RIVISTA DELL’OPERA - CONCERTI - BALLETTO - FONDATA DA MARIO DE GIORGIS
OTT. NOV. DIC - 2012 -
€ 6,00
SPED. IN A.P. - 70% FILIALE DI MILANO
ANNO
63°
(ph. Brescia-Amisano)
63° anno
Sommario RIVISTA DELL’OPERA - CONCERTI - BALLETTO - FONDATA DA MARIO DE GIORGIS
OTT. NOV. DIC - 2012 -
€ 6,00
SPED. IN A.P. - 70% FILIALE DI MILANO
ANNO
63°
2 I programmi dei Teatri: Milano Teatro alla Scala Torino Teatro Regio Jesi Fond. Pergolesi Spontini Salerno Teatro Verdi Genova Teatro Carlo Felice Rovigo Teatro Sociale Pisa Teatro di Pisa Sassari Teatro Comunale Salerno Teatro Municipale G. Verdi Vienna Wiener Staatsoper Toulouse
Volks Oper Théâtre du Capitole
14 Claude Debussy “150 anni dalla nascita” 21 Notizie in breve 24 Jules Massenet Centenario 26 Libri - recensioni 28 Premi 29 Discografia - recensioni 32 I teatri lirici - recensioni
CORRIERE DEL TEATRO
e-mail: Diretto da Roberto De Giorgis Redazione Edda Bacchetta Collaboratori Roberto Bellotti Francesco Bertini Viviana Coppo Mario Degiorgis Gigi Franchini Vittoria Licari Gianluigi Mattietti Gilberto Mion Attilio Piovano
쾷 corriereteatro@libero.it
Via Vincenzo Monti, 9 20090 Trezzano sul Naviglio (Mi) 콯 / fax: +39 (2) 48402085 Abbonamenti: c.c. postale n° 84514124 Speciali € 150,00 Teatri, Associazioni, ecc. € 80,00 Signori Artisti € 80,00 Ordinario € 28,00 Una copia € 6,00 Arretrato il doppio Estero il doppio
Proprietà riservata Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 1101 del 31-1-1949 Per qualsiasi controversia legale è competente il Foro di Milano Fotocomposizione e Stampa: Pinelli Printing s.r.l. Milano
RIVISTA DELL’OPERA - CONCERTI - BALLETTO - FONDATA DA MARIO DEGIORGIS • Volume OTT: NOV. DIC. 2012 •
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MILANO
Stagione d’Opera e Balletto 2012-2013 O PERA
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BALLETTO
www.teatroallascala.org 5
ROVIGO
PISA
Teatro Sociale di Rovigo Presentata la stagione dal m° Stefano Romani, direttore artistico Sono onorato di presentare la centonovantasettesima stagione che quest’anno vede in un unico cartellone tutte le nostre proposte (lirica, balletto, prosa, concertistica, jazz e teatroragazzi). Una importante novità: grazie all’impegno dell’amministrazione comunale siamo riusciti a presentare tutta la stagione in un unico e unitario programma. Apriremo con un bellissimo concerto lirico nel quale verrà consegnato un premio alla carriera a un cantante di fama internazionale, il celebre soprano Mariella Devia. Di seguito in ottobre inizierà la prosa con il famoso attore e regista Luca Barbareschi. Il primo spettacolo di lirica sarà a metà novembre con Maria Stuarda, spettacolo in coproduzione con il Teatro Donizetti di Bergamo che vedrà la partecipazione nel ruolo principale della stessa Devia. Di seguito avremo di Giuseppe Verdi Un ballo in maschera e in gennaio e febbraio Don Giovanni di Mozart e Nabucco di Verdi. Dal cartellone generale vedrete che l’impegno di tutti noi, nonostante la forte crisi economica che ci sta ormai schiacciando, è quello di mantenere sempre alto il livello qualitativo e un’offerta di spettacoli sempre elevata. Non vi nascondo che non è stato facile, ma con un grande impegno e con la professionalità da parte di tutti, il risultato è sempre più che soddisfacente. Il teatro di Rovigo è punto di riferimento culturale per la città e per un vasto pubblico nazionale e internazionale. Nessuna crisi potrà mai cancellarlo. La storia di questo teatro è scritta da centonovantasette stagioni, che certo non sono poche. Vorrei ringraziare l’assessore Anna Paola Nezzo e tutta l’amministrazione che sostiene sempre l’attività, tutto il personale tecnico e amministrativo del teatro che offre sempre la propria valida competenza e non voglio dimenticare l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta e il Coro Lirico Veneto che da anni sono al nostro fianco nella produttività del nostro teatro. Un ringraziamento al Rovigo Jazz Club per le sue seguitissime stagioni al Ridotto, a chi con noi lavora ai progetti per i ragazzi e le scuole (I Virtuosi della Rotonda e l’RCQ ensemble) ai partner e agli sponsor, fondamentali per portar avanti e concretizzare i nostri intenti. Un ringraziamento particolare anche a Miranda Bergamo e agli Amici del Teatro che ogni anno organizzano le presentazioni delle opere in Accademia dei Concordi.
STAGIONE 2012/13 UNA INTENSA STAGIONE LIRICA, ARRICCHITA DA UN CICLO DI OPERE DA CAMERA
È all’insegna dei capolavori musicali più popolari e amati la Stagione Lirica firmata dal direttore artistico Marcello Lippi, una Stagione che questa volta guarda anche alla produzione del 900 e si arricchisce di un piccolo ciclo di spettacoli da camera programmati in Sala Titta Ruffo. Spiccano così la Turandot inaugurale (12 e 14 ottobre, nella produzione del Festival Pucciniano di Torre del Lago per la regia di Maurizio Scaparro, scene di Ezio Frigerio, costumi di Franca Squarciapino, Maestro direttore Valerio Galli); i tre omaggi al bicentenario della nascita di Verdi con la nuova coproduzione regionale de La Traviata (16 e 18 novembre, capofila Pisa, con Lucca, Livorno e Torre del Lago e la collaborazione di Maggio Formazione, regia di Paolo Trevisi, scene di Poppi Ranchetti, Maestro direttore Bruno Aprea), coproduzione che tra l’altro – prima volta per un’opera verdiana – è andata in scena questa estate al Festival pucciniano, Nabucco (4 e 6 dicembre, produzione high quality low cost che, dopo l’Aida dello scorso anno, conferma la collaborazione fra il Teatro di Pisa e la Ramfis Production ma in una rinnovata e perfezionata concezione produttiva; direttore Gianluca Martinenghi, regia di Antoine Selva) e Otello (15 e 17 febbraio, penultima opera di Verdi e suo capolavoro fra i più moderni e sconvolgenti, qui proposto in una nuova produzione del Teatro di Pisa per la regia di Enrico Stinchelli e la direzione di Claudio Micheli); torna infine Mozart, compositore le cui opere hanno spesso caratterizzato le stagioni pisane, con Le Nozze di Figaro, esempio perfetto di drammaturgia musicale ( il 25 e 27 gennaio, in una nuova produzione del Teatro di Pisa, per la regia di Lev Pugliese e la direzione di Francesco Pasqualetti). Due
le opere scelte fra le partiture del secondo Novecento: Napoli Milionaria! di Nino Rota, titolo del Progetto LTL Opera Studio (23 e 24 marzo, capofila il Teatro del Giglio di Lucca, regia di Fabio Sparvoli, direzione di Matteo Beltrami) e Falcone e Borsellino del compositore siciliano Antonio Fortunato, titolo con cui si chiude la Stagione (6 e 7 aprile, in una nuova produzione del Teatro di Pisa, per la regia di Lorenzo Maria Mucci e la direzione di Claudio Giacinto Gallina). Diversi i grandi nomi nel cast, da Giovanna Casolla (Turandot) a Stefano Lacolla (Calaf; Alfredo; Ismaele), da Dimitra Theodossiou (Abigaille) a Carlo Guelfi (Iago), da Irina Dubrovskaja (Violetta) a Giovanni Meoni (Nabucodonosor) solo per citarne alcuni. Confermata la collaborazione con l’ORT (l’Orchestra della Toscana sarà la compagine di Traviata e di Napoli Milionaria; torna l’Orchestra Arché, compagine giovanile che ha esordito lo scorso anno con il dittico Mozart e Salieri/Zanetto e che nella stagione suonerà in Nabucco, Nozze di Figaro, Otello, Falcone e Borsellino); torna infine l’Orchestra del Festival Pucciniano che, come già lo scorso anno per Madama Butterfly, suonerà nella Turandot. Il ciclo di opere da camera sarà inaugurato e chiuso da AuserMusici, l’ottimo ensemble in residenza proprio al Teatro Verdi che si è conquistato una solida fama internazionale grazie
(vedi IV di Cop)
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al rigore e alla serietà delle proprie ricerche incentrate sul periodo fra il 1600 e il 1700 e delle conseguenti produzioni artistiche: in Sala Titta Ruffo Ausermusici proporrà Mi palpita il cor (6 novembre, un concerto di arie e musiche di Haendel, Barsanti, Gasparini, Geminiani e Hasse, con il controtenore Filippo Mineccia) e La Serva Padrona di Pergolesi abbinata a Le Quattro Stagioni di Vivaldi (21 marzo). Gli altri spettacoli del ciclo saranno due atti unici pirandelliani del compositore Marco Bargagna, Lo Sgombero e La Patente (17 gennaio, con il soprano Rosalba Mancini e il baritono Fabrizio Corucci, concertatore e pianista Leonardo Andreotti), la pièce di Guido Barbieri e Sandro Cappelletto Farinelli. Qual delizioso orrore… Farinelli evirato cantore (19 febbraio, con il sopranista Angelo Manzotti e il grande attore teatrale Piero Nuti, che firma anche la regia) e il concerto per il bicentenario di Verdi, di cui verranno eseguite arie da camera, e di Wagner, di cui verranno eseguiti alcuni lieder (il 12 marzo, con il soprano Rita Matos Alves e il tenore Stefano Lacolla, pianista Vincenzo Maxia). Completa la Stagione “Opera e Dintorni”, ciclo di iniziative collaterali per la prima volta diviso in due filoni: “Opera”, ovvero gli aperitivi- conversazione il sabato mattina nel Foyer a presentazione delle opere in programma, e “Dintorni” una serie di incontri di cultura musicale (presentazioni di libri, lezioni-spettacolo, presentazioni di cd) nel tardo pomeriggio in Sala Titta Ruffo.
SASSARI
Teatro Comunale Quattro produzioni teatrali e tre concerti sinfonici: è questa la proposta 2012 per la sessantanovesima stagione lirica e sinfonica dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis di Sassari che quest’anno si svolgerà interamente nel nuovo Teatro comunale di via Cappuccini a Sassari. Una proposta nel segno della continuità che si arricchisce del progetto “La scuola in teatro”, con il coinvolgimento delle scuole primarie e secondarie, e di tre concerti che saranno portati direttamente a scuola, nel Liceo Azuni di Sassari. La stagione è stata presentata nella sala conferenze di Palazza Ducale, a
Sassari, dal presidente dell’Ente Concerti Alessandro Bisail, dal direttore artistico Marco Spada, dal sindaco Gianfranco Ganau e dall’assessore alle Culture Dolores Lai. È stato proprio il concerto del 26 settembre, con musiche di Čajkovskij e Beethoven, la direzione d’orchestra di Francesco Lanzillotta e il violino di Salvatore Quaranta, a dare il via alla lunga serie di appuntamenti che, per tutto l’autunno, accompagneranno il pubblico sino all’11 dicembre, data di chiusura della stagione. La stagione lirica invece è stata inaugurata con l’opera Roméo et Juliette di Charles Gounod, in programma il 12 e 14 ottobre. La produzione è un allestimento dei Tea- Presentazione della Stagione: da dx M. Spada, D. Lai, G. Gatri Verdi di Pisa, Ali- nau, A. Bisail ghieri di Ravenna e del Centro Servizi Culturali Santa stagione lirica celebrerà il “Bicentenario verdiano”. Tra il secondo concerChiara di Trento. to, previsto per il 6 novembre con muLa regia era di Andrea Cigni. Si è trattato di una prima esecuzione siche di Mozart, Prokof´ev e Haydn in Sardegna ed è stata eseguita nella con la direzione dell’orchestra affidata a Gioele Muglialdo e il flauto di Tony lingua originale, il francese. La scelta di quattro titoli e tre concer- Chessa, e l’opera del grande compositi risponde alla linea che l’Ente ha tore di Busseto andrà in scena Il siadottato da alcuni anni, cioè di offrire gnor Bruschino, ossia Il figlio per azal pubblico un programma di richiamo zardo di Gioachino Rossini. La produzione è un allestimento del e diversificato. Il tutto è stato operato con un occhio Conservatorio “Bruno Maderna” di di riguardo al contenimento dei costi. Cesena e andrà in scena al Teatro coProva ne è il fatto che l’Ente porterà munale il 17 e 18 novembre. L’opera è nel nuovo Teatro comunale due opere una farsa giocosa del periodo giovaniin coproduzione con altri due teatri: la le del compositore pesarese. prima sarà con il Teatro Carlo Felice La stagione si chiuderà l’11 dicembre. di Genova e si tratta delle Nozze di A salutare il pubblico sarà ancora una Figaro di W. A. Mozart, in program- volta un concerto, a dimostrare come ma per il 2 e 4 novembre per la regia l’Ente sassarese di viale Umberto stia di Marco Spada. La seconda invece, il puntando molto anche sulla stagione 7 e il 9 dicembre, è il Nabucco di concertistica. Giuseppe Verdi per la regia di Leo È convinzione infatti che la musica Muscato che sarà in coproduzione con sinfonica debba riaffermarsi tra il la Fondazione Teatro Lirico di Caglia- pubblico sassarese. Perché questo acri e rappresenta un evento storico di cada è necessario ripartire dai grandi assoluto rilievo nell’ambito di questa capolavori, dai concerti di autori classtagione. Si tratta di un primo passo sici del grande repertorio, come Moin vista della collaborazione del 2013 zart, Čajkovskij e Haydn. che prenderà corpo con il progetto L’orchestra sarà sempre quella dell’Ente concerti e viene confermata la “Por Sardegna”. Il Nabucco inoltre anticipa i program- collaborazione con i tre cori: “Luigi mi per il 2013 quando anche l’Ente di Canepa”, “Santa Cecilia” e Coro delviale Umberto per la Settantesima l’Ente concerti Marialisa de Carolis.
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TORINO
JESI
Stagione d’Opera e di Balletto 2012-2013 12 – 21 ottobre 2012 DER FLIEGENDE HOLLÄNDER di Richard Wagner 13 – 25 novembre 2012 CARMEN di Georges Bizet 30 novembre – 5 dicembre 2012 BÉJART BALLET LAUSANNE L’OISEAU DE FEU - SYNCOPE LE SACRE DU PRINTEMPS 7 – 14 dicembre 2012 BÉJART BALLET LAUSANNE LIGHT - BOLÉRO 15 – 30 gennaio 2013 ANDREA CHÉNIER di Umberto Giordano 19 – 29 gennaio 2013 LA BOHÈME di Giacomo Puccini 15 – 24 febbraio 2013 DON GIOVANNI di Wolfgang Amadeus Mozart 5 – 13 marzo 2013 LA TRAVIATA di Giuseppe Verdi 14 – 24 marzo 2013 IL MATRIMONIO SEGRETO di Domenico Cimarosa 10 – 23 aprile 2013 DON CARLO di Giuseppe Verdi 17 – 26 maggio 2013 EVGENIJ ONEGIN di Pëtr Il’i ajkovskij 9 – 19 giugno 2013 L’ITALIANA IN ALGERI di Gioachino Rossini 21 – 30 giugno 2013 L’ELISIR D’AMORE di Gaetano Donizetti ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO REGIO
www.teatroregio.torino.it 10
45^ Stagione Lirica di Tradizione dal 3 ottobre al 25 novembre 2012 JESI TEATRO G.B. PERGOLESI DEDICATA A JOSEF SVOBODA nel decennale della scomparsa
Banco Mirco Palazzi Lady Macbeth Tiziana Caruso Macduff Ji Myung Hoon Malcolm Thomas Yun direttore Giampaolo Maria Bisanti regia Henning Brockhaus scene Josef Svoboda ricostruzione allestimento scenico Benito Leonori costumi Nanà Cecchi In coproduzione con FONDAZIONE TEATRO LIRICO G. VERDI DI TRIESTE e FONDAZIONE TEATRO CARLO FELICE DI GENOVA Nuovo allestimento
3 ott. anteprima giovani 5, 7 ott. I PURITANI di V. Bellini Personaggi e interpreti: Lord Gualtiero Valton Luciano Leoni Sir Giorgio Luca Tittoto Lord Arturo Yijie Shi Sir Riccardo Forth Julian Kim Sir Bruno Roberton Dario Di Vietri Enrichetta di Francia Elide De Matteis Larivera Elvira Maria Aleida direttore Giacomo Sagripanti regia Carmelo Rifici scene Guido Buganza costumi Margherita Baldoni in coproduzione con TEATRI DEL CIRCUITO LIRICO LOMBARDO: Ponchielli di Cremona, Sociale di Como, Grande di Brescia, Fraschini di Pavia Nuovo allestimento
22 nov. anteprima giovani venerdì 23, 24, 25 nov. LUCIA DI LAMMERMOOR di G. Donizetti Personaggi e interpreti: Lord Enrico Asthon Julian Kim /Alexandru Aghenie Miss Lucia Sofia Mchedlishvili /Romina Casucci; Sir Edgardo di Ravenswood Gianluca Terranova /Alessandro Scotto Di Luzio; Lord Arturo Bucklaw Matteo Falcier; Raimondo Bidibent Giovanni Battista Parodi; Alisa Cinzia Chiarini direttore Matteo Beltrami regia Henning Brockhaus scene Josef Svoboda ricostruzione allestimento scenico Benito Leonori Costumi Patricia Toffolutti In coproduzione con TEATRI DEL CIRCUITO LIRICO LOMBARDO: Ponchielli di Cremona, Sociale di Como, Grande di Brescia, Fraschini di Pavia TEATRO DELL’AQUILA DI FERMO TEATRO COCCIA DI NOVARA TEATRO ALIGHIERI DI RAVENNA Nuovo allestimento
5 nov. anteprima giovani 7, 9, 11 nov. MACBETH di G. Verdi Personaggi e interpreti: Macbeth Luca Salsi
FORM - Orchestra Filarmonica Marchigiana Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” maestro del coro Pasquale Veleno
www.fondazionepergolesispontini.com
SALERNO
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VIENNA
2012-2013 6 ott.- 8, 24, 28, nov. - 3 dic. 1, 4, 8 mar. L’ELISIR D’AMORE di G. Donizetti dir. 6 set. 24, 28 nov. 3 dic. G. Garcia Calvo dir. 8 nov. 1, 4, 8 mar. dir. Y. Abel regia von O. Schenk costumi J. Rose 3 ott. BORIS GODUNOW di M. Mussorgski direttore T. Sokhiev regia e costumi Y. Kokkos 2, 5 ott. 16, 19, 22 feb. MADAMA BUTTERFLY di G. Puccini direttore S. Soltesz regia J. Gielen costumi T. Foujita 1, 4, 7 ott. – 3 ,6 ,10 apr. FIDELIO di L. van Beethoven 1,4,7 ott. ir. P. Schneider 3,6,10 apr. dir. A. Fischer regia von O. Schenk costumi L. Bei 10, 13, 16, 19 ott. - 13, 16, 19 mar. LE NOZZE DI FIGARO direttore J. Rhorer 13,16,19 mar. L. Langrèe regia J. L. Martinoty costumi S. de Segonzac 11, 14, 17, 20 ott. – 2, 5, 7, 10 mar. DON GIOVANNI di W. A. Mozart direttore J. Gaffigan 2,5,10 mar. dir. L. Langrèe regia J. L. Martinoty costumi Y. Tax 18,21,24,28 ott. LA CLEMENZA DI TITO di W. A. Mozart direttore A. Fischer regia J. Flimm costumi B. Hutter 27,30 ott. 3 nov. – 5,15,17 dic. 18,22,25 mar. – 7,10,14 giu. IL BARBIERE DI SIVIGLIA di G. Rossini
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direttore J. C. Spinosi 5,15,17 dic. dir. M. Güttler 18,22,25 mar. dir. G. Garcia Calvo 7,10,14 giu. dir. M. Güttler regia R. Bletschacher costumi A. Siercke 7, 11, 14 nov. – 17, 21, 24, 28 feb. SIMON BOCCANEGRA di G. Verdi direttore P. Auguin 17,21,24,28 feb. dir. E. Pidò regia P. Stein costumi M. Bickel 10, 13, 17, 20 nov. – 9, 12, 15 mar. 8, 11, 14, 17 mag. LA TRAVIATA di G. Verdi direttore B. de Billy 9,12,15 mar. dir. P. Carignani 8,11,14,17 mag. dir. M. Armiliato regia J. F. Sivadier costumi V. Gervaise 12, 15, 18, 22, 26 nov. ALCESTE di C. W. Gluck direttore I. Bolton regia C. Loy costumi U. Renzenbrink 16, 19, 23 nov. 25, 27 feb. – 18 mag. – 6, 9, 12 giu. TOSCA di G. Puccini direttore P. Auguin 25,27 feb. dir. S. Soltesz 18 mag. dir. M. Armiliato 6,9,12 giu. dir. D. Ettinger 21, 25, 29 nov. – 2 dic. DIE MEISTERSINGER VON N RNBERG di R. Wagner direttore S. Young regia O. Schenk costumi J. Rose 8, 12, 16, 20 dic. LA SONNAMBULA di V. Bellini direttore E. Pidò regia M. A. Marelli costumi D. Niefind 9, 13, 18, 21 dic. OTELLO di G. Verdi direttore B. de Billy regia C. Mieligtz costumi C. Floeren 19, 22, 26, 29 dic. – 2 gen. 2013 ARIADNE AUF NAXOS di R. Strauss direttore F. Welser-Most J. Tate (29.dic.) regia S. Bechtolf
costumi M. Glittenberg 30 dic. - 3, 5 gen. 2013 – 3, 6 mar. DIE ZAUBERFL TE di W. Amadeus Mozart direttore C. Meister 3,6 mag. dir. P. Lange regia M. A. Marelli costumi D. Niefind 31 dic. – 1, 4, 6 gen. DIE FLEDERMAUS di J. Strauss direttore S. Soltesz regia O. Schenk costumi M. Canonero 26, 29 gen. – 1, 4, 10, 14 feb. 1, 5, 8, 11 giu. LA CENERENTOLA ossia La bontà in trionfo di G. Rossini direttore J. Lòpez-Cobos regia S. E. Bechtolf costumi M. Glittenberg 14, 17, 20, 23 mar. AIDA di G. Verdi direttore P. Steinberg regia von N. Joel costumi C. Tommasi 24, 27, 30 mar. – 2 apr. WOZZECK di A. Berg direttore F. Welser-Möst regia A. Dresen costumi H. Kapplmüller 28 apr. – 1, 4, 7, 10, 13 mag. LA FILLE DU REGIMENT direttore B. Campanella regia e costumi L. Pelly 28 apr. – 1, 4, 7, 8 mag. POLLICINO di H. W. Henze direttore G. Priebnitz regia R. Zisterer costumi M. E. Amos 13, 18, 22, 26, 30 giu. TRISTAN UND ISOLDE di R. Wagner direttore F. Welser-Most regia D. McVicar costumi R. Jones 20, 24, 27 giu. CAPRICCIO di R. Strauss direttore C. Eschenbach regia M. A. Marelli costumi D. Niefind
www.wiener-staatsoper.at
VIENNA 8, 9, 20, 23, 25 dic. – 6 gen. 2013 H NSEL E GRETEL di E. Humperdinck regia K. Dönch
2012-2013 1, 13 ott. – 1 nov. LA TRAVIATA di G. Verdi regia H. Gratzer 4, 19, 26, 31 ott. – 14 dic. TOSCA di G. Puccini direttore G. Priebnitz; G. d’Espinosa regia A. Kirchner costumi K. Kneidi 4, 7, 16, 21, 24 nov. RUSALKA di A. Dvoràk Regia A. Barbe; R. Doucet 25, 27, 30 nov. – 3, 6, 11, 18, 28 dic. DIE HOCHZEIT DES FIGARO di W. A. Mozart direttore D. Kaftan regia M. A. Marelli costumi D. Niefind
12, 15, 21 gen. 3, 5, 9, 13, 18, 20 feb. IL BARBIERE DI SIVIGLIA di G. Rossini direttore E. Dovico; K. Poska regia J. E. Kopplinger costumi H. Schmelzer 27, 31 gen. – 7, 15 feb. 1, 9, 22, 30 mar. 9, 20, 25 mag. – 17, 22 giu. DIE ZAUBERFL TE di W. A. Mozart regia H. Lohnner 17, 22, 24, 27 feb. – 3, 10, 13, 18 mar. 4, 7, 13 apr. DIE VERKAUFTE di B. Smetana direttore E. Dovico; G. Priebnitz regia H. Baumann costumi B. Szivacz 28 feb. – 6,12,17,20 mar. RIGOLETTO di G. Verdi regia S. Langridge
23, 28 mar. 2, 10, 15 apr. TABARRO GIANNI SCHICCHI di G. Puccini regia R. Meyer 20,23,28 apr. 5,8,17,22,26,29 mag. 3, 12 giu. DER WILDSCH TZ di A. Lortzing direttore A. Eschwè; L. Aichner regia D. Hilsdorf costumi R. Schmitzer 15, 18, 25, 28 giu. DAS WUNDERTHEATER/ DER BAJAZZO di R. Leoncavallo regia T. Schulte-Michels 23, 27, 30 mag. 2 giu. WAGNERS RING AN EINEM ABEND di R. Wagner direttore J. Van Steen
www.wolksoper.at
TOULOUSE
Stagione 2012-2013 23, 25, 27, 30 nov. WRITTEN ON SKIN di G. Benjamin direttore Frack Ollu scene Katie Mitchell costumi Vicki Mortimer 22, 23, 25, 26, 28, 30, 31 dic. LA BELLE HÉLÈNE di J. Offenbach direttore Jean-Marie Zeitouni scene e coreografia Bernard Pisani decorazioni Éric Chevalier costumi Frédéric Pineau
25, 27, 29 gen. 1, 3 feb. 2013 ALBERT HERRING di B. Britten direttore David Syrus scene Richard Brunel scenografia Marc Lainé costumi Claire Risterucci 15, 16, 17 feb. L’ENFANT ET LES SORTILÈGES di M. Ravel direttore Christophe Larrieu direttore degli studi musicali Jean-Philippe Lafont scene Alexandre Camerlo costumi Henri Galeron 15, 17, 19, 22, 24, 26, 28 mar. DON GIOVANNI di W. A. Mozart direttore Attilio Cremonesi scene Brigitte Jacques-Wajeman costumi Emmanuel Peduzzi
19, 21, 23, 26, 28 , 30 apr. DON PASQUALE di G. Donizetti direttore Paolo Olmi scene Stéphane Roche decorazioni Bruno De Lavenère costumi Coralie Sanvoisin 18, 20, 23, 25, 28 , 30 giu. DON CARLO di G. Verdi direttore Maurizio Benini scene Nicolas Joel decorazioni Ezio Frigerio costumi Franca Squarciapino Production du Théâtre du Capitole
Ballet du Capitol Orchestre National du Capitol Choeur du Capitole Direttore Alfonso Caiani
www.theatre-du-capitole.fr 13
CLAUDE DEBUSSY (150 anni dalla nascita) V. Licari
ato in una famiglia della piccola borghesia, che sicuramente non aveva intuito le sue particolari doti artistiche, Achille-Claude Debussy non frequentò regolarmente la scuola, bensì il teatro d’opera dove accompagnava il padre, che ne era appassionato come tutti i borghesi del suo tempo. Ebbe però la fortuna di avere come padrino un ricco banchiere dai gusti raffinati, Achille Arosa, nella cui villa di Cannes ebbe i suoi primi contatti con il mare – in seguito tanto presente nella sua musica – e con il pianoforte, grazie alle lezioni di un vecchio insegnante italiano, tale Cerutti, che iniziò all’età di sette anni. Intorno al 1870, sempre tramite Arosa, il piccolo Debussy ebbe l’opportunità di esibirsi al pianoforte davanti alla suocera del poeta Paul Verlaine, Madame Mauté de Fleurville, che era stata allieva di Chopin. La signora intuì le potenzialità del fanciullo e convinse i genitori a fargli studiare musica, offrendosi di dargli lezione gratuitamente: “Devo a lei quel poco di pianoforte che so”, dirà più tardi il musicista, ormai famoso. Dopo due anni, superato l’esame di ammissione al Conservatorio di Parigi, il piccolo Claude entrò nella classe di solfeggio di Albert Lavignac e, con l’anno accademico successivo, in quella di pianoforte, molto prestigiosa, di Antoine Marmontel. I primi dodici anni trascorsi da Debussy al Conservatoire furono proficui, ma molto complicati a causa della difficoltà che il suo temperamento indipendente incontrava nel sottomettersi alle regole dell’istituzione, spesso arbitrarie e aggravate dall’essergli sovente imposte da personaggi che non avevano di certo il suo talento artistico. Mentre Lavignac, giovane e aperto, comprese immediatamente le doti eccezionali del discepolo, tanto da ammettere, in seguito, di avere addirittura tratto profitto da alcune sue critiche alla didattica tradizionale della teoria musicale, Marmontel praticava una pedagogia alquanto datata e non era affatto incline a metterla in discussione, in ciò spalleggiato dal direttore del Conservatorio, il celebre Ambrois Thomas. Dopo tre anni di brillanti risultati ai concorsi interni annuali, il giovane Claude cominciò a fallire gli obiettivi di premi e medaglie, e il motivo principale di tali insuccessi va forse ricercato nel suo particolarissimo modo di interpretare, di cui ci resta testimonianza nelle dichiarazioni dei suoi colleghi di corso. Uno di questi, Gabriel Pierné così si esprimeva in proposito: “[…] piombava letteralmente sulla tastiera e ne forzava tutti gli effetti. Sembrava pieno di rabbia nei confronti dello strumento, lo maltrattava con gesti impulsivi, respirava rumorosamente eseguendo passi difficili. Quando andava cal-
