed i ratti, ha avuto parziale spiegazione - almeno così è da alcuni ritenuto - attraverso segnali chimici veicolati dal latte materno. In questo sono contenuti taluni sapori ed aromi derivanti dal tipo d’alimentazione della madre, che condizionano il piccolo nelle sue successive scelte alimentari. Come si può supporre anche per quanto osservato in specie affini, i primati, la componente alimentare vegetariana dell’uomo
L’uomo è un onnivoro biologico, ma soprattutto culturale Recentemente Delluc e collaboratori (1995) hanno discusso le prove a favore di un’alimentazione onnivora dell’Homo sapiens, sia H. s. neanderthalensis sia H. s. sapiens o Cro 67
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Magnon, la nostra specie, raggruppandole in cinque ordini d’argomenti principali: 1. Caratteristiche dei denti, atti a triturare, strappare, tagliare. 2. Risultati delle ricerche riguardanti il tipo d’usura dei denti. 3. Risultati delle determinazioni degli isotopi del carbonio e dello stronzio nelle ossa umane fossili. 4. Resti d’alimenti o di loro parti negli insediamenti umani, ivi compresi le deiezioni fossili (coproliti). 5. Tipo d’utensili e tracce da loro lasciate, ad esempio sulle ossa, sia animali che umane (cannibalismo). Le prove di un’alimentazione onnivora danno una base biologica a questa caratteristica. Un esame della nostra attuale alimentazione, ma soprattutto di quanto è avvenuto con l’invenzione dell’allevamento e dell’agricoltura, si ricava dalla comparazione degli stili alimentari umani, e permette d’inquadrare l’alimentazione onnivora umana nell’ambito di una duplice dimensione culturale: alimentazione conservativa ed alimentazione innovativa. Alimentazione conservativa. L’uomo è un conservatore, ha costruito e sviluppato tradizioni che danno sicurezza biologica, ma soprattutto psicologica. L’alimentazione conservativa o tradizionale ha inoltre un taglio localistico e femminile. Alimentazione innovativa. L’uomo è un innovatore che in condizioni difficili, ma non solo in queste, cerca strade nuove, anche alimentari. Una ricerca cauta attraverso prove e tentativi, deriva all’uomo anche dall’eredità di corridore e di migratore e con taglio maschile. La caratteristica culturale dell’onnivorismo umano spiega la gran varietà dei costumi alimentari che l’uomo ha inventato e sviluppato, nonostante l’unità biologica della specie. Una varietà che ha indotto a sviluppare quella branca dell’alimentazione culturale che è la cucina, sublimata nella gastronomia,
nella quale agli aspetti nutrizionali si sovrappongono quelli culturali. Alimentazione tra biologia e cultura La storia della vitamina D e dello yogurt insegnano come il cambiamento di uno stile di vita (migrazione umane verso regioni con poco sole) o degli stili alimentari (biotecnologia dei latti fermentati) possano modificare la biologia umana, fino a favorire la selezione di varianti genetiche. Anche se in tempi che a noi paiono lunghissimi, la specie umana - e non poteva essere diversamente evolve sotto l’aspetto biologico, ma soprattutto culturale. Biologia e cultura sono espressioni della vita, ma bisogna tenerle distinte, anche per il fatto che per lunghissimi periodi la vita ha avuto espressioni soltanto o quasi esclusivamente biologiche, mentre manifestazioni culturali sono relativamente recenti e riguardano una limitata percentuale di specie. Un intreccio tra biologia e cultura, quest’ultima intesa come trasmissione di conoscenze e di comportamenti acquisiti, esiste anche negli animali. Animali di numerose specie sono dotati di significativi livelli di cultura ed oltre centocinquanta sono le specie che Danilo Mainardi ha denominato “animali culturali”, dotati cioè di cultura. Negli animali culturali sono molto importanti i comportamenti alimentari appresi e trasmessi verticalmente di generazione in generazione e talvolta anche trasversalmente, pare, da animale ad animale. Come esempi di trasmissione verticale di una cultura alimentare vi sono le abitudini nella scelta dei cibi nelle colonie di ratti e l’insegnamento che la gatta impartisce ai gattini nell’individuazione e nella cattura delle prede. Negli animali culturali, rispetto alla biologia, la cultura ha sempre un ruolo minoritario, anche se non trascurabile. Da non dimenticare, infatti, che esiste un’innovazione culturale anche negli animali, come dimostra l’esempio delle scimmie che avendo imparato a salare le pa68
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me flessibili e variabili) che inducono a spostare il bersaglio delle manifestazioni comportamentali, anche alimentari, alle capacità d’apprendimento. In molte specie, ma in modo particolarmente spiccato nell’uomo, vi è una porzione del comportamento che non è sotto controllo genetico, ma è mediato e modulato, attraverso due linee principali. La prima è l’elevata capacità d’apprendimento alimentare, anche attraverso il condizionamento del gusto, che caratterizza la specie umana. La seconda riguarda i canali che orientano l’apprendimento su determinati stimoli, soprattutto entro ristretti intervalli temporali. Rientra in quest’ambito l’imprintig alimentare, che dall’esterno inserisce nel comportamento alimentare del bambino ciò che anche in seguito deve essere riconosciuto buono e conveniente, oppure cattivo e sconveniente. Attraverso l’imprinting, il bambino subisce un importante orientamento, condizionamento ed educazione del gusto, che non lo lascerà per tutto il resto della vita e non sarà facile modificare. Considerando i comportamenti nell’ambito della alimentazione darwiniana, non bisogna dimenticare come abbastanza recentemente si è sviluppata anche una psichiatria darwiniana (Mc Guire e Troisi, 2003) che considera i comportamenti patologici visti sotto l’aspetto evoluzionista.
tate con l’acqua di mare, per via culturale hanno trasmesso quest’abitudine alimentare, soprattutto per via verticale. Nelle specie d’ominidi, in un lungo periodo, circa centonovantamila anni su duecentomila, pari al 95% della loro vita, la biologia più che la cultura, ha guidato l’alimentazione. Negli ultimi diecimila anni ha inoltre preso il sopravvento e, negli ultimi decenni, è divenuta predominante. Anatomia e comportamenti, tra genetica ed apprendimento L’alimentazione e la nutrizione umana sono condizionate da un’anatomia e da una fisiologia rigidamente determinate dai geni, ma anche dai comportamenti che sono in parte d’origine genetica ed in parte appresi. Per quanto riguarda l’anatomia e la fisiologia che nell’uomo determina e, o condiziona l’alimentazione, si è già accennato. Per quanto riguarda i comportamenti alimentari sono necessarie alcune precisazioni. Come ha recentemente sottolineato D. Mainardi (2001), esiste una genetica dei comportamenti. A mettere in evidenza questa genetica, con grande ispirazione, è stato Konrad Lorenz, che possedeva solide conoscenze anatomiche, quando asserì che “i comportamenti possono essere studiati come se fossero organi”. Ci si riferisce, in questo caso, ai comportamenti istintivi, a quei moduli fissi che possono essere descritti e disegnati in etogrammi, che comprendono il sistema dei comportamenti di una specie e che caratterizzano ogni specie, non esclusa quella umana. I moduli fissi comportamentali, anche di tipo alimentare, comprendono quelli che erano chiamati istinti, sono determinati geneticamente e risentono, ma in modo limitato, delle influenze ambientali. Si tratta dei comportamenti alimentari più avanti inquadrati come rigidi. Esistono altri, numerosi comportamenti più elusivi e meno determinati (oltre indicati co-
Cosa è determinato e cosa è variabile nel comportamento alimentare umano In relazione alla cultura è utile la già citata distinzione dei comportamenti alimentari umani in tre categorie: comportamenti rigidi, comportamenti flessibili e comportamenti variabili. Questa distinzione comporterebbe un’analisi approfondita e dettagliata, in questa sede impossibile, e pertanto bisogna limitarsi ad alcune astrazioni e schematizzazioni. Il problema è inoltre complicato dal fatto che comportamenti flessibili o variabili possono essere determinati da regole psicologiche fisse o rigide, con risultati diversi a 69
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seconda delle circostanze specifiche, nelle quali si manifestano e sono applicate. Va inoltre aggiunto che, una sia pur approssimativa classificazione dei comportamenti alimentari umani, non comporta alcun giudizio di valore e non deve far pensare che le loro conseguenze siano fisse ed intoccabili, ma anzi possono variare ed evolvere.
cultura possa attenuare od esasperare anche le tendenze più radicate nella natura umana. Comportamenti flessibili - Flessibili sono i comportamenti che manifestano una variabilità ridotta, secondo la cultura d’appartenenza. In quest’ambito si possono inserire i riti alimentari fondamentali di preparazione (cucina), d’uso (tavola) e gli stili alimentari. Fare cucina è tipico dell’umanità, ma non è facile immaginare che sia un comportamento geneticamente determinato, tanto più che la specie umana solo negli ultimi diecimila o ventimila anni ha fatto cucina (5 – 10% della vita di specie). Questo non esclude che nell’origine della cucina non siano ravvisabili delle “orme biologiche”. Non considerando il ruolo di una disposizione genetica, nell’umanità, per la ricerca di sostanze psicoattive, fare cucina significa fondamentalmente due cose: manipolare e mescolare cibi diversi e cuocere. Quasi certamente il mescolare cibi diversi è espressione di un comportamento geneticamente determinato, anche attraverso le cosiddette fami specifiche. Una mescolanza dei cibi, l’uomo ed i suoi antenati la facevano con la raccolta e soprattutto seguendo le variazioni stagionali od ambientali durante le migrazioni. Come i diversi cibi sono associati o miscelati, ha una forte valenza culturale, in relazione anche ad un gusto, che in parte sembra essere costruito dalla cultura, anche se ha certamente una base biologica e si possono ravvisare delle “orme” genetiche. Non è da dimenticare che alcuni gusti, come quello d’amaro, sono biologicamente associati a rischio di tossicità. Fin dall’antichità si era rilevata la gran differenza alimentare nelle diverse culture umane e vi è stata la tendenza a pensare che i costumi alimentari umani siano relativi alla cultura. In quest’ordine d’idee è stata interpretata la rigidità di taluni costumi alimentari umani nel corso delle migrazioni o di trasferimenti, con la produzione d’alimenti in ambienti nuovi ed anche, entro certi limiti, poco adatti. Un ti-
Comportamenti rigidi - I comportamenti rigidi manifestano una scarsa o nessuna variabilità tra una cultura e l’altra. Sono comportamenti che si collegano al fatto che siamo esseri sociali, indipendentemente dal tipo di società. Altrettanto universale è il nostro interesse per i nostri simili. La nostra disponibilità a creare legami sociali si manifesta in modo molto evidente nell’alimentazione e soprattutto nel fare cucina, un’attività sociale a diversi livelli: familiare, locale, etnica. Anche se è meno evidente, fa parte della natura umana costituire delle gerarchie e quindi sviluppare comportamenti alimentari gerarchici. Esistono ben poche società umane che non conoscono differenze alimentari di stato sociale ed ogni volta che si tenta d’abolirle, tendono a riemergere, anche se sotto diversa forma. L’alimento ed il rito alimentare, come identità, sono tipici dell’uomo ed ogni tentativo di arrivare a delle uguaglianze è destinato al fallimento. Nell’alimentazione e nell’ambito della cucina, le donne sembrano svolgere un ruolo primario con funzioni abbastanza specifiche ed in parte diverse da quelle maschili. É stato più volte segnalato che esiste una “cucina femminile” (della pentola, dei brodi e dei sughi ecc.), diversa da una “cucina maschile” (dello spiedo, degli arrosti ecc.). Questo non vuol dire che i cuochi non facciano brodi o le cuoche arrosti allo spiedo, ma esistono tendenze, correlate a maschio e femmina, che indirizzando l’alimentazione umana si trasferiscono anche alla cucina. Esistono pertanto tendenze comuni a tutta l’umanità che trascendono le differenze culturali. Questo non significa che la 70
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pico ed antico esempio è la diffusione della vite e del frumento operata dai romani, man mano che estendevano il loro dominio fino alle regioni europee più settentrionali, anche se non molto adatte a tali vegetali. Nonostante le grandi differenze nell’alimentazione delle diverse società, vi sono tuttavia dei tratti comuni nei riti alimentari fondamentali di preparazione (cucina), uso (tavola) e stili alimentari. Per quanto riguarda gli stili alimentari è evidente quello del mangiare insieme (convivio, simposio ecc.), del pasto comune come rito con importanti valenze sociali (pranzo di nozze, pranzo funebre ecc.) e religiose (pranzo sacrificale ecc.). Quanto mai flessibile è d’altra parte l’espressione del pranzo nelle diverse culture. In questa categoria va collocata l’identificazione etnica (cibo come identità culturale), a livello di famiglia, clan, popolazione. In modo analogo va interpretato il rifiuto di stili alimentari diffusi od imperanti, per esprimere una diversità individuale, singola o di gruppo, ad esempio il vegetarianismo od il veganismo, di fronte al carnivorismo.
scelta delle diverse qualità di carni od altri alimenti, influiscono il loro ruolo di status symbol o le virtù che a loro sono attribuite, in base a categorie culturali, ad esempio la distinzione tra carni bianche e rosse. L’uomo culturale e la cucina É l’uomo il più importante “animale culturale”, il vivente che ha utilizzato al massimo grado la cultura nell’adattamento all’ambiente, nella lotta per la sopravvivenza e per il suo migliore adeguamento a cambiamenti ambientali e sociali. Con la cultura, l’uomo ha modificato e modifica i propri comportamenti, ma anche e soprattutto l’ambiente in cui vive, e sopprattutto modifica il cibo. Non è un caso che l’agricoltura e l’allevamento degli animali siano state le invenzioni che hanno dato il massimo impulso all’evoluzione culturale ed hanno profondamente inciso sull’alimentazione e sugli equilibri biologici umani. La cultura alimentare non è più soltanto un aspetto marginale, ma sta divenendo un punto centrale della salute umana (biologia) e degli equilibri naturali (ecologia). Con l’avvio dell’agricoltura ed allevamento si è rotto un antichissimo ed al tempo stesso delicato equilibrio tra genetica e comportamenti umani da una parte, e disponibilità e qualità degli alimenti dall’altra. L’equilibrio tra la genetica umana e gli alimenti si potrebbe ricostruire, modificando sia gli stili di vita, sia gli alimenti ed il loro uso. Indubbiamente l’uomo deve avere uno stile di vita nel quale sia presente una continua attività fisica. Modificare gli alimenti, in tutta la gran diversità d’interventi possibili, è fare cucina e questa è stata la prima tecnologia umana, che ha superato il semplice uso di strumenti più o meno semplici, come anche qualche animale è in grado di fare. É in quest’ultimo quadro di collegamento tra il biologico ed il culturale, che s’inserisce la cucina che, di là dagli aspetti anche edonistici della gastronomia, ha un ruolo di straordinaria importanza per la salute biologica (fisica) e culturale (psichica) umana.
Comportamenti variabili - I comportamenti variabili mostrano una gran diversità, in relazione alla cultura d’appartenenza. Rientrano in quest’ambito i metodi con i quali l’uomo produce il cibo, attraverso la caccia e la raccolta, con uno stile di vita nomade e di migrazioni, o con l’agricoltura e l’allevamento degli animali, in condizioni stanziali o sedentarie. Entrano nello stesso ambito le strutture sociali, economiche e religiose che influiscono e determinano la scelta degli alimenti ed il loro uso. Se si può dire che esiste una “voglia di grasso” ed una “voglia di carne” (condizionamenti biologici fissi), variabili sono i comportamenti umani sulla scelta di quale grasso e soprattutto quale carne e quando utilizzarla, come dimostra la gran variabilità dei tabù e delle permissioni alimentari nei riguardi degli animali alimentari (puri o impuri ecc.). In modo analogo, nella 71
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Sotto l’aspetto biologico, la cucina è il punto di collegamento tra una biologia umana, relativamente statica, ed una biologia degli alimenti vegetali ed animali in rapida evoluzione. La cucina tende inoltre a contrastare i pericolosi effetti di una perdita della biodiversità alimentare. Sotto l’aspetto culturale la cucina, oltre che per gli aspetti psicodietetici degli alimenti stessi, ha un importante ruolo d’identificazione e quindi di sicurezza psicologica.
to con una migliore ed appropriata educazione alimentare? Quesito certamente giusto, ma che deve tenere conto della natura umana che, sotto l’aspetto dei comportamenti e della psicologia, non è una tabula rasa, ma è l’espressione di una genetica, per agire sulla quale è necessario applicare l’idea darwiniana. L’educazione alimentare può accettare una concezione darwiniana della psicologia (natura) umana? L’idea di una perfettibilità della nutrizione umana, senza tenere conto della componente psicologica di natura genetica, ha creato l’incubo e l’inferno delle diete, con i correlati insuccessi. Soprattutto nel settore alimentare e nutrizionale bisogna abbandonare il mito della perfezione e ripiegare su quello, realistico anche se meno gratificante, di un miglioramento, nell’ambito anche dell’applicazione, non facile, di un equilibrio tra costo e beneficio. Un’idea, quell’ora indicata, certamente poco popolare, sia a livello individuale sia collettivo e, quindi, non politica. Una totale adesione all’idea darwiniana è possibile, se si considera che il rapporto tra l’alimento e l’uomo è complesso e deve comprendere anche lo stile di vita (ambiente con tutte le sue componenti, livelli d’attività fisica ecc.), ma soprattutto la cultura che vi è strettamente connessa.
Il mito dell’alimentazione perfetta “Tutte le malattie entrano dalla bocca”, “è il cuoco che prepara il lavoro al medico” ed altri detti o proverbi, peraltro già citati, evocano un mito antico, che si rinnova continuamente. Se si mangiassero solo cibi sani e perfetti e se l’alimentazione fosse corretta vedremmo scomparire, si dice, tutte le malattie. L’idea che una parte di malattie sia dovuta ai cibi ed all’alimentazione, comprendendo ovviamente gli stili alimentari, è indubbiamente vera ed è confermata dall’evoluzione della patologia alimentare. Infatti, con una migliore sanità dei cibi, molte tossinfezioni alimentari si sono ridotte o sono quasi scomparse (quest’affermazione non contrasta con il fatto che si siano scoperte nuove infezioni alimentari, prima sconosciute, ma certamente presenti). È d’altra parte vero che nuove patologie nutrizionali stanno dilagando, ad iniziare da quelle da scorretto ed eccessivo uso di cibi sani, in base al principio che “quel che non ammazza, ingrassa”. Se un tempo per il cibo vi era un rischio tossico od infettivo, oggi, proprio perché “sano” ma mal utilizzato, il cibo ingrassa, dando avvio a nuove patologie. Ben note sono le conseguenze patologiche del sovrappeso e dell’obesità: dalle patologie metaboliche (diabete ecc.) a quelle cardiocircolatorie (infarto ed ictus ecc.) e tumorali (neoplasie mammarie, del colon ecc.) ed altre. Il problema ora indicato può essere affronta-
Nutrizione darwiniana ed antropologia alimentare Il pensiero di Charles Darwin, che spiega il progetto funzionale degli organismi, ha portato alla biologia evolutiva, quindi alla scoperta ed allo studio dei geni, ed è una delle idee capaci di modificare la scienza dell’alimentazione. Il concetto dell’adattamento, come mezzo di selezione, permette di comprendere meglio i meccanismi nutrizionali e l’alimentazione normale e patologica, i costi degli adattamenti necessari per contrastare situazioni ambientali e alimentari, gli scontri 72
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maladattativi tra il progetto animale e le condizioni ambientali e alimentari e così via. Accogliere l’idea evoluzionistica in alimentazione e costruire una Nutrizione Evoluzionista non è una nuova moda alimentare alternativa, ma è una prospettiva che non serve tanto a curare o prevenire patologie e malattie nutrizionali, ma a comprendere le cause evolutive di gran parte, se non tutti i problemi dell’alimentazione umana. La dimensione della nutrizione evoluzionista serve a comprendere l’origine evolutiva dei disturbi e delle malattie nutrizionali, una conoscenza che si dimostrerà molto utile per raggiungere gli scopi stessi di un’alimentazione che sia veramente biologica, nel senso più vero e profondo del termine e cioè legata alla vita (bios). Tuttavia l’uomo non è soltanto biologia, ma è anche cultura. Quindi vi è anche un’antropologia alimentare. La cultura è entrata prepotentemente nell’alimentazione, da quando l’umanità ha inventato l’agricoltura e l’allevamento, con la produzione degli alimenti, non più soltanto la loro raccolta. Bibliografia AA,VV. Necessità di una ricerca per l’alimentazione e la salute. Food Technol., 55, 189, 2001 Anonimo. Cereali, carne di cervo e di capra l’ultimo pasto dell’uomo di Similaun. La Repubblica, 17 settembre 2002 (p.24) Archer M.C., Clarkson T.W., Strain J.J. Genetic aspects of nutrition and toxicology: report of a workshop. Journ. Am. Coll. Nutr., 20, 119-128, 2001 Benz C.L. Form and function and early hominid mandibles. PhD thesis. Univ. Calif. Berkeley, 1980 Berti P.R., Leonard W.R. Demographic and socioeconomic determinants of variation in food and nutrient intake in an Andean community. American Journal of Physical Anthropology. 105 (4), 407-417, 1998 Bhatia A. Anthropology of food and nutrition. Contributions to Indian Sociology. 32 (1), 160161, 1998 Broadhurst C.L. Balanced intakes of natural trigly-
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Capitolo II
Cibo e nutrizione: argomenti d’alimentazione darwiniana
Qual è la nostra vera alimentazione, per la quale siamo adatti e che quindi non può far male? Domanda sempre più frequente, nei paesi nei quali vi è una disponibilità alimentare pari o superiore alle tremila chilocalorie lorde. Superata la soglia della fame, aumenta la ricerca della sicurezza e d’ogni alimento si chiede non solo che non faccia male, ma che porti benessere. Molti studi sono stati e sono fatti, ma spesso con risultati contrastanti, o che paiono tali. Le diversità non sono tanto nei risultati, quanto nelle interpretazioni che sono date. Qual è il giusto criterio o quali sono i parametri corretti per valutare se un alimento, una dieta od uno stile di vita sono adeguati alle esigenze umane? Innanzi tutto, la nutrizione umana, come quella d’ogni altra specie, è molto complessa e man mano che si sviluppano le ricerche questa complessità, invece di diminuire, si amplia. Esiste anche una non indifferente variabilità, anche nell’ambito della specie umana ed a proposito degli stili di vita, del clima, dell’età ed altre varianti. Un tempo, le risposte a questi ed altri interrogativi li cercavamo fuori di noi. Di fronte ai rischi da cibi sani che usiamo male od in eccesso, si è diffuso il dubbio, oggi la certezza, che una parte delle risposte sono in noi, anzi nei nostri geni. Un aiuto oggi ci viene dall’applicazione del cosiddetto “paradigma darwiniano” che trova la sua migliore espressione nella frase enunciata da Theodosius Dobzhansky (1953) “in biologia nulla ha senso se non alla luce dell’evoluzione”. Il paradigma darwiniano permette di comprendere perché il cibo può farci male e com’è possibile che le cose che piacciono sono anche vietate, fanno male od ingrassano, come ha affermato Oscar Wilde? Sottili ed al tempo stesso complicati rapporti legano il patrimonio genetico all’ambiente. Il cibo è uno dei tramiti del non facile ed ancora poco conosciuto rapporto tra l’ambiente ed i geni. Altrettanto importanti sono le trasformazioni che l’umanità, con la cucina, ha inventato per rendere il cibo adatto alla propria genetica ed a stili di vita atavico. “Il passato siamo noi” ha affermato P. Kingsley (2001). È nel nostro passato genetico che dobbiamo cercare il primo riferimento alla correttezza della nostra alimentazione ed anche l’origine di molti dei mali alimentari, antichi e moderni, in quella che è stata denominata Alimentazione Darwiniana o Evoluzionista. Molti aspetti della nostra alimentazione saranno da rivedere. Alcuni capitoli sono già ben in evidenza, altri iniziano ad abbozzarsi.
Dobzhansky Th. - American Biology Teacher, n. 35, 125-129, 1973 Kingsley P. – Nei luoghi oscuri della saggezza – Marco Tropea Editore, Milano, 2001
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Capitolo II
ALIMENTI ANIMALI ED ALIMENTAZIONE DARWINIANA
quando ci cibiamo di vegetali. La carne nell’alimentazione umana è stata esaminata sotto molti aspetti (nutrizionali, sanitari, psicodietetici, psicologici e culturali), con risultati che in buona parte trovano riferimento e giustificazione nel paradigma darwiniano. Recentemente, numerosi ricercatori hanno esaminato da un punto di vista evoluzionista la nostra alimentazione con la carne ed oltre quanto già indicato nella prima parte sulla nutrizione paleolitica, sono da menzionare le indagini di Broadhurst (1997), Cordain e coll. (2000, 2002), Eaton e coll. (1985, 1997, 1998), Hallberg e coll. (1998), Mann (2000), che documentano la carnivorità della nostra specie. La carne è l’alimento più importante per l’uomo fin dal paleolitico, come dimostrano anche recenti indagini sulla “macelleria” in questo periodo (PatouMathis, 1997). In quel periodo i nostri antenati avevano una dieta che conteneva circa centocinquanta grammi di proteine, pari a due grammi per chilogrammo di peso corporeo. Cordain e coll. (2000), studiando le popolazioni di cacciatori e raccoglitori dimostrano elevati consumi d’alimenti d’origine animale, che coprono dal 45 al 65% dell’energia. La maggioranza di queste popolazioni (73%) ricava più della metà dell’energia alimentare (56-65%) dagli animali. Considerando inoltre che i vegetali selvatici sono scarsi di carboidrati e ricchi di proteine, nelle popolazioni studiate le proteine sono in predominanza (19-35% dell’energia alimentare) rispetto ai carboidrati semplici e complessi (22-40% dell’energia). Da non dimenticare che recenti indagini hanno dimostrato che l’uomo di Similaun, prima di morire, aveva mangiato cereali, carne di cervo rosso e carne di capra. Sulla dieta dei nostri antenati, Cordaine e coll. (2002) hanno messo in evidenza il “paradosso” delle popolazioni paleolitiche che si nutrivano di elevate percentuali di carni, senza andare contro a problemi sanitari. Il paradosso è stata spiegato con la qualità del-
La nostra specie ha mangiato e mangia ogni cosa. L’uomo è un onnivoro che si è nutrito di tutto: cibi d’origine animale (carni in senso lato e di tutte le specie animali, dagli insetti e vermi ai mammiferi ed ai pesci, fino agli uccelli, uova ecc.), alimenti vegetali d’ogni tipo ed anche minerali, ad iniziare dall’acqua. Nell’ambito di una vasta e mutevole onnivorità, gli alimenti d’origine animale ed in particolare le carni rivestono un ruolo particolare e questo giustifica di esaminare la carnivorità umana alla luce del paradigma darwiniano, esaminando i cibi derivanti dagli animali a sangue caldo (carnivorità), dai pesci ed altri animali acquatici (ittiofagia), dal latte (lattofagia) e da taluni insetti (miele). Carnivorità: necessità biologica e culturale della carne La nostra specie, e prima per centinaia di migliaia d’anni gli ominidi, forse anche per qualche milione d’anni i primati, si sono alimentati di carne ottenuta dalla caccia e dalla raccolta d’animali uccisi da altri predatori, in un equilibrio tra benefici e rischi, solo in parte indagati e considerati dal paradigma darwiniano. Per questo, la voglia di carne è profondamente iscritta nei comportamenti umani e si manifesta in diversi modi: ricerca di carni e frattaglie, fino ad essere arrivata al cannibalismo. Oltre a quanto visto a proposito dell’evoluzione umana, sono qui considerati gli aspetti nutrizionali delle carni, intese come parti muscolari e visceri degli animali. Carne ed alimentazione umana La nostra specie fa parte dei primati e non dei carnivori. Perché mangiamo carne siamo quindi carnivorani, come siamo vegetariani 78
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le carni degli animali selvatici (carme magre), ma soprattutto dalla presenza, nella alimentazione paleolitica, di elevati quantitativi di antiossidanti, fibra alimentare, vitamine e phytochemicals, con bassi livelli di sale (cloruro di sodio), in associazione ad uno stile di vita caratterizzato da elevato esercizio fisico e assenza di fumo di tabacco. Com’è stato esaminato nella prima parte, l’alimentazione umana ha due componenti: biologica e culturale. Se la biologia indica che la carne è veramente utile per una corretta ed equilibrata alimentazione, l’antropologia dimostra che l’uomo ha un bisogno culturale di carne. Il bisogno culturale di carne si manifesta, nelle diverse società, con regole che comprendono divieti, permissioni e modi d’uso (cucina), capaci di soddisfare anche l’ineliminabile ricerca di diversità alimentare caratteristica dell’uomo. Una diversità che ad esempio riguarda il continuo successo delle trasformazioni salumiere, che soddisfano le richieste culturali umane per quanto concerne la voglia di tradizione, la biodiversità gastronomica e la domanda di facilitazione nella preparazione dei cibi (semplificazione della cucina). Il bisogno della carne si manifesta in molti altri modi, non ultimo la gran diversificazione dei tipi di carni. In questo capitolo considereremo soprattutto l’aspetto della carne magra (muscolo) ed i visceri (frattaglie), con un accenno al cannibalismo, mentre rimandiamo ad altri capitoli per i grassi animali (e vegetali) ed il pesce (ittiofagia).
che meno dello 0,1% della popolazione umana sia vegetariana dimostra che l’uomo ha bisogno di carne che, come si è già affermato, è al tempo stesso di tipo biologico e psicologico. Ogni cultura ha la sua carne o le sue carni, ma non bisogna dimenticare che per la nostra specie e quelle che l’hanno preceduta, la carne per eccellenza era quella degli animali selvatici, con la caratteristica d’essere molto magra. Ancor oggi la carne di cervo e daino hanno un contenuto di 0,81,2% di grassi. Inoltre, quando sono cotte a fuoco vivo, i grassi si riducono ulteriormente. I grassi sono rimasti associati alla carne quando l’uomo, divenuto sedentario, ha utilizzato i tegami ed ha inventato intingoli vari. Nella nostra cultura, nel soddisfacimento della fame di carne un ruolo importante ha la carne bovina. Il bovino, erede dei grandi ruminanti selvatici, in molte culture è all’apice delle specie animali che l’uomo ha desiderato e desidera mangiare. Lo testimonia che il simbolo della sua testa è stato scelto per identificare la prima lettera dell’alfabeto: aleph, da cui alfa, termine che identificava l’animale. Se la carne bovina è buona da mangiare e richiesta dalla nostra cultura, non significa che le idee, ma soprattutto le richieste dei consumatori sul tipo e soprattutto sulla qualità della carne siano rimaste immutate. Con il passare dei millenni e dei secoli queste si sono modificate, influenzate dagli stili di vita, ma soprattutto da condizioni antropologiche, alle quali recentemente si sono associate condizioni di tipo salutistico e nutrizionale, culinario, gastronomico ecc. In particolare vi è stata un’evoluzione delle caratteristiche di qualità che il consumatore richiede alla carne, soprattutto se magra.
Carne buona da mangiare Secondo l ’antropologo Mar vin Harris (1985) la carne, in tutte le sue amplissime diversificazioni, è “buona da mangiare”. Lo stesso autore afferma che “meno dell’uno per cento della popolazione mondiale si astiene volontariamente da qualsiasi cibo d’origine animale, e meno della decima parte di quest’uno per cento può considerarsi genuinamente e strettamente vegetariano”. Il fatto
Carne magra, alimento protettivo con funzioni salutari La carne, come ogni altro cibo o bevanda, non è un alimento completo. Ogni tipo di carne, in rapporto alla percentuale di grasso, 79
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ha particolari indicazioni con riferimento ai diversi stili di vita ed al fabbisogno energetico. In rapporto alle sue peculiari caratteristiche, la carne ha importanti ed insostituibili ruoli dietetici. La carne oggi è divenuta anche un alimento protettivo, perché elemento d’integrazione ed equilibrio della dieta, attraverso l’intersupplementazione degli aminoacidi e l’assorbimento del ferro vegetale. In altri capitoli sono esaminati aspetti concernenti il colesterolo, l’immunità ed il comportamento (Psicodietetica).
carne e soprattutto dalla loro cottura. Molto probabilmente l’uso del fuoco ha avuto un ruolo decisivo nel preservare l’uomo primitivo da problemi sanitari connessi alla selvaggina. Una terza via è quella delle infezioni che dagli animali selvatici possono passare a quelli domestici e da questi, poi, all’uomo. Carne e nutrizione darwiniana La nostra specie ha un insopprimibile bisogno biologico e psicologico di carne, che deriva da una carnivorità antica di almeno un milione d’anni. Geneticamente siamo predisposti a nutrirci di carne magra, perché le particolari caratteristiche di nutrizionalità di questa carne s’associano ad importanti attività di tipo extranutrizionale. In particolare sono da sottolineare: * le azioni positive sul metabolismo e soprattutto l’attività anticolesterolica; * una favorevole modulazione immunitaria; * le gradite influenze sul comportamento, anche in ambito di psicodietetica. La carne magra non è soltanto un alimento protettivo come si considerava nel passato, ma oggi deve essere considerata un alimento portatore di salute. Nella carne magra si riscontra una spiccata convergenza delle richieste di tipo nutrizionale con quelle di tipo culinario e gastronomico. Carne magra - L’attuale richiesta di carne magra è stata oggetto di un’analisi in chiave evoluzionista da Mann (2000), con un articolo dal titolo Dietary lean red meat and human evolution. Sull’argomento si è raggiunta l’evidenza scientifica che la carne di per sé e nell’ambito dello stile di vita dei paesi occidentali non costituisce un fattore di rischio sanitario, in particolare per le malattie cardiovascolari, mentre esiste un rischio per un eccessivo uso alimentare di grassi, in particolari di quelli saturi, spesso associati alla carne degli animali prodotti dai moderni sistemi d’allevamento. Le ricerche di Mann dimostrano che diete con elevate quantità di carne rossa magra possono diminuire i livelli
Carni e rischi sanitari Oggi l’uomo interviene per avere carni sicure, ottenute da animali allevati e sotto controllo “dalla terra alla tavola”. Tutte le malattie provengono dall’agricoltura, è stato detto, ma quali malattie l’uomo poteva ed ancora oggi può contrarre dalle carni degli animali selvatici? Molte sono le infezioni e parassitosi che possono passare dagli animali selvatici all’uomo: al cacciatore, a chi maneggia la selvaggina, a chi la mangia ed anche al cane da caccia, che a sua volta può ritrasmetterle all’uomo. Certamente la selvaggina non è indenne da infezioni e malattie, ma bisogna considerare che in natura i predatori, veri spazzini sanitari, eliminano egli animali infetti. Il rischio sanitario da cacciagione è diversificato e schematicamente l’uomo può esserne coinvolto per diverse strade. La prima è quella del contatto con le carni e soprattutto con i visceri d’animali infetti. In modo analogo può essere rischioso uno stretto contatto con gli animali abbattuti. È facile che sulla pelle degli animali siano presenti zecche. Quando il corpo dell’animale si raffredda le zecche tendono a staccarsi e cercano un altro ospite caldo e quindi possono passare all’uomo, trasmettendo numerose infezioni, anche gravi, come la Paralisi da Zecche. Una seconda via è quella alimentare, che tuttavia è controllata dalla frollatura della 80
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ematici di colesterolo, in quanto apportano rilevanti quantità d’acidi grassi della serie omega-3 e sono una buona fonte di ferro, zinco, cromo e vitamina B12. Lo studio della storia alimentare dell’uomo e dei preumani dimostra che per un periodo almeno di un milione, forse due milioni d’anni i nostri antecedenti ed antenati hanno mangiato quantitativi crescenti di carne. Durante questo periodo la selezione naturale ha portato ad un adattamento della nostra genetica ad un’alimentazione ricca di carne. Si trattava di carne derivata da animali selvatici, povera di grassi, soprattutto di quelli saturi e ricca d’acidi grassi polinsaturi (PUFA). Diverse linee di ricerca indicano come la carne magra sia stata la maggior fonte d’energia negli umani fino alla scoperta dell’agricoltura. Si tratta d’indagini che spaziano da studi isotopici dei fossili, morfologia dell’apparato digerente, encefalizzazione umana e fabbisogno energetico degli umani, teorie sulla raccolta del cibo, resistenza insulinica e studi sulle società di cacciatori e raccoglitori. In conclusione, ancor oggi, la carne magra, in opportune quantità, è da ritenere un alimento salutare ed un benefico componente di una dieta ben bilanciata. Grassi - In un’analisi evoluzionista, i grassi della carne sono stati esaminati anche recentemente da Eaton e coll. (1998), che hanno studiato l’introduzione alimentare d’acidi grassi polinsaturi a lunga catena nella dieta paleolitica umana. Anche Broadhurst (1997) ha considerato l’uso alimentare bilanciato dei trigliceridi naturali in una visione nutrizionale ed evoluzionista. In quest’ultima prospettiva, si rileva che gli alimenti naturali contengono una gran varietà di grassi strutturali, di tipo polinsaturo, monoinsaturo e saturo e quindi è difficile giustificare un’alimentazione che non contenga un’equilibrata miscela di trigliceridi e di fosfolipidi. Nessun grasso naturale è intrinsecamente buono o cattivo, ma può diventarlo la loro proporzione od associazione. Da un punto di vista
evoluzionista bisogna raccomandare una gran varietà di grassi, sotto il profilo della loro struttura, grado di saturazione, lunghezza delle catene. Gran parte delle patologie connesse allo squilibrio tra grassi polinsaturi del tipo n-3/ n-6 sono dovuti all’uso dei cereali nell’alimentazione umana e degli animali produttori d’alimenti per l’uomo. Altrettanto importanti sono i processi di lavorazione e di raffinazione degli alimenti, in particolare quelli riguardanti la produzione degli oli e dei grassi. Oltre ai processi di perossidazione, sono da considerare i numerosi composti fitochimici presenti negli oli non raffinati, frutta e vegetali e che svolgono un’importante protezione contro la perossidazione dei grassi e malattie croniche. Sicurezza - La sicurezza della carne deriva dall’assenza in concentrazioni biologicamente efficaci di componenti di tipo infettivo, parassitario, chimico o radioattivo. La sicurezza è la conditio sine qua non che fa della carne un alimento. La qualità è la presenza nella carne di caratteristiche che soddisfano le attese espresse od inespresse del consumatore, che la rendono apportatrice di salute ed adeguata agli usi nutrizionali, dietetici, culinari e gastronomici ai quali è destinata. Per rispondere alle esigenze ed attese dei consumatori, oggi la produzione di qualità offre una carne magra, con alta nutrizionalità e particolari attività extranutrizionali. La nutrizionalità deriva dal contenuto in proteine ricche d’aminoacidi essenziali (in particolare quelli ramificati), vitamine (soprattutto la B12) ed oligoelementi minerali organici (ferro, zinco, cromo). Altrettanto importanti sono le attività extranutrizionali delle vitamine, oligoelementi organici, ma soprattutto dalle caratteristiche della frazione lipidica della carne magra. Quest’ultima, con un limitato apporto energetico e di colesterolo, fornisce fosfolipidi ed acidi grassi insaturi (od in questi trasformati) e soprattutto acidi grassi polari dotati d’attività procolesterolo HDL ed anticolesterolica generale. Di grande interesse sono inoltre le attività 81
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extranutrizionali della carne che riguardano l’immunità e che derivano dalla combinata attività di componenti azotate (soprattutto gli aminoacidi essenziali ed i nucleotidi), lipidiche (acido linoleico coniugato), vitaminiche ed oligominerali (ferro, ma soprattutto cromo). Da non sottovalutare infine le caratteristiche extranutrizionali della carne di tipo psicodietetico riguardanti il controllo dei comportamenti alimentari (assunzione dell’alimento con effetto saziante) e dell’aggressività (effetto tranquillante). La qualità della carne magra ha un’importante funzione nel suo uso come alimento protettivo, ma anche come alimento portatore di salute. In quest’ultimo orientamento la carne magra rientra a pieno titolo nelle Linee Guida formulate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per una Politica Nutrizionale, anche perché sono coerenti con un’alimentazione naturale, qual è prospettata dalla nutrizione darwiniana od evoluzionista.
Frattaglia, di solito al plurale (frattaglie), da latino fractus, participio passato di frangere o “spezzare”, sono le parti “spezzate” e separate dalla “carne” e che rimangono dopo la macellazione degli animali. Le frattaglie degli animali di grossa e media taglia (bovini, suini ed equini) comprendono animelle (timo), ghiandole salivari, pancreas, cervello, fegato, rognoni (rene), cuore, milza, polmoni, mammella, trippa, coda ecc. Negli animali di piccola taglia (ovini e caprini) polmone, cuore e fegato sono compresi nella corata o coratella senza dimenticare l’intestino degli animali giovanissimi: pagliata “pulita” e “sporca”. Nei volatili di bassa corte (polli, tacchini e galline di faraone, piccioni, oche, anatre ecc.) le rigaglie o frattaglie comprendono fegato, cuore, ventriglio (o magone, maghetto ecc.), granelli (testicoli) ed anche la cresta e bargigli. Il termine deriva dal latino regalia: regalo che erano fatti ai poveri; con un’etimologia più fantasiosa, da regalis, “da re”, degno di un re, nel senso quindi di boccone da re! Una lunga e diffusa tradizione testimonia l’importanza che le diverse culture umane hanno attribuito ai visceri animali, anche come tramite per interpretare i voleri divini (aruspici etruschi) e come alimenti di pregio e dotati d’azioni benefiche per l’organismo, fino ad arrivare al cannibalismo rituale (cerebrofagia della Nuova Guinea, con la conseguente malattia detta Kuru), un cannibalismo non ancora completamente scomparso, se è vero quanto hanno riferito i giornali di Bokassa. Circa la tradizione che i visceri degli animali siano carichi di virtù o vantaggi nutrizionali, basta dare uno sguardo alle credenze che avevano gli antichi egizi, i romani od ancor oggi molti popoli i cui costumi sono studiati dall’etnomedicina. Più vicino a noi e com’esempi si può ricordare che attraverso la scoperta nel fegato del fattore antianemico estrinseco del Castle si è giunti alla Vitamina B12 ed il successo che in un non lontano passato ha avuto l’opoterapia (tera-
Visceri animali ed alimentazione darwiniana L’uomo preistorico, come molti suoi antenati e gli animali carnivorani, era avido di visceri e del midollo osseo, cibi che sono rimasti nella cucina tradizionale. La pratica di rompere le ossa per ricavarne il midollo è antichissima ed i nostri predecessori la praticavano sulle ossa d’animali e dei propri consimili (cannibalismo). Nel midollo osseo si cercava un grasso speciale? Il midollo osseo contiene elevate quantità di lecitina e non è improbabile che vi fosse una fame specifica per questo nutriente, che ha diverse attività metaboliche connesse anche allo sviluppo ed al corretto funzionamento del sistema nervoso. Senza arrivare a ritenere che esista una fame specifica per i visceri, come quell’ipotizzata per il midollo osseo e forse il cervello, entrambi ricchi di lecitine, le molecole strategiche contenute nei visceri animali giustificano il loro uso alimentare. 82
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pia effettuata con estratti d’organo), un approccio che oggi vediamo risorgere, sia pure con altre prospettive d’applicazione, nella nutraceutica effettuata con gli alimenti funzionali che contengono molecole strategiche. Ad alcuni visceri animali usati in alimentazione sono stati imputati rischi, ed in proposito basta ricordare che in un lontano passato la gotta era attribuita ad un eccesso nella dieta di talune frattaglie, come oggi si teme il rischio di residui di farmaci, contaminanti ambientali o di malformazioni fetali in donne gravide che mangiano rilevanti quantità di fegato che contenga elevate quantità di vitamina A. Da non sottovalutare, inoltre, i rischi infettivi, tradizionali e non convenzionali. Molte delle molecole strategiche d’elevata importanza per la nutrizione umana si trovano negli alimenti d’origine animale (carne, latte, uova, pesce) ed oggi ci si sta accorgendo della loro elevata concentrazione nelle frattaglie. Queste molecole strategiche coprono un’ampia gamma d’attività e d’estrema importanza sono quelle che contengono microminerali od oligoelementi (ferro, zinco, rame, selenio, cromo ecc.). Le principali attività sono le seguenti: 1 - Molecole strategiche contenenti ferro per la formazione del sangue, buon funzionamento muscolare (cuore compreso), sviluppo del cervello e suo funzionamento. 2 - Molecole strategiche contenenti zinco determinano il buon funzionamento della cute e la produzione d’ormoni che intervengono sulla crescita, metabolismo degli zuccheri, riproduzione ecc. 3 - Molecole strategiche contenenti rame potenziano l’attività del ferro. 4 - Molecole strategiche contenenti selenio proteggono dai radicali liberi, dall’ossidazione ed intervengono nella prevenzione dei tumori. 5 - Molecole strategiche contenenti cromo intervengono nel buon funzionamento muscolare e nella prevenzione del diabete.
Altrettanto importante è il ruolo d’alcuni acidi grassi insaturi, ad iniziare dall’acido cervonico, presente nel tessuto nervoso e necessario per un regolare sviluppo del sistema nervoso nella prima età e, pare, per il mantenimento della sua integrità anatomica e funzionale nella terza età. Un ruolo solo poco tempo fa insospettato è quello degli acidi nucleici e dei nucleotidi presenti in rilevanti quantità in molte frattaglie e con potenti attività immunostimolanti. Da ricordare come alcune frattaglie, come il fegato, sono ricche anche di vitamine, in particolare la vitamina A, e d’enzimi. Virtù e rischi delle frattaglie La presenza nelle frattaglie di molecole strategiche spiega la loro funzione protettiva in un’alimentazione equilibrata e dà ragione del loro uso alimentare. Un’opportuna quantità di frattaglie nel complesso dell’alimentazione umana ha importanti ruoli che possono essere così riassunti. • Fornire molecole strategiche ed in particolare quelle contenenti oligominerali (ferro, zinco, cromo ecc.) dotate d’elevate attività metaboliche e sopra ricordate. • Assicurare una quota di vitamina A (fegato). • Svolgere una funzione protettiva di fronte a carenze per alimentazioni unilaterali e troppo raffinate, come spesso sono quelle odierne. • Assicurare il fabbisogno di taluni acidi grassi insaturi essenziali, utili sopra tutto per il cervello. • Normalizzare e stimolare il sistema immunitario tramite gli acidi nucleici, i nucleotidi e lo zinco sotto forma organica. • Assicurare una protezione contro i tumori. Per avere una risposta equilibrata è da ricordare che sono sufficienti limitate quantità di singole frattaglie ed è opportuno associare diverse frattaglie tra loro. Come tutti gli alimenti, anche le frattaglie hanno dei limiti, in gran parte legati a con83
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sumi eccessivi di una sola frattaglia. Tipico esempio è la gotta che un tempo colpiva le classi agiate che si cibavano d’eccessive quantità di frattaglie, nell’ambito di un’alimentazione squilibrata e scarsa di vegetali. Oggi possiamo ricordare il rischio di malformazioni fetali nelle donne gravide che mangiano sostenute quantità di fegato di vitello molto ricco di vitamina A. Si tratta di rischi recenti e da quando si è raggiunta, anche per le frattaglie, un’abbondanza, un tempo sconosciuta. Sempre a dosi troppo elevate e continuate, talune frattaglie che nell’animale svolgono la funzione di “filtro” ed in particolare il fegato ed il rene, potrebbero apportare residui indesiderati di farmaci, d’inquinanti ambientali o di farmaci, un rischio che oggi è in buona parte superato dai controlli sanitari ed utilizzando in alimentazione le frattaglie in limitate quantità.
Da non sottovalutare che con la caccia l’uomo poteva procurarsi pelli e pellicce con cui coprirsi, ossa e corna da lavorare, corna e piume con cui adornarsi. Attraverso la carne (intesa in senso lato, comprendendo anche i visceri) l’uomo poteva contrarre dagli animali infezioni e parassitosi (zoonosi alimentari) che è necessario considerare, sia pure brevemente, in chiave evoluzionista. Uno degli errori più diffusi è d’applicare al passato concetti moderni e relativamente recenti. Tra questi vi sono molte idee igieniche, un tempo sconosciute. Ad esempio, fino a metà del milleottocento, ben poco si sapeva dei parassiti e delle infezioni che la carne, come altri alimenti, potevano trasmettere all’uomo, per il semplice motivo che non vi era al riguardo un’evidenza diretta, ravvicinata e tanto meno immediata (uno od al massimo due giorni), tra l’ingestione del cibo e la comparsa di problemi sanitari. In modo analogo non vi era alcuna idea dei danni provocati da un eccesso di taluni componenti della carne, salvo l’idea, peraltro non sempre ben chiara, di un eccesso acuto, nel quadro di un’indigestione. In modo analogo è per la gotta o uricemia, provocata da un eccesso alimentare cronico, ritenuta una “nobile malattia”, che solo nel millesettecento fu chiaramente collegata ad un eccesso di carne, soprattutto frattaglie. Per tutta la sua vita, fino all’arrivo dell’agricoltura intensiva, per l’uomo, la caccia fu la gran riserva di proteine nobili ed i problemi furono forse più di carenza che d’eccessi, anche se questi non mancavano in una piccola percentuale di ceti abbienti, tanto da dover essere oggetto di controllo, tramite precetti d’astinenza, con significati di punizioni laiche o di regole religiose, quindi in un passaggio dalla natura alla cultura.
Cacciagione, non solo grasso e proteine Per lunghissimi periodi l’uomo ed i suoi antenati si sono nutriti con successo d’animali selvatici e con conseguenze di tipo nutrizionale, oggi oggetto d’attenzione. Non ancora sufficientemente studiati sono gli aspetti che oggi consideriamo d’ordine sanitario. In entrambi i casi, una valutazione evoluzionista apre interessanti prospettive. È opinione comune, sempre più convalidata dai risultati d’indagini, che per lunghissimi tempi l’uomo ed i suoi antenati si sono nutriti d’animali cacciati od uccisi da altri animali, senza trascurare quelli raccolti (molluschi, insetti ecc.). Una recente dimostrazione si è avuta con l’esame del contenuto dell’apparato digerente nell’uomo di Similaun. Tra gli animali cacciati e raccolti sono da considerare anche quelli dei fiumi e dei mari, e di conseguenza l’ittiofagia sembra una caratteristica alimentare umana atavica. Con la caccia l’uomo si procurava carne (proteine), il preziosissimo grasso (energia) ed altri nutrienti. Tra questi ultimi sono da citare il sodio, il calcio contenuto nelle ossa e la lecitina del midollo osseo.
Cannibalismo, una sfida biologica e culturale Cannibalismo, mangiare individui della propria specie, è un fenomeno biologico molto 84
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diffuso e per questo regolato sul piano biologico ed in molte specie anche culturale e sociale. Con il cannibalismo, negli animali e nell’uomo, si sono trasmesse malattie, ma queste non sono state avvertite, o non hanno in ogni modo impedito la diffusione e la persistenza del comportamento, quasi certamente in un bilancio tra beneficio (nutrizione) e costi (infezione). Con ogni probabilità il cannibalismo rituale si è sviluppato partendo da basi biologiche, sempre in un’ottica di un beneficio, anche di tipo psicologico (ben - essere o eucenestesi). Oggi, ma attraverso il dono, si è sviluppata una nuova forma di passaggio da uomo ad uomo d’organi e di salute, attraverso i trapianti. Il cannibalismo, nel paradigma darwiniano, deve essere esaminato sotto l’aspetto biologico e culturale. Sempre più numerose sono le prove che i nostri antenati praticavano il cannibalismo, che nel corso dei millenni non è scomparso, ma si è anche modificato con il culto dei morti, come dimostra il cannibalismo rituale encefalico, ancora presente in alcune tribù della Nuova Guinea alla fine del ventesimo secolo. Certamente la fame di carne ha spinto l’uomo al cannibalismo, e lo dimostrano recenti episodi, come quello della seconda metà del secolo ventesimo tra i passeggeri di un aereo precipitato sulle Ande. Altrettanto importanti, per spiegare il cannibalismo, sono alcune fami specifiche e tra queste quelle di sale e di lecitina, che hanno spinto l’uomo a cibarsi delle ossa e del loro contenuto. Una delle forme più antiche di cannibalismo è rivolta alle ossa. È una forma non solo umana, ma anche animale, anche di quelli considerati erbivori. Nella pampa argentina e nelle pianure centroamericane, per soddisfare la fame specifica di minerali, i bovini si cibavano delle ossa calcinate al sole dei loro conspecifici morti. In questo modo contraevano malattie infettive, quali il carbonchio ematico e sintomatico ed il botulismo. Nell’uomo il cannibalismo d’ossa, di cui abbia-
mo sicure evidenze archeologiche, ha due diversi aspetti. Un primo tipo di cannibalismo è rivolto al midollo osseo e riguarda soprattutto le ossa lunghe che lo contengono. Il midollo osseo è ricco di grasso ed il cannibalismo è stato giustificato come una risposta alla fame specifica rivolta alla ricerca d’alimenti grassi. Non bisogna tuttavia dimenticare che il midollo osseo è ricco di lecitine e che nell’uomo pare esistere una fame specifica per queste. Un secondo tipo di cannibalismo riguarda le ossa calcinate, dopo la cremazione. Le osservazioni compiute in modo particolare nelle regioni centrali dell’America meridionale, permettono di collegare questo tipo di cannibalismo alla ricerca del sale. Un tipo di cannibalismo che permette d’intravedere i percorsi che collegano il cannibalismo biologico a quello rituale. Nelle regioni interne dell’America meridionale e soprattutto nella foresta amazzonica le popolazioni sono esposte alla mancanza di sale (cloruro di sodio). Un’alimentazione prevalentemente vegetariana e quindi abbondante di potassio, rende ancora più evidente la mancanza di sodio. Il sodio è un minerale necessario per la vita e la sua mancanza conduce anche alla morte. La mancanza di sodio si manifesta con sete, stanchezza, debolezza ed apatia. Negli animali e nell’uomo il sodio è presente nei liquidi organici, nelle cellule ed è conservato nelle ossa, che ne sono il naturale deposito. Tutto fa ritenere che l’uomo in carenza di sodio, cibandosi d’ossa, soprattutto se calcinate e quindi facilmente assimilabili, assumendo il sodio in esse contenute, quasi immediatamente riconoscesse la diminuzione se non la scomparsa della stanchezza, debolezza ed apatia da mancanza del minerale. Un effetto che poteva benissimo essere interpretato come se lo spirito dell’animale o del defunto fosse passato in chi ne mangiava le ossa, trasferendogli la propria vitalità, energia e potenza. Una credenza che poteva essere accresciuta nel caso in cui le ossa pro85
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venissero da un giovane guerriero e da un cacciatore che avesse avuto un’alimentazione almeno parzialmente carnea e quindi con una certa quantità di sodio. Una serie di credenze che aprono il secondo capitolo del cannibalismo, quello culturale. Nell’uomo esiste indubbiamente un cannibalismo culturale, con forti connotazioni rituali. Molti indizi fanno ritenere che alla radice di questo tipo di cannibalismo vi sia una base biologica. Quanto sopra indicato a proposito del cannibalismo con ossa calcinate n’è un chiaro esempio. Senza entrare in dettagli sul cannibalismo rituale umano, è tuttavia necessario rilevare come questo, nelle diverse culture, s’indirizza soprattutto ad alcuni organi, come il cuore, il fegato ed il cervello. Per quanto riguarda il cervello, so-
no da ricordare le osservazioni compiute nelle tribù della Nuova Guinea nella seconda metà del secolo ventesimo a proposito di una malattia, il kuru, salita alla ribalta dell’opinione pubblica a proposito dell’epidemia bovina detta della mucca pazza. Il kuru, malattia della risata sardonica per uno dei sintomi con i quali si manifesta, è un’encefalopatia spongiforme specifica umana, provocata da un prione, un agente patogeno non convenzionale. La malattia era trasmessa attraverso il cannibalismo rituale, nel quale il cervello del defunto era usato come alimento e come unguento per uso esterno. Il cannibalismo rituale con il cervello, molto probabilmente trova la sua radice biologica nella voglia di grasso e di lecitina già citate, e di cui il cervello è particolarmente ricco.
Caratteristiche alimentari delle popolazioni di cacciatori e raccoglitori (Cordain L., Miller J. B. Eaton S. B., Mann N. et al, 2000) Società studiate
Alimenti Animali Quantità % Energia %
Totale società
Alimenti vegetali Qualità % Energia %
45–65
35-55
73% delle società studiate
>50
56–65
<50
35-44
14 % delle società studiate
<50
54–35
>50
56-65
Principali caratteristiche nutrizionali delle molecole strategiche contenute nelle frattaglie animali Frattaglia
Ferro
Zinco
Animelle Cervello Fegato Rognone Cuore Milza Mammella Trippa Intestino
X
X
Cromo
Vitamina A
Acidi grassi essenziali
X
X X
X X X
X X
X X
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Nucleotidi X X X X X X X X X
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Cibo e nutrizione
Composizione della carne d’animali selvatici (per 100 grammi – Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione - INRAN, Roma, 2000) Specie animale Cervo (carne) Daino (carne) Fagiano (pronto da cuocere) Quaglia (pronta da cuocere)
Parte edule %
Acqua grammi
Proteine grammi
Lipidi grammi
kcalorie
kjoule
100 100 85 67
76,5 75,8 69,2 65,9
21,0 21,0 24,3 25,0
0,8 1,2 5,2 6,8
91 85 144 161
382 397 602 674
Bibliografia
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Capitolo II Harris M. Good to Eat. Riddles of Food and Culture. Simon and Schuster, New York 1985 (Traduzione italiana. Buono da Mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari. G. Einaudi, Torino, 1990) Ip C. Lessons from Basic Research in Selenium and Cancer Prevention. J. Nutr., 128, 1845-1854, 1998 Kingsley P. Nei luoghi oscuri della saggezza. Marco Tropea Editore, Milano, 2001 Kulkarni A.D., Rudolph F.B., Van Buren Ch. T. The Role of Dietary Sources of Nucleotides in Immune Function: A Review. Symposium: Dietary Nucleotides: A Recently Demonstrated Requirement for Cellular Development and Immune Function. J. Nutr., 124, 1442S - 1446S, 1994 Mann N. Dietary lean red meat and human evolution. European Journal of Nutrition, 39 (2), 7179, 2000 O’Brien B. Cholesterol Metabolism Is Altered When Rats Are Fed Either Beef Tallow as the
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Cibo e nutrizione
Ittiofagia
sviluppare o per lo meno favorì nuove attività di raccolta e di caccia, incrementando funzioni manuali e cerebrali, apportando nuovi e particolari acidi grassi favorevoli per lo sviluppo cerebrale ed il perfetto mantenimento delle attività mentali e psicologiche, che si andavano formando. Su questa linea Michael Richards dell ’Università di Bradford (UK) stima che l’uomo di Cro Magnon ha sopraffatto quello di Neanderthal, oltre che per le migliori capacità intellettive, anche per una dieta che comprendeva il pesce, ricco d’acidi omega-3. Si è affermato che una delle caratteristiche umane sia la cucina. Il pesce alimentare non potrebbe essere stata un’orma, una prima traccia, il sentiero poi ed infine la via percorsa nell’ancora misterioso passaggio dal bestiale all’umano? È questa solo un’ipotesi: la “via del pesce” avrebbe segnato i primi passi dell’uomo, come dopo la “via del latte” avrebbe dato avvio all’addomesticamento degli animali.
L’ittiofagia, od il pesce ed altri animali acquatici come cibo, è una caratteristica dell’alimentazione umana, che solo recentemente è stata studiata. Nel paradigma darwiniano, l’ittiofagia sembra avere avuto un ruolo importante nello sviluppo della nostra specie. Alle soglie del terzo millennio dell’era corrente, dopo una storia preumana ed umana lunghissima, tutto dimostra che non stiamo perdendo il gusto dell’ittiofagia. Non soltanto perché il pesce in tavola è troppo in alto nella gerarchia dei piaceri perché vi si possa rinunciare, ma anche perché non si deve trascurare l’aspetto psicosociale del pesce che, in una società edonistica come l’attuale e quella che si prefigura per il prossimo millennio, è diventato preponderante. Ittiofagia umana ancestrale Quando l’uomo ha incominciato a mangiare il pesce? Un’inquietante ed al tempo stesso affascinante ipotesi è che l’ittiofagia (mangiare pesce) abbia avuto un ruolo non secondario nell’origine e nello sviluppo degli ominidi prima, delle specie preumane poi ed infine della nostra specie. Gli antropologi, come sostiene Michael Crawford dell’Istituto di Chimica Cerebrale dell’Università di Londra, oggi ipotizzano che ominidi da cui si è evoluto l’Homo faber, comparso in Africa due milioni d’anni fa e dal quale deriva la nostra specie di Homo sapiens sapiens, si nutrissero dei pesci, ricchi d’acidi grassi insaturi, che popolavano il Mar Rosso e le acque che scorrevano nella grande spaccatura della Rift Valley. Anche per quest’alimentazione le dimensioni del cervello umano sono aumentate, mentre quello delle grandi scimmie che nelle savane si nutrivano soltanto di vegetali e d’animali terrestri, poveri d’acidi grassi insaturi delle serie omega-3 ed omega-6, rimaneva piccolo, in proporzione alla massa corporea. L’ancestrale, forse inizialmente casuale scoperta del pesce, portò a
Pesce, cibo del cervello Il pesce marino è particolarmente ricco d’acidi grassi polinsaturi della serie omega-3 ed omega-6: molto nutrienti e considerati indispensabili per la vita e la salute, ad iniziare da una buona difesa contro le infezioni, ma soprattutto per il corretto sviluppo cerebrale nell’infanzia ed utili nella prevenzione d’ictus cerebrali e d’infarti del miocardio nell’età di mezzo e nella terza età. Gli acidi grassi insaturi del tipo omega-3 ed omega-6 sono un nutrimento essenziale per il cervello perché favoriscono la sintesi dei fosfolipidi, i grassi che rafforzano la struttura e rendono ottimale il funzionamento delle membrane cerebrali. La presenza di questi acidi grassi insaturi assicura quindi un buon funzionamento del cervello. Il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli, ed il soddisfacimento del fabbisogno d’acidi grassi insaturi del tipo omega può avvenire attraverso il pesce alimentare, ripercorrendo una strada iniziata 89
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Capitolo II
Veleni ed infezioni ittiche Taluni pesci, come il fugu od il pesce palla, in particolari periodi della loro vita, possono concentrare nei loro organi (soprattutto ovaia, fegato ed intestino) potenti veleni. In Giappone, dove questi pesci sono oggetto di gastronomia, sono necessari espertissimi cuochi che sanno asportare le parti pericolose. Il fegato di molti pesci marini è inoltre tossico e molte volte concentra i veleni che provengono dalle alghe. In modo analogo diversi molluschi dei mari caldi possono concentrare i veleni prodotti da talune alghe. Nelle carni di diversi pesci mal conservati e per l’azione di batteri, può essere presente istamina e composti istaminosimili, che provocano fenomeni tossici e sintomi di tipo allergico. Anche i pesci soffrono di malattie, ma salvo eccezioni, non sono trasmissibili all’uomo. Inoltre i batteri e parassiti delle loro malattie sono distrutti dalla cottura. La saggia abitudine di cibarsi di pesce e prodotti ittici cotti, e quindi sicuramente privi d’infezioni o parassiti, ha quindi un solido fondamento. Per proteggere il consumatore nei punti di commercio e vendita dei prodotti ittici, sia a livello internazionale sia nazionale, esistono controlli sanitari. Per i pesci selvaggi, i maggiori rischi d’inquinamento riguardano il mercurio. Nei pesci d’allevamento, quali inquinanti possono essere presenti residui di farmaci usati per la cura delle loro malattie.
circa due milioni d’anni fa. Per il pesce, ricco d’acidi grassi insaturi del tipo omega-3 ed omega-6 vale il detto “buono da mangiare, buono da pensare”, e sono alimenti che influenzando positivamente il funzionamento cerebrale e quindi sono anche detti psicodietetici. Gli acidi grassi polinsaturi, soprattutto del tipo omega-3 ed omega-6 sono necessari all’uomo, soprattutto nel periodo dello sviluppo cerebrale, durante la vita fetale e l’infanzia. Anche per questo motivo, sono presenti in sufficienti quantità nel latte materno, ovviamente se la madre ha una corretta alimentazione. Una mancanza di questi acidi durante lo sviluppo fetale e nei primi anni di vita può influire negativamente sullo sviluppo cerebrale, con deficit intellettivi e predisposizione alle malattie cerebro-vascolari, sostiene il Dott. Gerard Hornstra, docente di Nutrizione Sperimentale dell’Università di Maastricht. Infatti, lo sviluppo cerebrale è massimo nei primi periodi della vita ed assorbe fino al 70% dell’energia durante la vita fetale ed il 60% nel neonato. Se durante la gravidanza e l’allattamento, la madre non ha sufficienti quantità d’acidi grassi insaturi, vi è il rischio che il bambino nasca sottopeso e soprattutto con un sistema nervoso iposviluppato, un rischio che permane anche dopo lo svezzamento se questo, come è frequente nei paesi industrializzati, avviene abbastanza precocemente. Nel passato il pesce era quasi imposto nell’alimentazione per circa ottanta giorni l’anno (la quaresima, più i venerdì e le vigilie). Si trattava di pesce conservato, ma anche fresco, di mare e di fiume o lago. Molte ricette tradizionali testimoniano dell’importanza alimentare del pesce. In media oggi l’italiano ha una disponibilità dai tre etti e mezzo ai quattro etti di prodotti ittici la settimana. Come tutti sanno, il pesce ha molto scarto, per questo si deve ritenere che la quantità effettivamente mangiata è di circa due etti e quindi poco più di un pasto la settimana.