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mandosi, otteneva sbalorditivi effetti di morbida dolcezza ”. Il pianismo di Debussy, dunque, pare fosse ben diverso dall’effetto “flou” al quale ci hanno abituati generazioni di pianisti, ma era invece pieno di contrasti, alternando momenti di belluina aggressività a tratti carezzevoli e sensuali. Le testimonianze di chi ebbe la fortuna di poterlo ascoltare ci dicono che, in seguito, egli temperò le giovanili durezze con una grande sensibilità del tocco, un magnifico uso del pedale e un grande controllo del legato. Veniva paragonato a Chopin per la delicatezza dei suoi attacchi, che “facevano dimenticare i martelli del pianoforte”: e lui stesso, peraltro, soleva raccomandare proprio di dimenticarsene. “Dio! Come suonava bene il pianoforte quell’uomo!” ebbe a dire di lui Igor Stravinskij. Anche gli studi di armonia nella classe di Émile Durand furono per Debussy alquanto frustranti, e non poteva essere altrimenti, data la quantità di quinte e ottave parallele - rigorosamente proibite dalle regole classiche di cui egli cospargeva i compiti che gli venivano assegnati; decisamente brillante fu invece la sua riuscita nella classe di accompagnamento al pianoforte di Auguste Bazile. La Parigi musicale che fa da sfondo agli anni di apprendistato del giovanissimo Claude era quella dei grandi successi di Jacques Offenbach, mentre autori come Charles Gounod e Georges Bizet venivano considerati “difficili”. Il favore del pubblico andava invece ad Ambrois Thomas e a Jules Massenet, mentre il repertorio tedesco non era amato, forse non solo perché davvero ostico alle orecchie e al carattere francesi, ma anche perché troppo poco tempo era trascorso dalla disfatta del 1870 che aveva posto termine alla guerra franco-prussiana. Difficile era la penetrazione in Francia dell’opera di Richard Wagner, per cui l’unico modo per prenderne reale conoscenza era di recarsi direttamente a Bayreuth, cosa che Debussy fece nel 1887, tornandone entusiasta. Più criticamente riflessivo fu invece il secondo viaggio nel “tempio wagneriano”, nel 1889. Il suo giudizio fu, questa volta, più sfumato, pur difendendo egli ancora, almeno in generale, l’armonia e il concetto di teatro di Wagner. Apprezzava molto, inoltre, il procedimento tematico, che definiva “un continuo compromesso fra le esigenze della tecnica musicale e la funzione simbolica dei temi”. Ed è quest’ultimo elemento quello che maggiormente influenzerà Debussy, perché senza Wagner non esisterebbe forse Pelléas et Mélisande. Anche la musica di Musorgskij lasciò una profonda traccia nel linguag-
gio armonico di Debussy. Debussy e Musorgskij avevano lo stesso modo di percepire l’armonia, “[…] fondata su continue variazioni di luminosità entro le quali compaiono sporadicamente dei movimenti melodici. L’appoggiatura e la nota di passaggio non hanno più il carattere di note estranee all’armonia, ma, al contrario, sembrano legate all’incontro sonoro divenuto aggregato.” Così scrive Jean Barraqué nella sua biografia del compositore. Nel 1880, in seguito al primo premio ottenuto come accompagnatore al pianoforte al Conservatorio, Marmontel segnalò Debussy a Nadezda von Meck, ricca vedova di Karl von Meck, ingegnere di origine tedesca che era stato fra i fondatori delle ferrovie russe. Nadezda era musicista dilettante e mecenate di musicisti. Per anni aveva sostenuto economicamente aikovskij, si era momentaneamente stabilita in Svizzera e cercava un buon pianista per il periodo delle vacanze, che avrebbe trascorso appunto fra la Svizzera, la Francia e l’Italia. Debussy aveva presso di lei l’incarico di insegnante di pianoforte e accompagnatore pianistico per i suoi figli e di pianista per la signora, sia che ella volesse essere accompagnata nell’esecuzione di brani a quattro mani, sia che desiderasse semplicemente ascoltare della musica. Inoltre, Debussy divenne il pianista del cosiddetto “Trio von Meck” insieme al violinista polacco Władisłav Pachulski e al violoncellista russo Pëtr Danil’chenko. Furono tre le estati consecutive trascorse da Debussy con la famiglia von Meck. Durante la terza, nel 1882, ebbe l’occasione di vedere a Venezia Richard Wagner, e di ascoltarne a Vienna Tristan und Isolde diretto da Hans Richter. Rientrato a Parigi dal primo soggiorno con i von Meck, Debussy chiese di essere ammesso alla classe di composizione di Ernest Guiraud che proprio in quel 1880 iniziava i suoi corsi al Conservatoire. Il fatto che egli scegliesse Guiraud anziché il più blasonato e autorevole Massenet può spiegarsi con la fama di rigida severità che circondava quest’ultimo, mentre Debussy probabilmente aveva intuito che Guiraud avrebbe potuto comprendere e assecondare le sue potenzialità. Guiraud era un compositore di successo, amico di Bizet, insegnante dalle vedute particolarmente aperte, che lo portavano a considerare ogni allievo come un caso a sé stante, ed era perciò particolarmente adatto a offrire a uno studente come Debussy, refrattario a ogni regola nella quale non trovasse un senso, una guida discreta che lo formasse alla disciplina del mestiere - in particolare nell’ambito della strumentazione, di cui era un grande esperto - senza perdere di vista le sue potenzialità artistiche, di cui non gli era peraltro sfuggita l’entità. Proprio la sua natura ribelle lo tratteneva dal decidersi a presentarsi al concorso per il prestigioso Prix de Rome: si decise al grande passo nel 1884, dietro insistenza degli amici, e in particolare dell’architetto Pierre Vasnier, al quale molto probabilmente si deve l’opera di convincimento affinché vi concorresse con un lavoro non troppo “d’avanguardia”. Tale infatti fu la cantata L’enfant prodigue, cosparsa di echi di Massenet e di Délibes, con la quale vinse il premio, ottenendo i voti favorevoli, fra gli altri, di Saint-Saëns e Gounod. Fra gli articoli che si occuparono dell’avvenimento, è interessante citare quello, particolarmente premonitore, del critico musicale del Figaro Charles Darcours – pseudonimo sotto cui si celava Charles Réty, già direttore del Théatre Lyrique – il quale scrisse, fra l’altro: “Il Signor Debussy è un musicista a cui saranno riservati i più grandi elogi… e i più grandi insulti. In ogni caso, da molti anni il Premio non era più stato attribuito a un candidato così ricco di promesse. […] Sta a questo giovane musicista, ora, di trovare la propria stra-
Banconote a lui dedicate
da, in mezzo agli entusiasmi e al putiferio che non mancherà di provocare”. Il soggiorno romano non lo entusiasmò, ma gli fruttò alcune esperienze interessanti, fra cui l’incontro con Giuseppe Verdi, al quale venne introdotto da Arrigo Boito, conosciuto tramite Ruggero Leoncavallo. Gli si presentò anche l’occasione di suonare davanti a Liszt e, soprattutto, di ascoltarlo suonare, insieme a Giuseppe Sgambati, le Variazioni su un tema di Beethoven di Saint-Saëns: ne rimase affascinato e osservò che Liszt si serviva del pedale come di “una specie di respirazione”. Al periodo trascorso a Villa Medici va ascritta la composizione della prima opera di Debussy che sia rimasta ancora oggi in repertorio, La demoiselle élue, su testo di Dante Gabriele Rossetti tradotto in francese da Gabriel Sarazin, prima testimonianza di come le scelte letterarie di Debussy fossero fuori del comune, mettendo già da allora in risalto la sua preferenza per il linguaggio criptico, dal carattere non ben determinato, in linea con il suo stile compositivo che tendeva a eludere punti di riferimento precisi. Il definitivo rientro a Parigi da Roma avvenne sull’onda dello scandalo suscitato dal rifiuto di partecipare alla cerimonia conclusiva di consegna del premio. Da quel mo-
Con la figlia Claude Emma (Chouchou)
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mento Debussy ruppe con tutto ciò che rappresentava ufficialmente la musica in Francia e cominciò a frequentare gli ambienti letterari parigini, e soprattutto la Librairie de l’Art indépendent, in Rue Chaussée d’Antin, ritrovo di poeti simbolisti come Villiers de l’Isle –Adam e Mallarmé, e di giovani scrittori come André Gide, Paul Claudel, Pierre Louÿs, Henry de Régnier. Fra le prime composizioni dopo il ritorno da Roma ci sono le Ariettes oubliées, su poesie di Verlaine e i cinque Poèmes di Baudelaire, che cercano di adattare la prosodia francese allo stile declamatorio di Wagner. Contemporaneamente, però, Debussy cercava di liberarsi dell’influenza wagneriana sia sul piano armonico che vocale, già preannunciando lo stile di Pelléas et Mélisande. Dello stesso periodo è la Suite bergamasque per pianoforte, di cui fa parte il celeberrimo Claire de lune. Quando all’Esposizione Universale di Parigi del 1889 vennero presentate per la prima volta in occidente le musiche giavanesi, anche Debussy ebbe l’occasione di ascoltarle. Non è detto che proprio da questo ascolto egli abbia tratto l’idea della scala pentatonale - che potrebbe invece avere già appreso in precedenza, insieme ad altre scale orientali, dal suo insegnante Lavignac - in quanto una melodia pentatonica, affidata al flauto, compare già nel 1887 all’inizio di Printemps per orchestra. Il fascino che questa musica ebbe su di lui si ritrova comunque in diversi scritti. Al di là della scoperta di un mondo sonoro diverso da quello europeo, Debussy capì che la musica poteva essere un linguaggio dotato di senso proprio, senza avere la necessità di dipendere dalla sintassi tonale e dalle regole logico-formali che la musica occidentale aveva costruito nel corso del tempo allo scopo di darsi un significato. Il 22 dicembre 1894, alla Société Nationale de Musique di Parigi – circolo dedicato alla diffusione della “giovane” musica francese – ebbe luogo la prima esecuzione del Prélude à l’après-midi d’un faune, ispirato al poema di Mallarmé, prima grande e riuscitissima esperienza di Debussy nell’ambito dell’orchestrazione. Si tratta di una composizione che esprime in pieno il pensiero artistico di Debussy, e cioè il rifiuto delle forme classiche di esposizione e sviluppo a favore di una specie di improvvisazione su di un tema. La comparsa di quest’opera segnò uno sconvolgimento nella sensibilità musicale: la critica non fu favorevole, mentre l’accoglienza del pubblico fu invece entusiasta. Mallarmé scrisse al musicista che il suo lavoro “[…] non presentava dissonanza con il mio testo, se non quella di spingersi ben più lontano, davvero, nella nostalgia e nella luce, con inquietudine, con ricchezza”. La critica più interessante rimane però quella di Paul Dukas: “È per la sua attitudine a costruire un insieme logico per mezzo della sola fantasia che il talento del signor Debussy mi sembra incomparabile. Il risultato, certamente, non è affatto assimilabile alle forme tradizionali. Ma occorre ricordare, a tale proposito, che esse sono legate all’espressione di un certo modo di pensare e che, prese per quel che sono, non esistono che per sé stesse […]. L’idea genera la forma, qui come ovunque, e non è da biasimare un autore che sceglie quella che naturalmente implica le sue particolari sensazioni. L’essenziale è che vi sia perfetta concordanza”. Durante l’elaborazione della sua unica opera teatrale, Pélleas et Mélisande, contrassegnata da lunghi periodi di arresto,
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videro la luce, e ottennero un buon successo, i tre Nocturnes (Nuages, Fêtes, Sirènes)) per orchestra. Subito dopo, per intervento dell’amico poeta Pierre Louÿs, gli venne affidata la rubrica musicale della “Révue blanche”, incarico che Debussy accettò sia per motivi economici, sia per avere uno spazio che gli permettesse di esporre le proprie idee. Nacque così il personaggio di Monsieur Croche (il Signor Croma), pseudonimo sotto cui il compositore si celava, avente la funzione di portavoce dell’artista, che giudicava la vita musicale contemporanea mantenendosi al di sopra delle stupide querelles e dei bassi compromessi. Nonostante lo scandalo suscitato al suo apparire, o forse proprio in virtù di esso, Pélleas et Mélisande segnò l’inizio della gloria di Debussy: aveva ricevuto dal prestigioso editore Durand la proposta di pubblicare l’opera, poteva contare su una vasta schiera di sostenitori, diventò, insomma, una gloria nazionale. Si creò persino una corrente, i cosiddetti “debussysti”, guidati da Emile Vuillermoz, che addirittura dentro il Conservatoire, sfidando le ire del direttore e dei docenti, si proclamavano “verticalisti”- armonicamente parlando – opponendosi così agli “orizzontalisti”, i pedanti seguaci dell’armonia tradizionale. Con il passare del tempo, comunque, il suo carattere si andava temperando, facendogli capire che non poteva alienarsi completamente il favore della comunità musicale parigina, e così cominciò ad assumere comportamenti davvero sorprendenti per un tipo come lui: nel 1903 acconsentì, per esempio, a partecipare alla giuria del Prix de Rome e nel 1904 accettò addirittura la Legion d’onore. Gli anni che seguirono non furono però molto facili: la salute della moglie Lily gli dava molte preoccupazioni, e un dramma familiare era all’orizzonte. Nel 1903 fece la conoscenza della madre di un suo allievo, Emma Bardac, moglie di un banchiere e figura molto in vista nella buona società parigina. Donna bella, brillante e colta, nonché buona musicista e cantante, pare che ne fosse stato innamorato Gabriel Fauré, che addirittura avrebbe voluto sposarla. Quando, il 14 luglio 1904, Lily Debussy scoprì che suo marito era l’amante di Emma Bardac, tentò di uccidersi con un colpo di pistola al petto. Venne salvata in extremis da lui stesso, messo sull’avviso da una drammatica lettera d’addio, ma la relazione extraconiugale continuò, suscitando un enorme scandalo. A eccezione di Eric Satie e del critico Louis Laloy, tutti i suoi amici lo abbandonarono. Debussy si rifugiò allora nella composizione, lavorando a La mer e a Fêtes galantes, e portò a compimento una versione per pianoforte a quattro mani del suo Quartetto per archi. Poco tempo dopo divorziò, e andò a vivere con Emma, che stava per dargli un figlio. Il 15 ottobre 1905, ai Concerts Lamoureux di Parigi, ebbe luogo la prima esecuzione assoluta de la Mer, capolavoro orchestrale di Debussy, ma gli amici e gli ammiratori dell’autore non apprezzarono la direzione di Camille Chevillard, considerandola un tradimento dell’opera. Si è quindi soliti dire che la prima vera esecuzione di questi tre “schizzi sinfonici” sia avvenuta il 19 gennaio 1908 ai Concerts Colonne, quando il compositore stesso salì per la prima volta sul podio. Poiché però, secondo sua stessa ammissione, Debussy non possedeva particolari doti direttoriali, la maggior parte dei critici sostiene che il vero tradimento fosse stato proprio quello dell’autore nei confronti di sé stesso. Con la Mer Debussy inventò un nuovo
procedimento di sviluppo nel quale, come afferma Barraqué, “le nozioni stesse di esposizione e di sviluppo coesistono in uno sgorgare ininterrotto, che permette all’opera, in un certo senso, di alimentarsi autonomamente, senza l’ausilio di un modello prestabilito”. Il 30 ottobre 1905 Emma diede alla luce una bambina, Claude Emma, soprannominata Chouchou. Solo nel 1908 la coppia poté legittimare la propria unione, ma nel frattempo Debussy, che oltre a conoscere finalmente, a quarantatre anni, la gioia della paternità, aveva decisamente migliorato le proprie condizioni economiche, ebbe finalmente la possibilità di dedicarsi alla musica in piena serenità. In quegli anni si dedicò molto alla composizione per pianoforte con The Children’s corner – suite di sei brani dedicata alla figlioletta – e i due libri dei Préludes, dodici per ciascuna raccolta, che sono molto probabilmente il suo lavoro più popolare. I titoli, per volere dell’autore stesso, vennero collocati alla fine dei brani, per escludere, almeno nelle intenzioni, qualunque influenza emozionale sugli interpreti. Risale al 1912 la sua frequentazione con Stravinskij. Dovevano essersi conosciuti nel giugno del 1910 in occasione della “prima”, avvenuta all’Opéra di Parigi, del balletto L’Oiseaux de feu e del collega Debussy scriveva, nel 1915, “Il giovane Russo inclina pericolosamente sul versante di Schoenberg”, probabilmente alludendo allo stravinskyano Roi des étoiles, per coro maschile e orchestra, di cui Debussy fu dedicatario. Durante la prima guerra mondiale scrisse musica strumentale da camera fra cui En blanc et noir, suite per due pianoforti (1917) che risente del lavoro di revisione dell’opera di Chopin che aveva effettuato su incarico di Durand, e che lo aveva fatto molto riflettere sulla tecnica pianistica. Morì il 26 marzo 1918, mentre Parigi era sotto il bombardamento dei tedeschi. Casualmente, era lo stesso giorno in cui, novantuno anni prima, era morto Beethoven. Poco più di un anno dopo, nel corso di una epidemia di difterite, sarebbe mancata anche la sua Chouchou.
DEBUSSY E IL TEATRO ebussy non aveva molti amici. Fra i musicisti, ebbe buone relazioni solo con Paul Dukas, Eugène Isaÿe ed Ernest Chausson, pur rimproverando a quest’ultimo una eccessiva fedeltà a Wagner, per il quale Debussy provava interesse, ma dal quale non voleva farsi condizionare. Più numerosi erano invece i suoi amici letterati, primo fra tutti Pierre Louÿs, con il quale intrattenne un rapporto durato oltre dieci anni. Quando si erano conosciuti, intorno al 1893, Louÿs, ricco, intelligente e colto, ma malato di tubercolosi, pensando di essere vicino alla morte stava dilapidando la propria fortuna e Debussy restò impressionato dal suo atteggiamento distaccato nei confronti di quanto gli stava accadendo. Dalla loro collaborazione nacquero, nel 1897, le Trois chansons de Bilitis, la seconda delle quali, La chevelure, può essere annoverata fra le più belle melodie vocali di Debussy, e nella quale egli sperimenta lo stile prosodico che utilizzerà poi nel Pelléas et Mélisande. La gestazione del Pelléas era già iniziata nel 1893, quando Debussy aveva assistito a una rappresentazione del dramma omonimo di Maurice Maeterlinck. Il musicista chiese immediatamente allo scrittore l’autorizzazione a utilizzare la pièce come soggetto d’opera, e Maeterlinck gliela concesse ben volentieri, ringraziandolo, anzi, “per tutto quello che farà”. Successivamente al debutto dell’opera, Debussy pubblicò uno scritto sull’argomento: “Da molto tempo tentavo di scrivere musica per il teatro, ma la forma in cui volevo scriverla era così inusuale che dopo diversi tentativi avevo praticamente rinunciato. Desideravo per la musica una libertà che essa contiene forse più di qualsiasi altra arte, poiché non presenta il limite di una riproduzione più o meno esatta della natura, ma essendo destinata alle misteriose corrispondenze della natura e dell’immaginazione”. Si interrogava quindi su Wagner, che definiva “grande raccoglitore di formule”, e, con un sottile gioco di parole basato sulla differenza fra il termine aprés (dopo, oltre) e l’espressione d’après (secondo), sosteneva appunto che “occorre cercare oltre Wagner e non secondo Wagner”. “Il dramma di Pelléas” – proseguiva – “che malgrado l’atmosfera di sogno contiene molta più umanità che i cosiddetti documenti sulla vita, mi parve che si confacesse mirabilmente a ciò che volevo fare. Contiene una lingua evocatrice, la cui sensibilità poteva trovare il suo prolungamento nella musica e nella cornice orchestrale. Ho anche cercato di obbedire a una legge di bellezza di cui sembra ci si dimentichi stranamente quando si tratta di musica per il teatro; i personaggi di questo dramma cercano di cantare come persone normali, e non in una lingua arbitraria, fatta di tradizioni sorpassate”. Il lavoro fu lungo e costellato da momenti di smarrimento. Ai primi di settembre del 1893 così scriveva a Chausson: “Mi sono servito, peraltro del tutto spontaneamente, di un mezzo che mi sembrava molto raro, cioè il silenzio (non ridete) per generare espressione, e può darsi che sia il solo mezzo di far valere l’emozione di una frase, poiché se Wagner se ne è servito, mi pare che l’abbia fatto in un modo assolutamente drammatico.” Debussy concepiva dunque il silenzio come un principio attivo dell’espressione musicale. In una intervista rilasciata dopo la “prima” dell’opera, Debussy parlò in maniera molto estesa della scrittura vocale del Pelléas: “Ho voluto che l’azione non si arrestasse mai, che fosse continua, ininterrotta. […] Quando ascolta un’opera, lo spettatore è abituato ha provare due tipi ben distinti di emozioni: l’emozione musicale da un lato, l’emozione del personaggio dall’altra; in genere le avverte successiva-
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mente. Ho provato a far sì che queste due emozioni fossero perfettamente fuse e simultanee. La melodia, se così posso esprimermi, è antilirica. È impotente a tradurre l’instabilità degli animi e della vita. È adatta essenzialmente alla canzone che conferma un sentimento fisso. Non ho mai permesso che, per motivi tecnici, la mia musica affrettasse o ritardasse i sentimenti e le passioni dei miei personaggi. Essa si fa da parte quando conviene lasciar loro la completa libertà dei loro gesti, delle loro grida, della loro gioia o del loro dolore …”. Fra ripensamenti e rifacimenti continui si giunse infine, per interessamento di André Messager, compositore e direttore d’orchestra attivo al Teatro dell’Opéra-Comique, all’impegno di André Carré, direttore del teatro, a farvi rappresentare la nuova opera. Quando Debussy fu finalmente pronto, Messager convocò gli interpreti designati a una riunione in cui l’autore eseguì l’intera partitura cantando tutti i ruoli e accompagnandosi al pianoforte. L’emozione suscitata dalla musica sui cantanti fu straordinaria, e al termine della riunione tutti erano ansiosi di mettersi al lavoro. Ma altre difficoltà si profilavano all’orizzonte. Maeterlinck, che sperava fosse sua moglie, il soprano Georgette Leblanc, a interpretare per la prima volta Mélisande, quando venne a sapere che la parte era invece stata affidata alla scozzese Mary Garden, reduce dal successo all’Opéra-Comique con Louise di Charpentier, ritirò l’autorizzazione all’utilizzo del suo lavoro teatrale. Allora Debussy esibì la lettera con cui, nove anni prima, il drammaturgo gli concedeva “tutte le autorizzazioni per Pelléas et Mélisande”. Fra arbitrati e azioni giudiziarie, minacce di sfide a duello e interviste al vetriolo, Debussy vide riconosciute le proprie ragioni, ma era ovviamente molto seccato. Oltretutto, nella fase finale di messa a punto dell’orchestrazione, un grave errore del copista lo aveva costretto a un surplus di lavoro. Altri contrattempi – gli interludi che all’atto pratico risultavano troppo corti per consentire il cambio delle scene e dovettero quindi essere rimaneggiati, alcuni cantanti che si lamentavano per la lunghezza e la frequenza delle prove, la stampa in generale, e Le Figaro in particolare, che tentava di creare un clima ostile - sembravano minacciare il buon esito dell’impresa, ma grazie alla tenacia e alla professionalità di Messager, l’opera venne terminata alla vigilia della prova generale pubblica, fissata per il 27 aprile, che si rivelò però un fiasco colossale, fra le risa di scherno e i fischi della maggior parte del pubblico, per non parlare dell’intervento della polizia per sedare una rissa fra detrattori e sostenitori di Debussy. Il clima fu invece molto più calmo alla “prima”, del successivo 30 aprile, e l’opera venne inserita nel repertorio, permanendo però un clima generale di ostile incomprensione, a cui si
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aggiunse anche l’assurdo intervento della censura che obbligò a tagliare alcune parti. Il colmo dell’assurdità fu però rappresentato dalla proibizione di assistere alle rappresentazioni che il direttore del Conservatoire, Théodor Dubois, intimò agli studenti di composizione. Qualche tempo dopo, in una nota per l’Opéra-Comique e in una intervista al Figaro, così si sarebbe espresso Debussy: “Per singolare ironia, questo pubblico, che chiede novità, è quello stesso che si sgomenta ed è pronto a schernire tutte le volte che si cerca di farlo uscire dalle sue abitudini e dal sopore abituale.” L’opera è divisa in cinque atti e dodici quadri, e l’ultimo atto è tutto dedicato alla morte di Mélisande. Debussy adotta la tecnica wagneriana della continuità: non ci sono numeri chiusi, né solistici né d’insieme. I diversi quadri sono collegati fra loro da interludi orchestrali. Il musicista si ispira anche alla tecnica wagneriana del Leitmotiv, pur modificandola considerevolmente. Ecco quanto scrive, a questo proposito, il suo biografo Jean Barraqué: “Debussy, in effetti, modifica molto profondamente la concezione del leitmotiv wagneriano” in quanto “utilizza il procedimento, ma in un modo più tematicamente costituito. Dell’innovazione drammaturgica wagneriana egli mantiene il ruolo di designazione esplicita di un personaggio o di una situazione, che Wagner fa assumere a un dato elemento, e il suo strutturarsi nell’articolazione sinfonica del dramma. Se, per esempio, nella Tetralogia il Leitmotiv può essere sintetizzato in un unico accordo, il materiale conduttore che impiega Debussy è molto elaborato. Si tratta anzi, in generale, di temi. Citarli, attribuendo loro una denominazione simbolica, sarebbe vano. Alcuni designano dei personaggi, la loro apparizione anche furtiva evocherà la presenza, la memoria di questo o quell’altro. […] I temi, però, non vengono riproposti in modo identico; sono destinati a evolvere secondo la progressione psicologica dei personaggi o le diverse situazioni drammatiche dell’azione. […] Ma i temi non designano solo i personaggi. Alcuni caratterizzano una scena, un ambiente, un evento.” Anche lo stile vocale di Pelléas è molto simile a quello della Tetralogia. Per Debussy è molto importante che il testo sia percepibile e perciò evita intervalli disgiunti molto ampi, bruschi cambiamenti di registro e forti contrapposizioni dinamiche. La voce, prosegue Barraqué, “si muove in ambiti molto ristretti, in tessiture che non esigono da parte del cantante uno sforzo che rischierebbe di far perdere l’intelligibilità del testo.” Per lo stesso motivo l’orchestra deve essere molto discreta, malgrado la strumentazione sia molto complessa. Sul piano dello stile vocale, Debussy impiega molto il recitativo melodico, che rispetta in pieno il fraseggio e l’accentuazione della lingua francese, ma anche lo stile della
melodia popolare, dell’emissione bisbigliata, dell’articolazione affannosa. Raramente viene adottato lo stile cantato. Dal punto di vista armonico, malgrado l’abbondanza di modulazioni Pelléas è un’opera tonale. Parlando con il suo antico maestro di composizione Ernest Guiraud, Debussy affermava che la normale scala temperata non deve essere per forza esclusa, ma “bisogna darle compagnia, a partire dalla scala esatonale fino a quella di ventuno note. Bisogna usare abbondantemente l’enarmonia, ma anche distinguere un sol bemolle da un fa diesis … La musica non è né maggiore, né minore… è un compromesso fra terze maggiori e minori; improvvisamente, le modulazioni ritenute fra loro le più lontane diventano semplici… Con i ventiquattro semitoni contenuti nell’ottava si hanno sempre a propria disposizione degli accordi ambigui, che appartengono a trentasei toni alla volta. A maggior ragione disponiamo di accordi incompleti, di intervalli indeterminati, ancora più fluttuanti. Per cui, annegando il tono, si può sempre, senza tortuosità, approdare dove si vuole, uscire e rientrare dalla porta che si preferisce.” Le armonie di Debussy non sono poi così sovversive: si tratta semplicemente di concatenamenti di accordi paralleli, accordi di settima non risolti, alternanze inattese di accordi perfetti, di settime, di none, di undicesime, del frequente impiego di accordi alterati e incompleti che crea un senso di spaesamento tonale, l’utilizzo di ornamentazioni, di note di passaggio di lunga durata, e della nota sfuggita, impiegata in funzione drammatica. Dal punto di vista ritmico, nel Pelléas Debussy combatte l’uniformità. Se, guidato dall’azione drammatica, adotta una continuità ritmica, lo fa per “rompere la discontinuità”, basata sull’alternanza di ritmi lunghi e brevi e su di un ampio vocabolario poliritmico. Anche l’orchestrazione è condotta in senso drammatico, con un ruolo attivo, in particolare, degli strumenti a percussione. La forma è piegata alle esigenze drammaturgiche a tal punto che ogni scena, nel suo adattarsi al testo drammatico, determina una specifica forma. Gli interludi orchestrali riassumono la scena precedente e prefigurano la successiva. Successivamente a Pelléas Debussy lavorò ad altri due progetti di opere teatrali tratte da Edgar Allan Poe, Il diavolo nel campanile e La caduta della casa degli Usher. La sua intenzione era di scrivere due atti unici da eseguire nella stessa serata. Per quanto riguarda la prima, sappiamo da alcune lettere che il ruolo del diavolo doveva essere “fischiato”, mentre il coro - la folla - doveva cantare. Da una sua lettera a Laloy apprendiamo che il musicista desiderava ideare un nuovo tipo di scrittura corale, più libera e complessa di quelle di Musorgskij e di Wagner. “Nel Boris il popolo non costituisce una folla reale; è ora un gruppo che canta, ora un altro, e non un terzo, ciascuno a turno, e più spesso all’unisono. Quanto al popolo dei Maestri cantori, non è una folla, è un’armata, potentemente organizzata alla tedesca, che marcia in ranghi. Ciò che vorrei fare è qualche cosa di più sparpagliato, di più diviso, di più sciolto, di più impalpabile, qualche cosa di inorganico in apparenza e pur tuttavia di ordinato alla base; una vera folla umana dove ogni voce è libera, e dove tutte le voci riunite producono tuttavia una impressione e
un movimento d’insieme.” Purtroppo Debussy distrusse gran parte del lavoro intrapreso e delle due opere conosciamo solo i libretti – di mano dello stesso compositore – e una trentina di pagine di musica, sostanzialmente un monologo per La caduta della casa degli Usher. Nel novembre del 1910, mentre si trovava a Vienna per alcuni concerti, Debussy ricevette una lettera di Gabriele D’Annunzio che gli esprimeva entusiasmo per la sua musica e gli proponeva di collaborare con lui a un lavoro sulla vita di San Sebastiano. A tale progetto il poeta si dedicava da circa vent’anni ed era riuscito a suscitare l’interesse della danzatrice Ida Rubinstein, stella dei Ballets Russes di Sergej Djaghilev. Un mese dopo furono fissati il luogo, il Theâtre du Châtelet di Parigi, e la data, il maggio del 1911, della prima rappresentazione. Tale termine, però, era decisamente troppo ravvicinato, in quanto D’Annunzio non aveva ancora terminato il testo – lo avrebbe compiuto solo due mesi più tardi – per cui a Debussy restavano meno di tre mesi per comporre la musica. “Mi sarebbero stati necessari dei mesi di raccoglimento” – dichiarerà in seguito in una intervista – “per comporre una musica adeguata al dramma misterioso e raffinato di D’Annunzio. E mi sento obbligato a comporre nient’altro che quella musica che è giusto che ci sia: qualche coro e una musica di scena, ritengo.” Le Martyre de Saint Sébastien si configurava come un “mistero” moderno, danzato, mimato e parlato, o, come diceva Debussy, “il culto di Adone congiunto a quello di Gesù”. Il testo di D’Annunzio suscitò nel compositore una visione panteistica, che lo portò ad affermare: “Io non pratico secondo i riti consacrati. Mi sono costruito una religione della natura misteriosa. […] Percepire a quali emozionanti e supremi spettacoli la natura invita i suoi effimeri e turbati passeggeri, ecco ciò che chiamo pregare. […] Pur non essendo cattolico praticante o credente non ho dovuto fare un grande sforzo per elevarmi all’altezza di misticismo a cui giunge il dramma del poeta. Cerchiamo di intenderci sulla parola “misticismo”. […] Non abbiamo più l’anima della fede di un tempo. La fede che la mia musica esprime è ortodossa oppure no? Lo ignoro. È la mia, la mia che canta in tutta sincerità.” L’accoglienza fu tiepida, a causa dell’inadeguatezza vocale e coreografica dell’interprete principale, e – a detta dei critici francesi – della mediocrità del testo poetico, che D’Annunzio aveva avuto il torto, per loro, di scrivere direttamente in francese. Nei confronti della musica, invece, la critica fu entusiasta. Le Martyre de Saint Sébastien è un misto fra cantata, dramma lirico e balletto. È diviso in cinque parti e musicalmente è costruito per numeri chiusi – introduzioni o interludi strumentali, arie e cori – a causa dei numerosi interventi poetici parlati. Il rapporto con i Ballets Russes è all’origine anche di Jeux, composto fra il 1912 e il 1913 su soggetto del danzatore Vaclav Nijinskij. La prima rappresentazione ebbe luogo il 15 marzo 1913 al Theâtre du Champs-Elysées, solo quindici giorni prima che, nella stessa sala, avvenisse la prima, burrascosa esecuzione del Sacre du Printemps di Stravinskij. Pubblico e critica non manifestarono grandi entusiasmi. A Debussy la coreografia di Nijinskij non piacque, ritenendola troppo stilizzata. Il soggetto, “apolo-
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gia plastica dell’uomo del 1913” prende le mosse dalla ricerca che un giovane e due ragazze fanno della palla da tennis che hanno perso in un parco al crepuscolo. L’illuminazione elettrica, che spande intorno a loro bagliori fantastici, li induce a mettersi a giocare come bambini. L’incanto viene improvvisamente spezzato da un’altra palla da tennis gettata nel parco da mano ignota: i tre giovani, sorpresi e spaventati, scompaiono nell’oscurità che ha ormai avvolto il parco. La musica riproduce, con una immaginazione sonora che sembra non esaurirsi mai, i movimenti della palla che rimbalza, viene lanciata e bloccata, creando un’atmosfera di meravigliosa fascinazione. È una partitura fatta di concatenamenti di temi e strutture che appaiono e scompaiono, ricomparendo poi qua e là, talvolta sottotraccia. Lo stile melodico e armonico è frazionato, l’orchestrazione quasi sminuzzata. “Questa tecnica orchestrale”, scrive Barraqué, “gli permette di frantumare la melodia, sparpagliando brevi motivi sui differenti piani dell’orchestra, crea così una specie di scala di timbri. La costruzione si fonda su di una contrapposizione e una giustapposizione di schemi indipendenti, variati molto liberamente, sia nel loro contesto ritmico, sia nei loro contorni melodici. Egli fraziona l’orchestra in cellule che la polifonia fa risaltare. Sconvolge la concezione dell’orchestra classica (pedali armonici, famiglie di strumenti, etc.). Partendo da un simile trattamento della materia sonora si comprende molto bene come si configuri una filiazione Debussy-Webern; quest’ultimo, arricchito da questa acquisizione e dalla propria personale esperienza polifonica, si sarebbe trovato davanti un nuovo tipo di materiale: il timbro puro. Ed è proprio questa sconvolgente conseguenza che Debussy, per mezzo di questo capolavoro, ha provocato”. In quello stesso periodo Debussy iniziò a comporre La Boite à joujoux, balletto ispirato a un libro per bambini del disegnatore André Hellé, di cui completò la versione per pianoforte, ma non l’orchestrazione, che egli stesso affidò, a causa di altri impegni, al giovane compositore André Caplet, che aveva già collaborato con lui all’orchestrazione del Martyre. La prima rappresentazione ebbe luogo il 10 dicembre 1919, quasi due anni dopo la scomparsa dell’autore.
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GENOVA
Stagione Lirica e di Balletto 2012-2013
Musiche di F. Mendelssohn, R. Schumann, W. Lutosławski
dal 24/11/2012 al 2/12/2012 DON GIOVANNI Wolfgang Amadeus Mozart
22 – 23 marzo Mario Brunello, direttore e violoncello solista Musiche di R. Schumann, I. Strawinsky
dal 6/12/2012 al 5/1/2013 CINDERELLA Gioachino Rossini
1 gennaio Donato Renzetti, direttore Massimiliano Damerini, pianoforte Musiche di P.I. Čaikovskij, J. Williams
23, 27, 30, dic. 2012 TURANDOT Giacomo Puccini
8 febbraio Gaetano D’Espinosa, direttore Marco Presta e Antonello Dose, voci narranti Musiche di J. Brahms, S. Prokof ’ev
dal 19 al 27/01/2013 Giuseppe Verdi MACBETH dall’1 al 5/2/2013 IL LAGO DEI CIGNI P.I. Čaikovskij
22 febbraio Marco Zambelli, direttore Marco Vincenzi, pianoforte Musiche di W. A. Mozart
dal 18 al 31/5/2013 LA TRAVIATA Giuseppe Verdi
15 marzo Asher Fisch, direttore Stephanie Irani, mezzosoprano Musiche di H. Berlioz, G. Mahler
dall’1 al 10/3/2013 RIGOLETTO Giuseppe Verdi
Stagione Sinfonica 2012 - 2013 22 dicembre 2012 Marcello Rota, direttore Andrea Bocelli, tenore Gianfranco Montresor, baritono Musiche di G. Puccini 25 gennaio 2013 Andrea Battistoni, direttore Roberto Cominati, pianoforte Musiche di E. Grieg, M. Musorgskij
28 marzo Johannes Wildner, direttore Serena Gamberoni, soprano Annalisa Stroppa, mezzosoprano Francesco Meli, tenore Roberto Scandiuzzi, basso Musiche di A. Dvořák 5 aprile Wayne Marshall, direttore e pianoforte solista Musiche di G. Gershwin 19 aprile Dmitry Kitajenko, direttore
15 febbraio Giancarlo De Lorenzo, direttore Dimitri Yablonsky, violoncello Musiche di A. Dvorák
3 maggio Maurizio Billi, direttore Musiche di P. Mascagni
8 marzo Michal Nesterowicz, direttore Giuseppe Andaloro, pianoforte
24 maggio Fabio Luisi, direttore Andrea Bacchetti, pianoforte Musiche di W. A. Mozart, R. Wagner
www.carlofelice.it
Notizie in breve
Scala, Don Giovanni conquista Mosca Esperimento riuscito: il Don Giovanni della Scala ha trovato anche nella sala del Bolshoi uno spazio ideale in cui specchiarsi. Lo spettacolo di Robert Carsen, disegnato sulla sala del Piermarini, ha conquistato anche il pubblico di Mosca, che ha ritmato lunghissimi applausi all’indirizzo di Daniel Barenboim, salito in scena con l’orchestra e i coristi impegnati, e di tutti i protagonisti. Successo unanime per il Don Giovanni di Peter Mattei, il Leporello di Adrian Sampetrean, la Donna Anna di Maria Bengtsson, il Don Ottavio di Giuseppe Filianoti, la Donna Elivira di Dorothea Röschmann, la Zerlina di Anna Prohaska, il Masetto di Kostas Smoriginas, il Commendatore di Alexander Tsymbaliuk. Dopo il debutto di giovedì sera, Don Giovanni si è replicato l’8 e il 10, mentre il 9 settembre il Direttore Musicale Daniel Barenboim ha completato e arricchito il programma della tournée della Scala al Bolshoi, nel segno esclusivo di Mozart, dirigendo le Sinfonie n. 39, 40 e 41. Le quattro serate, esaurite da mesi, concludono lo scambio Scala-Bolshoi iniziato cinque anni fa. Nel 2007 il Balletto moscovita aveva portato a Milano due titoli: lo storico La fille du Pharaon e il contemporaneo Il limpido ruscello, su coreografia di Ratmanzky (al Teatro degli Arcimboldi). Il Bolshoi aveva poi tenuto tre concerti sinfonici nel 2008 alla Scala e quindi allestito nel 2010 la bellissima nuova produzione di Evgenij Onegin firmata da Dmitri Tcherniakov. Specularmente, la Scala ha ricambiato con la Messa da Requiem di Verdi nel novembre 2011 – primo teatro straniero nel Bolshoi riaperto dopo il restauro –, con il Balletto in dicembre (Excelsior e Sogno di una notte di mezza estate di Balanchine), e ora con l’Opera (Don Giovanni di Mozart). Il Teatro alla Scala di Milano ha visto in scena nei mesi di settembre e ottobre due importanti riprese di produzioni di balletto. Si tratta di “Onegin”, ispirato al poe-
ma di Puskin su musica di Cajkovsky (nella partitura non appare comunque nessun brano dell’opera omonima dello stesso autore) con la elaborazione musicale è a cura di Kurt-Heinz Stolze, per la coreografia di John Cranko. Roberto Bolle in coppia con Maria Eichwald hanno trascinato il pubblico in un entusiasmo da stadio. Nelle repliche si sono distinti Petra Conti in coppia con Eris Nezha e Mick Zeni nella parte del Principe Gremin. Felicissimo ritorno anche per “Raymonda” presentato in versione integrale la scorsa stagione quando ottenne diversi premi. Si tratta di una scrupolosa ricostruzione da parte di Sergej Vikharev sulla coreografia originale di Marius Petipa del 1898, un balletto che si articola in tre lunghissimi atti e che si basa su una leggenda medievale. La musica di Aleksandr Glazunov è ricchissima di momenti di assoluto sinfonismo. In questo balletto sono particolarmente apprezzati i giovani allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala diretta da Frederic Olivieri, tutti impegnati in svariati momenti. Applauditissima Olesia Novikova in coppia con Friedemann Vogel mentre una replica ha segnato il debutto della giovanissima e preparatissima Virna Toppi in coppia con Antonino Sutera. Settimane musicali Gustav Mahler Nell’ambito di un festival estivo ormai noto - le Settimane Musicali Gustav Mahler di Dobbiaco - partito a metà luglio con un concerto della Bundesjugendorchester diretta da Mario Venzago, e terminato ai primi di agosto con un’esibizione della Wiener Jeneusse Orchester sotto la guida di Herbert Böck, uno degli eventi più importanti è stato l’assegnazione del Premio discografico “Toblacher Komponierhäuschen 2012”, dedicato come di consueto alle pubblicazioni di opere del grande compositore boemo. Quest’anno il premio è stato assegnato dalla giuria presieduta da Attila Csampai alla registrazione storica della Sesta Sinfonia diretta da Antal Dorati alla testa della Israel Philarmonic (Tel Aviv, 1963), ed alla recen-
tissima pubblicazione della Nona Sinfonia nella quale Bernard Haitink si avvale dell’orchestra della Bayerische Rundfunk. Un riconoscimento speciale è poi andato al tecnico giapponese Tomoyoshi Ezaki, uno dei pionieri della tecnica SACD e multicanali, per l’altissima qualità del suono delle sinfonie mahleriale dirette da Manfred Honeck con la Pittsburgh Symphony Orchestra, e da Zdenek Mácal con l’Orchestra Sinfonica Ceca, tutte edite sotto l’etichetta Exton Studio di Yokohama. Dopo la cerimonia di premiazione, il pubblico si è spostato presso il grande auditorium della Gustav Mahler Saal per un concerto che si è posto come uno degli eventi centrali delle Settimane Musicali di Dobbiaco. Sul palco presenziava la storica formazione de I Solisti di Zagabria, diretti da Uroš Lajovic; in programma il Primo Concerto op. 35 per piano, tromba ed orchestra d’archi di Šostakivi , opera del 1935, riletto con il pianoforte dello straordinario Eugene Mursky e la tromba di Franc Kosem, giovane solista sloveno di autentico talento. Nella seconda parte la struggente musica di Das Lied von der Erde, presentata nella versione approntata da Schönberg per piccola orchestra: vale a dire una quindicina d’archi, un quintetto di fiati, percussioni, armonium e piano. Una veste molto particolare, che lascia intatto il fascino crepuscolare di questa partitura dai tratti inusuali, declinante verso un pessimismo ora sofferto, ora quasi rasserenato, con inaspettate impennate di sapida ironia; e che esalta l’asciutta trama strumentale conferitale in origine da Mahler il quale, nell’affidare il ruolo di accompagnamento delle due voci ad una grande orchestra, riprendeva in mano la primitiva e essenziale veste per piano e voce. Così strutturata, la penetrante rilettura di Schönberg pare porsi come ideale punto mediano tra le due differenti versioni di questa raccolta di antichi versi cinesi. I Solisti zagrebesi hanno confermato d’essere una formazione di alto livello tecnico; la concertazione di Uroš Lajovic ha tratto sapidi umori dal brillante ed estroverso concerto di Šostakivi , la-
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voro ondeggiante tra reminescenze classiche e umori grotteschi; meno convincente mi è parso il maestro sloveno in Mahler, la cui sfuggente essenza musicale ed umana non è mai facile da affrontare, restituendola intatta all’ascoltatore. La parte vocale di Das Lied è stata peraltro affidata a due interpreti esemplari, quali il tenore tedesco Dominik Vortig e il mezzosoprano slovacco Lucia Ducho ová. G. Mion Due nomine al Regio di Parma assegnate a Carlo Fontana e Paolo Arcà Il Presidente del Regio Federico Pizzarotti, coerentemente con quanto deliberato dal Consiglio di Amministrazione, nell’ottica di garantire la corretta gestione delle attività del Teatro, ha provveduto alla nomina del dottor Carlo Fontana, già Sovrintendente del Teatro alla Scala quale Amministratore esecutivo della Fondazione Teatro Regio di Parma. Su proposta dello stesso Fontana, il m° Paolo Arcà è stato nominato direttore artistico del teatro. Risultati del 90° Festival lirico 2012 all’Arena di Verona Il 90° Festival areniano in programma con 6 titoli e 50 serate si è concluso il 2 settembre, con l’appuntamento al Festival del Centenario 2013 per celebrare il primo secolo di Opera all’Arena di Verona. Il 90° Festival lirico all’Arena di Verona ha inaugurato il 22 giugno con Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura del M° Franco Zeffirelli. Questa nuova produzione ha registrato un’affluenza di pubblico pari a 46.350 presenze nelle 6 recite, per una media a spettacolo di 7.725 spettatori. A partire dalla serata inaugurale tutte le Prime hanno registrato importanti presenze, dato che attesta il gradimento del Festival 2012 ed il riconoscimento del suo alto valore artistico: Don Giovanni Aida Carmen Roméo et Juliette Turandot Tosca
22 giu. 10.395 spettatori 23 giu. 13.283 spettatori 30 giu. 13.084 spettatori 7 lug. 9.711 spettatori 4 ago. 10.064 spettatori 18 ago. 13.556 spettatori
Il Festival dell’Arena di Verona dimostra così di essere una delle grandi eccellenze nel mondo per l’attenzione organizzativa, mantenuta oltre tre
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mesi da giugno a settembre, nel mettere in scena ogni sera un titolo diverso perfettamente curato in ogni suo particolare. Allo Sferisterio nel 2012 i numeri della svolta La storica Traviata con la regia di Henning Brockhaus e le scene di Josef Svoboda ha chiuso allo Sferisterio la 48° edizione del Macerata Opera Festival. Dal 20 luglio, data di apertura del Festival, lo Sferisterio ha ospitato nei fine settimana quattro repliche ciascuna dell’ormai leggendaria “Traviata degli specchi” e delle nuove produzioni di Carmen (con la regia di Serena Sinigaglia) e La bohème (con la regia di Leo Muscato), mentre nel corso della settimana la città si animava grazie agli eventi del Festival Off. Ricordiamo allo Sferisterio le serate dedicate a Roberto Bolle e alla memoria di Mario del Monaco e al Teatro Lauro Rossi il concerto dedicato da Marco Mencoboni alla tradizone barocca marchigiana, quello in memoria di Stefano Scodanibbio, il Flauto Magico tascabile per i bambini e la festa musicale per i vent’anni di carriera di Andrea Concetti. Ma il Festival Off ha coinvolto tutta la città nella Notte dell’Opera il 9 agosto e con la mostra dedicata a Violetta, Carmen,Mimì a Palazzo Buonaccorsi. Bilancio 2012 La 48° stagione ha attratto un totale di 30.089 spettatori per le opere allo Sferisterio rispetto ai 17.972 del 2011 e ai 14.206 del 2010. Di questi, il totale di paganti è stato 28.254 rispetto ai 15.776 del 2011 e agli 11.985 del 2010. Il numero degli omaggi è stato considerevolmente ridotto in termini assoluti e dimezzato in termini percentuali: 1.835 (cioè 6.12% del totale dei biglietti) rispetto ai 2.196 del 2011 (12,22 %)e ai 2.301(16,11 %) del 2010. Si tratta sia in percentuale sia in termini assoluti del numero di omaggi più basso della storia dello Sferisterio. L’incasso totale del 2012 ha raggiunto € 1.191.833, rispetto ai 782.410 del 2011 e ai 651.634 del 2010. La traviata, con € 120.874 è stata record di incassi dal 2006 (da quando cioè la nuova sistemazione della platea nel rispetto delle norme di sicurezza, ha diminuito il numero dei posti). Il record assoluto non è molto più alto e appartiene ancora a Traviata, con gli € 129.062 della serata inaugurale del 2003, che resta anche la stagione con gli incassi più alti della storia (€ 1.381.000, una cifra difficilmente raggiungibile con l’attuale capienza).
Lo Sferisterio ha organizzato un sondaggio per raccogliere impressioni, opinioni e consigli del suo pubblico, che ha aderito con entusiasmo: nel corso delle repliche sono stati compilati 7.500 questionari. Infine i dati del Festival Off (Main Sponsor Simonetti): concerti, aperitivi e spettacoli al chiuso hanno registrato un costante tutto esaurito per un totale di 6.000 spettatori cui vanno aggiunti i 1.500 visitatori della mostra Violetta, Carmen, Mimì a Palazzo Buonaccorsi. Resta difficile quantificare il numero degli spettatori delle numerose iniziative all’aperto, incluse le molte migliaia di partecipanti alla Notte dell’Opera del 9 agosto (realizzata con il contributo di UniCredit), in cui la città ha fatto tutto esaurito. Questi risultati sono stati resi possibile dall’impegno comune del Consiglio di Amministrazione, del direttore amministrativo e di una struttura organizzativa snella ed efficiente che ha saputo gestire al meglio ed in tempi ristretti una macchina complessa che coinvolge complessivamente più di 500 lavoratori. Donazione di Simona Marchini alla Fondazione Cini La Fondazione Giorgio Cini ha acquisito un nuovo importante archivio: quello dello scenografo e costumista, Pier Luigi Samaritani grande artista della scena dipinta del secondo Novecento italiano. È stato firmato infatti l’atto formale con cui l’attrice Simona Marchini, ha donato al Centro Studi sul Teatro dell’istituzione veneziana circa 400 disegni originali, figurini per costumi e bozzetti scenografici, 2000 volumi della sua biblioteca personale e 250 cartelle di documenti relativi ai suoi spettacoli. CATANIA – Accordo tra il Teatro Massimo Bellini e il Teatro Oriental Art di Shanghai Il Primo atto sarà una tournèe in Cina nel 2013 Il Teatro Massimo Bellini di Catania e il Teatro Oriental Art Center di Shanghai, una delle istituzioni teatrali più importanti della Cina, hanno firmato un protocollo d’intesa. Un accordo che potenzierà la collaborazione tra Italia e Cina nel campo della musica lirica e dei concerti sinfonico-corali e che vedrà già l’anno prossimo il Teatro Massimo Bellini protagonista assoluto di una grande tournèe in Cina che toccherà Pechino, la stessa Shanghai e le altre importanti città del Paese. Dopo il Teatro alla Scala, la Fenice di Venezia e l’Orchestra di Santa Cecilia, toccherà dunque al Teatro Massi-
mo Bellini di Catania rappresentare in Cina il melodramma italiano e proporre, per la prima volta in quel Paese, il repertorio del tanto amato Cigno catanese, da Norma a I puritani a La sonnambula, e di chi la Sicilia letteraria l’ha raccontata in musica, come Pietro Mascagni nella verghiana Cavalleria rusticana. Il protocollo d’intesa tra il “Bellini” e l’“Oriental Art Center” è un accordo che è stato fortemente voluto dal sovrintendente del Teatro catanese, Rita Gari Cinquegrana, e dal direttore artistico dello stesso “Bellini”, Xu Zhong, a suggello di una collaborazione artistica e culturale sempre più proficua tra le realtà culturali dei due Paesi. Un contributo importantissimo alla diffusione dell’opera lirica, e in particolare della musica di Vincenzo Bellini, nell’immenso Continente asiatico da parte di un Ente, il Teatro Massimo Bellini, che del musicista catanese è da sempre il riconosciuto e ammirato ambasciatore nel mondo, come testimoniano le importanti tournée in Giappone e Russia, per citare solo le più recenti. Il fondo bibliografico di Salvatore Enrico Failla donato all’archivio storico del Teatro Massimo Bellini È stato definitivamente acquisito al patrimonio culturale dell’E.A.R. Teatro Massimo Bellini il fondo bibliografico del compianto professor Salvatore Enrico Failla L’atto di donazione è stato firmato nel foyer del teatro dagli eredi e dai rappresentanti del Teatro, alla presenza di un notaio. Per la famiglia erano presenti la figlia Vittoria e il fratello Raimondo, già subito dopo la scomparsa del padre avevano deciso di donare al “Bellini” la sterminata biblioteca musicale del musicologo e compositore morto nel 2008 all’età di 70 anni. Del “Fondo Failla”, che da ora in poi fa parte integrante del costituendo Museo teatrale del Teatro Massimo Bellini, fanno parte 59 scatole di libri, riviste e autografi, 35 scatole di spartiti musicali, 4 scatole di rulli musicali che vengono suonati su una pianola meccanica, prezioso e antico strumento anch’esso parte della donazione. Tra i volumi donati, una trentina riguardano Vincenzo Bellini; alcuni, rari e preziosi, risalgono al XIX secolo (uno è del 1876, l’anno della traslazione della salma di Bellini da Parigi a Catania, un altro del 1896). MILANO – All’Associazione Amici della Casa Verdi. Inaugurata la stagione concertistica 2012/2013 Nel Salone d’Onore dell’omonima casa di riposo per Musicisti, gli Amici della Casa Verdi si sono riuniti il 30 settembre scorso per l’apertura della nuova stagione concertistica. La Presidente dell’Associazione, Agostina Zecca Laterza, ha presentato il baritono fiorentino Franco Rossi, che si è esibito in un impegnativo programma comprendente brani di Rossini, Verdi, Bizet, Puccini e Giordano, accompagnato dall’ottima pianista Sofia Parker. Il pubblico ha particolarmente apprezzato la potente vocalità del giovane artista, la sua ottima tecnica, la raffinatezza della interpretazione e la grande comunicativa.