Preziosi grassi selvaggi dei pesci Molte delle caratteristiche dietetiche dei pesci dipendono dai loro grassi, che variano come quantità nelle diverse specie ed in queste anche con la stagione. I grassi dei prodotti ittici hanno un particolare ruolo nutrizionale perché sono facilmente digeribili e quindi forniscono un’energia concentrata che nel passato era indispensabile, per gli stili di vita. Oggi è importante la qualità dei grassi dei prodotti ittici. Da tempo si erano sospettate, ma recentemente sono state con90
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fermate importanti le attività extranutrizionali, se non veramente terapeutiche dei grassi presenti nei pesci, in particolare di quelli marini. La qualità dei grassi dipende, infatti, dalla specie ittica, da come ha vissuto e si è alimentata. È importante ricordare che diversi studi epidemiologici condotti in questi ultimi anni hanno dimostrato che in popolazioni con alto consumo di pesce marino la mortalità per malattie alle coronarie (infarto cardiaco ecc.) è particolarmente ridotta, quindi si è anche parlato della Dieta Eschimese. I grassi del pesce, della frazione triglicerica ed ancor più di quella fosfolipidica, sono prevalentemente di tipo insaturo e caratterizzati dalla presenza di composti dell’acido alfa-linolenico (in particolare acido eicosapentanoico o EPA, e decoesapentanoico o DHA), preziosi per una buona alimentazione umana. I grassi di pesce sono anche particolarmente ricchi d’acido oleico (circa il 10 %), tipico componente dell’apprezzato olio d’oliva, ma soprattutto d’acido arachidonico (dal 15 al 25%) e dei già citati, particolari acidi grassi omega-3. Nei grassi di pesce, in particolare in quelli estratti dal fegato, sono contenute importanti vitamine: vitamina D e soprattutto vitamina A, quest’ultima in forma attiva e non sotto forma di provitamina, come nei vegetali dove sono presenti i caroteni, che tuttavia esistono anche nei pesci con carni salmonate.
deve essere stimata naturale, perché si ricollega alle necessità nutrizionali umane, che derivano da una genetica con antichissime radici. Malattie cardiovascolari. I rapporti tra colesterolo nel sangue e patologie vascolari da una parte, e la presenza di pesce nella dieta dall’altra, traggono spunto dall’osservazione che tra gli Eschimesi della Groenlandia le malattie cardiovascolari sono rare. L’alimentazione di questo popolo è a base di carne di foca e balena, a loro volta ricche d’olio di pesce marino. La Dieta Eschimese per la prevenzione delle malattie cardiache e soprattutto dell’infarto, e per mantenere basso nel sangue il livello di colesterolo, proposta da Hennekens, si basa su una dose di 350 grammi di pesce il giorno (pari a quasi 128 chilogrammi di pesce per persona e per anno). Molto citato è anche l’esempio del Giappone, dove il consumo medio annuo è di circa 36 chilogrammi per persona, con una mortalità da malattie delle coronarie molto bassa. Inoltre la mortalità di questo tipo è ancora più bassa nell’isola d’Okinawa, dove ogni persona mangia circa 70 chilogrammi di pesce l’anno (poco meno di due etti il giorno). Anche studi olandesi hanno dimostrato che vi è una correlazione tra la quantità di pesce mangiato e la riduzione della mortalità per alterazioni alle arterie coronarie. Da qualche tempo è inoltre noto che anche nell’uomo un’alimentazione con apprezzabili quantità d’acidi grassi insaturi influisce sul metabolismo dei lipidi, sul tipo e la qualità delle proteine del sangue e soprattutto sull’evoluzione dell’aterosclerosi e sull’incidenza d’alcuni tipi d’ipertensione arteriosa, d’infarto miocardico e d’ictus apoplettico. Artrite reumatoide e malattie infiammatorie. Le azioni sulle prostaglandine e leucotrieni degli acidi grassi omega-3 spiegano la capacità che una dieta a base di pesce grasso, od in misura minore anche dei suoi oli, ha di regolare le risposte infiammatorie. Da qui i
Il pesce alimento terapeutico I grassi dei prodotti ittici ed in particolare di quelli marini e selvaggi (ma oggi precise ricerche dell’INRAN sfatano quest’opinione) sono in parte diversi di quelli dei mammiferi e possono svolgere azioni extranutrizionali. In qualche caso si è sospettata la possibilità di qualche danno (come per l’acido cetoleico contenuto nelle aringhe), ma recenti e ripetuti studi epidemiologici hanno confermato le caratteristiche del pesce marino selvaggio, ma anche d’allevamento, quale alimento terapeutico. Una terapia che 91
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Capitolo II
Il pesce nell’alimentazione umana Punti di forza del pesce 1 – Proteine d’elevato valore biologico, pari a quelle degli animali da macello o da cortile. 2 – Grassi prevalentemente insaturi e pertanto buoni, quindi particolarmente indicati per l’alimentazione umana. 3 – Presenza di particolari acidi grassi (omega-3) dotati d’importanti azioni sanitarie e nutrizionali. 4 – Presenza di Vitamine quali la A, D, PP e del Gruppo B. 5 – Elevata digeribilità e pertanto alimento leggero adatto anche per chi ha una digestione lenta. 6 – Facile masticabilità e quindi alimento indicato per chi ha problemi di masticazione. 7 – Basso livello calorico, nei pesci magri e semigrassi, e quindi particolarmente consigliato per diete dimagranti. Punti deboli del pesce 1 - Il pesce non è un alimento completo e va utilizzato assieme ed altri, in particolare pane, pasta, riso, polenta. 2 – Elevata deperibilità e quindi necessità d’usare pesci freschissimi o conservati convenientemente.
risultati favorevoli nell’artrite reumatoide ottenuti da J. M. Kremer del Medical College d’Albany (N. Y., USA) e da A.D. Steinberg. Non confermati i risultati nell’asma bronchiale, emicranie, psoriasi ed anche esaurimento nervoso. Attività psicodietetiche del pesce. Si è ipotizzato che la composizione delle proteine del pesce, nelle quali non manca la tirosina, possa influenzare la produzione dei neurotrasmettitori cerebrali noradrenalina o dopamina, ma quest’attività non pare documentata nella pratica. Attività ormonali dei prodotti ittici. Per alcuni prodotti ittici è stata ipotizzata un’attività ormonale, ma non ancora sufficientemente dimostrata. Nelle ostriche si è enfatizzata una particolare concentrazione di zinco, un metallo che è noto avere interessanti azioni favorevoli all’immunità ed alla salute della pelle, ma soprattutto è coinvolto nella produzione dell’ormone della crescita e, pare, anche degli ormoni della riproduzione. Azioni immunitarie e cosmetiche dei prodotti ittici. Le caratteristiche nutrizionali dei prodotti ittici, il loro buon contenuto in aminoacidi essenziali ed in taluni minerali (ad esempio zinco) e vitamina A, sono favorevo-
li ad una buon’attività del Sistema Immunitario e quindi di un’efficace resistenza alle infezioni. Bibliografia Ackman R.G., Yurawecz M.P. (ed.). Mossoba M.M. (ed.), Kramer J.K.G. (ed.), Pariza M.W. (ed.), Nelson G. Conjugated linoleic acid (CLA) in lipids of fish tissues. Advances in conjugated linoleic acid research, Volume-1, 283-295, 1999 Baschetti R. Paleolithic nutrition. Eur. J. Clin. Nutr. 51 (10), 715-716, 1997 Broadhurst C.L. Balanced intakes of natural triglycerides for optimum nutrition: an evolutionary and phytochemical perspective. Med. Hypotheses, 49 (3): 247-261, 1997 Bulliyya G. Influence of fish consumption on the distribution of serum cholesterol in lipoprotein fractions: comparative study among fish-consuming and non-fish-consuming populations. Asia Pac. J. Clin. Nutr., 11(2), 104-111, 2002 Bulliyya, G., Reddy K.K., Reddy G.P., Reddy. P.C., Reddanna P., Kumari K.S. Lipid profiles among fish-consuming coastal and non-fish-consuming inland populations. Eur. J. Clin. Nutr., 44 (6), 481-485, 1990 Chen Wei Jao, Yeh Sung Ling, Chen W.J., Yeh. DS. L. Effects of fish oil in parenteral nutrition. Nutrition, 19, 275-279, 2003
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Cibo e nutrizione Cordain L., Eaton S. B., Miller J. B., Mann N., Hill K. The paradoxical nature of hunter-gatherer diets: meat-based, yet non-atherogenic. Eur. J. Clin. Nutr., 56 Suppl 1, S42-52, 2002 Eaton S.B., Eaton S.B. 3rd, Sinclair A.J., Cordain L., Mann N.J. Dietary intake of long-chain polyunsaturated fatty acids during the paleolithic. World Rev.Nutr. Diet. 83, 12-23, 1998 Eaton, S.B. What did our late paleolithic (preagricultural) ancestors eat?. Nutr.Rev., 48 (5), 227230, 1990 Eaton, S.B.; Eaton, S.B. 3rd; Konner, M.J. Paleolithic nutrition revisited: a twelve-year retrospective on its nature and implications. Eur. J. Clin. Nutr., 51(4), 207-161, 1997 Givens D. (ed.), Frayn K.N. Fats in the diets of animals and man, Birmingham, UK, 9 May, 1996, British Journal of Nutrition., 78: Supplement 1, 1997 Haenel, H. Phylogenesis and nutrition. Nahrung., 33 (9), 867-887, 1989 Hiroyasu I. e coll. J. Am. Med. Assoc., 285, 304312, 2001 (Assunzione di pesce ed acidi grassi omega-3 con la dieta e rischio d’ictus nelle donne) Kee C.D. Dietary habits and the state of the human oral cavity in the prehistoric age. TaehanChikkwa Uisa Hyophoe Chi., 28 (6), 555-558, 1990 Larsen T., Thilsted S.H., Kongsbak K., Hansen M.T.I. Whole small fish as a rich calcium sour-
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Capitolo II
Lattofagia: dalla naturale lattofobia alla lattofilia culturale
Antiche culture dell’area indoeuropea hanno sviluppato la pastorizia, con domesticazione d’animali da latte, e non è agevole comprenderne i motivi e soprattutto l’esatto svolgimento di quella che è stata definita la via del latte della domesticazione. Nelle popolazioni adulte umane antiche e precedenti ogni tipo d’agricoltura ed allevamento, il latte non era presente. In queste culture, non lattofile anzi lattofobe, si rileva una diffusa intolleranza al lattosio del latte. Come si è passati da una naturale lattofobia all’attuale lattofilia delle culture africane ed occidentali? È da ritenere che il formarsi della lattofilia sia passato attraverso una modificazione culturale del latte, trasformato in latte acido (yogurt ecc.) ed in latte cagliato e suoi derivati (formaggi, ricotte ecc.). Queste trasformazioni eliminano la totalità o gran parte il lattosio, e questo può aver reso possibile la selezione di linee genetiche umane lattosio-tolleranti, adatte all’alimentazione con latte non trattato. Perché l’uomo, probabilmente la donna, ha cercato e sviluppato la lattofilia? È da ritenere che nei latti acidi o caseificati siano presenti e forse esaltate alcune attività extranutrizionali del latte, ad esempio l’attività oppioide (simile alla morfina) della beta-caseina. Tra le attività extranutrizionali del latte è necessario considerare i seguenti aspetti di particolare importanza. 1 - Influenza delle attività extranutrizionali del latte nella domesticazione animale, secondo la cosiddetta via del latte. 2 - Tradizioni d’uso del latte in rapporto alle sue attività di tipo salutistico e di “elisir della giovinezza”. 3 - Uso tradizionale del latte nei diversi pasti giornalieri. 4 - Uso tradizionale del latte in associazione con altri alimenti ed in particolare cereali. In questa prospettiva bisogna considerare come e perché il latte animale è divenuto un alimento per una buona parte dell’umanità, assumendo una valenza d’alimento femminile, contrapposta all’alimento maschile rap-
Con il latte, l’evoluzione ha sviluppato un alimento naturale, specifico per ogni specie animale. Con la domesticazione d ’alcuni animali, l’uomo ne ha utilizzato il latte, trasformandolo in un alimento culturale, con problemi d’intolleranza, superati con le biotecnologie casearie. Infatti, lo yogurt, in Italia il più noto dei latti fermentati, è l’espressione di una delle più antiche vetero-biotecnologie inventate dall’uomo. I latti fermentati hanno indotto la selezione di una mutazione genetica che ha creato le popolazioni umane lattofile. Latte, alimento innaturale per l ’adulto, ed alimentazione darwiniana I mammiferi, nel corso della loro evoluzione biologica, hanno inventato e sviluppato il latte, che costituisce una particolare alimentazione del neonato, e gli fornisce i nutrienti necessari per lo sviluppo. Per questo, ogni specie di mammiferi ha il suo latte particolare. Superata la fase neonatale, durante la quale la ghiandola mammaria produce una secrezione particolare, il colostro, ed il periodo dell’allattamento, il latte scompare dall’alimentazione. Il latte, non è una provocazione, è un alimento innaturale per gli individui della specie umana che hanno più di quattro, al massimo cinque anni d’età quando, secondo la biologia umana, l’allattamento s’interrompe. La nostra specie, dalla sua comparsa sulla terra circa 150.000 anni fa, fino a qualche migliaio d’anni fa, non conosceva il latte alimentare, salvo quello dell’allattamento al seno del neonato. Il latte compare, e solo per alcune culture, con la pastorizia, quando l’uomo diviene un lattofago: mangiatore di latte e suoi derivati. Queste culture che sono dette “lattofile”, in contrapposizione alla naturale “lattofobia”, vale a dire non accettazione culturale del latte. 94
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presentato dalla carne, almeno secondo la concezione proposta dall’Adams (1990). Credenze tradizionali sul latte, consolidate in un ben articolato immaginario sociale e talvolta individuale, trovano conferma nelle attività extranutrizionali recentemente individuate in quest’alimento, che indubbiamente dimostra una sua peculiarità rispetto a tutti gli altri, e che gli deriva dal fatto d’essere l’unico alimento progettato ed elaborato dalla natura esclusivamente a questo scopo, anche se con caratteristiche adatte alle necessità biologiche e comportamentali di ciascuna specie, come sta indicando l’alimentazione darwiniana. In quest’ultimo orientamento sono interessanti le caratteristiche specie - specifiche del latte e bisogna attirare l’attenzione sulle conseguenze delle manovre genetiche in corso sui bovini delle razze da latte e volte a modificare le caratteristiche nutrizionali (ad esempio energia) ma anche extranutrizionali (ad esempio riduzione della beta-caseina) del latte, come pure i rapporti che esistono tra modello alimentare, dieta e spettro acidico dei grassi del latte. Il latte, come molti altri alimenti, ha avuto e mantiene un vasto e complesso immaginario sociale ed individuale, che va da una vera e propria cultura del latte, talvolta mitizzata, ad un’avversione che può anche divenire fobia. Entrambi gli atteggiamenti hanno valenze culturali collettive ed individuali. Il complesso fenomeno della mitizzazione e della fobia del latte ha importanti riflessi antropologici, che sono stati più volte affrontati sotto diverse prospettive, alle quali si è recentemente aggiunta (non sostituita) quella delle caratteristiche extranutrizionali del latte. In quest’ambito bisogna rilevare l’importanza oggi attribuita al latte, in ambito d’alimentazione darwiniana.
verse specie di mammiferi. Nulla in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione, ha affermato Theodosius Dobzhansky e tutto diviene chiaro se la composizione del latte d’ogni singola specie è riferita alle specifiche necessità del neonato e del tipo di rapporto madre - figlio, quindi in un’ottica funzionale, e il tutto è considerato nell’ambito della nutrizione evoluzionista. La composizione e le caratteristiche del latte, interpretate in un contesto evoluzionistico, sono funzionali alle caratteristiche somatiche e comportamentali della specie e soprattutto del rapporto madre e figlio, il tutto finalizzato al successo della specie. È tuttavia da rilevare che alcune caratteristiche funzionali travalicano la specie e possono essere interspecifiche. Il latte deve essere considerato come un Alimento Funzionale Specie - specifico, ma anche un Alimento Funzionale Interspecifico. Il latte Alimento Funzionale Specie – specifico. Il latte d’ogni specie animale, uomo compreso, ha una composizione adeguata alle caratteristiche funzionali del neonato e della prima infanzia ed in modo particolare velocità dello sviluppo del corpo e del cervello. Il latte Alimento Funzionale Interspecifico. È noto che la “via del latte” è una delle chiavi interpretative dell’ancora poco noto processo che ha portato alla domesticazione animale. Una via, quella dello scambio delle madri e dei cuccioli tra specie diverse, che ha sfruttato non solo gli aspetti nutrizionali (energetici, proteici ecc.), ma anche funzionali. Il latte, come molti altri alimenti, ha avuto e mantiene un vasto e complesso immaginario sociale ed individuale. Quest’aspetto è stato dettagliatamente analizzato sotto l’aspetto culturale ed antropologico ed è quasi un obbligo ricordare l’analisi di Marvin Harris (1990) che in modo molto incisivo ha distinto le culture lattofile da quelle lattofobe. In quest’ambito e per le loro speciali caratteristiche, i latti sono da considerare anche alimenti nutraceutici.
Diversità dei latti, alimenti funzionali e nutraceutici Un dato a prima vista sconcertante è l’estrema diversità compositiva del latte nelle di95
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Attività farmacologiche del latte Il latte è noto per le sue caratteristiche tipicamente nutrizionali (apporto d’energia, proteine, vitamine e sali minerali, acidi grassi ecc.). La sua composizione nutrizionale è molto complessa e va acquisendo dettagli sempre più fini, man mano che si utilizzano metodi analitici raffinati: a questo riguardo basterebbe citare gli ormoni e gli enzimi che contiene. Il latte è dotato anche di caratteristiche extranutrizionali dovute a molecole con attività sulle cellule e sugli organismi viventi, che lo fanno inserire tra gli alimenti nutraceutici. Che il latte ed i suoi derivati fossero una “medicina” era presente in molte culture umane. Con il progredire delle ricerche, si assiste all’identificazione di nuove molecole, presenti nel latte e nei suoi derivati, con particolari attività. Attività extranutrizionali del latte di tipo psicodietetico permettono di collegare quest’alimento a situazioni di benessere organico (eucenestesi) ed a stati emozionali, con possibili influenze sul comportamento individuale e sociale. Il latte è dotato d’attività antinfettive, che derivano dal suo contenuto anticorpale, cellule somatiche, lisozima (attivo in particolare sui batteri Gram positivi), chelazione del ferro esercitata a livello intestinale dalla lattoferrina, casomorfine. Il latte è provvisto di vitamine di cui è nota l’attività antinfettiva, come la vitamina A e la vitamina C. Il latte a livello gastrointestinale presenta attività antiacide legate al potere tampone delle sue proteine ed all’elevata quantità di sali minerali, soprattutto di calcio. Recentemente sono state messe in evidenza le azioni regolatrici della motilità intestinale delle casomorfine, l’azione favorente l’assorbimento del calcio esercitata dal lattosio e le funzioni regolatrici dell’assorbimento ed utilizzazione del colesterolo alimentare. Il lattosio (e non l’acido lattico) interviene in senso positivo nell’assorbimento intestinale del calcio. Questa caratteristica dà ragione del perché si ottengano risultati positivi con diete che prevedono limitate quantità di latte, che favori-
sce l’assorbimento del calcio presente anche nei vegetali. È da tempo noto che gli africani Masai hanno una bassa colesterolemia, nonostante l’elevato uso alimentare di latte, ovviamente in uno stile di vita che vede un’intensa attività muscolare e, probabilmente, anche per fattori genetici. Benché non sia stato ancora ben definito, tutto porta a ritenere che il fattore anticolesterolo sia da identificare con i fosfolipidi di cui il latte è abbastanza ricco e che si trovano prevalentemente nello strato proteico che ricopre i globuli di grasso. Nel latte di vacca i fosfolipidi ed il colesterolo sono in rapporto di circa 2,84:1 ed inoltre il contenuto di colesterolo nel latte di vacca è nettamente inferiore a quello di donna (mg 12,30 contro 25 mg/Mj). Nel latte intero il rapporto fosfolipidi/colesterolo risulta favorevole ad un controllo della colesterolemia, agevolando la formazione di HDL. In base a recenti indagini sui neuromediatori e sulle azioni di tipo neurocomportamentale svolte dal latte, sono da considerare in modo particolare le casomorfine, taluni aminoacidi e composti vitaminico-simili. Recenti indagini indicano come i grassi del latte hanno rilevanti attività salutistiche, in particolare di tipo extranutrizionale: azione antinfettiva tramite una migliore immunità; attività psicodietetiche; attività anticancerogene; attività ormonali, dirette ed indirette. Le singole attività extranutrizionali tendono a potenziarsi a vicenda, con un risultato di norma superiore alla somma dei singoli effetti. È anche in questa prospettiva che, recentemente, Linda K. Massey (2001) ha interpretato l’attività favorevole del latte nel contenimento dell’ipertensione arteriosa e nella riduzione del rischio d’ictus. Intolleranza al lattosio e lattofobia Il latte contiene una proteina (caseina) e soprattutto uno zucchero (lattosio) che per essere digeriti hanno bisogno di particolari enzimi. Qui c’interessa, in particolare, la lattasi, l’enzima che scinde il lattosio in zuccheri semplici (glucosio e galattosio). Solo 96
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gli zuccheri semplici sono utilizzati ed assorbiti dall’intestino. I neonati di tutti i mammiferi, nel loro intestino, hanno la lattasi, che scompare quando cessa l’allattamento. Più in dettaglio, la lattasi è, di norma, presente nell’intestino del feto (dalla ventitreesima settimana) ed ha la sua massima concentrazione nel neonato e nel bambino allattato. Successivamente, dal sesto mese di vita, l’enzima diminuisce per raggiungere, nell’adulto, valori di circa un decimo dell’attività enzimatica del neonato, potendo anche scomparire completamente. La produzione della lattasi e la durata di questa nell’arco della vita, sono regolate da geni. Il lattosio del latte, nell’intestino di persone che non hanno la lattasi, va incontro a fermentazione batterica, con la produzione dell’irritante acido lattico, con una diarrea acida, più o meno intensa. Inoltre, il lattosio non scisso dalla lattasi, richiama acqua ed aumenta il contenuto intestinale. Ne conseguono gonfiori intestinali ed una diarrea acida, tipica dell’intolleranza. Quando manca la lattasi si ha intolleranza al latte che contiene lattosio (non ai latticini, che ne sono privi). L’intolleranza al lattosio può essere primaria o secondaria. L’intolleranza al latte sarà più in dettaglio esaminata tra le patologie alimentari. Qui è utile dare un breve cenno al problema di come dall’intolleranza al latte si sia passati alla tolleranza al latte. Gli adulti di popolazioni umane “naturali”, sono costituzionalmente privi di lattasi e quindi non tollerano il latte. Una situazione che ancor oggi ritroviamo nei cinesi, americani precolombiani, aborigeni australiani e dell’oceano Pacifico ecc. Queste popolazioni fanno parte delle culture dette anche lattofobe, avverse al latte. L’alactasia (mancanza di lattasi che provoca l’intolleranza) ha un’incidenza molto diversa nelle popolazioni umane: si passa dal 3% in Svezia e Danimarca, al 100% in Giappone e molte aree dell’Asia e Africa. In Italia, con differenze tra setten-
trione e meridione, l’alactasia è presente nel 40% della popolazione. Queste diverse percentuali sono da interpretare secondo l’evoluzione della specie uomo. La genetica che corrisponde all’alactasia, con il 100% d’intolleranza al latte nell’età adulta, è da ritenere “primitiva”. Invece la variante “persistenza della lattasi”, che determina la tolleranza al latte e come vedremo a proposito delle popolazioni lattofile, è da ritenere conseguenza della selezione di una mutazione. Questa selezione sarebbe stata possibile dall’alimentazione con latti fermentati, nei quali i batteri lattici, ed in particolare lo Streptococcus termophilus, elaborano l’enzima mancante. Popolazioni umane lattofile Vi sono popolazioni umane nelle quali si è verificata una mutazione genetica e si è selezionata la “varietà” nella quale la produzione di lattasi continua per tutta la vita. In questo caso di parla di popolazioni lattofile, amanti del latte. Fanno parte di culture lattofile le popolazioni europee che, fin dalla preistoria, hanno sviluppato l’allevamento del bestiame e la produzione del latte, anche per procurarsi la preziosa vitamina D. Come dimostrano diverse ricerche, le popolazioni d’adulti cinesi, negri africani, indigeni americani, australiani e tanti altri popoli, presentano una più o meno assoluta intolleranza al lattosio. L’intolleranza al lattosio interessa il 20% della popolazione bianca d’origine europea (con punte sino al 40% in Francia), circa il 75% dei negri dell’America settentrionale, ma in Africa ed in Asia (estremo oriente) con certe popolazioni si arriva al 100%. In Italia meridionale, come in altri paesi mediterranei, l’intolleranza al lattosio è parziale (in Italia, infatti, quest’intolleranza passa dal 51% al nord al 71% al sud). La presenza del gene che mantiene la produzione dell’enzima lattasi è un cambiamento del genoma umano, molto importante per lo sviluppo alimentare di molte popolazioni umane. 97
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Mutazione genetica della lattofilia Com’è stato possibile sviluppare una cultura del latte, in popolazioni umane che n’erano intolleranti e nelle quali quest’alimento provocava disturbi? In modo schematico, oggi si ritiene che tutto iniziò circa seimila, ottomila anni fa, con la produzione di latte acido, più comunemente conosciuto come yogurt, attraverso quella che oggi è considerata una veterobiotecnologia. Il lungo ed ancora oscuro periodo della transizione neolitica sfocia in quella che può essere definita come la rivoluzione dell’età del bronzo, sulla quale si basa lo sviluppo delle culture eurasiatiche che hanno come centro la Fertile Mezzaluna, che tanta importanza ha avuto nell’origine della moderna cultura occidentale. In questa rivoluzione dell’età del bronzo, incominciamo a scoprire una serie d’eventi che non possono essere semplici coincidenze. Tra gli eventi di rilievo nella rivoluzione dell’età del bronzo, e con un ruolo non secondario, vi è la comparsa, il diffondersi ed il differenziarsi delle vetero-biotecnologie dei latti fermentati, in stretta associazione ad una variazione genetica di una parte della popolazione umana. È intuitivo come nelle popolazioni umane intolleranti al lattosio non si è sviluppato un uso alimentare del latte negli adulti. Al massimo e solo tardivamente si è sviluppato l’uso alimentare di derivati del latte privi di lattosio, come il formaggio ed, in certe condizioni climatiche ed ambientali, il burro. La tolleranza al lattosio, per la quale l’organismo umano mantiene per tutta la vita la capacità di elaborare la lattasi necessaria alla digestione del lattosio del latte, è una variazione genetica, ereditaria, solo parzialmente dominante negli ibridi per il carattere. La variazione genetica “tolleranza al lattosio” (che per comodità indicheremo come GL o “gene lattasi”) è certamente comparsa più volte ed in molte popolazioni, ma non si è potuta selezionare e diffondere per la già indicata mancanza di latte nell’alimentazione degli adulti. Questa selezione è però avvenu-
ta in alcune popolazioni eurasiatiche, in coincidenza della rivoluzione dell’età del bronzo, in rapporto allo sviluppo e diffusione dei latti fermentati. Nei latti fermentati una parte (solo una parte) del lattosio è trasformato in acido lattico od in alcole etilico. Inoltre i batteri lattici presenti nel latte fermentato elaborano enzimi, come la beta-galattosidasi, che scindono il lattosio e mantengono la loro attività dopo l’ingestione. In altri termini la fermentazione del latte prima della sua ingestione supera almeno in buona parte i problemi connessi all’intolleranza al lattosio e diviene un elemento indispensabile alla selezione e diffusione del gene GL in una popolazione. In una popolazione nella quale il gene GL è largamente diffuso si associa un sempre più vasto uso del latte. Si tratta delle già citate popolazioni lattofile, nettamente separate dalle lattofobe. Evoluzione culturale e biologica delle popolazioni, da lattofobe a lattofile Se le popolazioni lattofobe rappresentano la normalità ancestrale, le popolazioni lattofile, divenute tali soprattutto attraverso i latti fermentati, assumono i caratteri di un’innovazione, che non riguarda soltanto gli aspetti alimentari, nutrizionali e sanitari, ma che assume ruoli più ampi. Lattofilia e lattofobia sono espressione di un’evoluzione culturale che si è sviluppata in stretto rapporto con una mutazione genomica e quindi con un’evoluzione biologica. Lattofilia e lattofobia si associano anche ad altre condizioni e sono due situazioni antropologiche complesse, con numerose conseguenze. Riferendoci alla rivoluzione dell’età del bronzo avvenuta nell’area delle popolazioni lattofile dell’area eurasiatica, si è notato che l’utilizzo alimentare del latte, si associa all’impiego dell’aratro e del carro, con tutte le implicazioni sociali ed economiche correlati. Le popolazioni umane lattofobe in quanto intolleranti al latte sono le stesse che o non conoscono i due strumenti (anche se, magari, come certe popola98
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zioni dell’America precolombiana, conoscevano la ruota) o, conoscendoli, come il caso dei cinesi, sino ad ieri li impiegavano, particolarmente il carro, prevalentemente con una trazione umana. Questo potrebbe significare che lo sviluppo dell’allevamento per la produzione del latte “promuove” anche l’impiego degli animali ai fini da traino. L’aratro ed il carro, oltre che essere tra loro collegati nell’ambito della genesi della città, costituiscono l’epicentro d’altri grandiosi processi,
quali la progressiva prevalenza della struttura familiare patrilineare, con predominio del maschio e del matrimonio virilocale (cioè la nuova famiglia si costituisce nel luogo di residenza del marito) e quindi, in seguito, grazie all’accentramento di tipo maschile, della nascita dello stato. In precedenza la preponderanza era invece di chi ammassava il cibo, lo conservava e lo trasformava, lo distribuiva: la madre di famiglia. Non è infine da sottacere il rilievo che le culture lattofobe sono anche quelle nelle quali vi è stato un maggiore sviluppo di droghe. Un rilievo che si collegherebbe alle attività extranutrizionali
Caratteristiche principali che diversificano i latti nei mammiferi – Livello energetico
Funzioni del latte in un’alimentazione evoluzionista
– Ripartizione dell’energia, tra quella fornita dai grassi e dagli zuccheri
– Da alimento per l’infanzia ad alimento per tutte le età
– Contenuto proteico – Qualità delle diverse proteine
– Da alimento e nutrimento a modulatore organo-specifico
– Qualità dei grassi – Contenuti in minerali
– Attività neuro-ormonali e psicodietetiche del latte
– Contenuti in vitamine
– Additivazione organica nell’evoluzione della nutrizione umana: alimento funzionale in un’alimentazione modellata
– Attività antinfettive aspecifiche e specifiche
Aspetti funzionali dei latti nei mammiferi – Caratteristiche della prole (atta o inetta)
Attività funzionali del latte
– Tipo d’allattamento (continuo od intermittente)
– Funzioni nutrizionali
– Necessità energetiche del neonato, in relazione alle condizioni climatiche ambientali
– Qualità delle caseine
– Velocità d’accrescimento corporeo del neonato
– Induzione enzimatica
– Entità d’accrescimento di taluni apparati, in special modo quello nervoso
– Funzioni protettive
– Durata dell’allattamento più favorevole, per il neonato e la madre
– Funzioni prebiotiche
– Spettro e tipologia degli acidi grassi – Protezioni anticorpali specifiche – Intersupplementazione aminoacidica – Attività di stimolo e regolazione delle fermentazioni lattiche
– Caratteristiche comportamentali della specie – Tipologie microbiologiche dell’apparato digerente
– Attività bifidogena
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Peptidi biologicamente attivi derivati dalle proteine del latte (da Schlimme e Melsel, 1994) Peptidi attivi
Precursore proteico
Attività biologica
Casomorfina Alfa-lattorfina Beta-lattorfina Lattoferoxina Casoxina Casokinine Casoplatelina Immunopeptidi Fosfolipidi
Alfa e beta-caseina Alfa-lattalbumina Beta-lattoglobulina Lattoferrina Kappa-caseina Alfa-Beta-caseina Kappa-caseina, transferrina Alfa-Beta-caseina Alfa-Beta-caseina
Agonista oppioide Agonista oppioide Agonista oppioide Antagonista oppioide Antagonista oppioide Antipertensivo Antitrombotico Immunostimolante Trasporto minerali
Frequenza dell’allele recessivo dell’intolleranza al latte (assenza di lattasi intestinale nell’adulto) in diversi gruppi etnici (da Kretchmer, 1972) Svedesi Europei Svizzeri Americani caucasici Finlandesi Africani tussi Africani fulani Americani neri Australiani aborigenI Africani bantu Cinesi Thailandesi Americani indiani
Frequenza allele recessivo
Intolleranza al latte (da 0 a 1)
2 4 10 12 18 20 23 75 85 89 93 98 100
0,140 0,200 0,316 0,346 0,424 0,447 0,480 0,870 0,922 0,943 0,964 0,99 1,000
del latte e dei suoi derivati, in particolare casomorfine ed altri composti peptidici ad azione neuro-ormonale.
s’impongono. La prima è che, nella specie umana, diversamente dagli animali, la cultura interviene, in misura rilevante, nel rapporto tra costituzione genetica ed alimentazione. La seconda considerazione riguarda gli effetti genetici sulla popolazione umana di una delle più antiche e tradizionali vetero-biotecnologie, quella della fermentazione
Veterobiotecnologia dello yogurt e mutazione genomica umana Alcune, importanti conclusioni sull’alimentazione darwiniana del latte e suoi derivati 100
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Incidenza media dell’intolleranza al lattosio negli adulti d’alcune popolazioni (da Dahlqvist, 1993, Franzé e Nervi, 2002) Paese
Percentuale d’intolleranza
Svezia Danimarca Finlandia Svizzera Inghilterra Francia Italia Africa Giappone ed Estremo Oriente Cina Asia Australia Stati Uniti – Popolazione bianca Stati Uniti – Popolazione nera Russia Europea ed Asiatica (URSS)
3 3 16 17 20 – 30 40 40 100 100 90 95 84 10 73 19-20 / 40-90
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del latte. Infatti, applicando all’alimentazione umana la biotecnologia dei latti fermentati, dalla genetica “naturale” d’intolleranza al lattosio, si è passati ad una nuova genetica, di tolleranza al lattosio. Una terza considerazione riguarda l’immagine culturale dei latti fermentati e lo yogurt. Questi alimenti, che nell’immaginario popolare sono quasi simbolo di naturalità, hanno invece provocato una variazione genetica nelle popolazioni umane, per fortuna benefica, che oggi sarebbe giudicata per lo meno inquietante! Bibliografia AA.VV. Il latte e i suoi derivati come fonte alimentare di calcio. SISA, Milano, 1991 AA.VV. L’intolleranza al lattosio nella pratica clinica: credenze, timori, comportamenti clinici e realtà. Convegno Policlinico di Verona, 9 giugno 2001
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Capitolo II
Miele: voglia di dolce
to che ne è privo, e che sono molto scarsi in quello grezzo. Nel miele, oltre alle componenti nutrizionali rappresentate dagli zuccheri, proteine, vitamine e minerali, è contenuta un’amplissima ed ancora incompletamente nota quantità di molecole o principi secondari che, singolarmente od in associazione ed in rapporto alle concentrazioni, svolgono interessanti azioni profilattiche e terapeutiche. Le principali attività sanitarie del miele possono essere riassunte come segue. Attività probiotica - La presenza di zuccheri, acidi organici (ad iniziare dall’acido salicilico) ed ormoni favorisce lo sviluppo di una flora intestinale batterica buona, con prevalenza dei batteri lattici. Questo condiziona una migliore nutrizione (probiosi). Attività antinfettiva intestinale - Il miele contiene principi di tipo antibiotico, attivi verso numerosi microrganismi: streptococchi, stafilococchi, enterobatteri ecc. Attività antinfettiva locale - Attraverso meccanismi non ancora completamente noti, di tipo biologico e chimico, il miele svolge un’azione antinfettiva sulle piaghe ed ulceri, con stimolo della cicatrizzazione. In questo contesto è da inserire l’attività contro la carie dei denti, per la sua azione contro i batteri orali che fermentano gli zuccheri e producono acidi che alterano la dentina. Nel miele sono concentrati i principi attivi contenuti nelle piante da cui deriva il nettare raccolto dalle api (miele di nettare). Questi principi attivi, in rapporto soprattutto alla loro concentrazione, svolgono azioni farmacologiche e terapeutiche. Per questo motivo i mieli monoflora hanno particolari, specifiche e selettive attività terapeutiche, ma in qualche caso anche tossiche. Fin dalla antichità, al miele in generale ed a singoli mieli monoflora sono state attribuite proprietà terapeutiche, che in buona parte sono state oggi confermate, più per gli aspetti preventivi che non curativi di malattie o disturbi di una certa entità. Le azioni antinfettive dei mieli sono da riferire ai composti alifatici ed
La voglia di dolce profondamente inserita nella natura umana e collegata al primo alimento, il latte, nel passato poteva essere soddisfatta soltanto con il miele e la frutta. Dal miele l’uomo ha ricavato una delle prime bevande alcoliche, l’idromele. Il miele, tra allevamento ed agricoltura L’apicoltura è un allevamento animale d’antichissima tradizione, perché efficace sistema di produzione di un prezioso alimento, il miele, ottenuto da vegetali altrimenti assolutamente non commestibili per l’uomo. Per questo, la raccolta del miele selvatico prima, e l’apicoltura poi, si sono sviluppate e diffuse in molte parti del mondo. Il miele è il prodotto alimentare che le api producono dal nettare dei fiori o dalle secrezioni provenienti da parti vive di piante o che si trovano sulle stesse (melata), che esse bottinano, trasformano, combinano con sostanze specifiche proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei favi dell’alveare. Il miele ha una composizione molto complessa ed al tempo stesso variabile, come si può intuire dalla diversa origine (polline e melata). In modo analogo i diversi tipi di polline influiscono sulle sue caratteristiche organolettiche: colore, sapore, profumo, consistenza ecc. e presenza di molecole attive provenienti dai vegetali. Attività nutrizionali e sanitarie del miele Le attività nutrizionali del miele sono in stretta relazione alla sua composizione. Il miele è un alimento essenzialmente energetico ed un buon dolcificante. Importante è la qualità degli zuccheri, per circa un terzo costituito da glucosio, lo zucchero semplice presente nel sangue dei mammiferi, è assorbito dall’intestino senza necessità d’alcun processo digestivo. Anche gli altri zuccheri sono molto digeribili e con elevata biodisponibilità. Il miele contiene inoltre vitamine e minerali, a differenza dello zucchero raffina104
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Rischi del miele Il miele non risente in modo significativo degli inquinamenti ambientali, perché quando questi superano un certo livello, le api o sono uccise o hanno disturbi e di conseguenza non producono il miele. Il miele è prodotto da insetti sani che si frappongono come filtri tra noi e l’ambiente e ci assicurano un alimento sano. La grande differenza biologica che vi è tra le api e gli uomini evita rischi di trasmissione d’infezioni. Tuttavia in alcuni mieli è stata
aromatici (terpenoidi) presenti soprattutto nei mieli monoflora d’acacia, tiglio, castagno o multiflora, in particolare pinene, canfene, eucaliptolo, linalolo, alcol benzilico, farsenolo, limonene ed altri composti di derivazione vegetale. Questi composti sono presenti nei diversi tipi di miele nella quantità da 0,12 a 0,26% ed esercitano una significativa attività antibiotica nei riguardi di molti microrganismi (Escherichia coli, Staphylococcus, Streptococcus, Klebsiella, Pseudomonas, Candida ed altri microrganismi).
Alcuni componenti secondari del miele (elencati in ordine alfabetico e NON di concentrazione o di frequenza di presenza) Acidi organici - Acetico – Butirrico – Citrico – Cloridrico – Formico – Fosforico – Gluconico – Malico Lattico – Piroglutammico - Salicilico – Succinico Inquinanti e contaminanti Inquinanti ambientali (Cadmio, Piombo ecc.) Inquinanti batterici (Clostridium botulinum, Enterobatteri ecc.) Contaminanti da processi d’estrazione, lavorazione del miele, contenitori ecc. Ormoni e sostanze ormonosimili. Acetilcolina - UGF (Fattori sconosciuti di crescita) – Fitostimoline Veleni vegetali - Principi attivi dei seguenti vegetali: aconito – azalea – belladonna – coca – digitale lauroceraso – oleandro – scilla – stramonio
Proprietà farmaco-terapeutiche tradizionalmente attribuite ad alcuni mieli monoflora Abete - Antisettico generale, Antinfiammatorio vie respiratorie, Diuretico Acacia - Regolatore intestinale Arancia – Antispasmodico, Neurosedativo Biancospino – Antispasmodico, Neurosedativo Castagno - Regolatore circolazione sanguigna Erica - Antisettico generale, Antisettico apparato urinario e diuretico, Antianemico Eucalipto - Antisettico generale, Antisettico apparato respiratorio, Antisettico apparato urinario Girasole – Antipiretico Grano saraceno – Antianemico Lavanda - Antisettico generale, Antinfiammatorio, Antispastico Rosmarino – Colagogo, Coleretico Tiglio - Antispasmodico, Neurosedativo Timo - Antisettico generale Trifoglio – Dinamogenico
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riscontrata la presenza di spore del Clostridium botulinum che potrebbero essere pericolose per bambini lattanti. Il miele si dimostra capace tuttavia di inibire lo sviluppo delle forme vegetative del Clostridium botulinum, peraltro inattivate dalla pastorizzazione, che distrugge anche la tossina botulinica (non la spora batterica). Esistono anche dei mieli tossici, che già nell’antichità erano stati descritti da Diodoro Siculo e da Senofonte (Anabasi, IV, 8, 20-21). La tossicità del miele deriva dalla tossicità delle piante ai cui fiori avevano attinto le api. Ancor oggi sulle coste del Mar Nero fioriscono l’azalea, l’aconito, il giusquiamo, il rododendro pontico, il col-
chico, tutte piante velenose, ed anche in epoche più recenti si sono verificati fenomeni analoghi a quelli descritti da Diodoro e Senofonte. Tra i mieli che contengono principi attivi farmacologici vi sono quelli che si producono nelle Ande, dove le api bottinano i fiori di coca e producono mieli con elevate quantità di cocaina. Miele ed alimentazione darwiniana Certamente il miele è stato uno dei più importanti dolcificanti della preistoria e la sua facile fermentabilità ha contribuito allo sviluppo delle bevande alcoliche ed inebrianti (idromele) e quindi all’origine della cucina.
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ALIMENTI VEGETALI ED ALIMENTAZIONE DARWINIANA
segale, quelle dell’Asia centrale il panico ed il miglio, quelle dell’Africa il sorgo ed il miglio ed infine quelle dell’America il mais, senza dimenticare il riso di vaste aree dell’Asia. Senza entrare a discutere perché e come i cereali sono stati resi domestici, argomento esaminato nella prima parte, è necessario rilevare che quasi tutti i cereali sono dotati di caratteristiche ed attività negative e rimarcare che buona parte di queste attività sono eliminate, ridotte o per lo meno fortemente contrastate dalle operazioni di cucina, che principalmente possono essere elencate come segue. 1. Utilizzo alimentare solo di una parte dei grani, previa macinazione (ad esempio farina) o previa fermentazione liquida (birra). 2. Trattamento con il calore (tostatura). 3. Azione d’alcali inorganici (calce, ceneri vegetali ecc.) 4. Azione di acidi organici (di solito derivanti dalla fermentazione). 5. Trattamenti combinati ed in particolare separazione di una sola frazione del cereale, azione d’alcali od acidi e successivo trattamento con il calore secco (ad esempio tortillas di mais e pane di frumento) od umido (puls o minestrone). Il legame tra l’agricoltura cerealicola e la cucina è così stretto da essere divenuto quasi un esempio paradigmatico di come la cucina sia da considerare una parte essenziale del processo d’addomesticamento dei vegetali. In una prospettiva d’alimentazione evoluzionista, quando questo legame è stato allentato od interrotto, ad esempio con il cambiamento o l’alleggerimento dei trattamenti di cucina, sono comparse patologie nutrizionali, tra le quali hanno un ruolo quasi emblematico malattie quali la celiachia (oltre considerata) e la pellagra.
Ampia e complessa è la gamma d’alimenti vegetali presenti nell’alimentazione umana naturale, prima dell’invenzione dell’agricoltura, dell’allevamento e della cucina, come indicato nella prima parte. Gli alimenti vegetali sono stati esaminati sotto l’aspetto energetico e plastico, più recentemente anche come portatori di molecole strategiche indispensabili per la vita, come le vitamine, od indispensabili per un buono stato di salute. La necessità di queste molecole può essere compresa soltanto nel paradigma darwiniano. Una particolare attenzione deve essere dedicata ad alcuni alimenti vegetali e tra questi i cereali, le leguminose, gli ortaggi e le piante aromatiche, la frutta ed alcune bevande vegetali. Cereali: alimenti che l’uomo ha adeguato alle sue necessità La rivoluzione agricola è strettamente collegata alla coltivazione dei cereali, i cui semi sono facilmente conservabili e rappresentano un’importante fonte d’energia, anche se non sono facilmente digeribili. Alla coltivazione dei cereali si è dovuto associare un trattamento, soprattutto quello fermentativo, necessario per controllarne gli effetti negativi di tipo tossico, antinutrizionale e connessi alla riduzione della biodiversità alimentare. Per brevità considereremo solo due cereali: frumento e mais. Coltura e cultura dei cereali Gran parte delle culture agricole sono identificate dalla coltivazione di uno o più cereali. Le culture della Fertile Mezzaluna e del Mediterraneo hanno avuto e mantengono come marcatori culturali il frumento e l’orzo, le culture dell’Europa settentrionale la
Frumento ed altri cereali È ancora discusso se il primo cereale coltivato sia stato l’orzo od il frumento primitivo, 107
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Pane prodotto con il sistema tradizionale del lievito madre od acido. La fermentazione del pane con il lievito madre od acido (saccaromiceti e lattobacilli) spontaneo od originato dal mosto del vino o da frutta fermentate, comporta una denaturazione proteica, facilitata dalla lunga durata del processo fermentativo (lievitazione). In questa lievitazione è prevalente la presenza di acido lattico. Il processo di denaturazione proteica aumenta con la cottura, soprattutto se prolungata, come avveniva nei forni tradizionali a legna. Il pane prodotto in questo modo, non solo ha minori attività allergeniche (quindi bassi rischi di celiachia), ma anche minori attività negative di tipo antinutrizionale, antivitaminica, antienzimatica ecc. Questo pane, inoltre, per la sua acidità resiste bene all’ammuffimento. Attività negative, invece, si riscontrano nelle odierne condizioni di panificazione solo con i saccaromiceti (lievito di birra), nei prodotti da forno ottenuti con processi di “gonfiatura” con gas prodotti da reazioni chimiche o nei prodotti non fermentati (prodotti azzimi, paste fresche o secche di grano tenero o duro). Tra le inevitabili conseguenze negative vi è indubbiamente il maggior rischio d’intolleranze e, tra queste, anche di celiachia (vedi).
denominato farro, nelle sue due varietà di farro piccolo e di farro grande, un etimo che si trova in molte lingue. Con far i latini indicavano tutti i cereali panificabili (da qui il termine farina). Gli Egiziani avevano il termine har, gli Ebrei bar ed i Celti bara. Si ritiene che partendo dalla fertile mezzaluna, la cerealicoltura si diffuse all’Europa con la velocità di circa un chilometro l’anno, arrivando tra il 7.000 ed il 6.000 avanti l’Era Corrente in Grecia, tra il 4.000 ed il 5.000 in pianura padana e nel 2.000 avanti l’E. C. nell’Europa settentrionale. Oggi esistono due grandi varietà di frumento: frumenti teneri e frumenti duri. La farina dei frumenti teneri, impastata con acqua, tende a fare colla ed è usata soprattutto per la panificazione o per le paste all’uovo. I frumenti duri sono più ricchi di proteine e soprattutto di glutine. Con la macinazione, il frumento duro ha una frattura vitrea, non si spappola e granula a spigoli vivi dando origine alla semola. Il glutine, con l’acqua dà origine ad un impasto elastico che non fa colla. La pasta di grano duro ha un’elevata capacità d’assorbimento dell’acqua, cotta per pochi minuti non si spappola e rimane al dente. Nell’alimentazione tradizionale, sorta e sviluppatasi con l’agricoltura, il frumento e gli altri cereali erano utilizzati soprattutto per la fabbricazione della birra e del pane. Due tecniche che inattivano parte dei fattori negativi sopra citati. In proposito è da rilevare quanto segue. Birra ed altre bevande fermentate preparate con i cereali. La produzione di queste bevande prevede una serie di fermentazioni: di regola in una prima fase vi è la germinazione del seme e la formazione di malto; in una seconda fase vi è una fermentazione alcolica. Nella birra è utilizzata soltanto la parte liquida, mentre la parte solida (trebbie di birra) è eliminata. Ne consegue che tutti gli aspetti negativi dei cereali usati sono inattivati od eliminati. Nella celiachia (vedi) non esiste un’intolleranza da birra, anche se preparata con il frumento o l’orzo.
Pane, segno distintivo di cultura e civiltà In origine i semi dei cereali erano raccolti e mangiati, come dimostra l’usura dei denti degli ominidi, spesso dopo una breve tostatura. Successivamente si cominciò a macinarli ed a mescolarli con acqua per farne pappe. A quel tempo, l’uomo aveva già arrostito la carne, ma arrivare alla lavorazione dei cereali, produzione della farina, introduzione degli ingredienti e cottura della pasta voleva dire avere raggiunto un elevato stadio di civiltà. Il lievito comparirà più avanti, infatti, i più antichi residui di pane lo rivelano quasi sempre azzimo. Le prime tracce di pane lievitato si trovano nell’antico Egitto. Contemporaneamente, nell’epopea medio 108
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orientale di Gilgames, antica opera letteraria, che affonda le radici nel terzo millennio prima dell’Era Corrente, si racconta di Enkidu, un uomo animalesco iniziato alla civiltà grazie a una donna che gli offre pane. Così nel XI secolo a.E.C. Omero nell’Odissea chiama gli uomini “mangiatori di pane”, per distinguerli dagli altri esseri che non sanno preparasi il cibo. È quindi tale il valore del pane che le testimonianze più antiche percepiscono l’atto di preparare e mangiare il pane come momento di inizio e segno distintivo della civiltà umana. I gesti per avere farina e pane sono così fondamentali per la vita dell’uomo, tanto da imprimersi in modo indelebile in molte lingue mediterranee: nell’accadico, antica lingua semitica, la parola granum-quaranum significava ammucchiare, immagazzinare. La seconda radice dà forma al verbo dis-cernere che indicava l’atto di separare il grano dalla paglia. La base pènu, della parola pane, significava macinare, mentre la base sé di se’um, il seme, significava aprirsi, essere fertile. Dall’incrocio delle basi penu e se’um nascono le parole pestare, impasto, pasta e pasto. La parola latina pastus, mostra poi come per l’alimentazione di molti popoli mediterranei sia stato fondamentale l’uso degli impasti di farine. Pane, poi, ha in latino la stessa radice di pascere ossia di dar da mangiare. Con il termine far (e da qui il nostro termine di farina) i latini indicavano tutti i cereali panificabili. Così facevano gli egizi con har, gli ebrei con bar e i celti con bara. In quest’ultimo caso sorge l’accostamento con il termine birra ottenuta appunto dalla fermentazione di un cereale e base di un importante lievito per la panificazione. Non si sa quando e come l’uomo abbia conosciuto i processi fermentativi dei cereali e quelli più generali dei cibi. A Babilonia pane e birra erano intercambiabili, il pane era birra mangiabile e la birra pane potabile. In tempi successivi, Ulpiano, giurista romano, accenna ad una birra fatta da pane fermenta-
to. Bisogna in ogni modo ricordare che la lievitazione panaria ha avuto diverse origini e si è differenziata in modo tale che – almeno un tempo – ogni regione, ogni territorio, ogni paese e ogni famiglia aveva il “suo” pane, le cui caratteristiche derivavano da una serie di condizioni, non ultima il tipo di lievito usato (birra, vino, spontaneo o lievito madre), per le quali non è facile, forse impossibile, stabilire una cronologia. Nell’epoca romana la panificazione raggiunge un’elevata qualità e raffinatezza gastronomica: Plinio il Vecchio riporta notizie sul pane detto artrolagano, che era composto di farina, miele e olio. C’erano poi gli streptici costituiti da una sfoglia sottile, che era rivoltata durante la cottura. In epoca barbarica la produzione del pane diminuisce drasticamente e diventa raro e rozzo per effetto delle culture celtiche del nord, che contrappongono alla cultura romana una vita primitiva e rude. I pani più abominevoli, e probabilmente sfornati in tempi di carestia durante l’alto medioevo, sono stati trovati in Svezia: essi sono fatti per un 90% di corteccia di pino o di paglia. Soltanto con la ricostruzione del Sacro Romano Impero nel X secolo ogni singolo stato avrà la possibilità di uno sviluppo agricolo e panario secondo il territorio; svincolandosi dall’organizzazione feudale, la panificazione diventerà un’arte vera e propria, libera da restrittivi e onerosi regolamenti. Nel XIII secolo nascono le associazioni di mestieri tra cui quelle dei mugnai e dei panettieri. Nel secolo successivo, l’evoluzione tecnologica porta alla realizzazione nel nord dell’Europa dei mulini a vento che permettono una farina più raffinata, anche se molto costosa e per i ricchi; la popolazione, soprattutto quella del nord, utilizzerà fino al secolo scorso farine più economiche come quella di segala, d’orzo, d’avena. L’uso della farina di grano rimane e si sviluppa maggiormente nelle terre mediterranee. In Italia, nei monasteri il pane è particolarmente saporito e adatto ad essere mangiato anche senza com109
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panatico. Con l’epoca moderna, arriva dalle Americhe la patata e il mais, che per la loro facilità di coltivazione diventeranno alimenti estremamente popolari. La coltivazione del grano d’altra parte usufruisce dello sviluppo agrario avutosi nel rinascimento e permette di elevare le produzioni medie per ettaro, anche se le tecniche panarie restano quelle medievali. È dal ‘700 che l’industria panaria migliora: in quel periodo nasce ad esempio il grissino torinese, che ottiene subito un gran successo. Napoleone tenta di farlo riprodurre a Parigi, da due grissinieri torinesi. Il tentativo, però fallisce: nella capitale francese mancano l’aria e l’acqua piemontese, che più degli altri ingredienti, contribuiscono, si dice, alla buona riuscita del prodotto. Allora, come oggi il primo sapore è quello che conta. Anche dal punto di vista scientifico sono stati fatti passi determinanti: nel 1728 Bartolomeo Beccari scopre il glutine; successivamente Justus von Liebig perfeziona l’analisi dello scienziato italiano e scopre quanto i vegetali in generale e nel nostro caso il grano si nutrono di minerali e non di sostanze organiche in decomposizione. Con Liebig inizia la coltivazione intensiva a base di concimi chimici adeguati, che farà dimenticare le spaventose carestie medievali. Ai primi dell’Ottocento lo svizzero Muller rivoluziona la tecnica molitoria inventando il mulino a cilindri: il grano anziché essere macinato è schiacciato fra due rulli così il corpo farinoso scivola fuori della scorza alla quale rimane attaccato anche il germe. Questo procedimento realizzò il sogno di avere velocemente e in grandi quantità una farina bianchissima e facile da conservare. Tuttavia questo procedimento presenta il grande svantaggio di separare dalla farina tutte le proteine della crusca, gli oli e le vitamine. Per tutto questo secolo fino alla seconda guerra mondiale lo sviluppo tecnologico porta gli Stati Uniti a diventare il granaio del mondo, perché le applicazioni intensive trovano estensioni che in Europa non esistono. Solo all’inizio del ‘900
la Russia intensifica ed estende alla Siberia la coltura del grano: tutto ciò è frutto dell’applicazioni della legge di Mendel che permette l’incrocio tra varietà ricche di chicchi con varietà resistenti al freddo, un’operazione che consente anche d’avere varietà che resistono ai climi tropicali indiani, australiani e africani. Ma il pane moderno deve le sue caratteristiche e impieghi industriali soprattutto al lievito, che è sottoposto negli anni del ‘900 a selezioni che permettono di controllare la lievitazione. D’altro canto però si avranno sempre più pani leggeri e che induriscono nella giornata. Dopo il secondo conflitto, i paesi industrializzati sperimentano una fase di sviluppo che non ha eguale nella storia economica del genere umano per durata ed intensità. Sorge così una “civiltà dell’abbondanza”, facile preda del consumismo e del superfluo. In un simile contesto il pane diviene contorno d’elaborate pietanze ed è usato con distratta sufficienza. Anzi esso è posto tra i prodotti dietetici delle farmacie con a fianco la crusca in sacchetti sigillati, un tempo inseparabile compagna. Mais Il mais è il principale cereale coltivato in epoca precolombiana nelle Americhe. Per le sue caratteristiche biologiche ed agronomiche ha avuto una diffusione mondiale, con una gran varietà di linee genetiche. Il mais è usato in alimentazione umana sotto diverse forme: pannocchia a maturazione cerosa e cotta a calore secco od umido; fermentato per produrre un tipo di whisky (bourbon); farina per la produzione di tortillas o polenta; fiocchi di mais (cornflakes) o mais scoppiato (pop corn) ecc. Aspetti negativi del mais sono la sua attività allergenica, il suo contenuto in enzimi ed in acido fitico, la sua attività antivitaminica e la sua scarsa dotazione in vitamina PP (Preventive Pellagra o niacina). Inserito in un’alimentazione unilaterale, in Italia e soprattutto in pianura padana, il mais ha provocato la malattia nota come pellagra, 110
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mentre turbe analoghe non erano presenti nel paese d’origine, dove il mais aveva un diverso trattamento. Infatti, nell’America centrale il mais era utilizzato dopo essere stato impastato con alcali e cotto a secco (tortillas). Il trattamento combinato alcali e calore secco permette la liberazione di niacina (vitamina PP) dalla trigonellina, e contribuisce a ridurre il potenziale tossico di micotossine eventualmente presenti. Interessanti indagini antropologiche hanno cercato di spiegare i meccanismi attraverso i quali le popolazioni dell’America precolombiana hanno sviluppato una cucina del mais con alcalinizzazione e calore secco. Incidenti sono invece comparsi quando il mais, in Italia, è stato utilizzato sotto forma di farina bollita in acqua (polenta gialla) o sottoposto ad una fermentazione acida (pane di mais), seguendo la tradizione culinaria sviluppata per il farro ed altre graminacee similari. Questi trattamenti culinari applicati al mais non permettono la liberazione di niacina (vitamina PP) e neppure una sia pur parziale inattivazione delle micotossine eventualmente presenti. Da qui, in modo molto schematico, la comparsa, in un’alimentazione unilaterale, della pellagra (vedi).
se sono ricche di proteine e dalla loro associazione si ha un’alimentazione sufficientemente equilibrata. Si può tuttavia supporre che all’inizio i cereali fossero dei complementi alle proteine della carne, come fa anche supporre - o almeno così è stato interpretato - il cannibalismo nell’America precolombiana. Ogni cultura agricola ha, inoltre, sviluppato cucine nelle quali i pacchetti Centri di diffusione dei principali cereali agricoli Avena Frumento Mais Miglio Orzo Panico Riso Segale Sorgo
Europa Vicino Oriente (Fertile Mezzaluna) America Centrale Africa ed Asia Centrale Vicino Oriente (Fertile Mezzaluna) Asia Centrale Asia Sud – Orientale Europa Africa
Più significative caratteristiche ed attività nutrizionali negative dei cereali (da Ballarini, 1989, con modifiche)
Cereali e nutrizione darwiniana Il successo dei cereali in alimentazione umana si correla soprattutto alle loro condizioni di uso. Non vi è alcuna cultura che abbia addomesticato, coltivato e sviluppato uno o più cereali senza aver anche coltivato una o più leguminose. Ogni cultura agricola matura è sempre basata su “pacchetti nutrizionali” costituiti da cereali e leguminose. Nell’area mediterranea frumento, orzo ed altri cereali si associavano ai piselli, fava, veccia, lupino ecc. Nell’area americana il mais si associava ai fagioli. In Cina il riso si accoppiava alla soia. I pacchetti nutrizionali costituiti da cereali e leguminose si basano sull’integrazione delle loro caratteristiche nutrizionali. Mentre i cereali sono ricchi d’amidi, le legumino-
– Attività allergizzante – Attività fitasica (squilibrio calcio - fosforo) – Attività morfinosimili (exorfine) – Attività ormonali (estrogene) – Azioni antinutrizionali – Azione antivitaminica (B 6) – Azione demineralizzante (acido fitico) – Azioni tossiche (micotossine - idrocarburi nei grani tostati) – Inibizione enzimi digestivi attivi sugli amidi e le proteine – Minerali tossici (molibdeno, mercurio piombo, cadmio)
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Principali caratteri differenziali delle paste alimentari Caratteristica
Pasta fresca
Pasta secca
Tipo di frumento Presenza di glutine Uova Altri ingredienti Uso come involucro Luogo di produzione prevalente Strumenti di produzione Strumenti di formazione Formati Essiccamento Conservazione Cottura Durata della cottura Condimenti Uso come piatto freddo Diffusione tendenziale territoriale
Grano tenero Scarsa Necessarie Possibili (verdure: spinaci ecc.) Sì (Paste ripiene) Casa Tagliere, matterello Coltello (rotella, stampino ecc.) Pochi e semplici No (pasta “fresca”) Brevissima (ore o giorni) Brodo (latte) acqua Rapida Relativamente semplici No Prevalentemente locale (piatti del territorio)
Grano duro Elevata Assenti Assenti (di norma) No Industria Gramola, torchio Trafila o filiera Numerosissimi ed elaborati Sì (pasta “secca”) Lunga (mesi ed anche anni) Acqua Lenta Diversificati ed elaborati Sì Mondiale (piatti interculturali)
nutrizionali non comprendevano soltanto cereali e leguminose, ma sempre altri alimenti vegetali (verdure ricche di vitamine ecc.) e d’origine animale (con aminoacidi necessari ad una buona nutrizione), anche con ruolo d’alimenti protettivi contro possibili carenze e squilibri nutrizionali. Altrettanto importante è che, nelle singole cucine, sono stati sviluppati sistemi di trattamento fermentativo, termico o combinato capaci d’inattivare o di minimizzare gli aspetti negativi e d’esaltare quelli positivi. Una riduzione di tali trattamenti (ad esempio diffusione dell’uso di pasta di cereali non fermentata e scarsamente cotta) o l’uso di trattamenti diversi da quelli sviluppati dalla tradizione (bollitura o acidificazione del mais, in luogo della sua alcalinizzazione e trattamento al calore secco) ha portato alla comparsa
di patologie nutrizionali, quali le citate celiachia e pellagra. Bibliografia Ballarini G. Rischi e Virtù degli Alimenti. Calderini, Bologna, 1989 Ferrando R. Aliments traditionnels et non traditionnels. FAO, Roma, 1979 Forni G. Gli albori dell’agricoltura. REDA, Roma, 1990 Gontzea I., Ferrando R., Sutzesco P. Substances antinutritives des aliments naturels. Vigot, Paris, 1968 Gorman Ch. Against the grain. Time, 2 April 2001, p. 80 Salamini F. Il frumento monococco e l’origine dell’agricoltura. Le Scienze, 373, sett. 1999, p. 6874 Smith Bruce D. The Emergence of Agriculture. Scient. Am. Libr., New York, 1995
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Leguminose: carne e farmacia dei poveri
le leguminose forniscono un alimento ricco di proteine ed arricchiscono d’azoto il terreno. Una caratteristica che, quando è stata scoperta dall’uomo, ha portato alla grande innovazione della rotazione agraria: un campo coltivato a leguminose che arricchiscono il terreno, è poi coltivato con una graminacea che lo impoverisce, ed è quindi necessario tornare alla leguminosa.
Più volte la selezione naturale ha sviluppato sistemi alimentari capaci d’utilizzare l’azoto inorganico, ad esempio tramite le fermentazioni microbiche digestive. L’uomo, con la cultura, ha sviluppato la coltivazione delle leguminose, che attraverso una raffinata simbiosi microbiologica, utilizzano l’azoto atmosferico. Le leguminose sono dotate di preziose caratteristiche nutrizionali, ma anche d’attività negative, che solo il paradigma darwiniano permette di comprendere. Le leguminose sono un gran successo dell’agricoltura, ma il loro utilizzo come alimento esige siano cotte ed associate a cereali, quindi in una cucina elaborata.
Attività nutrizionale delle leguminose Le leguminose, hanno un buon valore plastico, anche se il valore biologico delle loro proteine è inferiore a quello delle proteine degli alimenti d’origine animale (carne, latte, uova). Nei semi e germogli freschi il contenuto proteico sul tal quale del seme edule arriva al 16,4% nei lupini deamarizzati. Nei semi secchi il contenuto proteico sul tal quale è compreso tra il 20,6% dei fagioli di Lima ed il 37,2% dei lupini sgusciati. Nei semi di alcune leguminose (soia ed arachide) sono contenute le giù citate elevate quantità di grasso, con un buon valore energetico. Per i grassi, calcolati sul tal quale, nelle leguminose fresche si arriva ad un massimo del 2,4% (lupino deamarizzato), mentre per i semi secchi vi è un minimo di 1,4% della veccia e fagiolo di Lima, ed un massimo del 13,2% dei lupini sgusciati. Si raggiunge il 40% nelle arachidi e nella soia, leguminose di recente importazione nel mondo occidentale. Gli apporti calorici per 100 grammi di sostanza edule dei semi di leguminose mediterranee tradizionali vanno dalle 334 Kilocalorie nelle lenticchie alle 407 Kilocalorie nei lupini. Considerando che la carne ha un contenuto medio proteico del 19%, una percentuale di grassi variabile e che in genere oggi s’aggira sul 13% e con un apporto di circa 200 Kilocalorie per etto, è facile comprendere come le leguminose siano state definite la carne dei poveri.
Attualità e successo delle leguminose nell’alimentazione umana Leguminose sono i fagioli, i piselli, le fave, i ceci e le lenticchie, senza dimenticare la soia e l’arachide. I loro semi, molto proteici, in talune specie (soia ed arachide) sono anche ricchi d’olio. Una volta le leguminose erano il cibo da poveri, oggi, dopo che se ne sono scoperte le preziose attività sanitarie, rimangono importanti per una corretta nutrizione. Ogni cultura ha avuto e continua ad avere le sue leguminose, che assieme ai cereali formano dei “pacchetti nutrizionali” di piante oggetto d’addomesticamento agricolo, come ricordato a proposito dei cereali. Gli antichi romani avevano fave, ceci e lenticchie, i cinesi la soia e gli americani precolombiani i fagioli. Il successo delle leguminose nell’alimentazione umana dipende dall’essere molto proteici ed in taluni casi, quando è presente olio, energetici e, di conseguenza, possono sostituire almeno in buona parte le proteine ed i grassi animali. Un secondo elemento di successo è che le leguminose, tramite speciali batteri che ospitano nelle loro radici, utilizzano l’azoto atmosferico, trasformandolo in aminoacidi e quindi in preziosi composti proteici. Anche se coltivate in terreni poveri,
Uso nutrizionale delle leguminose ed intersupplementazione Nell’uso nutrizionale delle leguminose è ne113
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cessario richiamare i processi di intersupplementazione. Non esiste alcuna popolazione o persona che si nutre di un unico alimento, ma sempre di più alimenti che, associati tra loro, si compensano e si correggono l’un l’altro (c. d. intersupplementazione). Non è corretto affermare che Esaù vendette la primogenitura per un semplice piatto di lenticchie, perché (Genesi cap. 25, versetto 34) Giacobbe diede ad Esaù pane ed una vivanda di lenticchie, quindi un pasto costituito dall’associazione di un alimento derivato da una graminacea con quello ottenuto da una leguminosa. Le associazioni tra graminacee e leguminose sono regolarmente diffuse, in ogni cultura: dalla puls degli italici denominati pultiphagi, all’attuale pasta e fagioli; dai tacos di mais e fagioli degli americani precolombiani; al riso con la soia di cui si nutre più di un miliardo di cinesi. La necessità di associare diversi alimenti deriva in buona parte dalla qualità delle loro proteine, che in generale è valutata considerando il loro valore biologico. Le proteine delle leguminose hanno un valore biologico circa di un terzo di quello dell’uovo, in quanto sono povere di due aminoacidi indispensabili per la nutrizione umana: la metionina e la cistina. Per giudicare il valore nutrizionale di una proteina bisogna inoltre considerarne la digeribilità, molto alta per le proteine di origine animale, più bassa per quelle delle leguminose. Per coprire i fabbisogni proteici di un uomo adulto di circa 70 chilogrammi (salvo quanto considerato nel capitolo sulla carne) sono ritenute sufficienti circa 60 grammi di proteine dell’uovo. Se nell’alimentazione sono presenti soltanto proteine di leguminose, tenendo conto della loro limitata digeribilità ed al fine di assicurare le necessarie quantità di metionina e cistina, bisognerebbe arrivare a 200 grammi il giorno, pari ad otto e più etti di fagioli secchi. Con un’opportuna intersupplementazione tra le proteine di diversi alimenti, sono sufficienti 150 grammi di pasta di semola e 50 grammi di fagioli secchi
(od altri semi di legumi) per avere le stesse quantità d’aminoacidi critici (triptofano, metionina e cistina, lisina) contenute in un etto d’uovo intero di gallina. Non è un caso che tutte o quasi le ricette tradizionali di leguminose hanno la presenza, spesso limitata, ma per questo non trascurabile, d’alimenti d’origine animale, ad esempio l’aggiunta, alla pasta e fagioli, di cotiche di maiale o brodo d’ossa. Attività extranutrizionali delle leguminose Numerose ed ancora non tutte note sono le attività extranutrizionali delle leguminose, nonostante la loro notevole importanza nutritiva e sanitaria. In via preliminare è utile rilevare che gran parte delle caratteristiche negative delle leguminose sono inattivate dal calore e questo spiega come il successo di questi vegetali sia strettamente collegato alla cucina. Attività antienzimatiche e loro inattivazione. Molti semi di leguminose (soia, fagioli, piselli, fave, lenticchie, ceci e altre leguminose) contengono delle antitripsine che in diverso grado inibiscono l’azione della tripsina, un enzima che serve a digerire le proteine. Con ogni probabilità questi enzimi servono alla difesa della pianta contro i parassiti e sono quindi il risultato di un’evoluzione difensiva. Per una completa eliminazione degli antienzimi presenti nei semi di leguminose è necessario un trattamento intenso con il calore: una bollitura prolungata per più ore, od una cottura in pentola a pressione (118 centigradi per almeno mezz’ora). Attività antivitaminiche e loro inattivazione. In diverse leguminose fresche (ad esempio nei fagiolini) sono presenti delle ascorbasi, enzimi che distruggono l’acido ascorbico (Vitamina C). Un’antivitamina E è stata individuata anche nei fagioli. Attività ormonali ed antiormonali. Nei semi di diverse leguminose, ed in particolare nell’olio che n’è estratto, sono state individuate attività estrogene. L’olio di soia e di arachi114
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de, ad esempio, hanno un’attività estrogena pari a 10 mg di follicolina - equivalente per etto. Quest’attività può avere un effetto benefico sulla nutrizione, e cosmetico se l’olio è usato sulla pelle. Attività farmacologiche, con particolare riguardo al Morbo di Parkinson. In talune leguminose sono state individuate attività farmacologiche. In particolare nella fava sono contenute elevate quantità di L-Dopa (circa lo 0,25% del suo peso). Uno o due pasti il giorno di fave fresche sono sufficienti per fornire la quantità di L-Dopa usati nella terapia del Morbo di Parkinson. In una persona normale la stessa quantità può provocare insonnia, ansie ed allucinazioni, accrescere la tensione nervosa, ma anche stimolare l’attività sessuale. Attività antinutrizionali. Le emoagglutinine presenti nelle leguminose inibiscono numerosi enzimi proteolitici digestivi e sono distrutte dal calore. Le caratteristiche antigene delle leguminose possono produrre sensibilizzazioni diverse, in particolare allergie alimentari, se le leguminose sono mangiate crude o poco cotte (fave crude, pane alla soia ecc.). Saponine e azione anticolesterolica. Le saponine delle leguminose producono meteorismo schiumoso e deprimono l’utilizzazione degli alimenti, ma accanto a questi effetti sfavorevoli, deprimono l’utilizzazione intestinale del colesterolo alimentare. La presenza di fattori anticolesterolo nelle leguminose ha un preciso significato di difesa dei vegetali contro i parassiti. Le larve parassitarie per svilupparsi, hanno bisogno di colesterolo. Se una pianta attraverso la selezione naturale dota i suoi semi di attività anticolesterolica, resiste meglio ai parassiti ed ha maggiori probabilità di successo riproduttivo. Secondo Oakenfull (1981) le saponine delle leguminose nella dieta rivestono un ruolo di sottrazione del colesterolo anche nell’uomo, riducendo il rischio di coronaropatie nelle persone che per diversi motivi non riescono a regolare i livelli di colesterolo nel sangue.