ALESSANDRA SONIA ROMANO Violinista a giovane e valente L concertista ha studiato al Conservatorio “G. Verdi” di Milano con Paolo Borciani. Ha concluso il corso superiore studiando a Ginevra con Corrado Romano e successivamente diplomandosi al Conservatorio “B. Marcello” di Venezia con Giuliano Carmignola. Ha seguito numerosi corsi di perfezionamento con celebri violinisti in Italia, Francia, Israele, Germania e, in seguito ad un’audizione con Dorothy Delay alla “Julliard School” di New York è stata segnalata al “Royal College of Music” di Londra, dove ha studiato con Itzhak Rashkovsky conseguendo la prestigiosa laurea per solisti “Associate of the Royal College of Music – Violin Performing”. A Londra ha insegnato violino come assistente di docenti del “Royal College of Music” e “Purcell School” e ha svolto una intensa attività concertistica in duo con il pianista londinese Andrew Robinson. Lavora come freelance con le più importanti orchestre italiane per produzioni sinfoniche ed operistiche e suona sia come I° violino di spalla che come violino solista con diverse orchestre fra le quali: il Windsor Ensamble di Oxford, l’Orchestra di Podebrady (polonia), l’Orchestra Arteviva, Milano Classica, Orchestra Swarosky, l’Orchestra della RAI ecc. Per diverso tempo è stata primo violino e solista con l’Orchestra della RAI di Milano in trasmissioni televisive su RAI 1 e RAI 2 con diretta televisiva giornaliera. Ha fondato in qualità di primo violino e solista l’Ensemble d’archi Serenata con cui ha partecipato a diverse trasmissioni televisive fra le quali “Ci vediamo in TV” su Rai1 e “Caffé Martinetti” su Rai2. Come solista ha partecipato con il soprano Cecilia Gasdia alla la trasmissione “Una voce per Padre Pio” trasmessa da RAI 1 e poi, in Piazza Castello a Torino per la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi Invernali, con Andrea Boccelli e l’Orchestra Sinfonica della RAI di Torino. È stata consulente musicale presso la “Kicco Music” di Milano per la quale ha collaborato nel editing della realizzazione di diverse produzioni operistiche, per la stessa casa discografica ha anche inciso alcuni CD. In occasione del congresso internazionale della Sanità, è stata invitata a suonare un programma per violino solo nella Sala delle Risonanze all'Auditorium Parco della Musica di Roma. Suona come solista con diverse orchestre recentemente: il concerto di Mendelsshon per violino, pianoforte e orchestra, le Quattro stagioni di Vivaldi, il Concerto di Haydn N°4 in sol Magg. All’attività concertistica affianca quella didattica avvalendosi della prestigiosa esperienza presso il Royal College e la Purcell School di Londra, per diversi anni ha insegnato violino presso diverse scuole. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di eventi culturali e musicali come consulente per alcuni Comuni e per l’associazione culturale Friday di Milano. www.alessandrasoniaromano.it
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JULES MASSENET (Montaud-Saint Etienne, 12 maggio 1842 – Parigi, 13 agosto 1912) V. Licari
ivessi mill’anni – ed è improbabile – non potrei togliermi dalla memoria quella fatidica data del 24 febbraio 1848 (stavo per compiere sei anni) non tanto perché coincide con la caduta della monarchia di luglio, quanto perché segna i miei primissimi passi nella carriera musicale […] fu proprio il mattino di quella storica giornata che […] mia madre mi fece mettere per la prima volta le dita sul pianoforte.” Così Jules Massenet, nei Mes Souvenirs, narra di come sua madre Eléonore, rampolla di nobile famiglia dalla raffinata educazione, divenne anche la sua prima insegnante di musica. Il racconto prosegue con l’illustrazione dell’originale metodologia didattica di Massenet a 14 anni mamma Eléonore: “Per meglio iniziarmi alla conoscenza dello strumento, mia madre […] aveva steso lungo la tastiera una striscia di carta su cui aveva trascritto le note che corrispondevano a ciascuno dei tasti, bianchi o neri, con la loro posizione sul pentagramma. Era estremamente ingegnoso e non c’era possibilità di errore”. Cinque anni dopo, il 10 gennaio 1853, il giovanissimo Jules, accompagnato dai genitori, varcava la soglia del Conservatoire National de Musique per sostenere l’esame di ammissione: ad ascoltarlo c’era una commissione composta da Daniel Auber, direttore del Conservatoire, e da nomi quali Michele Carafa, Jacques Halévy e Ambroise Thomas, che sarebbe diventato non solo il suo maestro di composizione, ma anche il suo più grande sostenitore all’epoca degli esordi e dei primi successi. Lo studente Massenet assapora fino in fondo la vita musicale e culturale in genere della grande Parigi con una curiosità insaziabile, suona il triangolo e i timpani nell’orchestra del Théatre Lyrique, fa la conoscenza di Hector Berlioz e di Richard Wagner, e dà prova di grande fertilità nel comporre; nella biografia di ArthurPougin a lui dedicata si legge che “non c’era lezione [nella classe di Thomas, n.d.r.] in cui Massenet non arrivasse con un’ouverture, con uno o due movimenti di una sinfonia, con
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una serie di melodie, […] persino un atto d’opera”. Il 4 luglio 1862 gli viene assegnato il Prix de Rome e in quell’occasione, rivolgendosi a Berlioz, che fra i membri della commissione è quello che più ha apprezzato il lavoro del giovane musicista, Auber sentenzia: “Andrà lontano quel ragazzino, quando avrà più esperienza!”. Durante il soggiorno romano, iniziato nel gennaio del 1863 e protrattosi per tre anni, Massenet ha modo, fra l’altro, di fare la conoscenza di Franz Liszt e di visitare molte città d’arte come Napoli, Siena, Firenze, Assisi, Venezia, ma anche di incontrare Louise Constance de Gressy, colei che, l’8 ottobre 1866 diventerà sua moglie e gli darà l’unica figlia, Juliette. La sua carriera procede in costante ascesa e ben presto si rivolge quasi esclusivamente all’opera, esordendo nel 1867 con La Grand’Tante, rappresentata all’Opéra-Comique. Dopo la parentesi della guerra franco-prussiana - durante la quale Massenet si arruola in un reggimento di fanteria - e della Comune, la vita culturale parigina non tarda a riprendere con rinnovato slancio. La celebre Pauline Viardot, invitata a prendere la cattedra di canto al Conservatoire, diventa una delle sue migliori amiche e sostenitrici; il 5 gennaio 1875 viene inaugurato il Palais Garnier dove, il 27 aprile 1877, è rappresentato con grande successo Le Roi de Lahore. Altrettanto successo avrà Hérodiade (19 dicembre 1881) al Teatro della Monnaie di Bruxelles. Manon, il titolo più celebre della sua produzione, va in scena all’Opéra-Comique di Parigi il 19 gennaio 1884. Seguono, per citare solo i titoli più importanti, Le Cid (Parigi, Palais Garnier, 30 novembre 1885), Esclarmonde (Parigi, OpéraComique, 15 maggio 1889), Werther (Vienna, Hofoper, 16 febbraio 1892), Thaïs (Parigi, Palais Garnier, 16 marzo 1894), Le portrait de Manon (Parigi, Opéra-Comique, 8 maggio 1894), La Navarraise (Parigi, OpéraComique, 20 giugno 1894), Cendrillon (Parigi, Opéra-Comique, 24 maggio 1899), Sapho (Parigi, Opéra-Co-
mique, 27 novembre 1897), Le jongleur de Notre Dame (Montecarlo, Teatro dell’Opera, 18 febbraio 1902), Thérèse (Montecarlo, Teatro dell’Opera, 7 febbraio 1907), Don Quichotte (Montecarlo, Teatro dell’Opera, 19 febbraio 1910). Parallelamente ai successi artistici vengono i riconoscimenti ufficiali: la Legion d’Onore nel 1876, la cattedra di composizione al Conservatoire a partire dal 1878, che lo rende maestro di futuri celebri autori come Gustave Charpentier e George Enesco, la nomina all’Académie des Beaux-Arts e, nel 1896, la nomina a direttore del Conservatoire come successore del suo stesso maestro Thomas, incarico che declina per dedicarsi totalmente alla composizione. Massenet fu un grandissimo “lavoratore della musica” – scriveva ininterrottamente dalle prime luci dell’alba sino a pomeriggio inoltrato – e non smise mai di dedicarsi al rinnovamento del repertorio, soprattutto per quanto concerne i soggetti operistici. Il suo grande successo presso il pubblico non ha corrisposto, almeno fino a qualche tempo fa, ad altrettanta attenzione da parte della critica: questo perché il suo stile non è tanto originale, quanto piuttosto aperto alle più varie influenze. Grande maestro nel trattare la vocalità e la timbrica strumentale, “uomo di carezze musicali, di cantilene sensuali, e anche di piccoli antipasti ingegnosamente preparati”, come lo definì un compositore “leggero” come Louis Antoine Jullien, Jules Massenet non fu forse un grande nel senso proprio della parola, ma la bellezza oggettiva della sua musica e le emozioni che ha suscitato e suscita tutt’ora in un pubblico vastissimo ne fanno a buon diritto uno dei protagonisti della storia dell’opera.
Ia EDIZIONE DEGLI INTERNATIONAL OPERA AWARDS 2 AGOSTO 2012 AL GRAN TEATRO ALL’APERTO GIACOMO PUCCINI DI TORRE DEL LAGO Andrea Bocelli, superba voce lirica che il nostro teatro d’opera vanta in tutto il mondo, ha reso omaggio al grande tenore Franco Corelli a cui è stato assegnato il “Premio Speciale alla Memoria”. Il tenore Fabio Armiliato, protagonista rivelazione del film di Woody Allen “To Rome with Love”, ha ricevuto il Premio Speciale “Opera al Cinema” . Il Premio Speciale per la “New Generation” è stato assegnato invece a Marìa Florenza Machado.
GLI 8 VINCITORI DEGLI OSCAR Celso Albelo tenore, Dimitra Theodossiou soprano Sonia Ganassi mezzosoprano, Ildar Abdrazakov basso Geral Finley baritono, Michele Mariotti direttore d’orchestra. Daniele Abbado regista, Richard Peduzzi scenografo
OPERALIA, IL PIÙ IMPORTANTE CONCORSO OPERISTICO DEDICATO AI GIOVANI CANTANTI LIRICI FONDATO DA PLÁCIDO DOMINGO NEL 1983 Ha premiato a Pechino una voce italiana. Al giovanissimo tenore romano Antonio Poli - 26 anni appena è andato - il premio ‘Culturarte’, di US $ 10,000, offerto da Guillermo and Bertita Martínez.
Durante la serata conclusiva a Pechino, Plácido Domingo ha annunciato che nell’agosto del 2013 Operalia si terrà proprio in Italia, a Verona, durante le celebrazioni per il centenario del Festival Arena di Verona.
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Recensioni
LIBRI
V. Licari
A MILANO CON VERDI Guida ai luoghi vissuti dal Maestro Curcilibri, Milano, 2011, pagg. 256 € 19,00 Dopo avere presentato il volume A Milano con Verdi presso la Casa di Riposo per Musicisti Fondazione Verdi, l’autrice Giancarla Moscatelli ha organizzato un tour che, partendo da piazza della Scala, attraverso la Galleria Vittorio Emanuele II, piazza Duomo, corso Vittorio Emanuele, via San Pietro all’Orto e via Montenapoleone, si è concluso in via Manzoni con la visita dell’appartamento numero 105 del Grand Hotel et de Milan, dove Verdi aveva stabilito la propria residenza milanese nell’ultimo trentennio della sua esistenza e dove morì il 27 gennaio 1901. L’itinerario percorso è uno dei quattro suggeriti in appendice al volume come “passeggiate verdiane”, lungo le quali è possibile ancora oggi imbattersi in luoghi conosciuti e frequentati dal compositore; e quando, come sovente avviene, i luoghi noti a Verdi non esistono più, oppure hanno mutato di aspetto, di collocazione o di funzione, interviene l’autrice a fare da tramite fra il passato e il presente. Così apprendiamo, per esempio, che nell’antico palazzo sull’angolo di via Santa Radegonda, dove oggi ha sede
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un cinema multisala, fu attivo dal 1851 un teatro che, divenuto poi sede della “Società Generale di Elettricità sistema Edison”, fu riconvertito, fra il 1882 e il 1883, nella prima centrale termoelettrica dell’Europa continentale, tutt’ora ricordata da una targa. O che l’attuale Galleria De Cristoforis, che oggi si apre su corso Vittorio Emanuele, non è quella in cui avvenne lo storico incontro fra Verdi e Bartolomeo Merelli, nel corso del quale l’impresario mise quasi a forza in tasca al musicista il libretto di Nabucco, perché la Galleria De Cristoforis originaria, che alla sua inaugurazione nel 1832 aveva rappresentato una innovazione importantissima nell’architettura italiana in quanto primo passaggio coperto mai realizzato sul territorio della penisola, era collocata a ridosso dell’attuale piazza San Carlo e venne demolita a seguito del Piano Regolatore Generale del 1931. Verdi abitava nello stabile sovrastante e gli bastava quindi scendere le scale di casa per trovarsi in uno dei punti nevralgici della vita sociale della città, ricco di negozi, caffè e ristoranti frequentati da artisti e intellettuali. Ma è impossibile riassumere in poco spazio tutte le preziose notizie storiche e le curiosità che, grazie alla sua doppia competenza di musicista e di archivista, Giancarla Moscatelli ha riunito in un libro che riassume la storia di Milano intrecciata all’esistenza di Verdi nel periodo fra il 1839, quando egli giunse nella capitale lombarda da Busseto con la prima moglie Margherita Barezzi e i figli, e quel 27 gennaio 1901 in cui la città restò “percossa e attonita” – usando le parole che Alessandro Manzoni, nel 5 maggio 1821, scrisse a proposito della reazione del mondo alla scomparsa di Napoleone – quando in luogo del bollettino medico che da sei giorni veniva affisso all’ingresso del Grand Hotel per informare la cittadinanza sulle condizioni di salute del musicista, in coma per un ictus, comparve l’annuncio della sua morte. Un intreccio di storia e di destini,
quello fra Verdi e Milano, città per la quale il Maestro nutrì sempre un grande affetto, anche nei lunghi periodi di incomprensione con il Teatro alla Scala; si pensi, per esempio, all’omaggio che egli volle rendere proprio a Manzoni, massimo scrittore milanese, con la Messa di Requiem, composta per l’anniversario della morte del grande letterato che tanto ammirava, ma che riuscì a incontrare una sola volta, nonostante fossero quasi vicini di casa. Il volume, ricco di belle illustrazioni, fra le quali molte rare fotografie della Milano che fu, è corredato da un cd contenente una serie di incisioni verdiane che a buon diritto possono essere definite storiche, con interpreti quali Alexander De Svéd, Fedora Barbieri, Richard Tucker, Maria Callas, Mario Petri, Boris Christoff, Franco Corelli, Renata Tebaldi, Thomas Shippers. L’ultimo brano di quest’antologia è, giustamente, il finale di Falstaff nella splendida registrazione del 1956 diretta da Herbert von Karajan con Tito Gobbi protagonista. La sera del 9 febbraio 1893 una grande folla festeggiò a lungo Verdi sotto le sue finestre, a pochi passi dalla Scala, dove si era appena conclusa la prima rappresentazione assoluta dell’opera: fu l’apice, come scrive Giancarla Moscatelli, di “un percorso di reciproco riconoscimento” fra “un uomo e la sua città di adozione”, dove egli ancora oggi riposa, all’interno di quella che definiva “l’opera mia più bella”, la Casa di Riposo per Musicisti a lui intitolata. Pensando che oggi a poche decine di metri dalla tomba di Verdi passano i treni della metropolitana, ci piace ricordare un artista che, affascinato dalle innovazioni tecniche che la città continuamente offriva, nel 1846 trascorreva un periodo di riposo forzato impostogli dal medico viaggiando in treno fra Milano e Monza e percorrendo il Naviglio Martesana fino a Treviglio con i mezzi a vapore. Curioso della vita come pochi lo furono ai suoi tempi, Giuseppe Verdi non poteva che essere, fino alla fine, un grande innovatore.
G. Franchini
Fracci e le carezze di Giulia Lazzarini. Noi ci portiamo a casa il suo libro che si lascia leggere tutto d’un fiato e che passa in rassegna una vita tutta vissuta al servizio del grande teatro.
G. Mion
molto rilevanti. Maggiormente conta però il valore musicale dell’esecuzione, che poggia su una formazione eccezionale ed il suo mèntore, Le Concert Spirituel ed Hervé Niquet. Splendida compagine la prima, concertatore acuto e raffinato il secondo. Esemplare anche il quartetto degli interpreti principali: il soprano francese Karine Deshayes (emozionante Andromaque), il mezzosoprano svizzero Maria Riccarda Wesseling (Hermione), il tenore francese Sèbastene Guèze (Pyrrhus), il baritono greco Tassis Christoyannis (Oreste). Il coro, che nella riduzione dal testo di Racine assorbe in sé le figure minori, è affidato agli impeccabili Chantres du Centre de Musique Baroque de Versailles.
“QUANTI SONO I DOMANI PASSATI” VALENTINA CORTESE ha presentato la sua autobiografia Serata magica al Teatro Studio di Milano per la presentazione dell’autobiografia scritta da Valentina Cortese “Quanti sono i domani passati” edita da Mondatori. Due ore che filano via in un battibaleno grazie alla presenza della divina ed elegantissima Cortese la quale, intervistata da Maurizio Porro e Lina Sotis, si concede ad un pubblico curioso ed affettuoso. Una conversazione che tocca momenti di poesia, di struggente malinconia, di riso, di pianto, di commozione, di gioia, insomma tutti quegli ingredienti che fanno di una donna una grande donna, un’autentica donna di teatro nata con la voglia di recitare da subito. E così ci racconta dei suoi primi passi sulle tavole di un palcoscenico improvvisato dalle suore di un asilo dove fece la sua visita un vescovo e nel racconto non mancano momenti di autentica ilarità. Valentina passa in rassegna amori e compagni di lavoro e per (quasi) tutti esterna parole di sincera amicizia e fratellanza. È grande nei gesti, nelle pause, nella lettura di alcune pagine del suo racconto che grazie alla sua voce a al saper porgere si trasformano in poesia. E poco importa se in alcuni passaggi la memoria fa difetto, anche in questi momenti tutto diventa teatro, o meglio “divertissement” come ama dire lei. Di tanto in tanto vengono proiettati spezzoni dei suoi film e del magico “Il giardino dei ciliegi” realizzato da Giorgio Strehler del quale legge anche alcune lettere intime a lei dedicate. Poi l’incantesimo finisce e come una nuvola bianca Valentina sparisce fra l’abbraccio del pubblico, i baci di Carla
ANDROMAQUE tragédie lyrique di L.G. Pitra (da Racine) musica A.E.M. Grétry K. Deshayes, M.R. Wesseling, S. Guéze, T. Christoyannis - Le Concert Spirituel, dir. Hervé Niquet Glossa Ges 921620-P Il compositore belga André Ernest Modest Grétry (1741-1813), del quale presentiamo due recenti pubblicazioni editoriali, dopo gli studi nella nativa Liegi si formò in Italia, ma dal 1767 in poi svolse tutta la sua carriera a Parigi, godendo dei favori della Corte ma sopravvivendo bene sia alla Rivoluzione Francese sia nel Primo Impero. La sua produzione teatrale costituisce un’eredità assai consistente - una sessantina di lavori di vario genere- che hanno ora assecondato, ora anticipato l’evolversi del gusto del pubblico francese. Apprezzato per le opéras-comiques dal tono leggero che gli diedero grande fama, ha lasciato con Andromaque, composta nel 1778 per l’Académie Royale, l’unica sua incursione nel territorio della tragédie lyrique. Rivelando non poche influenze dell’ineludibile presenza di Gluck, ma mostrando anche notevoli tratti di originalità nella elaborazione musicale complessiva. Grazie al Centre de Musique Baroque di Versailles l’Andromaque è stata meritatamente recuperata dall’oblio nel 2009, in alcune fortunate recite a Parigi e Bruxelles, ed è stata fissata dalla Glossa in 2 CD accuratissimi nel suono e presentati in una veste particolare, cioè un elegante volumetto rilegato con apporati critici
ASPECTS DE L’OPÉRA FRANÇAIS DE MEYERBEER À HONEGGER a cura di J.C. Branger e V. Giroud Symétrie & PBZ Editori - pagg. 259, € 32,00 Un viaggio nel tempo che parte dall’ultimo Meyerbeer, per poi soffermarsi su Gounod, Bizet, Massenet ed arrivare infine a Debussy, Ravel ed Honegger: con questo volume, edito dalla casa francese Symétrie e dalla Fondazione PBZ di Venezia, escono a stampa una serie di interventi inerenti vari aspetti dell’opera francese tra Otto e Novecento, espressi in un convegno tenutosi all’Università di Yale ancora nel 2004. Non un lavoro organico, dunque, ma una raccolta di stimolanti studi di Ph. Blay, G. Condé, J.F. Fulcher, K. Henson, S. Huebner, H. Lacombe, R. Oledge e dei due curatori. Particolarmente interessanti per l’appassionato di questo genere musicale credo risulteranno quelli dedicati al tardo Meyerbeer, alla genesi dell’Hèrodiade di Massenet, alla perduta La Chute de la maison Usher di Debussy. Il volume, riccamente illustrato in b/n, è anche corredato di un bel inserto di illustrazioni a colori.
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PREMI
Alcuni tra i premi consegnati nella Stagione 2012
IL TENORE PAOLO FANALE HA RICEVUTO IL PREMIO INTERNAZIONALE “FRANCO CORELLI” Al Teatro delle Muse di Ancona il 18 febbraio nel recital con la Form diretta dal m° Carla Delfrate Il premio è una scultura di Paolo Annibali Il tenore ha ricevuto il Premio Internazionale “Franco Corelli” giunto all’8° edizione, riferito alla Stagione Lirica 2010/11, per il ruolo di Ferrando nel Così fan tutte, prodotto e messo in scena lo scorso anno dalla Fondazione Teatro delle Muse, in collaborazione con lo Sferisterio Opera Festival. Per l’occasione la Fondazione Teatro delle Muse ha ospitato una mostra di Paolo Annibali. IL MAHLER DI CLAUDIO ABBADO PREMIATO DA UNA GIURIA INTERNAZIONALE I giurati degli “International Classical Music Awards” hanno scelto il video della Nona Sinfonia come migliore DVD del 2011 Il DVD Accentus Music della Nona Sinfonia di Mahler, diretta da Claudio Abbado con l’Orchestra del Festival di Lucerna, è stato scelto dalla giuria internazionale degli ICMA (International Classical Music Awards) come migliore performance in video del 2011. Si tratta di una delle 14 categorie premiate, fra audio e video, dal fior fiore della critica musicale europea (riviste ed emittenti radiofoniche di dodici nazioni). Fra gli altri vincitori, ricordiamo il premio alla carriera conferito al compositore polacco Krzysztof Penderecki. Al pianista francese Jean-Efflam Bavouzet (artista dell’anno) e il riconoscimento alla casa finlandese Ondine. Gli artisti sono stati premiati nel corso di una cerimonia che si è tenuta a Nantes, (Francia) il 15 maggio, mentre nel 2013 sarà Milano ad ospitare il prestigioso evento nell’ambito della stagione dell’Orchestra Verdi all’Auditorium Fondazione Cariplo. ´ IL PREMIO INTERNAZIONALE A PETER DVORSKY “IL DONO DELL’UMANITÀ” Al celebre tenore, ora insegnante Peter Dvorský è stato assegnato il Premio Internazionale “Il Dono dell’Umanità” per meriti umani in quanto ha dimostrato grande sensibilità verso la dimensione sociale della vita cui ha profuso le sue energie con grande slancio umano e meritevole, quale fondatore di “Harmony”, centro no profit, che offre con particolare attenzione una cura completa per circa 100 bambini e giovani distrofici ogni giorno, con diagnosi ortopediche, neurologiche, traumatologiche, malattie congenite e danneggiamenti del sistema nervoso centrale. Il Premio giunto alla sua sesta edizione, è nato come una necessità per organizzare eventi cultuali ed è stato creato grazie all’idea della baronessa Maria Lucia Soares e di Paky Arcella con lo scopo di coinvolgere i personaggi del mondo della comunicazione televisiva, promuovere l’arte e la cultura, sensibilizzare a distanza, l’adozione di bambini del terzo mondo.
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La cerimonia si è svolta il 30 gennaio al Teatro San Babila in Milano : 11 i premiati, tra questi ricordiamo quello assegnato al bravo attore comico Enrico Beruschi. A Peter Dvorský è stato riservata una festa particolare, con la proiezione in Dvd di un filmato girato nel 1979 del brano musicale dalla Bohème di Puccini “Che gelida manina” e una intervista effettuata da Paky Arcella con intervento Peter Dvorský con la baronessa della Baronessa Soares, Soares dove Dvorský, ha ricordato il suo debutto avvenuto al Teatro alla Scala, proprio con “La Bohème”, il 13 aprile 1979. R. Bellotti A JOSÈ CARRERAS IL PREMIO “GIUSEPPE DI STEFANO”A FILETTO DI VILLAFRANCA IN LUNIGIANA La consegna della prima edizione del premio che porta il nome del celeberrimo tenore, si è svolta con grande partecipazione di pubblico entusiasta, a Filetto di Villafranca in Lunigiana, in piazza del Pozzo, un suggestivo Borgo del ’300, il 24 luglio, giorno del suo compleanno. Il premio è stato ideato da Roberto Bellotti, nostro collaboratore, in ricordo dell’amico Giuseppe Di Stefano, Bellotti ha consegnato il premio a Josè Carreras, coadiuvato dal sindaco di Filetto, dott. Pietro Cerutti, che ha a sua volta insignito il tenore della Cittadinanza Onoraria di Villafranca. La serata presentata da Daniele Rubboli, era iniziata con la proiezione di un documentario sul percorso artistico di Di Stefano, fino al suo debutto al Teatro alla Scala nel 1947 e al Metropolitan di New York nel ’48, proseguendo con un Concerto di canto tenuto brillantemente da due voci emergenti, il tenore Mattias Stier e Gladys Rossi. È stata infine la volta di Carreras, che ha deliziato il pubblico con arie del suo repertorio spagnolo ed alcuni brani napoletani tra i più amati dal pubblico, finendo la serata in bellezza accanto ai due giovani colleghi, in un richiesto bis a tre voci di J. Carreras e R. Bellotti “torna a Surriento”.