Le saponine alimentari, legandosi al colesterolo, formano complessi insolubili non riassorbibili, interrompendo anche il ciclo enteroepatico del colesterolo. Le leguminose più ricche di saponine sono i ceci (Cicer arietinum), numerose varietà di fagioli (Phaseolus vulgaris), oltre alla soia (Soia hyspida o Glycine max). Le saponine non sono distrutte od inattivate dal calore e soltanto la fermentazione può ridurle (ad esempio sono circa dimezzate nei prodotti di fermentazione ottenuti dalla soia). Se si mangiano contemporaneamente leguminose e alimenti ricchi di colesterolo, questo è assorbito soltanto in parte. Nell’attuale interesse per il c. d. Modello Alimentare Mediterraneo si è enfatizzato il ruolo dei cereali, olio di oliva, vegetali diversi, ma non si è altrettanto rilevato che nel passato i semi di leguminose (fava, cece, lenticchie ecc. e, nei secoli più vicino a noi, i fagioli) erano la base proteica più importante, che contrastava anche un eventuale eccesso di colesterolo proveniente da alimenti di origine animale. Flatulenze. Nei semi di leguminose ed in particolare nei fagioli esistono sostanze generatrici di flatulenze (gas intestinali). Sono oligosaccaridi che, arrivati nel grosso intestino ed in rapporto alla flora intestinale (e da qui le diversità individuali, familiari o di popolazione) fermentano, con produzione di metano, anidride carbonica ed altri gas. Attività cancerogene. Le leguminose non hanno dirette attività cancerogene, non assumono e tanto meno non concentrano cancerogeni ambientali. Un’attività cancerogena, anche potentissima, può derivare per azione delle muffe. Le aflatossine prodotte dall’Aspergillus flavus cresciuto sui semi di arachidi, sono probabilmente il cancerogeno più potente fino ad oggi noto. Attività anticancerogene. Le attività anticancerogene delle leguminose fresche sono da riportare al loro contenuto in vitamine C ed E, ed in betacaroteni, mentre sia per quelle fresche sia secche è da ricordare la fibra ali115
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mentare, di cui i semi di leguminose sono più o meno ricchi. Recentemente si è attribuito all’acido fitico, presente in buone quantità nei semi di leguminose, la capacità di prevenire il carcinoma del colon. Attività tossiche ed antitossiche. Nei semi di talune leguminose sono presenti anche specifici eterosidi e glicosidi tossici con formazione di acido cianidrico. Con la cottura si distrugge l’enzima che provoca la formazione di acido cianidrico, ma precise ricerche hanno dimostrato tracce di acido cianidrico nelle urine di persone che avevano mangiato i vegetali anche cotti. Il problema riguarda soprattutto il fagiolo di Lima (Phaseolus lunatos). Situazioni analoghe, ma molto meno intense, sono state ritrovate per la veccia (che contiene la vicianina), i ceci e la fava. La fava contiene inoltre la vicina che provoca il favismo (vedi). Le leguminose contengono aminoacidi particolari detti non convenzionali e che non sono utilizzati dall’uomo o n’alterano il metabolismo, divenendo tossici. Nel Lathyrus sativus sono presenti delle lectine che causano il latirismo, una malattia identificata dal medico napoletano Arnoldo Cantani nel 1873 e provocata dall’eccessivo consumo di pane preparato, in periodo di carestia, con la farina di cicerchia bianca (Lathyrus sativus) e di cicerchia cece (L. cicera).
a) Aumento della velocità di transito intestinale. b) Nelle leguminose fresche presenza di vitamine C ed E e di betacaroteni, mentre sia per quelle fresche sia secche è da ricordare l’attività anticancerogena della fibra alimentare, di cui i semi di leguminose sono più o meno ricchi. c) Acido fitico, presente in buone quantità nei semi di leguminose, che ha la capacità di prevenire il carcinoma del colon. Leguminose e patologie da colesterolo. Sono state individuate nei semi di leguminose attività riguardanti il metabolismo del colesterolo e quindi i possibili effetti su patologie a questo correlato, in particolare di tipo cardiovascolare. 1) Le saponine presenti nella dieta ed apportate dalle leguminose hanno un ruolo di sottrazione del colesterolo. 2) Lecitine presenti nei semi di leguminose ricchi di lipidi (soprattutto soia: 237 mg/100 grammi di seme intero; ma anche arachidi, il cui olio contiene 145 mg/100 grammi) che per il loro alto contenuto in colina, favoriscono l’eliminazione di colesterolo attraverso la bile ed al tempo stesso favoriscono la formazione di lipoproteine HDL e cioè del colesterolo considerato buono. 3) La fibra alimentare delle leguminose ostacola il circolo enteroepatico del colesterolo e ne favorisce l’eliminazione fecale.
Aspetti sanitari dell’alimentazione con leguminose Considerando gli aspetti sanitari dell’alimentazione con leguminose si possono ricordare i rapporti tra fava e favismo, malaria e malattie del sangue di natura genetica (vedi favismo). Oggi sono importanti i ruoli che le leguminose hanno nella prevenzione di patologie di grande interesse contemporaneo, come le neoplasie e le alterazioni cardiovascolari collegate al metabolismo del colesterolo. Leguminose e cancro. Attività antineoplastiche di tipo indiretto sono state sopra indicate per le leguminose, attraverso i seguenti meccanismi.
Leguminose alimentari ed alimentazione darwiniana Oltre quanto esaminato per i rapporti tra la fava e la malaria (vedi favismo), in linea generale, per le leguminose, si delineano chiaramente più chiavi d’interpretazione darwiniana delle loro attività extranutrizionali e del loro uso alimentare. Perché le leguminose, come altri vegetali, sono dotate d’attività extranutrizionali? Senza entrare in dettagli, è ben evidente che molte citate attività hanno una funzione antiparassitaria, interpreta116
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Intersupplementazione tra le proteine d’una leguminosa (fagiolo) e d’una graminacea (frumento) Alimento
Aminoacido limitante
Triptofano mg/100 g
Metionina mg/100 g
Lisina più cistina mg/100 g
Pasta di semola
Lisina
105
345
224
Pane
Lisina
62
345
166
Metionina + Cistina
226
451
1701
=
225
735
913
Metionina + Cistina
36
94
131
Pasta e fagioli secchi (g 50 + g 50)
175
397
962
Pasta e fagioli secchi (g 150 + g 50)
270
740
1186
Fagioli secchi Uovo intero di gallina Minestrone di pasta e fagioli
Effetto del calore e dell’aggiunta dell’aminoacido metionina sul valore nutritivo (efficacia proteica) della soia nel ratto (da Liener et al., 1949) Trattamento della soia
Efficacia proteica
Farina di soia cruda Farina di soia trattata con calore (A) Farina di soia cruda più metionina 9,6% (B)
1,33 2,62 2,42
A - Il trattamento con il calore inibisce le attività antinutrizionali della farina di soia B - Le attività antinutrizionali della soia sono in buona parte contrastate dall’aggiunta di un aminoacido essenziale come la Metionina
Soia e cancro. Numero di studi pubblicati (da Messina et al., 1994; Bingham e coll. 1998; con modifiche) Tipo di tumore Totale Mammella Prostata Colon-retto Polmone Stomaco Totale
Numero di studi Rischio Rischio aumentato non significativo
5 3 8 4 14 34 100%
0 0 2 0 1 3 8,82%
bile come fenomeni protettivi sviluppati attraverso una selezione evolutiva. Prima tra tutte ed in modo quasi emblematico, l’atti-
2 3 3 1 6 15 44,11%
Rischio diminuito 3 0 3 3 7 16 47,07
vità anticolesterolica dei semi delle leguminose è da interpretare come un meccanismo protettivo nei riguardi di larve d’insetti pa117
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Effetti della cottura sui fagioli Componenti
Effetti della cottura
Effetto desiderato
Lectine
Inattivazione per denaturazione
SI
Inibizione d’enzimi aspecifici (inibizione proteasi)
Inattivazione per denaturazione
SI
Piccola riduzione
SI
Denaturazione in rapporto alla temperatura
Secondo il tipo di seme
Riduzione in relazione alla temperatura e durata della cottura
NO
Oligosaccaridi
Piccola riduzione
NO
Fattori di flatulenza
Piccola riduzione
NO
Tannini
Piccola riduzione
SI
Inibizione d’enzimi aspecifici (tannini) Proteine (aminoacidi nutrizionali) Lisina (aminoacido)
rassiti che, per il loro sviluppo, hanno necessità di sintetizzare colesterolo. Un’importante linea interpretativa della presenza delle leguminose nell’alimentazione umana è di tipo nutrizionale, e riguarda il loro livello proteico e d’equilibrio con altri vegetali amidacei. Per questo motivo il “pacchetto” di cereali e leguminose appare in tutte le agricolture, fin dal loro inizio o in ogni caso molto presto, man mano che cala l’apporto proteico da carne. Una seconda linea interpretativa riguarda i vantaggi che la coltivazione delle leguminose apporta nella fertilità dei terreni, soprattutto quando viene a mancare un apporto d’azoto animale (concimazione). Una terza linea è quella degli effetti extranutrizionali delle leguminose. Per alcune leguminose, come la fava (vedi alla voce favismo), questi effetti paiono aver partecipato allo sviluppo della loro coltivazione, anche in equilibrio di costo (rischio o danno) e beneficio. Per altre leguminose si possono proporre soltanto delle ipotesi. Una quarta e non ultima linea è infine quella del ruolo che la cucina, vale a dire il trattamento soprattutto con il calore umido, ha avuto nello sviluppo dell’uso alimentare delle legu-
minose. Calore umido significa usare la pentola, il che è possibile solo in una società sedentaria, quindi con un’agricoltura sufficientemente sviluppata. Bibliografia Ballarini G. Rischi e virtù degli alimenti. Calderini, Bologna, 1989 Cantani A. Latirismo (Lathyrismus) illustrato da tre casi clinici. Il Morgagni, 15, 745-765, 1873 Grmek M.D. Leggenda e realtà della nocività delle fave. In Grmek, 1985 Grmek M.D. Le malattie all’alba della civiltà occidentale. Il Mulino, Bologna, 1985 Liener I.E. Naturally occurring toxicants in foods and their significance in the human diet. Arch. Toxicol. Suppl., 6153-6166, 1983 Marquet M.R. Intoxications alimentaires par certaines légumineuses: fèves, haricots cyanogénetiques. Paris, 1944 Massa E. An overview of lathyrism. Rev. Neurobiology, 18, 181-206, 1972 Shilling E.D., Strong F. M. Isolation, structure and synthesis of a lathyrus factor from L. odoratus - J. Am. Chem. Soc., 76, 2848, 1954. Nutr. Rev., 23, 242, 1976 Streifler M., Cohn D.F. Chronic central nervous system toxicity of the chikling pea (Lathyrus sativus). Clin. Toxicol., 18, 1513-1517, 1981
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Ortaggi, piante aromatiche e frutta: necessità nutrizionale umana
variamente trattati dalla cucina (cottura ecc.), con non sempre favorevoli conseguenze, considerate anche in altri capitoli. La conservazione e la cottura dei cibi porta dei vantaggi, ma anche lo svantaggio di distruggere molecole che sono strategiche per la salute umana e, tra queste, soprattutto quelle che proteggono dall’ossidazione. Oggi si può avere sulla tavola un minestrone preparato con verdure liofilizzate, uno stracotto di carne congelata da qualche mese con contorno di spinaci in scatola (confezionati da tempo), una macedonia di frutta conservata (con coloranti e conservanti), una torta gelata preconfezionata e preparata con latte in polvere e vanillina, pane congelato ed una bibita artificiale. Un pasto nutrizionalmente equilibrato, sicuro da un punto di vista sanitario, probabilmente accettabile da chi ha un palato poco educato, ma non per l’aspetto salutistico. Oggi chiediamo alimenti sani, ma soprattutto che siano portatori di salute (alimenti salutistici) e forniscano le preziose nutricine, che si trovano nei prodotti naturali freschi. La freschezza degli alimenti è una condizione antichissima, che sta venendo alla ribalta.
È opinione comune che l’uomo preistorico si nutrisse di bacche e radici, alle quali erano da aggiungere le frutta, e questa idea è avvalorata dalle recenti conoscenze di nutrizione evoluzionista. L’orto rappresenta la risposta culturale alla necessità umana di vegetali freschi. La presenza di piante aromatiche nella dieta umana trova una giustificazione nelle loro preziose attività antiossidanti, antibiotiche, vitaminiche e farmacologiche, oggi considerate anche dalla nutraceutica. Tutto fa ritenere che il loro uso sia antichissimo ed associato anche all’uso del fuoco per cuocere la carne ed all’invenzione del brodo. Nella quota vegetariana dell’alimentazione umana la frutta ha sempre avuto un ruolo di primo piano, confermato anche dalle recenti indagini sulle molecole strategiche. Wild plant connection ed alimentazione naturale su cibi freschi Recenti sono gli studi sistematici sull’importanza delle piante selvatiche eduli in alimentazione umana e sui correlati aspetti antropologici, per questo è stata anche creata l’espressione di wild plant connection (Grivetti e Ogle, 2000). Al riguardo sono stati rilevati gli aspetti riguardanti la composizione dei vegetali selvatici, soprattutto per i micronutrienti, considerando che l’uomo, durante un periodo di centinaia di migliaia d’anni, si è alimentato soltanto con cibi freschi. Tutto fa ritenere che i nostri antenati, pur non vivendo a lungo, stessero sufficientemente bene, considerando anche l’ambiente e lo stile di vita. Anche gli animali, di cui l’uomo si nutriva, avevano un’alimentazione fresca, ricca di composti antiossidanti, come l’acido ascorbico (vitamina C) ed i tocoferoli (vitamina E). In seguito all’invenzione dell’agricoltura, l’uomo incominciò a nutrirsi con alimenti conservati (essicati, salati ecc.) o
Invenzione dell’orto ed alcuni ortaggi L’orto è nato prima campo ed era una pertinenza femminile, mentre il campo divenne di pertinenza maschile. Nell’orto l’umanità ha prodotto e sviluppato molti alimenti vegetali, diversi dei quali sono passati alla coltivazione in campo, ricchi di sostanze attive quali gli antibiotici vegetali gli antiossidanti nutrizionali, gli ormoni vegetali o fitormoni ed altre sostanze farmacologicamente attive (considerati in altri capitoli). Nell’orto sono di particolare importanza le erbe aromatiche. In questa sede è utile considerare alcuni ortaggi particolari quali l’aglio, la cipolla ed il pomodoro. Nell’aglio erano state dimostrate intense attività antinfettive su molti batteri, come pure buone azioni antiparassitarie, in particolari 119
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sui vermi intestinali, che nel loro complesso giustificano il largo uso di questo vegetale nella cucina tradizionale. Sono state anche recentemente confermate talune attività antitumorali. L’aglio allontana il cancro e questo lo dimostra uno studio di ricercatori dell’Illinois Institute of Technology di Chicago guidati da Richard Moon. Il diallilsulfide, composto organosolforato presente nell’aglio, riduce a circa un terzo il rischio di tumore provocato dalla metilnitrosurea. Il meccanismo d’azione sembra quello di bloccare i radicali liberi e se questo sarà confermato si può prevedere una buon’azione dell’aglio anche contro i processi d’invecchiamento. Recenti indagini testimoniano però che l’attività dell’aglio è in rapporto alla sua freschezza e che molte sue attività si perdono con i trattamenti termici. La cipolla è ritenuta un ortaggio tonico, stimolante, diuretico, antidiabetico, espettorante, emmenagogo, dotata anche di azioni antivomito, antidolorifiche, antiemorragiche. Più recentemente è stata dimostrata l’azione della cipolla sul metabolismo organico ed in particolare la sua azione nel diminuire il colesterolo e lo zucchero nel sangue, ma anche l’eccessiva pressione del sangue (ipertensione). Per la cipolla sono state segnalate azioni afrodisiache maschili e d’aiuto alla riproduzione maschile. A.M. Al-Bekairi e collaboratori, della Facoltà di Farmacia di Riyadh nell’Arabia Saudita hanno sperimentato sui topi gli effetti di un estratto acquoso della cipolla (100 milligrammi per chilogrammo di peso vivo). Pur non avendo significativi effetti negativi oltre ad abbassare la sintesi del colesterolo, e senza dimostrare particolari azioni ormonali estrogene, antiestrogene e, quel che è molto importante, di tipo genotossico, si è vista un’elevata attività sull’apparato riproduttivo maschile. Nei maschi alimentati con cipolla aumenta la concentrazione di cellule riproduttive nel seme, per un’attività androgena che conferma l’opinione che la cipolla abbia per il maschio (e non
per la femmina) effetti afrodisiaci. La quantità di estratto di cipolla usata non è elevata e corrisponde a circa un quinto della dose farmacologicamente attiva. Per un uomo adulto sarebbero necessari 7 grammi di estratto e quindi una dose facilmente raggiungibile con una normale alimentazione con cipolle, avendo tuttavia l’avvertenza di continuare il trattamento per almeno un mese. Per il pomodoro, significative sono le recenti ricerche del Dr El-Sayed El Tanboly del National Research Center egiziano (Departement of Dairy and Food Technology di Dokki, Cairo) sulle potenti attività antiossidanti dei semi di pomodoro. I semi di pomodoro, oltre ad un olio particolare, contengono proteine, carboidrati, fosfolipidi e soprattutto tocoferoli; sia l’olio di semi di pomodoro sia i tocoferoli sono dotati di elevate attività antiossidanti, ma soprattutto contengono il licopene, un carotenoide liposolubile con elevate attività antiossidanti. Nella dieta mediterranea il pomodoro nel suo complesso, ivi compresi i semi, è stato subito associato ad altri vegetali antiossidanti, come il rosmarino, contribuendo a combattere malattie degenerative. Erbe aromatiche e loro preistoria Per circa un milione d’anni, i nostri antenati hanno usato il fuoco, anche per modificare gli alimenti ed è molto probabile che utilizzassero legni, arbusti ed erbe aromatiche, inizialmente sotto forma di fumi, e poi d’infusi nei loro brodi primitivi. La ricerca di queste erbe è stata certamente guidata dal loro gusto, ma anche dal senso di benessere consecutivo al loro uso. Recenti ricerche danno la dimostrazione che le erbe aromatiche hanno preziose attività antiossidanti, antibiotiche, vitaminiche e soprattutto farmacologiche, recentemente considerate dalla nutraceutica. Si è anche sviluppata una ricerca scientifica sulle proprietà delle piante officinali usate in alimentazione, soprattutto per quanto riguarda la loro attività antiossi120
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dante (Cuppett e coll., 1997; Dessì e coll., 2002; Fereidoon Shahidi, 1997; Lindberg Madsen e Bertelsen, 1995; Pizzale e coll., 2001). In questo capitolo è utile considerare alcuni aspetti positivi e negativi delle piante aromatiche, in una visione darwiniana dell’alimentazione.
quota del 40-50% degli antiossidanti naturali usati negli alimenti industriali. Gli antiossidanti del rosmarino, quando sono adeguatamente purificati, perdono ogni sapore ed odore. Per questo possono essere usati in qualsiasi alimento, ad esempio anche nelle merendine. Mantenendo il loro sapore, invece, possono essere utilizzati in molte preparazioni di carni, ad esempio nelle mortadelle. Precise ricerche del Dr. S. Chang, hanno dimostrato che gli antiossidanti del rosmarino ritardano l’ossidazione dell’olio di soia e la formazione d’idrossiperossidi nel lardo e nelle patate durante la frittura. L’abitudine quindi di aggiungere rosmarino alle patate durante la cottura (arrosto o frittura) ha solide basi anche sanitarie. Il rosmarino è uno degli elementi della dieta mediterranea che contribuisce in modo determinante al successo di questo tipo d’alimentazione, anche in associazione ad altre spezie mediterranee, come l’origano (pure questo dotato d’attività antiossidanti), la salvia, l’aglio e la cipolla. “La gastronomia aveva ragione” potrebbe essere un libro costruito sulle sempre più fitte dimostrazioni che il mangiare bene non è soltanto un piacere, ma può essere un insostituibile strumento di salute. Le tradizioni alimentari si vanno rivelando degli insostituibili giacimenti culturali non solo da conservare, ma anche da studiare in modo adeguato. Indagando con sofisticati e precisi metodi scientifici aspetti apparentemente banali ed umili, è facile imbattersi in argomenti d’estremo interesse non solo culturale, ma anche pratico. Non raramente si possono inoltre stabilire collegamenti tra settori apparentemente molto distanti. È ad esempio il collegamento che vi è tra la cucina dell’origano e del rosmarino, la longevità delle passate popolazioni mediterranee e la rarità con cui erano colpite da infarti cardiaci, emorragie cerebrali e tumori. La dieta mediterranea è stata inventata dagli americani, sulla base dell’alimentazione dei
Erbe aromatiche e dieta mediterranea La dieta mediterranea non comprende soltanto alimenti, ma anche condimenti che svolgono importanti azioni sanitarie. La moderna ricerca sta dimostrando il ruolo preventivo degli antiossidanti, soprattutto nella prevenzione dei danni provocati dai veleni ambientali o dall’età. Parlare d’antiossidanti fa subito pensare ad additivi chimici, perciò bisogna chiarire. “Senza additivi chimici”, “contiene aromi naturali” sono due frasi sempre più frequenti negli alimenti industriali, dalle merendine alla maionese, dai condimenti per insalate ai sughi per la pasta asciutta, dall’olio alle carni cotte, fino ai piatti di pesce pronti o da cucinare, alle patatine fritte, salumi di diverso tipo ad iniziare dalle mortadelle, e cosi via. “Senza additivi chimici” e “contiene aromi naturali” potrebbero sembrare frasi indipendenti, ma non è così. Infatti, da qualche tempo ci si è accorti che molti aromi naturali sono dotati di potenti attività chimiche ed in piena legalità sono usati per le loro caratteristiche chimiche, da esempio come antiossidanti. Esemplare è il caso degli antiossidanti contenuti nelle foglie del rosmarino (Rosmarinus officinalis L.). Il carnosolo, il rosmanolo, l’iso-rosmanolo ed il rosmarildifenolo sono potenti antiossidanti contenuti normalmente nelle foglie di rosmarino, dalle quali sono estratti in quantità sempre crescenti. Per questo il rosmarino, sotto le crescenti richieste dell’industria alimentare, sta divenendo un’interessante coltivazione industriale. In Europa e negli Stati Uniti d’America gli antiossidanti estratti dal rosmarino rappresentano una 121
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popoli dell’Italia meridionale e della Grecia. In queste popolazioni infarti del cuore, emorragie del cervello e certi tumori erano molto meno frequenti che in America. Questa dieta salutistica è stata semplificata in un’alimentazione ricca di vegetali, povera di alimenti di origine animale e con una piccola quantità di vino rosso. Successivi studi hanno enfatizzato il ruolo benefico dell’olio di oliva. Con un’eccessiva semplificazione si è dimenticato che la vera dieta dei popoli mediterranei era molto ricca di talune spezie, ad esempio l’origano e soprattutto il rosmarino. Queste spezie erano e sono rimaste componenti quasi obbligate della pizza tradizionale, di moltissime insalate e carni cotte e di alcuni salumi. Che cosa sarebbe la nostra alimentazione senza queste spezie? In particolare quanti piatti di gastronomia tradizionale italiana esigono la presenza di origano (in particolare preparazioni crude od a rapida cottura) o di rosmarino (soprattutto piatti con più o meno lunga cottura). L’azione antiossidante del rosmarino spiega il suo largo impiego tradizionale nella conservazione di grassi animali (lardo, strutto, salumi diversi) e nella cottura di alimenti grassi, soprattutto in recipienti metallici. La frittura o la cottura in padella di ferro o di rame, anche se stagnata, sarebbe molto ossidante, se non fosse presente il rosmarino o l’origano. Alle sostanze antiossidanti oggi si attribuiscono importanti azioni antinvecchiamento. Una buona longevità era caratteristica dei popoli mediterranei del passato. Oggi abbiamo tutti gli elementi per ritenere che fosse dovuta anche ad un’alimentazione appropriata, come la dieta mediterranea, ed al continuo uso di spezie antiossidanti, come l’origano e soprattutto il rosmarino.
in particolare le nuove malattie che affliggono l’umanità. Recentemente Singh e Niaz (1999) hanno studiato la variazione genetica e la nutrizione umana in relazione alle malattie delle coronarie (infarto ecc.), ipertensione, diabete mellito, aumento dei grassi nel sangue ecc. considerando anche la possibilità di predisporre delle diete che tengano conto delle caratteristiche genetiche individuali, secondo la cosiddetta “medicina predittiva”. In questo quadro, le vitamine antiossidanti, il coenzima Q10 e gli acidi grassi della serie n3 hanno un ruolo positivo, mentre l’acido linoleico, i grassi saturi e gli zuccheri dimostrano avere effetti avversi. Un favorevole effetto antiossidante della dieta aumenta la resistenza genetica alla malaria (Greene, 1999), tanto da poter interpretare anche le cucine tradizionali delle popolazioni esposte all’infezione: larga presenza di oxidans fuels, limitata introduzione alimentare di ferro, limitazione nell’introduzione d’antiossidanti alimentari. Il tutto al fine di ridurre la produzione di radicali liberi da parte dei parassiti della malaria. In quest’orientamento è da interpretare anche la dieta lattea di molte popolazioni esposte alla malaria. Non è infine da dimenticare che Lee e coll. (1997) hanno dimostrato un’attività antiossidante del the verde (Camelia sinensis), con effetti profilattici sui danni da fumo di sigaretta. Rischi da erbe aromatiche Siamo tutti abituati che sulle confezioni di molti dolcificanti artificiali sia indicato che possono essere pericolosi e soprattutto che non bisogna superare certe dosi giornaliere. Lo stesso potrà avvenire anche per l’origano e molte altre erbe aromatiche d’antico e più o meno largo uso nella cucina tradizionale, soprattutto mediterranea. Una pizza con origano come “dose giornaliera” di un farmaco non è fantascienza. Solo cinquant’anni fa come ricostituente si usava il Liquore Arseni-
Malattie moderne e dieta antiossidante L’alimentazione darwiniana non ci permette soltanto di guardare indietro, ma anche di cercare di meglio vivere l’oggi, considerando 122
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cale di Fowler, un farmaco oggi drasticamente bandito perché cancerogeno. In modo analogo probabile che tra pochi anni ci meraviglieremo dell’uso nella nostra cucina d’erbe che già oggi sono sospettate di cancerogenicità e sono già state condannate o sono in attesa di giudizio da parte dei tossicologi. I Borgia, che sono passati alla storia (od alla leggenda?) per il loro uso dei veleni, usavano soltanto prodotti naturali anche perché la chimica non era stata ancora inventata, e per l’altrettanto buon motivo che la natura è piena di veleni e non vi è che l’imbarazzo della scelta. Mentre ai Borgia interessavano i veleni rapidi e per quanto possibili sicuri, oggi noi siamo preoccupati dei veleni lenti, che possono provocare tumori e soprattutto dei veleni subdoli, nascosti dove non sospettiamo, anche nelle nostre cucine e nelle ricette più tradizionali. Recentemente gli studiosi dell’Istituto Superiore di Sanità e d’Istituti Universitari Italiani, sotto la guida del Dr. M. De Vincenzi, hanno raccolto quanto noto su diverse erbe usate nell’alimentazione umana, soprattutto come condimenti o per la preparazione di liquori, arrivando a conclusioni a prima vista sconcertanti, almeno per il gran pubblico. La prima conclusione di questi studi è la gran complessità di composizione delle piante, che non agevola un giudizio di sicurezza e quindi una chiara assoluzione. Ad esempio, nel comune origano, sono stati individuati oltre cinquanta composti chimici naturali, ognuno dei quali con le sue caratteristiche farmacologiche e tossicologiche. La seconda conclusione delle ricerche che per molte delle erbe esaminate vi sono quantitativi di uso molto variabili. Bisogna, infatti, precisare che in linea di massima rimane sempre valido il principio che sola dosis facit venenum, anche se oggi vi sono studiosi che sostengono che per i composti cancerogeni di tipo genotossico potrebbe bastare una sola molecola per dare avvio ad un tumore. Anche per questo, per molte erbe esaminate si
conclude per una provvisoria libertà vigilata, in attesa di poter stabilire le quantità di uso nell’alimentazione senza rischi apprezzabili. Tra le erbe aromatiche recentemente esaminate la borragine, usata soprattutto come aromatizzante delle insalate, è stata giudicata pericolosa perché contiene alcaloidi che danneggiano il fegato e negli animali possono anche provocarne la morte. Un giudizio che potrebbe (o dovrebbe) indurre al suo sequestro sui banchi dei negozi di verdura, e forse anche alla denuncia dei negozianti per spaccio d’erbe velenose! In attesa di giudizio, ma sospette, sono altre erbe aromatiche come l’eufrasia, l’issopo, la cedrina, il marrobio bianco, la melissa o cedronella, più o meno ampiamente utilizzate nella preparazione di tisane, bevande e liquori casalinghi. Il già citato origano, largamente usato nella preparazione d’alimenti mediterranei, contiene rilevanti quantità d’estragolo che negli animali provoca epatomi ed interferisce sul funzionamento del fegato. In attesa d’ulteriori precisazioni è certamente utile evitare ogni eccesso e limitare l’uso delle erbe aromatiche, variandone la presenza nell’alimentazione. Frutta ed antropologia dell’alimentazione frugivora L’uomo ha un’alimentazione nella quale la frutta ha sempre avuto un ruolo di primo piano, come dimostrano storie raccontate e scritte, miti e leggende. In uno dei primi libri dell’umanità, la Bibbia, la vita umana ha inizio in un giardino o frutteto, l’Eden, nel quale i frutti sono commestibili, ma alcuni, come il frutto proibito, sono dotati di attività extra-nutrizionali, in parte collegabili anche a quelle che oggi sono denominate molecole strategiche. Un’altra dimostrazione della frugivorità umana sta nell’attenzione che l’uomo ha dedicato prima alla raccolta dei frutti e poi alla coltivazione e selezione degli alberi da frutta. Molte osservazioni indicano che la coltivazione degli alberi da 123
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frutta è avvenuta precocemente e per motivi diversi, anche di tipo edonistico, come la frutta utilizzata per le fermentazioni (vino d’uva, di datteri ecc.). Importante è aver riconosciuto che la ricerca della frutta si collega ad una serie di comportamenti guidati dal
colore, sapore ed anche dal gusto d’acido. Per queste caratteristiche esistono dei determinanti di scelta, con origini preumane. In tempi recenti alla frutta si è riconosciuta la particolare importanza di fornire principi attivi e molecole strategiche.
Ossidazione ed alcuni alimenti Alimenti ossidanti
Alimenti antiossidanti
Frutta conservata
Frutta fresca (esclusa la secca)
Ortaggi farinacei (patate ecc.)
Verdura fresca – carote, cavoli ecc. (insalate escluse) Spezie fresche (origano, timo, salvia, rosmarino ecc.)
Carni conservate (salate, affumicate ecc.)
Carni rosse magre fresche
Grassi vecchi o mal conservati
Pesci selvaggi non allevati (sardine, tonno, pesce spada ecc.) Additivi alimentari antiossidanti (acido ascorbico, tocoferoli, nitriti ecc.)
Ossidanti ed antiossidanti negli alimenti Componenti alimentari ossidanti
Componenti alimentari antiossidanti Vitamine Vitamina C (acido ascorbico) Vitamina E (tocoferolo)
Minerali Ferro Rame Manganese
Minerali Selenio Zinco
Principi attivi vegetali Carotenoidi Xantofille Caroteni (beta carotene; luteine; licopene; zeaxantina; cantaxantina; astaxantina ecc.) Flavonoidi Composti fenolici Principi attivi dei grassi Perossidi
Principi attivi della carne Vitamina E Selenio Zinco
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Uva medicinale e molecole strategiche della frutta Che un bicchiere di vino a pasto non faccia male ad una persona sana è risaputo. Più recente è la conoscenza scientifica che lo stesso bicchiere, soprattutto se di vino rosso, fa anche bene e, nell’ambito di un’alimentazione corretta ed equilibrata, può aiutare a prevenire alcune malattie. Il moderato uso di vino riduce il rischio di patologie cardiovascolari, in particolare per effetti protettivi sulle arterie coronarie. Recenti ricerche dimostrano che l’uva può essere considerata una pianta medicinale, dalla quale sono stati estratti importanti farmaci. Gli stessi principi attivi naturali sono presenti anche nel vino, in particolare in quello rosso, ma anche le foglie della vite, peraltro usate in alimentazione, soprattutto nei paesi mediterranei, sono dotate d’attività farmacologiche. Nell’uva sono stati individuati acido ellagico, resveratrolo, polifenoli e tannini, antociani e antocianine e, recentemente, le procianidine, con numerose ed importanti
azioni sanitarie che possono essere elencate come segue. 1 - Azione antiossidante, più elevata di quella di molti estratti vegetali. 2 - Azione antinfiammatoria, che si svolge inibendo gli enzimi dell’infiammazione (proteasi, collagenasi, elastasi, glicosidasi ecc.). 3 - Azione antimutagena utile nella terapia di malattie croniche degenerative. 4 - Azione sui vasi sanguigni. Le procianidine sono dei potenti protettivi dei vasi del sangue e della linfa. Sono utilizzabili nella terapia delle turbe della microcircolazione, per migliorare la resistenza dei capillari sanguigni periferici e dell’occhio, per aiutare la circolazione del sangue e della linfa nelle vene e nei vasi linfatici. Le procianidine sono praticamente atossiche, non sono mutagene o cancerogene, non danneggiano la gravidanza od il suo prodotto e sono state con successo provate nella cura dell’insufficienza delle vene, nell’edema linfatico, in malattie
Dieta antiossidante e rischio ossidante Alimento Ogni giorno Frutta fresca (1) Ortaggi freschi Verdure a foglia larga (2) Spezie fresche (3) Carni rosse, pesci selvaggi (4) Integrazioni (vitamine C, e, selenio)
10 10 5 3 2 10
Frequenza d’uso Tre volte Una volta settimana settimana 5 5 2,5 1,5 1 5
2,5 2,5 1,25 0,75 0,5 2,5
Raramente o mai 0 0 0 0 0 0
1 = Ad esclusione della frutta secca 2 = Ad esclusione delle insalate 3 = Origano, timo, salvia, rosmarino 4 = Muscolo rosso, sardine, tonno, pesce spada (escludendo i pesci allevati) 40 – 30 punti = ottimo – L’alimentazione è ben protetta contro l’ossidazione (rischio ossidante assente) 29 – 20 punti = buono – L’alimentazione è sufficientemente protetta contro l’ossidazione, ma potrebbe essere migliorata (rischio ossidante limitato) 19 – 10 punti = rischio – È necessario aumentare sostanzialmente gli alimenti antiossidanti (rischio ossidante presente) 9 – 0 punti = cattivo – Mutare radicalmente l’alimentazione in senso antiossidante (grave rischio sanitario)
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Principali principi attivi contenuti in ortaggi, frutti e vegetali Vegetale
Principi attivi e più importanti attività
Aglio e cipolla
Composti della cisteina – anticolesterolici Derivati sulfidilici – anticolesterolici Attività antiossidante
Agrumi
Numerose forme glicosidiche delle antocianine – Antiossidanti Flavoni e flavanoni- Antiossidanti Vitamina C – Antiossidante
Brassicacee
Sulforafano (isotiocianato) – Anticancerogeno Vitamina C – Antiossidante
Caffè
Acidi fenolici e flavonoidi – Antiossidanti
Cacao
Catechine ed epicatechina (poilifenoli) – Antiossidanti, attività aspirinosimile
Carciofi
Composti fenolici
Carote
Carotenoidi – Antinfiammatori, antiossidanti
Cipolle
Flavonoidi – Antiaggregazione piastrinica, antiossidanti
Frutti di bosco
Antocianine, acidi fenolici e polifenoli – Protezione microcircolazione, antiossidanti
Legumi
Polifenoli – anticancerogeni
Mele
Flavonoli e acido clorogenico – Antiossidanti
Miele (polline)
Polifenoli e flavonoidi – Antiossidanti
Olio d’oliva
Tocoferoli, fenoli e polifenoli, flavonoidi – Antiossidanti
Pere, pesche, prugne
Flavonoli, antocianine, Flavanoni – Antiossidanti
Pomidoro
Narigenina (Flavanone), Licopene – Antiestrogeni, ipocolesterolizzanti, antiossidanti, anticancerigeni
Riso
Polifenoli e gamma-orizanolo – Modulatori metabolismo lipidico
Soia
Isoflavoni (fitoestrogeni), genisteina – Attività estrogena, anticolesterolica, antiosteoporosi
The verde e nero
Flavanoni, caffeina – Antiossidante, anticancerogeno, anticolesterolico, antidiabetico
Vino rosso
Fenoli semplici (resveratrolo), flavonoli, flavanoni, flavanololi, antociani ecc. – Antiossidanti, anticolesterolici
dell’occhio. Importante è anche l’uso cosmetico delle procianidine. 5 - Azione anticolesterolica del resveratrolo. Nella frutta vi è una gran varietà di molecole strategiche, tra le quali e solo com’esempio si possono citare le vitamine, in modo speciale la vitamina C (acido ascorbico), molti composti fenolici (flavonoidi, resveratrolo, acido
ellagico), una lunga serie di carotenoidi (tra i quali il betacarotene precursore della vitamina A ed il licopene), tocoferoli (antiossidanti che comprendono anche la vitamina E). Ortaggi, erbe aromatiche, frutta ed alimentazione darwiniana L’orto rappresenta il primo tipo di coltiva126
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Più importanti principi farmacologici contenuti nell’uva e nei vini Acido ellagico – Anticancerogeno Resveratrolo - Anti-infarto (riduce il colesterolo ed i grassi del sangue) Polifenoli - Aumentano il colesterolo buono (HDL), diminuiscono la coagulazione del sangue (antiaggregante delle piastrine) Antocianine - Antiossidanti, azione sui vasi sanguigni Procianidine: Forte azione antiossidante e sui radicali liberi. Attività antinfiammatoria. Attività antimutagena. Azione sui vasi sanguigni. Uso cosmetico
Più importanti azioni terapeutiche tradizionali della vite e dei suoi prodotti Foglie della vite - Astringenti (antidiarroiche). Emostatiche (uso nelle emorragie, vene varicose, emorroidi). Collirio (succo estratto dalle foglie) Succo degli acini - Astringente (acini acerbi). Digestivo (rinfrescante, stomachico, lassativo). Diuretico Olio di semi (vinaccioli) – Lassativo. Antiacido. Colagogo. Usato sulle scottature ed ulceri torpide Vino – Astringente. Diuretico. Anti-colesterolico. Preventivo di malattie vascolari. Antinfettivo
zione ed attraverso l’orto sono passati gran parte dei vegetali che sono stati poi coltivati nei campi, con sistemi agricoli tradizionali e poi intensivi. Gli ortaggi inoltre sono particolarmente ricchi di minerali, vitamine, antiossidanti e composti nutraceutici, esaminati in singoli capitoli. In una prospettiva di nutrizione evoluzionista l’orto si pone come un ponte tra l’alimentazione selvatica e quell’agricola. La nascita della cucina pare collegarsi alle piante aromatiche, assunte per via orale od inalazione. Alle stesse piante sembra collegarsi anche l’inizio della coltivazione dell’agricoltura. Oltre agli indubbi valori sensoriali e psicosensoriali, le erbe aromatiche sono dotate di preziose azioni nutrizionali ed extranutrizionali – vitaminiche, antiossidanti ecc. - considerate in singoli capitoli. Da un punto di vista dell’alimentazione darwiniana, le erbe aromatiche sono da considerare un antichissimo patrimonio evolutivo, essenziale per una corretta alimentazione e per la salute umana.
Nonostante le ancora limitate conoscenze sull’alimentazione evoluzionista, indubbia è la ricerca che l’uomo ha fatto e fa per procurarsi frutta. Nella scelta alimentare della frutta hanno certamente influito il colore, l’odore ed il sapore. A quest’ultimo riguardo è da sottolineare il gusto dolce (apporto di zuccheri energetici) ed il gusto acido (collegato alla presenza d’acidi organici con attività dissetante e con azioni vitaminiche). Più complessa è un eventuale trasferimento all’uomo primitivo del comportamento dei primati frugivori, che cercano nella frutta soprattutto le larve d’insetti parassiti, per questo saremmo di fronte ad una ricerca di “carne”, più che di un vegetale. Nel 2003 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al fine di prevenire le malattie croniche umane (malattie cardiovascolari, diabete di tipo due, obesità e neoplasie), ha lanciato un messaggio nel quale invita ad aumentare il consumo di frutta e di vegetali. Ad un insufficiente uso di frutta e verdura, nel mondo sono oggi attribuiti 2,7 milioni di morti 127
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l’anno. Per questo, frutta o verdura dovrebbero essere presenti nella dieta giornaliera almeno cinque volte.
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Fibra alimentare: da inutile a necessaria
a corta catena, solubili, come il fruttosio, glucoldifruttosio, sorbitolo, rafinosio, sucrosio, pentosani, esosani e loro polimeri oligosaccaridici. Anche se non digeribili dall’apparato digerente dell’uomo, i componenti della fibra solubile sono fermentati dai batteri intestinali, con produzione di molecole utilizzabili nella nutrizione ed importanti per il buon funzionamento dell’apparato digerente, in particolare del grosso intestino. Le due fibre, la fibra insolubile e la fibra solubile, hanno funzioni molto diverse.
La fibra alimentare, stimata inutile da un punto di vista nutrizionale, è oggi ritenuta necessaria per il corretto funzionamento digestivo, l’apporto nutrizionale e la salute. Recenti ricerche iniziano a dimostrare anche le attività salutistiche di quanto è associato alla fibra insolubile e le azioni prebiotiche di quella solubile.
Cos’é la fibra alimentare L’importanza recentemente riconosciuta alla fibra alimentare deriva dalla constatazione che l’uomo ha una duplice alimentazione, vegetariana e carnivorana, e che la componente vegetale è indispensabile per una regolare attività intestinale, soprattutto del grosso intestino, ed una corretta nutrizione e salute. La presenza di fibra negli alimenti vegetali è da qualche tempo oggetto d’indagini. Le ricerche più recenti sono indirizzate a stabilire le quantità dei diversi tipi di fibra in ogni alimento destinato all’uomo. Grosso modo per fibra s’intende tutto quanto, d’origine vegetale, non è digeribile dagli enzimi elaborati dall’apparato digerente. Nella fibra è compresa la lignina (composto fenolico polimerico), la cellulosa ed altri componenti affini (emicellulose, pectine ecc.), ma anche zuccheri semplici o riuniti in brevi catene che non sono digeribili, perché l’organismo umano e di molti animali non ha gli enzimi adatti. Perché indigeribile, la fibra è considerata anche come scoria. Quell’ora indicata è la fibra totale. Nell’ambito della fibra totale, si distinguono due importanti frazioni. Una prima frazione è costituita dalla fibra insolubile, costituita soprattutto da lignina, cellulosa ed altri composti affini non digeribili e d’impossibile o non facile fermentazione nell’apparato digerente dell’uomo e di gran parte degli animali. Una seconda frazione, la fibra solubile, è costituita da idrati di carbonio
Fibra alimentare insolubile e solubile “Una mela il giorno, leva il medico d’intorno”: una volta si diceva perché era ricca di vitamine, oggi si sa che buona parte dei benefici effetti nutrizionali della mela deriva dalla fibra che contiene, prevalentemente di tipo solubile. Una caratteristica che, ad esempio, la differenza dalla pera. Un punto fermo oggi acquisito è che la fibra alimentare è importante per la sua qualità e non soltanto la quantità. Non errata, ma insufficiente è l’ormai classica regola che l’uomo deve introdurre ogni giorno con la dieta da 25 a 35 grammi di fibra alimentare, anche se l’uomo preistorico od agli inizi dell’agricoltura aveva una dieta nella quale la fibra alimentare si avvicinava ed anche superava i cento grammi giornalieri. Oggi bisogna precisare quale fibra alimentare è introdotta con la dieta ed in particolare bisogna privilegiare una quota sufficiente, meglio se abbondante, di fibra alimentare solubile. Fibra insolubile in alimentazione La fibra insolubile, polisaccaridi non idrolizzati dagli enzimi e dai batteri intestinali, è costituita dalla cellulosa, emicellulose e lignine. Principali effetti favorevoli della fibra alimentare insolubile. 1 - Mantenimento del volume del contenuto intestinale e della sua idratazione (prevenzione e cura della stitichezza). 129
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Capitolo II
2 - Diminuzione del tempo di transito intestinale. 3 - Micropulizia delle anfrattuosità intestinali 4 - Legame e sequestro di sali biliari, ioni, sostanze cancerogene. Principali effetti sfavorevoli della fibra alimentare insolubile. Per un eccesso di fibra insolubile o di qualità non adatta (ricca di lignina) può conseguire una diminuzione della digeribilità degli alimenti (utile nelle diete ipocaloriche o dimagranti)
1 - Sono “ipocalorici” (circa 1/4 dello zucchero normale o degli amidi) e sono utili nelle diete dimagranti, pur essendo possibile sfruttare l’attività dolcificante del fruttosio. 2 - Non innalzano bruscamente il livello di glucosio nel sangue e sono particolarmente indicati nei prediabetici, e nel controllo esclusivamente o prevalentemente dietetico del diabete zuccherino. 3 – Nell’intestino stimolano lo sviluppo dei batteri bifidogeni, un particolare gruppo di batteri lattici dotato d’elevate attività protettive e che sono un potente probiotico. Per questa sua attività, il fruttosio ed altre fibre solubili, sono considerati prebiotici. 4 – Dalla fermentazione delle fibre solubili originano acidi grassi volatili (AGV) tra i quali sono da citare l’acido propionico, l’acido acetico e l’acido butirrico. 5 – Gli AGV sono ricchi d’energia, soprattutto il propionico. Per la loro utilizzazione non è necessaria l’insulina. Dato che sono prodotti dalle fermentazioni nel grosso intestino, non provocano a livello del sangue dei picchi energetici che, a lungo andare, favoriscono il diabete. 6 - L’acido acetico regolarizza il pH del grosso intestino e lo protegge da numerose infezioni (coliti). 7 – L’acido butirrico sembra avere importanti azioni sulla mucosa intestinale, prevenendo patologie quali la diverticolite e forse i tumori. 8 – L’inulina, una fibra dietetica solubile, ha oggi importanti applicazioni. La sua struttura omogenea e cremosa piacevole al palato (elevata palatabilità) conferisce agli alimenti caratteristiche funzionali positive, soprattutto in quelli che sono stati alleggeriti togliendo una più o meno elevata percentuale di grasso. L’inulina si presta molto bene per preparare alimenti light, leggeri e con poco grasso, ma al tempo stesso d’ottimo aspetto e soprattutto di buona palatabilità e sapore: in particolare prodotti caseari fermentati (yogurt alla frutta;
Fibra solubile in alimentazione In linea di massima la quantità di fibra alimentare necessaria per una corretta nutrizione umana dovrebbe contenere almeno la metà di fibra solubile, che deve essere ottenuta dagli alimenti vegetali naturali, anche se già oggi gli alimenti industriali, ad esempio certi tipi di latte, iniziano ad essere integrati con fibra solubile. Più di 36.000 piante ed in particolare frutta ed ortaggi, contengono fruttosio ed i suoi prodotti di condensazione. Tra gli ortaggi di maggiore uso vi sono ad esempio carciofo, asparago, porro, cipolla, aglio. Contengono fruttosio anche il frumento, ma soprattutto molti frutti, e da qui la denominazione dello zucchero. Le migliori tabelle che riportano le composizioni degli alimenti distinguono la fibra alimentare totale nelle due frazioni: fibra alimentare insolubile e fibra alimentare solubile. Per una buona dieta è bene preferire gli alimenti ricchi di fibra solubile a quelli ricchi di fibra insolubile, con un rapporto tra solubile ed insolubile abbastanza equilibrato, vicino a 1:1. Ad esempio la mela ha un rapporto fibra solubile/fibra insolubile di 1:1,55, mentre la pera ha un rapporto 1:3,66. Persone che hanno disturbi del grosso intestino (colite ecc.) traggono vantaggio dalla mela, ma possono avere disturbi dalla pera. Vantaggi delle fibre dietetiche solubili. Il fruttosio ed in particolare i suoi derivati hanno importanti attività funzionali alimentari. 130
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Molecole con attività farmacologiche associate alla fibra alimentare Associate alle fibre alimentari insolubili vi sono numerose molecole dotate d’azioni dietetiche e farmacologiche, in relazione al vegetale dalle quali provengono. Molte radici e cortecce sono ricche di principi attivi e, tra i tanti, basterà ricordare i tannini, i salicilati e la chinina, senza dimenticare le molecole antiossidanti con azione anti-colesterolica. Un’alimentazione ricca di fibra insolubile (cinquanta e spesso cento grammi giornalie-
burro leggero da spalmare), cioccolata magra, prodotti da forno e dolci dietetici. Svantaggi delle fibre dietetiche solubili. Accanto agli aspetti positivi della fibra dietetica solubile, non bisogna dimenticare che un suo eccesso può avere effetti indesiderati. È quello che accade quando si eccede con la frutta, che contiene più o meno elevate quantità d’oligofruttosio e d’inulina. Questi compositi fermentano nel grosso intestino e provocano una diarrea più o meno intensa, con un effetto di tipo purgativo.
Classificazione nutrizionale dei carboidrati alimentari Carboidrati disponibili – Digeribili e assorbiti - Zuccheri semplici e disaccaridi: glucosio, fruttosio, lattosio, maltosio e saccarosio - Polisaccaridi del glucosio: amido, destrine, glicogeno Fibra solubile - Carboidrati non disponibili o fibra solubile - Non digeribili, in parte fermentabili dalla flora microbica intestinale Oligosaccaridi della serie del rafinosio: rafinosio, stachioso, verbascosio, oligofruttosio ecc. Pectine - Polisaccaridi del galattosio ed acido Uronico - 40% delle fibre della frutta Gomme e mucillagini: Polisaccaridi non strutturali Galattomannani - Mannano-Oligosaccaridi (MOS), Frutto-oligosaccaridi (FOS), Galatto-oligosaccaridi (GOS), Altri polisaccaridi di riserva dei vegetali. Polisaccaridi presenti nei legumi Fibra insolubile – Polisaccaridi non idrolizzati dagli enzimi intestinali Cellulosa - Polimero del glucosio - 25% delle fibre dei cereali, vegetali e frutta Emicellulose - Polimeri d’esosi e pentosi - 50-70% delle fibre dei cereali, vegetali e frutta Lignine - Polimeri del fenilpropano - 10% delle fibre vegetali Fibra grezza - Fibra insolubile più fibra solubile Principali effetti della fibra alimentare insolubile Effetti favorevoli 1 - Mantenimento del volume del contenuto intestinale e della sua idratazione (Prevenzione e cura della stitichezza) 2 - Diminuzione del tempo di transito intestinale 3 - Micropulizia delle anfrattuosità intestinali 4 - Legame e sequestro di sali biliari, ioni, sostanze cancerogene Effetti sfavorevoli Per eccesso di fibra insolubile o di qualità non adatta (ricca di lignina) 1 - Diminuzione della digeribilità degli alimenti (utile nelle diete ipocaloriche o dimagranti)
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Principali effetti della fibra alimentare solubile Effetti favorevoli 1 – Sviluppo nell’intestino di batteri favorevoli (probiotici) 2 - Azione diretta sui batteri patogeni (da parte dei Mannano-oligosaccaridi sulle Lectine batteriche) 3 - Effetto barriera dei batteri probiotici contro le infezioni intestinali 4 – Attività pro-immunitaria dei probiotici 5 – Attività anticancerogena dei probiotici 6 – Produzione d’acidi grassi volatili (AGV): Ipocalorici, Regolatori dell’acidità, alcalinità intestinale, Antidiabetici 7 – Ridotta produzione di tossici intestinali (ammoniaca, indolo, scatolo, cancerogeni endogeni, ecc.) Effetti sfavorevoli Per eccesso di fibra solubile o di qualità non adatta 1 - Feci molli o modica diarrea
ri, nell’uomo raccoglitore) era anche ricca di molecole protettive.
diabesità, diabete mellito, emorroidi ed altre turbe circolatorie (vene varicose?), neoplasie del grosso intestino, obesità, sindrome del colon irritabile, stitichezza.
Fibra ed alimentazione darwiniana L’uomo è al tempo stesso vegetariano e carnivorano. I denti molari ed il grosso intestino sono l’espressione evolutiva di un’alimentazione vegetale ricca di fibra, solubile ed insolubile. Un’alimentazione povera di fibra come quell’attuale comporta una serie di conseguenze che sfociano in patologie, tra le quali sono da ricordare, in ordine alfabetico:
Bibliografia Grigelmo Miguel N., Martin Belloso O. Comparison of dietary fibre from by-products of processing fruits and greens and from cereals. Food Sci. Tech. Lebensmittel Wiss. Tech., 32, 503-508, 1999
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Bevande acide, infusi e bevande nervine
ti hanno avuto a disposizione frutta selvatica, spesso raccolta acerba e prima di una completa maturazione. Rimandare la raccolta voleva dire lasciare ad altri il frutto. La frutta acerba, acidula, era ed è ricca d’acido ascorbico o vitamina C considerata antistress, e d’altri composti antiossidanti utili per la salute. Azione antistress e sensazione di benessere sono facilmente collegabili a livello di gusto orale (potere dissetante delle bevande acide) e di benessere generale (eucenestesi). È molto probabile che durante la sua evoluzione, le specie animali frugivore e di conseguenza anche l’uomo, abbiano sviluppato una fame specifica verso la frutta ed i vegetali acidi. Questa fame specifica si sarebbe poi manifestata anche a livello d’alimentazione culturale con lo sviluppo di bevande e cibi acidi (aceto, yogurt, vegetali fermentati, ecc.). Le attività extranutrizionali delle bevande acide sono state considerate in dettaglio da Ballarini (1989). Recentemente il Prof. Anatoly I. Sobko dell’Università dell’Ucraina, anche in conformità a ricerche sperimentali ha dimostrato l’efficacia degli acidi organici somministrati con l’alimentazione per controllare i disturbi metabolici e le alterazioni immunitarie causate dagli stress. Sono bevande acide largamente usate le acque gassate o “frizzanti” ottenute con aggiunta d’anidride carbonica o gas carbonico che, sciogliendosi nell’acqua, dà origine all’acido carbonico. Numerose ricerche dimostrano che l’acqua acidificata con l’acido carbonico (acqua gassata) ha un’attività antistress e facilita l’assorbimento del calcio. Tra le bevande acide artificiali bisogna ricordare il successo di quelle che contengono acido ortofosforico, che ha sostituito altri acidi inorganici come l’acido cloridrico. Queste bevande, d’uso ormai mondiale, hanno avuto successo non solo per la propaganda che le ha supportate, ma anche per le loro caratteristiche antistress. Tra le bevande acide tra il naturale e l’artificiale da ricordare il vinello acido, quasi un aceto diluito, ottenuto dalla fermentazione delle vinacce, che era usato dai lavoratori dei campi. Sono bevande acide naturali quelle ottenute dagli agrumi ed in particolare limoni, pompelmi e
L’acqua è un alimento per il quale l’evoluzione ha sviluppato una fame specifica: la sete. Attraverso il bere sono soddisfatte diverse esigenze, ad esempio di raffreddamento ed altri fami specifiche. Un aspetto quest’ultimo ancora poco indagato e che giustifica il successo di talune bevande, ad esempio quelle acide. L’uomo, aggiungendo all’alimentazione biologica la dimensione culturale, all’acqua ha affiancato altre bevande. Non ancora sufficientemente indagate sono le componenti genetiche che, accanto ai determinanti culturali, spingono l’uomo ad utilizzare bevande psicostimolanti, meglio note come nervine. Non solo acqua L’uomo ha bisogno di mangiare e di bere. Non tutti gli animali fanno questa distinzione e ve ne sono di quelli che ricavano gran parte o tutta l’acqua di cui hanno bisogno dai cibi acquosi o la generano con il loro metabolismo (acqua metabolica). La selezione naturale ha agito intensamente su questo versante, come dimostra l’ereditabilità, nell’uomo, della quantità d’acqua ingerita (De Castro, 1993). L’uomo in ogni caso beve e mostra una predisposizione per l’acqua acidula, le bevande acide ed infusi contenenti sostanze nervine, come le xantine (caffeina, teina, teobromina ecc). Le evidenti tendenze verso bevande diverse dall’acqua, hanno una disposizione genetica? Quasi certamente non esiste il gene che indirizza l’uomo a bere acido o caffè e the. Probabilmente esiste una “fame specifica” verso alimenti acidi, su di una disposizione genetica che permette di correlare un certo alimento o bevanda ad uno stato di benessere (eucenestesi) o di malessere (cacocenestesi). In modo analogo è per la ricerca di bevande capaci di fornire benessere, perché psicostimolanti.
Bevande acide Osservazioni antropologiche dimostrano che l’uomo è tendenzialmente un frugivoro, vale a dire che gli piace la frutta. Quale frutta? Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ed i suoi antena133
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the, carcadè, mate, cioccolata ed altre) è da ricordare che il caffè, che come è noto contiene la caffeina, sarebbe stato scoperto dall’uomo osservando l’effetto eccitante della pianta in animali (pecore e cammelli) che ne mangiavano volentieri bacche e foglie. In modo analogo sarebbe avvenuto per il ciat dello Yemen.
loro ibridi, cedri ed altri frutti. Come già considerato in modo speciale per il pompelmo (Ballarini, 1989), queste bevande sono ricche d’acido citrico e d’acido ascorbico (Vitamina C). L’azione antistress delle bevande acide è massima in quelle che contengono acidi organici e naturalmente presenti nell’organismo, come l’acido carbonico, l’acido citrico, l’acido ascorbico ed anche l’acido acetico. Particolarmente efficaci, sostiene il Prof. I. Sobko con i suoi collaboratori, sono gli acidi organici del ciclo tricarbossilico che a particolari dosi hanno anche un effetto terapeutico. Ovviamente le sole bevande acide non risolvono il problema alimentare dello stress, per il quale si sono rivelati utili anche altri nutrienti: vitamine, aminoacidi, antiossidanti, oligoelementi minerali e soprattutto il selenio. Per la quantità con la quale sono bevute e soprattutto per il rapido assorbimento, le bevande sono molto importanti, soprattutto se agli acidi organici sono associati i minerali che sono perduti con il sudore (sodio, cloro, potassio).
Aspetti sanitari delle bevande nervine ed alimentazione darwiniana È interessante rilevare che le bevande nervine sono quasi sempre dotate d’attività utili alla salute. Ad esempio l’infuso del the è dotato di un buon potere antisettico sull’Helicobacter pylori, un batterio che provoca una gastrite cronica che può complicarsi con un’ulcera gastrica o duodenale. Esiste un controllo genetico dell’introduzione (ed eliminazione) dell’acqua. Molto probabilmente esistono anche dei comportamenti alimentari più o meno rigidi, per le bevande acide, che almeno in parte giustificano il successo di bevande acide artificiali. Un successo che con ogni probabilità passa attraverso sensazioni endogene di benessere (eucenestesi).
Infusi e bevande nervine La ricerca umana di bevande stimolanti pare essere culturale ma, se ben si considera l’argomento, è possibile rintracciare un’origine preumana e quindi biologica. Un argomento questo che è stato considerato in dettaglio da Ballarini (1989). La ricerca e la scelta degli alimenti con caratteristiche di tipo farmacologico, risponde a bisogni che non sono solo umani, ma anche preumani, di tipo biologico oltre che psicologico e culturale. Per quanto riguarda le bevande cosiddette nervine (infusi di caffè,
Bibliografia Ballarini G. Rischi e Virtù degli Alimenti. Calderini, Bologna, 1989 De-Castro J. M. Genetic influences on daily intake and meal patterns of humans. Physiol. Behav., 53 (4): 777-82, 1993 Weinberg B.A., Bealer B.K. Caffeina. Donzelli Editore, Roma, 2002
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Nella prospettiva di un’alimentazione evoluzionista è necessario considerare le azioni farmacologiche degli alimenti e chiedersi se esiste una conoscenza preumana degli animali che hanno insegnato all’uomo come sceglierli.
ATTIVITÀ EXTRANUTRIZIONALI DEGLI ALIMENTI E NUTRIZIONE DARWINIANA La composizione degli alimenti è molto complessa e come ha insegnato Shakespeare “vi sono più cose in cielo ed in terra, di quel che non conosca la nostra filosofia” (Amleto, Atto I). Negli alimenti, accanto a sostanze dotate di specifiche attività nutrizionali (proteine, grassi, minerali e via dicendo) vi sono moltissime molecole con azioni non nutrizionali (attività extranutrizionali) importanti per la salute ed il benessere psicofisico. Anche in relazione alle attività extranutrizionali, l’evoluzione alimentare della nostra specie aveva impostato la scelta degli alimenti ed una gran biodiversità alimentare, che vediamo oggi gravemente ridursi e che l’attuale cultura sembra sottovalutare. Tra le attività extranutrizionali degli alimenti sono da considerare quelle di tipo farmacologico e base della nutraceutica, gli antibiotici e gli ormoni, e gli antiossidanti contenuti in molti alimenti.
Componenti extranutrizionali degli alimenti Moltissime molecole degli alimenti non rientrano nell’usuale esposizione della loro composizione. Un esempio: l’aroma del pane che esce dal forno è la miscela di circa centocinquanta molecole. In modo analogo avviene per il vino, di cui non si apprezza soltanto l’aroma, ma anche le più fini sfumature di sapore, gusto e retrogusto, oltre che il colore nei suoi molteplici riflessi. Il numero quasi infinito di molecole e d’associazione di molecole presenti nei cibi ha ricadute nutrizionali e sanitarie, inquadrate nelle attività extranutrizionali degli alimenti. Numerose ricerche indicano che agli alimenti sono da attribuire attività di diverso genere, che sono state oggetto di un’ampia revisione da Concon (l988) nel classico trattato Food Toxicology, e che possono essere classificate come segue. - Attività nutrizionali che riguardano il metabolismo plastico ed energetico. I singoli principi alimentari possono anche intervenire sulla e nella nutrizione anche con altri meccanismi, diretti o indiretti. Per questi è stata coniata la dizione d’attività extranutrizionali, le più note delle quali riguardano le proteine (attività nutrizionali extraproteiche). - Attività farmacologiche sono state rilevate in molti alimenti. Interessanti, da un punto di vista pratico, sono le attività farmacologiche che si riscontrano negli alimenti somministrati per via orale ed in quantità normali. Tra queste vi sono le azioni antibiotiche capaci di regolare il microbismo intestinale e le attività ormonali e feromonali. Un esempio di attività farmacologiche capaci di interessare il comportamento animale e derivanti
Attività extranutrizionali e farmacologiche degli alimenti Negli alimenti vi sono moltissime attività extranutrizionali importanti per la salute ed il benessere psicofisico. Su queste caratteristiche l’evoluzione alimentare della nostra specie aveva impostato la scelta degli alimenti ed una gran biodiversità alimentare, che oggi vediamo gravemente ridursi e che l’attuale cultura sembra sottovalutare. Il legame tra alimenti e farmaci è molto stretto. Molti vegetali che sono utilizzati in alimentazione umana contengono principi attivi dotati d’attività farmacologiche. Una nozione antichissima, che oggi ha uno sviluppo nella nutraceutica. 135
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Capitolo II
da un alimento normale somministrato per via e dosi normali, sono le casomorfine, che si originano dalla digestione della caseina (Grant e coll., 1981) o le exorfine che provengono dalla digestione del glutine (Hemmings, 1978), oltre agli ormoni, le sostanze ormonosimili ed i feromoni naturalmente presenti in molti alimenti. - Attività tossiche sono note per diversi alimenti anche tradizionali e talvolta correlati alla dose ed al metodo di preparazione degli stessi. Non va dimenticato che oggi l’uomo si ciba d’alimenti che il più delle volte sono sottoposti a trattamenti che hanno la finalità di permetterne la conservazione, di sanitizzarli ecc. Le attività extranutrizionali degli alimenti derivano da numerosi e diversificati meccanismi d’azione, alcuni noti, altri ancora oggetto d’ipotesi o supposizioni. Vi è anche da ritenere che per uno stesso alimento o principio alimentare esistano più meccanismi di azione, diversi anche in rapporto alla dose ed agli stati metabolici. Non poche attività extranutrizionali, e soprattutto quelle che possono interessare il comportamento, sembrano largamente mediate dai processi di digestione. Nell’uomo aminoacidi e oligopeptidi biologicamente attivi si generano a livello gastroduodenale a seguito della digestione delle proteine. In proposito si possono citare le già ricordate casomorfine e le exorfine o sostanze endorfinosimili. Le attività extranutrizionali degli alimenti sono oggetto di studio scientifico e preciso, con risultati in gran parte sorprendenti e molto importanti. A titolo d’esempio sono da ricordare le attività anticolesteroliche della soia e del vino rosso, ma anche della carne magra; le azioni protettive anticancerogene di molti alimenti vegetali, ma anche del burro; le azioni prebiotiche delle fibre solubili dei vegetali ed anche nel latte; le attività ormonali e para-ormonali di molti vegetali; le azioni oppioidi che alcuni alimenti sviluppano nel corso della loro digestione, come le
casomorfine del latte e le exorfine del glutine di frumento. Alle attività extranutrizionali degli alimenti sono da attribuire virtù già intuite dalla tradizione e che talvolta hanno suscitato stupore, come quando ci si è accorti che il vino rosso bevuto dai francesi permetteva loro di avere un livello di colesterolo nel sangue inferiore agli americani, pur mangiando la stessa quantità di grassi animali. N’è così nato il Paradosso Francese. Alle molecole con attività extranutrizionali degli alimenti sono anche da attribuire allergie ed intolleranze, ma anche il colore e tutta una serie di caratteristiche funzionali degli alimenti. Tra una piccola fragola di bosco ed una fragola coltivata in serra non vi è una gran differenza nutrizionale, calcolata in termini di calorie, acqua ed altri componenti, ma una differenza abissale per le caratteristiche extranutrizionali, ad iniziare, nelle fragole coltivate, da una ridotta capacità allergenica (effetto positivo), che si associa agli effetti negativi di uno scarso aroma, basso sapore ecc. Le attività extranutrizionali hanno una gran importanza per gli aspetti psicosensoriali o gastronomici facilmente intuibili, per i risvolti comportamentali (oggi studiati dalla psicodietetica, che considera i rapporti tra alimentazione e psiche) e quelli sanitari, che vanno dal controllo della colesterolemia alla protezione antitumorale. Molto numerose sono le attività extranutrizionali degli alimenti vegetali, schematicamente indicate in una tabella. Alle più importanti sono dedicati capitoli specifici o le stesse sono richiamate esaminando singoli alimenti. In questa sede è utile indicare le principali attività extranutrizionali meno note dei grassi, del latte e delle carni. Attività extranutrizionali dei grassi Per giudicare della qualità extranutrizionale di un grasso, bisogna tenere conto degli acidi grassi essenziali che contiene ed in particolare dell’acido linoleico ed alfa-linolenico. Quanto maggiore è la loro presenza, tanto 136
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Latte alimento Funzionale Interspecifico Funzioni Protettive: Intersupplementazione aminoacidica. Funzioni Prebiotiche: Attività di stimolo e regolazione delle fermentazioni lattiche. Attività bifidogena. Latte alimento Nutraceutico Attività farmacologiche del latte. Attività antinfettive: contenuto anticorpale, cellule somatiche, lisozima, chelazione del ferro da lattoferrina, casomorfine come agenti immunomodulatori (maturazione del sistema immunitario locale e generale, attivazione dei macrofagi, azione sulle cellule Killer, aumento dell’interferone), attività immunomodulante per azione degli acidi nucleici delle cellule, vitamine antinfettive A, C. Attività sulla funzionalità digestiva e sul metabolismo: attività antiacide, regolazione della motilità intestinale (casomorfine), assorbimento del calcio, fattore anticolesterolo dei fosfolipidi. Attività sui neuromediatori e azioni di tipo neurocomportamentale: casomorfine, aminoacidi e composti vitaminosimili (triptofano, nicotinamide). Attività ormonali: ormoni naturali - somatotropina od ormone della crescita, ormoni steroidei, induttori d’ormoni endogeni (arginina) sostanze oppioidi (endorfine).
più un grasso è adatto all’alimentazione, perché permette di coprire il fabbisogno organico senza eccedere in energia. In una dieta equilibrata gran parte degli acidi grassi insaturi dovrebbe essere di tipo strutturato e quindi non essere estratto da animali o vegetali. I grassi alimentari apportano significativi componenti non energetici, come le vitamine liposolubili (solubili nei grassi) e caroteni. Da alcuni caroteni deriva la vitamina A, indispensabile per la vita e dotata di preziose attività necessarie per l’accrescimento, lo sviluppo e la sanità delle mucose e della pelle. La vitamina E è un importante antiossidante naturale, necessario alla vita e con numerose e preziose attività antinvecchiamento e proimmunitarie. Altri caroteni e carotenoidi hanno un’attività antiossidante. Non è da dimenticare che nei grassi ed oli sono presenti ormoni, ma soprattutto sostanze ormonosimili. Nei grassi animali possono essere contenuti ormoni naturali, ma in quantità estremamente basse e quasi non assorbiti dall’apparato digerente, per questo non hanno alcun significato tossico o dannoso. I composti ormonosimili contenuti negli oli vegetali (conosciuti anche come fitormoni e soprattutto i fitoestrogeni) non sono inattivati dall’apparato digerente ed anche per le loro concentrazioni, spesso elevate, possono svolgere attività farmacologiche. Utili attività degli oli vegetali ricchi di fitoestrogeni si hanno a livello locale: sull’intestino (miglioramento della nutrizione con effetto auxinico) e sulla pelle. Non è certamente un caso che uno dei primi usi dell’olio d’oliva non sia stato alimentare, ma terapeutico e cosmetico: quest’olio d’oliva, in particolare quello vergine, è ricco di vitamine A ed E e soprattutto d’ormoni estrogeni (fitoestrogeni).
Caratteri extranutrizionali e nutraceutici delle carni e derivati Nelle carni e loro derivati sono state individuate attività extranutrizionali e nutraceutiche ed in particolari le seguenti. Grassi strutturali della frazione lipidica della carne magra. Acido linoleico coniugato (proprietà anticancerogene, antiossidanti e di protezione metabolica, oltre che immunostimolanti). Fosfolipidi, costituiti in prevalenza da fosfatidilcolina. Rapporto fosfolipidi/colesterolo favorevole (circa 14:1).