Recensioni
DISCOGRAFIA
G. Mion
CÉPHALE ET PROCRIS Ballet héroïque di J.F. Marmontel musica A.E.M. Grétry P.Y. Pruvot, K. Vallétaz, B. Tauran Les Agrémentes, Coro da Camera di Namur, dir. Guy Van Waas Ricercar RIC 302 (2 CD) Contemporaneo di Gossec e Dalayrac, André-Ernest-Modest Grétry condivise con essi l’epoca di transizione dalla monarchia alla Rivoluzione, e da questa all’era napoleonica. E’ un musicista assai meritevole di approfondimento e di rivalutazione; ed un caso voluto ci trova a commentare due recenti registrazioni che ampliano il non grande catalogo di lavori suoi attualmente disponibile in disco. Grétry coltivò praticamente tutti i generi musicali; attivissimo soprattutto nel campo dell’opera comica, scrisse molta musica da camera e sacra nonché, assecondando una moda tipica della Francia pre-rivoluzionaria, quella destinata ai fastosi balletti (in realtà, quasi sempre degli opéra-ballet) richiesti dalla corte francese. Céphale et Procris è un ballet hëroïque - in pratica, fusione di opera e danza tipica della Francia di Luigi XV e Luigi XVI - su libretto in tre atti di J.F. Marmontel. Apparso al teatro di corte a Versailles nel dicembre 1773, venne riproposto a Parigi, all’Académié Royal nel maggio 1775: venne criticato il libretto, ma vivamente apprezzata la musica. Èqui presentato dalla francese Ricercar fissando le esecuzioni in forma di concerto tenutesi alla Salle Philharmonique di Liegi del novembre 2010. Il direttore belga
Guy Van Waas e Les Agrémentes, duttile formazione specializzata nel repertorio francese del Sei-Settecento da lui fondata, firmano un’eccellente esecuzione sin dalla splendida, solare ouverture; e procedono con grande freschezza ed eleganza nelle danze che costellano la partitura. Perfetto poi l’affiatamento con una compagnia di canto pressoché ideale: il baritono Pierre-Yves Pruvot, abituale collaboratore del complesso, è Céphale; i soprano Katia Vallétaz (Procris), Bénedicte Tauran (Aurore), Isabelle Cals (Palès, la Jalousie), Caroline Weynants (Amour), il mezzosoprano Aurélie Franck (Flore) completano la locandina. Ineccepibili gli interventi del duttile Coro da Camera di Namur.
che gli fece rappresentare ben otto melodrammi, metà rifacimenti e metà nuovi di zecca. Primo d’essi il Teuzzone creato al Teatro Arciducale il giorno di S. Stefano del 1718, utilizzando uno di quei libretti di Apostolo Zeno che furono base ideale per molte escursioni vivaldiane. Qui l’ambientazione è una improbabile Cina, assomigliante in realtà più ad una corte bizantina dove trame e intrighi si sprecano, seguendo schemi comuni a mille altri testi dell’epoca. Savall concerta in maniera ineccepibile, e con felice senso narrativo, il luminoso ensamble Le Concert risponde da par suo. Cast sopraffino, impegnato in arie sovente straordinarie: il sopranista Paolo Lopez è un eccellente Teuzzone, il contralto Delphine Galou l’amata Zelinda, il mezzosoprano Raffaella Milanesi l’usurpatrice Zidiana, il soprano Roberta Mameli il ministro Cino, il baritono Furio Zanasi il generale Sivenio, il controtenore Antonio Giovannini Egaro, il tenore Makoto Sakaruda Troncone ed Argonte.
G. Mattietti
TEUZZONE Dramma in tre atti di A. Zeno, musica di A.Vivaldi P. Lopez, R. Milanesi, G. Galou, R. Mameli - Le Concert des Nations, dir. J. Savall - Naïve OP 30513 (3 CD) Prosegue con questa nuova uscita la diffusione da parte della francese Naïve, nell’ambito dell’ambiziosa Vivaldi Edition - progetto che esplora i cospicui fondi vivaldiani della Biblioteca Nazionale di Torino - del catalogo operistico del compositore veneziano, che giunge qui al suo 14° capitolo. Sede della registrazione il Teatro di Versailles, protagonisti Jordi Savall e l’eccellente compagine Le Concert des Nations; oltre naturalmente ad un manipolo di vocalisti fidati, scelti tra i più esperti della vocalità barocca. A Mantova negli anni 1718-1720 il Prete Rosso trovò un ricetto ideale, e nel governatore Filippo di Hesse-Darmstadt un mecenate disponibile e generoso,
L’AFFARE MAKROPOULOS Leóš Janá Festival di Salisburgo 2011 Direttore: Esa-Pekka Salonen Regia: Christoph Marthaler Interpreti: Angela Denoke, Raymond Very, Peter Hoare, Jurgita Adamonyté, Johan Reuter; Wiener Philharmoniker Blu-ray C-major 709 604 Opera piena di mistero, dominata dal-
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la figura della protagonista, Emilia Marty, cantante d’opera che ha vissuto più di 300 anni, con identità diverse, grazie ad una pozione inventata dal padre alchimista. Una donna attraente e famosa, che nella sua lunga vita ha abbandonato innumerevoli figli, mariti e amanti. Ma ormai impermeabile a qualsiasi emozione. Tratta dall’omonima commedia di Karel Čapek, quest’opera, vero e proprio dramma della longevità, andò in scena nel 1926, due anni prima della morte del compositore. Ed è, tra le opere di Janáček, quella col lessico musicale più duro e dissonante, all’interno di una trama tematica mutevole, di una scrittura orchestrale caleidoscopica. Da questa scrittura Esa-Pekka Salonen (sul podio dei Wiener Philharmoniker al Festival di Salisburgo) estrae una grande carica di suspense, di straniamento, che si scioglie solo nel finale dove Janáček sembra gettare uno sguardo compassionevole su tutta la vicenda. La parte orchestrale si muove autonomamente rispetto a quella vocale, poco lirica, rispetto ad esempio a Jenůfa, e caratterizzata da un grande declamato, fluido e sciolto, con le arie trasformate in monologhi, e i duetti in dialoghi serratissimi, che fanno sembrare l’opera una conversazione ininterrotta. Angela Denoke si dimostra una grande attrice, capace di cogliere tutte le sfaccettature della protagonista, personaggio misterioso all’inizio, fragile alla fine. Molto ben caratterizzato è anche Albert Gregor, succube della Marty, interpretato dal tenore Raymond Very, che affronta con sicurezza una parte insidiosa, dalle frequenti escursioni nei registri più acuti. Meno provocatoria del solito, la regia di Christoph Marthaler, crea una dimensione kafkiana, in uno spazio scenico elegante, retro, un ampio interno anni Venti, disegnato da Anna Viebrock. Ma non rinuncia a qualche invenzione, anche a qualche assurdità, che non stona in quest’opera: ad esempio il dialogo iniziale tra due donne chiuse in un box di vetro, che, fumando, discutono sul tema della vita eterna (è un dialogo muto che si comprende solo attraverso i sottotitoli); donne delle pulizie in costante attività; i tremiti e i tic che colpiscono tutti gli uomini che ruotano intorno a Emila, in particolare l’avvocato Kolenatý, (interpretato con grande personalità da
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Jochen Schmeckenbecher) vittima dicrisi epilettiche; Emilia e il barone Jaroslav Prus, che emergono seminudi non nella stanza d’albergo di lei, ma dai banchi di un’aula di tribunale.
LA FORZA DEL DESTINO Giuseppe Verdi Wiener Staatsoper 2008 direttore: Zubin Mehta regia: David Pountney interpreti: Carlos Álvarez, Nina Stemme, Salvatore Licitra, Alastair Miles, Nadia Krasteva, Tiziano Bracci. Blu-ray C-major 708204 Esempio di originalità e sapienza teatrale, la regia di David Pountney, in questa Forza del destino registrata a Vienna quattro anni fa, colpisce innanzitutto per la gestualità dei personaggi, che si muovono sempre per qualche ragione, non restano mai immobili, e imprimono così, già solo per questo, un grande ritmo a tutto lo spettacolo. Gesti messi in risalto anche dalla scenografia spoglia, con una pedana bianca, obliqua al centro, sulla quale si svolgono le scene principali. Opera dunque assai movimentata, a partire dal cartone animato che accompagna l’ouverture, poi con le coreografie associate alle scene corali, con i video di guerra proiettati su una gigantesca macchina scenica nel terzo atto. Ci stanno anche alcune soluzioni un po’ estreme, dal gusto grottesco e macabro: il drappello di cowboys e cowgirls guidati da Preziosilla nella scena dell’osteria; l’identificazione (in chiave psicanalitica?) tra il marchese di Calatrava -ucciso accidentalmente, ma fonte di tutti i sensi di colpa di Leonora - e il Padre Guardiano, al
quale lei confida tutto il suo tormento (entrambe i personaggi egregiamente interpretati da Alastair Miles); la danza di infermiere invasate e sadomaso che brutalizzano i soldati feriti, con flebo e stampelle; l’inquietante «Rataplan» intonato da Preziosilla in mezzo a una massa di disperati, sotto una giostra di impiccati, tra sibili di bombe; le montagne di cadaveri nel quarto atto. Purtroppo a subire amputazioni non sono solo i soldati, ma anche la partitura, sforbiciata senza pietà. Zubin Mehta, sul podio, coglie bene il ritmo incalzante, meno il carattere intimistico dell’opera. Tra i solisti spicca la Leonora di Nina Stemme, grande presenza scenica, voce voluminosa e sempre appoggiata, registro acuto luminosissimo, bel fraseggio, magnifico legato, e grande varietà di sfumature espressive. Non da meno, per tecnica vocale e stile, è il Don Carlo di Carlos Álvarez, mentre compianto Salvatore Licitra (Don Alvaro) mostra bel timbro ma una intonazione precaria e Nadia Krasteva (Preziosilla) ha un’emissione diseguale, con brutti suoni di petto nel registro grave. Inascoltabile poi il Fra Melitone di Tiziano Bracci.
MEDEA IN CORINTO Giovanni Simone Mayr Bayerische Staatsoper 2010 direttore: Ivor Bolton regia: Hans Neuenfels Interpreti: Nadja Michael, Ramón Vargas, Alastair Miles, Alek Shrader, Elena Tsallagova. Blu-ray Arthaus 108 030 La musica di Johann Simon Mayr costituisce un esempio quasi unico, nell’Ottocento, di sintesi di due differenti scuole musicali, quella tede-
sca e quella italiana. Nato e formatosi musicalmente in Baviera, fu incoraggiato da Piccini a dedicarsi all’opera. A ventisei anni si trasferì a Bergamo, dove abitò per il resto della sua vita, dedicandosi anche all’insegnamento (suo allievo prediletto fu Gaetano Donizetti). Fece il suo debutto operistico con Saffo nel 1794, poi scrisse altre 60 opere, messe in scena nei principali teatri italiani, a Napoli, Roma, Milano e Venezia, ottenendo una fama tanto grande che alle sue esequie, nel 1845, fu Giuseppe Verdi a pronunciare l’orazione funebre. È stata dunque un’apprezzata riscoperta questa Medea in Corinto (1813), che è anche la sua opera più famosa. La riscoperta di una musica di grande forza drammatica (che da un lato raccoglieva l’eredità di Cimarosa e Paisiello, dall’altro preparava il terreno a Rossini e Donizetti), dove l’invenzione melodica appare strettamente legata alla tradizione del belcanto italiano, ma si fonde con strutture formali tipiche del classicismo viennese e con un’orchestrazione piuttosto elaborata (che deve molto a Gluck), messa in bella evidenza dalla nitida direzione di Ivor Bolton. Ha fatto molto discutere lo spettacolo firmato da Hans Neuenfels, allestito due anni fa a Monaco, e tipico esempio di “Regietheater”. Il regista tedesco, sempre al centro di polemiche, è stato capace di rendere interessante e moderna anche un’opera dimenticata come questa, con una regia tutta basata sul contrasto tra due civiltà: in una società moderna e snob, che vive in ambienti minimal, eleganti e freddi (scenografia di Anna Viebrock), Medea entra in scena come un’aliena, coperta d’amuleti (salvo poi restare per tutto il resto dell’opera in sottoveste nera): in quella società tutti vestono alla moda, in toni grigio perla, ma poi mostrano il loro lato più crudele e violento, il loro istinto di sopraffazione. Ma lo spettacolo non avrebbe funzionato così bene senza una protagonista come Nadja Michael (cantante molto amata in Germania, che ha tra i suoi cavalli di battaglia anche la Medea di Cherubini) capace di cogliere alla perfezione il carattere di una donna appassionata, fiera e indipendente, un’outsider in una società che la respinge. Un’interprete non impeccabile nell’emissione
(ma in una parte assai impegnativa, insidiosa, che richiede una grandissima estensione) eppure indimenticabile, per la finezza delle colorature, il bel fraseggio, le straordinarie doti di recitazione. Molto rigido accanto a lei appare il Giasone di Ramón Vargas, dotato di un bel timbro baritonale, ma forse un po’ fuori stile. Bravi anche Alastair Miles (Creonte), Elena Tsallagova (Creusa), e il tenore AlekShrader, un Egeo dall’emissione assai fluente.
RISE AND FALL OF THE CITY OF MAHAGONNY Kurt Weill Madrid, Teatro Real 2010 direttore: Pablo Heras-Casado regia: Alex Ollé, Carlus Padrissa (La Fura dels Baus) Interpreti: Jane Henschel, Donald Kaasch, Willard White, Measha Brueggergosman, Michel König, John Easterlin, Otto Katzameier, Steven Humes. Blu-ray BelAir BAC 467 Mordace satira contro il capitalismo, ed esito tra i più felici della collaborazione tra Brecht e Weill, Ascesa e caduta della città di Mahagonny, è nata nel 1930 ma sembra parlare del mondo di oggi. Mahagonny è una città fondata da tre malviventi in fuga (Begbick, Fatty e Trinity Moses), creata nel deserto, su una discarica di rifiuti, con l’intento di creare una trappola («Netzestadt»), un luogo illusorio, di sogno, dove regni la pace, la ricchezza e il divertimento, dove non si dovrà fare niente di più che godersi «carne di cavallo e di donna», giocare a poker, bere whisky e tirare di boxe. Il richiamo funziona: arrivano le ra-
gazze (tra le quali Jenny), i cercatori d’oro, i tagliaboschi (Jim, Jack, Bill e Joe) reduci da anni di duro lavoro in Alaska, e pieni di soldi. Si preannuncia anche l’arrivo di un uragano, che poi devia all’ultimo momento, e che non farà altro che spingere ancora di più la popolazione verso la totale anarchia, verso gli eccessi più sfrenati. Ma alla fine Jim soccomberà alla legge non scritta, e più forte di tutte: non ha soldi per pagare il conto del whisky e viene condannato a morte, mentre la città brucia e il coro canta «Non possiamo aiutare né noi, né voi, né nessuno». Per raccontare questa parabola surreale e grottesca della realtà, Weill ha creato una partitura sofisticata e straniante, mettendo in risalto fiati e percussioni, e mescolando una grande varietà di stili, dai songs alle forme operistiche, dal cabaret alla fuga, in un mix restituito in tutta la sua forza caustica dalla direzione del giovane, promettente Pablo Heras-Casado (vincitore del premio “El Ojo Crítico” nel 2010). In questo spettacolo, registrato al Teatro Real di Madrid nel settembre del 2010, e basato sulla versione inglese dell’opera (peccato, perché si perde l’effetto tagliente della lingua tedesca), la regia di Alex Ollé e Carlus Padrissa non ha nulla di ciò cui ci ha abituato la Fura dels Baus: quindi niente acrobati, proiezioni, tecnologia, macchine sceniche, ma un approccio molto brechtiano, che dà risalto alla sporcizia, alla discarica di rifiuti, ai quattro elementi del mondo di Mahagonny, che non sono fuoco, terra, aria e acqua, ma cibo, sesso, violenza e alcol. In questo mondo i ricchi taglialegna appaiono come broker in giacca e cravatta, ma pronti a ingozzarsi come maiali, e a copulare a ritmo di musica con un esercito di ragazze. Una lettura realistica, amara, con qualche tocco poetico, molto riuscita sul piano teatrale, grazie anche alla bravura teatrale di tutti gli interpreti. Sul piano vocale spiccano il sanguigno Michael König nei panni di Jim, il tenore Donald Kaasch, perfetto nel ruolo di Fatty, e John Easterlin che dà vita un Jack imbranato e isterico. Jane Henschel (Begbick) si dimostra una grande attrice, ma con un vibrato fuori controllo, Measha Brueggergosman (Jenny) si ammira per la figura imponente e sexy, al contrario della voce, esile e poco timbrata.
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I TEATRI LIRICI
Milano – TEATRO ALLA SCALA MANON V. Licari Nel centenario della morte dell’autore è stato presentato al Teatro alla Scala – in collaborazione con la Royal Opera House Covent Garden, la Metropolitan Opera di New York e il Théâtre du Capitole di Tolosa - un nuovo allestimento dell’opera più nota di Jules Massenet, Manon, che vide la luce al Teatro dell’Opéra Comique di Parigi il 19 gennaio 1884. Ufficialmente, Manon appartiene appunto al genere dell’opéra-comique a causa della presenza di “mélodrame”, cioè di parti recitate sulla musica, e di “couplets”, ma è opinione comune fra i musicologi che vada invece più correttamente collocata nell’ambito dell’opéra-lyrique, molto in voga nella seconda metà dell’Ottocento, in cui le passioni vengono filtrate attraverso la visione moralistica dell’epoca, con qualche concessione, sul piano coreografico, al grand-opéra. Rispetto al romanzo di Prévost che è ambientato nel Settecento, epoca priva di remore morali da cui la Francia borghese del secolo successivo si sentiva morbosamente attratta, ma al quale, nel contempo, guardava con moralistico disgusto, il libretto di Henri Meilhac e Philippe Gille si mantiene piuttosto fedele, discostandosi sostan-
Manon
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zialmente solo nel finale, che vede Manon morire non in Louisiana, bensì a Le Havre, prima della deportazione; la differenza principale, però, sta nel modo in cui il personaggio di Des Grieux viene “riscattato” dalla sua condotta amorale, mentre per contro Manon viene descritta come una creatura intimamente e naturalmente corrotta. La regia di Laurent Pelly, con le ampie scene di Chantal Thomas, trasportando l’azione dal diciottesimo secolo ai tempi in cui l’opera venne scritta, cioè lo scorcio del diciannovesimo secolo in cui stava per iniziare la Belle Époque, ha particolarmente sottolineato la prospettiva maschile del tempo, che vedeva in personaggi come, appunto, Manon o la di poco precedente Carmen, degli elementi pericolosi per una società che si fondava sulla bigotta morale borghese, trasformandole quindi da “donne libere” in “donne diaboliche”. Questo punto di vista era evidenziato anche dai costumi, ideati dal regista stesso e ispirati a fotografie e disegni dell’epoca di Massenet: un severissimo bianco e nero per gli uomini, ostentanti il loro predominio, linee sfarzose e colori vivaci per le donne, simboli di frivolezza e perversione. Bravissima la protagonista, Ermonela Jaho, affiancata dall’ottimo Des Grieux di Matthew Polenzani e da una schiera di eccellenti cantanti-attori: Si-
mona Mihai (Poussette), Louise Innes (Javotte), Brenda Patterson (Rosette), Russel Braun (Lescaut), Jean-Philippe Lafont (il conte des Grieux), Christophe Mortagne (Morfontaine), William Shimell (Brétigny). Di altissimo livello la concertazione di Fabio Luisi.
LUISA MILLER Luisa Miller (Napoli, 8 dicembre 1849), su libretto di Salvatore Cammarano ispirato al dramma Kabale und Liebe (1784)di Friedrich von Schiller, è andata in scena al Teatro alla Scala in un allestimento non particolarmente memorabile. Il regista Mario Martone, con la collaborazione dello scenografo Sergio Tramonti, ha collocato l’intera vicenda in un bosco, simbolo del mondo semplice e puro da cui viene la protagonista, in cui però curiosamente troneggia un grande letto, emblema del sesso, uno dei principali motori del mondo, che sarà fra le cause della rovina della povera Luisa. Un déja vu che nulla di nuovo aggiunge alla storia della regia del teatro d’opera, così come non particolarmente originale è la mescolanza di antico e moderno dei costumi di Ursula Patzak. Di alto livello gli interpreti, cominciando dal direttore Gianandrea Noseda, per la cui prestazione si può davvero parlare di una concer-
Luisa Miller - E. Mosuc - D. Barcellona
tazione completa anche in senso drammaturgico perché, oltre a sostenere e a coadiuvare le intenzioni musicali e interpretative dei cantanti, è pervenuta a un’ottima intesa con la pur banale regia, riuscendo almeno in parte a darle un senso e rendendo possibili momenti di rara intensità emotiva, come nella perfetta fusione raggiunta con i begli effetti di luce ideati da Pasquale Mari per il quartetto del secondo atto. Elena Mosuc è stata una Luisa pressoché perfetta, di giusto peso vocale e belle ed espressive agilità. L’ottimo Piero Pretti, ha sostituito l’indisposto Marcelo Álvarez nel ruolo di Rodolfo. Molto bene Daniela Barcellona, una Federica di lusso, Vitalij Kowaliow (Walter) e Kwangchul Youn (Wurm). Nella parte di Miller, Leo Nucci ha riversato tutto quanto questo personaggio ha in comune con l’immediatamente successivo Rigoletto: a differenza del buffone ispirato a Victor Hugo, Miller è un uomo di grande nobiltà d’animo, coraggio e dignità, pur nella sua semplicità e mitezza, ma con Rigoletto condivide il tragico destino di perdere la propria figlia a causa di una situazione incontrollabile in cui il rapporto con il potere vede soccombere, come sempre, gli umili. Unica, amara soddisfazione rimane, per il buon vecchio Miller, il vedersi accomunato nella sventura di padre con il potente e arrogante Walter.
M. Alvarez E. Mosuc e V. Kovaljow
Peter Grimes
PETER GRIMES Prima opera di Benjamin Britten, su libretto di Montagu Slater ispirato al poema The Borough (Il borgo, 1809) di George Crabbe, e rappresentata al Sadler’s Wells Theatre di Londra il 7 giugno 1945, Peter Grimes ebbe la sua “prima” italiana – se si esclude una precedente esecuzione radiofonica del dicembre 1945 sotto la direzione di Fernando Previtali - al Teatro alla Scala l’11 marzo 1947, con il grande Giacinto Prandelli nel ruolo del titolo, Susanne Danco in quello di Ellen Orford e Tullio Serafin sul podio. Come allora si usava venne eseguita in versione italiana, per l’occa-
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sione approntata nientemeno che da Massimo Mila. Riproposta in lingua originale nel 1976 con uno straordinario, intensissimo Jon Vickers come protagonista e Sir Colin Davis sul podio alla guida dei complessi del Covent Garden, è ritornata sul palcoscenico scaligero nel 2000 e ora, nuovamente, in una esecuzione che costituisce un esempio di come dovrebbe essere sempre realizzato uno spettacolo. L’allestimento di Richard Jones, ha trasportato l’azione dalla collocazione originaria, intorno all’anno 1830, agli anni cinquanta del ventesimo secolo, scelta del tutto plausibile in quanto l’infelicità e la bassezza morale sono sempre uguali in tutte le epoche; la presenza del mare, elemento vitale e insieme inquietante, quando non addirittura distruttore, è stata resa con grande efficacia dalle scene di Stewart Laing, autore anche dei costumi. Tutti perfetti, anche come attori, gli interpreti vocali: lo splendido protagonista John Graham-Hall, la bravissima Susan Gritton (Ellen), la veterana Felicity Palmer (Auntie), l’ottimo George von Bergen (Ned Keene), e tutti gli altri, compreso il coro, il cui ruolo è qui di primaria importanza. Del tutto convincente la prova del giovane direttore d’orchestra londinese Robin Ticciati, in una partitura complessa, dove il rapporto fra voci e strumenti si alterna a momenti di raffinato sinfonismo.
LES CONTES D’HOFFMANN Unica opera vera e propria di Jacques Offenbach, noto soprattutto come autore di operette, Les contes d’Hoffmann è frutto, per quanto riguarda il libretto, della rielaborazione che Jules Barbier e Michel Carré operarono basandosi su vari racconti del grande scrittore romantico Ernst Theodor Amadeus Hoffmann: ne trassero un drame-fantastique in 5 atti andato in scena al Théâtre National de l’Odéon di Parigi il 21 marzo 1851 e, successivamente, il libretto di questa opérafantastique in un prologo, tre atti e un epilogo che ebbe, vivente l’autore, una sola, parziale esecuzione con l’accompagnamento del pianoforte il 18 maggio 1879 in casa di Hoffenbach stesso, alla presenza di 300 invitati. La prima rappresentazione teatrale avvenne, postuma e completata da Ernest Guiraud, ma orbata di un atto, il 10 febbraio 1881 all’ Opéra-Comique di Parigi. Si tratta dunque di una partitura priva di una versione definitiva, un po’ come la Carmen di Bizet, alla quale la accomuna anche il nome di Guiraud, che per l’opera di Bizet scrisse i recitativi cantati. L’allestimento dell’Opéra di Parigi ripreso alla Scala era firmato da Robert Carsen, che si riconferma regista attento alla drammaturgia musicale e agli elementi essenziali del dramma. Le scene di Michael Levine, autore anche dei costumi, ripropongono la classica dimensione metateatrale che sta alla base di quest’opera. Rachele Gilmore, Veronica Simeoni e Genia Kühmeier hanno molto ben interpretato
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i tre ruoli di Olympia, Giulietta e Antonia. Vocalmente impeccabile e di rara eleganza interpretativa Daniela Sindram nel doppio ruolo di Niklausse e della Musa. Ramón Vargas è stato uno straordinario Hoffmann, ruolo vocalmente impervio, al cui interprete è richiesta grande musicalità ed eleganza scenica. Laurent Naouri è stato impeccabile nelle vesti dei quattro personaggi “diabolici”. Bella la direzione di Marko Letonja, ottima la prova dell’orchestra e del coro, preparato da Bruno Casoni.
DIE FRAU OHNE SCHATTEN Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), quarta delle sei opere di Richard Strauss che videro la sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal, sta alla mozartiana Zauberflöte come il precedente Rosenkavalier (1911) sta alle Nozze di Figaro. Varie sono le fonti su cui l’intreccio si basa: basti citare Le mille e una notte, il Faust di Goethe e le fiabe dei fratelli Grimm. Come nella Zauberflöte si contrappongono due coppie, quella “umana” costituita dal tintore Barak e da sua moglie e quella “divina” composta dall’Imperatore delle Isole Sudorientali e dalla sua sposa, figlia di Keikobad re degli spiriti, la quale, non riuscendo a divenire compiutamente umana, è priva di ombra, e perciò sterile. Analogamente al capolavoro mozartiano ci troviamo immersi dunque in un mondo fiabesco dove i personaggi vengono sottoposti a prove interiori di evidente significato iniziatico, ma il tono generale è affatto diverso, mai lieve, anzi, sempre permeato dei sentimenti umani più negativi: angoscia, paura, rabbia, frustrazione, che a un certo punto sembrano soffocare persino la pervicace positività di Barak, l’unica figura del dramma che guardi al futuro con l’ottimismo della volontà. Come osserva, nelle note sul programma di sala, la drammaturga Ronny Dietrich, che ha collaborato con il regista Claus Guth a questo nuovo allestimento scaligero coprodotto con Il Covent Garden di Londra, questo testo di Hofmannsthal risente, come altri suoi precedenti scritti, dell’influenza di Siegmund Freud e, in particolare, della sua Interpretazione dei sogni, ma anche delle ricerche di Carl Gustav Jung sui simboli e gli archetipi. Interessante è, a questo proposito, un passo di una lettera di Hofmannsthal a Strauss, datata 15 maggio 1911: “Il rapporto tra i personaggi deve configurarsi in tutta tranquillità sotto la soglia della coscienza, e giungere alla vita, naturalmente, attraverso svariati eventi di spontaneo simbolismo; il profondo deve arrivare alla superficie”. Guth legge la vicenda come un sogno della protagonista, in ciò riferendosi alle parole di una altro grande drammaturgo, August Strindberg – che sarebbe morto di lì a poco, ma che aveva prima prefigurato e poi assimilato nella sua opera le atmosfere della psicoanalisi – il quale, a proposito del suo Sogno, scritto nel 1902, scriveva:
“I personaggi si scindono, si raddoppiano, si moltiplicano, si dissolvono, si condensano, si disperdono e convergono, ma una sola coscienza regna su di essi, quella del sognatore. Per lui non ci sono segreti, né illogicità, né scrupoli, né leggi. Egli non assolve né condanna, si limita a stabilire comunicazioni; e poiché i sogni sono molto spesso più dolorosi che felici, una corrente di malinconia, e di compassione per tutti gli esseri viventi, percorre la storia”. I meccanismi che stanno alla base della Frau ohne schatten sono indubbiamente gli stessi e sono stati posti in chiara evidenza dal regista, che ha evidenziato come si conviene, ma come non sempre è dato vedere, il ruolo protagonistico dell’Imperatrice, una formidabile Emily Magee, la cui splendida recitazione “continua”, anche quando non era localmente coinvolta, la rende senz’altro degna del plauso più sentito. Nella parte della nutrice, impegnata prima a controllarla in nome dell’autorità paterna e poi ad assecondarla nel suo onirico percorso di cambiamento, Michaela Schuster, altra splendida cantante-attrice. Fra gli interpreti maschili ha giganteggiato Falk Struckmann (Barak), insieme al quale vanno citati Elena Pankratova (la tintora) e Iohan Botha (l’Imperatore), ma non vi è stato alcuno dei numerosi interpreti che fosse al di sotto dell’eccellenza. Christian Schmidt si è ispirato, per i costumi, al surrealismo di Max Ernst e, in particolare, alla sua celebre raccolta di illustrazioni che va sotto il titolo di Une semaine de bonté. Gli elementi scenici si susseguivano all’interno di un contenitore che rappresentava il percorso interiore della protagonista delimitato, all’inizio e alla fine dell’opera, dalla camera di un ospedale psichiatrico nel cui letto ella giaceva. Magnifica la direzione di Marc Albrecht, la cui interpretazione – alla guida degli ottimi complessi scaligeri – è stata pienamente coerente con le intenzioni drammaturgiche della regia.