Caratteri extranutrizionali e nutraceutici del latte e dei latticini Il latte ed i suoi derivati devono essere considerati come alimenti funzionali e alimenti nutraceutici. 137
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Aminoacidi essenziali dotati d’attività extranutrizionali: arginina (produzione di somatotropo), triptofano (produzione di serotonina). Nucleotidi con azione proimmunitaria. Vitamine: Vitamina E, B 1 e B 2, PP, B 12 e Acido Folico. Antiossidanti (Vitamina E). Nelle carni fermentate (salumi e salami ecc.) bisogna tenere conto della produzione di vitamine da parte dei batteri fermentanti, in buona parte di tipo lattico. Minerali sotto una forma organica (ferro, rame, zinco, cromo e selenio). La carne è inoltre un alimento protettivo (intersupplementazione degli aminoacidi e assorbimento del ferro) ed ha un’attività saziante, in buona parte dipendente dal suo contenuto dell’aminoacido triptofano, che induce la produzione di serotonina. In questo senso alla carne sono attribuibili attività psicodietetiche.
mina e sostanze simili sono elaborate da alcuni batteri, che possono fermentare gli alimenti e provocano disturbi in persone predisposte e con particolare sensibilità. È il caso di persone nelle quali formaggi, che hanno subito un’intensa e prolungata stagionatura (tome piemontesi ecc.) o vini a lunga maturazione (soprattutto quelli rossi invecchiati), provocano fenomeni vasomotori particolarmente intensi, con rapido ed intenso arrossamento della pelle della faccia, mal di testa ecc. Questi alimenti contengono prodotti di demolizione fermentativa delle proteine (ammine biogene tra le quali anche l’istamiPrincipali attività extranutrizionali degli alimenti – Attività acidogene – Attività antiacide – Attività allergizzanti – Attività antibiotiche – Attività anticancerogene – Attività anticolesteroliche – Attività antienzimatiche – Attività antinfettive – Attività antinutrizionali – Attività antiossidanti – Attività sull’assorbimento del calcio ed altri minerali – Attività di chelazione dei minerali – Attività farmacologiche – Attività immunitarie ed immunomodulanti – Attività metaboliche ed antimetaboliche – Attività neurostimolanti – Attività nutraceutiche in generale – Attività oppioidi e morfinosimili – Attività ormonali ed antiormonali – Attività prebiotiche – Attività probiotiche – Attività protettive – Attività psicosensoriali e psicodietetiche – Attività di regolazione della flora microbica intestinale – Attività di regolazione della motilità digestiva – Attività saziante
Farmaci ed alimenti Molto stretti sono i rapporti tra gli alimenti ed i farmaci e non è certamente un caso che il termine inglese drug, farmaco, si colleghi a quello italiano di alimenti, come le droghe o spezie. Sia gli alimenti sia i farmaci sono valutati dagli effetti che provocano. Vi è anche un’abitudine agli alimenti, per alcuni dei quali – ad esempio il cacao – sembra svilupparsi una vera e propria dipendenza (cioccodipendenza). La scelta degli alimenti è una caratteristica che dobbiamo ritenere preumana, con un complesso coinvolgimento biologico, psicologico e sociale. Conoscere meglio i meccanismi d’individuazione ed utilizzazione dei farmaci e delle spezie, apre nuove prospettive all’alimentazione evoluzionista. Un cibo può fare male: non bisogna subito pensare ad un’allergia o ad un’intolleranza (vedi i successivi capitoli) e pensare anche alle molecole con attività farmacologiche contenute negli alimenti naturali, od in taluni alimenti fermentati o alterati. Ista138
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na). Anche taluni pesci e prodotti ittici, consumati freschi e non cotti, possono contenere istamina o sostanze analoghe. Non è infine da dimenticare che in molti alimenti vegetali vi sono sostanze ad azione farmacologica e tra queste, ad esempio, l’acido salicilico (considerato nel capitolo successivo sulla nutraceutica e alimenti funzionali), verso il quale diverse persone sono intolleranti. Tra i composti con attività farmacologica largamente diffusi tra i vegetali, sono da ricordare i flavonoidi.
mondo vegetale e particolarmente abbondanti nel pompelmo, olio d’oliva, tè e vino rosso. Da un punto di vista chimico, rappresentano un ampio e complesso gruppo di composti polifenolici e derivati del fenilgamma-benzopirone, una struttura a tre anelli con due centri aromatici ed un eterociclo ossigenato centrale. In natura, attraverso meccanismi d’evoluzione e di co-evoluzione tra specie vegetali ed animali, agiscono soprattutto come coloranti (antociani e antocianidine), antiossidanti, antimicrobici e come attrattivi o repulsivi nei confronti degli animali, che contribuiscono alla disseminazione del polline, oppure che utilizzano le piante come fonte di nutrimento o per la de-
Flavonoidi I flavonoidi rappresentano un interessante gruppo di sostanze pressoché ubiquitarie nel
Componenti biologicamente attivi della frutta e verdura (Quaglia et al., 2001 - con aggiunte) Componente
Vegetale
Potenziale effetto salutistico
Acido ascorbico
Agrumi, kiwi, fragole, melone, peperone, cavoli, broccoli, spinaci
Protezione delle mucose Coagulazione del sangue Protezione verso il cancro dello stomaco, esofago, cavità orale
Salicilati
Attività antireumatica Protezione patologie cardiovascolari
Composti fenolici Flavonoidi Mele, uva, cipolle, lattuga, carciofi, pomodori, olive
Riduzione patologie cardiovascolari
Resveratrolo
Uva
Inibizione processi di promozione e proliferazione cellule tumorali
Acido ellagico
Fragole
Diminuzione del colesterolo Attività anticancerogena
Carote, verdure a foglia verde, melone, albicocca
Protezione patologie cardiovascolari
Licopene
Pomodoro
Riduzione incidenza alcune forme di tumore (prostata, esofago, ecc.)
Tocoferoli
Ortaggi a foglia verde, cavoli, broccoli, Protezione nei confronti di processi spinaci d’aterosclerosi, infarto
Carotenoidi Beta – carotene
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Capitolo II
Attività di alcune erbe aromatiche Erba aromatica
Componenti principali
Attività
Aglio Anice Cardamono Cinnamomo Chiodo di garofano Coriandolo Cumino Fieno greco Menta Noce moscata Pepe Peperone Prezzemolo Rafano Rosmarino Salvia Sedano Senape Timo Zenzero
Allicina Anetolo Cineolo Aldeide cinnamica Eugenolo Linalolo Aldeide cuminica Trigonellina Mentolo Sabinene, safrolo Piperina Capsaicina Apiolo Isotiocianato d’allile Cineolo Cineolo Ftalidi Isotiocianato d’allile Timolo Gingerolo
Stimolante la digestione, antisettico Stimolante la digestione Stimolante l’appetito e la digestione Stimolante l’appetito e la digestione, antisettico Stimolante l’appetito e la digestione, antisettico Stimolante la digestione Stimolante la digestione, calmante Stimolante l’appetito Stimolante l’appetito e la digestione, antisettico Stimolante digestivo, antisettico Stimolante digestivo Antidiarroico, antinfiammatorio, stimolante Stimolante l’appetito e la digestione, antisettico Stimolante l’appetito Stimolante l’appetito e la digestione, antisettico Stimolante la digestione, antisettico, calmante Stimolante la digestione, antisettico, antiossidante Stimolante la digestione Stimolante la digestione, antisettico, antiossidante Stimolante gastrico
posizione delle uova. La ricerca nel campo dei flavonoidi ha avuto inizio, nel 1935 da parte di Szent-Gyorgyi, sugli effetti vasoprotettivi dei flavonoidi del pompelmo (esperidina ed eriodictiolo). Da allora sono state messe in evidenza altre proprietà terapeutiche dei flavonoidi: antiaggreganti le piastrine, antinfiammatori, antiallergici, antivirali, antitumorali, antiepatotossici, stimolanti le funzioni cognitive. I flavonoidi più diffusi sono: apigenina, ipericoside ed iperina, quercitina ed isoquercitina, quercetrina, kaempferolo, luteolina, rutina e vitexina.
dalle caratteristiche sensoriali degli stessi e dalle sensazioni che ricavava dal loro uso alimentare (senso di benessere o eucenestesi, senso di malessere o cacocenestesi). Queste scelte sono oggi indubbiamente alterate da situazioni spesso artificiali, ad iniziare dall’uso di coloranti di sintesi, sapori ed aromi indotti con sostanze chimiche e via dicendo, che ingannano i sensi e spesso li deformano. L’evoluzione ci spinge a cercare alimenti di certi colori, che sono di norma associati a ben precise caratteristiche nutrizionali, ma soprattutto extranutrizionali (ad esempio il colore giallo o rosso, collegato ai caroteni dotati di attività antiossidanti e vitaminiche). Un alimento artificialmente colorato di giallo o rosso, anche se innocuo, è un inganno, perché non è dotato di quelle peculiarità alle quali la nostra genetica ci indirizza.
Attività extranutrizionali, azioni farmacologiche degli alimenti e nutrizione darwiniana Nella scelta dei cibi la specie umana, come i suoi predecessori animali, è stata guidata 140
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Cibo e nutrizione
Piante con probabile effetto terapeutico rivelato da animali all’uomo (da Scarpa, 1977 con modifiche) Pianta
Principio attivo
Effetto
Calamo (Acorus calamus L.)
Olio essenziale asarone (prodotto da un’aldeide)
Proprietà antisettiche ed antibatteriche con odore aromatico. È attivo sulle api.
Alno (od Ontano) (Alnus glutinosa)
Emodina, alnulina, protoalnulina, glutano, glutinolo e diversi composti acidi
Proprietà insetticide (pulci)
Ancusa Non determinato (Anchusa officinalis L.)
Attività simili a quelle dell’Alno
Blattaria o Verbasco (Verbascum) phlomoides L.
Secondo Plinio attirerebbe le tignole e le blatte
I fiori contengono notevoli quantità (fino all’11%) di saccarosio
Pilosella Sostanze tanniche (Hieracium pilosella L.)
Attività antidiarroica. Si diceva ricercata dalle pecore per la cura di dissenteria e metrorragie
Pulegio (Menta pulegium L.)
Non determinato
Denominata anche herba pulicaria perché capace di uccidere le pulci
Ruta (Ruta graveolens L.)
Glucoside rutina
Spasmolitico, abortivo, terrebbe lontano i predatori (gatti, volpi, martore e faine), attività contro i parassiti esterni
Radici di mungo (Ophiorizza mungo)
Narcotico con azione d’antidoto verso il veleno di cobra
Usata dalla mangusta prima dei combattimenti contro i serpenti
Rauwolfia
Reserpina
Tranquillante. La pianta, mangiata volentieri dalla scimmia Colobus. Gli uccelli che si cibano della pianta (detta anche upas tree) durante il volo cadono a terra (Gori, 1990)
L’evoluzione biologica e culturale sono un’interessante e per molti aspetti indispensabile chiave di comprensione dei fenomeni considerati in questo breve capitolo. Per quanto riguarda le azioni farmacologiche, da un punto di vista pratico sono necessari due ordini di considerazioni. Sotto l’aspetto generale, l’introduzione in una popolazione di un nuovo cibo, deve essere fatta sempre con cautela, soprattutto se è usato crudo o poco cotto. Sotto l’aspetto individuale, se vi è una reazione avversa verso un cibo, accertata la molecola specifica, ad esempio caffeina, teina, teobromina, od acido salicilico, molte
volte si deve decidere d’eliminarlo dalla dieta, oppure tentare di superare il problema con diversi interventi sul cibo (ad esempio togliendo la molecola incriminata: caffè decaffeinato, the deteinato ecc.). Le azioni farmacologiche degli alimenti hanno anche effetti favorevoli e ad esempio i salicilati ed i flavonoidi alimentari possono avere un’azione antireumatica e di prevenzione di patologie vascolari umane. Numerose ricerche riguardano i salicilati contenuti nei vegetali, loro funzioni e ne giustificano la presenza, in conseguenza della selezione di vegetali capaci di resistere ad eventi avversi (predatori er141
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Capitolo II Origins of Disease. Sierra Club Books, San Francisco USA, 1994 McNeill W.H. Plagues and Peoples. Garden City, Anchor Books, New York, 1976 Nesse R.M., Williams G.C. Why We Get Sick: The New Science of Darwinian Medicine. Time Books, New York, 1994 (Trad. italiana. Perché ci ammaliamo. Einaudi, Torino, 1999) Perez De Barradas S. Plantas magicas americanas. “Bernardino De Sahagun”, Madrid, pp. 118119 Quaglia G., Gennaro L., Raffo A. La ricerca e la qualità dei prodotti alimentari. Riv. Sc. Alim., 2001 Ricciuti S.., Cardini G. Flavonoidi. Profilo farmacologico e terapeutico. Il Policlinico, Sez. Prat., 109, 179-194, 2002 Scarpa A. Dopo un viaggio in Africa Occidentale. E’ vero che gli animali hanno indicato e indicano farmaci all’uomo? Natura, 68,221-243, 1977. Scarpa A. Il sogno nella medicina tradizionale degli attuali Maya. Terra Ameriga, 8,26-27-28, p. 85, 1972. Singh U.P., Usha K. Salicylic acid induced physiological and biochemical changes in wheat seedlings under water stess. Plat Growt Reg., 39, 137-141, 2003 Swain A.R., Dutton S.P., Truswell A.S. Salicilates in foods. J. Am. Diet. Ass. 85 (8), 950-960, 1985 Trevathan W.R., Smith E.O., McKenna J.J. (Eds.). Evolutionary Medicine. Oxford University Press, New York, Oxford, 1999 Walling L.L. The myriad plant responses to herbivores. J. Plant Growth Reg., 19, 195-216, 2000
bivori, parassiti ecc.) (Walling, 2000; Singh e Usha, 2003; Chaman e coll., 2003). Non sono infine da dimenticare gli eventuali apporti degli animali nell’insegnare all’uomo l’uso medicinale delle piante che sono stati da Scarpa (1977) classificati in due categorie: 1) apporti diretti, quando è l’animale che indica il farmaco all’uomo; 2) apporti indiretti, quando è l’uomo che osserva e annota gli effetti di una pianta, medicinale o tossica, sull’animale. Bibliografia Ballarini G. Rischi e Virtù degli Alimenti. Calderini, Bologna, 1989 Capron A., Dessaint J.P. Chemical Immunology, June 1990 Chaman M.E., Copaja S.V., Argandona V.H. Relationships between salicylic acid content, phenylalanina ammonia-lyase (PAL) activity, and resitance of barley to aphid infestation. J. Agric. Food Chem., 51, 2227-2231, 2003 Concon J.M. Food Toxicology, M. Dekker Inc., New York et Basel, 1988 Durante C. Herbario Nuovo. Giunti, Venetia, 1636 Gori, 1990 (com. personale) Harris M., Ross E. Food and Evolution: Toward a Theory of Human Food Habits. Temple University Press, Philadelphia, USA, 1987 Lappe M. Evolutionary Medicine. Rethinking the
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Cibo e nutrizione
Antibiotici ed ormoni alimentari: realtà antichissime e necessarie
b) Agiscono prevalentemente sui batteri intestinali causa d’infezioni e malattia (Salmonelle, Vibrioni, Streptococchi ecc.). c) Hanno un’azione regolarizzante i microbi intestinali e per questo favoriscono una buona digestione (azione auxinica – vedi a proposito il capitolo sugli Alimenti Funzionali). d) In gran parte non sono assorbiti e quindi non esercitano azioni generali. e) Alcuni sono inattivati dal calore e scompaiono negli alimenti cotti. f ) Sono diversi dagli antibiotici usati nella cura delle malattie e non producono antibioticoresistenza crociata od indesiderata. Gli antibiotici contenuti negli alimenti vegetali, ancorché utili per una buona alimentazione, non sono in grado di curare malattie di media o grave entità, possono invece contribuire a prevenirle, quando la loro azione si associa a quella delle vitamine e di taluni ormoni naturali contenuti negli alimenti. L’importanza degli antibiotici vegetali è stata inconsciamente riconosciuta da moltissimo tempo e spiega l’uso tradizionale di spezie e piante aromatiche ricche d’antibiotici, come aglio, cipolla, pepe, peperoncino e prezzemolo. Non è in ogni caso da sottovalutare che molti di questi antibiotici naturali hanno un certo potere tossico, che non si manifesta alle piccole dosi usate in cucina, ma potrebbe manifestarsi per dosi eccessive. Per questo quasi nessuno di questi antibiotici è stato concentrato ed usato nella cura delle malattie. Non bisogna infine dimenticare che, sulla base della fluorescenza delle ossa d’animali selvatici (Bingham e coll., 1994) e di scheletri umani dei primi secoli della presente era (350-450 E.C. – Basset e coll., 1980) si è sostenuto che antibiotici del tipo tetraciclina – derivati dalle fermentazioni dei cereali per produrre la birra – possano fare parte della naturale alimentazione.
Gli antibiotici alimentari sono una realtà, spesso insospettata, che ha radici antichissime e sembrano aver assunto, attraverso l’evoluzione, un importante ruolo sia di sanità sia d’efficacia alimentare, tanto da doverli ritenere indispensabili per una nutrizione sana e completa. Molti alimenti contengono ormoni, che non devono spaventare e che sono rivalutati in una visione evoluzionista della nutrizione. Numerosi e con significati evoluzionisti ed extranutrizionali importanti sono gli ormoni contenuti nei vegetali, o fitormoni. Da non sottovalutare sono anche quelli contenuti, naturalmente, anche negli alimenti d’origine animale. Naturalità degli antibiotici Gli antibiotici sono composti naturali espressione di una lunghissima evoluzione e gran parte dei vegetali contiene antibiotici. Oggi s’inizia a sospettare che una mancanza od insufficienza d’antibiotici negli alimenti vegetali possa essere dannosa, ed in ogni caso causa di disturbi nutrizionali. Alla parola antibiotico associamo quella di farmaco, e degli abusi e danni che ne possono derivare. Dimentichiamo che gli antibiotici sono composti naturali che l’uomo ha ricavato dal mondo vegetale e soprattutto dai funghi microscopici, nei quali sono diffusissimi. Mentre gli animali e quindi anche l’uomo si difendono dalle infezioni con il Sistema Immunitario, i vegetali molto tempo prima avevano inventato la guerra chimica contro i batteri, utilizzando una sterminata gamma d’antibiotici. Gli antibiotici sono un costituente normale dei vegetali; sono più rari nei cibi derivati dagli animali. La presenza d’antibiotici negli alimenti vegetali non deve preoccupare, anzi è vantaggiosa, per i seguenti motivi. a) Sono presenti in quantità molto basse. 143
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Capitolo II
Antibiotici in alimentazione umana Siamo circondati da antibiotici e la loro presenza negli alimenti vegetali è completamente normale. Una loro assenza o scarsità è da ritenere anormale. Una diminuzione della carica antibiotica degli alimenti si ha con la loro conservazione e cottura ed in un minestrone lungamente bollito rimangono ben pochi degli antibiotici presenti nelle verdure fresche. Meno distruttivi ed in qualche caso arricchenti sono i processi fermentativi di conservazione: gli antociani ed i polifenoli dell’uva, dotati d’attività antibiotica, si mantengono con la fermentazione che trasforma il mosto in vino e le fermentazioni vinarie e panarie arricchiscano d’antibiotici gli alimenti che ne derivano. Ancor oggi, il quadro degli antibiotici contenuto negli alimenti vegetali che entrano nell’alimentazione umana, è tutt’altro che completo, come lo era qualche decennio fa (Ballarini, 1989). L’azione nutrizionale degli antibiotici alimentari può essere ricondotta ai seguenti meccanismi, che si manifestano per l’azione d’antibiotici deboli, somministrati in continuazione. a) Controllo delle popolazioni microbiche intestinali, soprattutto di quelle anaerobie. b) Regolazione della flora microbica intestinale, in caso di rapidi mutamenti di dieta e di stress. c) Azione favorente lo sviluppo di microrganismi intestinali produttori di vitamine e di metalli organici (chelati e molecole similari). d) Azione favorente la fermentazione microbica di substrati vegetali, con diminuita produzione di metano intestinale (flatulenze). e) Protezione indiretta dalle conseguenze negative di un intenso sviluppo di popolazioni microbiche intestinali potenzialmente dannose (enterobatteri ecc.). In conseguenza della riduzione delle infezioni e di una migliore nutrizione, di una riduzione delle conseguenze di stress e rapidi
mutamenti alimentari, è facile intuire come la presenza d’antibiotici alimentari vegetali, anche nella specie umana sia stato selezionato come una condizione favorevole. Diete senza antibiotici e alimentazione darwiniana La paura di una diffusione dell’antibioticoresistenza ha indotto a togliere gli antibiotici artificiali dall’alimentazione animale e, per non tornare a condizioni preindustriali, si è migliorato lo stato igienico degli allevamenti, mentre la dieta degli animali è stata modificata, utilizzando alimenti trattati meccanicamente (schiacciatura, molitura ecc.) o termicamente (cottura, tostatura, estrusione ecc.) ed aggiungendo vitamine e minerali organici. Nell’uomo moderno, che ha un’alimentazione sempre più scarsa d’antibiotici naturali, questi non sono più ritenuti necessari: a patto d’avere elevati livelli igienici, impensabili solo qualche decennio fa, per non pensare all’uomo primitivo, e di avere una dieta basata su alimenti trattati meccanicamente e termicamente. Per l’uomo delle società industrializzate, una riduzione dell’utilizzazione alimentare è paradossalmente un vantaggio. Nell’uomo primitivo era un vantaggio che tutto l’alimento fosse ben utilizzato ed è stato calcolato (Ballarini, 1989) che gli antibiotici alimentari potessero aumentare fino del 10 % il valore nutrizionale di una dieta. Nelle società industrializzate, invece, l’ideale è di mangiare senza ingrassare, vale a dire avere delle diete scarsamente utilizzate, quindi senza antibiotici. Da un punto di vista della nutrizione evoluzionista, la ricerca di un’alimentazione umana senza antibiotici può essere interpretata come una risposta culturale alla sovrabbondanza di cibo che caratterizza le società industrializzate. Ormoni Ormoni sono molecole prodotte da particolari ghiandole del corpo e che, trasportate 144
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Ormoni negli alimenti d’origine animale Estrogeni, no grazie: è il motto dei consumatori europei di fronte alla bistecca. Un’opinione opposta a quella dei consumatori americani che con il loro elevato consumo di carne di bovino, dicono invece: estrogeni, si grazie. Gli estrogeni naturali (non altri composti) sono ammessi negli USA, Canada e molti altri paesi del mondo industrializzato ed aumentando l’efficienza dell’allevamento contribuiscono a tenere basso il prezzo della carne. Chi è stato negli USA, si sarà accorto di quanto poco costi la carne, ovviamente non nei ristoranti di lusso, ma già nelle Steck House, senza parlare dei fast food. E la salute del consumatore? La risposta americana, ma anche delle organizzazioni mondiali come OMS e FAO, sembra chiara: nessun problema se si usano estrogeni naturali (ad esempio il 17-beta-estradiolo). Infatti, gli estrogeni naturali contenuti nella carne di manzo (vedremo tra un attimo quanto bassa sia la concentrazione di questi estrogeni) sono in gran parte distrutti dall’intestino e la minima quota assorbita è a sua volta bloccata dal fegato, e non provoca danno al consumatore. A questo riguardo, l’argomento più convincente è quello delle quantità d’estrogeni contenuti nella carne di manzo, anche negli animali trattati con estrogeni, secondo il metodo americano dell’impianto sottocutaneo, diffuso in molti paesi del mondo. Calcolando gli estrogeni in nanogrammi (miliardesimi di grammo) la differenza tra carne di manzo trattato o no è in sostanza trascurabile (1,53 contro 2,24 nanogrammi per etto di carne), ma soprattutto in entrambi i casi la dose è straordinariamente più bassa di quella presente in altri alimenti come il latte e molti alimenti vegetali. Patate, piselli, cavoli, germe di grano ed in particolare l’olio di soia ed anche altri oli vegetali, ad iniziare da quello d’oliva, hanno elevati contenuti d’estrogeni. Se ad una bistecca di un etto, ottenuta da un manzo trattato o non con estrogeni e con non più di 2,5 nanogrammi di
dal sangue, stimolano e regolano le funzioni organiche. Gli ormoni prodotti dall’organismo sono chiamati endogeni o naturali e sono normalmente presenti nei tessuti, organi e liquidi degli animali. Questi ormoni sono quasi completamente distrutti dai succhi digestivi ed anche per i loro minimi dosaggi negli alimenti d’origine animale (carne, latte e uova) sono innocui. Un’intensa ricerca è stata effettuata per modificare la struttura molecolare degli ormoni ed ottenerne derivati con due principali caratteristiche: 1) maggiore durata d’azione; 2) resistenza ai succhi digestivi, in modo da poter essere somministrati per bocca. La pillola usata nella donna per regolare i cicli sessuali, impedire il concepimento ecc. contiene ormoni di sintesi artificiali, detti anche esogeni. È ovvio il rischio di assumere ormoni esogeni o artificiali, al di fuori di una precisa necessità e quindi senza una prescrizione medica. Gli ormoni, molto numerosi, hanno molteplici attività. Ad esempio gli ormoni sessuali non intervengono soltanto nella mascolinizzazione o femminilizzazione, ma hanno anche potenti azioni sullo sviluppo corporeo, in particolare di certi organi tra i quali muscoli, e possono essere usati per cura e per usi illeciti (doping ecc.). Molecole ad attività ormonale sono largamente diffuse anche tra i vegetali (fitormoni e, tra questi, molto diffusi i fitoestrogeni) (Zava e coll., 1998; Bingham e coll., 1998) e la loro presenza sembra essere giustificata da una difesa dei vegetali contro gli animali erbivori. I fitoestrogeni, presenti nella alimentazione umana, sono in generale attivi per via orale ed agiscono secondo la loro dose. L’uomo ha imparato a scegliere i vegetali e soprattutto a limitarne l’impiego, in modo da contenere i rischi da estrogeni esogeni, ma anche di sfruttarne le loro caratteristiche. Ad esempio, molti dei benefici effetti di diete vegetariane e di applicazioni locali di vegetali sulla pelle, oltre che dalle vitamine che contengono, derivano anche dai fitoestrogeni. 145
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Capitolo II
estrogeni, si aggiungono uno o due cucchiaini di olio di soia (5- 10 millilitri) la quantità di estrogeni che è ingerita dal consumatore arriva a 9.884,5-19.766,5 nanogrammi. L’olio aumenta di 4.000-8.000 volte la quantità di estrogeno contenuto nella bistecca! Se poi questa è mangiata con patate, piselli o cavoli
(ulteriormente conditi con olio vegetale) le quantità di estrogeno aumentano ancora. Gli estrogeni della carne sono ininfluenti sulla quantità complessiva d’estrogeni di una dieta, anzi gli estrogeni sono molto maggiori in una dieta vegetariana, che non in una dieta che contenga carne.
Attività antibatterica d’alcuni alimenti (Ballarini, 1989) Alimento
Principio attivo
Microrganismi sensibili
Concentrazione minima d’attività in vitro
Cipolla
Non identificato
Brucella abortus
0,7/100.000
Allicina
Salmonella, Shigella, Vibrio, Streptococcus
0,8/100.000
Humolon lupolon
C. diphteriae, M. tuberculosis, Streptococcus, Staphylococcus
1/100.000
Floretolo
Staphylococcus
3/100.000
Pomodoro
Tomatina o licopersicina
Candida albicans, miceti delle dermatomicosi
1/5.000
Vegetali diversi
Quercetolo
Brucella abortus, Salmonella, Escherichia coli, Staphylococcus
1/100.000
Bianco d’uovo
Lisozima
M. lysodeiticus
0,1/100.000
Aglio Luppolo Mela
Antibiotici naturali in alcuni alimenti Alimento
Antibiotico
Batteri e virus sensibili
Cipolla Aglio
Aldeidi e solfuri Allicina
Luppolo (birra)
Humolone
Mela Avocado Pomodoro Pomodoro Pepe Peperoncino Prezzemolo Vino Vino Bianco d’uovo Latte
Floretolo Otto composti diversi Tomatina Licopersicina Capsidolo Quercitina Apiolo Composti fenolici Antociani Lisozima Lisozima
Brucelle Salmonelle, shigelle, vibrioni, streptococchi, pseudomonas Bacillo della difterite, micobatterio della tubercolosi, stafilococchi, streptococchi Stafilococchi Batteri Gram negativi Brucelle, salmonelle, colibacilli, stafilococchi Miceti (Candida) Miceti Stafilococchi, salmonelle, colibacilli Batteri diversi Batteri diversi Virus filtrabili Batteri Gram positivi Batteri Gram positivi
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Ormoni estrogeni in alcuni alimenti (Dr. Harlan Ritchie, Michigan State University, Aprile 1990) Alimento
Nanogrammi (*) per etto
Carne di manzo Carne di manzo trattato con estrogeni (**) Latte di vacca Patate Piselli Gelato di crema (Ice Cream americano) Germe di grano Olio di soia
1,53 2,24 12,90 265,00 400,00 612,00 4.000,00 1.976.471,00
(*) - Un nanogrammo corrisponde ad un miliardesimo di grammo (**) – Trattamento secondo l’uso americano, con permanenza sottocutanea dell’impianto ormonale fino al momento della macellazione
Alimenti con particolare attività ormonale (Zava et al., 1998) Attività estrogena
Attività progestinica
Soia Liquerizia Red clover Timo Tumeric Hops Verbena
Origano Verbena Tumeric Timo Red clover Damiana
Ormoni estrogeni vegetali in rapporto al tipo di coltivazione (Microgrammi DES-equivalenti per 100 grammi di Sostanza Secca) Senza concimazione Concimazione chimica Concimazione organica
Frumento
Carota
0,20-0,45 0,32-1,76 0,65-3,90
0,06–3,30 1,2-3,4 2,0-4,0
In ogni modo, in Europa ed in Italia gli estrogeni sono severamente banditi negli animali produttori di carne.
nei vegetali e denominati fitormoni e fitoestrogeni, considerati anche a proposito della menopausa. Spesso gli ormoni vegetali sono attivi anche per via orale, in quanto non vengono distrutti dai processi digestivi. Con l’alimentazione vegetale si assumono ormoni, in minime quantità, che di solito non influiscono negativamente sul consumatore, hanno anzi effetti favorevoli. Recenti ricerche dimostrano che i vegetali selvatici o coltivati con sistemi
Ormoni negli alimenti vegetali Una parte del decadimento senile si correla alla diminuzione degli ormoni prodotti dall’organismo, che governano tutta la vita umana e soprattutto quella sessuale e riproduttiva. Composti con attività ormonale sono presenti 147
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Capitolo II
Fitoestrogeni (livelli medi di isoflavoni e lignani) nelle urine in popolazioni diverse, in relazione alla alimentazione (da Bingham et al., 1998, con modifiche) Onnivori americani Onnivori inglesi Lattovegetariani americani Macrobiotici americani Giapponesi Americani con tumore alla mammella
Isoflavoni mg
Lignani mg
0,11 0,05 0,37 1,18 1,76 0,03
0,58 0,22 1,23 5,99 0,53 0,31
Bibliografia
naturali (ad esempio con concime organico e non chimico) contengono maggiori quantità di ormoni estrogeni di quelli coltivati con concimi chimici. Probabilmente i vantaggi nutrizionali e sanitari che si hanno nel cibarsi con questi vegetali (oggi chiamati, impropriamente, biologici) deriva dal loro contenuto in ormoni, antibiotici ed altri componenti farmacologici. È ben noto che quando si somministrano agli animali degli estrogeni (tra i quali anche alcuni di origine vegetale, come lo zeranolo) non solo crescono di più, ma fanno più muscolo e meno grasso e la loro pelle è più liscia. La quantità di ormoni vegetali che si può assumere con una normale alimentazione non è preoccupante. Casi pericolosi si sono avuti nel passato con l’uso di granaglie colpite da muffe, alcune delle quali producono grandi quantità di ormoni di tipo estrogeno.
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Ormoni alimentari e nutrizione darwiniana Gli ormoni alimentari sono una realtà ampiamente consolidata dalla nostra evoluzione e taluni, come i fitoestrogeni – considerati ad esempio a proposito della menopausa – sono da ritenere necessari per un buono stato di salute. Non significativo pare essere il ruolo degli ormoni naturali negli alimenti d’origine animale. Giuste perplessità possono tuttavia sollevare i trattamenti ormonali negli animali che producono alimenti per l’uomo, soprattutto se si usano composti artificiali e quindi innaturali.
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Capitolo II
Carotenoidi e nutricine Sempre maggiore attenzione si sta dedicando ai carotenoidi, flavonoidi ecc. presenti nei vegetali ed alla necessità di una loro presenza nella dieta. Questi composti sono stati sviluppati dalla selezione naturale nei vegetali per diversi motivi: molecole ad attività metabolica e di protezione contro l’ossidazione, segnali mimetici e, o di richiamo in particolare d’artropodi e questo anche come agevolazione alla riproduzione e diffusione della specie. In quest’ultimo caso vi sono stati importanti processi di coevoluzione. Contestualmente, gli animali che si alimentano con vegetali contenenti caroteni, li hanno sottoposti a processi metabolici specifici: tipica è la trasformazione dei caroteni vegetali in vitamina A o l’utilizzo dei pigmenti carotenoidi per le colorazioni delle cute e fanere, ad esempio delle penne degli uccelli. Nei cibi non vi sono solo le vitamine, ma anche altre molecole importanti per la vita e la salute, tanto da essere denominate molecole strategiche. Tra queste hanno un posto molto importante le molecole che contrastano l’azione dell’ossigeno e dei radicali liberi e che sono indicate con il termine genetico di nutricine, perché necessarie per una buona nutrizione ed un elevato stato di salute. In molti cibi freschi, d’origine vegetale ed anche animale, le nutricine con la loro azione antiossidante contrastano i dannosi effetti dell’ossigeno e suoi derivati (perossidi, radicali liberi, ecc.). Le nutricine, perché antiossidanti, aumentano le difese antinfettive e soprattutto ostacolano gli effetti dell’invecchiamento. Una caratteristica quest’ultima oggi di grande interesse. Le nutricine sono presenti nei vegetali freschi. Sono nutricine l’acido ascorbico, i tocoferoli, i carotenoidi (oltre seicento composti tra i quali xantofille e caroteni: betacarotene, luteina, licopene, zeaxantina, astaxantina ecc.), i flavonoidi ed altri composti a struttura fenolica.
Antiossidanti: una preziosa protezione Antiossidanti, un termine ambiguo, da quando l’industria ha preparato dei composti capaci di legarsi all’ossigeno o di contrastarne alcune azioni negative. Gli antiossidanti sono naturalmente e largamente diffusi in natura e senza di loro non vi sarebbe la vita. Sono potenti antiossidanti naturali l’acido ascorbico ed i tocoferoli, più noti come vitamine C e E, che svolgono la loro azione rispettivamente in ambiente acquoso e grasso. Per motivi che non conosciamo l’uomo, diversamente da altri animali, non ha sviluppato (od ha perduto?) la genetica di produrre l’acido ascorbico. Nel passato gli antiossidanti erano largamente presenti nell’alimentazione umana, ricca di vegetali freschi e d’alimenti d’animali che si nutrivano d’alimenti freschi. L’alimentazione umana dei paesi industrializzati spesso manca degli antiossidanti necessari per un buon livello di salute. L’alimentazione naturale si basava su cibi freschi Si è già rilevato che l’uomo primigenio per centinaia di migliaia d’anni, si è alimentato soltanto con una grandissima varietà di cibi freschi. Con l’invenzione dell’agricoltura, circa quindicimila anni fa, l’uomo cominciò a nutrirsi con alimenti conservati o trattati. Oggi agli alimenti chiediamo che facciano bene e siano portatori di salute (alimenti salutisti) fornendoci anche antiossidanti quali i carotenoidi, vitamine antiossidanti (vitamina C ed E), minerali antiossidanti (selenio) e le preziose nutricine, che si trovano nei vegetali freschi. Una condizione, quella della freschezza degli alimenti, che sta venendo alla ribalta e che merita un approfondimento, oltre quanto già considerato nel precedente capitolo su ortaggi, piante aromatiche e frutta.
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Cibo e nutrizione
Principali flavonoidi negli alimenti Sottogruppi
Composti
Alimenti
Flavoni
Apigenina, luteolina
Peperone rosso, sedano Cereali
Flavonoli
Quercetina, mirecetina, kampferolo
Frutta, cipolle, ortaggi Agrumi Vino rosso
Flavanoni
Clanidina, esperidina
Agrumi
Catechine
Catechina, epicatechina
The, cacao e cioccolato
Antocianidine
Cianidina, pelargonidina
Frutta di colore rosso o blu (ciliege, lamponi, ribes rosso, more, mirtilli, uva)
Isoflavoni
Genisteina
Soia
Capacità antiossidante di frutta in rapporto al tipo di coltivazione (valori espressi come Ka/Kc – Più alto il numero, migliore l’attività antiossidante) (Quaglia et al., 2001) Frutta
Convenzionale
Biologica (senza uso di fitofarmaci)
Biologica (inerbimento con trifoglio)
Biologica (inerbimento erbe spontanee)
Pere Pesche
0,88 1,00
0,44 0,68
0,77 3,00
1,03 1,79
Proprietà ed azione dei polifenoli (Martelli et al., 2001) Azione antinutrizionale
Tannini: Inibitori enzimatici, leganti delle proteine, complessanti di cationi Antociani: Antitiroidei Acido caffeico: Antivitamina B1
Imbrunimento enzimatico
Frutta e derivati Vino bianco
Azioni antiossidanti del vino
Derivati dell’acido benzoico e cinnamico Tirosolo Flavonoidi: antociani, flavonoli, flavani Resveratrolo
Antiossidanti dell’olio d’oliva
Componenti fenolici
Antiossidanti degli agrumi
Polifenoli
Antiossidanti della propoli
Polifenoli
Azione ipocolesterolizzante
Polifenoli
Azione estrogena (debole)
Isoflavoni
Azione antibatterica (batteriostatica)
Polifenoli
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Capitolo II
Oxidans status e nutrizione antiossidante Oggi si crede che l’invecchiamento e molte malattie degenerative dipendano da processi d’ossidazione, nei quali si generano i temibili radicali liberi. Per contrastare l’ossidazione non basta una protezione dall’ossigeno, ma è necessario utilizzare degli antiossidanti naturali. Tra i diversi alimenti, alcuni sono stati particolarmente studiati sotto il profilo delle loro attività antiossidanti. In particolare aglio, cipolla, pomodoro, erbe aromatiche e siero di latte. Le attività antiossidanti di frutta, ortaggi ed erbe aromatiche sono state studiate soprattutto da Plumb e collaboratori ed il rosmarino si è rivelato un potente antiossidante.
Un’alimentazione con scarsa presenza di verdure fresche e basata su alimenti conservati non apporta la quantità d’antiossidanti che la genetica umana richiede. Non bisogna inoltre dimenticare che il tipo di coltivazione praticata dall’agricoltura tende a ridurre la quantità d’antiossidanti. In questa prospettiva si rende necessario un modo di produrre gli alimenti realmente nuovo, in quanto più vicino al naturale. In proposito, ad esempio, non è detto che le produzioni “biologiche”, ottenute solo senza l’uso di fitofarmaci, siano migliori, anzi sotto l’aspetto antiossidante possono essere peggiori, a meno di non intervenire aggiungendo altri elementi di produzione.
Malattie moderne, dieta antiossidante e nutrizione darwiniana La nutrizione evoluzionista non ci permette soltanto di guardare indietro, ma anche di cercare di meglio vivere oggi, considerando in particolare le nuove malattie che affliggono l’umanità. In questo senso, Johns (1999) ha esaminato come i nutrienti ed i non nutrienti alimentari hanno determinato l’evoluzione umana, dedicando particolare attenzione al ruolo degli antiossidanti e sottolineando l’ipotesi che la selezione di comportamenti alimentari indirizzati ad attività extranutrizionali sia stato un meccanismo compensatorio per aumentare gli antiossidanti nella dieta umana, in relazione alle mutate condizioni di vita. Un esempio relativamente recente nella storia alimentare umana è che l’olio d’oliva vergine è dotato di buone attività antiossidanti (Angerosa e di Giovacchino, 1996; Cointe e coll., 2002). Un tempo si sosteneva che l’uomo preistorico si nutrisse di bacche e radici. Oggi sappiamo che la sua alimentazione era molto più varia, ma le bacche, intese anche come frutta, erano presenti in rilevanti quantità, apportando molecole strategiche e soprattutto antiossidanti. Forse per questo l’uomo ha perduto la capacità di produrre l’acido ascorbico (vitamina C).
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Cibo e nutrizione
Nutrizione e difese immunitarie Recenti acquisizioni precisano l’importanza della nutrizione nello sviluppo delle difese immunitarie e nella prevenzione delle malattie infettive, anche attraverso il controllo dell’Oxidans Status, e l’azione di antiossidanti naturali quali le nutricine, già considerate. Una generalizzata malnutrizione energetica e proteica causa un’atrofia dei tessuti linfoidi deputati alla protezione immunitaria, soprattutto nei giovani. Da tempo è nota l’importanza, per un corretto sviluppo e funzionamento del Sistema Immunitario, di vitamine (A, C), aminoacidi (metionina ed altri), oligoelementi (ferro, zinco, rame e selenio). Importanti sono anche i carotenoidi ed i nucleotidi contenuti negli alimenti vegetali ed animali. Recentemente si sono avute ulteriori conoscenze in aree nutrizionali che riguardano il ruolo sull’immunità degli acidi grassi polinsaturi.
LUCI ED OMBRE DEGLI ALIMENTI IN UNA ALIMENTAZIONE DARWINIANA Immunità, alimentazione probiotica, nutraceutica ed alimenti funzionali hanno antiche radici. I nostri antenati avevano un solido sistema immunitario ed oggi si attribuisce importanza anche all’alimentazione quale fattore d’immunità. La recente scoperta dell’importanza dei batteri intestinali si collega alle radici stesse dell’alimentazione umana ed all’uso di alimenti prebiotici. Più antica e forse preumana è l’idea che gli alimenti possano contenere farmaci, e che molti alimenti hanno attività preventive attraverso la nutraceutica (nutrimento quale farmaco). Gli alimenti devono anche fare bene e per questo alcuni di loro sono stati definiti funzionali, che rispondono a necessità biologiche, accolte e sviluppate dalle culture umane. In questo ambito, solo recentemente si è dedicata attenzione agli aspetti nutrizionali del cervello e la psicodietetica avrà un’importanza strategica. Tra le ombre della nostra alimentazione vi sono anche gli antialimenti, espressione della lotta tra la nostra specie che vuole mangiare e le altre specie che non vogliono essere trasformate in cibo.
Carotenoidi, nucleotidi ed immunità I carotenoidi sono un vasto e complesso gruppo di molecole (oltre 600 oggi conosciute) che possono contenere ossigeno (xantofille), ma circa il 10% sono idrocarbonati (caroteni). Molti vegetali, erbe e spezie hanno attività antiossidanti, in quanto contengono molecole flavonoidi. Oltre alle ben note attività pigmentanti, molti carotenoidi hanno attività antiossidante, come il betacarotene, il licopene, astaxantina e la cantaxantina. I carotenoidi, in quanto antiossidanti, influenzano il sistema immunitario e stimolano l’attività fagocitaria e battericida. Il tipo d’alimentazione prevalente nell’uomo moderno e soprattutto l’attuale tendenza ad un ampio uso d’alimenti conservati, fermentati, essiccati, oltre all’uso di cereali conservati a lungo e di grassi non ben conservati ed ossidati, provoca la drastica diminuzione del loro contenuto in nutricine antiossidanti che nella dieta. Da molto tempo si sapeva che il lievito ha una potente attività stimolante l’immunità,
Immunità e alimentazione: antiche radici della nutraceutica immunitaria I nostri antenati avevano un solido sistema immunitario, che permettevano di resistere ad infezioni provocate da una vasta gamma di parassiti, batteri e virus. Oltre alla selezione naturale, che eliminava individui con un sistema immunitario non pienamente efficiente, oggi si attribuisce importanza anche all’alimentazione quale fattore d’immunità. 153
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Capitolo II
in quanto ricco di nucleotidi. I nucleotidi alimentari (dai quali derivano le purine o pirimidine) sono indispensabili per lo sviluppo delle cellule del sistema immunitario e dell’immunità di tipo cellulomediato, che difende da alcuni virus e diversi batteri e protegge dall’invasione tumorale. Nell’uomo un’alimentazione priva o scarsa di purine, è nefasta soprattutto per i bambini e molti anziani, provocando pericolosi cali d’immunità con le seguenti conseguenze. 1 - Insufficiente sviluppo od attività del sistema emopoietico ed immunitario, soprattutto dell’immunità cellulomediata. 2 - Diminuita difesa contro cellule estranee e soprattutto di tipo tumorale. 3 - Diminuita difesa verso infezioni causate da batteri controllati dalla immunità cellulomediata, ad esempio da stafilococchi ecc. o da funghi (candida ecc.) e molto probabilmente anche da micobatteri della tubercolosi e di infezioni similari. 4 - Ancora da definire, ma probabile, il ruolo di tale alimentazione per le infezioni virali controllate da immunità cellulomediata (ad esempio da Herpes virus) od immunodipendenti.
tutti fattori presenti nella carne. Oggi bisogna ritenere che in una dieta equilibrata la carne è importante anche per le attività proimmunitarie svolte dalle seguenti molecole: acido linoleico coniugato; nucleotidi; ferro, zinco e cromo sotto forma organica, molto assorbibile e biodisponibile. Recenti indagini hanno dimostrato che molti vegetali contengono molecole dotate d’attività immunostimolante. In proposito sono da citare i seguenti generi: Aconitum, Angelica, Arnica, Artemisia, Asparagus, Camelia, Cinnamomum, Dioscorea, Echinacea, Fagopyrum, Ficus, Glycyrrhiza, Morus, Panax, Phytolacca, Viscum ed altri. Tra i vegetali più studiati vi sono il ginseng (genere Panax) e l’Echinacea (Xiao e coll., 1993; Puhlmann e coll., 1992; Wagner e Juvic, 1991). Molto ampia è la varietà delle molecole coinvolte. Immunità ed alimentazione darwiniana L’identificazione di nuovi determinanti nutrizionali che agiscono sulla resistenza alle malattie ed aumentano la risposta immunitaria (nutricine) apre nuove strade interpretative delle malattie infettive, soprattutto di quelle condizionate, come le Sindromi d’Immunodeficienza Nutrizionale Acquisita (NAIDS). Su questa linea viene anche rivalutato il ruolo degli alimenti carnei. La possibilità d’intervenire sull’alimentazione, considerando anche l’Oxidative Status e le interferenze degli stress ossidativi predisponenti patologie, fornisce nuove prospettive nell’alimentazione, con maggiori contenuti in nutricine utili soprattutto per una popolazione di persone d’età giovane ed avanzata. Da un punto di vista evoluzionista, un’alimentazione capace di sviluppare e sostenere efficaci risposte immunitarie ed azioni immunomodulanti è stata senza dubbio determinante per il successo della specie umana, in condizioni di continuo scambio infettivo. Solo da poco s’inizia a considerare un’alimentazione moderna proimmunitaria, in una linea di sviluppo evoluzionista.
Carne, vegetali ed immunità Oltre a quanto già considerato nel capitolo dedicato alla carne, in questo momento bisogna ricordare l ’importanza per una buon’immunità della quota proteica alimentare ed in particolare di taluni aminoacidi, ad esempio la metionina, e dei grassi presenti, tra i quali soprattutto alcuni acidi grassi, come il linoleico. Sempre più complesse associazioni di vitamine, aminoacidi, acidi grassi e minerali sono proposti per stimolare le risposte immunitarie antinfettive, ma i risultati non sono ancora completamente soddisfacenti. Una risposta forse può venire dalla recente scoperta del ruolo che hanno, per la difesa immunitaria, dell’acido linoleico coniugato (ALC), dei nucleotidi, oltre che del ferro, dello zinco e del cromo alimentari, 154
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Probiotica, nutraceutica ed alimenti funzionali: antiche radici di una nuova dimensione dell’alimentazione umana
e le salse di pesce, oltre ad una lunga serie di conserve vegetali, le più note delle quali sono i crauti e diversi derivati dalla soia e dal riso. I principali agenti delle trasformazioni fermentative degli alimenti tradizionali sono dei batteri che appartengono al grande gruppo dei fermenti lattici, così denominati in quanto producono l’acido lattico. Oggi si è stabilito che le particolari attività dei fermenti lattici non derivano soltanto dalla produzione di acido lattico, ma anche di altri acidi organici, acqua ossigenata e composti aromatici, che assicurano all’alimento caratteristiche nutrizionali e gustative particolari ed inimitabili. I fermenti lattici producono anche speciali composti di natura proteica (batteriocine) e non proteica, capaci di controllare la flora microbica degli alimenti, e quindi possono essere conservati senza alcun rischio sanitario. Su questa linea i fermenti lattici sono dei meravigliosi, naturali bioconservanti, alternativa biologica e dolce degli additivi chimici. Da tempo si era anche supposto che la benefica azione dei fermenti lattici potesse continuare, o riattivarsi, anche dopo che erano stati ingeriti e quindi migliorare o proteggere la salute di chi si nutriva di alimenti contenenti fermenti vivi. Questa ipotesi, più o meno saldamente ancorata al mito, alla tradizione od all’empirismo, oggi è stata sperimentalmente accertata per alcuni speciali e particolari batteri ed è entrata nell’ambito della scienza, con la denominazione di probiosi o probiotica. La probiotica ha aperto una nuova strada ad un’alimentazione naturale e ad un miglioramento della salute con metodi dolci.
La recente scoperta dell’importanza dei batteri intestinali si collega alle radici stesse dell’alimentazione umana ed all’uso di alimenti prebiotici. Più recente è l’acquisizione che molti alimenti hanno attività preventive attraverso la nutraceutica (nutrimento = farmaco). Che gli alimenti abbiano specifiche funzioni benefiche era noto anche nel passato e si parlava delle loro “virtù”, ora di alimenti funzionali, che rispondono a necessità biologiche, accolte e sviluppate dalle culture umane. I batteri buoni in alimentazione umana ed antiche radici dei probiotici I microbi sono attorno e dentro noi. Nell’intestino umano il numero di batteri è superiore a quello delle cellule che compongono il nostro corpo. Questo enorme numero e varietà di batteri non deve preoccuparci eccessivamente. La stragrande maggioranza delle specie di microrganismi con i quali siamo a contatto non è cattiva e le pochissime specie pericolose e causa di malattie sono tenute sotto controllo ed attentamente studiate. Tra le specie di batteri che possiamo introdurre con gli alimenti ve ne sono anche di buone che favoriscono la salute. I microbi alimentari buoni sono denominati probiotici. Quando l’era antibiotica sta superando il mezzo secolo, assistiamo allo sviluppo dell’era probiotica, in una linea di progresso e soprattutto di saggezza alimentare che ha radici antichissime. Uno dei più antichi mezzi di conservazione e di miglioramento degli alimenti è la fermentazione. Tramite un saggio uso di batteri buoni, le diverse culture umane hanno dato origine ad alimenti fermentati, ricchi di tradizione e praticamente insostituibili come il pane, il vino e la birra, i latti acidi e gli yogurt, i più diversi formaggi, le carni insaccate
Importanza di un’alimentazione viva Il concetto d’alimenti vivi era presente in molte tradizioni, sia pure in modo inconscio. Con l’industrializzazione della produzione e soprattutto della conservazione e distribuzione degli alimenti ed il diffondersi di una idea igienica degli alimenti, aspetto oggi irrinunciabile, si rischia di perdere il significato 157
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ed il valore degli alimenti vivi. Anche gli alimenti tradizionalmente vivi sono stati trattati con il calore (pastorizzati) od additivati con composti chimici antibatterici, ad iniziare dal vino e dalla birra. Per la paura, giusta in taluni casi, d’introdurre batteri pericolosi, si è giunti ad evitare gli alimenti con i batteri buoni. Assieme all’acqua della vasca si è gettato anche il bambino. Oggi stiamo recuperando un equilibrio ed una saggezza alimentare che corre sulle seguenti linee. – Abolizione dei rischi alimentari eliminando fin dall’origine i batteri pericolosi. – Riduzione al minimo, fino alla eliminazione degli additivi chimici. – Recupero delle attività positive dei batteri alimentari buoni. – Scelta di batteri alimentari buoni capaci di svolgere attività sanitarie dentro l’intestino e quindi anche dopo essere stati ingeriti (una caratteristica di alcuni batteri) in ambito di probiotica.
cine, che inibiscono i batteri intestinali patogeni od indesiderati. – Presenza d’attività salutistiche e soprattutto stimolazione dell’immunità generica e di base (aspecifica) e di tipo specifico (immunità cellulomediata ed umorale). La stimolazione immunitaria spiega anche come la probiotica aiuti a combattere infezioni non intestinali, generali o localizzate prevalentemente all’apparato respiratorio (raffreddori, influenza ecc.). I probiotici vivi devono essere assunti con l’alimentazione, meglio se a stomaco vuoto. Vi sono inoltre altre attività salutistiche che, sulla base d’elementi epidemiologici, sono state ipotizzate e che attendono d’essere studiate in modo approfondito. Tra queste vi è l’attività anticancerogena, soprattutto per i tumori del grosso intestino. La benefica attività dei probiotici può essere potenziata in diverso modo, ma soprattutto con un’alimentazione equilibrata e che contenga una certa quota d’alimenti prebiotici, in particolare oligofruttosaccaridi che servono da substrato (nutrimento) per lo sviluppo dei batteri lattici probiotici. I fruttooligosaccaridi sono contenuti in alcuni frutti e soprattutto nella mela. Questo giustifica l’associazione di latti fermentati e frutta e/o verdure. Anche un’adeguata presenza di vitamine idrosolubili (soprattutto del Gruppo B) potenzia lo sviluppo dei probiotici nell’apparato digerente. Un altro sistema di potenziamento è l’aggiunta nella dieta di lieviti vivi.
Dal mito, all’empirismo, alla scienza e come potenziare l’azione dei probiotici La ricerca ha dimostrato che nell’ambito dei fermenti lattici vi è una grandissima varietà di batteri, con caratteristiche diverse. Oggi è possibile individuare e selezionare i batteri lattici dotati d’attività probiotiche elevate. Le caratteristiche probiotiche dei batteri sono oggi ben note e soprattutto dimostrabili con precise ricerche di laboratorio e sperimentali, negli animali e nell’uomo, anche per un uso alternativo agli antibiotici. Un batterio lattico può essere considerato probiotico se possiede le seguenti caratteristiche: - Esatta individuazione di specie e ceppo. - Resistenza all’acidità gastrica ed all’azione antibatterica della bile. - Adesione e moltiplicazione a livello intestinale. - I batteri che si moltiplicano nell’intestino devono aderire alle pareti dell’intestino. - Elaborazione d’acido lattico e di batterio-
Aspetti d’alimentazione darwiniana dei probiotici Molte malattie infettive o parassitarie possono essere prevenute tramite vaccinazioni, con iniezioni, che non sono sempre ben tollerate e non godono del favore del pubblico. Avere a disposizione un vaccino da somministrare per via orale è già un vantaggio, ma sarebbe molto meglio che il vaccino, o qualche cosa di analogo, fosse incorporato in un alimento di larga diffusione, per una vacci158
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nazione non inconsapevole, ma spontanea. Tutto questo non è un’utopia ed è già stato fatto o inserendo nel pomodoro l’antigene contro l’epatite, per ottenere una vaccinazione in coloro che si cibano di tali pomodori. Molto più semplice ed efficace pare oggi l’uso dei batteri lattici portatori di antigeni vaccinali, soprattutto dopo le ricerche di studiosi inglesi comunicate alla International Dairy Lactic Acid Bacteria Conference svoltasi a Palmerston (Nuova Zelanda) dal 19 al 23 febbraio 1995. Con l’uso delle nuove biotecnologie di ingegneria genetica in alcuni batteri lattici sono stati introdotti gli antigeni di batteri patogeni, come quello del tetano (o meglio della sua tossina) o di un parassita come lo Schistosoma mansoni. La somministrazione ripetuta del batterio lattico ingegnerizzata dà una risposta immunitaria soddisfacente. In popolazioni nelle quali sono diffuse alcune malattie, sarebbe possibile usare degli yogurt o latti fermentati contenenti batteri ingegnerizzati per dare una protezione immunitaria a tutta la popolazione che si nutre, anche saltuariamente dell’alimento, in questo caso lo yogurt od il latte acido. Questo, inoltre, conserverebbe tutte le sue caratteristiche organolettiche, nutrizionali, sanitarie. È comunque ovvio che il consumatore dovrebbe essere informato. Oggi il mangiare sano ha assunto un’ulteriore connotazione salutistica e cioè quella d’alimentarsi con cibi che favoriscono la salute. Gli alimenti probiotici favorenti la salute sono la moderna risposta, scientificamente certa, a questa esigenza. Una risposta che trova radici in miti ed empirismi e quindi in tradizioni in buona parte vere.
indesiderati da farmaci. Nutraceutici sono i prodotti alimentari, naturali o trattati con opportune tecniche dolci, con benefici effetti salutari e proposti in alternativa a quelli farmaceutici. Diversi prodotti nutraceutici sono ottenuti con sistemi brevettati, utilizzando soprattutto alimenti come il latte e l’uovo. Ad esempio polli o mucche ripetutamente vaccinate con batteri che nell’uomo causano patologie o disturbi, producono rispettivamente uova e latte capaci di contrastare tali malattie. In questo modo si può avere un latte salutare che blocca i batteri che nel bambino causano la carie dentale o quelli che nelle persone adulte sono associati all’ulcera dello stomaco o del duodeno, o prevenire infezioni diverse che partono dall’intestino, come salmonellosi, listeriosi ecc. Per essere efficaci, devono essere somministrati in continuazione e come alternativa ai normali alimenti. Per diversi motivi si suppone che gli alimenti nutraceutici abbiano anche altre proprietà, oltre quelle antinfettive indicate. Ad esempio il latte nutraceutico, per ragioni ancora poco chiare, è anche povero di colesterolo, abbassa la pressione arteriosa ed ha attività antireumatiche. Quest’ultima caratteristica dipende dalla presenza di un composto, ancora allo studio, di tipo antinfiammatorio e simile all’acido acetilsalicilico (aspirina), ma che non provoca inconvenienti. Nell’ambito della nutraceutica è da considerare la grande diffusione nei vegetali dell’acido salicilico e suoi derivati in concentrazioni variabili (da 0 a 6 mg per 100 grammi) e presenti soprattutto nelle spezie ed erbe aromatiche (Swain e coll., 1985), in modo particolare nei vegetali coltivati con i sistemi naturali dell’agricoltura biologica (Baxter e coll., 2001). Considerando la quantità di vegetali selvatici nell’alimentazione dell’uomo paleolitico, è da ritenere che ogni giorno assumere i 50 milligrammi di salicilati, la dose oggi ritenuta efficace nella prevenzione di patologie cardiovascolari.
Antiche radici della nutraceutica Alla nutraceutica si è accennato in precedenza; è necessario approfondire l’argomento. Nutraceutici sono gli alimenti con benefici effetti salutari. I nutraceutici sono proposti in alternativa ai farmaci e dovrebbero aiutare a superare i problemi degli effetti secondari 159
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Per meglio comprendere la nutraceutica è utile ricordare l’esempio del pomodoro: in quanto ricco di licopene, è oggi considerato un importante alimento utile alla salute, con antiche radici nell’alimentazione umana. È un’idea radicata e non errata che i nostri antenati si nutrissero anche di “bacche e radici”. L’assunzione di carotene, in massima parte ottenuto dalle “bacche”, nell’uomo paleolitico era di oltre 900 milligrammi di retinolo equivalente, (contro gli attuali circa 400 milligrammi). In modo analogo, nella dieta paleolitica, vi era un’elevata presenza di Vitamina E (circa 30 mg giornalieri, contro gli attuali 7-10 milligrammi) e di Vitamina C (600 milligrammi contro gli attuali 70-100 milligrammi). Molto elevata era, inoltre, l’introduzione alimentare di molecole antiossidanti.
vati (concentrati, succhi ecc.) non sono disprezzabili. Importante è il suo contenuto in caroteni e vitamina A, vitamine B 2 e B 2, vitamina C, vitamina E, acido pantotenico ed acido nicotinico. Particolarmente interessanti sono le caratteristiche extra-nutrizionali del pomodoro e suoi derivati, tra le quali sono da ricordare le seguenti. Attività antibiotiche - La solanina e la licopersicina diminuiscono fortemente con la completa maturazione del frutto, ma la tomatina permane anche nel frutto maturo. In quest’ultimo sono presenti anche fenoli, metilchetoni ed alcaloidi dotati di attività antibiotica. Questi composti antibiotici possono regolare la flora microbica digestiva e svolgere un’attività di tipo “auxinico” (miglioramento dell’accrescimento corporeo). Acidi organici - Il pomodoro è giustamente noto come un alimento acido, in quanto ricco di acidi organici quali il malico ed il citrico (quasi 500 milligrammi per etto di prodotto edule). Questi acidi svolgono una buona azione digestiva a livello gastrico e regolano in senso favorevole la flora microbica dell’apparato digerente. Fibra alimentare solubile - Il pomodoro ed i suoi derivati sono poveri di fibra alimentare insolubile, ma ricchi di fibra alimentare solubile, che attribuisce al frutto ed ai suoi derivati le tipiche caratteristiche fisiche. La fibra alimentare solubile del pomodoro ha caratteristiche di “probiotico”, nel senso che favorisce fermentazioni microbiche utili e favorevoli per un buono stato di salute. Attività antiossidanti – Il pomodoro è ricco di Licopene, un importante antiossidante. Mai come oggi si crede che l’invecchiamento e molte malattie degenerative, come pure l’irrancidimento degli alimenti, dipendano da processi di ossidazione, nei quali si generano i temibili “radicali liberi”. Per contrastare l’ossidazione non basta una protezione dall’ossigeno, ma è sempre più necessario utilizzare degli antiossidanti. Qui si cade in quello che potrebbe essere un dilemma: su-
Nutraceutica, tumori e… pomodoro Un particolare interesse suscitano le proprietà degli alimenti di prevenire i tumori. Un’attività da ascrivere sia agli alimenti d’origine animale [latte, carne magra con Acido Linoleico Coniugato (ALC)] sia agli alimenti vegetali (ricchi di fibre, carotenoidi, acido ascorbico, folati, vitamina E ed antiossidanti). Questi ultimi dovrebbero essere assunti, secondo le nuove line guida, cinque volte il giorno. Nulla di nuovo, se si considera che nella dieta paleolitica ed in quella dei popoli raccoglitori - cacciatori, l’assunzione d’alimenti vegetali si può ritenere fosse continua, ben più di cinque volte il dì. Per quanto concerne gli alimenti vegetali oggi si prendono in esame particolari molecole presenti nei frutti, vegetali e cereali, prodotti secondari del metabolismo del mevalonato (acido mevalonico) e dotati d’attività anticancerogena. Si tratta di composti terpenoidi ed isoprenoidi, che aprono nuove strade alla nutraceutica. Attività nutraceutiche sono state anche studiate nell’uva (contenente piocianidine, che passano anche nel vino). Le caratteristiche nutrizionali del pomodoro, in buona parte mantenute nei suoi deri160
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bire l’azione dell’ossidazione o ricorrere ad additivi antiossidanti chimici? La soluzione è quella di utilizzare antiossidanti naturali. Gli antiossidanti naturali erano pochi e costosi, soltanto perché non erano stati adeguatamente ricercati. Un’intensa ricerca ha invece dimostrato che in molti sottoprodotti alimentari sono presenti antiossidanti efficaci e poco costosi, che attendono soltanto di essere utilizzati con sistemi moderni. Infatti, già la tradizione aveva indicato l’importanza della loro azione. Nella dieta mediterranea il pomodoro nel suo complesso, ivi compresi i semi, è stato subito associato ad altri vegetali antiossidanti, come il rosmarino, contribuendo a combattere malattie degenerative. Un ritorno alla tradizione e soprattutto un maggiore utilizzo degli antiossidanti naturali è auspicabile.
contengono ingredienti specifici, che sono oggetto di studio ed i cui effetti sono ben documentati. Gli AF sono prevalentemente vegetali, ma non mancano quelli d’origine animale. Possono essere naturali od essere prodotti od accresciuti da trattamenti e dall’industria alimentare. Alimenti Funzionali Naturali d’origine vegetale sono ad esempio frutta e verdure, che contengono antiossidanti e fibra. Tra gli alimenti funzionali d’origine animale sono da annoverare il latte, i latticini e l’uovo. Alimenti Funzionali Artificiali sono quelli preparati dall’uomo, con fermentazioni (ad esempio i latti fermentati con attività probiotiche) o con opportune miscele d’alimenti semplici. In questi alimenti le attività funzionali sono individuate e soprattutto concentrate od utilizzate in modo specifico ed intelligente. Tipico è il caso del pane integrale o meglio di pani arricchiti di pacchetti di fibre ottenute da cereali diversi. Le fibre alimentari hanno precise attività funzionali indirizzate ad un regolare funzionamento dell’intestino ed alla prevenzione di molti disturbi, dal diabete zuccherino a taluni tipi di tumori. Le attività funzionali alle quali s’indirizza la produzione d’alimenti sono numerose e riguardano le seguenti funzioni nutrizionali. – Prevenzione di disturbi e di malattie (osteoporosi, controllo del colesterolo nel sangue, riduzione del rischio di tumori e di malattie cardiovascolari ecc.). – Stimolazione dell’immunità. – Attività antiossidante ed ergogenica. – Ottenimento d’alimenti con basso livello calorico, senza perdita delle caratteristiche di palatabilità o d’attività psicosensoriali. – Produzione d’alimenti bilanciati o che si prestano ad essere utilizzati in una dieta equilibrata. Gli AF sono stati anche approvati da diversi stati. Tra i più noti, in relazione anche alla signficatività della loro azione, vi sono quelli riportati in una tabella, relativa agli USA (Hasler, 2002).
Nutraceutica e nutrizione darwiniana Come dimostra l’esempio del pomodoro, uno dei più importanti vegetali dotati d’attività antiossidanti, la nostra nutrizione si è evoluta con elevate quantità di fattori nutrizionali positivi (antiossidanti, antibiotici, ormoni vegetali o fitormoni, prebiotici – considerati in singoli capitoli - ecc.). Da un punto di vista evoluzionista, la nutraceutica è un nuovo modo di presentare un’antichissima realtà e necessità nutrizionale umana. Alimenti funzionali e auxinici alimentari La sicurezza, bontà, nutrizionalità, economicità ed attività extranutrizionali degli alimenti non bastano più: oggi agli alimenti si richiede anche funzionalità. Non è una moda od un’ultima invenzione del marketing, ma una tendenza che si è sviluppata man mano che gli alimenti hanno soddisfatto le altre caratteristiche. Gli Alimenti Funzionali (AF) sono alimenti che, per i loro componenti fisiologicamente attivi, hanno effetti in specifiche aree della salute, di là dal loro semplice ruolo nutrizionale di base. I vantaggi sanitari sono indirizzati ad uno o più obiettivi. Gli AF 161
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Auxinico è un termine un poco astruso, d’origine greca e significa “far crescere”. Negli anni cinquanta del secolo scorso, alimentando gli animali con piccole quantità di residui della produzione d’antibiotici, ci si accorse che gli animali crescevano più rapidamente e con minori quantità d’alimento. Questo fe-
nomeno fu denominato “azione auxinica”. Lo studio dimostrò che i benefici effetti in gran parte derivavano dalle piccole quantità d’antibiotici (qualche decina di milligrammi per chilogrammo d’alimento) che regolavano la flora microbica intestinale, come è stato indicato a proposito degli antibiotici ali-
Definizioni Antibiotici = Prodotti elaborati da esseri viventi che inibiscono la moltiplicazione od uccidono i microrganismi (batteri, protozoi, virus e funghi microscopici) Probiotici = Microrganismi viventi somministrati con gli alimenti che producono effetti favorevoli, migliorando la flora microbica dell’apparato digerente ed il suo equilibrio. Hanno dimostrato azione probiotica alcuni batteri lattici, lieviti e taluni batteri sporigeni Prebiotici = Alimenti non digeribili, ma che sono capaci di stimolare la crescita di microrganismi intestinali probiotici. Hanno un’attività prebiotica alcuni oligosaccaridi del fruttosio e del lattosio Simbiotici = Alimenti che contengono probiotici e prebiotici Principali azioni dei probiotici lattici nell’uomo 1 – Stabilizzazione della flora microbica intestinale 2 – Prevenzione di disturbi da disequilibri intestinali 3 – Aumento delle difese antinfettive intestinali 4 – Aumento delle difese antinfettive generali Nutraceutici - Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana od occidentale attuale (Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Nutriente con attività nutraceutiche Fibra alimentare (grammi giorno) Ferro (mg giorno) Zinco (mg giorno) Calcio (mg giorno) Sodio (mg giorno) Potassio (mg giorno) Vitamina A – Retinolo equivalente Carotene – Retinolo equivalente Vitamina E (mg giorno) Vitamina B 1 (mg giorno) Vitamina B 2 (mg giorno) Acido folico Vitamina C
Alimentazione paleolitica
Alimentazione occidentale
104 87,4 43,4 1956 768 10500 2870 927 32,8 3,91 6,49 0,357 604
10-20 10-11 10-15 750 4000 2500 800-1000 342-429 7-10 1,08-1,75 1,34-2,08 0,149-0,205 77-109
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mentari. L’attività auxinica rientra tra le attività degli alimenti funzionali.
mente programmata ad ingerire elevate quantità di fibra alimentare fermentescibile. Anche taluni comportamenti alimentari si correlano alla necessità che nell’alimentazione umana vi siano ogni giorno dai quaranta agli ottanta e più grammi, di fibra alimentare, in buona parte solubile e fermentabile. In quest’ultima rientrano gli oligosaccaridi. Tra gli oligosaccaridi sono da segnalare il fruttano (poli-fruttosil-saccarosio o fruttosio-oligo-saccaride - FOS), diversi fruttani (inulina, neoserie dell’inulina, levani lineari e non, neoserie dei levani ecc.), i GOS (galattosio-
Alimenti Biotecnologici Funzionali (ABF) Alimenti funzionali per l’uomo sono ottenuti anche con biotecnologie (Alimenti Biotecnologici Funzionali - ABF). Le aree d’odierno maggiore interesse riguardano gli oligosaccaridi (c.d. fibra alimentare solubile), i minerali organici ed i carotenoidi. Oligosaccaridi (c.d. fibra alimentare solubile). Come dimostrano le ampie dimensioni del grosso intestino, la specie umana è geneticaIngredienti funzionali degli alimenti Vitamine Macroelementi minerali Microelementi minerali Fibre alimentari insolubili Fibre alimentari solubili Probiotici Prebiotici Polialcoli Antiossidanti
Aminoacidi e oligopeptidi Acidi Grassi Polinsaturi (PUFA) Fitoelementi
Calcio, magnesio ecc. Ferro, rame, iodio, selenio, cromo ecc. Crusche, alimenti integrali Betaglucani, pectine, gomme, poligalattosani ecc. Batteri lattici, Lieviti, Batteri anaerobi particolari Fruttoligosaccaridi, lattulosio, inulina ecc. Maltitolo, xilitolo, sorbitolo ecc. Vitamina A, vitamina C, vitamina E, selenio, fitoelementi, polifenoli, licopene ecc.
Omega-3, Omega-6, acidi grassi essenziali Ginseng, The verde, Guaranà, Isoflavoni ecc.
Funzioni fisiologiche e fisiopatologiche sulle quali agiscono gli alimenti funzionali Allergie
Alimenti ipoallergenici (latte delattosato, alimenti senza glutine ecc.)
Sovrappeso
Alimenti leggeri (light)
Carie dentale
Alimenti privi di zuccheri cariogeni
Diabete mellito
Alimenti a basso contenuto di zuccheri semplici
Ipercolesterolemia
Alimenti con basso contenuto di colesterolo e grassi saturi, ricchi di lecitina, con proteine della soia ecc.
Ipertensione
Alimenti poveri di sodio
Invecchiamento
Antiossidanti
Immunodepressioni nutrizionali
Alimenti ricchi di vitamine di oligoelementi e di acidi nucleici
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Principali gruppi di persone in cui intervenire con alimenti funzionali Bambini Donne Donne gravide Donne in menopausa Sportivi Anziani
Alimenti ricchi di vitamine e di oligoelementi organici (ferro organico) Oligoelementi organici (ferro organico) Oligoelementi organici (ferro organico) Calcio biodisponibile Oligoelementi organici (ferro organico) Oligoelementi organici (ferro organico), antiossidanti
Componenti degli alimenti d’origine animale con attività funzionali (Mestre Prates e Mateus, 2002, con modifiche) Alimento d’origine animale
Componente attivo
Benefici salutistici
Latte e derivati Latte e prodotti caseari
Calcio
Riduzione osteoporosi e del rischio del cancro del colon
Latti fermentati
Probiotici
Diversi effetti benefici
Siero di latte
Proteine
Siero di latte
Peptidi
Riduzione del rischio del cancro del colon Immunostimolazione
Pesce Olio di pesce
Acidi grassi N-3
Riduzione dei rischi del cancro del colon e di malattie cardiovascolari
Acido linoleico coniugato (ALC)
Riduzione del rischio tumorale e malattie cardiovascolari
Sfingolipidi
Riduzione del colesterolo nel sangue e dei rischi tumorali Riduzione dei rischi tumorali e di malattie cardiovascolari
Carne magra Carni di ruminanti Uova Uova Uova arricchite con acidi grassi N-3
Acidi grassi N-3
Carni in genere Muscolo e frattaglie
L-carnitina
Diversi effetti benefici
Muscolo e frattaglie
Coenzima Q 10
Benefici effetti cardiovascolari
Grassi muscolari di struttura
Acido alfa-lipoico
Antiossidante
Muscolo e frattaglie
Colina ed aminoacidi ramificati
Attività ergogena
Muscolo e frattaglie
Taurina
Benefici effetti cardiovascolari
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oligo-saccaridi). Nel grosso intestino dell’uomo, esiste una microflora che fermenta i FOS ed i GOS, con la produzione d’acidi organici, aminoacidi, vitamine ecc. Gli acidi organici sono utilizzati dall’organismo come nutrienti, intervengono in senso benefico sulle caratteristiche della flora intestinale stessa e, di conseguenza, sulla salute (attività funzionale positiva). I batteri fermentanti
(bifidobatteri, lattici ecc.) sono probiotici. L’indispensabile substrato fermentato (FOS) è definito prebiotico e dalla somma di simbiotico più probiotico scaturisce il concetto di simbiotico. I fruttani svolgono importanti attività salutistiche: prevenzione d’alterazioni precancerogene intestinali, interferenza sul metabolismo del colesterolo ecc. Inoltre sono dolcificanti ipocalorici ed addensanti
Alimenti funzionali approvati negli USA (Hasler, 2002) Alimento funzionale
Componente bioattivo
Beneficio sanitario
Significatività d’azione
Dosaggio efficace
Margarine fortificate
Steroli e stanol-esteri vegetali
Riduzione colesterolo totale e LDL
Molto forte
Steroli 1,3 g/d Stanoli 1,7 g/d
Fibra solubile
Riduzione colesterolo totale e LDL
Molto forte
1 g/d
Proteina
Riduzione colesterolo totale e LDL
Molto forte
25 g/d
Beta-glucani
Riduzione colesterolo totale e LDL
Molto forte
3 g/d
(n-3) acidi grassi
Riduzione trigliceridi ematici Riduzione patologie cardiache
Forte
Due volte la settimana
Composti solforati organici
Riduzione colesterolo totale e LDL
Moderata
600-900 mg/d
The verde
Catechine
Riduzione certi tipi di tumore
Debole o moderata
Non determinato
Spinaci, cavolo e altri vegetali
Luteina, zeaxantina
Riduzione rischio maculopatia degenerativa
Debole o moderata
6 mg/d
Licopene
Riduzione del rischio di tumore alla prostata
Debole o moderata
Assunzione giornaliera
Carne d’agnello, CLA Riduzione rischio del cancro tacchino, bovino (Acido della mammella e latte Linoleico coniugato)
Debole
Non determinato
Crucifere (cavoli, ecc.)
Debole
3 o più porzioni la settimana
Migliorata salute gastrointestinale Debole
Giornaliero
Psyllum Soia Avena integrale Pesce grasso Aglio
Pomodori e derivati
Latticini fermentati
Indoli glucosinolati
Riduzione di taluni tipi di tumore
Probiotici
Stimolazione immunità
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naturali utilizzabili in tecnologia alimentare. Alimenti vegetali ricchi di fibra alimentare solubile sono importanti alimenti nutraceutici o “alimenti disegnati” in relazione alle particolari necessità nutrizionali umane e ad una corretta attività del grosso intestino. Minerali organici. È un concetto relativamente recente che l’attività biologica dei minerali alimentari sia l’espressione dell’ampia varietà di composti chimici e non del minerale di per sé. In altri termini conoscere quanto selenio, ferro, rame, zinco è presente in un alimento od in una dieta, non è importante quanto sapere sotto che forma ogni singolo elemento è presente nell’alimentazione. Questo, non solo per quanto riguarda la percentuale d’assorbimento e, o le interazioni a livello digestivo o metabolico, ma per le attività biologiche dei composti contenenti il microelemento. Questi aspetti sono meglio esaminati nel capitolo delle patologie da carenza di ferro e dei minerali (microelementi). Carotenoidi. Sempre maggiore attenzione si sta dedicando ai carotenoidi, flavonoidi ecc. presenti nei vegetali ed alle possibilità di assicurare la loro presenza nella dieta, in modo particolare per le loro azioni antiossidanti, considerate in precedenza.
ne di nuovi, con tecnologie adeguate. L’attuale dibattito sull’entrata e diffusione delle biotecnologie nel campo alimentare e sugli alimenti vegetali transgenici deve tenere conto della globalizzazione del mercato alimentare e non può sottovalutare l’estremo interesse di avere alimenti funzionali biotecnologici: ad esempio un riso ricco in betacaroteni precursori della vitamina A ed antiossidanti (riso detto anche golden rice) o con il gene della transferrina e quindi con un ferro molto biodisponibile, o d’altri vegetali ricchi di particolari acidi grassi insaturi, come gli omega-3. Bibliografia AA.VV. Alimenti probiotici: dall’empirismo alla scienza. I fermenti lattici. Ist. Naz. Nutr., Roma, 1996 AA.VV. Gli antiossidanti del pomodoro e dei suoi derivati industriali e gli effetti potenzialmente benefici sulla salute umana. Libro Bianco. Ed. Amitom, Avignon, 2000 ADA: Position of the American Dietetic Association: functional foods. J. Am. Diet. Assoc., 99, 1278-285, 1999 Baxter G.I., Graham A.B., Lawrence J.R, Wiles D. Paterson J.R. Salicilic acid in soups prepared from organically and non organically grown vegetables. Eur. J. Nutr. 40 (6) 289-292, 2001 Beecher G.R. Nutrient content of tomatoes and tomato products. Proc. Soc. Exp. Biol. Med., 218, 98-100, 1998 Elson Ch.E., Yu S.G. The chemoprevention of cancer by mevalonate-derived constituents of fruits and vegetables. J. Nutr., 124, 607-614, 1994 Fuller R. (ed.). Probiotics. Chapman & Hall, New York, 1994 Hasler C.M. Functional foods: benefits, concerns and challenges. A position paper from the American Council on Science and Health. J. Nutr., 132, 3772-3781, 2002 Hasler C.M. Functional foods: their role in disease prevention and health promotion. Food Technol. 72, 57 – 62, 1998 Hasler C.M. The changing face of functional foods. J. Am. Coll. Nutr., 19, 499S-506S, 2000 Leoni C. Il licopene nel pomodoro e nei suoi derivati industriali. Effetti benefici per l’uomo. Convegno Nuovi orientamenti nella filiera del pomodoro da industria, Parma 1 dicembre 2000
Alimenti funzionali ed alimentazione darwiniana L’alimentazione naturale dell’uomo, prima dell’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, era ricca di cibi con spiccate attività funzionali, in particolare del tipo sopra indicato, dagli antibiotici ai minerali organici, dalla fibra alimentare agli antiossidanti e molecole con attività farmacologica come i salicilati. Parte di queste attività si sono ridotte negli odierni alimenti ottenuti con la selezione e la coltivazione dei vegetali, ma in modo particolare con la conservazione e la raffinazione. Da qui, la necessità, in una concezione evoluzionista della nutrizione umana, di ricuperare alimenti con attività funzionali o di sviluppar166
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Psicodietetica: importanza di nutrire il cervello
L’argomento si correla anche a due aspetti che vanno assumendo una sempre maggiore importanza: la qualità degli alimenti ed il benessere. Con la conservazione degli alimenti, loro trattamenti per sanitizzarli ecc., pur potendosi mantenere le principali caratteristiche nutrizionali, non sempre sono preservate le caratteristiche extranutrizionali, nel senso definito in precedenza, e che sono estremamente importanti per la qualità degli alimenti stessi. Inoltre, l’alimentazione va rivelandosi una delle vie attraverso le quali assicurare il benessere lo stato di eucenestesi o benessere è correlato non solo alla quantità, ma anche alla qualità degli alimenti. Accennare sia pure sinteticamente alla psicodietetica assume importanza nell’ambito della nutrizione evoluzionista. La nutrizione - in proposito si rimanda al capitolo sulla ittiofagia e sulle azioni extranutrizionali dei grassi - ha certamente giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo del cervello umano, la cosiddetta encefalizzazione. Un argomento che, solo recentemente, è stato affrontato da un punto di vista anche nutrizionale. Una migliore conoscenza della nutrizione del nostro cervello può meglio indirizzarci in una nutrizione evoluzionista funzionale al nostro più importante organo.
La specie umana è caratterizzata da uno sviluppo cerebrale superiore a quello di tutte le altre specie. Solo recentemente si è dedicata attenzione agli aspetti nutrizionali del cervello e la psicodietetica avrà un’importanza strategica. Dalla psicodietetica allo sviluppo del cervello Comportamento e alimentazione sono oggi collegati nella Psicodietetica. Un proverbio cinese recita che l’inizio della saggezza consiste nel chiamare le cose con il loro giusto nome. Con il termine di psicodietetica Cheraskin, Ringsford e Brecher (1974) indicano i rapporti che esistono tra l’alimentazione (dieta) e la psiche, anche nelle manifestazioni di comportamenti. È tuttavia necessario precisare che i disturbi del comportamento possono correlarsi ad alterazioni che hanno una base anatomica o biochimica dimostrabile, mentre in altri casi modificazioni anatomiche o biochimiche non sono state dimostrate. Le patologie del comportamento che si correlano a malattie organiche del Sistema Nervoso Centrale sono inquadrate nella neurologia. Le forme che non riconoscono precise lesioni organiche sono interpretate come turbe funzionali di tipo psicologico. Una distinzione tra neurologia e psicologia non è senza significato pratico, perché comporta conseguenze di tipo terapeutico e profilattico. Attualmente però una distinzione tra neurologia e psicologia non è sempre facile, come dimostra il fatto che in una forma morbosa tipicamente psicologica, quale era considerata l’aggressività, sono state individuate importanti basi neurologiche. Ricerche di anatomia patologica ultrastrutturale e indagini biochimiche rendono inoltre sempre più incerto il confine tra l’organico ed il funzionale. In questo quadro s’inseriscono i rapporti tra alimentazione e turbe del comportamento.
Fattori extranutrizionali degli alimenti e psicoalimenti Numerose ricerche, già considerate, indicano che agli alimenti sono da attribuire attività di diverso genere e non poche attività extranutrizionali possono interessare il comportamento e sembrano largamente mediate dai processi di digestione. Nell’uomo aminoacidi e oligopeptidi biologicamente attivi si generano a livello gastroduodenale a seguito della digestione delle proteine. In proposito si possono citare le già ricordate casomorfine e le exorfine o sostanze endorfinosimili. Flood e coll., (1987) hanno dimostrato che la capacità di memorizzare è tanto maggiore quanto più gli animali mangiano dopo 168
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aver effettuata la prova e sembra che questo effetto sia mediato dalla colecistokinina. L’alimentazione, in stretta collaborazione con l’ambiente ed il potenziale genetico, influenza il sistema neuro-ormonale, con conseguenze funzionali e talvolta anche organiche. Ne consegue che l’alimentazione da sola - ad eccezione di alcune situazioni particolari, come le grandi carenze - di regola non porta a gravi turbe. È tuttavia un fattore di condizionamento che va rivelandosi sempre più importante, soprattutto nelle particolari condizioni di mantenimento e d’alimentazione dell’urbanesimo, con schemi alimentari che facilitano o fanno emergere turbe del comportamento ed alterazioni della personalità. Molti alimenti modificano il comportamento dell’uomo. Vi sono anzi diversi alimenti che sono ricercati soltanto per questo: non è altrimenti giustificabile il successo delle bevande nervine come caffè, the, mathé, carcadè e sotto certi aspetti anche della cioccolata: cibi che contengono caffeina, theina, teobromina. Lo stesso si può dire per le bevande artificiali contenenti caffeina. La lunga abitudine alimentare ha insegnato come usare questi alimenti-farmaci, che in dosi eccessive o non appropriate, potrebbero produrre effetti indesiderati. Buona parte dei composti attivi degli alimenti che influenzano il comportamento agiscono sul sistema nervoso e sono stati sviluppati dalla selezione naturale nei vegetali, per difendersi dai parassiti. Tra questi insetticidi naturali è da comprendere anche la nicotina del tabacco, che però non è una pianta alimentare, anche se largamente usata dall’uomo ed è stata una delle vie che hanno portato all’agricoltura, come è già stato fatto notare. Anche la solanina della patata è un insetticida e si può affermare che gran parte dei vegetali naturali sono dotati di composti con azione antiparassitaria. Si comprende facilmente come sia la patata sia il pomodoro fossero una volta ritenuti tossici ed, infat-
ti, lo erano, almeno a forti dosi e soprattutto in certe condizioni (ad esempio i germogli di patata erano molto ricchi di solanina, per difendersi dai parassiti). Oggi invece, con la selezione, coltiviamo vegetali scarsamente tossici e che possono essere mangiati anche in grandi quantità. Inevitabilmente questi vegetali domestici sono divenuti molto sensibili ai parassiti e necessitano di trattamenti con fitofarmaci che, peraltro, sono meno tossici di quelli naturali e soprattutto, se ben usati, diversamente da quelli naturali, possono essere assenti al momento del raccolto. Il noto cancerologo Ames ritiene che l’ingestione degli insetticidi naturali (di cui sappiamo ben poco) sia fino a 10.000 volte superiore a quella dei residui degli insetticidi artificiali prodotti dall’uomo. Non mancano inoltre negli alimenti, vegetali e d’origine animale, composti dotati d’attività calmante, veri e propri farmaci tranquillanti naturali. Tra questi vi sono le casomorfine e le exorfine derivate rispettivamente dalla digestione della betacaseina del latte e del glutine dei cereali. Tra gli alimenti-farmaci che agiscono sul cervello sono anche da ricordare tutte le bevande alcoliche, presenti in ogni società umana. Non è inoltre da dimenticare che i mediatori chimici che intervengono nel funzionamento del Sistema Nervoso sono prodotti in modo ottimale dal cervello in ben precise condizioni nutrizionali, che sono alterate ad esempio da taluni aminoacidi non convenzionali presenti in taluni alimenti e soprattutto nei funghi dotati d’attività allucinogena. Nutrizione e patologie neurologiche Turbe del comportamento dovute a malattie organiche del Sistema Nervoso Centrale sono di solito la conseguenza di lesioni del telencefalo (lobi frontali e laterali) e del diencefalo (sistema limbico ed ipotalamo). Da tempo sono note malattie e localizzazioni delle lesioni cerebrali per i principali mutamenti del comportamento. Da un punto di 169
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vista nutrizionale sono state particolarmente studiate le carenze vitaminiche che provocano turbe di tipo neurologico e comportamentale. Di particolare importanza e meglio studiata è l’encefalopatia conseguente a carenza di vitamina B l (tiamina) e di altre carenze vitaminiche. Una particolare attenzione deve inoltre essere dedicata ai difetti enzimatici lisosominali (DEL), in quanto soprattutto nelle forme iniziali e fruste sono anche condizionati dal tipo d’alimentazione. Si tratta di sindromi collegate a difetti nel contenuto di enzimi dei lisosomi delle cellule nervose (e non solo di queste). La deficienza enzimatica turba il normale metabolismo dei lipidi, glicoproteine, glicogeno e mucopolisaccaridi, con accumulo di metaboliti che provocano danni ai lisosomi, turbano le funzioni cellulari e più o meno lentamente portano a morte cellulare. Soprattutto nelle fasi iniziali sono importanti le turbe relative alla produzione e metabolizzazione dei mediatori chimici necessari al normale funzionamento del S.N.C. Nonostante i difetti enzimatici siano presenti in tutte le cellule dell’organismo, i sintomi - almeno inizialmente - sono particolarmente evidenti a livello del sistema nervoso.
1982; Wurtman e Coll., 1980; Fernstrom e Wurtman, 1972; e tanti altri). Le molecole che hanno una sicura o molto probabile funzione di neurotrasmettitori oggi note sono una ventina. L’alimentazione, accanto al potenziale genetico ed altri stimoli ambientali, interviene anche sul Sistema Neuro-Ormonale. Di particolare interesse sono le attività degli aminoacidi e oligopeptidi che, originati a livello gastroduodenale, regolano il Sistema Neuro-Ormonale. A questo proposito è utile considerare le seguenti attività di aminoacidi e oligopeptidi che, anche in rapporto al tipo di alimentazione, si generano a livello gastroduodenale ed influiscono sul Sistema Nervoso e sul comportamento. Arginina. È un aminoacido che pervenuto a livello ipotalamico stimola la produzione di Somatotropo (Ormone della Crescita). Quest’ormone, mediante le “somatomedine”, agisce sulla circolazione periferica dei diversi distretti ed influenzerebbe anche l’ingestione dell’alimento. L’arginina induce la produzione anche d’altri ormoni (Prolattina ed Insulina) ed effetti analoghi sono stati osservati anche per altri aminoacidi (leucina e fenilalanina) (Davis, 1972; Chew e coll., 1984). Somatostatina. È un oligopeptide che inibisce la produzione di Somatotropo. Gastrina; Enterogastrone. Comprende il GIP o Peptide Inibitorio Gastrico ed il VIP o Peptide Vasoattivo Intestinale. Non bisogna inoltre dimenticare (è già stato più volte ricordato) che nella digestione della caseina (e quindi nel corso dell’alimentazione lattea) a livello intestinale originano delle casomorfine, dotate di caratteristiche oppioidi, e che dalla digestione del glutine di cereali a livello duodenale si ha elaborazione d’exorfine capaci di modificare il comportamento. L’alimentazione e soprattutto la qualità delle proteine, gli equilibri alimentari e nutrizionali, nonché la modalità d’introduzione degli alimenti (numero e ritmo dei pa-
Nutrizione e turbe del comportamento Per lungo tempo si è ritenuto che il Sistema Nervoso ed il cervello in particolare, pur avendo un diritto di prelievo di ossigeno e glucosio e risentendo di squilibri ionici e di pH del sangue, non avessero particolari esigenze alimentari. Si concludeva pertanto che, almeno in condizioni normali, il funzionamento del S.N.C. fosse largamente, se non totalmente indipendente dalla alimentazione. Le ricerche riguardanti i neurotrasmettitori hanno mutato il quadro sopra tracciato, in quanto si è visto che questi sono sintetizzati dalle cellule nervose in dipendenza della composizione del sangue e pertanto del tipo di alimentazione (Wurtman, 1982; Wurtman e Wurtman, 1977170
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sti ecc.) possono quindi influenzare il Sistema Neuro-Ormonale, anche al di fuori delle caratteristiche plastiche ed energetiche degli alimenti. Per il buon funzionamento cerebrale sono molto importanti i grassi alimentari. Oltre ad apportare energia, i grassi hanno altre due principali funzioni alimentari: a) partecipano in modo attivo alla costruzione dell’organismo e soprattutto delle membrane cellulari; b) hanno un ruolo essenziale a livello cerebrale, particolarmente nella fase del suo sviluppo. Una carenza di acidi grassi essenziali provoca gravi alterazioni dell’organismo, fino alla morte. Tutti gli organi sono interessati ed anche il cervello non fa eccezione. Anche il colesterolo non è da sottovalutare. Recenti indagini di un gruppo di ricercatori del Centro di Ricerca sulla Nutrizione del Bambino di Huston, dell’Università di Praire (USA) e dell’INRA francese, guidati da P.A. Schoknecht, hanno stabilito che nel giovane maiale, una specie animale vicina all’uomo, bassi livelli di colesterolo alimentare hanno un’influenza negativa sullo sviluppo del cervello e sul comportamento. Il latte di donna è più ricco di colesterolo che non quello di altri animali (in particolare di quello di mucca) e del latte artificiale. Il bambino inoltre, per il suo grande sviluppo cerebrale, che si prolunga fino ai quattro, cinque anni di età, ha necessità di buone quantità di colesterolo alimentare. Attualmente l’allattamento al seno è stato fortemente abbreviato, ma è sempre necessario assicurare al neonato e poi al bambino una sufficiente quantità di colesterolo alimentare, indispensabile per un regolare sviluppo del cervello. In base alla necessità di colesterolo alimentare del bambino, con tutte le debite riserve, è stato anche interpretato il più alto Quoziente di Intelligenza nei bambini alimentati con latte materno (ricco di colesterolo), in confronto di quello dei bambini alimentati con latte artificiale (povero di colesterolo).
Anche dopo lo svezzamento il bambino, il cui cervello non si è ancora completamente sviluppato ed i processi di apprendimento sono ancora in piena attività, necessita di una alimentazione con cibi che contengono colesterolo. A questo riguardo è indicata la carne, in particolare quella magra, che oltre ad essere un alimento plastico e protettivo contiene adeguate quantità di un colesterolo strutturale (contenuto nella parete delle cellule e non nei grassi di deposito) facilmente assimilabile e particolarmente indicato per un buon sviluppo cerebrale e della intelligenza del bambino. Particolarmente a rischio sono le diete strettamente vegetariane e con poco o niente colesterolo. Nutrizione cerebrale e alimentazione darwiniana Fra le molte variabili che hanno condizionato lo sviluppo del cervello umano, un ruolo prevalente ha svolto la nutrizione (Rossi e Rossi Prosperi, 2003; ed altri). I cambiamenti fisico-chimici ambientali hanno messo a disposizione degli organismi viventi alcune sostanze che, introdotte con l’alimentazione, ne hanno condizionato lo sviluppo evolutivo. Fra queste sostanze di particolare rilevanza sono stati i lipidi, ed in particolare i glicerofosfolipidi, che hanno permesso, prima la comparsa dei mammiferi e più tardi quella degli australopitechi, i nostri più antichi progenitori. Da essi, con un lunghissimo processo evolutivo, durato milioni d’anni, e sempre grandemente condizionato dai cambiamenti fisici, chimici e nutrizionali, si è giunti all’uomo attuale, che possiede un cervello con caratteristiche funzionali e strutturali del tutto particolari. Rossi e Rossi Prosperi (2003), affrontando il problema evolutivo del cervello umano, sottolineano l’importanza della nutrizione ed in particolare degli acidi grassi a lunga catena (AGP-LC) che si formano a partire dagli acidi grassi essenziali, affermando che il cervello dell’uomo si è 171
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evoluto e può funzionare in maniera ottimale in rapporto alla presenza, in giuste ed adeguate proporzioni, di dure particolari AGP-LC: l’aido arachidonico e l’acido decoesaenoico (DHA). Quanto noto sui rapporti tra nutrizione e patologia del comportamento non esauriscono il problema. Un altro importante aspetto, che non è stato ancora affrontato, è quello dei rapporti tra alimentazione del neonato e del giovane e sviluppo del comportamento. È nota la “dottrina dei periodi critici” e la loro importanza per un corretto comportamento dell’adulto, non è però noto se e come l’alimentazione interferisca sull’evoluzione dei “periodi critici” e sull’apprendimento durante tali periodi. Se si considera che nel giovane la barriera ematoencefalica non ha la selettività dell’adulto, si può ritenere che la sintesi dei neurotrasmettitori endocerebrali sia maggiormente influenzata dal tipo di dieta nel giovane, che non nell’adulto. Le variazioni alimentari e nutrizionali dei neonati e dei bambini, soprattutto con uno svezzamento precoce e brusco, potrebbero avere una notevole influenza sulla funzionalità cerebrale e quindi sul comportamento. Già solo quest’ipotesi sottolinea l’importanza del settore ancora in gran parte inesplora-
to dai rapporti tra alimentazione, nutrizione e comportamento. Un particolare comportamento è quello aggressivo. Quanto esposto non è sufficiente per fornire precisi ed inequivocabili dati applicativi e non permette ancora di indicare una “dieta antiaggressiva” (a parte un’alimentazione mista proteica-idrocarbonata con prevalenza del primo componente). In modo analogo è per una “dieta calmante” (forse con l’uso di caseina e glutine), una “dieta appetitogena” (anche se aminoacidi e peptidi derivati dalla carne sono importanti), una “dieta iporessica” e così via. Tuttavia, numerosi dati indicano la presenza di fattori extranutrizionali della dieta capaci di influenzare il comportamento e che derivano da un’amplissima gamma di settori di ricerche le più diverse e questo non agevola una loro raccolta, comparazione e comprensione. L’importanza dell’argomento sottolinea la necessità di ulteriori approfondimenti. A questo fine è però indispensabile superare alcune barriere “concettuali” e soprattutto quella che vuole isolare il comportamento, inteso prevalentemente come fenomeno psicologico, dalle condizioni organiche, o dimenticare come turbe organiche possono influenzare il comportamento.
Carenze nutrizionali e deficit del funzionamento cerebrale (Rossi e Rossi Prosperi, 2003) Carenze nutrienti
Deficit funzionamento cerebrale
AG (alfa-linolenico) e AGP-LC
Membrane neuronali poco funzionanti, con scarsi fenomeni di modulazione, deficit trasmissione neuronale e liberazione dei neurotrasmettitori
Vitamina B 12
Demielinizzazione fibre nervose
Colesterolo
Mancata od insufficiente mielinizzazione assone
Aminoacidi essenziali
Diminuita sintesi di neurotrasmettitori
Carboidrati semplici e complessi
Diminuito stato di eccitazione del neurone
Ferro
Insufficiente sintesi di dopamina, serotonina, catecolamina, mielina
Zinco
Mancata sintesi di composti endogeni neuroattivi
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Antialimenti: una sfida alla nostra alimentazione
presenti in alimenti d’origine animale (ad esempio nelle uova e colostro), ma soprattutto nei vegetali, in modo particolare angiosperme (legumi, patate ecc.). Il significato evoluzionista della presenza d’inibitori delle antiproteasi nel colostro e nel latte riguarda la salvaguardia degli anticorpi colostrali, mentre nei vegetali le antiproteasi svolgono un’efficace protezione contro le azioni dirette e indirette dei parassiti animali. Le antiproteasi alimentari diminuiscono l’efficacia nutrizionale delle proteine alimentari ed interferiscono sull’attività del pancreas. Le antiproteasi sono inattivate dal calore, anche se trattamenti eccessivi alterano le caratteristiche nutrizionali degli alimenti. Gli usuali trattamenti culinari sono adeguati, mentre sono da considerare i rischi collegati al “mangiare crudo”. Le lectine sono composti che agglutinano i globuli rossi del sangue e sono presenti in modo particolare nei legumi, patate ed altri vegetali, come il ricino (la ricina è forse la più tossica lectina vegetale conosciuta). Il loro significato è analogo a quello delle antiproteasi, come anche l’inattivazione da parte del calore. Saponine sono contenute nella soia, arachidi, the ed altri vegetali alimentari, ma non paiono rischiose, se assunte per via orale.
In una prospettiva darwiniana, gli alimenti non sono un diritto, ma una conquista, spesso non facile e da ottenere superando gli ostacoli e le difese messe in atto, in modo particolare dal mondo vegetale. Gli antialimenti sono un’interessante espressione della lotta tra la nostra specie che vuole mangiare e le altre specie che non vogliono essere trasformate in cibo. In questo contrasto, gli interventi culturali, in modo particolare i trattamenti termici e fermentativi della cucina umana, hanno assunto un ruolo decisivo per il successo anche alimentare della nostra specie. Antialimenti, antinutrienti In molti alimenti sono presenti attività antinutritive verso differenti componenti. Queste attività presentano meccanismi fondamentali di tossicità, che si manifestano attraverso una diminuita o mancata azione nutrizionale, od un’interferenza sugli equilibri nutrizionali. Anche se frequentemente ignorati o sottovalutati, in modo particolare in un’alimentazione ricca ed abbondante, gli effetti negativi antinutrizionali sono particolarmente evidenti in condizioni di malnutrizione, o quando la presenza di nutrienti essenziali è al limite. In modo analogo avviene quando vi sono aumentate o particolari richieste nutrizionali per condizioni fisiologiche (gravidanza o allattamento, elevata attività atletica ecc.) o patologiche. Le più importanti attività nutrizionali riguardano le proteine, i minerali e le vitamine, di cui si daranno alcuni cenni.
Antinutrienti minerali e vitaminici Sostanze contenute negli alimenti e che interferiscono sull’utilizzazione dei minerali sono largamente presenti nei vegetali, in modo particolare nella frutta e nei cereali. Di particolare significato sono l’acido fitico, gli ossalati, i componenti dei vegetali gozzigeni e la fibra alimentare. L’acido fitico è presente nei cereali, legumi, semi diversi ed alcuni frutti; la sua azione antinutrizionale si svolge interferendo sull’assorbimento del calcio, magnesio, ferro, zinco ed altri minerali. La fitasi, un enzima diffuso nei vegetali, riduce l’attività antinutrizionale dell’acido fitico, ma a sua volta è inattivata dai trattamenti termici. Il lievito,
Antinutrienti proteici Si è rilevato che attività antinutrizionali sono provocate dagli inibitori degli enzimi digestivi (proteasi), dalle lectine, saponine e polifenoli. Inibitori delle proteasi (tripsina, pepsina, chimotripsina ed altri enzimi digestivi) sono 174
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ed in particolare quello acido o “madre”, decompone l’acido fitico e quindi nel pane, prima lievitato e poi cotto, si svolge un raffinato trattamento antifitico. Anche gli ossalati, contenuti in molti vegetali (spinaci, barbabietola, the ed altri), diminuiscono l’assorbimento dei minerali alimentari, in modo particolare del calcio. L’azione gozzigena (antitiroidea) dei vegetali (cavoli ed altre crucifere, leguminose ecc.) si basa su differenti classi di composti chimici, con diversi meccanismi: glucosinolati, tiocianati, cheiroline, glucosidi polifenolici, emoagglutinine e altri composti ancora indeterminati. Il significato biologico nei vegetali di questi composti è ancora poco noto. La loro attività sulla tiroide si svolge attraverso meccanismi differenti, tra i quali è da segnalare l’attività correlata alla disponibilità di iodio alimentare e quindi si comprende come non possa recare danno, in condizioni normali, nelle popolazioni umane che vivono in vicinanza del mare o che nella loro alimentazione utilizzano sale marino iodato. Anche la fibra alimentare, in modo particolare quell’insolubile, interferisce sull’assorbimento dei minerali alimentari, in modo significativo quando questi sono scarsi. Le antivitamine sono quei composti che, attraverso meccanismi specifici, diminuiscono od aboliscono l’effetto di singole vitamine. Il calore, che inattiva le vitamine termolabili, non è un’antivitamina, mentre lo è l’ascorbasi, l’enzima che tramite ossidazione specifica distrugge l’acido ascorbico (vitamina C). Soprattutto nei vegetali sono state individuate e studiate antivitamine per le seguenti vitamine e fattori vitaminici: vitamina C (acido ascorbico), vitamina A (retinolo e caroteni), vitamina E (tocoferoli), vitamina B 1 (tiamina), vitamina B 6 (biotina), piridossina, vitamina B 12 (cobalamina), vitamina B 2 (riboflavina), acido pantotenico, acido folico, colina, vitamina D 2 (colecalciferolo), vitamina K (naftochinoni). Di particolare importanza è da segnalare che
l’ascorbasi, che inattiva la vitamina C, è inattivata dal calore e dai flavonoidi presenti nei vegetali stessi. Il calore inattiva anche la tiaminasi (antivitamina B 1) presente nel pesce crudo. Antinutrienti ed alimentazione darwiniana L’esistenza d’attività antinutrizionali degli alimenti può essere spiegata e compresa solo in relazione all’evoluzione ed alla coevoluzione biologica e culturale umana. Una ridotta presenza d’attività antinutrizionale negli alimenti d’origine animale è a favore della loro più o meno, ma sempre larga presenza, nell’alimentazione degli ominidi. La larga e rilevante presenza d’attività antinutrizionale nei vegetali era stata controllata, in ambito d’evoluzione animale, in diverso modo, non ultimo la fermentazione “predigestiva” di questi alimenti, in modo particolare nei prestomaci dei ruminanti. Una categoria d’animali molto ricca di specie, diffuse a tutte le latitudini, a conferma del successo a loro conferito dal tipo d’alimentazione, nonostante lo svantaggio del peso (non è da sottovalutare che il contenuto dei prestomaci può essere compreso da 10 al 20% del peso corporeo). La specie umana, prima dell’invenzione della cucina, aveva superato i rischi degli antinutrienti vegetali attraverso una gran biodiversità alimentare, con l’uso di piccole quantità di singoli alimenti e con la loro intersupplementazione. Parte di questi meccanismi di difesa è venuta a mancare con l’agricoltura. Da qui la necessità di modificare gli alimenti con trattamenti, singoli, ma soprattutto combinati, capaci d’inattivare fattori antinutrizionali: primo fra tutti il calore, poi la fermentazione e, non da ultimo, l’associazione della fermentazione con il calore, come nel pane, senza dimenticare l’importanza della ricchezza alimentare. Non è, infatti, da dimenticare quanto già citato: i singoli fattori antinutrizionali assumono un ruolo rilevante quando esistono condizioni di carenze nutrizionali quantitative. 175
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Classificazione degli antinutrienti (sec. Gontzea e Sutzescu, 1968) Tipo A – Antinutrienti proteici Sostanze che interferiscono con la digestione delle proteine o l’assorbimento e l’utilizzazione d’aminoacidi od altri nutrienti Tipo B – Antinutrienti minerali Tutte le sostanze che interferiscono con l’assorbimento o l’utilizzazione metabolica di minerali Tipo C – Antivitamine Sostanze che inattivano o distruggono vitamine, o comunque aumentano il loro fabbisogno organico, oppure hanno funzione di antimetaboliti vitaminici
Bibliografia
Gontzea I., Gardev. M. Antinutritive substances in foods – I – Antitriptic activity of some alimentary products – Com. Acad. Rep., Pop. Romine, 8, 723-727, 1958 Gontzea I., Sutzescu P. Natural Antinutritive Substances in Foodstuffs and Forages. S. Karger, Basel, 1968
Ballarini G. Rischi e virtù degli alimenti. Calderini, Bologna, 1989 Concon J.M. Naturally occurring antinutritive substances (p.405-461) in: Concon J. M. Food Toxicology – Part A: Principles and concepts – Marcel Dekker, Inc, New York and Basel
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BIOTECNOLOGIE ALIMENTARI, USO DEGLI ALIMENTI E NUTRIZIONE DARWINIANA
Pane, vino, birra, salumi sono soltanto alcuni degli alimenti ottenuti con la fermentazione, eseguita da microrganismi che variano anche da luogo a luogo. Gran parte della diversità di gusto, aroma, aspetto degli alimenti fermentati dipende dalle caratteristiche dei microrganismi (batteri, lieviti e funghi microscopici) che sono divenuti un tutt’uno con la tradizione e che nel corso di secoli si sono depositate nelle grotte o cantine di maturazione dei formaggi erborinati (come il gorgonzola), nei locali di stagionatura di salumi di pregio come il culatello e tanti altri prodotti tradizionali. Un’intensa attività di ricerca, antica e moderna, ha selezionato i microrganismi più adatti ad essere utilizzati per ottenere una gran varietà di pane, birra, latti e acidi e formaggi, salumi, verdure acide. Con la ricerca si è sviluppata la selezione dei microrganismi più adatti e già naturalmente presenti negli alimenti, quindi con metodi assolutamente naturali. I microrganismi aggiunti per indirizzare la fermentazione degli alimenti oggi sono denominati starter. Con l’uso di starter adatti si ottengono alimenti con le caratteristiche di tipicità desiderate. Inoltre, per ogni tipo d’alimento, è possibile mantenere una certa uniformità tra le diverse partite ed aumentare la sicurezza. Molti starter sono, infatti, capaci di inibire la presenza di batteri patogeni o comunque indesiderati. L’individuazione e la produzione di starter è la conseguenza dell’avvento della microbiologia alimentare, che segna il passaggio tra l’empirismo tradizionale e la ricerca scientifica alimentare.
Le fermentazioni sono uno dei primi, principali e raffinati sistemi di modificazione degli alimenti e di una cucina antica e tradizionale, e sono state determinanti nello sviluppo delle veterobiotecnologie che hanno permesso all’uomo di conservare gli alimenti e di adeguarli alle sue esigenze nutrizionali. Tra le diverse tecnologie, quelle d’estrazione dei grassi, sviluppati dalla cultura umana, oggi portano a patologie, prima di tutte obesità e sovrappeso con tutte le nefaste conseguenze. L’attuale mancanza di un’alimentazione ritmata ed ancor più la scomparsa di stili alimentari capaci di modulare i bioritmi umani geneticamente preparati, sembra essere alla base di turbe nutrizionali e di disturbi funzionali. Enzimi e fermentazioni alimentari: veterobiotecnologie alimentari La cucina è stata inventata per modificare e rendere adatti all’uomo gli alimenti ottenuti con l’agricoltura e l’allevamento. Le fermentazioni sono uno dei primi, principali e raffinati sistemi di modificazione degli alimenti e di una cucina antica e tradizionale. Gli enzimi delle fermentazioni sono stati determinanti nello sviluppo delle veterobiotecnologie, che hanno permesso all’uomo di conservare gli alimenti e di adeguarli alle sue esigenze nutrizionali.
Lievito di birra Lievito, un alimento antichissimo, ma di grande attualità. Nel papiro d’Ebers, datato al 3500 a.C., vi sono ricette con “fondo di birra” raccomandate per conservare la salute e vivere a lungo; oggi sappiamo che tale fondo è costituito da lieviti, di cui fa parte il Saccharomyces cerevisiae. I lieviti alimentari
Fermentazioni ed enzimi, tradizionali e innovativi Gran parte degli alimenti tradizionali viene ottenuta con fermentazioni, che agiscono attraverso enzimi e prodotti specifici, ad esempio l’acido lattico. 177
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sono funghi microscopici, unicellulari, di diverse specie, la più nota delle quali è il già ricordato Saccharomyces cerevisiae (lievito da panificazione o di birra), ma molti altri lieviti sono presenti negli alimenti fermentati; tra questi è da ricordare il Saccharomyces fragilis contenuto in taluni latti fermentati (kefir). Oggi sono stati scoperti pregi di tipo extranutrizionale dei lieviti, precedentemente soltanto intuiti. Questi pregi sono presenti nel lievito vivo ed in parte rimangono in quello inattivato con particolari sistemi delicati. Il lievito, infatti, produce composti chimici che svolgono la funzione di messaggeri tra i lieviti ed i batteri. Uno di questi messaggeri è molto simile al Gonadotropin Releasing Hormon (GRH) che nell’uomo regola la riproduzione. Attraverso tali messaggeri chimici i lieviti regolano la popolazione di microbi intestinali e svolgono un’importante azione favorente la nutrizione. Anche attraverso questa via i lieviti nell’intestino favoriscono azioni protettive, aumentando l’immunità, la resistenza contro le malattie infettive intestinali, contrastando batteri patogeni indesiderati, svolgendo anche un’azione preventiva contro i tumori. Esistono anche azioni indirette derivanti da un migliore funzionamento degli organi, che sono meglio nutriti e riforniti d’aminoacidi essenziali, vitamine ecc. Nei lieviti si trovano anche composti dotati d’attività immunostimolante. Le favorevoli azioni nutrizionali ed extranutrizionali giustificano il successo che, in quasi tutte le culture umane, hanno avuto gli alimenti fermentati con lieviti.
mostrano il sottile, ma tenace legame tra vino e pane, rappresentato dal lievito acido o “madre”, presente nel miglior pane antico e tradizionale e che rischiamo di perdere. Il pane, un tempo era il prodotto di una lievitazione acida, che richiedeva parecchie ore e che forniva un pane che si conservava a lungo. Questo buon pane tradizionale veniva, ed ancor oggi può venire prodotto, con una fermentazione che utilizza il lievito cosiddetto naturale o lievito acido operata da più microrganismi e soprattutto da un’associazione di lieviti e di batteri, lattici ed acetici. Questi ultimi determinano la caratteristica acidità alla fermentazione lievitante, con tutte le connesse caratteristiche del pane. Questo lievito deriva dal vino. Origine dei lieviti Da dove derivano i due tipi di lievito, quello di birra e quello del pane a fermentazione acida? Il lievito della fermentazione acida, e che di panificazione in panificazione è mantenuto e riprodotto, deriva dal vino o, meglio, dalle fermentazioni che trasformano il mosto in vino. Il lievito di birra, invece, costituito soltanto da Saccharomyces cerevisiae, lo stesso che interviene nella fermentazione della birra (da qui la sua denominazione) è prodotto industrialmente, inizialmente come sottoprodotto della birra, oggi invece in lievitifici specializzati. Altri enzimi alimentari L’uso d’enzimi nella preparazione degli alimenti è antichissimo, ben prima che si precisasse il concetto d’enzima. Il formaggio è ottenuto con la coagulazione del latte, operata da un enzima, chimosina, rennina o caglio, ricavato dallo stomaco di un vitello od agnello lattante, anche se erano usati coagulanti d’origine vegetale. La birra veniva ed è tuttora prodotta con l’impiego d’enzimi naturali (maltasi) che trasformano l’amido in malto, seguita dalla fermentazione alcolica operata dai lieviti.
Lievito di vino Come dire? Vino e pane, perché pare che l’uomo abbia prima inventato il vino e poi il pane? Oppure pane e vino, perché solo il primo è indispensabile per la vita, tanto che si sosteneva che pane e vino erano il cibo dell’uomo libero e pane ed acqua del carcerato. O sono distinzioni ininfluenti? Forse non è così, perché le moderne ricerche di178
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chia, che era un tempo controllata con la tostatura, la fermentazione e la cottura dei cereali. Nella birra vi è una fermentazione con i lieviti, che lasciano intatte proteine, che tuttavia sono eliminate con la filtrazione. Nel pane vi è una parziale inattivazione del glutine da parte dell’acido lattico della fermentazione acida, con una successiva inattivazione compiuta da una cottura prolungata. Inoltre i cereali antichi erano poveri di glutine, diversamente da quelli moderni. Fermentazione del latte. L’intolleranza al lattosio è stata superata dall’uso dei latti fermentati e dei formaggi, come considerato in un precedente capitolo. La fermentazione del latte con la produzione della gran varietà di prodotti caseari ha rappresentato un importante mezzo di sanificazione alimentare, perché l’acido lattico ha una forte attività antisettica, senza avere rilevanti conseguenze nulla fisiologia umana. Infatti, l’acido lattico, almeno nella sua forma levogira, è fisiologico ed è rapidamente metabolizzato dall’organismo umano. Fermentazione dell’uva. L’effetto protettivo del vino, soprattutto per le malattie cardiovascolari, è stato considerato nel capitolo dedicato alla frutta.
Negli anni sessanta si diffuse anche presso il gran pubblico l’uso della papaina, un enzima capace di intenerire la carne. Oggi le biotecnologie permettono di produrre enzimi a basso costo e si prevede che il loro uso nelle preparazioni alimentari si andrà sempre più estendendo. I principali settori alimentari dove oggi sono usati enzimi sono: produzione di formaggio, latti dietetici, derivati del latte, succhi di frutta, birra ed altre bevande alcoliche, produzione di zucchero, prodotti da forno, intenerimento della carne. Fermentazione ed enzimi ed alimentazione darwiniana Lo sviluppo delle fermentazioni alimentari ha avuto lo scopo di adeguare gli alimenti dell’agricoltura e dell’allevamento alle caratteristiche digestive e necessità nutrizionali umane. Aver abbandonato alcune fermentazioni tradizionali ha portato anche all’origine di patologie, trattate in successivi capitoli e qui solo accennate. Fermentazione dei cereali. La specie umana, mangiatrice di frutta, bacche e radici, più che di semi di cereali, può sviluppare un’allergia al glutine, con la comparsa della celia-
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Grassi: invenzione d’un alimento
ranzia contro eventuali eccessi. All’opposto i grassi e gli oli puri, inventati dall’uomo e creati dall’industria, per il loro alto valore energetico (un grammo di grasso, pur essendovi diversità nella percentuale che è digerita, apporta in media 8,5 chilocalorie), e per la loro alta disponibilità, oggi ad un prezzo spesso basso che ne favorisce un uso eccessivo, possono indurne un cattivo impiego e provocare inconvenienti nutrizionali, dietetici e sanitari anche gravi. Basta ricordare l’obesità, l’arteriosclerosi e talune malattie cardiovascolari favorite da eccessi di taluni grassi o da alimentazioni con una quantità eccessiva di grassi. Quanto ora indicato per l’uomo vale anche per gli animali allevati: quando sono alimentati con grassi di scadente qualità ed ossidati, l’uomo se li ritrova nel piatto. Alcuni oli e grassi hanno particolari doti benefiche e gli antichi sapevano che l’olio d’oliva è un alimento salutare, quasi un farmaco ed un portatore di bellezza.
Nell’uomo vi è il comportamento fisso di ricerca del grasso, in quanto fonte d’energia, anche se oli e grassi non sono alimenti naturali e sono stati sviluppati dalla cultura umana. Oli e grassi sono alimenti culturali, il cui uso eccessivo e squilibrato porta a patologie, prima di tutte obesità e sovrappeso con tutte le nefaste conseguenze. Grassi e oli, alimenti non naturali, ma soprattutto culturali Può sembrare impossibile, ma oli e grassi non sono alimenti naturali nel senso che, come tali non si trovano in natura. In gran parte sono stati sviluppati dalla cultura umana. Sono quindi alimenti culturali, inventati dall’uomo, che soltanto qualche migliaia d’anni fa ha imparato ad estrarli, alcuni dai vegetali (ad esempio dalle olive) o da talune parti o produzioni animali (ad esempio lo strutto ed il burro). Nella sua alimentazione naturale e durante il 99% della sua presenza sulla terra, l’uomo ha cercato ed apprezzato soltanto alimenti contenenti quantità più o meno elevate di grassi, come carni grasse e frutta oleose ad esempio olive, noci, mandorle, nocciole ecc., ma non i rispettivi oli. L’olio d’oliva era ben noto nell’area mediterranea fin dall’antichità, quando era usato come medicinale, cosmetico o combustibile nelle lampade e meno come alimento, se non dai più ricchi. Altri oli, ad esempio quelli di mais, arachide, girasole, vinaccioli, sono entrati nell’alimentazione umana solo quando l’industria è riuscita ad estrarli ed a purificarli.
Tanti oli e grassi Dal 1800 si è iniziato a comprendere la complessità dei grassi o lipidi, che non differiscono tanto per l’energia, quanto per il tipo di molecole di cui sono costituiti. Una classificazione chimica molto semplice distingue i grassi in saturi (non reagiscono bene con l’ossigeno) ed insaturi e polinsaturi (si ossidano facilmente). La pura classificazione chimica è insufficiente, da quando è stato scoperto che molti acidi grassi alimentari sono modificati ed elaborati dall’organismo, anche in rapporto al tipo di dieta, stile di vita ecc. Ad esempio nell’uomo, l’acido stearico, di cui è ricco il grasso bovino, è trasformato in acido oleico tipico dell’olio d’oliva. Con uno stile di vita attiva sono maggiormente utilizzati gli acidi grassi saturi ed il colesterolo. Importante è avere stabilito che i grassi non hanno soltanto una funzione energetica, ma anche insostituibili funzioni plastiche o costruttive dell’organismo. Per questo motivo alcuni acidi grassi, come già
I grassi strutturali I grassi, presenti negli alimenti naturali, sono intimamente connaturati con altri componenti alimentari: sono grassi strutturali e per questo in buon equilibrio con le proteine e gli amidi degli alimenti; questo è una ga180
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indicato, devono essere necessariamente introdotti con l’alimentazione (Acidi Grassi Essenziali - AGE), come l’acido linoleico e l’alfa-linolenico e probabilmente gli acidi arachidonico e cervonico. Per una corretta dieta sono importanti le significative differenze che esistono tra i grassi estratti da animali e vegetali e quelli strutturati presenti nelle carni, latte o diversi semi oleaginosi (olive, noci, soia, arachide ecc.) o granaglie (mais ecc.). Negli alimenti grassi od oleaginosi, a parte la citata coesistenza equilibrata con proteine ed amidi, la digeribilità dei grassi è diversa e calibrata con l’attività digestiva. Molto diverso è l’effetto di un olio che arriva tal quale, anche se mescolato agli alimenti, nello stomaco, o che invece per l’azione digestiva dello stomaco viene lentamente e gradualmente liberato da carni, olive o noci che lo contengono in forma strutturata e che arriva come grasso od olio libero a livello intestinale, dove trova gli enzimi adatti per una sua digestione. Negli alimenti grassi, e molto meno nei grassi ed oli da questi derivati sono presenti altri nutrienti come i fosfolipidi, le lecitine, il colesterolo, che in opportuna quantità deve essere presente nella dieta, alcune vitamine liposolubili (soprattutto E ed A), fitormoni ecc.
grassi e gli oli puri, e non più strutturati, il problema non è soltanto quello della quantità, ma anche della qualità. Con la conservazione i grassi vanno incontro all’ossidazione (irrancidimento) da cui originano pericolosi perossidi. Di pari passo nei grassi, sono distrutti gli antiossidanti naturali, ad iniziare dalla vitamina E. Una dieta che contenga “grassi sbagliati” e non adatti allo stile di vita, causa patologie metaboliche che oggi preoccupano. I “grassi sbagliati” provocano alterazioni delle membrane cellulari, che divengono fragili e sensibili alle aggressioni. Inoltre, per la paura dei grassi e riducendoli drasticamente nell’alimentazione, oggi rischiamo una carenza di grassi, dimenticando che alcuni sono necessari per la vita, la salute, l’equilibrio psicofisico e per la bellezza del corpo. Una carenza di grassi nella dieta, nei paesi sottosviluppati avviene per mancanza d’alimenti e, nei paesi industrializzati, per l’uso di cibi troppo purificati o di diete squilibrate ed uniformi. Per un buono stato di salute ogni giorno un uomo adulto deve assumere almeno dieci grammi d’acido linoleico, due grammi d’acido alfa-linolenico e quantità ancora non ben definite d’acido arachidonico e d’acido cervonico. Rischiano una carenza di acidi grassi essenziali coloro che seguono una dieta, carnivorana, vegetariana o vegana, con poco olio o grasso, o soltanto di un unico tipo, e soprattutto coloro che non privilegiano alimenti animali e vegetali contenenti grassi strutturati. Le carni magre contengono acidi grassi essenziali di tipo insaturo molto utili per una corretta alimentazione e in questi ultimi tempi vi è stata anche un’evoluzione favorevole di molte carni, tra le quali quella di maiale, per quanto riguarda l’acido oleico e l’acido linoleico. Anche degli acidi grassi insaturi non bisogna abusare, ed un’alimentazione ricca d’acido linoleico favorisce la formazione di calcoli biliari ed altri disturbi. Anche per i grassi vale il concetto dell’equilibrio alimentare e del est modus in rebus.
Rischi e virtù dei grassi Tutti i grassi al tempo stesso sono buoni e cattivi. O, meglio, sono ben o mal usati. Un grasso è spesso cattivo in quanto mal usato perché in eccesso rispetto al fabbisogno energetico. Nell’uomo paleolitico e nell’uomo agricoltore era difficile avere un eccesso di grassi. Il tipo di vita attiva, con forte lavoro muscolare, ammetteva una sostanziosa quantità d’acidi grassi saturi, senza alcun significativo inconveniente. Con un’alimentazione in gran prevalenza basata su grassi strutturali era difficile avere squilibri da eccessi di grassi. Da quando abbiamo a disposizione i 181
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Capitolo II
Quando i grassi diventano un pericolo I grassi possono diventare pericolosi in diverse condizioni: presenza di composti chimici indesiderati, cattiva conservazione ed uso non corretto. Soprattutto oggi è necessaria una strategia alimentare dei grassi. Quale grasso usare nella alimentazione? A parte le spinte pubblicitarie, in base alle quali ogni categoria di produttori vorrebbe che fosse utilizzato soltanto o prevalentemente il suo grasso od olio (strutto, olio di oliva o di mais ecc.), vi sono alcune regole che devono essere seguite per una sana alimentazione. 1 - In una dieta equilibrata sono da privilegiare i grassi strutturali, di tipo animale e vegetale. 2 - Limitare l’uso dei grassi accumulati negli organi d’animali, in particolare nelle frattaglie (ad esempio fegato, rognoni ecc.). 3 - I grassi od oli, anche se genuini e naturali, devono essere aggiunti alla dieta in quantità opportune e non eccessive, integrando quelli strutturali senza sostituirli. 4 - Privilegiare un uso crudo degli oli ed usare preferibilmente quelli ricchi di acidi grassi insaturi ed essenziali.
un quarto ad un terzo dell’energia alimentare. La voglia di grasso trova un preciso riferimento ed un potenziamento nell’imprinting alimentare. Il colostro prima ed il latte poi, di cui si nutre il neonato, sono il principale alimento umano nei primi tre, quattro anni di vita. Entrambi gli alimenti sono ricchi di grassi. Soprattutto nel passato il grasso alimentare era di tipo animale. Solo recentemente il grasso vegetale è comparso nell’alimentazione umana. In un’analisi evoluzionista darwiniana, i grassi della carne sono stati esaminati da Eaton e coll. (1998) che hanno studiato l’introduzione alimentare d’acidi grassi polinsaturi a lunga catena nella dieta paleolitica umana. Broadhurst (1997) ha considerato l’uso alimentare bilanciato dei trigliceridi naturali sotto la prospettiva nutrizionale ed evoluzionista. In quest’ultima prospettiva, gli alimenti naturali contengono una gran varietà di grassi strutturali, di tipo polinsaturo, monoinsaturo e saturo e quindi è difficile giustificare un’alimentazione che non contenga un’equilibrata miscela di trigliceridi e di fosfolipidi. Nessun grasso naturale è intrinsecamente buono o cattivo, ma può diventarlo la loro proporzione od associazione. Da un punto di vista evoluzionista bisogna raccomandare una grande varietà di grassi, sotto il profilo della loro struttura, grado di saturazione, lunghezza delle catene. Gran parte delle patologie connesse allo squilibrio tra grassi polinsaturi del tipo n-3/ n/6 sono dovuti all’uso dei cereali in alimentazione umana e degli animali produttori d’alimenti per l’uomo, mentre i processi di raffinazione degli alimenti n’amplificano le conseguenze. Altrettanto importanti sono i processi di lavorazione e di raffinazione, in quanto numerosi composti fitochimici naturali; presenti negli oli non raffinati e vegetali oleosi, svolgono un’importante protezione contro la perossidazione dei grassi e malattie croniche. La voglia di grasso, soprattutto quello animale, anche se ricco d’acidi grassi saturi e di
Grassi e nutrizione darwiniana Un’irresistibile voglia di grasso è profondamente iscritta nel comportamento alimentare dell’uomo. Nella sua alimentazione naturale e durante il 99% della sua presenza sulla terra, l’uomo ha cercato ed apprezzato ogni alimento contenente quantità più o meno elevate di grassi. Come sta insegnando la nutrizione evoluzionista, quest’impellente voglia di grasso, che ancora oggi tormenta tutti coloro che vogliono o debbono calare di peso o sono a dieta, dipende dallo stile di vita sviluppato dall’uomo nell’ultimo milione d’anni. Egli era un grande corridore che a piccolo trotto, con brevi spunti veloci, percorreva venti, venticinque e fino a quaranta chilometri il giorno, con una grande necessità d’energia, che solamente il grasso poteva fornire. Ancor oggi il grasso deve fornire da 182
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Grassi nell’alimentazione paleolitica ed in quell’americana od occidentale attuale (da Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Nutriente Energia (Kcal) Proteine (grammi giorno) Grassi (% energia alimentare) Colesterolo (mg giorno) Carboidrati semplici Fibra alimentare (grammi giorno)
Alimentazione paleolitica
Alimentazione occidentale
3000 200 – 250 Meno del 10% 500 Scarsi o assenti 104
2000 - 2500 (3000) 100 – 200 Più del 30 – 40% Più di 1000 Abbondanti 10-20
Grassi nell’alimentazione dell’uomo del paleolitico e dell’uomo attuale (da McKully, 2001) Nutriente
Paleolitico
Attuale
Proteine animali (a) Grassi (a) Grassi saturi (a) Fibre (grammi giorno)
33% 20 – 25% 6% 100
12 – 14% > 30% 14% 10 – 20
a) Percentuale delle calorie
Eaton S.B., Konner M., Shostak M. The paleolithic Prescription: A Program of Diet and Exercise and Design of Living. Harper & Row, New York, 1988 Eaton S.B., Eaton S.B. III, Konner, M.J. Paleolitic nutrition revisited, 1999. In Trevathan et alii, 1999 (prec. cit.) McCully K.S. Dalla “paleodieta” all’alimentazione moderna. Alimentazione e prevenzione, 1, fasc. 2, p.73, 2001 McCully K. S. The significance of wheat in the Dakota territory, human evolution, civilization, and degenerative diseases. Perspective in Biology and Medicine, 44, 52-61, 2001
colesterolo, è adeguato ad uno stile di vita molto attiva, e gli acidi grassi saturi ed il colesterolo sono preferibilmente mobilizzati ed utilizzati nel lavoro muscolare. Una riduzione di questi componenti è necessaria per stili di vita di tipo sedentario. Bibliografia Eaton S.B. What did our late palaeolithic (preagricultural) ancestors eat? Nutr. Rev., 48, 227-230, 1990
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Bioritmi alimentari: mangiare secondo natura
sto, vuol sostenere che per ogni alimento esiste un tempo giusto ed un tempo sbagliato e quindi anche una cronodietetica (da crono o tempo e dietetica o alimentazione) secondo la quale un’alimentazione corretta non può trascurare il tempo: ora della giornata e stagione. È facile riconoscere che il nostro organismo non è lo stesso il mattino e la sera, in primavera od in autunno. Su questa base sono state studiate le differenze che vi sono nelle costanti fisiologiche (cronofisiologia), le malattie e le intossicazioni (cronopatologia e cronotossicologia), le terapie (cronofarmacologia) ed è facile intuire che una buon’alimentazione debba tenere presente queste differenze, attraverso la cronodietetica. L’uomo primitivo ed i suoi antenati, per qualche milione d’anni e come gli animali selvatici, cercavano gli alimenti di cui si cibavano secondo impulsi interni e quindi diversamente il mattino dalla sera e nelle singole stagioni, a parte che anche con queste variavano gli alimenti disponibili. Con l’avvento della vita sedentaria ed un’alimentazione basata sull’agricoltura e l’allevamento, si è consolidata una serie di regole, nel loro insieme inquadrate in una cronodietetica tradizionale. Una precisa scansione dei cibi nelle diverse stagioni ed ore del giorno, oggi trova chiare basi scientifiche riguardanti l’attività del Sistema Ormonale e del Sistema Nervoso Autonomo. Per quel che riguarda i ritmi giornalieri e la distribuzione nelle ventiquattro ore degli alimenti (cronodietetica) sono da ricordare le seguenti particolarità. I ritmi biologici sui quali si basa la cronodietetica hanno una certa variabilità, che deriva da caratteri costituzionali in buona parte genetici, ma anche acquisiti. Come spiegheremo meglio tra un attimo, con maggiore o minore intensità ogni persona appartiene alle allodole (tipo mattutino) od ai gufi (tipo notturno). Le “persone allodole” si svegliano presto e la sera sono quasi esaurite. Hanno un bioritmo anticipato e di mattino la loro attività digestiva - alimentare si avvicina già
La vita e l’alimentazione si sono evolute in rapporto al ritmo del giorno e delle stagioni, che un tempo guidavano le migrazioni e poi hanno determinato le attività agricole e l’allevamento del bestiame. L’attuale mancanza di un’alimentazione ritmata ed ancor più la scomparsa di stili alimentari capaci di modulare i bioritmi umani geneticamente preparati, sembra essere alla base di turbe nutrizionali e di disturbi funzionali. Cronodietetica Un aspetto della diversificazione alimentare concerne il rapporto che esiste tra i cibi ed i ritmi biologici (o bioritmi), che modulano gran parte delle attività umane, compresa l’alimentazione, la nutrizione e soprattutto il metabolismo. Un insieme di rapporti non ancora completamente definiti, ad iniziare dall’identificazione del primum movens. Prevalente è l’opinione che sono i bioritmi a determinare le attività alimentari, ma recentemente ed in conformità a lunghe osservazioni eseguite su persone sottoposte ad alimentazione parenterale, sta avanzando l’idea che è invece l’alimentazione uno dei principali induttori, modulatori e sincronizzatori dei bioritmi. Questo spiega come l’aumento del numero dei pasti, fino alla snackerizzazione dell’alimentazione avvenuta nella seconda metà del ventesimo secolo, abbia favorito una maggiore statura della popolazione umana, incrementando la produzione del somatotropo, l’ormone della crescita, che è di tipo pulsatile. Indubbia è in ogni modo l’importanza di un corretto inserimento di un’alimentazione nei tempi giusti, e quindi di una cronodietetica. “Ci sta come i cavoli a merenda” significa una cosa fuori posto. Già, ma perché i cavoli non vanno bene per la merenda nel pomeriggio? Accettare questo, e vedremo che è giu184
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a quella del mezzogiorno e pertanto possono fare una prima colazione sostenuta. Alla sera invece devono fare una cena leggera. Le “persone gufi” il mattino si svegliano tardi, mentre la sera non andrebbero mai a letto. Hanno un bioritmo posticipato, con attività digestive - alimentari spostate. Al mattino la digestione e l’utilizzazione degli alimenti è simile a quelle della notte. La prima colazione deve essere leggera e soprattutto stimolante: un solo caffè od un cappuccino con brioche. Alla sera la cena può essere più consistente. Per una vita migliore ed una sana alimentazione, ognuno dovrebbe riconoscere a che tipo appartiene, anche per adattare al meglio la sua dieta, in una cronodietetica individuale. L’effetto dei singoli alimenti è in rapporto agli equilibri neuro-ormonali dei diversi periodi della giornata. Di conseguenza varia la digeribilità, la “pesantezza degli alimenti” e le conseguenze metaboliche. La pesantezza degli alimenti cresce quando la durata della digestione aumenta, anche perché non sono presi nell’ora nella quale, in condizioni di completa normalità, vi è la massima efficienza digestiva. Soprattutto alla sera molti cibi sono pesanti perché è l’organismo che ha una minore capacità digestiva e sono pertanto da evitare o da assumere in quantità limitate. Secondo il bioritmo esistono anche ore “ingrassanti” e “dimagranti”. Le ore ingrassanti sono quelle della seconda metà della giornata (sera, notte) quando predomina l’attività anabolizzante dell’ormone somatotropo ed è bassa l’attività catabolica degli ormoni glicocorticoidi. In questo momento della giornata l’organismo ha maggiore tendenza a trasformare gli alimenti in grasso ed a depositarlo. Bisogna quindi evitare amidi e grassi, se non si vuole ingrassare. In queste ore, non è bene mangiare alimenti con attività antitiroidea (ad esempio i cavoli), che deprimerebbero ulteriormente una già bassa azione della tiroide: per questo niente cavoli a merenda. Le ore dimagranti,
durante le quali si ha una minore tendenza a depositare l’energia come grasso soprattutto sottocutaneo, sono quelle della prima metà della giornata: dal mattino fino all’inizio del pomeriggio. Chi è a dieta deve, soprattutto a mezzogiorno non deve abusare dei grassi. Questi, infatti, hanno sempre una digestione lenta di quattro ed anche sei ore e quindi, anche se ingeriti tra le tredici e le quattordici, arrivano facilmente alle ore della sera, ingrassanti. Quanto esposto, non deve far dimenticare l’importanza della dieta nel suo complesso. Una distribuzione modulata degli alimenti nell’arco della giornata può indubbiamente favorire l’utilizzazione di una buona dieta e contribuire ad un elevato benessere, ma non può correggere errori dietetici globali. La cronodietetica deve essere inoltre utilizzata per gli aspetti positivi e cioè per migliorare la nutrizione, non per gli aspetti negativi. Un’alterata distribuzione degli amidi a rapida digestione ed una loro concentrazione nel pomeriggio, quando vi è una minore attività insulinica, può ad esempio favorire un diabete della sera. La cronodietetica, pur seguendo schemi generali, subisce importanti modulazioni, che ciascuno deve imparare a riconoscere, per giungere ad applicazioni personali. Pur non escludendo che, attraverso l’abitudine, anche i bioritmi possano modificarsi e spostarsi, non bisogna dimenticare i danni che vi sono nel nutrirsi nelle ore che non coincidono con quelle dell’orologio interno e che quindi sono da considerare vere e proprie “ore sbagliate”. La vita regolata dal tempo, dal ciclo solare e lunare Le migrazioni umane erano regolate dalle stagioni. Non molto sappiamo di queste migrazioni antichissime, alcune delle quali hanno lasciato tracce nelle transumanze delle greggi. Molto di più sappiamo dei ritmi delle attività agricole e, di conseguenza, di quelli dell’alimentazione tradizionale. Se vi era un’alimentazione stagionale, non dipen185
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Capitolo II
deva soltanto dal clima, ma anche dallo stile di vita che variava con le stagioni. Qual è l’attuale situazione? Non è tanto il problema (ma è poi vero?) che le stagioni siano cambiate e non sono più quelle di una volta. Il problema vero è che ora viviamo quasi allo stesso modo d’inverno o d’estate. Stili di vita uniformi richiedono un’alimentazione uniforme, facendo scomparire la necessità di un’alimentazione stagionale. O almeno così potrebbe sembrare. Una vita sempre uguale ed un’alimentazione uniforme, a parte la noia, rischiano di produrre inconvenienti. Un sia pure minino errore alimentare può lentamente accumularsi e dare origine ad inconvenienti. Questo non avviene con un’alimentazione continuamente variata, nella quale eccessi e squilibri momentanei si equilibrano con quelli precedenti o successivi. In modo analogo, i continui cambiamenti inducono l’organismo a reagire e ad adattarsi in una specie di ginnastica alimentare, utile e salutare.
un’alimentazione come quella dei costruttori di cattedrali o come quella dei contadini che all’inizio di questo secolo lavoravano sodo nei campi. Un’alimentazione che era ricca d’energia, senza provocare pericolosi depositi, ad esempio di colesterolo. L’alimentazione deve essere equilibrata per quanto riguarda la quantità d’energia (calorie), in rapporto al proprio peso reale ed a quello che si vuole raggiungere. Ogni stagione deve quindi avere il suo tipo d’alimentazione. Ogni alimentazione, inoltre, esige una cucina e ritmi alimentari adeguati. Bibliografia Connor Johnson B. Nutrient intake as a time signal for circadian rhythm. J. Nutr. 122, 1753-1759, 1992 Natali G., Casale R., Cialente M. et alii. La cronobiologia in medicina, oggi. Rec. Progr. in Med., 72, 577-581, 1982 Violante A., Fantoli U., Palombi M. et alii. Principi di cronobiologia e prospettive d’applicazione ai problemi di nutrizione – Rec. Progr. in Med., 65, 449-466, 1978
Linee d’alimentazione stagionale moderna Nessuno oggi si sognerebbe di consigliare
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Cibo e malattie: argomenti di patologia alimentare darwiniana
Perché il cibo può farci male? Com’è possibile che le cose che piacciono sono anche vietate, fanno male od ingrassano, come ha affermato Oscar Wilde? Di fronte ai rischi da cibi si è diffuso il dubbio, oggi la certezza, che una parte delle risposte sono in noi, anzi nei nostri geni. Il cibo è uno dei tramiti del non facile ed ancora poco conosciuto rapporto tra l’ambiente ed i nostri geni ed importanti sono le trasformazioni dei cibi attraverso la cucina, inventata anche per renderli adatti ad una genetica costruita per stili di vita ancestrali e diversi dagli odierni. È anche nel nostro passato genetico che dobbiamo cercare l’origine di molti mali alimentari, in quella che è stata denominata Patologia Alimentare Darwiniana od Evoluzionista. Molto della patologia alimentare, ma anche della nostra alimentazione e nutrizione, sarà da rivedere. Alcuni capitoli sono già ben delineati, altri iniziano ad abbozzarsi.
nente le patologie create od incentivate dall’uomo, con l’alimentazione o con i suoi stili di vita.