CONCERTI DI MARIELLA DEVIA ED EDITHA GRUBEROVA Poche settimane sono intercorse fra i due attesissimi appuntamenti con due signore del canto di coloratura – seppur diversamente declinato – la cui contiguità offre lo spunto per alcuni interessanti confronti. Mariella Devia ha presentato, accompagnata dalla pianista Enrica Ciccarelli, un programma variegato e – almeno all’apparenza – singolare, non fosse altro che per quell’inatteso balzo all’indietro – cronologicamente parlando – costituito dalla “scena drammatica” Vedi quanto t’adoro D 510, su versi tratti da Didone abbandonata di Pietro Metastasio, che può essere considerato quasi un “saggio finale” di Franz Schubert quale allievo del vecchio Antonio Salieri. In realtà, tale scelta è risultata programmatica a pieno titolo se si considerano i bis che la cantante ha concesso - Casta diva e Al dolce guidami – brani operisti-
ci, è vero, ma declinati con un tono talmente intimo anche nell’effusione belcantistica, da diventare quasi cameristici, nel solco “italiano” che anche il giovane Schubert aveva percorso. In bilico fra teatro e salotto erano le sei Mazurke per soprano e pianoforte – tratte da una raccolta di dodici – che la famosa cantante Pauline Viardot Garcia (1821 – 1910), più longeva sorella della celebre Maria Malibran, adattò da altrettante composizioni di Fryderyk Chopin. Pauline fu musicista a tutto tondo: allieva di Liszt, che aveva per lei predetto un futuro da virtuosa del pianoforte, fu compositrice – oltre che celebrata cantante – e scrisse persino un’opera, Le dernier sorcier, che spicca all’interno di una vasta produzione cameristica . Grande amica e sodale artistica di Chopin, si esibì con lui in uno dei più importanti concerti parigini del compositore polacco, il 21 febbraio 1842, e partecipò all’esecuzione del Requiem di Mozart che accompagnò le sue esequie nella chiesa della Madeleine. Fra il 1864 e il 1865 videro la luce le due raccolte delle Mazourkes de Frèdéric Chopin, arrangées pour la voix par Mme Pauline Viardot, su versi del poeta, baritono Louis Pomey, da cui erano appunto tratte quelle in programma. A queste rarità la Devia ha accostato il Franz Liszt vocale dei Tre sonetti del Petrarca e della lirica Oh! Quand je dors su testo di Victor Hugo, in cui la melodia romantica cede il passo alla declamazione arcaicizzante – nei Sonetti, in particolare – quasi recuperando una sorta di “recitar cantando”, modalità stilistica che si ritrova nella Ballade de la reine morte d’aimer e delle Cinq mélodies populaires grecques di Maurice Ravel. Scelte di repertorio, dunque, che dimostrano come Mariella Devia stia percorrendo una strada interpretativa contrassegnata da una costante ricerca di nuovi orizzonti in cui la tecnica – ancorché tuttora impeccabile – si fa sempre più veicolo dell’interiorità musicale e umana. Le intenzioni interpretative di Editha Gruberova appaiono invece pressoché
Editha Gruberova
immutate nel tempo: a prevalere è sempre il concetto di voce come perfetto strumento musicale, anche se, naturalmente, la grande vocalista non trascura l’approfondimento interpretativo, attraverso rare raffinatezze come, solo per fare un esempio, il lungo diminuendo sull’acuto sospeso sulle parole “sein Kuss” nella schubertiana Gretchen am Spinnrade. In questa direzione andava l’esecuzione degli altri brani di Schubert in programma: i due Lieder di Suleika, il Lied der Delphine e i sei brani su testo italiano fra cui la Didone già ascoltata nel concerto della Devia. Ma la predominante natura di brillante virtuosa della Gruberova tornava a emergere in pagine di Hugo Wolf quali Der Gärtner, Mausfallensprüchlein ed Elfenlied, che il grande pubblico ha mostrato di preferire senz’altro al più intimo Gesang Weylas o ai tre Lieder di Richard Strauss su testi di Brentano. Quando poi, sulla spinta delle ovazioni degli ammiratori, decide di concludere la serie dei bis con “Ombre legère” e “O luce di quest’anima”, pur ammirandone il grande magistero tecnico e la mirabile longevità virtuosistico-vocale, si resta quasi un po’ delusi per quella “resistenza” al rinnovamento interpretativo che, qualora venisse finalmente superata, la renderebbe davvero grandissima. Ma forse ciò non è nella sua natura, e non possiamo pretenderlo. In piena sintonia con lei, e Impeccabile alla tastiera, il pianista Alexander Schmalcz.
MiTo. CONCERTO DELLA ENGLISH CHAMBER ORCHESTRA
Mariella. Devia
Quella che doveva essere una serata di festa per gli ottantacinque anni di Sir Colin Davis ha avuto luogo in assenza del grande direttore inglese, che si è sentito male proprio poche ore prima del concerto, durante le prove pomeridiane. Il testimone è stato raccolto da Andrew Averon, primo violino della English Chamber Orchestra, il quale ha guidato la celebre compagine seduto al proprio leggio, primus inter pares, dando modo al pubblico di apprezzare la grande leva-
tura dei singoli musicisti oltre alla straordinaria fusione che essi sanno raggiungere anche in momenti decisamente perigliosi come alcuni passaggi della Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90 Italiana di Felix MendelssohnBartholdy, in programma insieme alla Ouverture Le Ebridi op. 26, dello stesso autore, e alla Sinfonia n. 8 in si minore Incompiuta di Franz Schubert. Certamente si è avvertita l’assenza di una guida sul podio, giacché si è trattato senz’altro di una splendida esecuzione, ma non si può parlare di una “interpretazione” nel vero senso della parola: tuttavia la scelta è stata giusta e doverosa e il pubblico ha mostrato di averla pienamente apprezzata, creando un clima di grande sintonia con gli strumentisti, i quali hanno ringraziato offrendo come bis una trascinante esecuzione della ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart, accompagnata dagli auguri formulati da Andrew Averon all’illustre assente. AUDITORIUM - ORCHESTRA “G VERDI”.
ANDREA CHÉNIER Andrea Chénier di Umberto Giordano è stato presentato in forma di concerto a conclusione della stagione 2011/2012 dell’Orchestra Verdi di Milano. Ottimo il livello complessivo dell’esecuzione, diretta con un mix di rigore e passione da Jader Bignamini. Fra gli interpreti vocali il migliore è stato Alberto Gazale, la cui voce, bella e piena in tutta la gamma, e il cui accento nobile e appassionato sono risultati perfetti per delineare il personaggio di Carlo Gérard, uno dei più bei ruoli che siano mai stati scritti per la chiave di baritono. Maddalena di Coigny, era la statunitense Natalie Bergeron, al debutto nel ruolo, recente vincitrice del concorso per la sezione wagneriana della Liederkranz Foundation di New York: voce da vero soprano drammatico, morbida e duttile, per la quale è facile prevedere un grande avvenire. Qualche riserva, invece, proprio sulla prestazione del protagonista, il tenore Marcello Giordani, interprete noto per l’equilibrio del suo stile interpretativo e del suo modo sempre elegante di gestire la voce anche nei momenti di maggiore coinvolgimento emotivo; questa volta, invece, Giordani si è lasciato prendere la mano da alcuni “effettacci” che non solo non rientrano nel gusto del pubblico contemporaneo, ma che sono, soprattutto, molto dannosi per l’organo vocale. Non vanno dimenticati, accando ai tre principali, gli altri personaggi, che sono molti, tutti importanti e, in questo caso, tutti molto bene interpretati: Lara Rotili (la Contessa di Coigny), Valeria Sepe (Bersi), Giovanni Guagliardo (Mathieu), Mattia Denti (Roucher/Fouquier Tinville/il maestro di casa), Francesco Pittari (un incredibile/l’abate), Gianluca Tumino (Pietro Fléville), Emanuele Cordaro (Schmidt/Dumas). Una particolare menzione va a Clara Calanna, intensissima Madelon. Bravi orchestra e coro.
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TEATRO ALLA SCALA
“MARGUERITE AND ARMAND” “CONCERT DSCH” – Balletto G. Franchini “Marguerite and Armand” è un breve balletto, molto conciso, che grazie alla penna coreografica sintetica di Frederick Ashton ci illustra in poco più di mezz’ora la storia della “signora dalle camelie” ricavata dal romanzo di Dumas. Questa perla coreografica fu concepita nel 1963 per Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev che la danzarono al Covent Garden di Londra e successivamente anche alla Scala nel 1966 e nel 1970. L’odierna produzione venne invece inserita in un Galà di stelle della danza all’indomani della riapertura della sala del Piermarini dopo i restauri (2004) con la coppia Silvie Guillem- Massimo Murru e la presenza di Anthony Dowell nelle vesti del padre. Ora è toccato alla coppia formata da Svetlana Zakharova-Roberto Bolle, ai quali farà seguito nuovamente Massimo Murru, danzare sulla musica delicatissima di Franz Liszt nella luminosa cornice scenica di Cecil Beaton. Indubbiamente successo scontato anche se noi vogliamo soffermarci e porre in evidenza la pulizia esecutiva e le doti artistiche e interpretative di Gabriele Corrado in coppia con Marta Romagna, due danzatori di classe che vorremmo vedere maggiormente impegnati. Discorso vale anche per altri primi ballerini scaligeri ai quali toccano solo ruoli secondari o ultime recite. In abbinamento il brevissimo “Concerto DSCH” su musica di Dmitrij Sostakovic (D.SCH. non è altro che l’abbreviazione del nome e cognome del compositore), una coreografia ad opera di Alexei Ratmansky nata nel 2008 per il New York City Ballet sulla partitura del Concerto n.2 in Fa maggiore. Anche in questa modernissima, scattante e astratta coreografia troviamo Gabriele Corrado in perfetta simbiosi con Francesca Podini. Un elogio comunque all’intero corpo di ballo scaligero che dimostra perfezione, coraggio e una particolare e singolare duttilità.
DON PASQUALE V. Licari Il Progetto Accademia del Teatro alla Scala si è avvalso quest’anno della collaborazione con il Teatro Comunale di Firenze per allestire Don Pasquale di Gaetano Donizetti, “dramma buffo” in tre atti su libretto del compositore stesso e di Giovanni Ruffini il quale però, irritato per i troppi interventi del musicista, rifiutò di firmarlo. Rappresentata per la prima volta nel 1843 al Théâtre des Italiens di Parigi, quest’opera forma, con Lucia di Lammermoor e L’elisir d’amore, la triade rimasta in repertorio fino agli anni ’60 del ventesimo secolo, quando la restante,
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Marta Romagna-Gabriele Corrado (ph Teatro alla Scala - Brescia e Amisano ©)
vastissima produzione donizettiana cominciò a essere rivalutata nel suo complesso. Il regista Jonathan Miller ha inserito la narrazione in un unico spazio scenico, creato da Isabella Bywater, rappresentante l’interno di una casa a tre piani in cui i diversi personaggi vivono sia le loro esistenze individuali sia la loro vicenda collettiva: una soluzione visiva esteticamente gradevole, ma che non giova all’economia drammaturgica della rappresentazione. I giovani interpreti, provenienti dall’Accademia scaligera, attorniavano un protagonista “maggiore”, lo straordinario Michele Pertusi, uno degli artisti più eclettici oggi in attività. La sua padronanza della tecnica vocale e la grande intelligenza interpretativa gli consentono di affrontare ruoli diversissimi, ma in cui appare ogni volta perfettamente a proprio agio e, soprattutto, del tutto convincente: in poco più di un anno, solo per citare le sue apparizioni a Milano, lo si è potuto ammirare, sempre con risultati di altissimo livello, in Attila, Italiana in Algeri e, appunto, Don Pasquale, mentre al Festival Verdi di Parma è stato Sparafucile in Rigoletto, e ha partecipato al Concerto Verdiano per il 199° anniversario della nascita del grande compositore. Impossibile dimenticare, inoltre, le sue frequenti incursioni in repertori non consueti per un cantante italiano come, volendo citare un titolo su tutti, La damnation de Faust di Berlioz. Fra i giovani della Scala Christian Senn (Malatesta) e Shalva Mukeria (Ernesto), si possono ormai considerare dei veterani, avendo già calcato diversi palcoscenici internazionali: entrambi hanno dato il massimo nei rispettivi ruoli. Di più recente “conio” La bravissima Pretty Yende (Norina), che era stata una indovinatissima Elvira proprio nell’ Italiana del-
lo scorso anno a fianco appunto di Pertusi. L’orchestra e il coro – quest’ultimo preparato da Alfonso Caiani – dei giovani dell’Accademia sono stati diretti con perizia da Enrique Mazzola.
Torino – TEATRO REGIO L’OLANDESE VOLANTE SECUNDUM NOSEDA SEDUCE IL REGIO DI TORINO IN APERTURA DI STAGIONE A. Piovano Inaugurazione di stagione al Teatro Regio di Torino, venerdì 12 ottobre, con un «Olandese Volante» di gran classe: allestimento dell’Opéra national de Paris
M.S. Doss
con la regia di Stefan Heinrichs dall’originale di Willy Decker senza intervalli, come a Bayreuth e la direzione di Gianandrea Noseda che ha potuto contare su un’orchestra in ottima forma e su cast di eccezionale qualità. L’Olandese è una partitura di indicibile bellezza, c’è tutto il Wagner futuro in quest’opera sublime: Noseda ha ben colto già dall’Ouverture fitta di dissonanze e insistiti richiami di ottoni, il senso della natura, la presenza immanente del mare, col suo fascino arcano, contrapposto all’universo borghese. E allora, dopo l’inizio nel segno del mistero, quel senso di ambiente Biedermeier, borghese e tranquillo, quando per la prima volta Dalan e l’Olandese accennano al matrimonio, e la partitura si fa cordiale, ma si avvertono anche i tratti di inquietudine nella personalità di Senta, turbata e percorsa da brividi. Noseda coglie bene tutto ciò nella sua affascinante lettura dell’opera. Le voci: ottima quella del baritono Mark S. Doss (l’Olandese) personaggio che ha saputo umanizzare; pur mantenendogli quel che di tragico che lo connota, Mark Doss ne ha rilevato anche i tratti sensibili di uomo che vorrebbe risparmiare Senta. Voce sicura e gran presenza. Apprezzato poi anche il Dalan a tutto tondo del basso Steven Humes, dalle belle sfumature psicologiche e un timbro appena velato nel registro medio. Molto applaudito il soprano Adrianne Pieczonka nel ruolo di Senta (sia per le doti vocali sia sul piano scenico): ha saputo renderne l’inquietudine che la attanaglia. Qualche asprezza appena nel registro sovracuto. Convincente il cacciatore Erik del tenore Stephen Gould, sfortunato fidanzato: palpabile lo scoramento negli accenti vocali, qualche goffaggine sulla scena. A completamento del cast il timoniere Vicente Ombuena (tenore) e la nutrice Mary (Claudia Nicole Bandera non sempre ben udibile). Stupenda a davvero determinante per il successo dello spettacolo, la prova del coro Coro del Regio istruito da Claudio Fenoglio, al quale si è aggiunto il Coro Maghini preparato da Claudio Chiavazza. Da ultimo la regia del binomio DeckerHeinrichs e le scene di Wolfgang Gussmann illuminate dalle valide luci di Hans Tölstede (riprese da Wolfgang Schünemann), ad assecondare passo passo la drammaturgia, per lo più livide e taglienti, ad accrescere il senso della tensione già in apertura. Scena in realtà unica, funzionale alla vicenda (da qui la scelta di non fare intervalli), molto elegante, sghemba, con una gigantesca porta bianca sulla destra a rendere il senso del destino che sovrasta gli umani e a far da tramite tra il mondo esterno, con squarci sul mare (si intravedono le vele rosso sangue del veliero) e l’interno, dominato da un quadro ad evocare ancora il mare (ma il celebre ritratto è nella mani di Senta che se lo porta appresso come un amuleto). I marinai trascinano coreograficamente, e con grande impatto emotivo, gomene fin nella parte centrale del palcoscenico,
davvero d’effetto. Una regia intelligente, metaforica ed evocativa, capace di fra presa sulle corde dello spettatore intelligente; e dunque capace di giustificare la presenza dei marinai dormienti nello stesso spazio in cui poi si muovono Senta e le filatrici; in realtà più ricamatrici che filatrici, con un enorme lenzuolo e assenza di arcolai. Qualche legittima perplessità in chiusura: Senta, anziché immolarsi gettandosi nei flutti - come da copione wagneriano - ovvero come prescritto dal libretto - si uccide con quello stesso coltello conficcato dall’iracondo Erik su un tavolaccio: una più o meno piccola caduta di gusto entro una regia peraltro di qualità elevata. Di rilievo, poi, e di indubbia efficacia, i movimenti scenici dei marinai e delle ragazze che festeggiano, con simbolico parallelismo scandendo rumorosamente il ritmo coi piedi. Regia di notevole impatto, al di là delle filosofeggianti dichiarazioni di intenti dello stesso Decker che tende a vedere l’opera in chiave pseudo-psicanalitica: ma ciò che conta è il risultato visivo, e questo è di notevole levatura. Successo vivissimo e applausi protratti. Otto le recite distribuite su due compagnie. Il secondo cast prevede Thomas Hall (Olandese), Anne Petersen (Senta), Kor-Jan Dusseljee (Erik), Kurt Rydl (Dalan).
«UN BALLO IN MASCHERA» HA CHIUSO LA STAGIONE AL REGIO Si è chiusa la stagione 2011/12 al Regio di Torino con il verdiano «Ballo in maschera» andato in scena la sera del 19 giugno: rappresentazione poi seguita da nove recite sino al 1° luglio. Opera già matura, si sa, «Un ballo in maschera» è partitura piena di contrasti: vi predominano congiure, amori, gelosie e tradimenti,maledizioni, vaticini e un tragico epilogo; un crogiolo insomma
di situazioni drammaturgiche congeniali a Verdi. Opera dal colore cupo, nonostante pagine assai più leggere, opera importante e di innegabile bellezza per le novità musicali che Verdi vi profuse, per la raffinata tecnica orchestrale e lo spessore delle armonie. Al Regio è stato riproposto l’allestimento del 2004 realizzato in coproduzione con il Teatro del Maggio Musicale fiorentino e con il Teatro Massimo Bellini di Catania. L’orchestra ha fornito nel complesso una buona prova. Non ha convinto però la direzione di Renato Palumbo che, privilegiando il lato brillante, ha impresso ritmi fin troppo balzanti, ponendo in ombra quei trasalimenti e quei dettagli intimistici di notevole importanza e modernità: entro una partitura di soverchia bellezza, miniera di preziosità a fare pendant allo scandaglio psicologico dei personaggi. Palumbo, senza troppo cesellare, ha inoltre appiattito eccessivamente le dinamiche, facendo suonare l’orchestra quasi sempre troppo forte, in qualche caso con clangori davvero eccessivi e fin sguaiati. Col rischio di innescare inevitabili forzature alle voci per emergere sulla massa sonora. Alcuni sbandamenti ritmici la sera della ‘prima’ (rilevati in maniera incontrovertibile dalla diretta radiofonica) sono poi scomparsi nel corso delle repliche. Ed ora le voci. Al tenore Gregory Kunde il ruolo di Riccardo, conte di Warwick: non ha giganteggiato come ci si aspettava, nonostante la grande esperienza belcantistica. Una presenza di rilievo, vocalità appropriata al ruolo, fin troppa veemenza e innegabile capacità di trascolorare entro i vari atteggiamenti espressivi. Ha cantato con slancio «La rivedrò nell’estasi» suscitando applausi convinti, ma non ovazioni. Gli teneva testa validamente Gabriele Viviani nel ruolo del rivale Renato, sposo di Amelia, applaudito in «Alla vita che t’arride». Nel corso delle
Gregory Kunde (Riccardo) e Oksana Dyka (Amelia)
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repliche (secondo cast) a Kunde e Viviani si sono alternati Giancarlo Monsalve e Marco di Felice. Sul versante femminile davvero ottima è parsa la prova di Serena Gamberoni nel ruolo ‘mozartiano’ del paggio Oscar, che comporta una parte come suol dirsi en travesti. Gamberoni ha rivelato infatti presenza scenica, vocalità frizzante, dizione chiara, verve, precisione ritmica infallibile e molta agilità (e non solo vocale), insomma tutto quanto occorre per additarla in assoluto a elemento migliore dell’intero cast, per questo l’abbiamo citata per prima (nelle repliche Barbara Bargnesi). Il giovane soprano ucraino Oksana Dyka dava voce alla protagonista Amelia, disimpegnando con espressività la parte impervia che il personaggio comporta, pur con una voce non priva di asprezze e con passaggi di registro talora problematici. Emozioni nell’aria «Morrò, ma prima in grazia» affrontata con pathos. Nelle repliche Rebeka Lokar ed Anna Pirozzi. Bene anche il mezzosoprano Marianne Cornetti nel ruolo inquietante dell’indovina Ulrica. Affrontava con carica e vocalità appropriata il ruolo della donna cui spetta predire la morte al protagonista, con una voce possente e corposa specie nell’ambivalente registro grave. Le si è alternata Elisabetta Fiorillo (che aveva cantato nel 2004). Allineati su un buon livello generale tutti i comprimari. Qualche riserva sulla regia di Lorenzo Mariani e circa le scene di Maurizio Balò francamente discutibili come pure i costumi un po’ eterogenei di Maurizio Millenotti. Mariani dichiara di ispirarsi alle atmosfere in bianco e nero dei film thriller di Hitchcock, reinterpretando il Settecento attraverso l’Art Nouveau degli anni ’30, «come se il governatore Riccardo fosse il viceré dell’India o di un’altra colonia». Articola bene e con arguzia i personaggi, già in apertura (grazie ai validi movimenti scenici di Elisabetta Marini) specie nelle scene d’insieme: memorabile la scena finale, vero coup de théâtre, con la festa mascherata piena di luci, rosse stelle filanti e un enorme lampadario che campeggia al centro, ma numerose incongruenze vi sono qua e là: l’erba ‘verdeggiante’ è un ammasso rosso arancio, certo d’effetto, ma poco consono; Amelia giunge nei pressi del patibolo alla ricerca dell’erba stessa ingioiellata e in pelliccia; il conte rassetta sedie rovesciate, come fosse un servo e minaccia la consorte con un fucile; i biglietti con i nomi per tentare la sorte vengono deposti in un cappello a cilindro anziché nell’urna. Particolari, certo, ma significativi di una regia troppo discosta dal libretto con risultati poco convincenti. Anche le scene imbevute di luci livide convincono solo in parte, benché giustificate: moderne sì, ma poco accattivanti, dominate dallo squilibrio delle dimensioni; una grande porta grigia nel primo quadro, una piattaforma circolare nell’abituro dell’indovina con enorme lampada oscillante e giusto senso di incubo, di fianco la caldaia è una ciotola rosseggiante; allusioni cupe al patibolo e un letto sghembo con coperta
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rossa, un lampadario di cristallo, enorme e riverso a terra ed un casoratiano pavimento a quadri. Ottima la performance del coro istruito da Claudio Fenoglio: di stupenda resa drammaturgica il celeberrimo «E che baccano sul caso strano / e che commenti per la città». Misurato successo di pubblico che, senza eccessi, ha mostrato di apprezzare soprattutto le voci, assai meno la regia e la direzione.
NORMA AL REGIO CON LA DIREZIONE DEL FUORICLASSE MARIOTTI
braccio. Ruolo davvero impervio quello di Norma, eroina e sacerdotessa druidica divenuta empia e sacrilega per amore: dacché contempla un alto concentrato di virtuosismo e una notevole profondità psicologica. A Torino, dopo la rinuncia di Norma Fantini, ha primeggiato il soprano greco Dimitra Theodossiou. Nell’attesissimo luogo topico di Casta diva, dal lirismo onirico ed effusivo, ha regalato forti emozioni con pianissimi delicati e bei suoni filati. Qualche iniziale incertezza s’era registrata invece nel lungo monologo della scena IV; ma il pathos è andato infittendosi sempre più nella parte finale, laddove sui sentimenti di vendetta prevalgono l’amore e il senso del sacrificio. Bene dunque, nel complesso, nonostante alcuni passaggi di registro non sempre omogenei e qualche oggettiva asprezza negli acuti; certo un pizzico di magnetismo in più avrebbe reso memorabile la sua performance che ha comunque raggiunto vertici elevati in Teneri figli, di grande intensità e pregnanza. Meritatamente applaudito, nel ruolo dell’innamorata Adalgisa, il mezzosoprano statunitense Kate Aldrich, di fatto l’elemento di spicco dell’intero cast: voce ben timbrata e corposa, ma anche dolce e delicata, ha commosso l’intera platea nel duetto Sola furtiva al tempio grazie anche ad una singolare tenuta scenica. Ha convinto invece solo in parte il tenore Marco Berti (il protervo Pollione), aitante e possente, ma purtroppo non immune da ineleganze e qualche imprecisione ritmica. Buono l’aplomb del basso Giacomo Prestia, ieratico Oroveso dalla perfetta dizione, austero personaggio pubblico, ma altresì padre tenero: vocalmente assai valido, pur con qualche eccesso di vibrato. Superlativo il coro (il culmine drammatico in Guerra, Guerra) ben istruito da Claudio Fenoglio. Corrette,
Successo personale al Regio di Torino per il trentatreenne direttore d’orchestra Michele Mariotti che lo scorso 16 maggio ha diretto una «Norma» in grande stile: felice ritorno al Regio (dopo dieci anni) dell’allestimento in co-produzione con Opera Scene di Roma per la regia del compianto Alberto Fassini (ripresa da Vittorio Borrelli) con le belle scene (e così pure i costumi) di William Orlandi, scene costituite da pietrose quinte mobili: realistiche e allusive nel contempo, sovrastate da una grande luna piena a campeggiare su panorami spaziosi, tra le brume d’un bosco e una sorta di imponente dolmen a centro scena, quale simbolo della cupa storia di contrasto tra ragione e sentimenti. Mariotti ha impresso alla partitura, già fin dalla Sinfonia, tempi giusti, con piglio energico e teso, a prefigurare il clima dell’imminente tragedia, governando poi con mano salda un’orchestra in ottima forma; l’accurato lavoro di concertazione ha dato frutti assai apprezzabili quanto a gradazioni coloristiche e dinamiche. Perfetta si è rivelata inoltre l’intesa con l’orchestra, le voci soliste, il coro e il palcoscenico, col senso dell’incalzare del fato palpabile fin dall’iniziale coro e, nel contempo, il giusto rilievo ai momenti introspettivi. Insomma una direzione di gran classe che conferma Mariotti, interprete colto e musicista a tutto campo. Capolavoro dai contenuti drammaturgici squisitamente romantici, col senso immanente della natura, i conflitti di un popolo e gli insondabili misteri dell’animo umano riverberati vicendevolmente gli uni agli altri, «Norma», si sa, necessita di grandi interpreti, soprattutto richiede la presenza di una grande protagonista per dar corpo al singolare mix di ideali e meschinità umane che contrassegna la partitura, religiosità panica e tradimento, purezza e menzogna, con tanto di catarsi finale in cui amore e morte (eros e thanatos) trovano finalmente modo di Norma-M. Billeri / Pollione - A. Machado comporsi in un eterno ab-
ancorché non particolarmente incisive, le voci dei comprimari: il tenore Gianluca Floris (Flavio, amico di Pollione) ed il mezzosoprano Rachel Hauge (Clotilde, confidente di Norma). In sintonia con la strepitosa direzione di Mariotti, l’ottima regia giocata su calibrate simmetrie fin dalla calligrafica disposizione quasi canoviana delle masse prima del rito: bene i compassati movimenti, a rendere la sacralità della trama. Applausi molto convinti e sonori la sera della prima all’indirizzo dell’intero cast, con punte di entusiasmo per il direttore Mariotti. Undici le recite sino al 30 maggio con l’alternanza nei ruoli solistici di Maria Billeri (Norma), Aquiles Machado (Pollione), Enrico Iori (Oroveso) e Veronica Simeoni (Adalgisa).