Patologia alimentare darwiniana La medicina si occupa delle malattie e solo qualche utopista può ancora credere che le malattie siano la conseguenza soltanto della civiltà, come è pura utopia credere che le malattie scomparirebbero se si tornasse allo stato naturale o selvatico. Perché esiste la malattia? È una realtà ineliminabile? Non sono queste domande irrazionali, ma possono avere una risposta se ripetiamo ciò che disse il famoso genetista Theodosius Dobzhansky: “Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione”. La medicina darwiniana od evoluzionista si interroga sul perché l’organismo umano e la nostra società siano strutturati in modo tale da presentare fenomeni che sono o riteniamo morbosi. Il pensiero darwiniano offre la possibilità di studiare le patologie in un contesto più ampio. Inoltre è solo una medicina evoluzionista che può affrontare in modo perti-
Alla radice della rivoluzione biologica Nel magico ventennio che va dal 1859 al 1879 furono gettati i semi che, germogliati in tempi diversi, hanno rivoluzionato la biologia, la medicina e tutta la nostra vita, ma sopra tutto la nostra visione e comprensione del mondo. È per opera Charles Robert Darwin (1809-1882), Louis Pasteur (18221895) e Claude Bernard (1813-1878) che prende avvio una rivoluzione biologica, inizialmente misconosciuta, poi lenta e che oggi si sta sviluppando con un ritmo accelerato e quasi drammatico. Nel 1859 Ch. Darwin pubblicando On the origin of species cambia tutte le prospettive della biologia e, successivamente (1868), con lo studio sulle variazioni degli animali e delle piante in domestica187
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La biologia darwiniana è divenuta la base scientifica di tutta la biologia ed è sorprendente costatare come solo recentemente, salvo qualche eccezione e tentativo, la biologia darwiniana od evoluzionista cominci ad essere considerata anche la base della medicina. Lo studio dei problemi medici, sviluppati nel contesto della biologia darwiniana, prende il nome di medicina o patologia darwiniana. Gran parte della ricerca medica è stata e continua ad essere rivolta alla ricerca delle cause delle malattie, ai sistemi di una loro diagnosi, cura e prevenzione. Questa ricerca è stata e viene sviluppata in base al pensiero pasteuriano (per le cause infettive), mentre per le altre cause e condizioni vi è stata l’applicazione del metodo sperimentale, quindi secondo il pensiero bernardiano, completato dal metodo clinico. Gli indubbi successi che sono stati e vengono ottenuti riguardano sia l’individuo (clinica individuale) che i gruppi di individui (clinica delle popolazioni). Proprio in conseguenza dei successi che sono stati ottenuti, di fronte ad un proliferare di nuove malattie, alcune volte prevedibili, come le malattie della civilizzazione od industrializzazione, ed altre imprevedibili, come le nuove infezioni o le infezioni dell’avvenire, peraltro già preconizzate, oggi diviene sempre più inquietante l’interrogativo del perché esista ancora la malattia e sopra tutto perché la medicina tradizionale non sia riuscita a sconfiggerla. Tradizionalmente la medicina affronta i problemi prendendoli come questioni contingenti e studiando i meccanismi fisiologici e patologici, come se fossero sempre esistiti come tali. La medicina darwiniana od evoluzionista si interroga invece sul perché l’organismo umano e la società umana siano strutturati in modo tale da presentare fenomeni che sono o riteniamo morbosi. Il pensiero darwiniano offre la possibilità di studiare le patologie in un contesto più ampio. Inoltre è solo una medicina evoluzionista che può af-
zione, apre nuove prospettive all’agricoltura ed allevamento del bestiame. L. Pasteur tra il 1877 ed il 1878 (ricerche sul carbonchio ematico del bestiame e sulla sepsi puerperale dell’uomo) apre insospettati, nuovi orizzonti sulle malattie infettive degli animali e dell’uomo. Cl. Bernard pubblicando l’Introduction à l ’étude de la médecine éxperimentale (1865) e La science éxperimentale (1878) rivoluziona la medicina, introducendo il metodo sperimentale. I tre “pensieri”, darwiniano, pasteuriano e bernardiano, hanno cambiato radicalmente il volto della biologia e della medicina, anche attraverso successive filiazioni. Non vi sarebbe stata infatti una genetica senza un precedente abbattimento della idea della fissità delle specie. Senza l’introduzione del metodo sperimentale non si sarebbe sviluppata la biologia molecolare. Nella medicina non vi sarebbe stato uno sviluppo certo e progressivo e non soltanto una continua e sterile diatriba su teorie o sistemi medici. Oggi stiamo assistendo ad una sempre più stretta interazione tra i pensieri darwiniano, pasteuriano e bernardiano, una interazione che sta dando una accelerazione alla rivoluzione biologica in atto e che fa sorgere nuove discipline ed al tempo stesso modifica, spesso in modo radicale, discipline già consolidate. È il caso della Patologia Nutrizionale Darwiniana od Evoluzionista. Malattie alimentari ed evoluzione biologica La medicina si occupa delle malattie e solo qualche utopista può ancora credere che le malattie siano la conseguenza soltanto della civiltà, come è pura utopia credere che le malattie scomparirebbero se si tornasse allo stato naturale o selvatico. Perché esiste la malattia? È una realtà ineliminabile? Non sono queste domande irrazionali, ma possono avere una risposta se teniamo a mente ciò che disse il famoso genetista Theodosius Dobzhansky: “Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione”. 188
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venga come meccanismo di difesa. In secondo luogo il contatto di un individuo, di una famiglia o di una popolazione con organismi più o meno estranei, siano questi un virus, un batterio od un parassita, è una costante nel mondo naturale, soggetta alla selezione di entrambe i partner del contatto, che tendono a sviluppare specifici e spesso sofisticati sistemi: prima di sopravvivenza, poi di convivenza. Attraverso una interpretazione darwiniana è possibile rendersi conto, e quindi valutare in modo corretto, come il rapporto tra l’uomo e altri organismi passi dalla simbiosi al commensalismo, poi al parassitismo più o meno innocuo, fino alla patologia conclamata. In modo analogo ed attraverso la conoscenza delle mutazioni e loro selezioni, ci si può rendere conto delle variazioni di virulenza degli agenti infettivi. Alcune circostanze ambientali, ivi compresa l’alimentazione, sono invece relativamente recenti nella storia della nostra specie, per cui la selezione darwiniana non ha avuto la possibilità d’intervenire. Altrettanto intense e rapide sono state le modificazioni che l’uomo ha portato negli alimenti, da quando ha iniziato a produrli con le tecniche agricole e d’allevamento, e con la selezione dei vegetali e degli animali. La nostra specie è il risultato di una serie di compromessi fra i benefici ed i costi di un carattere genetico, intrinseco od estrinseco. Classico è l’esempio del compromesso che vi è tra immunità organica della madre e immunità trasmessa al neonato, compromesso che è stato rotto dalla anormale riduzione del periodo d’allattamento al seno. Un approccio medico darwiniano od evoluzionista, in ambito di metodo sperimentale, porta a nuove prospettive, in particolare per gli aspetti clinici. Senza indicare tutte le applicazioni e relativi dettagli, sono utili le seguenti puntualizzazioni. Nell’ambito della specie umana, non esiste una tipologia d’individuo normale, ma solo
frontare in modo pertinente le patologie create od incentivate dall’uomo, anche con l’alimentazione od i suoi stili di vita. Categorie di malattie e medicina darwiniana Malattie, patologie, sintomi morbosi o ritenuti tali, considerati dalla medicina evoluzionista, possono essere riuniti in un relativamente piccolo numero di categorie, considerando anche le ragioni evolutive dell’esistenza di imperfezioni organiche o, meglio, di una loro non corretta correlazione con le condizioni ambientali. In primo luogo vi sono condizioni considerate spiacevoli, se non negative, come il dolore, la febbre, la tosse, il vomito che non si possono considerare vere e proprie malattie o difetti dell’organismo, anzi sono elementi positivi ed assolutamente necessari. Infatti costituiscono sofisticati e specializzati meccanismi di difesa, sviluppati e mantenuti dall’evoluzione secondo il principio dell’allarme. Un buon sistema di allarme, quindi di difesa, deve inoltre dare un segnale forte, che deve scattare già di fronte ad un pericolo di basso livello. Per questo il dolore causato da una frattura ossea deve essere intenso, per indurre la persona a rimanere immobile e permettere un consolidamento ed una guarigione. Il principio dell’allarme spesso si associa a meccanismi di difesa, come è ad esempio il caso della febbre, che per questo sono stati selezionati e non possono venire eliminati. È inoltre interessante rilevare come un esame comparato, in chiave evoluzionista permette di meglio comprendere il significato dei singoli segnali e, ad esempio, come il vomito serve ad espellere un alimento incongruo, permettendo di superare parte dei rischi tossici alimentari. Altrettanto importante è la conoscenza di come la febbre (che non è soltanto ipertermia, anche se questa, negli animali omeotermi, ne è una delle manifestazioni principali, ma non costante) si sia evoluta ad iniziare dagli animali così detti eterotermi, e di come inter189
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zione verso agenti patogeni infettivi, anche attraverso l’alimentazione e di mantenerli efficienti nel tempo (terza e quarta età). La selezione naturale tende a creare meccanismi di difesa, secondo il principio dell’allarme, manifestazioni utili per la specie ma che, in taluni casi, portano a sofferenze inutili per l’individuo. È il caso di molte reazioni dolorifiche, di alcuni sintomi di febbre ecc. La scomparsa di obiettivi ai quali erano indirizzati meccanismi di difesa specifici, derivati dalla selezione naturale, può portare a nuove patologie. È il caso delle difese antiparassitarie, incentrate sulla produzione di immunoglobuline di tipo E e di leucociti polinucleati eosinofili, che in animali senza parassiti si indirizzano ad antigeni corpuscolati o alimentari, dando origine ad allergie. La virulenza di un patogeno è una caratteristica che può aumentare o diminuire, con una velocità che è sempre superiore a quella degli organismi ospiti. I sintomi di un’infezione possono risultare utili al patogeno, all’ospite od a nessuno dei due. La malattia è un evento inevitabile in relazione al modo in cui gli organismi sono plasmati dall’evoluzione. Le epidemie moderne, come quelle del passato, sono probabilmente causate dallo squilibrio fra la costituzione fisiologica degli organismi e le caratteristiche dell’ambiente di vita. La resistenza dei microrganismi ai farmaci antimicrobici, e sopra tutto agli antibiotici, in particolare la multiresistenza, sono espressioni di una selezione naturale di fronte ad una nuova, elevata concentrazione di molecole già presenti in natura od a queste simili. La comparsa e lo sviluppo di nuove infezioni è quindi inevitabile. Per ciascuna malattia è necessario trovare una spiegazione evolutiva sul perché la nostra specie è recettiva o resistente. Solo attraverso una interpretazione evoluzionistica delle patologie e dei fenomeni morbosi è possibile ipotizzare ciò che utile o non utile alla
una biodiversità che ruota attorno ad un certo equilibrio, risultato di un lunghissimo processo evolutivo governato dalla selezione naturale. Obiettivo della medicina è di non alterare l’equilibrio ottenuto, mentre la clinica deve anche tenere presente le peculiarità dei singoli individui. Ogni popolazione umana è un insieme di compromessi, quasi sempre delicati e raggiunti con un lungo processo di selezione in condizioni diverse. Gli interventi devono tenere sempre conto dei compromessi raggiunti cercando nuovi equilibri in relazione sia della genetica che dell’ambiente, in questo comprendendo anche l’alimentazione. Fine della vita e quindi della selezione naturale è la sopravvivenza della informazione genetica (“egoismo del gene”). Con i nuovi stili di vita, l’uomo tende a sostituire il proprio “egoismo” all’”egoismo del gene”, sconvolgendo delicati equilibri ottenuti da una lunga selezione naturale. Alcuni geni che causano malattia, possono anche portare benefici. Nota è ad esempio nell’uomo la maggiore resistenza all’infezione malarica indotta dal gene della talassiemia. Alcuni geni possono causare malattie solo in seguito all’interazione con nuovi fattori ambientali o alimentari. In quest’ambito rientrano molte delle “malattie condizionate” dalla alimentazione, ambiente e stili di vita. La selezione naturale riguarda condizioni che possono essere trasmesse con la riproduzione, quindi non quelle che potrebbero manifestarsi oltre questo periodo. In questo ambito rientra ad esempio la longevità, se non associata ad altri caratteri, come sembra essere quello di una persistente normalità nel tempo del sistema immunitario. Le malattie non sono una conseguenza obbligata della selezione naturale, ma molti punti deboli che rendono vulnerabili alle malattie lo sono. Non è quindi da ritenere possibile la scomparsa delle malattie per una resistenza genetica, anche se è interessante la possibilità di elevate capacità di immunizza190
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Malattie dovute ad errori alimentari. Relazione sullo stato dei lavori nel campo della nutrizione in Europa (luglio 2003) Malattie
Fattori di rischio alimentare
Ipertensione arteriosa
Insufficiente consumo di frutta e verdura Eccessivo consumo d’alcole Eccessivo consumo di sale
Malattie cerebro- e cardio-vascolari
Insufficiente consumo di frutta e verdura Eccessivo consumo di acidi grassi saturi Consumo insufficiente di alimenti ricchi di fibre
Cancri (soprattutto colon, seno, prostata e stomaco)
Consumo insufficiente di frutta e verdura Eccessivo consumo di alcole Eccessivo consumo di sale Consumo insufficiente di alimenti ricchi di fibre Scarsa attività fisica e sovrappeso
Obesità
Eccessiva assunzione di calorie Scarsa attività fisica
Diabete tipo 2 (non insulinodipendente)
Obesità Insufficiente attività fisica
Osteoporosi
Insufficiente consumo di calcio Insufficiente introduzione o produzione di vitamina D Scarsa attività fisica
Carie dentale
Consumo frequente di carboidrati fermentabili e alimenti o bevande zuccherate
Erosione dentale
Consumo di cibi, frutta o bevande acide
Malattie da carenza di iodio
Consumo inadeguato di pesce o di alimenti iodati
Nascite premature e basso peso alla nascita
Assunzione inadeguata di sostanze nutrienti con l’alimentazione
Anemia da carenza di ferro
Assunzione di ferro carente od assente Scarso consumo di frutta, verdura e carne
Difetti di sviluppo del tubo neurale (spina bifida)
Insufficiente assunzione di acido folico (folato) Consumo insufficiente di frutta e verdura
Ridotta resistenza alle infezioni
Consumo insufficiente di frutta e verdura Insufficiente assunzione di micronutrienti Inadeguato allattamento al seno
specie (collettività) ed all’individuo, quindi intervenire nella profilassi (specie, collettività) e nella terapia (individuo).
Specifiche raccomandazioni cliniche (anche di tipo alimentare) si devono basare su studi clinici specie-specifici. La selezione mantiene 191
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una variabilità genetica, per cui le reazioni delle diverse linee genetiche ed individui possono essere differenti. Le attività cliniche, dalla diagnosi alla terapia, senza dimenticare la dietetica, devono tenere conto di questa variabilità e biodiversità. Bloccare le difese comporta costi e benefici. Le difese evolutive ed i difetti fisiologici sono due manifestazioni fondamentalmente diverse della malattia. Le difese evolutive sono selezionate dal “gene egoista” a vantaggio della sua sopravvivenza, che non sempre coincide con il vantaggio cercato dall’uomo. Gli approcci basati solo sulla teoria non hanno base scientifica e possono causare danni (dall’inefficacia al danno vero e proprio).
Bibliografia Grmek M.D. Le malattie all’alba della civiltà occidentale. Il Mulino, Bologna, 1985. Grmek M. D. Préliminaires d’une étude historique des maladies. Ann. E.S.C. 24, 1437, 1969. Lappe M. Evolutionary Medicine. Rethinking the Origins of Disease. Sierra Club Books, San Francisco USA, 1994 McNeill W.H. Plagues and Peoples. Garden City, Anchor Books, New York, 1976 Nesse R.M., Williams G.C. Why We Get Sick: The New Science of Darwinian Medicine. Time Books, New York, 1994 (Trad. italiana. Perché ci ammaliamo. Einaudi, Torino, 1999) Trevathan W.R., Smith E.O., McKenna J.J. (Eds.). Evolutionary Medicine. Oxford University Press, New York, Oxford, 1999
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meno solo umano, ma preumano e già presente negli animali. Il motivo è il vantaggio che comporta, soprattutto sulla sicurezza del cibo. Quando un animale, dopo aver assaggiato un cibo nuovo, non si sente bene, ha un ricordo che lo porta ad evitarlo una seconda volta. In talune specie animali, ad esempio nei ratti, l’individuo che non è stato bene segnala il suo malessere agli altri e l’avversione alimentare tende a divenire più o meno collettiva, stabile e trasmissibile. Nelle avversioni alimentari, uno o più alimenti, peraltro sani e perfettamente normali, suscitano reazioni di rigetto. Vi sono due grandi categorie d’avversioni alimentari: con una base organica e con un’origine culturale. Entrambe le forme, ma soprattutto le prime, sono caratterizzate da un sintomo: la nausea, alla quale, nelle forme più gravi ed intense, si associa il vomito. La nausea ed il vomito sono due importanti meccanismi di difesa: la nausea impedisce di assumere cibi non ritenuti idonei, il vomito espelle dall’organismo cibi non adatti.
MALATTIE DA CIBI PERICOLOSI ED ALIMENTAZIONE DARWINIANA Non sono rare le persone od intere popolazioni che non accettano alcuni cibi, graditi invece da altri, un fenomeno che non è esclusivo della specie umana: le avversioni alimentari hanno radici profonde che il pensiero darwiniano aiuta a comprendere. Non tutti i cibi sono adatti e non è solo colpa loro, ma dell’organismo che non ha la capacità di digerirli. Anche per questo l’uomo ha sviluppato la cottura e la fermentazione dei cibi. Oggi le allergie, soprattutto alimentari sono all’ordine del giorno, anche per un alterato rapporto tra genetica e cibo. L’agricoltura ha sviluppato cereali che, in individui geneticamente predisposti, provocano disturbi, il più importante dei quali è la celiachia, che ha un’interpretazione genetica che rivaluta la cucina tradizionale, nata assieme all’agricoltura.
Avversioni alimentari organiche Tra le più note avversioni alimentari su base organica vi sono quelle connesse a malattie dello stomaco o dell’intestino, di tipo transitorio (ad esempio un’infezione influenzale) e di tipo cronico, queste ultime anche da malattie diverse al di fuori dello stomaco ed intestino (fegato ecc.). In tutti questi casi l’organismo si difende da alimenti che non sono adatti alle sue condizioni, come cerca altri cibi adatti, attraverso il meccanismo delle fami specifiche o delle voglie alimentari. Un caso particolare nel quale avversioni alimentari con nausea e vomito si associano a fami specifiche (voglie alimentari), è l’inizio della gravidanza, quando l’organismo tende a proteggere la fase più delicata dello sviluppo embrionale ed a fornire al prodotto del concepimento nutrienti specifici. L’assunzione di un determinato cibo in concomitanza di una malattia gastrointestinale, spesso acuta,
Avversioni alimentari: quando un cibo non piace De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute, ma non sono rare le persone od intere popolazioni che non accettano alcuni cibi, graditi invece da altri, un fenomeno che non è esclusivo della specie umana. Le avversioni alimentari non sono soltanto manifestazioni estetiche, ma hanno radici profonde che l’alimentazione darwiniana aiuta a comprendere. Avversioni alimentari e l’insegnamento sociale dei topi & C. Precise osservazioni indicano che le diverse colonie di topi, ratti, ma anche di gatti e d’altre specie di mammiferi con una buona socialità, hanno alimentazioni diverse e soprattutto escludono alcuni cibi. L’avversione alimentare per cibi specifici non è un feno193
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verse, dopo aver valutato i rischi ed i benefici, è possibile intervenire con un’adeguata psicoterapia ed un’opportuna educazione alimentare. Nelle avversioni alimentari collettive di tipo culturale, è necessario valutare la reale situazione sociale ed, in genere, non è necessario intervenire, anzi sotto il profilo umano sarebbe dannoso farlo. Le avversioni alimentari dovute a specifiche molecole contenute negli alimenti (ad esempio la caffeina, che non è gradita a coloro nei quali provoca insonnia) sono considerate nel capitolo dedicato alle azioni farmacologiche degli alimenti.
può anche far collegare quel cibo alla malattia stessa. Se questo collegamento è memorizzato, può dare avvio ad un’avversione alimentare individuale di tipo culturale, nel giovane anche attraverso un imprinting alimentare. Avversioni alimentari culturali Si è già accennato come un disturbo individuale possa dare avvio ad un’avversione alimentare, tale da indurre nausea al solo odore di quell’alimento o vomito se è accidentalmente ingerito. Tutto questo avviene senza che il cibo abbia alcunché d’anormale, anzi ad altre persone sia molto gradito. In modo analogo, la prolungata e totale esclusione dall’alimentazione d’alcuni cibi, soprattutto se avviene per motivi culturali e religiosi (religioni fideistiche o laiche - ad esempio carni d’animali considerati impuri, carne di cavallo o di cane ecc.) ed in larghi strati se non in tutta una popolazione, può condurre ad un’avversione che si manifesta anche con nausea e perfino con il vomito, se accidentalmente uno di questi alimenti fosse mangiato. È in quest’ambito che è stata coniata la frase “buono da pensare, buono da mangiare”.
Avversioni alimentari e patologia alimentare darwiniana L’evoluzione biologica prima e culturale poi sono interessanti e per molti aspetti indispensabili chiavi di comprensione dei fenomeni considerati in questo capitolo. Già all’inizio sono state indicate le basi biologiche del fenomeno. Da un punto di vista pratico sono necessari due brevi considerazioni, senza dimenticare che vi sono più o meno strette relazione con le intolleranze. Quando vi è un’intolleranza è, infatti, facile si sviluppi anche un’avversione e viceversa, per il fenomeno della mancata induzione enzimatica. Da un punto di vista generale, l’introduzione in una popolazione di un nuovo cibo deve essere fatta sempre con cautela, soprattutto se è usato crudo o poco cotto. Da un punto di vista individuale, se vi è un’avversione verso un cibo, si può decidere di eliminarlo dalla dieta, oppure tentare di superare il problema con diversi interventi, sia biologici sia, soprattutto, psicologici. In ogni caso è necessario risalire alla causa.
Prevenzione delle avversioni alimentari Prima d’intervenire sulle avversioni alimentari bisogna fare una precisa diagnosi e distinguere il tipo d’avversione: se organica o culturale. Nel primo caso bisogna distinguere la malattia dai sintomi (nausea, vomito ecc.) dovuti a malattie organiche. In quest’ultimo caso è il medico che deve curare la malattia ed, entro certi limiti, rispettare il sintomo (nausea e vomito). Nell’avversione alimentare delle gravide, solo in casi particolari si devono usare farmaci, ricordando il ben noto incidente della talidomide: è invece più importante valutare l’alimentazione e correggere eventuali carenze di vegetali, vitamine ecc. Nelle avversioni alimentari culturali individuali da esperienze negative av-
Bibliografia Anonimo. Allergie e intolleranze alimentari. Alimentazione e Prevenzione, 1, 69-70, 2001 Capron A., Dessaint J.P. Chemical Immunology, June 1990
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Cibo e malattie Harris M., Ross E. Food and Evolution: Toward a Theory of Human Food Habits. Temple University Press, Philadelphia, USA, 1987 Lappe M. Evolutionary Medicine. Rethinking the Origins of Disease. Sierra Club Books, San Francisco USA, 1994 McNeill W.H. Plagues and Peoples. Garden City, Anchor Books, New York, 1976 Nesse R.M., Williams G.C. Why We Get Sick:
The New Science of Darwinian Medicine. Time Books, New York, 1994 (Trad. italiana. PerchĂŠ ci ammaliamo - Einaudi, Torino, 1999) Profet M. The function of allergy: immunological defence against toxin. Quarterly Review of Biology, 66, 23 - 1991 Trevathan W.R., Smith E.O., McKenna J.J. (Eds.). Evolutionary Medicine. Oxford University Press, New York, Oxford, 1999
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prattutto quando in una popolazione è introdotto un alimento al quale non era abituata. È il caso della soia, un cibo che le popolazioni asiatiche hanno sviluppato nel corso dei millenni e che risulta nuovo per le popolazioni umane occidentali. L’opposto è avvenuto per il latte. Sulla base dei due esempi citati, si può comprendere come le popolazioni occidentali possano manifestare un’intolleranza alla soia e quelle asiatiche al latte. La mancanza di un enzima e quindi l’intolleranza per un alimento, almeno in un quadro più ampio, non è sempre dannosa, come dimostra il caso del favismo, esaminato in un altro capitolo. Il problema è complesso, in quanto il meccanismo genetico si completa con quello dell’induzione enzimatica. Vale a dire che un certo tipo d’alimento può manifestare la capacità di far esprimere o di mantenere nel tempo la produzione di un enzima digestivo. L’uomo, diversamente dagli animali, è riuscito ad ampliare la sua alimentazione non soltanto modificando la sua biologia (selezione naturale), ma modificando il cibo, con l’intervento culturale della cucina ed utilizzando la cottura e la fermentazione degli alimenti.
Intolleranze alimentari: quando si rompe un equilibrio tra geni e cibo Non tutti i cibi sono adatti, ma oggi ci si sta accorgendo che non è solo colpa loro, ma anche dell’organismo che non ha la capacità di digerirli. Per questo l’uomo, quando con l’agricoltura ha sviluppato la produzione di taluni alimenti, ha inventato la cucina con la cottura e le fermentazione dei cibi. Enzimi sulla via del cibo Salvo alcuni casi particolari, il cibo non è un dono, ma deve essere conquistato. L’erba non cresce per essere mangiata dalla gazzella e questa non si è sviluppata per essere cibo del leone. Anzi ogni specie si difende per non diventare preda e cibo di un’altra. Sulla stessa linea, ogni specie ed ogni individuo devono sviluppare sistemi specifici per superare le difese di chi non “vuole” diventare cibo, e deve trasformare il cibo in nutriente. Per questo tutti i cibi devono essere digeriti, attraverso una serie d’interventi di diverso tipo ed in particolare con l’uso d’enzimi digestivi. Si calcola che l’organismo umano sia dotato di circa duemila enzimi digestivi, ai quali si devono aggiungere gli enzimi dei batteri presenti nel suo intestino. Con questi enzimi gran parte del cibo è scisso nei suoi elementi fondamentali (aminoacidi, zuccheri semplici, acidi grassi e glicerina, acidi grassi volatili ecc.) che sono assimilabili ed utilizzati dall’organismo. Il corredo enzimatico digestivo è l’espressione di una lunghissima storia biologica di selezione e d’adattamento tra la genetica e l’alimentazione, con la finalità di adeguare la prima alla seconda. La storia biologica si è sviluppata con la selezione naturale, ma anche con modulazioni locali. Se una popolazione si è sviluppata in un’area nella quale era abbondante un certo tipo di vegetali, è risuscita a selezionare enzimi adatti a digerire tali alimenti. Nell’ambito della specie umana vi sono quindi delle inevitabili variazioni, che si manifestano so-
Digestione ed intolleranze alimentari Non bisogna confondere le intolleranze alimentari con le allergie alimentari (oltre esaminate). Tuttavia è stata una migliore conoscenza delle seconde che ha portato all’individuazione ed alla migliore comprensione delle prime. Di conseguenza i casi d’intolleranza alimentare sono aumentati di frequenza e gravità, in modo quasi spettacolare. Una situazione che può avere una corretta interpretazione solo in un quadro d’alimentazione evoluzionista. Infatti, dipende dalla mancata correlazione tra l’alimento da una parte, e le capacità e possibilità digestive dall’altra che, in buona parte, sono o possono essere determinate dal patrimonio genetico. Oltre alle allergie alimentari propriamente dette, dobbiamo distinguere diverse catego196
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rie di fenomeni: intolleranze alimentari, avversioni alimentari (esaminate nel precedente capitolo) ed azioni farmacologiche di tipo istaminico d’alcuni alimenti. Le intolleranze alimentari sono dovute ad un’insufficiente digestione degli alimenti, eventuale successiva loro fermentazione, con accelerato transito nell’apparato digestivo ed espulsione di feci in quantità anormale e spesso alterate. Gli alimenti, per trasformarsi in nutrienti e quindi essere correttamente utilizzati, sono sottoposti ad una serie di processi: a) meccanici (masticazione ecc.), b) chimici da parte degli acidi e degli alcali dello stomaco ed intestino, c) ma soprattutto da parte d’enzimi, che scindono gli alimenti complessi in molecole molto semplici (glucosio, aminoacidi, acidi grassi e glicerolo, ecc.). Se uno o più alimenti non sono digeriti, già nel primo tratto dell’intestino (intestino tenue), ma soprattutto nel secondo tratto dell’apparato digerente (grosso intestino) possono andare incontro a fermentazione da parte dei batteri intestinali. In conseguenza all’anomala presenza d’alimenti non digeriti e fermentati dai batteri intestinali, possono conseguire alterazioni nella normale flora microbica intestinale. La fermentazione del cibo indigerito da parte dei batteri intestinali, porta alla liberazione di prodotti intermedi “tossici” (istamina, bradichinina, prostaglandine, peptidi intestinali vasoattivi, ammine biogene quali putrescina, cadaverina, oltre a composti di derivazione aminoacidica quali l’indacano ecc.). Gli enzimi digestivi permettono all’uomo di nutrirsi di molti cibi, ma non di tutti. Ad esempio l’uomo non può digerire la chitina presente nei funghi e negli insetti, la lignina, la cellulosa e molti composti vegetali degli zuccheri. Vi sono inoltre degli enzimi digestivi che durante la vita permangono attraverso il meccanismo dell’induzione enzimatica soltanto se, per il tipo d’alimentazione, sono utilizzati, altrimenti sono perduti. Questo è ad esempio il caso della lattasi, en-
zima che permette di digerire il lattosio, zucchero specifico del latte. La perdita della capacità di produrre enzimi digestivi specifici può avvenire anche in seguito a malattie intestinali. Intolleranze alimentari da carenze enzimatiche Sono particolarmente interessanti alcune intolleranze alimentari per mancanza d’enzimi digestivi specifici e tra queste l’intolleranza al latte (lattosio), al glutine ed a taluni zuccheri complessi. Intolleranza al latte - Nonostante tutte le sue importanti attività, nella specie umana, come in altre specie, esiste un’intolleranza al latte, in particolare al lattosio, che dipende da un’insufficiente quantità o dall’assenza nell’intestino di un enzima, la lattasi. Il latte, quale alimento, è stato esaminato nel precedente Capitolo II. Per quanto riguarda l’intolleranza al latte qui è utile ricordare come la lattasi, un enzima intestinale, scinde il lattosio del latte in glucosio e galattosio: due zuccheri semplici, che possono essere assorbiti dall’intestino. Se questo non avviene, il lattosio richiama acqua ed aumenta il contenuto intestinale; inoltre è fermentato dai batteri del grosso intestino, con la produzione d’acido lattico, molto irritante. Ne conseguono gonfiori intestinali ed una diarrea acida, tipica dell’intolleranza. Come si era già detto, l’enzima lattasi è, di norma, presente nell’intestino del feto (a partire dalla ventitreesima settimana) ed ha la sua massima concentrazione nel neonato e nel bambino allattato. Successivamente, a partire dal sesto mese di vita, l’enzima diminuisce per raggiungere, nell’adulto, valori di circa un decimo dell’attività enzimatica del neonato, potendo anche scomparire completamente. Quando manca la lattasi si ha intolleranza al latte che contiene lattosio (non ai latticini, che ne sono privi). L’intolleranza al lattosio può essere primaria o secondaria. Nella intolleranza primaria, l’assenza della lattasi in ogni fase della vita (anche fetale e 197
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grano. Nelle persone intolleranti al glutine compare il Morbo Celiaco o Celiachia, considerato in un successivo capitolo. Intolleranza a taluni zuccheri complessi. In molte frutta sono presenti zuccheri complessi, ad esempio il sorbitolo, che non sono digeriti per mancanza d’enzimi specifici e pertanto, come avviene per il lattosio del latte, arrivati nel grosso intestino sono fermentati, dando origine a prodotti di fermentazione che, per essere eliminati, causano motilità intestinali e modica diarrea. È il caso ad esempio delle prugne che possono servire, nelle persone intolleranti ai loro zuccheri, da lassativo.
neonatale) ha un’origine genetica ed è molto rara. Un rapido declino post-neonatale della lattasi ed una sua completa scomparsa ha un’origine genetica, che sembra collegata a due alleli, posti sul cromosoma 2. L’allele è recessivo e gli omozigoti sono privi di lattasi. Per questo, in una popolazione, esiste una buona correlazione tra la frequenza dell’allele e la percentuale di persone intolleranti al latte. Alcuni ricercatori suggeriscono anche l’esistenza di due fenotipi, per la carenza totale o parziale della lattasi negli adulti: assenza dell’enzima lattasi o sua espressione a mosaico (Maiuri e Raia, 1991; Maiuri e Rossi, 1994). Nell’adulto, la mancanza di lattasi su base genetica, è denominata alactasia, e non può essere “ricuperata” con una “rieducazione” alimentare, sfruttando il meccanismo dell’induzione enzimatica. L’alactasia ha un’incidenza molto diversa nelle popolazioni umane: si passa dal 3% in Svezia e Danimarca, al 100% in Giappone e molte aree dell’Asia e Africa. In Italia, con differenze tra settentrione e meridione, l’alactasia è presente nel 40% della popolazione. Queste diverse percentuali sono da interpretare secondo l’evoluzione della nostra specie. La genetica che corrisponde all’alactasia, con il 100% d’intolleranza al latte nell’età adulta, è da ritenere “primitiva”. Invece la variante “persistenza della lattasi”, che determina la tolleranza al latte, è da ritenere conseguenza della selezione di una mutazione. Questa selezione sarebbe stata possibile od agevolata dall’alimentazione con latti fermentati, nei quali i batteri lattici, ed in particolare lo Streptococcus termophilus, elaborano l’enzima mancante. Nella intolleranza secondaria, la perdita dell’enzima lattasi è secondaria a patologie intestinali di diverso tipo e l’enzima può essere “ricuperato” con opportuna rieducazione alimentare. Intolleranza al glutine. Il glutine è una proteina contenuta nel frumento ed altre graminacee, quindi nel pane e nella pasta ed in tutti gli altri alimenti preparati con farina di
Prevenzione delle intolleranze alimentari e patologia alimentare darwniniana Non esiste un sicuro ed efficace trattamento specifico delle intolleranze alimentari da carenze enzimatiche. Dopo una precisa diagnosi è possibile tentare una rieducazione attraverso la somministrazione continua di piccole quantità dell’alimento, sperando nella ripresa di produzione dell’enzima attraverso il meccanismo della citata induzione enzimatica. Una volta individuata la malattia, il sistema migliore è di sostituire l’alimento o gli alimenti incriminati con altri tollerati. Ad esempio il latte può essere sostituito con latte delattosato, latte fermentato, formaggi. Il glutine può essere evitato sostituendo gli alimenti preparati con farine di cereali, con riso, patate ecc. L’evoluzione biologica e culturale sono un’interessante e per molti aspetti indispensabile chiave di comprensione dei fenomeni considerati in questo capitolo. Per quanto riguarda le intolleranze enzimatiche, già all’inizio sono state considerate le basi biologiche del fenomeno. Da un punto di vista pratico sono necessarie alcune considerazioni. In un quadro generale, l’introduzione in una popolazione di un nuovo cibo, deve essere fatta sempre con cautela, soprattutto se è usato crudo o poco cotto. Molti indizi fanno ritenere che la 198
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Differenze tra allergia ed intolleranza al latte Latte
Allergia
Intolleranza
Fattore scatenante
Proteine
Lattosio
Respiratori Cutanei Gastrointestinali
Gastrointestinali
Sintomi
Capron A., Dessaint J.P.Chemical Immunology, giugno 1990 Harris M., Ross E. Food and Evolution: Toward a Theory of Human Food Habits. Temple University Press, Philadelphia, USA,1987 Johnson J.D., Simoons F.J., Hurwitz R. et alii. Lactose malabsorption among the Pima indians of Arizona. Gastroenterol., 73, 1299-1304, 1977 Johnson J.D., Simoons F.J., Hurwitz R. et alii. Lactose malabsorption among adult Indians of the Great Basin and American Southwest. Am. J. Clin. Nutr., 31, 381-387, 1978 Lappe M. Evolutionary Medicine. Rethinking the Origins of Disease. Sierra Club Books, San Francisco USA, 1994 McNeill W.H. Plagues and Peoples. Garden City, Anchor Books, New York, 1976 Nesse R.M., Williams G.C. Why We Get Sick: The New Science of Darwinian Medicine. Time Books, New York, 1994 (Trad. italiana. Perché ci ammaliamo - Einaudi, Torino, 1999) Profet M. The funcion of allergy: immunological defense against toxin. Quarterly Review of Biology, 66, 23 – 1991 Saragosa A. Digerire il latte: una questione di geni. L’intolleranza al lattosio viene dalla preistoria. Le Scienze, 2002 (p. 27) Trevathan W.R., Smith E.O., McKenna J.J. (Eds.). Evolutionary Medicine. Oxford University Press, New York, Oxford
cucina, come cottura degli alimenti o loro fermentazione, sia stata inventata dall’umanità per evitare od attenuare le intolleranze alimentari. Infatti, i trattamenti con il calore ed i processi fermentativi (ad esempio la lievitazione del pane, la produzione di latti acidi, la stagionatura dei formaggi e delle carni) comporta una modificazione del cibo che può renderlo tollerabile. Da un punto di vista individuale, se vi è un’accertata intolleranza verso un cibo, si può decidere di eliminarlo dalla dieta, oppure di tentare di superare il problema con diversi interventi. Si possono compiere trattamenti sul cibo (cottura, fermentazione ecc.) e per questo la soia bollita ed il latte fermentato sono tollerati rispettivamente dai popoli occidentali ed orientali. Si può anche tentare la citata strada di una rieducazione enzimatica, attraverso il meccanismo dell’induzione enzimatica. Non raramente il sistema funziona. Bibliografia Anonimo. Allergie e intolleranze alimentari. Alimentazione e Prevenzione, 1, 69-70, 2001 Anonimo. Allergie, trovato il gene dell’intolleranza al latte. La Repubblica, 15 gennaio 2002 (p. 24)
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Allergie alimentari: conseguenze della scomparsa dei parassiti Un tempo rare e sconosciute, le allergie, soprattutto quelle alimentari, sono oggi all’ordine del giorno. L’aumento delle allergie sembra trovare una duplice origine: genetica umana che non si trova più a contrastare il naturale ambiente parassitario e cambiamenti nel modo di trattare i cibi. Nelle allergie alimentari, il rapporto tra genetica e cibo assume aspetti evolutivi particolarmente interessanti, anche in una prospettiva di prevenzione. Allergia, insidie di una denominazione generica Le reazioni avverse agli alimenti possono essere classificate in eventi tossici ed eventi non tossici. Nella prima categoria sono incluse le reazioni che coinvolgono tutta la popolazione, ad esempio l’avvelenamento da funghi. Nella seconda sono raggruppati eventi che riguardano parte della popolazione, i cosiddetti gruppi a rischio. Le allergie rientrano tra gli eventi non tossici che colpiscono un sempre più ampio gruppo a rischio. È indubbio che assistiamo ad un incremento, o per lo meno dedichiamo una maggiore attenzione alle allergie alimentari. Non è certamente un caso, quindi, che già nel 1995 l’Unione Europea aveva deciso di monitorare gli alimenti, gli ingredienti e gli additivi che più frequentemente possono provocare allergie, finanziando l’European Food Intollerance Databanks Project, in altre parole l’istituzione di una banca dati in ogni paese europeo. Le allergie, “invenzione” recente Le allergie e l’anafilassi sono l’espressione di processi immunitari nei quali una sostanza ha il ruolo d’antigene, verso il quale l’organismo elabora degli anticorpi. Dalla reazione tra l’antigene e gli anticorpi derivano reazioni avverse. Quando sono iniziate le allergie umane? Una domanda a prima vista impropria, se non
sconcertante, ma non tanto. Nel 1873, nella prima descrizione della febbre da fieno, una delle più comuni malattie allergiche - come riferisce Bonini (2001) - il medico britannico Charles Blackley scriveva: “La febbre da fieno deve essere considerata una malattia dell’aristocrazia. Non vi è dubbio, infatti, che se la malattia non è del tutto confinata alle classi superiori della società, essa è ben rara, se non del tutto sconosciuta, tra gli incolti. Il Dr. Phoebus e altri riferiscono di casi che si sono verificati nella classe lavoratrice. Nella mia esperienza, non ne ho mai visto uno, e neppure sono venuto a conoscenza.” Bisogna quindi ritenere che la febbre da fieno, una malattia allergica da pollini, analogamente ad altre allergie, sia andata incontro in quest ’ultimo secolo ad una patomorfosi, assumendo un carattere epidemico in ogni strato sociale, gruppo etnico e fascia d’età. I dati epidemiologici e socioeconomici mettono in evidenza una stretta correlazione tra la prevalenza delle allergie e lo stato di benessere e l’alto livello igienico di una popolazione. Nell’Unione Europea studi epidemiologici indicano che asma, rinite e congiuntivite allergica colpiscono dal 15 al 30 per cento della popolazione. In Scozia le allergie negli scolari sono quadruplicate dal 1964 al 1989, ed in Svizzera l’incremento negli ultimi 66 anni è stato di circa 12 volte. Oggi negli USA circa il 20% della popolazione è allergico e la percentuale è aumentata del 75% dal 1890 al 1994. Le allergie alimentari L’allergia alimentare è una reazione avversa agli alimenti, mediata dal sistema immunitario. Nelle intolleranze alimentari, alle quali è dedicato un altro capitolo, sono coinvolti meccanismi patogenetici diversi dall’allergia (carenze enzimatiche, recettoriali ecc.). L’allergia alimentare è un fenomeno abbastanza complesso, che riconosce anche una predisposizione familiare, e quindi una condizione genetica. I soggetti che hanno parenti allergi-
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ratorie da pollini vegetali ed allergie alimentari da vegetali delle stesse famiglie.
ci, non necessariamente agli alimenti, hanno una maggiore probabilità di sviluppare un’allergia alimentare. La prevalenza dell’allergia alimentare nella popolazione generale è molto variabile e si stima che si aggiri attorno all’1-2%, ma nei bambini raggiunge il 78%. Secondo altre stime le persone allergiche agli alimenti sarebbero circa il 10% della popolazione; sommando anche i casi subclinici si arriva ad una percentuale ben più alta. Nel gran capitolo dell’alimentazione e nutrizione, le allergie alimentari sono inoltre in continuo aumento, come frequenza e gravità. Nei casi conclamati, dopo aver mangiato l’alimento incriminato, i sintomi più frequenti sono il vomito, la diarrea, l’orticaria, l’asma, i gonfiori, i crampi, i pruriti sulla pelle. Nei casi meno gravi e certamente più frequenti i sintomi sono attenuati, transitori od occasionali, non sempre di facile individuazione.
Allergie e patologia alimentare darwiniana L’aumento delle allergie, soprattutto alimentari, deve essere considerato in una prospettiva evoluzionista. L’allergia, in una prospettiva evoluzionista, è da considerare parte di un importante meccanismo di difesa verso infezioni, soprattutto parassitarie, ma anche da tossine, perché è una reazione di “rigetto” e di “espulsione” d’agenti estranei e, quindi, potenzialmente dannosi. Classica, al riguardo, è la pubblicazione di Profet (1991) The funcion of allergy: immunological defense against toxin. Per quanto riguarda le allergie alimentari e come complemento a quanto sopra detto, bisogna fare le seguenti osservazioni. Modificazioni nel sistema immunitario. Una correlazione inversa tra allergie e malattie infettive ha portato all’ipotesi dell’igiene, secondo la quale il miglioramento degli standard igienici comporterebbe una minore esposizione a patogeni, anche opportunisti, necessari per la maturazione del sistema immunitario. L’equazione “meno infezioni, più allergie” è una formula utile, ma semplicistica ed ovviamente deve essere approfondita ed integrata. Modificazione nello stile di vita. È possibile che nei paesi sviluppati le allergie siano la conseguenza di un mutamento nell’esposizione agli antigeni e pertanto le allergie, per dirla con George Mille Beard, potrebbero essere il prezzo del benessere e della cultura: contropartita di una fine organizzazione della società e di una vita trascorsa al chiuso e, aggiungiamo, di una protezione da infezioni ed infestioni naturali. Diminuzione o scomparsa delle infezioni da parassiti, soprattutto intestinali. È forse questa la condizione oggi di maggiore importanza nelle popolazioni umane dei paesi sviluppati. Una razionale e soddisfacente spiegazione del dilagare delle allergie si può ave-
Aumento della frequenza delle allergie alimentari L’indubbio aumento della frequenza delle allergie alimentari si ritiene dovuto ai seguenti fattori, singoli od associati. 1 - Maggiore attenzione al problema e miglioramento delle tecniche diagnostiche, non solo dell’allergia, ma anche delle sostanze allergizzanti. 2 - Modificazioni nel sistema immunitario. 3 - Cambiamenti nello stile di vita. 4 - Diminuita o scomparsa delle infezioni dai parassiti, soprattutto intestinali. 5 - Tendenza sempre più spiccata verso un’alimentazione cruda o poco cotta. 6 - Uso sempre più diffuso d’alimenti con caratteristiche allergizzanti: tipico l’esempio dei crostacei e di molluschi, in particolare di quelli esotici (oloturie, ecc.) una volta cibi limitati a pochissime persone. 7 - Introduzione nell’alimentazione di massa di cibi esotici (ad es. il kiwi). 8 - Sviluppo d’interazioni tra allergie respi201
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spiega anche come un tempo le allergie fossero quasi sconosciute e che si siano manifestate prima nell’aristocrazia e nelle classi superiori, con maggiori livelli igienici, come prima segnalato. Dobbiamo tornare ai parassiti? Certamente no, ma l’interpretazione evoluzionista del rapporto tra il sistema immunitario, i parassiti e le allergie insegna almeno due cose. La prima, è che sarà ben difficile, nell’uomo senza parassiti, eliminare tutti gli allergeni. Il problema, infatti, non sta in questi, ma nel sistema immunitario rimasto privo dei suoi naturali bersagli e che quindi s’indirizza a bersagli similari. La seconda, è che un approccio soltanto farmacologico del problema non è sufficiente ed è auspicabile, almeno per le allergie alimentari, una migliore conoscenza dei processi digestivi e del trattamento degli alimenti. Non è, infatti, da dimenticare che per la soia ed altri semi oleaginosi le allergie sono correlate al sistema di trattamento: non compaiono nell’alimento sottoposto ad intenso trattamento termico umido, mentre sono tipiche di una blanda tostatura. In modo analogo, i trattamenti fermentativi che si basano sull’acido lattico hanno una buon’attività inattivante sugli allergeni naturali. Oltre che ad alimenti anallergici, probabilmente bisognerà rivolgere l’attenzione ad alimenti immunostimolanti, che tengano occupato il sistema immunitario, soprattutto quello che produce IgE ed eosinofili. Alimentazione cruda o poco cotta. I processi di cottura intensa e completa e le fermentazioni prolungate basate sull’acido lattico inattivano gli antigeni, che possono sensibilizzare o scatenare le allergie alimentari. Uso sempre più diffuso d’alimenti con caratteristiche allergizzanti. Tutto fa ritenere che alimenti di per sé allergizzanti fossero esorcizzati in vari metodi, attraverso riti oggi perduti. Questi alimenti erano usati, per quantità e soprattutto modificazione delle qualità, in modo da essere tollerati. Oltre alla già citata cottura, vi è l’esempio della diffu-
re considerando il fenomeno in un’ottica evoluzionista e sulla base di ricerche non più recenti, ma pur sempre valide e spesso sottaciute, perché non sembrano gradite. In modo molto schematico – gli schemi non sono la verità, ma aiutano a conoscerla – oggi il dilagare delle allergie, in un ambito di Medicina Evoluzionista deve essere interpretato come segue. Nel corso dell’evoluzione, con la comparsa degli organismi pluricellulari, si è sviluppato il parassitismo. Mentre all’inizio e nell’ambito vegetale, il rapporto tra ospite e parassita è stato regolato con mezzi meccanici e chimici, in ambito animale è stata sviluppata una regolazione che si basa prevalentemente, non esclusivamente, su reazioni di tipo immunitario. In questa linea, gli animali vertebrati hanno dato vita ad uno specifico sistema immunitario di regolazione del rapporto tra l’ospite ed il parassita. Questo sistema tra l’altro, si caratterizza con immunoglobuline specifiche (IgE) e con cellule particolari (polinucleati eosinofili). Le reazioni anafilattiche ed allergiche sono state conservate dall’evoluzione, perché utili alla difesa antiparassitaria, con reciproco vantaggio per la sopravvivenza di entrambi i partner. Improvvisamente, da un punto di vista biologico, in alcune specie vi è stata una fortissima riduzione, se non la scomparsa dei parassiti: questo è avvenuto nell’uomo dei paesi industrializzati. Il sistema immunitario oggi non trova più i naturali bersagli (parassiti), verso i quali indirizzare la propria attività e di conseguenza la dirige verso qualsiasi altra sostanza estranea, soprattutto se ha caratteristiche morfologiche simili ai parassiti. Evocative, ad esempio, sono le immagini tra loro simili delle uova dei parassiti e dei pollini vegetali. Considerando le allergie di tipo alimentare è da rilevare che si sviluppano sopra tutto in individui che non hanno più parassiti nell’intestino, quindi privi d’ospiti che, da un punto di vista biologico ed evoluzionista, sono da ritenere assolutamente “naturali”, anche se indesiderati. Questo 202
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Alimenti potenzialmente allergizzanti che secondo gli esperti dell’unione europea dovrebbero essere obbligatoriamente indicati nelle etichette degli alimenti Cereali contenenti glutine e prodotti a base di cereali contenenti glutine Crostacei e prodotti a base di crostacei Uova e prodotti a base d’uova Pesce e prodotti a base di pesce Arachidi e prodotti a base d’arachidi Soia e prodotti a base di soia Latte e prodotti a base di latte (compreso il lattosio) Noci e prodotti a base di noci Semi di sesamo e prodotti a base di semi di sesamo Solfito in concentrazioni di almeno 10 mg/kg (Causa d’intolleranza, più che d’allergia)
trattamenti capaci d’inattivare l’attività allergizzante di molti alimenti.
sione dei crostacei e di molluschi anche esotici (oloturie ecc.), una volta cibo limitato a pochissime persone. Lo stesso è avvenuto con l’introduzione di nuovi cibi vegetali, ad esempio il kiwi. Interazioni tra allergie respiratorie da pollini vegetali ed allergie alimentari da vegetali delle stesse famiglie. Una sensibilizzazione per inalazione con un polline di un certo albero da frutto, può indurre una reazione allergica da introduzione alimentare del frutto della stessa specie o di specie affine.
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Allergie alimentari nella prospettiva darwiniana Numerosissimi sono gli alimenti che in singole persone possono dare allergie. Nel successivo capitolo è considerata l’allergia al glutine dei cereali, causa della celiachia. Le allergie alimentari, analogamente ad altre spesso collegate, sono disturbi nei quali la componente genetica ha una notevole importanza: a livello di genetica umana e di qualità genetica degli alimenti. Sotto l’aspetto evoluzionista altrettanto importante è l’anomala scomparsa dei parassiti, una componente biologica da ritenere assolutamente naturale, anche se sgradita dalla nostra cultura. Inoltre, oggi nella cucina assistiamo alla riduzione, se non alla scomparsa, di molti 203
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stica e ad una migliore conoscenza della malattia da parte dei medici. La prevalenza del morbo celiaco in Italia è, in questo periodo, di circa un caso su 180 persone, pari a circa lo 0,55% della popolazione. Una percentuale solo apparentemente bassa, in quanto in Italia oltre 300.000 persone ne sono colpite. La celiachia è oggi considerata uno dei principali problemi di salute pubblica, anche perché l’80% degli individui affetti da questa malattia non ne è consapevole. Se le prolammine sono la causa prima della celiachia, non bisogna sottovalutare il ruolo che hanno la genetica, taluni fattori ambientali e l’allergia. Genetica - L’elevato tasso di concordanza tra gemelli omozigoti (più del 90%) e la prevalenza del morbo celiaco in parenti di primo grado di pazienti affetti da tale patologia (10 - 14%), testimoniano del ruolo chiave dei fattori genetici nell’insorgenza della patologia. Fattori ambientali - Nonostante il ruolo del fattore tossico su di una genetica recettiva, bisogna tenere conto d’alcuni fattori ambientali, protettivi o aggravanti. Tra i fattori protettivi vi è un prolungato allattamento al seno. Tra i fattori aggravanti è indubbio che la protratta esposizione alle prolammine è associata ad un aumentato rischio di sviluppare malattie autoimmuni e tumori. Allergia - Nella celiachia, oltre alla componente tossica primaria delle prolammine sull’intestino, è presente una componente allergica. Con ogni probabilità, le lesioni tossiche inducono un assorbimento del glutine o di sue frazioni, che provocano la sensibilizzazione allergica, soprattutto in individui predisposti.
Celiachia: intolleranza al glutine dei cereali L’agricoltura ha sviluppato la coltivazione di cereali, anche di quelli definiti tossici che, in individui geneticamente predisposti, provocano disturbi, il più importante dei quali è la celiachia. La celiachia e le sue complicanze hanno un’interpretazione genetica che rivaluta la cucina tradizionale, nata prima od assieme all’agricoltura. Celiachia La celiachia è un’intolleranza permanente al glutine o, meglio, ad una specifica classe di proteine (le prolammine) contenute in alcuni cereali cosiddetti tossici e si manifesta in individui geneticamente predisposti. I principali cereali tossici sono il frumento o grano, la segale e l’orzo. Le rispettive prolammine sono la gliadina, la secalina e l’ordeina. L’intolleranza è stata rilevata anche per l’avena. Gli ammalati di celiachia (celiaci), in seguito all’esposizione anche di piccole quantità di prolammine, sviluppano un danno più o meno marcato alla mucosa dell’intestino tenue, con disturbi a volta gravi (diarrea, dolori addominali ecc.) e conseguente alterazione dell’assorbimento dei nutrienti, con tutte le sue nefaste conseguenze (anemia, ritardato accrescimento o calo di peso, osteoporosi ecc.). I celiaci sono anche esposti a possibili complicanze: sviluppo di malattie autoimmuni, ileite ulcerativa, neoplasie dell’intestino tenue. Diversamente dalle altre intolleranze alimentari, la celiachia ha un decorso tendenzialmente cronico. Prima del 1970 i sintomi più frequenti del morbo celiaco erano diarrea, ritardo della crescita, distensione addominale e vomito. Negli anni successivi si è verificato un incremento di forme atipiche, silenti e latenti. Questo è avvenuto per la disponibilità di test sierologici con elevata specificità diagno-
Celiachia ieri, oggi e domani Nel passato la celiachia era una malattia sconosciuta e certamente poco frequente. Il lungo periodo d’allattamento (fino ai quattro anni nell’antichità, ma fino ad un anno 205
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ancora in tempi a noi vicini) era un fattore protettivo. L’elevata mortalità infantile, nella quale erano compresi gran parte dei bambini con intolleranza al glutine, non permetteva il diffondersi della predisposizione genetica. Non bisogna dimenticare che un tempo i cereali erano usati solo dopo lunghe fermentazioni acide o prolungate cotture, che più o meno completamente inattivano se non l’attività tossica, almeno quella allergenica del glutine. Ora la malattia è in aumento, in quanto sono venuti a mancare o sono diminuiti i fattori protettivi indicati e perché si è sviluppata l’abitudine di mangiare cereali con elevate percentuali di glutine poco cotti e soprattutto pasta di grano duro (ricco di glutine) al dente. Si è anche considerato il ruolo delle tecniche di produzione della pasta, passando dalle trafile di bronzo a quelle di teflon in quanto cambia anche la temperatura di estrusione ed il tempo di successivo essiccamento e quindi le modificazioni del glutine. La drastica riduzione della mortalità infantile e soprattutto di quella da disturbi intestinali, favorisce la persistenza e la diffusione dell’intolleranza genetica al glutine. Accanto a questa è da ricordare l’aumento delle allergie alimentari per la scomparsa delle parassitosi intestinali, come considerato nel precedente capitolo sulle allergie alimentari. La celiachia è quindi da considerare una malattia in progressiva espansione e da ritenere una malattia del domani. Aspetti darwiniani della celiachia Sappiamo ormai molto chiaramente che la celiachia è la conseguenza di fattori genetici e di fattori ambientali (glutine ed altre proteine di orzo e segale). Del fatto che la celiachia non sia dovuta ad un unico gene, ma a più geni diversi siamo certi, mentre non è ancora completamente spiegato perché la malattia si sviluppi in età e circostanze diverse da soggetto a soggetto. Un esame della celiachia in chiave di patolo206
gia alimentare darwiniana permette di rilevare quanto segue. La diffusione dell’agricoltura dei cereali ed il loro uso alimentare si è accompagnato ad una serie di condizioni che rendevano rara e difficile la comparsa della malattia. Le granaglie primitive avevano limitati contenuti in glutine. La selezione di frumento ricco di glutine e soprattutto del grano duro, è relativamente recente. Lo sviluppo dell’agricoltura cerealicola si è accompagnato a quello del trattamento delle granaglie e cioè di una cucina. I grani, infatti, erano mangiati soprattutto dopo essere stati tostati o fermentati per la produzione della birra, del pane o di puls lungamente bollite. Nella birra inoltre manca la quota proteica (glutine). Per la panificazione si usava il lievito acido nel quale sono presenti lieviti e lattobacilli. Questa lievitazione, basata sulla protratta azione dell’acido lattico, un buon denaturante delle proteine, inattiva le attività allergeniche e forse tossiche delle prolammine del glutine. Quando il pane era utilizzato senza lievito (pane azzimo) la cottura era spinta ed eseguita su forme sottili, come ancor oggi la pizza, gallette e la carta da musica sarda: in questo modo anche la parte interna è soggetta a cottura. Le puls, da cui il nostro termine di polenta, erano minestroni con granaglie di cereali e di leguminose sottoposte a lunga bollitura, che attenuava le attività allergeniche del glutine. La pasta di grano duro, poco cotta (al dente) è un’invenzione molto recente. I bambini erano allattati a lungo, come si è già accennato, ed i cereali entravano nell’alimentazione umana solo ad una certa età. Infine, una genetica sensibile all’azione tossica dei cereali, come già ricordato, era sistematicamente eliminata con la mortalità infantile, che riguardava in modo particolare i bambini con patologie intestinali. Come comportarsi di fronte alla celiachia? Quando la celiachia si è instaurata è necessario attuare una dieta priva di glutine. In
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quanto problema sanitario emergente, sotto il profilo preventivo sarebbe utile ripensare la nostra alimentazione e soprattutto ritardare l’introduzione dei cereali nella nutrizione infantile, privilegiando cereali con poco glutine, ben fermentati (lievitazione acida) e ben cotti. Nel campo della celiachia la ricerca si sta movendo su due fronti principali. Agire sui cereali attraverso l’ingegneria genetica per modificare il glutine, in modo da renderlo incapace d’indurre e scatenare la risposta immunologica del celiaco (quale sarà la reazione dell’opinione pubblica europea al frumento ed alla pasta OGM?). Fornire al celiaco enzimi, come l’endopeptidasi, necessari per digerire completamente il glutine e togliergli ogni attività, sia sensibilizzante, sia scatenante la reazione allergica.
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CIBO CHE FA MALE E PATOLOGIA ALIMENTARE DARWINIANA Molti alimenti vegetali hanno caratteristiche inquietanti che nel corso dell’evoluzione sono state controllate. Le tossine prodotte da funghi microscopici (micotossine) sono una delle più pericolose conseguenze della conservazione degli alimenti che l’uomo ha sviluppato con l’agricoltura. Tra gli alimenti vegetali, le leguminose sono ricche di principi attivi dotati d’azioni farmacologiche e non raramente tossiche, controllate dalla cucina. Le fave hanno dimostrato una marcata ambivalenza d’aspetti positivi e negativi, dando anche origine alla malattia nota come favismo che è interpretabile soltanto nell’ambito di un’interpretazione darwiniana della patologia. Molte infezioni che sono trasmesse dai cibi (foodborne diseases) erano di limitato significato in condizioni di vita selvatica. Verso queste, l’evoluzione non ha potuto sviluppare significativi sistemi di controllo. Veleni alimentari. Sola dosis facit venenum Molti alimenti, soprattutto vegetali, esaminati dettagliatamente e con rigore scientifico, mostrano caratteristiche inquietanti. Nel corso dell’evoluzione alimentare i rischi da alimenti naturali sono stati controllati, allo stesso modo in cui la cucina è intervenuta sui rischi da alimenti ottenuti dall’agricoltura. Naturalmente tossici Quasi tutta l’antica farmacologia ricavava le medicine dai vegetali ed ancor oggi molte sono quelle estratte o che derivano da piante. Innumerevoli sono i principi attivi nelle piante selvatiche che le culture umane usano nella loro alimentazione e che sono state scelte per la coltivazione. I principi attivi vegetali tendono a diminuire nella coltivazione e quando ci lamentiamo che la frutta colti209
vata sa di poco è perché contiene scarse quantità di composti chimici capaci di stimolare le nostre papille gustative, l’apparato digerente ed anche l’intero organismo. Anche alcune pratiche di trattamento degli alimenti come le fermentazioni (con le quali sono prodotti pane, vino e aceto, birra, yogurt e formaggi, salumi e salami ecc.), producono composti diversi, dotati di più o meno spiccate attività farmacologiche. Molti in Italia apprezzano i funghi, pur sapendo che ve ne sono di mortali; lo stesso avviene nell’estremo oriente dove il consumo del pesce è molto diffuso, anche se ve ne sono alcuni velenosissimi. Tutto sta a distinguere tra il buono ed il pericoloso! Anche i comuni alimenti contengono dei composti che ad alte dosi, non raggiungibili in una normale alimentazione, possono indurre fenomeni tossici e tra gli altri si devono ricordare i seguenti. Tossici vegetali. Oltre ai numerosi veleni dei funghi, in molti vegetali sono presenti composti fenolici, tannini, eterosidi che sviluppano acido cianidrico, aminoacidi tossici ecc. Tossici animali. Sono tossiche le carni d’uccelli che hanno mangiato cicuta, taluni pesci, molluschi che hanno assorbito tossine da alghe ecc. Composti dotati d’attività cardiovascolari sono contenute nei vegetali (ad es. banana) ed in alimenti fermentati (vini e formaggi). Emoagglutinine vegetali hanno attività antinutrizionali e anche lesive dell’immunità. Saponine vegetali ostacolano l’assorbimento intestinale di diversi nutrienti, ma anche del colesterolo e pertanto oggi sono anche utili. Micotossine derivate da ammuffimenti degli alimenti sono considerate nel successivo capitolo. Nitrosamine sono contenute, anche in elevate quantità, in taluni legumi ed ortaggi. Nel loro complesso i composti presentati come tossici, in quanto esaminati come se fossero farmaci e somministrati a dosi elevatis-
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di una baia inquinata da mercurio. Quando l’alimentazione si basa su cibi prodotti in luoghi diversi e su terreni con differente composizione, come oggi è norma con la globalizzazione alimentare, le carenze e gli eccessi si compensano e solo eccezionalmente vi è un rischio sanitario apprezzabile.
sime e spesso non per via alimentare, in gran parte sono ancora da analizzare in dettaglio. Comunque per diversi problemi che potrebbero essere sollevati dai tossici alimentari, vi sono precise normative protettive: ad esempio limiti massimi di nitriti utilizzabili nella preparazione d’alimenti, controllo dei pesci e dei molluschi, modalità di produzione degli alimenti affumicati ecc. Gran parte degli inconvenienti sono evitati, se si seguono le tradizioni alimentari ed il proverbio mangia come parli è in proposito molto importante, come il principio che è la dose che fa il veleno e per questo piccole assunzioni non continue sono da ritenere accettabili.
Il veleno del secolo Tra le paure alimentari, un posto di primo piano oggi ha quella dei tumori e si cerca per quanto possibile di mangiare sano. Negli alimenti sono contenuti composti cancerogeni e anticancerogeni: per fortuna i secondi si trovano in maggioranza e se così non fosse la nostra specie sarebbe da tempo scomparsa. I più importanti anticancerogeni presenti negli alimenti sono gli antiossidanti (idrosolubili: vitamina C; liposolubili: vitamina E) e taluni caroteni. Da qui l’importanza d’alimenti vegetali nella dieta equilibrata, anche per il loro apporto di fibra alimentare, che regola il transito intestinale, e le fermentazioni batteriche digestive che intervengono sui composti cancerogeni. Negli alimenti e soprattutto in quelli vegetali sono presenti dei cancerogeni che tuttavia, in una dieta equilibrata, non destano eccessiva preoccupazione. Molti composti cancerogeni naturali sono presenti in talune spezie usate in piccolissime quantità e, nella dieta degli italiani, solo saltuariamente (ad esempio la noce moscata). Talvolta i cancerogeni vegetali possono arrivare all’uomo attraverso il latte: è il caso delle mucche che pascolano in zone di collina o montagna dove sono presenti felci (questo non avviene nelle mucche allevate in stalla con foraggi coltivati). Alcuni cancerogeni si sviluppano in vegetali coltivati in terreni con carenze di molibdeno od eccessi d’arsenico. Molto rischiosi sono gli alimenti ammuffiti (vedi successivamente a proposito di micotossine) una volta frequenti a causa dei cattivi sistemi di conservazione. La relativa dimi-
Minerali buoni e cattivi I legami tra terra, acqua, pianta, animale e uomo sono molto stretti e noi mangiamo quello che viene dalla terra o dall’acqua, con i vantaggi ed i rischi connessi. Questi ultimi sono di solito maggiori per gli alimenti vegetali che non d’origine animale, perché, di solito, l’animale è un filtro protettivo. A questo riguardo vi sono delle eccezioni, come quella del mercurio che si concentra nel filtro animale (soprattutto pesce), che si trasforma in un rischio. Se la buona terra produce alimenti buoni, non mancano esempi di cibi pericolosi prodotti da una terra che contiene minerali in eccesso o ne è carente. Di solito, conseguenze sanitarie si hanno soltanto in chi si ciba continuamente ed esclusivamente con tali vegetali. Questo non avveniva nell’uomo migratore, ma con l’agricoltura il pericolo è comparso nelle popolazioni stanziali che si alimentavano continuamente con i prodotti di una stessa terra. Analogo rischio oggi si riscontra in molti paesi in via di sviluppo od in chi, ritirandosi in campagna, ha una completa autonomia alimentare. Lo stesso avviene in chi si ciba solo di pesci raccolti in un unico fiume o lago, come accadde nei pescatori del villaggio giapponese di Minamata, che mangiavano grandi quantità di pescato 210
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negli alimenti durante la loro produzione o cottura. Un’attenzione particolare oggi suscitano il vino e le carni alla griglia. Durante le fermentazioni dell’uva si ha l’estrazione, dai graspi e bucce, del tannino, che ha un’attività cancerogena che è potenziata dall’alcole. Il rischio cancro è maggiore per i vini ricchi di tannino e ad alta gradazione, ai quali sono imputati tumori soprattutto del primo tratto dell’apparato digerente e del fegato. Nelle carni cotte alle griglia per abbrustolimento si formano benzopireni e benzoantraceni cancerogeni.
nuzione in questi ultimi anni di tumori dello stomaco deriva anche dal controllo delle muffe negli alimenti. Oggi invece destano preoccupazioni i cancerogeni prodotti dall’uomo e che possono arrivare negli alimenti. Per questo si è fatta e si continua a svolgere una vasta ricerca per stabilire il rischio cancerogeno di tutto quanto viene a contatto degli alimenti (dai farmaci usati sulle piante e sugli animali, agli imballaggi per alimenti) e di mano in mano che si scoprono composti rischiosi, sono eliminati. Vi sono infine cancerogeni che si formano Composizione dei terreni e rischi alimentari Minerale Argento Arsenico Cadmio Fluoro Fosforo Iodio Mercurio Molibdeno Piombo Selenio Selenio
Concentrazione nei terreni
Conseguenze sanitarie in chi mangia i vegetali
Eccesso Eccesso Eccesso Eccesso Carenza Carenza Eccesso Carenza Eccesso Eccesso Carenza
Carenza Vitamina E Tumori del fegato Malattie cardiache Fluorosi Sindromi da estrogeni Gozzo. Insufficienza tiroidea Intossicazione da mercurio Tumori Saturnismo. Anemia Intossicazione. Cirrosi epatica Carenza Vitamina E
Antienzimi negli alimenti Enzimi inibiti
Alimenti
Tripsina e chimotripsina (enzimi che digeriscono le proteine)
Soia, fagioli e altre leguminose Frumento e altre graminacee Patate, melanzana, pomodoro Aglio e cipolla Fragole Colostro e latte Uovo crudo
Amilasi (enzimi che digeriscono gli amidi)
Fagioli, banane non mature
Colinesterasi (enzimi che interferiscono sul Sistema Nervoso)
Patate, broccoli, melanzana, asparago lampone, mela, arancia
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Complessanti dei minerali Composto
Nutrienti “bloccati”
Alimenti
Acido fitico
Calcio Zinco Enzimi digestivi
Soia e arachidi Frumento e graminacee Riso, agrumi, noci e pistacchio
Acido ossalico
Calcio
Spinaci, barbabietola, banana The, caffè, cacao
– Invecchiamento delle preparazioni alimentari. Ad esempio nel minestrone di verdura, in particolare se contiene carote, più volte riscaldato, si formano nitrosamine. – Cattiva conservazione. L’irrancidimento si accompagna con la formazione di perossidi tossici e di radicali liberi, oggi ritenuti pericolosi agenti o coagenti di tumori. – Contaminazioni soprattutto microbiologiche, con produzione di tossine batteriche, che oggi sono la causa più frequente di tossinfezioni alimentari.