COSÌ FAN TUTTE CON LA REGIA DI SCOLA Riapparso al Regio di Torino in aprile l’allestimento di «Così fan tutte» che il regista cinematografico Ettore Scola firmò nella stagione 2002-2003 al suo esordio in ambito lirico, un esordio alla grande. Regia ora ripresa da Vittorio Borrelli con qualche gag di troppo. Una regia che muove i personaggi con garbo e un pizzico di maliziosa civetteria, in un’opera che punta con ironia e levità sull’infedeltà femminile non meno che sui luoghi comuni. A far da cornice le meravigliose scene di Luciano Ricceri, realistiche e partenopee, con una poetica visione marina sul porto, fitte di rimandi alle galanterie settecentesche con budoirs e salotti, entro un impianto ricercato, molto efficaci, al pari delle luci che esaltano la solarità degli esterni e la clarità degli ambienti. Citazioni colte con allusioni al Palazzo del Vanvitelli e molta animazione sul palco: tutto (o quasi) funzionale alla vicenda e all’intrigo amoroso. Eleganti e curatissimi i costumi di Odette Nicoletti dalle forti cromie (azzurro per Dorabella e Fiordiligi, rosso cremisi per i due innamorati, color crema per il ‘filosofo’ Alfonso). Bella la simmetria nel disporre le coppie in giardino, con calligrafica puntualità, nella scena finto patetica del commiato. Ogni volta che si assiste a «Così fan tutte» ci si ritrova ad ammirare come Mozart abbia superato le convenzioni dell’epoca: ci sono allusioni all’opera seria in non pochi passi e recitativi, talora per burla (come quando le ragazze si disperano per l’improvvisa dipartita degli amanti) e ci sono tratti sentimentali, una cura musicale estrema nel dar rilievo anche a minime pieghe psicologiche del testo. La regia coglie tutto quanto, ma si sarebbe potuto evitare di mostrare Despina ad accogliere nella sua stanza così focosamente il proprio amante, intrattenendosi poi subito con lui, in espliciti gesti seduttivi, o propriamente erotici, distraendo, piccola cosa, nell’economia generale dello spettacolo. Dei due cast d’ordinanza recensiamo il secondo, non certo inferiore alla prima compagnia. Quanto a voci femminili da rileva-
Cosi fan tutte
re le prove fornite da Erika Grimaldi e Daniela Pini (Fiordiligi e Dorabella), in buona sintonia vocale anche se diseguali sul piano scenico, l’una più spigliata, leggermente più ‘tenuta’ l’altra, hanno sfoderato virtuosismo, ma anche dolcezza di accenti ed eleganza di fraseggi (nelle arie «Smanie implacabili» e «Come scoglio immoto resta»). Un plauso speciale ad Arianna Vendittelli, sia sul piano vocale, sia quanto a presenza scenica, nel ruolo dell’astuta Despina: arguta e piena di humour, strappa risate convinte, senza peraltro mai eccedere. Alessio Arduini ed Edgardo Rocha, baritono e tenore, hanno validamente affrontato i ruoli di Guglielmo e Ferrando, ben calati nella parte e con varietà di accenti («Donne mie la fate a tanti», affrontata con brio). Bene poi anche Natale De Carolis, il filosofo Don Alfonso, motore della vicenda, disincantato, ma non scaltro, fiducioso nel trionfo dell’amore; vocalmente ci si aspettava qualche brivido in più, ma nella sostanza ha tenuto bene. Christopher Franklin si è mostrato direttore a proprio agio nel repertorio settecentesco, abile nel rendere l’effervescenza della partitura mozartiana; ha impresso ritmo appropriato allo strumentale, specie ai recitativi, parsi sciolti e scorrevoli come non mai e così pure alle voci, in simbiosi con la visione registica. A completare il successo, ottimo il contributo del coro istruito da Claudio Fenoglio. Da segnalare Carlo Caputo al fortepiano, nel disimpegno dei molti recitativi (ben coadiuvato da Relia Lukic al violoncello). Da menzionare (come s’è potuto dedurre dalla diretta radiofonica) il buon livello del primo cast ch’era costituito da Carmela Remigio (Fiordiligi), Laura Polverelli (Dorabella), Marco Nisticò e Andrew Kennedy (Guglielmo e Ferrando), Barbara Bargnesi (Despina) e Carlo Lepore (Don Alfonso). (ph Teatro Regio - Ramella&Giannese)
MITO, I WIENER E IL POLI: GRANDE MUSICA A TORINO Grande musica a Torino in questo inizio di stagione 2012/2013. A propiziare l’annata il Festival MiTo alla sua VI Edizione. Inaugurato il 5 settembre al Regio dall’Orchestre National de France per la direzione di Daniele Gatti. Tutto francese il programma nel segno di Debussy. Grandi emozioni col «Prélude à l’après midi d’un faune» dalla conturbante sensualità del quale Gatti ha restituito la vaporosa estenuazione timbrica. Poi «Iberia» di cui è piaciuta specie l’intensità del quadro centrale. Molti applausi per «La Mer» grazie alla concertazione attenta e grazie ad una compagine in gran forma. In chiusura di Ravel «La Valse» e tutti gli effluvi di una partitura sublime resa al meglio. Trionfali accoglienze e due significativi bis: il pucciniano «Intermezzo» dalla «Manon Lescaut» (apprezzato omaggio al melodramma e al Regio dove Puccini colse molti successi) e «Carmen», vero incunabolo del gusto iberico sul versante francese. Impossibile riferire nei dettagli di un Festival come sempre variegato ed ampio, con un’offerta cospicua, di alto livello, orientata su tutti i settori. Qualche
Edoardo Zosi e Saskia Giorgini
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spigolatura soltanto. Molto applaudito il concerto ancora monograficamente dedicato a Debussy tenuto da Orchestra e Coro del Regio affidati alle cure del raffinato Bertrand de Billy. In programma l’elegante «Damoiselle élue» nell’interpretazione della voce superlativa di Heidi Brunner. In programma anche le arcaicizzanti «Gymnopédies nn° 1 e 3» di Satie orchestrate da Debussy e i «Trois Nocturnes» dalle fascinose sinestesie, specie in «Fêtes» dalle sfolgoranti atmosfere. Bis irresistibile con la «Farandole» da «L’Arlésienne» di Bizet eseguita con trascinante animazione. Molto Debussy anche sul versante cameristico e così pure pianistico (in pratica l’opera integrale affidata ad interpreti di vaglia). Tra le grandi orchestre da rilevare il ‘passaggio’ torinese della Filarmonica Scaligera con Andrea Battistoni sul podio, fin troppo esuberante nei musorgskijani «Quadri da una esposizione» (dalle sonorità francamente eccessive, col rischio di coprire talora alcune sezioni, e così pure il Verdi dei «Vespri» offerto come bis e apparso eccessivamente effettistico): nella stessa serata solista di lusso Louis Lortie nel brahmsiano «Concerto n° 2» affrontato con grande energia, privilegiando il lato sinfonico, con sonorità a tratti aggressive a scapito di quelle pieghe intimiste che pure sono fondamentali in tale capolavoro. Sul versante del melodramma, rara esecuzione in forma di concerto del monteverdiano «Ritorno di Ulisse in patria» al Regio col Concerto Italiano guidato dal colto Rinaldo Alessandrini curatore di un’ottima edizione critica. Successo personale di Sara Mingardo, per intensità e partecipazione e di Furio Zanasi entro un cast di livello, assai apprezzato dal folto pubblico. E chiusura di Festival nel segno di Beethoven con Philarmonia Orchestra diretta da Esa-Pekka Salonen, al Lingotto («Pastorale» e «Quarta Sinfonia») quindi con la bachiana «Passione secondo San Matteo BWV 244» a cura della Internationale Bachakademie Stuttgart diretta dallo specialista Helmuth Rilling. Del concerto diretto da Salonen è piaciuta la visione ancor tutta ‘settecentesca’ della «Sesta Sinfonia» mentre della «Quarta», pur potendo contare su una delle orchestre migliori al mondo, ha forse forzato un po’ troppo quanto a contrasti dinamici e velocità. Ciò nonostante di uno dei concerti di maggior richiamo si è trattato, festeggiato da applausi protratti. Applausi che sono fioccati altresì a fine «Passione» che la sera del 23 settembre ha ufficialmente suggellato questa edizione di MiTo: un cast d’eccezione con l’ottimo Lothar Odinius nel ruolo dell’Evangelista, abile nel dare rilievo ad ogni singolo dettaglio. Bene anche Klaus Hager e molto bene Markus Eiche. Valide le voci femminili di Julia Sophie Wagner e Ingeborg Danz. Perfetta la concertazione di Rilling e applausi vivissimi. Ancora a Torino, a pochi giorni di distanza, apertura festosissima di stagione per i Concerti del Lingotto con i mitici Wie-
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ner Philarmoniker guidati da Daniele Gatti, assiduo nel capoluogo piemontese in questo periodo. Un trionfo strepitoso per una delle orchestre più straordinarie del mondo che nel corso di due serate ravvicinate (1° e 2 ottobre) ha primeggiato nell’integrale delle «Quattro Sinfonie» di Brahms, ammirevoli per profondità di lettura, bellezza di suono ed coerenza stilistica: una vera lezione di eleganza. Specie la dolce «Seconda» ma anche l’austera «Quarta»; e grandi emozioni anche nel Finale della «Prima» dal pastoso tema degli archi. Appena un po’ meno efficace (la prima sera) la pur stupenda «Terza». A Torino poi gremita inaugurazione di stagione e sold out (ancora il 1° ottobre) per i Concerti di Polincontri Classica, presso l’Aula Magna del Politecnico con un bel recital del violinista Domenico Nordio e del pianista Andrea Bacchetti: hanno spaziato dal Mozart della «Sonata K 454» al Beethoven della esuberante «Sonata op. 12 n° 1» affrontata con molta decisione ed ottima intesa, e poi ancora Schumann e il Mendelssohn della giovanile «Sonata op. 4» che i due musicisti (un vero duo, affiatato e dall’intesa ammirevole) hanno interpretato con profondità di pensiero e tecnica pressoché impeccabile. Molti i bei nomi in stagione (destinata a protrarsi sino a primavera avanzata con oltre 20 appuntamenti), parecchi i pianisti, da Maria Perrotta ad Emanuele Arciuli, da Maurizio Baglini a Paolo Restani. Come sempre un’attenzione speciale alla musica da camera con complessi del livello del Trio Debussy e del Quintetto Bottesini. Spazio ai giovani con la fuoriclasse Irene Veneziano e l’ormai affermatissimo violinista Edoardo Zosi in abbinamento a Saskia Giorgini (nella foto). Chiusura con l’integrale delle «Sonate e Partite» di Bach con il talento di France-
sco Manara. E le consuete conferenze affidate a musicologi di vaglia, e programmi in sintonia con le celebrazioni del 150° di Debussy e così pure col 200° di Wagner. ap
Bergamo Musica Festival BELISARIO G. Franchini Il Festival Donizetti che la città di Bergamo offre al suo compositore d’eccellenza si è aperto con “Belisario”, opera raramente rappresentata e di non facile esecuzione. Il libretto di Salvatore Cammarano si snoda su una trama complicatissima: Belisario, comandante delle truppe imperiali, viene accusato dalla consorte Antonina di aver ucciso il figlio scomparso in tenera età. Da qui un susseguirsi di situazioni e di colpi di scena che hanno dell’inverosimile e che consentono al compositore di evidenziare nella partitura gli aspetti che gli sono più congeniali ovvero il destino dello sventurato protagonista e gli episodi di amore filiale. L’opera fu data per la prima volta a Venezia nel 1836 ed è grazie a Gianandrea Gavazzeni ed al grande soprano Leyla Gencer, durante quello splendido ed irripetibile periodo nominato Donizetti reinessance, che l’opera ritornò sulle scene nuovamente a Venezia nel 1969 e immediatamente dopo sia a Bergamo che a Napoli. L’esecuzione bergamasca vede in Roberto Tolomelli un bravissimo maestro concertatore e direttore d’orchestra e ciò lo si percepisce fin dalla sinfonia. Di grande risalto vocale è la parte decisamente drammaticadi Antonina, un personaggio di grande temperamento qui reso bene da Donatella D’Annunzio Lombardi. Dario Solari baritono è alle prese con il
Belisario- A. Vestri, D. Solari, F. Calmieri (ph Fotostudio UV - G. Rota)
personaggio non facile di Belisario e si difende molto bene (ricordiamo che prima di Rigoletto è proprio Belisario la grande rivelazione di questo timbro vocale). Il cast comprendeva Annunziata Vestri (Irene), Andeka Gorrotxategui (Alamiro), Francesco Calmieri (Giustiniano), Sonia Lubrini (Eudora),e Andrea Biscontin (Eutropio). L’impianto scenico realizzato da Angelo Sala è semplice ma di effetto, con luci appropriate che bene mettono in evidenza sia gli stati d’animo sia la maestosità dei luoghi dove si svolge l’azione. I costumi dello stesso Sala sono adeguati al tutto e il felice colpo d’occhio non viene meno. C’è una regia concepita da Luigi Barilone molto prudente e ordinata e che non lascia intravedere incertezze e un coro ben preparato da Fabio Tartari. Pubblico ben disposto ma altrettanto soddisfatto per questo titolo che è una piacevolissima riscoperta.
Parma – TEATRO REGIO
modo impeccabile l’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini permettendo così di assaporare tutta la bellezza della partitura. Si nota inoltre un singolare amalgama fra orchestra e palcoscenico e una speciale intesa fra direttore e interpreti. In scena Leo Nucci alle prese con un personaggio ormai studiato nei minimi particolari, questo cantante ci sa trasmettere grandi emozioni poiché in possesso di un timbro inossidabile e di un’assoluta esperienza scenica, da parte sua il contatto col pubblico è straordinario e scontato anche nel momento degli applausi, ovvie quindi le ovazioni al suo indirizzo condivise con Oren ma anche con Jessica Pratt, bionda e prosperosa Gilda, capace di sfumature vocali di assoluta bellezza. Aitante scenicamente e soprattutto generoso di voce Piero Pretti, Duca di Mantova più che convincente. Decisamente in ordine tutti il resto del cast dalla Maddalena di Barbara di Castri fino all’incisivo Sparafucile di Michele Pertusi.
RIGOLETTO
Siena – TEATRO DEI RINNOVATI
G. Franchini Il Festival Verdi 2012 s è aperto con il collaudato “Rigoletto” realizzato in toto da Pierluigi Samaritani nel 1987 e passato più volte sul palcoscenico del Regio di Parma. Purtroppo solo due titoli in cartellone ad omaggiare il “cigno di Busseto” (l’altro è “La battaglia di Legnano”) e comunque in tempo di crisi ben venga questo allestimento decisamente oleografico e tradizionale. Sfarzosa e riccamente popolata la corte del Duca di Mantova, sinistre le ambientazioni successive che culminano con l’inquietante taverna di Sparafucile. Lo spettacolo piace sempre e la regia ci presenta i personaggi come essi sono e devono essere, senza mezzi termini. Il rigore esecutivo ci giunge dalla bacchetta di Daniel Oren che sa guidare in
A. Pellegrini Anche quest’estate la Settimana Musicale Senese ci ha regalato splendidi concerti e chicche imperdibili. Possiamo dire che due siano stati i fili conduttori, anzi tre: l’anima russa e la musica russa, la fiaba, l’Olimpiade. Un menu di tutto rispetto, per il 69esimo appuntamento estivo. La musica russa ha avuto l’onore dell’inaugurazione, grande successo e pubblico in grande spolvero per Jurij Temirkanov e l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, ancora musica russa per il violista Jurij Bashmet, mentre all’Orchestra Barocca di Venezia è toccato l’onore di celebrare questa olimpionica estate con Arie Olimpiche, musiche di autori vari sul libretto de l’Olimpiade di Pietro Metastasio. Godi-
SETTIMANA MUSICALE CHIGIANA OMAGGIO A DEBUSSY
bilissima poi la novità chigiana, che non manca mai, e quest’anno è stata una fiaba, Due teste e una ragazza, messa in musica ancora da una giovane musicista, nata a Belgrado, della quale sempre più sentiremo parlare. Per concludere in bellezza, ancora sul tema della fiaba, della poesia, del mito, e delle celebrazioni dedicate all’opera di Debussy al quale l’Accademia Chigiana ha riservato più di un appuntamento, l’Omaggio a Debussy che la Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli ha creato, recuperando anche una sua performance dell’inizio del secolo scorso. Ma andiamo con ordine. Al pianoforte Enrico Pace ha suonato le trascrizioni dello stesso compositore, scene e luci di di Franco Citterio, il sipario si è aperto sull’Après midi d’un faune per dare poi spazio al mondo infantile con Children’s Corner e La boite à Joujou, quest’ultima in prima riproposizione moderna dello spettacolo creato dai Colla per il duca Visconti di Modrone nel 1916, con lo stesso al pianoforte, spettacolo replicato nel ’23 ai Martinitt. Per quanto riguarda l’Après midi, le marionette sono quanto mai vicine allo spirito della coreografia straordinariamente innovativa di Djaghilev per Nijinskij, volta a recuperare la gestualità dei bassorilievi di età preclassica, dunque il corpo reso nella sua totalità parte di fronte parte di profilo, così vicina alla coeva ricerca cubista nell’arte figurativa: il movimento a scatto della marionetta ben si presta a recuperare quella gestualità. Assolutamente deliziose poi le incursioni nel mondo infantile che Debussy crea per la sua piccola Chouchou, nata nel 1905, dimenticando la sua straordinaria raffinatezza di toni per recuperare una delicata semplicità e stabilire una assoluta aderenza al mondo infantile. L’elefantino di Chouchu è tra i protagonisti animati dai componenti la compagnia, ninne nanne e serenate, fanno sorridere gli adulti incantati dall’insolito tono naif. Ancor più ricca di personaggi la piccola città per giocattoli che è La boite à joujou, con l’incursione nella commedia dell’arte (anche qui la gestualità è anche una citazione) perché ci sono Arlecchino e Pulcinella, con Pierrot, le bambole, i soldatini, e qui siamo nella comicità, particolarmente nella scena della battaglia a colpi di piselli.Ancora una volta dunque dal ricco baule magico dei Colla (già vincitori del premio Abbiati per il Filemone e Bauci di Haydn in una recente Settimana Senese) per la gioia dei bambini e del pubblico adulto che non vuole perdere la magia dell’infanzia, uno spettacolo ricco di spunti e capace di interagire, nel suo specifico, tra le arti. TEATRO DEI RINNOVATI
LIMON DANCE COMPANY
Rigoletto . Jessica Pratt, Leo Nucci (ph Ricci)
Dopo due anni è tornata in Italia l’americana Limon Dance Company, che porta avanti con convinzione il messaggio estetico del suo fondatore, José Limon, prematuramente scomparso nel 1972. Mes-
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sicano di nascita, figura carismatica che si ritenne nato una seconda volta quando conobbe l’arte di Isadora Duncan e decise di dedicare la sua vita a quest’arte, interpretò per il resto dei suoi giorni la strenua ricerca del movimento espressivo, divenendo uno dei protagonisti della nuova danza americana che volle superare il balletto classico romantico a partire appunto dalla Duncan, senza mai cedere a compromessi commerciali. La Compagnia, diretta da Carla Maxwell, ha fatto in Italia tre tappe, a Bologna, Lucca e Siena, Teatro dei Rinnovati, e ci piace segnalare che il teatro senese recentemente restaurato da alcuni anni ha scelto di dedicare numerosi appuntamenti della sua stagione alla danza, ed organizza convegni con esperti che analizzano l’opera dei più grandi coreografi del ‘900. La Limon dance ha proposto There is a time, Chaconne, Dances for Isadora, e per finire quella che è forse la più famosa delle creazioni di Limon, The moor’s pavane. There is a Time, del 1956, su musiche di Norman Dello Joio è un tema con variazioni giocato sull’idea del cerchio, che simboleggia lo scorrere del tempo ispirandosi al terzo capitolo dell’Ecclesiaste. Chaconne, su musica di Bach, una delle prime creazioni di Limòn che lo vide interprete carismatico, è insieme solenne e vitale; le cinque evocazioni di Isadora Duncan su musica di Chopin sono invece una delle ultime creazioni di Limòn, e vogliono restituire il gusto del movimento corporeo libero, ispirato all’antichità greca, che fu la grande intuizione di questa straordinaria innovatrice, capace di affascinare quanti più che allievi, furono adepti del suo sogno artistico. The Moor’s Pavane – Variazioni sul tema di Otello, con la musica di Henry Purcell, non vogliono raccontare la vicenda shakespeariana, ma attraverso danze di corte dell’epoca fanno vivere in scena quattro temperamenti, quello del Moro (Raphael Boumaila), dell’amico (Dante puleio), La moglie dell’amico (Kristen Foote), la moglie del Moro (Roxane D’Orléans Juste, vincitrice del Bessie Award nel 2006), che mettono in scena la tragedia della gelosia e del tradimento amicale. I costumi di questa pièce sono quelli di Pauline Lawrence, e Katherine Mc Dowell Patterson ha basato i suoi per There is a time sugli originali della Lawrence, mentre nelle Dances for Isadora i costumi sono di Charles D. Tomlison e Cristina Giannini. In questa occasione è stato presentato Memorie interrotte, l’autobiografia di Limòn interrotta a causa della sua prematura scomparsa, e tuttavia opera di straordinario interesse, la cui traduzione è stata fortemente voluta da Rossella Battisti e pubblicata da Proscenium. Di scorrevole lettura, svela una figura d’uomo oltreché d’artista straordinaria, un uomo umile nonostante la sua grandezza che, più che parlare di sé, testimonia di quanti hanno innovato il mondo della danza americana nel secolo scorso, uno strumento prezioso per quanti desiderino approfondirne la conoscenza. ap
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Bologna – TEATRO COMUNALE LE NOZZE DI FIGARO F. Bertini A ridosso della lunga pausa estiva, il Teatro Comunale di Bologna, dopo quindici anni, riporta in scena Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart. L’allestimento è quello creato per il San Carlo di Napoli, nel 2006, da Mario Martone: regista cinematografico e teatrale, Martone è approdato prepotentemente, negli ultimi anni, agli spettacoli lirici e ha già firmato l’intera trilogia Mozart-Da Ponte. Alla commedia tratta dal testo di Beaumarchais, il regista infonde un ritmo vorticoso fatto di scene incalzanti e movimenti spazianti tra il palco e l’intera sala teatrale. Gli artisti divengono ciascuno il centro dell’azione e tutto ruota attorno alla loro capacità di vestire i panni, volta per volta, dei protagonisti, degli antagonisti e degli intermediari. La scenografia, ideata da Sergio Tramonti, è unica per tutto lo spettacolo e costituita da un tavolo, sempre ben in vista, e da una doppia scalinata che conduce ad un ballatoio. La capacità di utilizzare con consapevolezza lo spazio offerto dal teatro offre una vicinanza tangibile tra protagonisti e pubblico, partecipi tutti della medesima vicenda e inconsapevoli fautori dell’epilogo finale. I costumi di Ursula Patzak confermano l’impianto tradizionale dell’allestimento risaltando i caratteri dei vari individui. L’intero cast contribuisce a rendere alto il livello di questa produzione. Il giovane direttore Michele Mariotti è una guida pregevole per l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, in quest’occasione in stato di grazia. Il concertatore è attento alle dinamiche, che rende personali fin dalla sinfonia, e crea un tappeto sonoro di sicuro giovamento per gli interpreti. Mariotti, direttore stabile della fondazione da alcuni anni, mostra d’aver maturato costantemente i propri mezzi espressivi contribuendo alla crescita qualitativa della stessa compagine strumentale. Buona anche la prestazione del Coro preparato da Lorenzo Fratini. Nicola Ulivieri è un Figaro di provata bravura: l’emissione denota freschezza nel timbro e duttilità
Nozze di Figaro (ph R. Casaluci)
nel fraseggio. La gestione totalizzante della scena lo eleva ad interprete ideale di questo ruolo. Cinzia Forte, che ritroviamo dopo l’Anna Bolena di Trieste, sostiene la parte di Susanna, a lei congeniale tanto per connubio scenico quanto per scrittura affine al suo strumento. La dolcezza del timbro, unita alla spigliata e disinvolta azione sul palco, danno un tocco personale e decisamente ironico alla giovane promessa sposa di Figaro. Già nella produzione veneziana dell’opera di Mozart il mezzosoprano Marina Comparato si era dimostrato un eccellente interprete del ruolo di Cherubino, ora a Bologna riconferma tale predisposizione ed anzi crea ex novo il paggio puntando sull’espressività languorosa, ricca di sfumature e sempre carezzevole. Nell’interpretazione della Contessa d’Almaviva, Carmela Remigio mostra di giovarsi della direzione di Mariotti per abbandonare alcune tensioni, precedentemente riscontrate, e offrirsi ad un canto lirico spontaneo, affiancato ad una vitalità scenica mai eccessiva. Il partner Simone Alberghini, il Conte d’Almaviva, ha voce virile
Carmela Remigio, Cinzia Forte (ph R. Casaluci)
e all’apparenza non affine alla scrittura mozartiana. Tuttavia, al confronto con il ruolo gravoso affidatogli, i tratti emergono ben definiti e il canto robusto non teme il pentagramma, mantenendo l’omogeneità in tutta la gamma. Una menzione a Bruno Praticò, Bartolo, certo non inappuntabile ma sempre ottimo attore e ammiccante interprete. Bene anche Cristiana Arcari, Barbarina, e la solida Tiziana Tramonti, Marcellina. Il giovane Mert Süngü ha offerto un’interpretazione leggermente sbiadita del sibillino Basilio. Il trionfo finale, con applausi duraturi e parecchie chiamate per il cast, ha suggellato l’ottima riuscita di una produzione assolutamente imperdibile.