Principali anticancerogeni naturali Anticancerogeni vegetali Flavonoidi – Quercitina Composti fenolici - Ac. caffeinico e ferulico Caroteni (provitamina A) Antiossidanti Acido ascorbico (vit. C) Tocoferoli (vit. E) Vari Cisteina – Metilgliossale
Vivere di veleni e patologia alimentare darwiniana Il fatto che oggi, attraverso sofisticati e sensibilissimi sistemi d’analisi, possiamo identificare anche minime quantità di composti chimici, facendo trovare tutto dappertutto, fa credere che viviamo in una mondo avvelenato. Che oggi siano presenti composti chimici nuovi è indubbio, ma è anche vero che molti di quelli antichi e tradizionali sono scomparsi o sono molto diminuiti. In complesso e dopo un sereno bilancio della situazione, si deve riconoscere che in complesso ed in media, la situazione tossicologica degli alimenti e nei paesi industrializzati è sostanzialmente migliorata. Altrimenti non si potrebbe avere un allungamento significativo della vita media. Questo non significa che non esistano sacche o punti critici, e che non si debba ulteriormente migliorare. Non dobbiamo aver paura della gran parte dei microbi che ci circondano, soprattutto quando hanno limitate concentrazioni, per-
Il rischio cucina La cucina è stata la grande invenzione che ha permesso alla nostra specie di utilizzare le produzioni agricole e zootecniche. Non mancano tuttavia dei rischi. Veleni diversi si possono formare negli alimenti durante la conservazione degli alimenti, ma anche nel corso delle preparazioni alimentari. Sono particolarmente da evitare i seguenti. – Ammuffimenti. Molte muffe producono e diffondono negli alimenti, tossine con diverse attività: diminuzione ed anche abolizione delle difese antinfettive, modificazione della circolazione del sangue, induzione d’effetti estrogeni, produzione di tumori e cancri. – Carbonizzazione degli alimenti, in particolare delle carni e delle verdure (cottura spinta alla griglia!) perché si generano composti cancerogeni. – Alte temperature, come quelle della frittura, durante la quale si formano composti tossici (ad es. acroleine). 212
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Cancerogeni alimentari Composto cancerogeno
Alimento
Alcaloidi della pirrolidina
Latte di mucche allevate su pascoli con grande presenza di felce
Cicasina
Noce di cicade
Safrolo
Zafferano, cannella, noce moscata ecc.
Allile
Mostarda
Estragolo
Basilico, finocchio
Sesamolo
Sesamo
Tannini
Vegetali in generale
Aflatossina (micotossina)
Arachidi ammuffite
Patulina (micotossina)
Mele ammuffite
Benzopireni e benzoantraceni
Carni e verdure alla griglia Carni affumicate Granaglie tostate od essiccate al fuoco
favorevole. Da qui l’opportunità di evitare i rischi delle grandi dosi, ed utilizzare i benefici delle piccole dosi, attraverso un’alimentazione che rispetti le seguenti regole. * Costituita da molti alimenti e quindi mista. * Composta da alimenti di diversa provenienza. * Equilibrata nei suoi componenti. * Variata nel corso del giorno, mese ed anno. * Basata su alimenti freschi. * Rispettosa delle tradizioni. * Consona alla nostra genetica e soprattutto ben equilibrata ad uno stile di vita attiva.
ché il nostro organismo si difende efficacemente, utilizzando un sistema immunitario che ha una storia biologica d’alcune centinaia di milioni d’anni. In modo analogo gli organismi viventi, fin dalla loro comparsa sulla terra, hanno sviluppato e ci hanno tramandato un sistema antitossico altamente efficace, soprattutto per le piccole dosi. È quindi possibile vivere in un mondo nel quale sono presenti piccole o piccolissime quantità di composti chimici, che a grandi dosi possono essere dannosi. Non è infine da dimenticare che moltissimi dei composti chimici attivi presenti negli alimenti a piccole dosi svolgono un’azione
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Micotossine ed epidemie infettive Grandi epidemie infettive hanno sconvolto l’Europa tra il 1200 e la fine del 1700. Comparse non si sa come, e scomparse prima della nascita della medicina scientifica e della igiene, queste epidemie hanno avuto sempre un’origine oscura. Pur potendosi sospettare abbastanza precisamente il microbo in causa (ad esempio la Pasteurella pestis per la peste, il virus del vaiolo e così via) nonostante molte ipotesi era ed è sempre stato oscuro perché, ad un certo momento, tali microrganismi certamente preesistenti, quasi improvvisamente fossero divenuti così patogeni. Si è arrivati ad ipotizzare un genio epidemico: una frase che non dice nulla. Tuttavia si era visto che queste epidemie si correlavano ad un aumento della popolazione e soprattutto a carestie. Il quadro sopra tratteggiato e la comparsa di carestie ed epidemie in Europa, diviene ancor più interessante, se si considera il clima e soprattutto l’agricoltura europea del periodo. A grandi linee si ebbe uno sviluppo della cerealicoltura che si diffuse dal sud (area mediterranea) al nord, con progressiva sostituzione del frumento con l’orzo e soprattutto con la segale. Contemporaneamente il clima andò cambiando, con una diminuzione della temperatura media, che portò quasi ad una piccola glaciazione. Mentre il frumento, con le sue varietà, è abbastanza resistente agli attacchi dei funghi microscopici, l’orzo ed ancor più la segale ne sono fortemente attaccati. L’attacco da parte dei funghi aumenta con l’umidità ed oggi è stato accertato che il freddo provoca nei funghi anche un’elevata produzione di tossine. Per questo un’estate piovosa ed umida favorisce gli ammuffimenti dei cereali ed un autunno freddo provoca una forte produzione di micotossine da parte delle muffe. Un clima più o meno freddo non è favorevole per una buona produzione cerealicola ed in una società che ha un’alimentazione fondata sui cereali è intuibile che insorga una
Micotossine: invenzione agricola di ieri ed oggi Le tossine prodotte da funghi microscopici (micotossine) sono una delle più pericolose conseguenze provocate dall’uomo con l’agricoltura e la conservazione degli alimenti. Un avvelenamento tanto subdolo quanto micidiale In Europa, tra il 1200 e la fine del 1700 vi furono devastanti epidemie. Tra il 1500 ed il 1700 in Europa, ma anche nell’America Settentrionale, si sviluppò una sconvolgente caccia alle streghe. Recenti studi fanno risalire le epidemie ed i fenomeni di stregoneria ad un’intossicazione alimentare collettiva da micotossine, veleni prodotti da funghi microscopici, che si sviluppano soprattutto, ma non solo, sui cereali. Le micotossine conosciute sono molto numerose e altrettanto diverse sono le loro azioni dannose sugli organismi, umani ed animali. Ad esempio l’ergotina, agendo sulle piccole arterie, provoca alterazioni nella circolazione del sangue ed è causa d’allucinazioni e visioni, ma anche d’insensibilità della pelle, come pure alterazioni delle estremità degli arti. La muffa che produce l’ergotina (nota con il nome scientifico di Claviceps purpurea) elabora anche l’LSD (Lysergic Acid Diethylamide) ed altri alcaloidi simili all’LSD che sono potentissimi allucinogeni. La micotossina denominata zearalenone ha un’elevata attività estrogena, altera i cicli riproduttivi femminili, produce sterilità nella donna e nel maschio. Le aflatossine sono dei potenti cancerogeni. Vi sono inoltre micotossine (ad esempio la T-2) che provocano una forte diminuzione dei globuli bianchi del sangue, con una rilevante riduzione delle difese contro le malattie infettive e quindi, se non provocano infezioni, sicuramente facilitano molte malattie infettive, in particolare quelle da batteri.
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le, a base esclusiva o prevalente di mais, ma anche dal cattivo stato di conservazione di quest’ultimo. Le micotossicosi da mais ammuffito sono oggi ben note, anche per le accurate ricerche che sono state eseguite sugli animali degli allevamenti zootecnici, nei quali hanno provocato, anche recentemente, non piccoli danni. Andando nel lontanissimo passato biblico, è probabile che la decima piaga, che colpì l’Egitto ed è descritta nel testo sacro, fosse provocata da micotossine sviluppatesi sulle granaglie dopo un periodo climatico avverso. Anche in questo caso, si possono individuare rapporti con una probabile carestia e sintomi che potrebbero essere riferiti ad una riduzione delle difese antinfettive, nonché una particolare disposizione a subire gli effetti tossici da parte dei giovani maschi, soprattutto delle famiglie abbienti: una disposizione legata al sesso, od una maggiore quantità di granaglie (ammuffite) a loro disposizione?
carestia. D’altra parte, quando manca l’alimento, non si può scegliere di mangiare soltanto la parte migliore del raccolto, ma è utilizzata anche quella peggiore e tossica. Alla carestia seguono quindi i gravissimi danni sopra indicati e soprattutto compare una riduzione dei poteri di difesa contro le infezioni, con l’esplosione d’epidemie. Nell’Europa centro - settentrionale, fino a circa l’anno mille la cerealicoltura era molto ridotta e la scarsa popolazione ivi esistente si nutriva largamente di carne, in gran parte selvatica, in quantità di oltre cento chilogrammi per persona e per anno. Con il 1200 si ebbe una progressiva espansione dell’agricoltura ed in particolare della cerealicoltura, con il contestuale aumento della popolazione, ma con tutte le tragiche conseguenze che ne derivarono dal peggioramento climatico e dallo sviluppo delle muffe produttrici di micotossine. Dalla Russia moderna all’antico Egitto Analisi analoghe a quelle ora ricordate sono state eseguite anche per epidemie alimentari comparse in tempi a noi più vicini. Ad esempio, in Russia fino al 1945 si sono verificate numerose e gravi epidemie d’ATA (Aleuchia Tossica Alimentare), caratterizzata da forte diminuzione dei globuli bianchi nel sangue ed aumentata recettività alle malattie da batteri. Le epidemie erano provocate da micotossine ed in queste occasioni si sono potute esaminare in dettaglio gli effetti delle temperature ambientali sullo sviluppo delle muffe e gli effetti dei loro veleni sulle popolazioni umane. Considerando sotto la nuova prospettiva delle micotossine alimentari altre patologie del passato, la citata caccia alle streghe è stata riferita ad ergotismo (intossicazione da segale cornuta). È anche sempre più evidente che la pellagra, che devastò nell’ottocento e nei primi del novecento molte zone dell’Italia Settentrionale, non fu causata soltanto dalle carenze di un’alimentazione unilatera-
Micotossine e micotossicosi oggi Da almeno cinquanta anni micotossine e micotossicosi sono oggetto di grande attenzione e di ricerca scientifica e pratica, soprattutto nei paesi industrializzati. Sono stati messi a punto sistemi d’analisi, precisi e sensibili, e sono stati individuati ed applicati mezzi di prevenzione controllo efficaci, in particolare per quelle micotossine (aflatossine ed ocratossine) che sono ritenute cancerogene. Attualmente, nei paesi industrializzati si è molto attenti alla qualità degli alimenti ed in particolare s’interviene per evitare che le muffe alterino le granaglie e gli altri alimenti vegetali. Questo si ottiene con adeguati sistemi di coltivazione, eventuali trattamenti con fitofarmaci ed in un futuro anche con l’ingegneria genetica, buone tecniche di raccolta, ma soprattutto con un precoce ed efficace essiccamento delle granaglie ed una loro adeguata conservazione. Lo stesso non avviene in molti paesi in via di sviluppo, dai 215
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un passato che fino ad oggi ci poteva apparire oscuro. Appunto come il citato fenomeno delle streghe, stregoni e stregoneria.
quali ci possono arrivare granaglie più o meno inquinate da micotossine. Di conseguenza, nei riguardi di quelle più pericolose micotossine, come l’aflatossina e l’ocratossina, sono eseguite sistematiche indagini di controllo. Anche per le micotossine siamo entrati in una fase igienica basata su solide basi scientifiche, le stesse che - sia pure con alcune incertezze - ci permettono di interpretare
Micotossine e patologia alimentare darwiniana La nostra specie si è evoluta con un’alimentazione fresca e non con cibi conservati. La stessa agricoltura è iniziata e si è sviluppata in ambienti caldi ed asciutti, non favorevoli
Principali muffe produttrici di micotossine Genere
Numero di specie produttrici
Alternaria Aspergillus Cladosporium Claviceps Fusarium Mucor Penicillum Phytomyces Trichoderma
Varie Oltre 20 Almeno 2 Almeno 2 Almeno 7 1 Almeno 15 1 1
Principali micotossine e loro effetti sull’organismo Micotossina
Fungo produttore
Alimenti principalmente contaminati
Effetto patogeno
Aflatossine
Aspergillus flavus Aspergillus parasiticus
Arachidi, semi oleosi, mais, cereali, latte e derivati
Cancerogeno Epatotossico Immunosoppessore Nefrotossico
Ocratossina A
Aspergillus ochraceus
Mais, orzo, altri cereali
Nefrotossico Teratogeno Immunosoppressore Cancerogeno
Fumonisina B1
Fusarium moniliforme
Mais, orzo, altri cereali
Nefrotossico Cancerogeno Citotossico
Tricoteceni
Fusarium sporotrichoides
Mais, orzo, altri cereali
Immunosoppressori Dermatotossico Emorragico
Zearalenone
Fusarium graminearum
Mais, orzo, altri cereali
Estrogenosimile
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Micotossicosi più importanti: aflatossicosi e ocratossicosi Micotossina
Muffa produttrice
Aflatossine B1, B2, G1, G2, M1, M2
Ocratossina
Tossicosi
Specie colpita
Organi Alimenti bersaglio più colpiti
Aspergillus flavus Epatite Aspergillus Cirrosi epatica parasiticus Epatomi Sindrome di Reyer Encefalopatia di Udorn
Uomo Volatili Maiale Bovino Coniglio
Fegato Cervello Rene
Arachidi Cereali Noci di cocco Alimenti d’origine animale
Penicillum verrucosum Aspergillus ochraceus
Maiali Bovini Uomo
Rene
Orzo Grano Mais
Nefrotossicosi Aborti (?) Tumori (?)
subire l’azione delle muffe alimentari con lo sviluppo dell’agricoltura e la conservazione degli alimenti vegetali, creando patologie ed in questo modo confermando l’idea di un’agricoltura causa di malattie.
alle muffe. Anche i primi e più semplici sistemi di conservazione degli alimenti (essiccamento, salagione) ostacolavano lo sviluppo fungino. Tutto fa ritenere che l’uomo abbia iniziato a
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ne o per contatto cutaneo, tanto che vi sono persone che possono avere effetti negativi anche a cento metri di distanza da un campo di fave in fiore o entrando in un negozio che vende fave (da qui l’obbligo di segnalarne la presenza, con un cartello, come avviene in molti comuni dell’Italia centro - meridionale). La storia di questa malattia è stata recentemente scritta da Grmeck (1985), che ha ben precisato il ruolo avuto dai medici italiani e tra questi Minà la Grua (1856). Importante è stata l’osservazione che alcuni individui, che non sopportavano le fave, avevano anche un’intolleranza al chinino, farmaco usato contro la malaria. I principi attivi della fava sono dei forti ossidanti: un aglicone pirimidinico, denominato divicina, metabolita della vicina, la convicina e l’isouramile. In linea di massima i semi di fava contengono 6,7 grammi di vicina e convicina per 100 grammi di sostanza secca. Per manifestare il favismo è necessaria una predisposizoine genetica. Questa si manifesta nei globuli rossi, nei quali manca un enzima, noto come glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD) e che provoca una loro ridotta resistenza ai perossidi tossici ed ai radicali liberi. Mentre le persone normali non risentono dell’attività ossidante della fava, in quelle che non hanno il citato enzima, gli ossidanti della fava distruggono i globuli rossi e provocano il favismo. La malattia è abbastanza diffusa nell’area mediterranea e nel medio oriente, nelle popolazioni bianche ed in quelle nere e nelle persone che, anche da tempi remoti, provengono da popolazioni dell’area geografica sopra indicata e nella quale, fin dai tempi preistorici e storici, era endemica la malaria (paludismo), in particolare da Plasmodium falciparum, per i motivi che vedremo tra un attimo. La malattia è stata intensamente studiata nei suoi diversi aspetti (Grmek, 1985) e molto interessanti sono i rapporti tra la carenza genetica d’enzima G6PD, malaria e favismo.
Fave e favismo: antico legame tra cibo e malattie Le leguminose assieme alle graminacee e sin dall’origine dell’agricoltura, per le loro importanti caratteristiche nutrizionali positive, fanno parte dei “pacchetti vegetali”. Le leguminose sono ricche di principi attivi dotati d’azioni farmacologiche e, non raramente, tossiche, che fin dalla preistoria erano controllate dalla cucina. Tra le leguminose, fin dall’antichità le fave hanno dimostrato una marcata ambivalenza d ’aspetti positivi e negativi, dando anche origine alla malattia nota come favismo. Le ambivalenze della fava e le sue relazioni con la malaria sono interpretabili solo nell’ambito di una patologia alimentare darwiniana. Leguminose e favismo Molti sono gli aspetti nutrizionali positivi delle leguminose che, ricche di proteine e talvolta anche di grassi, assieme ad una o più graminacee sono entrate a far parte dei pacchetti vegetali che hanno caratterizzato tutte le agricolture. Altrettanto diffusi sono gli aspetti negativi delle leguminose che, da un punto di vista evoluzionista sono spesso da riportare alla difesa dai parassiti. Come ricordato nel capitolo delle leguminose, diverse di queste sono causa di malattie alimentari umane e, tra queste, soprattutto il latirismo (da Lathyrus sativus) ed il favismo (da Vicia faba). In modo particolare il favismo è stato studiato sotto la prospettiva della nutrizione evoluzionista, divenendo per taluni aspetti un esempio paradigmatico. Favismo, malattia tossica su base genetica Il favismo è una malattia soprattutto acuta, con distruzione dei globuli rossi del sangue (emolisi), causata dall’ingestione di fave (Vicia faba) in individui geneticamente predisposti. Se non è curata, la malattia acuta porta a morte il 10% dei casi. Sono noti anche casi d’intolleranza alla fava per inalazio218
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Origine ed evoluzione della malaria Tutto fa ritenere che la malaria umana, o paludismo, provocata da diverse specie di plasmodi, derivi da quella delle scimmie a sua volta proveniente, molto prima, da quella degli uccelli (plasmodiosi). Le plasmodiosi sono infezioni causate da protozoi che vivono dentro i globuli rossi del sangue e sono trasmesse da diverse specie d’insetti ematofagi (succhiatori di sangue). Nell’insetto il plasmodio compie un particolare ciclo, necessario per la sua riproduzione. Sotto l’aspetto evolutivo, si deve ritenere che le plasmodiosi degli uccelli siano molto antiche e che, in tempi successivi, si siano adattati a certe specie di mammiferi, in particolare i primati. Quest’adattamento sarebbe avvenuto nell’area asiatica, dove sarebbe iniziata la malaria delle scimmie. In tempi relativamente recenti i plasmodi della malaria delle scimmie si sarebbero adattati all’uomo, dando origine alla malaria umana o paludismo. Questo sarebbe avvenuto nell’Asia meridionale, dove vi erano anche le condizioni favorevoli allo sviluppo degli insetti ematofagi, necessari per la trasmissione della malattia. Nell’area mediterranea la malaria sarebbe stata introdotta dall’India con le guerre persiane e non bisogna dimenticare che alla malaria è stata attribuita la morte d’Alessandro Magno, che si era spinto fin ai confini dell’India, dove si sarebbe infettato. Lo sviluppo della malaria umana è stato senza dubbio favorito dall’agricoltura, soprattutto nelle aree basse e pianeggianti, ricche d’acqua od irrigate, dove vi erano condizioni favorevoli alla moltiplicazione d’insetti trasmettitori della malattia, in particolare anofeli. All’arrivo della malaria, ad esempio, è stato attribuito il decadimento di città e di popolazioni d’aree basse, ad esempio Sibari e la sua piana.
netiche che provocano l’anemia falciforme o mediterranea, non sono adatti per un buon sviluppo dei plasmodi della malaria. Di conseguenza, le persone con alterazioni genetiche dei globuli rossi anche per carenza dell’enzima G6PD, sono più resistenti delle altre all’infezione malarica, come dimostrano diverse ricerche anche sperimentali (Grmek, 1985; Golenser e collaboratori, 1988). È comprensibile come una mutazione genetica che produce una maggiore sensibilità dei globuli rossi agli ossidanti ed ai radicali liberi - causa di fenomeni negativi - sia sfavorevole e sia rapidamente eliminata dalla selezione naturale. Infatti, le persone che ne sono colpite, se non muoiono in giovane età, hanno una vita più breve. Se invece la mutazione genetica, come indicato, protegge dall’infezione malarica, le persone che ne sono colpite ne hanno, tutto sommato, un vantaggio, che nel corso delle generazioni porta al mantenimento ed alla diffusione dell’alterazione genetica nella popolazione, a patto che la malaria rimanga presente. Globuli rossi e principi attivi della fava Da qualche tempo diversi autori hanno considerato i rapporti tra alterazioni genetiche dei globuli rossi e malaria, in relazione al consumo alimentare di fave. La situazione è stata chiarita da diverse ricerche, e tra queste quelle di Golenser e coll. (1988). In particolare, si è visto che nei globuli rossi carenti d’enzima G6PD, l’attività ossidante dei principi attivi della fava svolgono un’azione inibitrice su alcune fasi dello sviluppo dei parassiti malarici, molto più intensa di quella che si ha nei globuli rossi normali. In termini semplici, la fava ha un’azione di farmaco antimalarico che è particolarmente intensa nelle persone con globuli rossi con mancanza dell’enzima G6PD. È molto probabile che lo stesso avvenga per altre alterazioni genetiche dei globuli rossi. In una zona di malaria endemica, quindi, non è soltanto utile la modificazione genetica sopra indica-
Malaria e genetica dei globuli rossi I globuli rossi delle persone con deficit dell’enzima G6PD, o con altre alterazioni ge219
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Soprattutto per la fava, bisogna ritenere che le pratiche alimentari (scelta degli alimenti, loro combinazione, modo di prepararli compreso il sistema di cottura, tabù e permissioni ecc.) abbiano avuto notevoli implicazioni di tipo genericamente intese come sanitarie. Questo rivoluziona molte nostre concezioni troppo schematiche, come quella di valutare un alimento soltanto attraverso le calorie, le proteine, i grassi e così via. Ad esempio le ricette culinarie privilegiano l’uso di legumi secchi, successivamente cotti in modo prolungato, mentre l’uso di quelli crudi, limitato, era riservato alle fasi vegetative precoci, meno ricche di principi attivi. Nel quadro ora tracciato, come già è stato indicato da Ballarini (1989), accanto al ruolo nutritivo della fava ed a quello d’equilibrio della malaria, in una dieta moderna è ora possibile prevedere un suo ruolo anticolesterolemico e di diminuzione dei trigliceridi nel sangue, come per altre leguminose.
ta, ma anche un’alimentazione che, almeno a certi livelli, contenga la fava con i suoi principi attivi. Cucina della fava La quantità di principi attivi della fava (vicina e convicina) varia con le varietà ed i sistemi di coltivazione, ma soprattutto con i trattamenti in cucina: la cottura in ambiente acido od alcalino inattiva tali principi, come dimostrano le recenti ricerche d’Abd-Allah e collaboratori (1988). La cucina è da ritenere importante per l’attività della fava nel suo ruolo di controllo della malaria, soprattutto in persone geneticamente predisposte, perché può distruggerne i principi attivi. L’uso della fava, assieme ad altre leguminose, nei minestroni o nella puls degli antichi romani è del tutto sicuro. Come riporta Grmek (1985), nella preparazione della fava esiste una gran varietà di ricette, che riducono il rischio per i favici e che compaiono nel Mediterraneo orientale e vi si diffondono nel corso della storia.
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Fava, favismo e patologia alimentare darwiniana Nell’area mediterranea la coltivazione ed il consumo della fava coincidono con un modello d’evoluzione complesso, nel quale interagiscono fattori biologici e culturali. Fin dall’antichità nella fava si potevano riconoscere caratteristiche nutrizionali buone (apporto proteico) ed attività antimalarica. La cultura umana ha introdotto modificazioni tramite le tecniche agronomiche ed i trattamenti di detossicazione della cucina. In questo quadro la presenza della fava entrava in un delicato ed utile equilibrio. Con l’eliminazione della malaria, anche i vantaggi della fava si sono fortemente ridotti, mentre sono rimasti gli inconvenienti del favismo. Forse anche per questo nell’area mediterranea si è avuta una regressione nell’uso alimentare della fava, a vantaggio d’altre leguminose. 220
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Cibo e malattie Golenser J., Miller J., Spira D. T., Kosower N.S., Vande-Waa J.A., Jensen J.B. Inhibition of the intraerythrocytic development of Plasmodium falciparum in glucose-6-phosphate dehydrogenase deficient erythrocytes is enhanced by oxidants and by crisis form factor. Trop-Med-Parasitol., 39(4), 273-276, 1988 Grmek M.D. Le malattie all’alba della civiltà occidentale. Il Mulino, Bologna,1985 Grmek M.D. Leggenda e realtà della nocività delle fave. in Grmeck, 1985
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tori i diretti rapporti con gli animali erano molto limitati e di solito indiretti. Non vi era coabitazione e soprattutto non vi era una significativa esposizione attraverso le deiezioni. Le infezioni alimentari negli uomini cacciatori erano da ritenere limitate, soprattutto quando s’iniziò ad usare il fuoco, probabilmente un milione d’anni fa. In modo analogo è da ritenere agissero le fermentazioni con il processo ancor oggi usato della frollatura. Un procedimento, quest’ultimo, che ha origini preumane, come testimoniano i comportamenti d’animali carnivori, che lasciano fermentare parti di prede, ad esempio le ossa, fino a quando sono fermentate ed emanano aromi particolari.
Infezioni alimentari: dalle infezioni della caccia a quelle dell’allevamento Molte infezioni sono trasmesse dai cibi (foodborne diseases), soprattutto da quelli d ’origine animale. L’allevamento, con la concentrazione degli animali, è all’origine di molte infezioni, che erano di limitato significato negli animali selvatici e verso le quali l’evoluzione non aveva sviluppato significativi sistemi di controllo. Infezioni alimentari d’origine animale negli uomini cacciatori Si è visto come l’uomo ed i suoi antenati avessero un’alimentazione che comprendeva parti ed organi d’animali, in senso lato carni. La possibilità di una trasmissione d’infezioni dagli animali all’uomo, anche attraverso gli alimenti, era controllata da una serie di meccanismi, sviluppati dalla selezione naturale. Tra questi sono da ricordare i seguenti. Precisando quanto visto a proposito della carnivorità umana, per ogni infezione esiste una recettività di specie, vale a dire che, come regola, le singole specie sono recettive ad infezioni diverse. In quest’ambito vale anche la “regola” (le virgolette sono quasi d’obbligo) che gli animali predatori sono divenuti scarsamente sensibili alle infezioni degli animali predati attraverso differenti meccanismi: selezione genetica e, o sviluppo d’immunità specifica fin dalle prime fasi della vita, ad esempio attraverso la protezione del colostro, nei mammiferi. In condizioni naturali non vi sono, o sono eccezionali, i grandi assembramenti ed affollamenti d’animali, che favoriscono i passaggi infettivi e la virulentazione degli agenti infettanti. In linea di massima, la trasmissione d’infezioni e, o parassiti avviene in modo indiretto e quindi anche controllato. Un’esposizione infettiva controllata agevola processi immunitari e favorisce la presenza degli agenti infettanti, ma non la malattia. Nella vita degli uomini cacciatori e raccogli-
Infezioni alimentari d’origine animale negli agricoltori Nella prima parte è stato discusso come l’allevamento e l’agricoltura abbiano favorito la diffusione d’infezioni e di malattie, attraverso la concimazione organica, gli stretti contatti tra uomini ed animali in spazi ristretti. Il problema delle infezioni alimentari è molto complesso e può essere precisato come segue. 1 - La concentrazione di molti animali della stessa specie o di specie affini facilita successivi e rapidi passaggi degli agenti infettivi da un animale ad un altro ed un aumento del loro potere patogeno (virulentazione). 2 - Gli stress d’allevamento ed una nutrizione inadeguata diminuiscono le resistenze organiche e permettono l’insorgere d’infezioni da microrganismi opportunisti. 3 - Negli allevamenti vengono a mancare o si riducono i meccanismi di controllo della trasmissione d’infezioni da parte di vettori (parassiti), che in condizioni naturali mantengono bassa la quantità d’infezione trasmessa. 4 - Con l’evoluzione naturale ed attraverso diversi meccanismi, in ogni specie ani222
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Microrganismi intestinali umani Mille miliardi – Microrganismi presenti per ogni grammo di contenuto intestinale umano 500-1000 – Specie batteriche presenti nell’intestino umano. 50% sono strettamente anaerobie e non possono vivere fuori dall’intestino animale od a contatto con l’ossigeno Due- quattro milioni i geni presenti nei batteri intestinali (microbioma). 40.000 i geni umani 300 le generazioni dei batteri intestinali che si succedono in una decina di giorni: pari al numero di generazioni della nostra specie dal neolitico ad oggi 100-200 i geni d’origine batterica che sono stati incorporati nel genoma umano (sec. Francis Collin)
vorevoli alla creazione e diffusione d’infezioni, e soprattutto di foodborne diseases.
male si sviluppa un equilibrio con le infezioni. Con l’allevamento si crea una contestuale presenza, in una stessa comunità d’animali di differenti specie e con patrimoni infettivi diversi, che facilita il passaggio d’infezioni tra gli animali, ma soprattutto tra questi e l’uomo. Da qui l’origine di molte zoonosi (infezioni comuni agli animali ed all’uomo) e di malattie che si trasmettono con gli alimenti. 5 - La coesistenza in ambiti di luogo e tempo ristretti d’infezioni diverse, permette ibridazioni tra i microrganismi e la formazione di nuove varianti genetiche, quindi di nuove infezioni. 6 - La concentrazione d’animali e uomini, nella famiglia allargata dell’allevamento divenuto rapidamente stanziale, comportano una concentrazione fecale inusuale, con trasmissioni infettive attraverso l’acqua inquinata dalle deiezioni animali ed umane, ulteriormente aumentata dalla concimazione ed irrigazione. Da qui la trasmissione oro - fecale delle infezioni, soprattutto di quelle intestinali, molte delle quali sono oggi inquadrate tra le foodborne diseases. 7 - Da non dimenticare che nelle città, ancorché primitive e di dimensioni limitate, vi erano condizioni di promiscuità tra uomini e animali e d’affollamento umano, associati a cattive condizioni igieniche (fecalizzazione ecc.) quanto mai fa-
Controllo delle infezioni alimentari Le moderne conoscenze sulle infezioni alimentari e soprattutto di quelle eventualmente presenti negli alimenti d’origine animale (carni, latte, uova, pesce, miele) permettono d’avere cibi sicuri e questo avviene attraverso la coordinata applicazione delle seguenti misure. 1) Controllo delle infezioni negli animali, attraverso misure d’igiene attiva e passiva e interventi in veterinaria d’eradicazione, vaccinazione, terapia ecc. 2) Controllo degli alimenti d’origine animale e loro trattamento con adeguati sistemi. 3) Metodi di conservazione privi di rischi. 4) Interventi di cucina che inattivano gli agenti infettivi. Bibliografia Archer D.L., Young F.E. Contemporary issues: diseases with a food vector. Clin. Microbiol. Rev., 1, 377-398, 1988 Bunning V.K. Immunopathogenic aspects of foodborne microbial disease. Food Microbiol., 11, 89-95, 1994 Bunning V.K., Lindsay J.A., Archer D.L. Chronic healt effects of foodborne microbial disease. World Health Sta. Quart., 50, 51-56, 1997 Foegeding P.M. Foodborne pathogens: risks and consequences. Council for Agricultural Science and Technology. Task Force Report, 1221, 1994 Graff J. Agriculture is bad for you. Time, April 23, 2001 (p. 59)
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Obesità, sovrappeso tra stili di vita ed entrate energetiche Nella popolazione italiana, soprattutto in questi ultimi dieci anni, il numero di persone sovrappeso ed obese è andato progressivamente aumentando. Già nel 1994, sono state rilevate dall’ISTAT e nelle persone di più di 18 anni, prevalenze d’obesità (IMC Indice Massa Corporea >30) del 7,5% (uomini) e del 7% (donne) per un evidente squilibrio tra stile di vita (uscite energetiche) e alimentazione (entrate energetiche). Nel 2002 tra gli adulti sono obesi circa quattro milioni d’italiani (9%) ed in sovrappeso più di sedici milioni (33,4%), per un totale di un 42,3%. L’epidemia obesità colpisce anche ed in modo particolare i bambini ed i giovani, è in pieno sviluppo e tende a crescere in modo quasi drammatico, del 25% a triennio. L’epidemia obesità è conseguenza del combinarsi di tre condizioni: a) riduzione dell’attività fisica (camminare, lavoro manuale ecc.); b) riduzione dell’energia per mantenere la temperatura corporea in ambienti freddi; c) eccesso energetico nell’alimentazione che deve essere messo in relazione all’attività fisica e secondo precisi obiettivi. Considerando l’attività fisica, diverse e recenti indagini dimostrano che la media della popolazione italiana percorre ogni giorno da un chilometro e mezzo a due chilometri e mezzo, con un’attività fisica che si può calcolare compresa al massimo in un’ora. La nostra genetica è invece quella dei nostri antenati, che percorrevano venti, trenta e perfino quaranta chilometri il giorno e nelle generazioni precedenti vi era una media di sei, sette e più ore il giorno d’attività fisica lavorativa. Considerando le entrate energetiche risulta un eccesso di grasso, soprattutto d’origine animale, e di zuccheri semplici con una carenza di carboidrati complessi (comprendenti la fibra alimentare insolubile, ma soprattutto solubile). L’aumento delle entrate energetiche è la conseguenza dei seguenti fattori: a) am-
MALAT TIE DA CIBI BUONI ED ALIMENTAZIONE DARWINIANA La disponibilità di alimenti buoni non mette al riparo da effetti negativi, in particolare se gli alimenti sono assunti in quantità non congrue con la genetica umana. È il caso – tra i più evidenti – della obesità e del sovrappeso, della ipercolesterolemia e del timore che un cronico eccesso di sale nella dieta provochi ipertensione. L’aumento del peso corporeo della popolazione umana riguarda sia i paesi sviluppati sia quelli in via di sviluppo ed accanto alla fame è una malnutrizione da considerare come una vera e propria “epidemia”, causa di molte patologie metaboliche. Importante è la componente genetica dell’aumento del peso corporeo e che riguarda gli aspetti metabolici e comportamentali. Il colesterolo è indispensabile per la vita degli animali, uomo compreso, che lo produce nella misura in cui non lo trova negli alimenti. In gran parte ingiustamente incriminato quale causa di malattie cardiovascolari, in una concezione evoluzionista i rischi che sono stati attribuiti al colesterolo assumono un ruolo secondario rispetto allo stile di vita. La ricerca del sale è più antica dell’uomo ed è stata aumentata dall’agricoltura: un eccesso di sale, in relazione alla genetica umana, sembra essere all’origine di patologie. Obesità e sovrappeso: una moderna epidemia su di un’ancestrale base genetica L’aumento del peso corporeo della popolazione umana riguarda sia i paesi sviluppati sia quelli in via di sviluppo ed accanto alla fame è una malnutrizione da considerare come una vera e propria “epidemia”, causa di molte patologie metaboliche. Importante è la componente genetica dell’aumento del peso corporeo e riguarda gli aspetti metabolici e quelli comportamentali. 224
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smi scientifici. In questi orientamenti ed anche sulla base dei dati contenuti nel Piano Sanitario 1998-2000, ma non solo, sono stati presi in considerazione Sicurezza degli Alimenti, Questione Energetica, Questione Proteica, Questione Alcolica, Questione Sale. Di particolare importanza è quanto concerne la Questione Energetica.
pia disponibilità e basso prezzo degli alimenti energetici (grasso, zuccheri, farinacei ecc.); b) presenza nell’uomo di comportamenti alimentari che spingono alla ricerca d’alimenti energetici: “voglia di grasso” e “voglia di dolce” (zuccheri). L’attuale questione alimentare La situazione alimentare europea ed italiana è caratterizzata da un’abbondante disponibilità alimentare e da una remota eventualità di carestie e di fame. Il problema è piuttosto di una produzione eccedente e pone di fronte a tutta una serie di nuovi problemi, che nel loro insieme caratterizzano l’attuale Questione Alimentare. La produzione alimentare in Europa oggi comporta problemi di qualità piuttosto che di quantità, che tendono ad essere affrontati e risolti anche attraverso un nuovo modo di produrre che comprende sia il prodotto biologico sia di lotta integrata. La produzione alimentare oggi deve tenere conto non solo degli aspetti economici della politica agraria e di trasformazione degli alimenti, ma anche degli aspetti relativi alla salute pubblica. Come fin dal 1990 ha fatto rilevare W.P.T. James (1990) è necessario avviare una Politica Nutrizionale che integri e superi l’importante Politica Alimentare. Il Piano Sanitario Nazionale 19982000 italiano si presentò con lo slogan Un patto di solidarietà per la salute, proponendo anche Un patto con il mondo della comunicazione. Nell’ambito di questo piano, per la prima volta ed in modo organico fu affrontato in Italia il problema di una Politica Nutrizionale, inserita nell’obiettivo di promuovere comportamenti e stili di vita per la salute. Nell’ambito delle Linee Guida per una sana alimentazione italiana, gli obiettivi sono di promuovere modelli alimentari mediterranei basati principalmente su cibi d’origine vegetale ed indirizzare l’alimentazione della popolazione italiana, in modo che si adegui tendenzialmente agli standard nutrizionali ottimali raccomandati dagli organi-
Obiettivi per contrastare l’epidemia sovrappeso Le tendenze ed i traguardi atti a promuovere comportamenti e stili di vita per la salute relativi al problema energetico sono i seguenti. 1) Aumento dell’attività fisica, che in media ed in linea di massima per una persona adulta e sana, non dovrebbe essere inferiore ad un’ora il giorno di marcia rapida (almeno cinque chilometri). 2) Riduzione dell’energia alimentare, privilegiando alimenti a basso contenuto energetico, alto contenuto di fibra e riducendo quelli purificati (zucchero, olio e grassi). Con maggiore dettaglio sono indicati i seguenti obiettivi: a) Ridurre l’energia derivante dai grassi a non più del 30% dell’apporto calorico quotidiano. b) Ridurre l’energia derivante dai grassi saturi a meno del 10% dell’apporto calorico quotidiano. c) Aumentare l’energia derivante dai carboidrati a meno de 55% dell’apporto calorico quotidiano. d) Ridurre la quota d’energia derivante dallo zucchero a meno del 10% dell’apporto calorico quotidiano. Da un punto di vista applicativo è quindi necessario contenere l’uso dei grassi di condimento ed impiegare alimenti complessi (d’origine animale, ma anche vegetale) a limitato contenuto lipidico. Oggi il mercato offre ad esempio carni non solo a basso contenuto lipidico (3-5%) e questo, inoltre, ha una forte prevalenza d’acidi grassi insaturi. 225
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Genetica della ricerca energetica Un’irresistibile voglia di grasso è profondamente iscritta nel comportamento alimentare dell’uomo, che ne aveva bisogno per il suo stile di vita di grande corridore. Ancor oggi il grasso deve fornire da un quarto ad un terzo dell’energia alimentare. Soprattutto nel passato il grasso alimentare era di tipo animale e solo recentemente il grasso vegetale è comparso nell’alimentazione umana. La qualità dei grassi alimentari d’origine animale è stata modificata dalla domesticazione e di recente è stata adeguata alle necessità nutrizionali umane. La ricerca “genetica” di energia ed in particolare di cibi energetici, come il grasso e l’alcole, trova riscontro in una recente segnalazione fatta dal CNRS – Istituto Pasteur di Lille e dall’Imperial College di Londra in base ad uno studio effettuato sui francesi: 575 obesi e 646 non obesi. Una grave anomalia del gene GAD2 (situato nel cromosoma 10) aumenta il rischio d’obesità grave, agendo sul comportamento alimentare e sulla produzione d’insulina, tramite un enzima che agisce sulla produzione del GABA, un messaggero chimico che a sua volta stimola l’appetito a livello del cervello (ipotalamo), oltre che ad intervenire nella dipendenza dell’alcole. Come dimostrano molte ricerche eseguite anche sugli animali, esiste anche una genetica che favorisce la deposizione di grasso, soprattutto sottocutaneo. Questa genetica è favorevole, in condizioni di limitata disponibilità energetica alimentare, soprattutto nelle donne, nelle quali la fertilità è collegata ad una certa quantità di grasso sottocutaneo. La selezione di linee genetiche umane è stata anche favorita dalla scelta sessuale, in quanto il maschio prediligeva femmine dalle forme “rotonde”, che garantivano un buono stato di salute e la possibilità d’allevare una prole abbondante. È stato giustamente affermato che l’obesità è una malattia cronica d’origine multifattoriale, alla cui base c’è una forte impronta ge-
netica. Mentre per alcune specie animali è abbastanza nota l’ereditarietà del carattere obesità, per la nostra specie si pensa che almeno cinquanta geni siano deputati al controllo dei comportamenti alimentari. La sindrome obesità, quindi, è probabilmente la combinazione di una serie di situazioni genetiche che predispongono l’individuo ad ingerire più energia e soprattutto a depositarla sotto forma di grasso. Come sta insegnando la nutrizione evoluzionista, quest’impellente voglia di grasso che ancora oggi tormenta tutti coloro che vogliono o debbono calare di peso o sono a dieta, dipende dallo stile di vita sviluppato dall’uomo nell’ultimo milione d’anni. Grassi, zuccheri semplici e alimentazione darwiniana Come considerato a proposito dei grassi alimentari, i grassi purificati sono da considerare alimenti innaturali e come tali fonti di rischi nutrizionali. In modo analogo è avvenuto per gli zuccheri semplici e per gli amidi. Un tempo, l’unico zucchero semplice (glucosio) l’uomo lo trovava nel miele, un alimento scarso e riservato ai ricchi. Anche gli amidi erano scarsi nell’alimentazione dell’uomo paleolitico. Con l’avvento dell’agricoltura, gli amidi sono divenuti sempre più abbondanti nell’alimentazione umana e servivano a sostenere un’intensa attività fisica e le classi contadine non erano soggette a sovrappeso ed obesità. Con l’arrivo di zuccheri semplici vegetali (zucchero di canna, di barbabietola, da fermentazione degli amidi o isoglucosio) e la già più volte citata riduzione dell’attività fisica, è scoppiata l’epidemia sovrappeso ed obesità, anche nei paesi in via di sviluppo. Sovrappeso, obesità ed alimentazione darwiniana Nell’arco dei millenni il genere umano, come i suoi antenati, ha selezionato un corredo genetico capace di resistere alle carestie ed 226
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anche il diabete di tipo 2, con resistenza all’insulina. La resistenza all’insulina è determinata da fattori fisiologici (età ecc.), patologici (obesità) e genetici. L’aumento della insulina nel sangue (iperinsulinemia) è una risposta metabolica compensatoria alla resistenza all’insulina, con lo scopo di mantenere una normale tolleranza al glucosio. Recentemente ed in particolare da diversi ricercatori (Colagiuri e Brand Miller, 2002) il fenomeno è stato interpretato in modo evoluzionista, postulando una “carnivore connection”. Secondo questa interpretazione, nella evoluzione della resistenza all’insulina e nella comparsa dell’iperinsulinemia, avrebbero avuto un ruolo critico la quantità di proteine e carboidrati nella dieta ed il cambiamento dell’indice glicemico dei carboidrati. Durante le passate ere glaciali, quando l’uomo aveva dovuto ricorrere ad una dieta ricca di proteine e povera di carboidrati, la resistenza all’insulina aveva dei vantaggi per la sopravvivenza e la riproduzione. Successivamente, con
alla carenza: chi aveva un metabolismo risparmioso sopravviveva, gli altri morivano. Inoltre i maschi preferivano le femmine con forme rotondeggianti, soprattutto nei glutei, segno di riserve di grasso, necessarie per un felice sviluppo riproduttivo. Questa genetica è inadatta all’abbondanza di cibo altamente calorico, come l’attuale. Sovrappeso ed obesità si sono diffusi, come una vera e propria epidemia, nei paesi del mondo industrializzato ed in quelli in via di sviluppo, indipendentemente dagli interventi d’educazione alimentare. Nell’evoluzione dell’epidemia un ruolo importante ha la componente genetica. Significativo nell’UE è il caso della popolazione greca, nella quale vi è la maggiore percentuale di persone sovrappeso od obese. Certamente in questo paese un ancestrale e lunghissimo periodo di fame aveva selezionato linee genetiche con una genetica di forte ricerca alimentare e spiccata attitudine a depositare grasso. In relazione all’obesità bisogna considerare
Percentuale di sovrappeso ed obesità degli italiani e degli europei. I dati non raggiungono il 100% in quanto non sono state riportate due categorie di sottopeso (Eurobarometro, 2000) Uomini EU (15 stati) Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Regno Unito Spagna Svezia
69,5 69,8 69,2 74,6 68,8 72,9 69,1 61,0 74,5 75,3 62,6 74,9 70,7 65,6 63,0 68,1
Normali Donne 64,6 66,0 66,3 65,5 64,2 59,7 71,1 55,7 69,3 61,8 58,9 68,2 61,7 62,0 62,1 68,7
Sovrappeso Uomini Donne 19,5 20,4 16,1 16,9 18,3 16,5 23,2 26,7 15,6 15,4 22,6 14,4 16,7 21,4 24,2 22,2
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14.4 15,6 9,8 9,5 17,6 10,4 15,1 17,8 10,5 13,4 12,2 14,4 21,2 17,8 15,7 13,8
Obesi Uomini
Donne
6,1 5,9 6,5 5,5 8,6 4,6 5,4 8,7 4,4 4,3 8,5 2,9 7,9 8,1 7,8 4,9
6,9 6,0 8,3 6,8 8,2 4,4 3,8 13,0 6,0 5,4 7,1 6,8 9,4 10,1 6,2 3,8
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Obesità in Italia – Ministero della Salute, 2002 e 2004 Italiani obesi ed in sovrappeso Obesi quattro milioni - In sovrappeso 16 milioni Distribuzione territoriale Obesi – Nord 8%; Sud 11%;, Isole 9,6% Sovrappeso – Nord 31%; Sud 38%; Isole 35% Spesa sanitaria della popolazione con obesità e sovrappeso Ricoveri ospedalieri 64% Esami diagnostici 12% Spese per farmaci 7% Spese per visite 6% Bambini obesi ed in sovrappeso (2004) Obesi 10% - Sovrappeso 36% Spesa annua stimata per malattie legate all’obesità: 22 miliardi di euro (2004)
Bambini e adolescenti con eccesso di peso in Italia 1999 – 2000 (Brescianini et al., 2002) Totali
Maschi
Femmine
Anni 6 – 9 Anni 10 – 13 Anni 14 - 17 Totali
33,6% 30,9% 17,3% 26,9%
34,6% 19,8% 10,5% 21,2
Energia alimentare nella popolazione italiana. Situazione ed obiettivi Grassi totali Grassi Origine Animale Carboidrati totali Zuccheri semplici Proteine Totali
Situazione
Obiettivo
35,7% 13,0% 48,4% 12,6% 15,9% 100,0
30% 10% 55% 10% 15% 100
dei cereali, per non parlare degli zuccheri, aumentano la glicemia dopo il pasto di due, tre volte rispetto ad un pasto costituito cibi preparati con farina integrale o con granaglie intere bollite. Ne è derivata una diffusa iperinsulinemia. Questa combinazione tra resistenza all’insulina ed iperinsulinemia è la comune base di molte moderne malattie (obesità, diabete di tipo
l’avvento dell’agricoltura, la dieta mutò, divenendo povera di proteine ed abbondante di carboidrati, molti dei quali complessi e con basso indice glicemico, con il conseguente solo modesto aumento della insulina nel sangue. La rivoluzione industriale ha aumentato la quantità di cereali ed ha fortemente e ulteriormente mutato la qualità dei carboidrati nella dieta. Le farine 228
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Percentuali di obesità e sovrappeso nel mondo (2002) Paese
Uomini Sovrappeso Obesi (IMC 25-29,9) (IMC >30)
Donne Sovrappeso (IMC 25-29,9)
9,5
26
Obese (IMC >30)
Italia
41
9,9
Europa Francia Germania Grecia Inghilterra Irlanda Islanda Jugoslavia Scozia Spagna Svizzera
49 45 44,5 46 54 25 56 33
12 18 29 21 20 19 36 20 10 6
30 41 33,8 33 39 32 43 17
17 20 28 21,6 16 15 40 22 14 5
America Usa
35
26
35
26
Asia e Australia Australia Filippine Giappone Malesia
45,2 12,7 24,3 24
18,5 1,7 1,9 5
28,8 15,2 20,2 18
18,2 3,4 2,9 8
IMC – Indice Massa Corporea (Peso in kg diviso per altezza in metri al quadrato) Normopeso – 21 – 25
sufficiente conto, almeno nella comunicazione alla popolazione, della qualità energetica degli alimenti (eccessi d’amidi e zuccheri semplici, grassi semplici) e soprattutto dello stile di vita (innaturale sedentarietà).
due, diabesità ecc.). Nell’ultimo mezzo secolo, la diffusione di fast food a basso prezzo ha esposto la popolazione dei paesi industrializzati ad un eccesso di alimenti energetici e con alto indice glicemico, mettendo in evidenza – soprattutto nell’età matura – la naturale resistenza all’insulina ereditata dai nostri antenati che erano sopravvissuti alle glaciazioni. L’insuccesso dell’educazione nutrizionale nel controllo dell’epidemia sovrappeso è dipeso dall’aver semplificato troppo il problema, riducendolo al solo contenimento dell’energia alimentare, senza tenere in
Bibliografia Brescianini S., Gargiulo L., Gianicolo E. Eccesso di peso nell’infanzia e nell’adolescenza. Convegno ISTAT, settembre 2002 Colagiuri S., Brand Miller J. The “carnivore connection”. Evolutionari aspects of insuline resistance. Europ. J. Clin. Nutr., 56, suppl 1, S3035, 2002
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regolazione del colesterolo nel sangue e d’alimenti anticolesterolo, non bisogna stupirsi se molte persone od intere popolazioni stanno benissimo anche con quantità alimentari di colesterolo molto superiori a quelle ritenute regolari. In taluni casi si è parlato di paradossi, come quello francese, di una popolazione che ha una dieta con quantità di colesterolo medio - alti, mentre la media di colesterolo nel sangue si mantiene normale.
Colesterolo: dalla paura alla necessità Il colesterolo è indispensabile per la vita degli animali, uomo compreso, che lo produce nella misura in cui non lo trova negli alimenti. In gran parte ingiustamente incriminato quale causa di malattie cardiovascolari, in una concezione evoluzionista i rischi che sono stati attribuiti al colesterolo assumono un ruolo secondario rispetto allo stile di vita. La questione colesterolo La questione colesterolo sta rapidamente cambiando, soprattutto per il ruolo che ha nell’alimentazione. L’organismo umano, ogni giorno, ha bisogno di una certa quantità di colesterolo, che per le persone adulte è stimata in circa 2.500 milligrammi. Il fabbisogno di colesterolo è però variabile ed aumenta durante l’accrescimento, con l’attività fisica ecc. Nelle persone sane vi sono meccanismi d’adeguamento ai bisogni e di controllo. Il colesterolo è quindi presente nel sangue anche di persone che sono strettamente vegetariane e la cui alimentazione n’è priva. Inoltre, se nell’alimentazione vi è molto colesterolo, ogni persona sana ne fabbrica poco e solo nella misura per coprire le sue necessità. All’opposto, una persona sana ne produce molto se l’alimentazione è povera di colesterolo. Questi meccanismi di controllo dipendono anche dalla genetica individuale e giustificano particolari situazioni familiari. Come norma prudenziale, si è stimato che il colesterolo presente nell’alimentazione non dovrebbe superare i trecento milligrammi, lasciando fare all’organismo per la restante quantità necessaria. Tuttavia, in una persona sana questo quantitativo può essere anche largamente superato senza danni, perché vi sono i già citati meccanismi di controllo ed in una dieta equilibrata e corretta dovrebbero essere presenti alimenti che naturalmente sono dotati d’attività anticolesterolo. Per la citata esistenza di meccanismi d’auto-
Gli alimenti anti-colesterolo La ricerca scientifica, dopo aver determinato la quantità di colesterolo nei diversi cibi e le sue modificazioni durante i processi di cottura, sta individuando nei diversi alimenti interessanti attività anti-colesterolo, che sono in parte alla base dei “paradossi del colesterolo”. Ricercando le origini di questi paradossi, oltre ai citati meccanismi di regolazione del colesterolo, si è stabilito quanto segue. Non tutto il colesterolo presente nella dieta è utilizzato, perché alcuni alimenti ne ostacolano l’assorbimento (attività anticolesterolo indiretta). Altri alimenti hanno attività anticolesterolo dirette e tra questi è da ricordare la carne magra (come quella della selvaggina, presente nella dieta umana paleolitica) ed il vino. Pertanto, più che il colesterolo presente in questo o quell’alimento, è importante la dieta nel suo insieme, come questa è costituita e se contiene alimenti con attività anticolesterolo. Colesterolo e grassi Interessanti ricerche stanno cambiando le nostre idee sul ruolo dei grassi. Si riteneva, e ancor oggi molti ritengono, che gli acidi grassi saturi siano cattivi e quelli insaturi buoni. Questa distinzione ha diverse eccezioni e la più importante quella dell’acido stearico (saturo e quindi cattivo), che l’organismo umano trasforma in acido oleico (insaturo e pertanto buono). Per questo, i grassi 230
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Vegetali anticolesterolo. Come è stato già detto, da qualche tempo è noto che alcuni alimenti, ad esempio la soia come altre leguminose, hanno la preziosa caratteristica di abbassare il colesterolo del sangue. La stessa, importante caratteristica, di tanto in tanto è scoperta anche in altri alimenti, soprattutto vegetali. In questi casi si arriva a gridare al miracolo od al paradosso. Uno di questi ultimi è il ricordato paradosso francese. Perché molti alimenti vegetali hanno la caratteristica di tenere basso il colesterolo del sangue, dimostrando di avere una vera e propria attività anti-colesterolica? Perché il vino rosso ha un’attività anti-colesterolica molto più spiccata del vino bianco? Domande non inutili, perché la preziosa caratteristica anti-colesterolica dei vegetali potrebbe essere persa, se non si facesse un’adeguata selezione dei vegetali destinati alla nutrizione umana. Oggi ci si è resi conto che l’attività anti-colesterolica è molto importante per i vegetali ed è interpretabile soltanto in un quadro evoluzionista. Infatti, il colesterolo è indispensabile per lo sviluppo delle larve degli insetti (che sono animali) e che parassitano i vegetali. Un’attività anticolesterolica è stata sviluppata e selezionata dalle piante, nel corso di centinaia di milioni d’anni, per difendersi dai parassiti. Attività anticolesterolica del vino. Da riproporre è qui l’esempio dell’uva. L’uva selvatica e quasi tutta l’uva coltivata, quest’ultima fino a poco tempo fa, avevano la buccia grossa e nera, che conteneva composti colorati (in particolare polifenoli) dotati d’intensa azione anticolesterolica ed era una protezione dagli insetti parassiti. Le uve nere, con maggiore attività antiparassitaria e quindi anticolesterolica, erano la conseguenza della selezione naturale. Si comprende come il vino rosso abbia un’attività anticolesterolica, ridotta per i vini bianchi, anche se ottenuti da uve nere, perché la vinificazione in bianco elimina i preziosi composti anticolesterolici della buccia. Oggi, peraltro, si ritiene che il
presenti nella carne magra, prevalentemente insaturi e perché l’acido stearico è trasformato in oleico, non sono da ritenere cattivi e controindicati, ma anzi sono favorevoli per una buona nutrizione. Le ricerche eseguite presso il Dipartimento di Biochimica e Biofisica della Facoltà di Nutrizione della Stazione Sperimentale d’Agricoltura del Texas (U.S.A.), guidate da Barbara C. O’Brien, tendono a fare un’altra distinzione tra gli acidi grassi polari e non polari. Gli acidi grassi polari, facilmente solubili e metabolizzabili, sono buoni ed abbassano il colesterolo. Gli acidi grassi polari si trovano soprattutto nelle cellule, in particolare nella loro membrana, e sono una caratteristica delle carni magre. Gli acidi grassi non polari, invece, soprattutto se di tipo saturo, tendono ad innalzare il colesterolo. Gli acidi grassi non polari sono concentrati soprattutto nei grassi di deposito, ad esempio nel sego dei ruminanti e nel lardo dei suini, che oggi hanno un ruolo ridotto nella nutrizione umana. A causa del diverso contenuto in acidi grassi polari o non polari vi sono delle diete che, indipendentemente dal loro contenuto in colesterolo, non provocano un suo innalzamento nel sangue, anzi lo abbassano. Carne magra e vegetali anticolesterolo Attività anticolesterolo della carne magra. È qui da ricordare quanto già detto per la carne magra, che assume un rilevante ruolo d’alimento anticolesterolo attraverso una dieta equilibrata e corretta, con una giusta quantità d’energia, fibra alimentare ecc. Nelle carni magre sono contenuti lecitine e fosfolipidi, che hanno potenti attività anticolesterolo. Nella dieta, le lecitine e composti analoghi portano alla produzione di colesterolo HDL e quindi favorevole. In una dieta equilibrata le lecitine dovrebbero avere un rapporto di almeno 10:1 con il colesterolo. Nelle carni magre questo rapporto è ancora più favorevole perché si situa a circa 14:1 231
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controllo del colesterolo ematico, nell’uomo ha una genetica che si è evoluta in relazione ad uno stile di vita caratterizzato da una significativa attività muscolare e da una dieta relativamente scarsa di grassi d’origine animale e ricca di vegetali con attività anticolesterolica. Anche se oggi il “problema colesterolo” si è in parte ridimensionato, da un punto di vista evoluzionista il controllo dell’ipercolesterolemia deve essere svolto agendo sia sullo stile di vita, sia sulla dieta nel suo complesso.
resveratrolo, una delle molecole con attività anti-colesterolo, sia prodotto anche da alcune muffe presenti sugli acini dell’uva e questo è da interpretare come una coevoluzione tra l’uva, la muffa ed i parassiti. Attività anticolesterolica delle leguminose. Una buon’attività anticolesterolica è attribuita alle leguminose (vedi), anche per la presenza in queste di saponine. Nel corso di milioni d’anni si sono selezionate le varietà dotate di maggiori azioni anti-colesteroliche e quindi di difesa contro gli insetti. Di recente alla selezione naturale si è sostituita quella artificiale e si sono sviluppate nuove varietà di leguminose molto produttive, senza prestare attenzione alle loro attività anti-colesteroliche. Anzi, queste sono diminuite, come dimostra il fatto che le nuove varietà sono più sensibili ai parassiti, appunto per la riduzione dell’azione anti-colesterolica. Di conseguenza si sono resi necessari trattamenti antiparassitari con i più diversi composti chimici. A parte i rischi dei composti chimici utilizzati in agricoltura, oggi vi è il rischio di un’ulteriore riduzione del naturale potere anticolesterolico dei vegetali coltivati. Attività anticolesterolica della cicoria. Recentemente è stata segnalata l’attività anti-colesterolica della cicoria. Meehye Kim e Hyung Kyung Shin (1998), hanno dimostrato che la radice della cicoria, inserita nella dieta anche in piccole dosi, aumenta nel sangue il colesterolo HDL o colesterolo buono, in generale diminuisce il colesterolo LDL o cattivo, e sempre vi è un significativo miglioramento del rapporto HDL/LDL. Nel sangue compaiono anche altre caratteristiche ritenute positive, ma sopra tutto aumenta l’eliminazione del colesterolo con le feci e la bile. Tutto fa ritenere che i benefici effetti della cicoria sul metabolismo del colesterolo (e dei grassi) siano dovuti all’inulina, oggi classificata tra le fibre alimentari solubili (vedi), che è anche il principale componente della radice della pianta. Colesterolo ed alimentazione darwiniana. Il
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produca quella del mare, quando i primi anfibi iniziarono la conquista della terra ferma. Gli animali sono diversamente avidi di sale. L’uomo, che ha un’elevata sudorazione, ha bisogno di relativamente elevate quantità di sale. Nell’uomo la necessità di sale alimentare dipende dalla dieta, ed in particolare dalla misura in cui l’uomo è carnivoro o vegetariano, e dall’intensità della sudorazione. In proposito vi sono casi estremi: scarsa necessità di sale nelle popolazioni prevalentemente carnivore e che vivono in ambiente freddo, come gli eschimesi; elevate necessità in popolazioni vegetariane di paesi caldi, come le popolazioni agricole africane. L’importanza del sale ha portato l’evoluzione biologica a sviluppare comportamenti di ricerca del sale e meccanismi biologici di regolazione e di risparmio.
Ipertensione: sale, un appetitogeno necessario La ricerca del sale è più antica dell’uomo ed è stata aumentata dall’agricoltura. Un eccesso di sale, in relazione alla genetica umana, sembra essere all’origine di patologie. Sale, alimento ancestrale È già stato ricordato che popolazioni amazzoniche, dopo aver cremato i propri morti, si cibavano delle loro ossa calcinate, dalle quali traevano forza e vigore. Senza dubbio, ritenevano, che lo spirito vitale del defunto passasse ed agisse in loro. Più semplicemente, con le ossa i parenti assumevano sali minerali, ma soprattutto il cloruro di sodio o sale marino, detto anche sale da cucina o, più semplicemente sale, scarso nella loro alimentazione prevalentemente vegetariana, in territori lontani dal mare e fortemente dilavati dalle piogge tropicali e subtropicali. Il sale, assunto con le ossa, dava benessere. Als o sal, radice di “sale”, soprattutto quello marino, è strettamente collegato al termine salus e cioè salute. Infatti una grave carenza di sale, cloruro di sodio, può indurre intensi disturbi e perfino la morte. La necessità di sale, è così forte da essere stato oggetto di una tassazione specifica. Senza sale si muore e con poco sale compare debolezza, cala l’appetito, aumenta la sete. Il sale non è soltanto un condimento od un appetitogeno, ma un alimento essenziale, tanto ricercato da essere usato come moneta o da dare, ai lavoratori della terra, uno specifico “salario” destinato al suo acquisto. Per questo il sale ed in particolare il sodio, uno dei suoi due costituenti, non solo è presente nel latte, ma se ve sono sia pur minime eccedenze, sono stoccate nelle ossa, per essere utilizzate nel momento del bisogno. Il sale è stato conosciuto ed utilizzato dalla vita fin dai suoi albori, quando iniziò nel mare primordiale. L’attuale composizione del liquido del sangue, infatti, si ritiene ri-
Voglia di sale È noto che le capre sono avide di sale. Le capre sono animali erbivori un tempo largamente usati per la produzione del latte, che contiene molto sodio, ricavato dal cloruro di sodio. Le capre, ma anche altri animali erbivori soprattutto da latte, sono dotate di un istinto per la ricerca del sale, fino a raggiungere il livello di una “fame specifica”. In queste condizioni gli animali leccano gli affioramenti di sale e lambiscono il proprio e l’altrui mantello, sul quale si ferma il sale del sudore. Vi sono specie di ruminanti selvatici, come gli gnu, che nelle loro migrazioni annuali passano in luoghi aridi dove vi sono affioramenti salini, leccando i quali si ricaricano per il resto dell’anno, depositando il sale nelle loro ossa. La ricerca del sale spinge i bovini allevati allo stato brado nell’America centrale a cibarsi delle ossa dei loro compagni morti, in una sorta di cannibalismo che, in animali erbivori, è comprensibile solo se si considera l’importanza del sale nell’alimentazione. La voglia o fame di sale è un comportamento, selezionato nel corso di milioni d’anni, 234
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elabora i mineralcorticoidi destinati a regolare l’acqua ed i sali, soprattutto cloruro di sodio, nell’organismo) e gli ormoni dell’ipofisi che regolano la quantità d’urina e la sete (ormone antidiuretico). Importante è anche il rene, che mantiene nell’organismo le giuste quantità d’acqua e di cloruro di sodio. Da non sottovalutare, infine, l’eliminazione di sale attraverso la pelle e con il sudore e, nella donna che allatta, con il latte. Si è tuttavia visto che l’attività dei meccanismi di regolazione del sale non è uguale in tutte le popolazioni, il che ha non piccole conseguenze, anche sanitarie.
che si trova anche nell’uomo. La specie umana, che si è evoluta in Africa, soprattutto nelle parti centrali, lungo l’attuale Valle del Rift, non aveva forse bisogno di molto sale, almeno fino a quando era onnivora, viveva nella foresta, vicino ad acque probabilmente salmastre. Il passaggio alla savana calda ed asciutta, e lo sviluppo della caccia d’inseguimento, con lunghe e prolungate corse e con elevata sudorazione, ha comportato un maggior bisogno di sale. Si sono così selezionate linee genetiche umane che meglio erano capaci di trattenere o risparmiare il sale. In linea di massima sono più atte a trattenere il sale le popolazioni umane che si sono sviluppate nelle aree continentali, soprattutto se calde (la già citata Amazzonia, il centro dell’Africa, le steppe asiatiche ecc.), mentre vi è una minore tendenza in quelle che abitano le coste marine, ad esempio del Mediterraneo. Qui è bene premettere che trattenere il sale significa anche mantenere acqua nell’organismo e, quindi, aumentare il volume del sangue, con la conseguenza di mantenere in giusto grado anche la sua pressione. Il mantenimento del sale nell’organismo è così importante che ha indotto a selezionare meccanismi specifici. Un breve eccesso di sale, peraltro raro in condizioni biologiche umane normali, è rapidamente corretto con un aumento della sua eliminazione (aumento della sete e dell’urinazione). Vi sono animali, come gli uccelli marini, che ai lati degli occhi hanno delle particolari ghiandole del sale, con le quali eliminano il sale introdotto in eccesso con l’alimentazione (pesce ed acqua di mare). Si spiega così come questi animali possano vivere senza acqua dolce, ma anche perché l’uomo abbia lacrime salate: un antichissimo retaggio di un nostro progenitore, più o meno marino. Tornando all’uomo, la presenza del sale è regolata da un complesso e delicato equilibrio. A questo partecipano diversi ormoni, ad iniziare da quelli della ghiandola surrenale (che
Le tre “rivoluzioni saline” Fino a 10.000 anni fa le popolazioni umane di cacciatori e raccoglitori avevano una dieta con circa 800 milligrammi di sodio il giorno (circa 2 grammi di sale). Una quantità di sodio assolutamente normale, che oggi dai ricercatori è stimata tra i 500 e 2400 milligrammi di sodio, corrispondente a 1,25-6 grammi di sale il giorno. Inoltre il sodio era in equilibrio con il potassio. L’uomo era ed è ancora più o meno geneticamente adatto a questa quantità di sale nella dieta. L’uomo ha però dovuto affrontare tre “rivoluzioni saline”. La prima “rivoluzione salina” ha coinciso con l’avvento dell’agricoltura ed è stata caratterizzata dai seguenti elementi. Innanzi tutto vi è stato un significativo aumento della quota alimentare vegetale, scarsa di sodio e ricca di potassio. Molto spesso vi è stata anche l’estensione delle popolazioni umane in aree continentali lontane dal mare e povere di sale. La lavorazione dei campi, per guadagnarsi il pane con il “sudore della fronte” ed ovviamente di tutto il resto del corpo, non solo ha fatto aumentare la “voglia di sale”, ma ha anche privilegiato alcune le linee genetiche capaci di trattenere il sale meglio di altre. Una seconda “rivoluzione salina” vi è stata quando il sale è divenuto facilmente disponibile per tutti ed è stato sempre più utiliz235
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che lo fanno ritenere probabile, e non è un caso che tra gli obiettivi di una corretta nutrizione vi sia anche quello di contenere l’uso del sale. Da un punto di vista della patologia alimentare darwiniana è interessante rilevare che la costituzione genetica ha indubbiamente un ruolo epidemiologico riguardo all’ipertensione arteriosa. Almeno a questo riguardo, la maggiore diffusione dell’ipertensione nella popolazione nera americana, rispetto a quella bianca, può essere interpretato in questo senso. Popolazioni che si erano selezionate nella direzione di risparmiare sale, come quelle africane del centro Africa, di fronte ad una larga disponibilità di sale come nell’attuale situazione nordamericana, sarebbero più predisposte all’ipertensione di popolazioni, ad esempio d’origine mediterranea, che si erano evolute in condizioni di larga disponibilità salina. (Ad esempio in Sicilia non esisteva il monopolio del sale).
zato nella conservazione degli alimenti, per questo il suo consumo è aumentato, sia pure contenuto dalle tasse. La tassa sul sale, che oltretutto era oggetto di monopolio, in Italia è rimasta fin alla seconda metà del secolo ventesimo. Recentemente vi è stata una terza “rivoluzione salina”, quando il sale è divenuto disponibile a prezzi irrisori rispetto al reddito. Soprattutto in popolazioni nelle quali la “normale” genetica spingeva alla sua ricerca, vi è stata un’elevazione dei consumi, che hanno sfruttato il suo elevato potere appetitizzante. Molti sono gli alimenti industriali, anche dolci, che contengono sale. Oggi, l’alimentazione giornaliera di ogni persona dei paesi industrializzati contiene circa 10 grammi di sale da cucina, ma non sono rare quantità ancora superiori e che raggiungono i dodici, quattordici ed anche diciotto grammi il giorno. Nell’alimentazione umana, da una carenza salina, si è passati ad un eccesso di sodio ed in particolare di cloruro di sodio. Dal paleolitico ad oggi, in larga media, il sodio nell’alimentazione umana è aumentato di 7,35 volte, mentre nello stesso periodo la genetica umana non è sostanzialmente cambiata e la vita, inoltre, si è allungata di oltre due volte.
Eccessi cronici di sale Tutto fa ritenere che la nostra genetica, pur con una certa gamma di diversità, e tendenzialmente indirizzata ad un risparmio di sale, abbia anche la capacità d fronteggiare un suo eccesso. Probabilmente nella nostra storia naturale, depositata nei nostri geni, resta ancora traccia di quando era necessario eliminare il sale ed il riferimento che è stato fatto della salinità delle lacrime è interessante. Comunque il rene è il grande eliminatore di sale, coadiuvato, è bene ripetere, dalla pelle. Il dubbio che rimane è se i sistemi di eliminazione di un eccesso di sale possono funzionare non solo per la durata biologica media della vita umana (trenta, al massimo cinquanta anni), ma per periodi doppi, quali sono gli odierni, di settanta, ottanta e più anni. Del sale si è parlato bene fin dalla notte dei tempi, ma recentemente e da quando il prezzo del sale è divenuto irrisorio e la vita umana si è allungata, si è incominciato a temere per un suo eccesso nella dieta. Sul sale
Ipertensione genetica Probabilmente, fino a 10.000 anni fa l’aumento anormale della pressione del sangue nelle arterie (ipertensione), con tutte le sue malefiche conseguenze (infarto, ictus ecc.) non esisteva od era rarissima. Non solo perché la vita media era breve, di soli venticinque, trenta anni, con punte eccezionali di cinquanta anni o poco più, ma perché vi era anche un giusto equilibrio tra genetica, stile di vita ed alimentazione, con particolare riguardo alla quantità di sale nella dieta. Se la quantità di sale nella dieta, od anche solo una sua elevata presenza, sia un fattore di rischio per l’ipertensione arteriosa è ancora discusso. Vi sono indagini epidemiologiche 236
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la quantità di sale nella normale alimentazione, anzi potrebbe essere dannoso, dato che in coloro che consumano poco sale (circa 2,5 grammi di sale da cucina il giorno) vi è un maggiore rischio di morte per cause cardiovascolari o di ogni altro tipo. Una conclusione che non avrebbe stupito i nostri antenati che collegavano il “sale” alla “salute”. Diversa è ovviamente la situazione di persone con malattie o disturbi per i quali devono seguire diete speciali. Una notizia quindi confortante per chi aveva dubbi di poter continuare ad alimentarsi con pasta cotta in acqua salata, insalate, vegetali in salamoia, carni e pesce conservati con il sale. Oggi, inoltre, le carni conservate e soprattutto quelle di maiale (salumi) contengono quantità sempre minori di sale e quindi non costituiscono un rischio, anzi sono un beneficio, per la salute pubblica.
nella dieta si è infatti costruito un “sillogismo” od un “teorema” alimentare che può essere così sintetizzato: a) un eccesso di sale nella dieta tende ad aumentare la pressione del sangue nelle arterie; b) una pressione alta favorisce la comparsa di incidenti cardiovascolari; c) di conseguenza molto sale nella dieta provoca ictus, infarti ed altri problemi circolatori. Su questo sillogismo o teorema si vorrebbe anche impostare una campagna di educazione alimentare per una dieta scarsa di sale. Meno sale nella dieta significa, automaticamente e per tutti, più salute? Oggi vi sono dubbi. Non solo perché si andrebbe contro ad un’opinione antichissima (ma oggi le condizioni di vita sono diverse di quelle di un tempo) e perché la dieta mediterranea, sviluppata in paesi costieri di un mare particolarmente salato e dove non vi erano limitazioni di uso (in Sicilia il sale non era oggetto di tassazione, tanto che si era sviluppato un contrabbando verso l’Italia continentale), ma perché recenti indagini non dimostrano un rischio chiaramente apprezzabile, almeno per consumi di sale non eccessivi. Aldermann M. H. e collaboratori (1998) hanno pubblicato uno studio che, iniziato tra il 1970 ed il 1975, è stato completato con un riesame compiuto nel 1992, e nel quale sono state interessate circa 20.000 persone di età compresa tra i 25 ed i 75 anni, 11.500 delle quali sono state sottoposte ad una valutazione medica. I risultati dello studio non mostrano alcuna correlazione positiva tra consumo di sale (da 11 a 2,5 grammi il giorno) e mortalità cardiovascolare o per altre cause. Si osserva, addirittura, che le persone che consumano circa 11 grammi di sale di cucina il giorno tendono ad avere un rischio di morte, per cause cardiovascolari o per qualunque altra causa, inferiore del 20% circa rispetto alle persone con i consumi più bassi (circa 2,5 grammi il giorno). In una popolazione normale e sulla base dei recenti studi, non è quindi necessario ridurre
Cucina, gastronomia e patologia alimentare darwiniana Una cucina senza sale? Certamente no, anche perché il sale è indispensabile. Una cucina con una giusta dose di sale però sì: una quantità di sale inferiore a quella alla quale oggi ci siamo abituati. Il sale è un potente appetitogeno ed, inoltre, invita a bere. Questo spiega come molti snacks siano salati o dolci e salati al tempo stesso. Infatti i due gusti possono coesistere ed essere apprezzati. Anche la moderna gastronomia è attenta al sale. Un’elevata presenza di sale, infatti, può coprire altri sapori meno marcati e delicati. Al sale, inoltre, ci si abitua ed, entro certi limiti, dà assuefazione. Un eccesso di sale appiattisce molti gusti ed uniforma le cucine, togliendo loro le specificità e quindi va contro la tradizione. Una cucina del sale (salvo usarlo come “contenitore” per cuocere il pesce, ad esempio) non è certamente “gastronomica” Qual era la cucina di un tempo? Certamente risparmiosa di sale e si avvicinava all’alimentazione paleolitica ed alla prima cucina neo237
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Sodio e potassio - Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana attuale (Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Parametro
Sodio
Potassio
13,5 (0-352)
448 (5,1-1665)
Media in 85 alimenti animali presenti nella dieta dei cacciatori-raccoglitori milligrammi/100g
59 (D.S. 23,6)
317 (D.S. 43,3)
Consumo giornaliero Paleolitico milligrammi/giorno
768
10500
500-2400
3500
Consumo giornaliero USA milligrammi/giorno
4000
2500
Concentrazione nell’alimentazione paleolitica (milligrammi/1000 Kcal)
256
3500
Concentrazione nell’alimentazione americana (milligrammi/1000 Kcal)
1882
1177
Rapporto Paleolitico:Americano
0,136
2,97
Media in 236 alimenti vegetali presenti nella dieta dei cacciatori-raccoglitori milligrammi/100g
Dosaggio raccomandato USA milligrammi giorno
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litica ed, infine, ai fabbisogni nutrizionali dell’uomo, quali gli derivano dalla sua genetica. Una cucina che, inoltre, utilizzava altri appetitogeni, quelli delle erbe aromatiche: sia alimenti vegetali e sia condimenti, che erano usati in una grandissima varietà. Una gran varietà che assicurava la biodiversità alimentare necessaria all’uomo e le “molecole strategiche” necessarie alla sua salute, tra queste soprattutto i già citati Phytochemicals. Oggi la gastronomia tende a recuperare i valori del passato, ma soprattutto esaltare i sapori genuini degli alimenti, evitando l’appiattimento ed uniformazione del gusto che deriva da un eccesso di sale. Una cucina con poco sale, ed una gastronomia che valorizza gli aromi naturali degli alimenti, sono al tempo stesso buone e salutari, ma soprattutto si collegano ad una genetica umana che si è evoluta con una non elevata disponibilità di sale (sodio) e con una più o meno elevata capacità di risparmiarlo. Bibliografia Aldermann M.H. e coll. The Lancet, 351, 781-785, 1998 Baker E.H., Ireson N.J., Carney C., Markandu-
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Osteoporosi: calcio e magnesio, grandi minerali necessari per la vita
MALATTIE DA ASSENZE NUTRIZIONALI E PATOLOGIA ALIMENTARE DARWINIANA
Il calcio ed il magnesio sono i principali costituenti delle ossa, hanno molte funzioni indispensabili per la vita e devono essere presenti nella dieta. Per il calcio esistono delicati sistemi di controllo ed una chiara base genetica di ricerca attraverso una fame specifica che induce anche a mangiare la terra (geofagia). Altrettanto non pare avvenire per il magnesio. I nostri antenati avevano un’alimentazione ricca di minerali, ai quali avevano adeguato la loro genetica. Nei paesi industrializzati la dieta corrente è carente di calcio e, sempre più, di magnesio.
La moderna alimentazione sta mettendo in luce il ruolo e l’importanza di carenze alimentari, che un tempo erano in buona parte evitate con la grande biodiversità alimentare della nostra specie. Oggi siamo particolarmente interessati alle carenze di calcio, magnesio, ferro ed altri oligominerali o oligoelementi, fibra alimentare, vitamine ed anche fitoestrogeni. Per il calcio esistono delicati sistemi di controllo ed una chiara base genetica di ricerca attraverso una fame specifica, che induce anche a mangiare la terra (geofagia), ed i nostri antenati avevano un’alimentazione ricca di minerali, ai quali avevano adeguato la loro genetica. Nei paesi industrializzati la dieta corrente è scarsa di calcio e, sempre più, di magnesio. La diffusa e grave carenza di ferro provoca importanti menomazioni psicofisiche nelle popolazioni umane ed è la conseguenza dell’aver dimenticato l’alimentazione proteica carnea determinata dai nostri geni. Una ventina di minerali sono necessari per la vita e la salute, ed importante è la forma sotto la quale sono presenti negli alimenti. La purificazione degli alimenti spesso li priva dei preziosi minerali ed espone l’uomo moderno ai rischi di nuove carenze nutrizionali, sconosciute nel paleolitico. Nell’uomo gli alimenti sono fermentati nel grosso intestino, dando origine a nutrienti importanti per la salute, e diverse malattie della civiltà sono collegate ad insufficienti fermentazioni intestinali. Molte vitamine sono indispensabili per una buona salute e non mancavano nell’alimentazione umana atavica, ma i mutati ambienti e stili di vita, l’agricoltura e l’industrializzazione alimentare oggi favoriscono le carenze vitaminiche.
Importanza del calcio alimentare e sua presenza nella dieta paleolitica Nei paesi industrializzati circa una donna anziana su sei subisce la frattura del femore con gravi conseguenze. Molte donne sono colpite dal cancro del seno. Sempre più numerosi uomini e donne vanno incontro ad ipertensione arteriosa ed, in misura minore, a cancro del grosso intestino. Se si considera la somma di dolore e sofferenza, ma anche il danno economico diretto ed indiretto (ospedalizzazione, medicinali ecc.) dell’ora ricordate malattie, una prevenzione globale, soprattutto se poco costosa, è assolutamente indispensabile. Il fattore che accomuna le malattie sopra citate, nell’insorgenza ma soprattutto nella prevenzione, è la marcata e prolungata carenza di calcio nell’alimentazione. Per questo si parla di “Fattore Calcio”. La carenza di calcio nell’alimentazione umana è un fenomeno recentissimo, almeno da un punto di vista biologico. Il calcio era abbondante nella dieta dei nostri antenati. Gli studi antropologici dimostrano che nel Paleolitico (35.000-10.000 anni fa), ma anche dopo la diffusione dell’agricoltura, nell’alimentazione umana l’elevata quota di vegeta240
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unici meccanismi adattativi riguardano il mantenimento della sua costante concentrazione nel sangue (calcemia), non il suo deposito nelle ossa, scarsamente utile con un’alimentazione nella quale il calcio era abbondante. Una dieta prolungata con una quantità insufficiente di calcio, soprattutto nelle condizioni ormonali che accompagnano e seguono la menopausa, porta inevitabilmente ad una riduzione della massa ossea e quindi ad un’aumentata fragilità soprattutto in alcuni punti critici, come la parte alta del femore sulla quale grava tutto il peso corporeo. Il calcio alimentare e soprattutto alcune sue forme presenti nei vegetali, ad esempio il fitato di calcio, interviene nell’inattivazione di cancerogeni intestinali e contrasta validamente il cancro del grosso intestino. Numerose sono le osservazioni e gli studi che dimostrano come un adeguato apporto alimentare di calcio previene l’ipertensione arteriosa associata alla gravidanza ed all’età matura. Più recenti ed ancora incomplete, ma non per questo trascurabili, sono le osservazioni che correlano una buona quantità di vitamina D (e calcio) con la prevenzione del tumore del seno. Oggi dobbiamo essere convinti dell’estrema importanza di una dieta ricca di calcio per una buona salute e per prevenire gravi malattie. Per questo bisogna assolutamente sfatare l’idea che un eccesso di calcio nella alimentazione possa provocare dei danni. Infatti, l’organismo umano da almeno un milione d’anni si è abituato a non assorbire o ad eliminare il calcio che fosse in eccesso nella dieta. Una dieta calcificante deve contenere alimenti ricchi di calcio e di vitamina A e D, limitando alimenti che contrastano l’utilizzazione del calcio o ne favoriscono l’eliminazione. Una dieta corretta per il calcio (almeno due o tre volte quello presente oggi nell’alimentazione dei paesi industrializzati) ha un’azione di tipo preventivo e dovrebbe essere seguita per tutta la vita. Ovviamente, la stessa dieta è di buon aiuto ad eventuali interventi curativi, ad esem-
li ricchi di calcio forniva una quantità di minerali cinque volte superiore a quell’odierna. Inoltre la vita all’aria aperta forniva un’elevata quantità di Vitamina D (prodotta dai raggi ultravioletti del sole sulla pelle) che agevola l’assorbimento del calcio da parte dell’intestino. Infine nella donna vi è un meccanismo ormonale che tende ad accumulare calcio nelle ossa in vista della gravidanza (calcificazione delle ossa del feto) e soprattutto della produzione di latte (ricco di calcio), ma questi meccanismi si riducono con la menopausa, perché biologicamente inutili. Non è da sottovalutare che, come recentemente hanno visto Sebastian e coll. (2002), la dieta paleolitica comportava una limitata acidosi metabolica, che è invece oggi aumentata almeno di due volte, il che comporta alterazioni nell’assorbimento ed eliminazione del calcio alimentare. Moderna carenza di calcio Nei paesi industrializzati l’alimentazione si basa su vegetali scarsamente dotati di calcio. Inoltre, la moderna dieta contiene alte quantità di proteine e soprattutto di fosforo e questo facilita l’eliminazione del calcio attraverso le urine. Vi è anche una maggiore acidosi metabolica che comporta un maggior fabbisogno di calcio. Anche l’azione dei raggi solari è oggi limitata da una vita che si svolge prevalentemente in ambienti chiusi e dalla protezione con filtri protettivi contro i raggi ultravioletti del sole. Limitate sono le quantità di latte e latticini, alimenti che possono fornire la necessaria quantità di calcio. Anche l’acqua è sempre più frequentemente decalcificata e si è diffusa l’abitudine di bere acque oligominerali. La gran disponibilità di calcio nella dieta umana durante un milione d’anni ha impedito che si sviluppassero meccanismi di risparmio del calcio, come invece è avvenuto per altri minerali, ad esempio il sodio. Di conseguenza il calcio è continuamente perduto attraverso le urine, feci e sudore, anche quando è scarso nella dieta. Gli 241
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quindi non contribuiscono molto a coprire il fabbisogno giornaliero. In una moderna dieta ipocalorica od anche normocalorica è facile che la quantità di magnesio sia d’alcune centinaia di milligrammi e non si arrivi ai 500-600 milligrammi che costituiscono la quota di sicurezza. Se questa dieta è seguita per lunghi periodi, è facile una subcarenza cronica di magnesio, che mantiene la sua normale concentrazione nel sangue, ma cala soprattutto nei muscoli e nel cervello. In caso di subcarenza di magnesio è sufficiente che vi sia un aumento della sua eliminazione, ad esempio per un disturbo intestinale (diarrea), perché la carenza divenga manifesta. La diagnosi di subcarenza di magnesio, la forma più diffusa, non è aiutata dagli esami del sangue. Infatti, nel sangue il magnesio rimane normale, mentre diminuisce nei muscoli (crampi, improvvisi e dolorosi, a volte senza alcun apparente motivo) e nel cervello (ipereccitabilità e nervosismo altrimenti inspiegabile). La diminuzione del magnesio a livello di ghiandole endocrine (paratiroidi) provoca turbe nella regolazione della calcemia (quantità di calcio nel sangue). Il sospetto di subcarenza di magnesio può trovare una conferma in un trattamento ex iuvantibus e cioè dall’esito di una dieta particolarmente ricca di magnesio o di una somministrazione di magnesio in forma ben assorbibile (molti sali di magnesio, come l’ossido od il solfato sono scarsamente assorbiti e per la loro azione purgativa possono aggravare la situazione). Non bisogna però attendersi dei risultati immediati: per la scomparsa dei sintomi (crampi e nervosismo) è, infatti, necessario che il magnesio ritorni a livello normale nei muscoli e nel sistema nervoso ed è sempre necessario un certo periodo di tempo.
pio con ormoni (per la decalcificazione ossea), farmaci antipertensivi (per l’ipertensione arteriosa) e antiossidanti (per la prevenzione di forme tumorali). Non solo calcio: importanza del magnesio Crampi muscolari dolorosi e improvvisi soprattutto notturni, ipereccitabilità e nervosismo sono disturbi per i quali si lamentano molte persone, soprattutto donne dopo la menopausa, che seguono una dieta per mantenere la linea. I disturbi sono più frequenti nelle persone che hanno disturbi intestinali (diarrea) anche lievi. I disturbi ora citati non sono facilmente spiegabili, anche perché gli esami del sangue sono in sostanza normali. È tuttavia molto probabile si tratti di una carenza o subcarenza di magnesio. Una carenza di magnesio era nel passato molto rara se non eccezionale, tanto da essere ritenuta praticamente impossibile. Oggi, invece, molte cose sono cambiate e le subcarenze di magnesio si stanno diffondendo. Quando il magnesio è carente, diminuisce anche la capacità dell’organismo nel regolare la calcemia (quantità di calcio nel sangue), con una serie di conseguenze che possono riguardare la contrazione dei muscoli, il controllo della pressione arteriosa e l’attività dei farmaci antipertensivi. La quantità giornaliera di magnesio che una persona adulta deve introdurre con l’alimentazione, è di 500-600 milligrammi. La carenza di magnesio deriva di solito da un’insufficiente introduzione con gli alimenti. Il magnesio è presente in alimenti che una volta costituivano la base della dieta, dai vegetali più diversi alle granaglie (frumento ecc.) intere. Mezzo chilogrammo di pane integrale fornisce circa 500 milligrammi di magnesio, sufficiente per coprire l’80% delle necessità di una persona adulta normale, e due etti di spaghetti forniscono circa il 20% del fabbisogno di magnesio. Altri vegetali sono ricchi di magnesio (finocchi, piselli e patate), mentre la maggior parte degli altri vegetali hanno 10-20 milligrammi per etto e
Calcio, magnesio e patologia alimentare darwiniana Durante l’evoluzione sono stati sviluppati sistemi di assunzione del calcio e del magnesio, anche in rapporto alla dieta naturale 242
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Calcio – Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana attuale (da Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Parametro
Calcio
Media in 236 alimenti vegetali nei cacciatori – raccoglitori Milligrammi/100 g
103 (1-650)
Media in 85 alimenti animali nei cacciatori – raccoglitori Milligrammi/100 g Introduzione media giornaliera Paleolitico Milligrammi/giorno
22,7(*) (D.S. 30,9) 1956
Introduzione media giornaliera raccomandata USA Milligrammi giorno
800-1200
Introduzione media giornaliera USA Milligrammi/giorno
750
Concentrazione nell’alimentazione paleolitica Milligrammi/1000 Kcal
653
Concentrazione nell’alimentazione americana Milligrammi/1000 Kcal)
392
Rapporto – Paleolitico: Americano attuale
1:1,67
(*) Compreso frattaglie, pelle, piccole ossa, midollo osseo, insetti, crostacei
Bibliografia
umana ed agli stili di vita della specie, con un periodo di riproduzione contenuto dal secondo al terzo decennio di vita. In modo analogo sono stati sviluppati anche comportamenti atti ad introdurre il calcio nella dieta, ad iniziare dalla ricerca di terra alimentare o geofagia. Nelle società industrializzate si sono invece create condizioni che portano ad un’insufficiente introduzione alimentare dei due minerali, mentre l’allungamento della vita, ben al di là del periodo riproduttivo, nella donna ha creato la nuova condizione dell’osteoporosi, che non trova riscontro nell’antichità umana ed in altre specie di mammiferi.
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Capitolo III
ha molte funzioni biologiche e questo spiega gli effetti ampi e diversificati della sua carenza. Il ferro è introdotto nell’organismo attraverso la dieta, con meccanismi d’assorbimento intestinale che sono sufficientemente noti. Oggi è sempre più evidente l’importanza che ha, per l’assorbimento del ferro, la forma sotto la quale è presente nell’alimento. Il ferro eminico contenuto negli alimenti d’origine animale è molto più assorbibile di quello non eminico degli alimenti vegetali. Per questo, il semplice contenuto di ferro dei singoli alimenti non deve trarre in inganno, a causa della molto diversa disponibilità alimentare del metallo. L’alimentazione di una buona parte della popolazione umana nei paesi industriali ed in quelli in via di sviluppo non è adeguata alle necessità biologiche determinate dalla genetica. Da qui la citata diffusione della carenza di ferro e la scarsa efficienza di una supplementazione con ferro in forma inorganica. A questo proposito oggi è ben evidente quanto segue. Nei vegetali vi sono quantità di ferro discrete, ma scarsamente utilizzabili. Nei semi di leguminose secchi (ad es. farina di soia) sono contenuti 80-90 mg di ferro per Kg, con un assorbimento però soltanto di circa il 7% (circa 7-8 milligrammi). In molti altri alimenti vegetali non solo la quantità di ferro presente è inferiore (nel mais ad esempio 5 mg/Kg), ma è anche bassa la percentuale d’assorbimento, non raramente dell’ordine dell’1,5-3% del ferro presente. Ad esempio la quantità di ferro assorbito da un chilogrammo di mais è di circa 75 microgrammi. Negli alimenti carnei la quantità di ferro è più elevata, com’è anche la percentuale d’assorbimento, che può arrivare ed anche superare il 20%. Analogamente ai prodotti carnei si comporta il latte, nel quale le limitate quantità di ferro (circa 50 microgrammi per litro, nel latte di vacca) sono assorbite in elevata percentuale, perché legate alla lattoferrina. Considerando il latte come sostanza
Ferro: una carenza mondiale La diffusa e grave carenza di ferro provoca importanti menomazioni psicofisiche nelle popolazioni umane ed è la conseguenza dell’aver dimenticato l’alimentazione proteica carnea determinata dai nostri geni. Carenza nutrizionale di ferro, problema mondiale John Beard e Rebecca Stoltzfus (2000) hanno recentemente affermato che la carenza di ferro colpisce dal 20 al 50% della popolazione mondiale, costituendo la più comune deficienza nutrizionale nelle popolazioni dei paesi industrializzati e dei paesi sottosviluppati. La carenza di ferro è oggi considerata un’emergenza nutrizionale mondiale. Questa carenza, oltre all’anemia evidente nei casi gravi, in quelli moderati provoca una serie di danni organici e psicologici, soprattutto nella fase di sviluppo. Nel bambino è stato dimostrato un ritardo dell’accrescimento corporeo, un più basso sviluppo mentale con minore quoziente d’intelligenza (IQ), un minor rendimento scolastico e d’attività di gioco attivo, la minore resistenza alla fatica fino alla letargia. Nell’adulto, oltre alla minore attività cerebrale e la scarsa resistenza alla fatica fisica ed al lavoro, è stata dimostrata la diminuzione della capacità lavorativa per operazioni ripetitive. Nella donna si è vista la comparsa di parto prima del termine naturale, il basso peso del bambino alla nascita, l’aumento della mortalità materna, perinatale, neonatale e giovanile. Sono state inoltre stabilite relazioni tra la carenza di ferro, una minore resistenza alle infezioni ed una riduzione delle attività ormonali. Il ferro nella vita Il ferro è un minerale che in piccole quantità è indispensabile per la vita. Si trova soprattutto nel sangue e nei muscoli, ma è necessario a tutti gli organi perché è presente in numerosi enzimi essenziali per la vita. Il ferro 244
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gli stessi elementi contenuti nei vegetali e tanto meno aggiunti all’alimentazione sotto forma inorganica. Recenti indagini indicano che in una dieta mista, con presenza di carne e vegetali, la prima aumenta l’assorbimento del ferro dei vegetali. Indagini e considerazioni sulla validità di una dieta corretta per prevenire le carenze di ferro sono state recentemente sviluppate da diversi autori, tra i quali bisogna ricordare Hallberg e coll. (1998), e portano a concludere che la presenza di carne nella dieta è indispensabile per controllare le carenze di ferro marginali, di notevole importanza sull’immunità ed il comportamento. Ferro della carne e immunità. Da qualche tempo noto che in presenza di carenza di ferro (sideropenia), anche in grado non elevato e prima ancora che compaia anemia, le infezioni sono più frequenti e gravi, anche se eccessi di ferro facilitano le infezioni. Un’alimentazione con carne apporta ferro ben assorbibile ed utilizzabile, ma evita ogni possibile eccesso di ferro con le sue dannose conseguenze. Carenza di ferro e comportamento. Nell’uomo sono stati documentati rapporti tra carenza di ferro e diminuzione delle capacità cognitive, ma soltanto recentemente sono state chiarite le cause. Anche sulla base di studi precedenti, nel 1982 Pollit e Leibel dimostrarono che turbe del comportamento con deficit cognitivi e dell’apprendimento si manifestavano nei bambini con lieve carenza di ferro, tale da non provocare anemia; questi risultati furono successivamente confermati da diversi altri ricercatori (Scrimshaw, 1991). Una possibile spiegazione neurochimica potrebbe derivare dal fatto che nel cervello il ferro interviene sul numero di ricettori per la dopamina di tipo D2, il che induce a ritenere che il ferro sia importante per il normale sviluppo e funzionamento dei neuroni dopaminergici e che carenze precoci possano produrre danni permanenti. La distribuzione del ferro nel cervello rispecchia
secca e l’elevata percentuale d’assorbimento del ferro, si costata che questo alimento può fornire molto più ferro dei vegetali comunemente usati in alimentazione umana. Vedi anche ulteriori precisazioni nel successivo capitolo sugli oligoelementi. La composizione della dieta determina la quantità di ferro assorbita e sono state identificate condizioni che facilitano od ostacolano l’assorbimento del ferro. Carenza di ferro o carenza di carne? Popolazioni umane con diete prevalentemente o completamente vegetali, anche se integrate con sali inorganici di ferro, hanno carenze di ferro, più o meno manifeste e di notevole importanza pratica. La sideropenia (carenza alimentare di ferro), un tempo valutata quasi esclusivamente come causa d’anemia, oggi assume aspetti più ampi ed importanti per i rapporti dimostrati con le difese antinfettive e le attività neuro-ormonali. Un corretto controllo della sideropenia ha strette relazioni con la salute psicofisica ed il benessere. La soluzione non è quella di fornire ferro come minerale o sale minerale inorganico, ma di adeguare la dieta alla biologia umana, in particolare per quanto riguarda l’apporto carneo o d’alimenti d’origine animale, in una misura di 1,5-2 grammi di proteina per chilogrammo di peso corporeo. Un apporto proteico che è stato calcolato essere stato quello dei nostri antenati neolitici, dei quali abbiamo ancora in noi i geni. Avevano quindi ragione i vecchi medici che per l’anemia o come “ricostituente”, più che ai farmaci credevano in una… buona bistecca. La carne contiene diversi oligoelementi o microminerali oltre il ferro: rame, zinco, cromo e selenio. Questi oligoelementi sono presenti sotto forma organica, che assicura una buona biodisponibilità ed al tempo stesso un’elevatissima tollerabilità. Ne derivano elevate azioni biometaboliche ed un’ottima attività nutrizionale, che non si riscontra per 245
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turi, spesso associati alla carne degli animali prodotti dai moderni sistemi d’allevamento. Le ricerche di Mann confermano quanto noto da qualche tempo, vale a dire che diete con elevate quantità di carne rossa magra apportano significative quantità di ferro, zinco e di vitamina B 12. La storia alimentare dell’uomo e dei preumani dimostra che per un periodo almeno di due milioni i nostri antenati hanno mangiato quantitativi crescenti di carne. Durante questo periodo, durante il quale ha agito la selezione naturale, vi è stato un adattamento della genetica ad un’alimentazione ricca di carne. Si trattava di carne derivata da animali selvatici, povera di grassi e soprattutto di quelli saturi e ricca d’acidi grassi polinsaturi (PUFA), ricca inoltre di oligoelementi sotto forma organica, in particolare di ferro.
quella dei neuroni che liberano il neurotrasmettitore GABA (acido gamma - amino butirrico). Il ferro si trova anche nella monoaminossidasi, un enzima fondamentale per la produzione di un gran numero di neurotrasmettitori, fra cui la serotonina, la noradrenalina e l’adrenalina, oltre alla dopamina. Carne nella dieta infantile e comportamento. Un importante aspetto che non è stato ancora sufficientemetne affrontato è quello dei rapporti tra alimentazione del giovane e sviluppo del comportamento. È nota la dottrina dei periodi critici e la loro importanza per un corretto comportamento dell’adulto, non è però ben noto se e come l’alimentazione interferisca sull’evoluzione dei periodi critici e sull’apprendimento durante tali periodi. Se si considera che nel bambino la barriera ematoencefalica non ha la selettività dell’adulto, si può ritenere che la sintesi dei neurotrasmettitori endocerebrali sia maggiormente influenzata dal tipo di dieta nel bambino che non nell’adulto. Le variazioni alimentari e nutrizionali dei giovanissimi, soprattutto con uno svezzamento precoce e brusco, potrebbero avere una notevole influenza sulla funzionalità cerebrale e quindi sul comportamento anche successivo. Già solo quest’ipotesi sottolinea l’importanza del ferro nel settore ancora in gran parte inesplorato dai rapporti tra alimentazione, nutrizione e comportamento.
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Ferro della carne e patologia alimentare darwiniana Com’è stato ricordato nel capitolo sulla carne, Mann (2000), con un articolo dal titolo Dietary lean red meat and human evolution, afferma che si è raggiunta l’evidenza scientifica che la carne magra e nell’ambito dello stile di vita dei paesi occidentali non costituisce un fattore di rischio sanitario, in particolare per le malattie cardiovascolari, mentre esiste un rischio per un eccessivo uso alimentare di grassi, in particolari di quelli sa246
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taria aspecifica (attività fagocitaria cellulare) e specifica (difesa immunitaria cellulomediata). Molto importante è la presenza dello iodio nell’alimentazione: la sua scarsità o mancanza provoca gravi patologie connesse ad un’ipofunzionalità tiroidea: dal “gozzo” al “cretinismo”. Secondo Dobson (1998) il 30% della popolazione mondiale è oggi a rischio di patologie da carenza di iodio, 750 milioni soffrono di gozzo, 43 milioni di persone hanno turbe nervose e 5,7 milioni soffrono di cretinismo da carenza di iodio.
Oligoelementi alimentari: importanza delle piccole quantità Una ventina di minerali sono necessari per la vita e la salute: importante è la forma sotto la quale sono presenti negli alimenti. La purificazione degli alimenti spesso li priva dei preziosi minerali ed espone l’uomo moderno ai rischi di nuove carenze nutrizionali sconosciute a quello paleolitico. Oligoelementi minerali Oligoelementi o microelementi sono definiti quei minerali, circa una ventina, che in minime quantità sono necessari per la vita e la salute. La scoperta delle funzioni nutrizionali di alcuni oligoelementi, come il ferro, è relativamente antica, mentre per altri oligoelementi è più recente. D’ogni oligoelemento si sono individuate specifiche funzioni specifiche metaboliche, spesso correlate ad attività enzimatiche. È stato anche visto che le concentrazioni degli oligoelementi nei diversi organi varia e come una loro carenza possa determinare numerose ed importanti attività, anche di tipo extranutrizionale. Le più importanti attività extranutrizionali degli oligoelementi in generale, nella maggior parte dei casi e sia pure con notevoli differenze caso da caso, sono dipendenti o riferibili a 1) funzioni enzimatiche; 2) funzioni neuro-ormonali ed ormonali (ad esempio per lo iodio); 3) funzioni immunitarie, aspecifiche e specifiche; 4) funzioni antitossiche, aspecifiche (antiossidanti) o specifiche. Le funzioni enzimatiche inoltre si svolgono quasi costantemente in associazione tra loro e condizionano anche gli effetti neuro-ormonali ed ormonali, i più importanti dei quali sono quelli che coinvolgono l’ipotalamo e l’asse ipotalamo-ipofisi. Ben noti, a questo riguardo e com’esempio, sono gli effetti che lo zinco esercita sull’accrescimento e l’anabolismo e, sempre per lo zinco, sono note le funzioni immunitarie che si attuano prevalentemente a livello di difesa immuni-
Minerali organici È un concetto relativamente recente che l’attività biologica del selenio è un’espressione del selenio in un’ampia varietà di composti chimici e non del minerale di per sé. Quanto sta avvenendo per il selenio è un’importante avvisaglia di una vera e propria rivoluzione alimentare e può essere sintetizzata nell’aforisma secondo il quale le attività nutrizionali dei microelementi dipendono dal composto chimico di cui fanno parte, non dall’elemento per sé. In altri termini conoscere quanto selenio, ferro, rame, zinco, iodio e così via è presente in un alimento od in una dieta, non è importante quanto sapere sotto che forma ogni singolo elemento è presente nell’alimentazione. Questo, non solo per quanto riguarda la percentuale di assorbimento e, o le interazioni a livello digestivo o metabolico, ma per le attività biologiche dei composti contenenti il microelemento. Tipico in proposito quanto avviene per il ferro. Dettagliando quanto detto nel precedente capitolo, è noto che nel sangue vi è del ferro e che questo è contenuto nel pigmento rosso chiamato emoglobina, che serve al trasporto dell’ossigeno. È altrettanto evidente che per la funzione del sangue non è tanto importante il ferro di per sé, ma l’emoglobina che contiene ferro, tanto che se l’emoglobina è alterata, come avviene in talune malattie genetiche, vi sono disfunzioni e patologie, no248
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altri micronutrienti minerali, ed in particolare cromo, zinco, iodio e selenio. Le moderne conoscenze rivoluzionano la pratica dell’integrazione microminerale degli alimenti in nutrizione umana ed al tempo stesso spiegano molti insuccessi e certi successi, ma anche alcuni abbagli e strumentalizzazioni, più o meno lecite. La rivalutazione dei composti organici minerali, vere e proprie molecole strategiche minerali, se da una parte conferma il ruolo alimentare delle carni e soprattutto delle frattaglie, apre nuove prospettive di ottenere vegetali contenenti molecole contenenti minerali (ferro, zinco, selenio, cromo, iodio) più facilmente e completamente assorbibili e sopra tutto dotati di particolari attività nutraceutiche. Per il sele-
nostante la presenza di ferro. Altrettanto interessante è che il ferro presente negli alimenti viene assorbito in relazione alla sua forma chimica. Ad esempio mentre la percentuale di ferro contenuta negli alimenti vegetali (riso, spinacio, fagioli neri, mais, lattuga e frumento) varia da 2 a 4 milligrammi per etto e l’assorbimento è dell’1-2,5% nel riso, spinaci e fagioli neri, del 4-4,5% nel mais e nella lattuga e del 5% nel frumento, vi è un assorbimento di circa il 15% e più del ferro contenuto nella carne, dove il ferro è legato a molecole organiche. La scarsa percentuale d’assorbimento del ferro d’origine vegetale spiega la già considerata diffusione della carenza di ferro nelle popolazioni umane. In modo analogo al ferro si comportano
Caratteristiche alimentari delle popolazioni di cacciatori – raccoglitori (Cordain L., Miller J. B. Eaton S. B., Mann N. et al. - 2000) Società studiate Totale società 73% delle società studiate 14 % delle società studiate
Alimenti Animali Quantità % Energia %
Alimenti vegetali Qualità % Energia %
45-65 56-65 54-35
>50 <50
35-55 35-44 56-65
<50 >50
Oligoelementi. Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana attuale (Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Parametro
Ferro
Zinco
2,90
91
Media in 85 alimenti animali nei cacciatori-raccoglitori (milligrammi/100 g)
22
4,15
Consumo giornaliero Paleolitico (milligrammi/giorno)
87,4
43,4
Dosaggio raccomandato USA (milligrammi giorno)
10-15
12–15
Consumo giornaliero USA (milligrammi/giorno)
10-11
10–11
Concentrazione nella alimentazione paleolitica (milligrammi/1000 Kcal)
28,5
14,5
Concentrazione nella alimentazione americana (milligrammi/1000 Kcal)
4,9
5,3
5,82:1
2,74:1
Media in 236 alimenti vegetali nei cacciatori-raccoglitori (milligrammi/100 g)
Rapporto Paleolitico:Americano
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biotecnologie. Un esempio concreto è quello di un riso transgenico contenente il gene della ferritina ottenuto da tessuti animali e che permette un elevato assorbimento del ferro. In modo analogo, è possibile ottenere vegetali transgenici con bassi quantitativi d’acido fitico, un inibitore dell’assorbimento del ferro alimentare. La prospettiva di avere un’alimentazione vegetale ricca di ferro altamente assorbibile apre nuovi orizzonti ai cosiddetti alimenti funzionali e dà nuovo respiro alla nutraceutica.
nio si è iniziato ad identificare la serie di composti metallo-organici dotati di significativa attività anticancerogena, sia a livello di cancerogenesi genotossica sia di crescita delle neoplasie, quindi con importanti attività profilattiche e curative, mentre il selenio di per sé od in forma inorganica non ha alcuna di queste importanti attività! Produrre vegetali contenenti microminerali con elevato assorbimento ed in molecole organiche, dotate di particolari attività biologiche rientra nelle concrete possibilità delle Nuove dimensioni cliniche degli oligoelementi
1 – Dalle sindromi generali di carenze o d’eccessi si è passati allo studio di sindromi organospecifiche e di sindromi metaboliche, soprattutto in particolari periodi critici, come ad esempio quelli della crescita, dell’attività riproduttiva e della vecchiaia. 2 – Dalla ricerca degli effetti e risultati nutrizionali degli oligoelementi minerali, si sta passando allo studio dei loro effetti extra-nutrizionali, soprattutto neuro-ormonali ed immunitari, senza trascurare le loro azioni di tipo metabolico a livello locale, di singoli organi. 3 – Dall’interesse per le carenze primarie, da errori alimentari o da alterazioni nell’assorbimento gastrointestinale, anche per malattie a questo livello, parassitosi, ecc., si sta passando a quello per le carenze condizionate (o carenze secondarie) presenti soprattutto negli organismi in rapido accrescimento o con elevate prestazioni, ad esempio di tipo atletico. 4 – Man mano che si sono approfondite le conoscenze, ci si è resi conto dell’importanza delle interazioni tra i diversi oligoelementi, e dallo studio delle turbe da singoli oligoelementi si è passati allo studio - peraltro non facile - di quelle da due o più oligoelementi (carenze o squilibri multipli). 5 – Di pari passo all’aumento delle conoscenze si è passati da uno studio delle manifestazioni immediate o acute, a quelle a lungo termine o croniche. 6 - In conseguenza delle nuove conoscenze si è passati da una semplice prevenzione in ambito nutrizionale ad interventi di tipo anche terapeutico, con l’utilizzo di composti contenenti oligoelementi dotati d’alta e rapida biodisponibilità.
Principali caratteristiche degli oligoelementi inseriti in molecole organiche mono- o poliaminoacidiche 1 – Assorbimento digestivo in percentuale elevata 2 – Assorbimento digestivo, che non viene interferito da macroelementi od altri oligoelementi Attività più alta rispetto alle comuni molecole inorganiche (solfati, carbonati ecc.) 3 – Concentrazione dell’oligoelemento in distretti organici (organi o settori d’organo) correlati al tipo di molecola aminoacidica “vettrice” 4 – Induzione d’attività d’organo, in relazione alla concentrazione dell’oligoelemento
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Oligoelementi minerali e patologia alimentare darwiniana
Le recenti conoscenze rivalutano in modo eccezionale le molecole organiche contenenti oligoelementi e quindi aprono la strada alla cosiddetta integrazione biologica, sostituendola alla ora normale integrazione inorganica.
Come risulta da recenti indagini, le popolazioni umane paleolitiche avevano una nutrizione ricca di ferro e di zinco, in quantità molto superiori alle attuali, rispettivamente di 5,8 e di 2,7 volte. Si trattava inoltre di minerali che erano presenti in alimenti vegetali, ma soprattutto animali e quindi sotto forma organica ampiamente biodisponibile ed altamente attiva. Molto interessante è il caso dello iodio, particolarmente importante per un normale funzionamento della tiroide. Tale oligoelemento è presente nell’acqua di mare, in tutti i viventi marini (vegetali e animali) e nel sale marino. La nostra specie si è evoluta vicino al mare e non pare abbia sviluppato particolari sistemi di risparmio dello iodio, se non quelli connessi al sale (cloruro di sodio) (De Braekeleer M. e coll., 1998). L’uomo cacciatore, raccoglitore e migratore, almeno una volta l’anno si riforniva di alimenti ricchi di sale e di iodio. Quando l’uomo si è fermato in aree lontane dal mare, non facendo uso di sale marino (ad esempio in alcune valli alpine) ha creato le condizioni per una carenza iodica, con le sue nefaste conseguenze. Dobson (1998) ha avvicinato le caratteristiche somatiche dell’uomo di Neandertal a quelle che si hanno con la carenza di iodio alimentare.
Bibliografia Boyd Eaton S., Eaton III S.B., Konner M.J. Paleolithic nutrition revised. In Trevatan e coll. 1999 Bray T.M., Bettger W.J. The physiological role of zinc as an antioxidant. Free Radical Biol. Med., 8, 281, 1990 De Braekeleer M., Mayer G., Chaventre A. Genetic factors in iodine deficiency disorders: A general review. Collegium Antropologicum, 22 (1) 9-15, 1998. Dobson J.E. The iodine factors in health and evolution. Geographical Review, 88 (1) 1-28, 1998. Ganther H.E. Pathways of selenium metabolism including respiratory excretory products. J. Am. Coll. Toxicol, 5, 1-5, 1986 Gutteridge J.M., Hallwell B. Antioxidants in Nutrition, Health and Disease. Oxford University Press, Oxford U.K., 1994 Ip C. Lessons from Basic Research in Selenium and Cancer Prevention. J. Nutr., 128, 1845-1854, 1998 Madsen F.C., Rompala R.E., Miller J.K. Effect of disease on metabolism of essential trace elements: A role fior dietary coordination complexes. Feed Management, 41 (7), 20, 1990 Trevathan W. R., Smith E. O., McKenna J. J. Evolutionary Medicine. Oxford Univ Press, New York, 1999
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gas intestinali. Una parte dei gas intestinali deriva dall’aria ingerita (aerofagia). Solo l’azoto dell’aria passa nell’intestino, non l’ossigeno e l’eventuale anidride carbonica che invece sono assorbiti ed eliminati attraverso l’aria espirata. Le fermentazioni producono una quantità variabile d’idrogeno, metano e idrogeno solforato. I primi sono sostanzialmente inodori, mentre l’ultimo dà ai gas il loro sgradevole, caratteristico odore. Buona parte dell’idrogeno, una quota d’anidride carbonica e tutti gli acidi grassi volatili (acido acetico, propionico e butirrico) sono assorbiti. I primi sono eliminati con la respirazione, gli ultimi sono bruciati fornendo energia. La qualità dei gas intestinali influenzata dalla familiarità. I figli di due genitori che producono molto metano, ne produrranno quasi certamente anche loro (probabilità del 90%). Se un genitore produce metano e l’altro no, circa metà dei figli lo produce e l’altra metà no. La quantità ed in parte la qualità dei gas intestinali è influenzata dall’alimentazione. I gas intestinali derivano in gran parte dalla fermentazione della fibra vegetale solubile, abbondante nei legumi (ad iniziare dai classici fagioli), cruschello di cereali e cereali integrali, cipolle, cavoli, pectina e xilani contenuti in molta frutta od aggiunta come addensante nelle marmellate.
Carenza di fibra alimentare. Malattie del grosso intestino d’origine alimentare: patologie della civiltà Nell’uomo gli alimenti sono fermentati nel grosso intestino, dando origine a nutrienti importanti per la salute. Diverse malattie della civiltà sono collegate ad insufficienti fermentazioni intestinali. Fermentazioni intestinali I vegetali fanno parte della nostra alimentazione e lo testimoniano la conformazione dell’apparato digerente, numerose necessità nutrizionali e molti comportamenti alimentari. Il ruolo della fibra alimentare per una corretta nutrizione è stato esaminato in un capitolo della precedente parte. È inoltre da precisare che un’alimentazione con insufficiente presenza di vegetali comporta disturbi e malattie diverse, considerate in singoli capitoli, ma soprattutto disturbi riguardanti il grosso intestino, che si è evoluto per fermentare la fibra alimentare ad opera di una flora microbica, alla quale è anche da attribuire la formazione di gas intestinali. Gas intestinali Una persona adulta e sana ogni giorno produce da mezzo litro, ad un litro e mezzo di Vero e falso sui gas intestinali
È vero che * Una alimentazione vegetariana aumenta i gas intestinali * Mangiare in fretta fa introdurre aria, una parte della quale va a formare gas intestinali * Una parte dei gas intestinali viene assorbita ed eliminata con l’aria espirata * I legumi, ma anche le cipolle ed i cavoli, producono notevoli quantità di gas intestinali * Il caffè ed il the diminuiscono la produzione di gas intestinali È falso che * I gas intestinali, assorbiti ed espirati, rendono l’alito cattivo. Infatti, viene espirato soprattutto l’idrogeno ed una parte d’azoto, gas inodori * I gas intestinali siano sempre dannosi. Infatti, contribuiscono a mantenere soffice il contenuto intestinale * I gas intestinali sono segno di malattia. Anzi sono un segno di una alimentazione con sufficienti quantità di fibra fermentescibile e quindi “buona”
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co, propionico e butirrico) ricchi d’energia, che viene resa disponibile lentamente e priva d’azione diabetogena. Le stesse fermentazioni producono importanti vitamine. Da un punto di vista funzionale la presenza di fibra e le fermentazioni contribuiscono a regolare i movimenti intestinali, evitando la stitichezza e tutte le sue conseguenze: dai disturbi della circolazione (emorroidi e vene varicose) alla predisposizione ai tumori del colon, dalla colite spastica o colon irritabile alla facilitazione di malattie metaboliche (diabete, diabesità ed obesità) e via dicendo. Una sufficiente e regolare presenza alimentare di fibra alimentare, insolubile e solubile, è una necessità nutrizionale che deriva dalla nostra costituzione genetica.
Vi sono alimenti, ad esempio il caffè od il the, che riducono la fermentazione della fibra solubile e la quantità dei gas intestinali. Diversi farmaci e soprattutto taluni antibiotici, che alterano le fermentazioni intestinali, possono aumentare o diminuire i gas intestinali e la loro composizione, quindi anche il loro odore. Disturbi digestivi che fanno arrivare nel grosso intestino cibo indigerito aumentano il materiale che fermenta nel grosso intestino ed incrementano la quantità di gas. Malattie da “intestino vuoto” e patologia alimentare darwiniana Le fermentazioni degli alimenti sviluppate dai microrganismi nel grosso intestino producono i già citati acidi grassi volatili (aceti-
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Capitolo III
struzione dei folati introdotti con l’alimentazione. Diverse ricerche dimostrano che le persone con la pelle chiara, che erano state esposte ad un’intensa luce solare simulata, mostravano, nel sangue, livelli anormalmente bassi di vitamine del gruppo B ed in particolare d’acido folico (folati). Queste ricerche sono state completate con la dimostrazione che, nel siero di sangue esposto alla luce, si ha una perdita anche della metà dei folati. I folati sono necessari per la riproduzione delle cellule. Una carenza di folati è alla base di molti disturbi, che vanno dalla diminuita quantità di spermatozoi (con ipofertilità) alla comparsa di malformazioni del feto, in particolare della spina bifida. Carenza di folati si ha soprattutto quando si combinano tre condizioni: 1) basse quantità di folati alimentari; 2) elevata irradiazione solare sulla pelle; 3) ridotta protezione della pelle per basse quantità di melanina (pelle chiara). Una carenza di folati non si aveva nelle popolazioni africane (pelle scura e vegetali nell’alimentazione di tutto l’anno), ma si può avere nelle popolazioni a pelle bianca che si espongono al sole e che hanno un’alimentazione scarsa di vegetali freschi. È quest’ultimo il caso della popolazione bianca australiana, neozelandese ed anche mediterranea con pochi vegetali nell’alimentazione, o quando questi sono cotti (distruzione di una parte dei folati).
Vitamine: carenze provocate dall’uomo Vitamine o “amine necessarie per la vita” sono indispensabili anche per una buona salute e non mancavano nell’alimentazione umana atavica. Con i mutati ambienti e stili di vita, l’agricoltura e l’industrializzazione alimentare sono comparsi ed aumentati i rischi di carenze vitaminiche. Il rischio delle carenze vitaminiche Gran parte delle vitamine che ci sono necessarie ce le procuriamo con gli alimenti vegetali ed animali; altre vitamine sono prodotte dai batteri intestinali e la Vitamina D può derivare dall’azione dei raggi solari sulla pelle, come esaminato in un successivo capitolo. Tutto fa ritenere che nell’uomo preistorico non vi fossero rischi di carenze vitaminiche, che sono comparse con l’agricoltura, per la riduzione della biodiversità alimentare e la conservazione degli alimenti. In tempi recenti si è aggiunta l’eccessiva raffinazione degli alimenti. La prima avitaminosi studiata nell’uomo, il beriberi provocato da mancanza di vitamina B 1, era la conseguenza dell’uso di riso raffinato con la brillatura. Anche la pellagra, nella quale bisogna riconoscere una componente carenziale di vitamina PP, è da riportare ad un’alimentazione eccessivamente semplificata ed unilaterale, basata quasi completamente sul mais. Esempi che danno ragione all’idea che “tutte le malattie derivano dall’agricoltura”. Recentemente si è visto che ambiente e stili di vita hanno importanza negli equilibri vitaminici, sotto l’influenza anche del colore della pelle e del tipo d’alimentazione.
Ipovitaminosi agricole ed industriali Con l’agricoltura e l’urbanizzazione il rischio vitaminico era di una mancanza di vitamine per un’alimentazione unilaterale. Ora il rischio non è scomparso perché le necessità di vitamine sono aumentate per il tipo di vita (aumento degli inquinamenti ecc.) ed il suo allungamento (gli anziani, come i bambini, hanno bisogno di maggiori quantità di vitamine). Inoltre le vitamine negli alimenti vegetali sono diminuite a causa di un loro minore contenuto nelle varietà coltivate, distruzioni negli alimenti conservati,
Ipovitaminosi da ambiente e stili di vita Com’è indicato a proposito della vitamina D, in tutto il mondo, la pigmentazione umana si è evoluta in modo che la pelle sia abbastanza chiara da permettere ai raggi solari di produrre sufficienti quantità di vitamina D, ma sufficientemente scura da impedire la di254
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dette megadosi) pone due problemi principali: a) se l’uso degli integratori vitaminici sia realmente necessario od utile; b) se l’eccessiva presenza degli stessi, sia come dosaggi sia come tempi di somministrazione, possa costituire un rischio per la salute, provocando ipervitaminosi o disvitaminosi (squilibri vitaminici) minori, subdole e poco evidenti, ma non per questo, nel tempo, meno gravi. Le persone sane, se consumano una dieta normale e variata ed a base d’alimenti freschi, non necessitano d’alcuna integrazione vitaminica. Alcuni gruppi di popolazioni possono tuttavia necessitare d’aggiunta di vitamine, in quantità nutrizionali ed in misura da compensare un’alimentazione carente o condizioni parafisiologiche o subcliniche di un rapido accrescimento, un allattamento elevato e prolungato, stati postinfettivi, turbe nutrizionali della terza età e cosi via. Se la supplementazione vitaminica può essere un atteggiamento corretto in precise condizioni, in questi casi bisogna utilizzare dosaggi fisiologici e non le megadosi alle quali sempre si tende, secondo i concetti che “le vitamine non fanno male”, “se una certa dose fa bene, una dose doppia far ancora meglio” e cosi via. Le megadosi vanno sempre considerate un trattamento farmacologico e non un’integrazione alimentare e pertanto dovrebbero essere tolte dal libero ed indiscriminato uso ed utilizzate soltanto sotto un preciso controllo medico.
presenza di fattori antivitaminici non distrutti dal calore. I fattori antivitaminici degli alimenti sono in gran parte distrutti con il calore e questo, almeno in parte, giustifica l’uso tradizionale di mangiare molte verdure soltanto cotte. Oggi, con la tendenza di mangiare crudo, e contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’effettivo apporto vitaminico alimentare può diminuire. A questo riguardo sono rischiose le leguminose, tra le quali vi è la fava mangiata cruda. Lo stesso vale per i pesci ed i molluschi, per i quali si diffonde la moda giapponese di mangiarli crudi. Anche il pane e le paste poco cotte possono contenere antivitamine del gruppo B. Il caffè contiene un’antivitamina, ma in una dieta normale alcuni caffè al giorno non spostano sostanzialmente l’apporto di vitamine del gruppo B, in parte prodotte (ma anche distrutte) dai batteri intestinali. Recentemente è stato rilevato che nelle verdure surgelate vi è un contenuto di vitamina C superiore a quello delle verdure fresche. In queste ultime, nelle ore e giorni che passano tra la raccolta ed il consumo, l’enzima ascorbasi distrugge una parte della vitamina C, una distruzione che non avviene nelle verdure surgelate che, appena raccolte, sono scottate, con l’inattivazione dell’ascorbasi che degrada la vitamina C. Dalle carenze alle ipervitaminosi Da un secolo sono state studiate le malattie da mancanza o carenza di vitamine (avitaminosi o disvitaminosi). Meno note sono le malattie da eccesso di vitamine (ipervitaminosi) e la più nota è l’ipervitaminosi A, rilevata in casi particolari per errate somministrazioni di vitamine o per alimentazioni particolari, estremamente ricche di fegato. Oggi stiamo assistendo ad un nuovo comportamento e soprattutto alla diffusione della moda di un sempre più largo uso d’integratori alimentari vitaminici. L’abuso d’integratori vitaminici, che spesso contengono una o più vitamine in gran quantità (cosid-
Vitamine e patologia alimentare darwiniana Il rapporto tra il colore della pelle, le migrazioni umane e le vitamine è stato esaminato da diversi ricercatori. Per i già citati folati, questo rapporto è stato analizzato da Jablonski e Chaplin (2002). Quantità di raggi solari, in particolare la qualità e quantità di radiazioni ultraviolette, il colore della pelle e quindi l’efficacia del naturale “filtro” solare costituito dalla melanina (carattere determinato geneticamente), la presenza di folati e acido folico e di vitamina D preformata nel255
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Capitolo III
Vitamine liposolubili (A, E). Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana attuale (da Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Parametro
Carotene (R. E. *)
Vitamina A (*) (R. E. *)
Vitamina E
0,328 (0-6,55) R.E. - 54,6 (0 1090)
1,08 (0-8,41 R.E. – 180 (0-1400)
1,93 (0,007–9,08)
==
0,461 (**) (D.S. 0,368)
==
5,56 R.E. - 927
17,2 R.E. – 2870
32,8
==
4,80 – 6,00 R.E. – 1170-429
8–10
2,05-2,57 R.E. – 342 429
7,02-8,48 R.E. – 800-1000
7-10
Concentrazione nell’alimentazione paleolitica (milligrammi/1000 Kcal)
1,85 R.E. - 309
5,74 R.A. – 353
10,9
Concentrazione nella alimentazione americana (milligrammi/1000 Kcal)
1,09 R.E. - 182
2,12 R.E. – 353
3,5
==
2,71
3,11
Media in 236 alimenti vegetali nei cacciatori-raccoglitori (milligrammi/100 g) Media in 85 alimenti animali nei cacciatori-raccoglitori (milligrammi/100g) (**) Assunzione giornaliera nel Paleolitico (milligrammi/giorno) Dosaggio raccomandato USA (milligrammi giorno) Assunzione giornaliera USA (milligrammi/giorno)
Rapporto tra alimentazione Paleolitico: Americana
(*) Retinolo Equivalente (**) Compresi frattaglie, pelle, piccole ossa e midollo osseo, crostacei. D. S. – Deviazione Standard
sono significativamente importanti i folati, che determinano un elevato numero di spermatozoi e quindi un successo riproduttivo. Da qui l’opportunità di una migliore protezione dai raggi solari, con una pelle più scura. Nel passato vi è stata una particolare attenzione alla carenza di vitamina D (oltre considerata), con tutte le sue conseguenze (rachitismo, infertilità, osteoporosi ecc.). Oggi bisogna prestare attenzione anche ai folati, con un’alimentazione che deve avvicinarsi a quella naturale dell’uomo (alimentazione paleolitica), nella quale la vitamina B1 e il folato erano rispettivamente 2,5 e 1,5 volte superiori alle attuali, ma soprattutto derivavano da verdure fresche e non cotte, quindi
l’alimentazione, il tipo di cucina che può distruggere le vitamine, devono essere in un corretto equilibrio, non sempre facile da raggiungere. Ogni società umana, nel tempo, ha cercato di raggiungere un equilibrio e questo è avvenuto – vi sono molti importanti indizi al riguardo – attraverso il successo riproduttivo. Per quanto riguarda gli aspetti riproduttivi, vi sono alcune importanti diversità tra femmina e maschio. Nella donna è molto importante una sufficiente quantità di vitamina D e quindi la donna, di norma, ha una pelle più chiara, che permette una maggiore azione dei raggi solari, non dannosi con un’alimentazione ricca di folati. Se i folati sono insufficienti, potrebbero comparire malformazioni fetali. Nel maschio 256
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Vitamine idrosolubili (Riboflavina, Folato, Tiamina. Ascorbato). Confronto tra l’alimentazione paleolitica e quell’americana attuale (Eaton, Eaton III, Konner, 1999) Parametro
Riboflavina (B 2)
Folato
Tiamina (B 1)
Ascorbato (C)
0,168
0,0180
0,115
33,0
0,399
0,00567
0,215
4,79
6,49
0,357
3,91
604
1,3–1,7
0,18–0,20
1,1–1,5
60
1,34–2,08
0,149–0,205
1,08–1,75
77–109
Concentrazione nella alimentazione paleolitica (milligrammi/1000 Kcal)
2,16
0,119
1,30
201
Concentrazione nella alimentazione americana (milligrammi/1000 Kcal)
0,6
0,08
0,51
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Rapporto Paleolitico:Americano
3,60
1,49
2,55
8,38
Media in 236 alimenti vegetali nei cacciatori-raccoglitori (milligrammi/100 g) Media in 85 alimenti animali nei cacciatori-raccoglitori (**) (milligrammi/100) g Assunzione giornaliera Paleolitico (milligrammi/giorno) Dosaggio raccomandato USA (milligrammi giorno) Assunzione giornaliera USA (milligrammi/giorno)
(**) Compresi frattaglie, pelle, piccole ossa e midollo osseo, crostacei
Antivitamine negli alimenti Vitamina
Antivitamina
Alimenti
Vitamina A
Citrale
Arancia
Vitamina B 1
Tiaminasi
Pesci (carpe, aringhe, acciughe ecc.)
Vitamina B 1
Ac. cinnamico
Molluschi, mirtilli
Vitamina B 1
Pirocatechine
Caffè, funghi
Vitamina B 1
Tiaminasi batteriche
Batteri dell’apparato digerente
Vitamina B 2
Frutti esotici (ackee)
Vitamina B 6
Linatina ecc., agaritina
Farina di lino, cereali, funghi
Niacitina (vit. PP)
Antiniacina
Mais
Biotina
Avidina
Bianco d’uovo
Acido ascorbico (vit. C)
Ascorbasi
Cavoli, Cetrioli, mele, lattuga, pesche, carote, pomodori, banane
Vitamina D
Non identificata
Vegetali, fegato di maiale
Vitamina E
Ac. grassi polinsaturi
Fagioli
Vitamina K
Dicumarolo
Fagioli
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Capitolo III Human Skin Coloration. Journ. Human Evolution, 39, 1 luglio 2000 Jablonski N.G., Chaplin G. Il colore della pelle. Le Scienze, n. 412, 58-67, 2002 Rao D.S., Raghuramulu N. Is vitamin D redundand in an aquatic habitat? J. Nutr. Sci. Vitamin (Tokio), 45, 1-8, 1999
senza alcuna perdita vitaminica. Bisogna anche prestare una particolare attenzione alle antivitamine della dieta. Bibliografia vitamine Jablonski N.G., Chaplin G. The Evolution of
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na D 2, che non può essere sintetizzata dall’uomo. Prodotta dall’organismo od introdotta con gli alimenti, la vitamina D è indispensabile per la vita. Anche se raccoglie un’eredità genetica molto antica, la nostra specie si rese palese in Africa in aree scarse o prive d’alberi ed assolate. In questa fase l’uomo aveva già perduto la folta copertura di pelo dei suoi antenati e gli rimanevano solo i capelli, che proteggevano il cervello dagli intensi raggi solari, ed i ciuffi di peli ascellari e pubici che erano utilizzati per l’emanazione di ferormoni e richiami sessuali odorosi. La perdita del mantello peloso diede il vantaggio di un’efficiente eliminazione del calore in una specie, come quell’umana, che aveva sviluppato la tecnica della caccia ad inseguimento. Per evitare i danni dei raggi solari, in modo speciale quelli ultravioletti, la pelle era divenuta scura, per la presenza del pigmento denominato melanina. Il colore di una pelle non più protetta da un mantello peloso, nell’uomo divenne un punto di delicato equilibrio, anche per quanto riguarda i folati, come si è visto nel precedente capitolo. Raggi solari, troppo intensi, sono dannosi e possono favorire la comparsa di tumori della pelle. Recenti dati epidemiologici e fisiologici ( Jablonski e Chaplin, 2002) indicano anche che la distribuzione su scala mondiale del colore della pelle umana è dovuta alla selezione naturale, che agisce per regolare gli effetti della radiazione ultravioletta solare su alcune sostanze nutritive indispensabili al successo riproduttivo e, tra queste, soprattutto l’acido folico ed i folati (vedi il precedente capitolo sulle Vitamine). Una certa quantità di raggi ultravioletti è però necessaria per la produzione del calciferolo (Vitamina D). Nell’uomo africano, attraverso la selezione naturale si era raggiunto un delicato equilibrio tra un’irradiazione solare intensa ed il colore della pelle. Un colore sufficientemente scuro per un’efficace protezione dai danni delle radiazioni ultraviolette e per una buona quantità di fo-
Vitamina D: la vitamina che non era una vitamina Le diversità esterne tra gli uomini sono dovute ad un’infima percentuali di geni. Colore della pelle, occhi e capelli, caratteristiche somatiche esterne dipendono solo dallo 0,01% del genoma umano. Tuttavia, alcune di queste caratteristiche, come il colore della pelle, hanno una non trascurabile influenza sulla nutrizione e sulla salute umana, ad esempio la sintesi di quella che è nota come vitamina D. La vitamina D non è una vitamina Anche sotto l’aspetto evoluzionista, la vitamina D o calciferolo, non è una vitamina, ma un metabolita che l’uomo produce nella pelle, sotto l’azione dei raggi ultravioletti del sole partendo dal colesterolo. L’uomo con la sua evoluzione culturale ha però trasformato il calciferolo in una vitamina che, in misura diversa caso da caso, dev’essere ottenuta dall’alimentazione. Il colore della pelle determinato dai geni e l’alimentazione sono strettamente collegati per quanto riguarda la vitamina D e dei folati, come si è visto nel capitolo precedente. La storia naturale della vitamina D è un esempio molto significativo dei rapporti che vi sono tra geni e cibo. L’uomo è geneticamente capace di produrre il colesterolo che gli è necessario. I raggi solari che colpiscono la pelle trasformano il colesterolo in vitamina D 3, che può essere depositata nei grassi e nei muscoli. La vitamina D, attraverso diverse trasformazioni e complessi meccanismi, interviene nell’assorbimento del calcio alimentare, la sua fissazione nelle ossa ed, in certe condizioni, partecipa alla produzione d’ormoni della riproduzione ecc. La mancanza o carenza di vitamina D provoca, tra l’altro, il rachitismo. La vitamina D, non è quindi una vitamina, ma quasi un ormone. Vitamina D 3 si trova anche negli alimenti d’origine animale e soprattutto nel fegato, nei grassi e nella carne (muscolo). Nei vegetali è presente la vitami259
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Capitolo III
lati assicurati da un’alimentazione ricca di queste vitamine, ed al tempo stesso sufficiente per la produzione della vitamina D (continuiamo a chiamarla così) necessaria alla riproduzione ed alla vita. Il delicato equilibrio si è rotto quando la specie umana ha iniziato a migrare fuori dell’Africa. Colore della pelle, vitamina D e migrazioni Quando l’uomo si spostò in terre settentrionali, ricevette una minore quantità di raggi solari. L’uomo aveva imparato a proteggersi dal freddo in caverne e capanne e, nei mesi più freddi, a coprirsi con pellicce. Inevitabilmente fu prodotta una minore quantità di vitamina D e questo produsse effetti nefasti: rachitismo, minore fertilità ecc. Per fortuna la specie umana, come tutte le altre specie, è soggetta a mutazioni genetiche e, tra queste, anche quelle che regolano il colore della pelle. I mutanti a pelle chiara, che sotto il sole africano erano sfavoriti perché troppo esposti alle radiazioni solari, erano invece avvantaggiati nelle terre dove il sole era meno intenso e le estati brevi. Solo le popolazioni umane con pelle chiara poterono conquistare le terre dell’Europa continentale e poi settentrionale, fino al bianco latte della pelle delle attuali popolazioni dei paesi baltici. La donna, di norma, ha la pelle più chiara dell’uomo. Questo è stato interpretato come la conseguenza anche di una maggiore necessità di vitamina D nella femmina, per la fertilità, gravidanza ed allattamento ( Jablonski e Chaplin, 2002). Il processo d’imbianchimento della pelle, dall’equatore verso il polo, non riguarda soltanto la popolazione umana, ma anche altre specie. Ad esempio i maiali africani sono neri, quelli inglesi bianchi, con una fase di passaggio che, ad esempio, troviamo in Italia, nella razza cinta senese, in parte bianca ed in parte nera. Colore della pelle ed alimentazione Il solo sbiancamento della pelle non era sufficiente per la produzione di vitamina D, in 260
popolazioni come gli eschimesi, che mostravano soltanto la pelle del viso ai raggi solari, peraltro tenui e per brevi periodi dell’anno. Queste popolazioni poterono sopravvivere solo cambiando alimentazione ed introducendo la vitamina D con un’opportuna dieta contenente fegato, grassi e muscoli di pesce o d’animali terrestri. Nel secolo XIX, in Europa, vi fu la gran rivoluzione industriale. Le popolazioni andarono ad abitare in città, dove il sole era scarso e lo smog fermava i suoi raggi. L’alimentazione subì cambiamenti ed il burro (d’origine animale e con vitamina D) fu sostituito dai grassi vegetali, privi di vitamina D. La conseguenza fu che l’80% dei bambini delle classi più povere fu colpito da rachitismo, mentre si diffusero altre patologie da carenza di vitamina D: osteomalacia, ipofertilità ecc. L’epidemia fu controllata con un’opportuna igiene di vita ed un’adeguata alimentazione. Gli anziani oggi ricordano ancora le colonie elioterapiche della prima metà del secolo XX ed il puzzolente olio di fegato di merluzzo, ricco di vitamina D, usato come ricostituente. Non è inoltre da sottovalutare che quanto è avvenuto nell’uomo si è ripetuto negli animali domestici, che nei paesi industriali sono spesso allevati in stalle, e quindi non godono dei benefici effetti dei raggi solari, con il rischio di dare anche alimenti, soprattutto latte, con poca o assente vitamina D. In questo caso il problema è stato risolto fornendo agli animali alimenti integrati con vitamina D. Vitamina D e patologia alimentare darwiniana Alcune conclusioni s’impongono da quanto esposto e da quanto viene indicato anche per altre vitamine, come l’acido folico ed i folati. La prima conclusione è che in biologia ed in alimentazione, spesso, le cose sono molto più complesse di quanto non possa sembrare o di quanto ci hanno abituato idee semplicistiche, anche tradizionali. Ad esempio che la vitamina D sia e sia sempre stata una vita-
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mina. Una seconda conclusione, quasi ovvia, è che stretti rapporti esistono tra ambiente di vita, genetica ed alimentazione. La terza conclusione riguarda l’importanza dell’alimentazione nel regolare il rapporto della costituzione genetica con l’ambiente. Senza adeguare la sua alimentazione, infatti, l’uomo non avrebbe potuto diffondersi su tutto il pianeta. Infine, un non corretto rapporto tra genetica, ambiente e alimentazione può essere causa di malattie.
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