Lodi – TEATRO ALLE VIGNE
Polvere di stelle
POLVERE DI STELLE M. Moretti È un omaggio al varietà italiano degli anni ’40, del secolo scorso ovviamente, lo spettacolo ben congeniato da Sabrina Pedrazzini, non nuova nel confezionare questi validi esperimenti di amalgama fra canto e danza. Non una commedia musicale, non una carrellata di brani indipendenti fra loro ma bensì un varietà con un richiamo all’avanspettacolo, un genere tanto in auge soprattutto nei prosceni dei cinematografi negli intervalli fra un tempo e l’altro della proiezione di un film e spesso e volentieri anche come spettacolo a se stante nei teatri di provincia. Ci sono gli immancabili sketch e novellette dal sapore piccante anche se alquanto castigati data l’epoca; si ballano i ritmi di allora, compreso il tip-tap di importazione americana e c’è la componente ironica presente in molti testi delle canzoni senza venir meno a quella sentimentale. È decisamente un gustoso intrattenimento, piacevole anche dal lato visivo grazie ai bei costumi e alle azzeccate coreografie. Impossibile elencare tutte le canzoni che si ascoltano, basti dire che si passa dai maliziosi sorrisi di “Adagio Biagio”, “Sulla carrozzella”, “Ma le gambe”, “Bellezze in bicicletta” misti ai languori di “Ma l’amore no”, “Non dimenticar le mie parole”, all’allegria di “Baciami piccina”, “Voglio vivere così”, “Ho un sassolino nella scarpa” alle spensierate “Camminando sotto la pioggia”, “C’è un uomo in mezzo al mare” alle agognate “Mille lire al mese”, allo scherzoso “Pippo non lo sa” per arrivare alle confidenziali “Bambina innamorata”, “Silenzioso slow”, “Viole del pensiero”. Un trio di affiatati strumentisti, Iacopo Pivari (contrabbasso) e Giorgio Brocchetta (batteria) cui fa capo il versatile Paolo Marconi al pianoforte; una dozzina di ballerini della Compagnia di teatro e danza”Il ramo”; un terzetto vocale che strizza l’occhio al Lescano del tempo che fu bene istruito da Gaia Pedrazzini oltre a Gigi Franchini, che proviene dall’operetta e dalle canzoni anni ’20 e che ben si adatta non solo a fare da filo conduttore ma anche ad interpre-
tare con garbo e anche ironia molti motivi, che sanno far rivivere quel periodo d’anteguerra e dell’immediato dopoguerra fatto di sogni e lustrini ma anche di fame e dove sovente a fine spettacolo impresari poco affidabili svanivano nel nulla lasciando solo uno scritto con la fatidica frase “…bambole, non c’è una lira”. Il tutto è piaciuto molto grazie ad uno scorrevole e gustoso gioco registico e coreografico che non lascia mai tempi morti, all’adeguato impiego delle luci e alle svariate proiezioni sul fondale a sottolineare momenti e situazioni del passato. La replica in alcuni teatri lombardi e in parecchie rassegne estive.
Trieste – TEATRO VERDI L’AMICO FRITZ G. Mion «Nella cornice agreste, lontana dai turbamenti del mondo, si imbottiglia il vino, si cuociono frittelle croccanti e ci si innamora. L’unico ostinato nel sottrarsi al matrimonio, capitola di fronte a un paio di occhi innocenti. La trama è tutta qui, nei virginali palpiti di Fritz e Suzel che scoprono l’amore in un contorno di scenette moralistiche e lacrimogene», commenta ironicamente Rubens Tedeschi a proposito de L’amico Friz, ricordando
maliziosamente come anche il vecchio Verdi avesse trovato la storia insignificante. Certo, la trama è esile che più non potrebbe, la musica che Mascagni sovrappone ai versi di Daspuro non è ovunque memorabile, nondimeno le melodie profuse sono tante e seducenti, e la partitura nel suo complesso piena di simpatici ammiccamenti e di furbate strumentali come nell’ingresso in scena di Beppe annunciato da rapsodiche sviolinate, o nell’Intermezzo che strizza l’occhio al Sogno della Thaïs di Massenet. Così L’amico Fritz continua ancora a piacere, perché tutta l’operazione è di una ruffianeria sfrontata ma nondimeno vincente. Nelle recite triestine, frutto di un nuovissimo allestimento, Patrizia Orciani era una Suzel vibrante e intensa, ma più matura che adolescenziale, con qualche leggera asprezza negli acuti; Roberto Iuliano da parte sua esibiva molta generosità, beandosi di un timbro accattivante ma con pochi chiaroscuri - mezze voci e smorzati pochi - ed un fraseggio a volte astratto. Pronti a gareggiare in volume nei momenti a due, più efficaci negli a solo: quando cioè la prima sospirava «Son pochi fior» e «Non mi resta che il pianto», ed il secondo meditava il suo «Tutto tace» e scopriva che «Anche Beppe amò». Piero Terranova tratteggiava un eccellente David, persino nell’ampolloso duetto alla
L’Amico Fritz (ph F. Parenzan)
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fonte con Suzel. Eufemia Tufano schivava nel suo Beppe ogni bamboleggiamento zingaresco, eseguendo al meglio i suoi due momenti solistici; Max Renè Cosotti ed Andrea Vincenzo Bonsignore impersonavano correttamente Federico ed Hanezò. Dal podio dell’Orchestra del Verdi, Fabrizio Maria Carminati sapeva trarre bella leggerezza, coesione tra i singoli episodi, affabilità narrativa, sì che il clima generale era pervaso da una fresca ariosità; imponeva bel rilievo alle tante aperture melodiche, senza enfatizzarle troppo, e schivando il facile bozzettismo individuava il giusto accento per ogni scena. Corretta come di consueto la prova del coro triestino. Quanto alla regia di Daniele Salvo, c’è poco da riferire: seguiva il libretto e basta. Poche le cose biasimevoli, in verità; ma tra queste un Beppe messo a mimare con un ridicolo playback i voluttuosi arabeschi del primo violino. Le bizzarre scenografie di Lorenzo Fonda stravolgecano il clima idilliaco dell’opera: al primo quadro domina per un po’ l‘immagine incombente di San Sebastiano, e al terzo quadro quella enorme d’una donna scombussolata. Per me, impossibile comprendere il nesso. Per fortuna, dopo un po’ le fastidiose immagini sparivano, svelando sullo sfondo una lunga balconata e la sagoma d’una lontana cittadina. Più pertinente invece il luminoso quadro della fattoria, con il suo bel ciliegio sullo sfondo e una grande fontana in parte, a dare un senso ai dialoghi. I costumi di taglio tradizionale erano stati creati dallo stesso Fonda.
Venezia – TEATRO LA FENICE LA BOHÈME Giungeva dal Carnevale 2011, questa Bohème pucciniana affidata al regista Francesco Micheli, e riproposta quest’anno al pubblico veneziano. Molto belle le scene di Edoardo Sanchi: una soffitta piena di oggetti e mobili - cose da poco prezzo, cose da trovarobe - incorniciata in ovale da un sipario fatto di mille piccole luci che evocano i monumenti di Parigi, tagliata in due da un velatino con una grande luna. Il piano di scena poi svuotato si alza, e mostra un’affollata carrozza della Metrò, mentre sopra stanno le vie di Parigi imbiancata dalla neve, piene di gente indaffarata. Quindi le sagome delle case sullo sfondo ruotano su sé stesse, trasformandosi nel Café Momus e in altri allegri edifici della città. Tutto l’animatissimo quadro assume, nei colori vivaci degli abiti e nell’atmosfera spensierata ricreata da Micheli, il clima spensierato d’una operetta d’Offenbach, un tripudio di tricolore bianco-rosso-blu persino nelle gonne delle ‘danseuses’ delle Folies Bergéres. Nel terzo quadro un‘altra casa girevole, vuota e bizzarramente arredata all’interno, è il cabaret dove Marcello lavora, di fronte alla Barriera d’Enfer, con i personaggi immersi un’atmosfera gelida e angosciante, sullo sfondo i grigi palazzoni del centro. Al quarto quadro si ritorna alla soffitta, più grande e desolatamente vuota. La vivace
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La bohème (ph M. Crosera)
regia di Micheli sfruttava sagacemente questi spunti visivi, secondando la visione pucciniana con efficaci tocchi registici che conferivano colore ed agilità all’intreccio narrativo. Molto piacevoli anche i costumi disegnati da Silvia Aymonino: abiti di poche pretese e un po’ bizzarri per i giovani protagonisti, di surreale fantasia per tutti gli altri personaggi. Quello che in questa ripresa 2012 non funzionava era purtroppo la guida musicale di Daniele Callegari, segnata da tempi eccessivi e da sonorità enfatiche, due cose in antitesi ad un’accurata resa dei preziosismi strumentali della partitura. Se alla speditezza - in sé, non certo un difetto se ben dosata - non s’accompagna un giusto fluire narrativo, emerge come qui una fastidiosa anarchia; con l’aggravante d’una povertà di sfumature di suono e di nuances cromatiche, e di volumi orchestrali eccessivi che mortificavano le voci degli interpreti. Rodolfo era il trentenne tenore ossezio Khachatur Badalayan: ragguardevole per eleganza, bella voce e buon controllo dei mezzi, con in più piacevole spontaneità. L’americana Sandra Lopez apportava alla sua Mimì la grazia di una voce fresca e seducente, sebbene di non grande spessore. Il loro
Finale di Elisir (ph M. Crosera)
primo incontro in soffitta è scivolato ahimé nella banalità; molto più convincente il duetto alla Barriera d’Enfer ed il quadro conclusivo, che hanno donato maggiori emozioni. Simone Piazzola è un Marcello ideale, estroverso nel carattere e ricco di sfumature: la naturalezza recitativa infonde massima credibilità al suo stare in scena, e come baritono credo abbia pochi rivali quanto a pienezza vocale e sicurezza di fraseggio. Debuttava in scena il giovanissimo soprano veneto Francesca Dotto, con una Musetta aggraziata e piccante al tempo stesso, la cui sensuale maliziosità non aveva nulla di artificiale. Persuasivi nei ruoli di Schaunard e di Colline Alessio Arduini ed il basso croato Goran Juri ; come pure William Corrò (Benoît), Andrea Snarski (Alcindoro), Carlo Mattiazzo (Parpignol). Buona prova del Coro del Teatro La Fenice diretto da Claudio Marino Moretti, e dei Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio.
L’ELISIR D’AMORE Il meccanismo perfetto realizzato dalla ditta Donizetti & Romani con L’elisir d’amore, così ben costruito, così ben equili-
brato, ha trovato in questa produzione veneziana, ripresa di un felicissimo allestimento di due anni fa, interpreti all’altezza del loro compito. Celso Albelo e Desirée Rancatore costituiscono una coppia affiatata e ineguagliabile, come hanno dimostrato pure altri loro felici incontri in questo ed altri titoli: la straordinaria e prodiga vocalità del primo, così affine a quella dell’indimenticato Alfredo Kraus, permette al tenore canario di sfoggiare splendidi e limpidi acuti, con dei ‘do‘ astrali raggiunti con spavalda sicurezza; ma in egual modo delle mezze voci e dei mezzi toni ragguardevoli. Aggiungetevi una dizione perfetta, il senso della recitazione, e soprattutto il sapersi giovare d’un notevole gioco di timbri e colori: che volere di più?. Anche l‘Adina del soprano palermitano appare decisamente incantevole, centrando in pieno il carattere di una giovanetta impertinente e capricciosa - un po’ cinica, un po’ bamboleggiante - che poi cede il passo ad una donna innamorata e più matura. Un crescendo in scena assolutamente inarrestabile, una condotta di stile sempre pertinente al ruolo, alla fine della quale ovviamente tutti attendono il godimento d’una cabaletta finale dove si libera alto il suo registro acuto e sovracuto, mostrando una disinvoltura acrobatica - le variazioni sono da brivido - che mai sacrifica quella innata, spontanea musicalità che le è propria. Il Dulcamara di Elia Fabbian è senz’altro interessante, anche se da affinare nel sillabato: canto morbido e fluido, ben timbrato, articolazione delle frasi resa con buona eleganza, e su tutto ricade una spiritosa gaglioffaggine che esalta il personaggio del simpatico briccone. Voce importante e solida, e una certa arguta eleganza abbiamo trovato anche in Alessandro Luongo, Belcore vanesio e gradasso, con lampi di franca ironia nella disinvolta recitazione. Peccato per qualche sbavatura nella linea vocale, non sempre del tutto impeccabile specie nel registro superiore. Pertinente e graziosa la Giannetta di Oriana Kurteshi. Il giovane direttore Omer Meir Welber ha diretto, guidato l’orchestra ed il coro veneziani con molto brio, accorta dinamica dei suoni e molta varietà di fraseggio. Nella sua concertazione si alternavano felicemente i momenti di abbandono sentimentale con le impennate ardenti; un ottimo accompagnatore, insomma, pronto a soddisfare accuratamente le esigenze dei cantanti, e con un spiccato istinto teatrale. Gianmaurizio Fercioni rievocava certi graziosi sipari scenografici di un tempo, riletti e reimpiegati secondo il gusto e le esigenze odierne, e poneva indosso ai personaggi abiti coloratissimi e fantasiosi. Quanto all’estroversa e vitalissima regia di Bepi Morassi, non saranno mai abbastanza gli elogi; in perfetta sintonia con la musica, ponderata nei minimi dettagli, era tutta un susseguirsi di gradevoli e spassose invenzioni. Lo spettacolo che usciva dalle loro mani era complessivamente assai luminoso e
gradevole, oltre che assai funzionale. L‘impressione è che i due strizzassero l’occhio alla spettatore con bonaria complicità, come a dire: è una favola, certo, ma facciamo finta di crederci e divertiamoci senza pensieri.
Montepulciano TEATRO POLIZIANO
37° CANTIERE D’ARTE BRIMBORIUM! «L’universo è fatto a ripiani …dopo questo vi è un altro ripiano, dopo di quello un terzo ripiano, e dopo un altro, un altro ancora e così via all’infinito, e questa è la natura degli armadi!» spiega ai suoi piccoli alunni il vecchio e sussiegoso Ottavio, un orologio a cipolla assai malandato. Ottavio vive insieme a Madame Cliquot, un‘acciaccata e bonaria teiera, a Nicoletta, un trofeo di tennis in bronzo di tanti anni prima, a Quick, un flauto di legno senza voce ed a sei piccoli cucchiaini d’argento. Tutti oggetti relegati in un armadio, abbandonati dagli uomini perché divenuti inutili. Assillati dal ricordo di un mondo esterno della cui esistenza ormai finiscono per dubitare, passano il tempo in una routine noiosa e ripetitiva. Il suono di un violino risveglia dal torpore Quick, che s’agita al ricordo della musica che un tempo l’aveva animato, e la sua frenesia contagia poco alla volta gli altri. Forse non è troppo tardi per riprendere a vivere. Dopo lunghi tentennamenti, Ottavio convince la recalcitrante Nicoletta a consegnare la sua racchetta, usandola come chiave per aprire l’armadio; gli oggetti sono ora liberi di riscoprire quel mondo loro prima negato. Questa in breve la trama di Brimborium!, piccola favola composta da Mauro Montalbetti sul libretto di Francesco Peri, presentata in prima assoluta al Teatro Poliziano in luglio, nell’ambito del 37° Cantiere d’Arte di Montepulciano.
Inevitabile che il pensiero voli al Pollicino di Henze, presentato nel 1980 quando era ancora direttore del Cantiere: da esso sono ripresi l’intento pedagogico - il valore nobilitante della musica, il saper subordinare al proprio l’interesse degli altri - e la decisione di coinvolgere le forze locali, allora i ragazzi del luogo chiamati allora a creare un’orchestra di semplici strumenti. Stavolta troviamo musicisti ben più grandi ma pur sempre del territorio senese, tutti riuniti nell’Orchestra Poliziana, compagine formatasi grazie ad un‘accurata preparazione seguita da Luciano Garosi, trasformatosi poi in saldo concertatore di questa snella partitura in un atto. L’esuberante creatività di Montalbetti dà vita ai personaggi inventati dalla fantasia di Peri tramite una variegata miscellanea di stili, girovagando tra sonorità dodecafoniche e reminescenze rossiniane, screziature rockeggianti e melodie popolari. L’inventiva del regista berlinese Robert Nemack conferiva vita alle figure ed alle storie di quegli oggetti dimenticati, ognuno con un suo carattere ed una personalità dai tratti umani, mettendo in piedi uno spettacolo curioso ed intrigante. Sul piccolo palcoscenico del Teatro Poliziano stavano le espressive voci di Luisa Cipolla (Nicoletta), Anna Rita Romagnoli (Madame Cliquot), Francesco Salvadori (Ottavio), la giovanissima Emma Bernardini (Pavel) e le voci bianche di Leonardo Bove, Andrea Ciacci, Anna e Sara Cipriani, Aurora Ranieri, Leonardo Rossi. Tutti interpreti molto convincenti ed espressivi, anche i piccoli cantori. La scena unica metteva in mostra un‘ accozzaglia di oggetti polverosi disposti su più livelli: era stata affidata a Domenico Franchi ed agli allievi dell’Accademia bresciana di Santa Giulia, da lui coordinati; insieme ad essi ha Franchi firmato le scene, e con Noemie Grottini i fantasiosi costumi.
Brimborium
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RavennaFestival TEATRO ALIGHIERI
NOBILISSIMA VISIONE SANCTA SUSANNA Si poteva vedere nella serata monografica affidata alla bacchetta di Riccardo Muti e interamente dedicata a Paul Hindemith con il balletto Nobilissima visione e l’opera in un atto Sancta Susanna, il fulcro ideale del Ravenna Festival 2012, perché questi due lavori hanno entrambi come tema il misticismo e la visionarietà. Il che rincorreva perfettamente il ‘fil rouge’ della manifestazione ravennate, vertente quest’anno sui temi della spiritualità religiosa e del monachesimo nel mondo. L’ispirazione di Nobilissima visione venne a Hindemith dagli affreschi giotteschi in Santa Croce a Firenze, dedicati alla vita di San Francesco. Subito dopo la prima londinese del balletto, Hindemith ne trasse una suite sinfonica in tre sezioni, versione qui adottata da Muti e dal coreografo Micha Von Hoecke che, come nel suo stile, ha realizzato uno spettacolo di fulgente nitore, sobrio e grandioso al tempo stesso, ricco di movimenti coreografici che ben rendeva alcuni degli episodi della vita del Poverello d’Assisi. Esemplare, in questo senso, il lineare eppur seducente apparato scenico di Carlo Savi, mentre i costumi si dovevano ad Anna Biagiotti. L’ensamble di danzatori - una decina di maschi ed una donna, la Chiara di Gaia Straccamore - veniva dalle fila del Corpo di ballo dell’Opera di Roma, e vedeva quale protagonista uno scattante ed intenso Alessio Rezza. Con Sancta Susanna debuttava nella regia Chiara Muti: eravamo in famiglia, per così dire, ma l‘esigentissimo padre non ha fatto sconti alla figlia. Il tema di quest’atto unico, di una stringatezza quasi spiazzante e parte di un trittico giovanile dai tratti espressionistici che comprende anche il tragico Mörder, Hoff-
nung der Frauen e il comico Das NuschNuschi, segue fedelmente il dramma di August Stramm del 1913. Un soggetto quanto mai scabroso tanto che, di fronte alla polemiche suscitate al suo apparire, l’autore ne ritirò la partitura riapparsa solo quarant’anni dopo per concessione degli eredi. Inutile dire però che, ad ogni ripresentazione, i travagli erotico-spirituali della giovane suor Susanna attirano i sempiterni strali della Chiesa. Avvalendosi delle luci fredde e potenti di Vincent Laguemare, e con la bella scenografia di Leonardo Scarpa, precisa nel descrivere un interno sacro con un altare sovrastato dal grande crocifisso, la regia della Muti procedeva incalzante, proponendo gesti intensi e idee sempre efficaci. Come quando un ‘doppio’ danzante, lieve come un soffio di aria pura, descrive la raggiunta libertà interiore della giovane suora, oppure quando il grande crocifisso, celato da un velo nero simile ad una ragnatela, viene liberato dalla giovane con gesto violento prima di cedere alla proprie pulsioni. In un testo che esalta il potere vivificante della libera fisicità, Csilla Boross si è mostrata un’eccellente Susanna, così come Brigitte Pinter era una validissima suor Klementia. Il resto del cast vedeva Annette Jahns (la vecchia monaca), Ahahì Traversi e Igor Horvat (i due servi). I costumi si dovevano ad Alessandro Lai. Se in Nobilissima visione Hindemith tratteggia la spiritualità di San Francesco con limpidezza timbrica, grande maestria della forma, sapiente trattamento contrappuntistico del materiale sonoro, pervasi da uno spirito pienamente neoclassico, Sancta Susanna mostra una scrittura musicale più densa, simmetricamente pensata come una sorta di tema con variazioni. Un piccolo capolavoro del teatro del ‘900, nel quale si scopre una calibrata fusione tra testo e scrittura musicale. Alla guida dell’Orchestra Giovanile Cherubini, Riccardo Muti concerta da par suo - cioè con maniacale perfezionismo e forte senso del dramma - e recupera subito i due giusti registri necessari. Cioè una sorprendente vivezza di colori e sentimenti, ed una fluida naturalezza d’espressione nel susseguirsi di ogni episodio narrativo della suite coreografica, ed un potente e lancinante taglio drammatico in Sancta Susanna, sorreggendo in maniera ineccepibile le voci della Boross e della Pinter ed esaltando la scura severità della partitura.
nell’apprezzamento dell’energia profusa dal lungimirante sindaco di Salerno Vincenzo De Luca e dell’alta qualità impressa alla programmazione come sempre da Daniel Oren, direttore artistico del Massimo salernitano dal 2007. Ci soffermiamo almeno sulle prime due opere messe in scena dal teatro Verdi a partire dal 14 aprile scorso (La traviata e Les pêcheurs de perles), in una successione intensa di eventi ed appuntamenti di rilievo tra cui concerti di musica da camera e altre due impegnative opere in forma di concerto quali Robert le diable di Meyerbeer (23 maggio) e, fuori programma, Don Giovanni di Mozart (26 maggio). La stagione è proseguita dopo il periodo estivo con diversi appuntamenti concertistici e le opere La Gioconda, Madama Butterfly e Aida. L’esordio della stagione operistica è stato affidato per quanto riguarda la regia al celebre critico della Barcaccia Enrico Stinchelli mentre della direzione musicale era incaricata Keri-Lynn Wilson. Stella di prima grandezza è risultata nella Traviata, l’opera di apertura della presente stagione, la giovane protagonista Maria Giovanna Agresta che, salernitana di origine, ha dato ottima prova di sé nella sua città, calandosi nel personaggio in maniera sentita con voce bellissima capace di districarsi con duttilità tra le difficoltà attribuite da Verdi a tale ruolo vocale. Ad esso si richiede l’astrazione del virtuosismo finalizzato allo spessore drammatico di un personaggio variegato e mobile nel suo divenire psicologico che compie forse per la prima volta nella storia dell’opera la rappresentazione di una sfaccettata psicologia avvicinando lo strumento irrealistico della musica e della vocalità alla veridicità del teatro parlato. Cosicché emozionante e vera è risultata la sua interpretazione: belli e vocalmente impeccabili i tanti momenti della partitura quali “Follie follie” e la successiva cabaletta “Sempre libera degg’io” del pri-
Salerno – TEATRO VERDI FELICE ESORDIO DELLA STAGIONE LIRICA E DI CONCERTI 2012 CON DUE CAPOLAVORI TRA ITALIA E FRANCIA: “LA TRAVIATA” E “LES PÊCHEURS DE PERLES”.
Sancta Susanna (ph Silvia Lelli)
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R. Di Giuseppe La stagione Lirica e di Concerti 2012 del teatro Verdi di Salerno si è aperta anche quest’anno, potremmo dire miracolosamete, visti i tempi, ma a maggior ragione
Traviata - Maria Agresta (ph. M. Pica)
esprimendo sonorità affascinanti e sfumate sotto la guida sapiente di Petrozziello. A completare il tutto le coreografie di Pina Testa e in maniera sostanziale la risposta adeguata dell’orchestra salernitana alle scelte stilistiche e musicali di uno spettacolo indimenticabile.
Rovigo – TEATRO SOCIALE RIGOLETTO
I Pescatori di perle (ph. M. Pica)
mo atto in cui la cantante ha mirabilmente tradotto la conflittualità della nascita del sentimento amoroso nel personaggio che viene a definirsi tra due peculiari caratteristiche, la capacità di amare e la frivolezza, o le esplosioni di passione quali l’ “Amami Alfredo” e ancora lo scavo interiore manifestato nella vocalità drammatica e frammentata del duetto con Germont del secondo atto e infine l’intensità espressiva del finale nel suo splendido “Addio del passato”. Ad affiancarla un giovane, Luciano Ganci, dotato tenore che ha sostituito all’ultimo momento Neil Shicoff in un convincente Alfredo e grande, anche se non più vocalmente ma per la sua presenza scenica Renato Bruson ormai mitico Germont. La direzione musicale della Wilson a capo del complesso filarmonico salernitano non ha avuto picchi particolari ma ha seguito con sensibilità la musica verdiana nel rispetto delle voci e del movimento scenico. Meno convincente, sebbene accurata, è stata la regia di Stinchelli autore anche di scene e costumi trasposti in epoca un po’successiva rispetto all’originale, nella Belle Époque. Pur nell’eleganza di questi ultimi e nel rispetto della “drammaturgia e della bellezza in sé del lavoro” l’eccesso di elementi simbolici ha reso in qualche tratto la messa in scena stucchevole: le grandi carte da gioco scelte a rappresentazione della vacuità del demi monde, la grande specchiera che riflette l’animo di Violetta, le immagini proiettate sullo sfondo a sottolineare alcuni passaggi drammatici e, forse di troppo, un personaggio enigmatico, una figura femminile che, in vesti simili a quelle di Violetta, in più momenti attraversa la scena e svela alla fine di essere il destino di morte che si impossessa della sua vita alla conclusione dell’opera. Ad arricchire lo spettacolo le coreografie di Pina Testa e l’apporto fondamentale del coro del teatro preparato da Luigi Petrozziello. Suggestivo comunque l’effetto complessivo dello spettacolo che ha prodotto consensi ed applausi entusiastici. A seguire, la seconda opera in cartellone
si è subito mostrata un vero gioiello della stagione: Les pêcheurs de perles di Bizet nella raffinatissima realizzazione del regista Riccardo Canessa congiunta alla direzione musicale di Daniel Oren che nell’affrontare la partitura del musicista francese ha fornito una lettura assolutamente densa e coerente con le tinte calde di una musica che traduce l’esotismo della storia e dell’ambientazione nella lontana isola di Ceylon in una chiave essenzialmente francese. La scelta di Canessa è stata quella di un esotismo mitigato giocato su colori vivaci ma non accesissimi e su scelte scenografiche stilizzate firmate da Fabio Arbetti, mai oleografiche, dove l’oriente è evocato solo da significative citazioni quali, rispettivamente nei tre atti, tre ombrelloni cerimoniali nel clima nebbioso dell’isola, le rovine di un tempio con un braccio enorme ricoperto di fiori sullo sfondo della giungla, una grande pagoda. In sintonia gli armoniosi costumi di Patrizia Balzeranno non privi di una linea che guarda al classico. Di classe l’apporto dei mezzi multimediali ad opera di Jean Baptiste Warluzel, con proiezioni che contribuivano con eleganza e discrezione alle atmosfere evocate. Su tutto ha dominato un cast d’eccezione: Desirée Rancatore una Lélia impeccabile nella vocalità agile e purissima e notevole interprete nella perfetta delineazione del personaggio diviso tra la ieraticità della sacerdotessa e la dolce sensualità femminile, Celso Albelo degnamente al suo fianco nelle vesti di Nadir, allo stesso tempo capace di inflessioni delicate e di passione nell’uso sicuro della sua vocalità tenorile che ha incantato nel lirismo del celebre “Je crois entendre encore” mentre sullo sfondo, nelle proiezioni, veli fluttuanti come meduse salgono magicamente verso l’alto. Intenso il baritono Luca Grassi dalla voce corposa ed efficace anche per doti attoriali nell’esprimere il conflitto tra l’amore, la gelosia, il senso dell’amicizia verso Nadir, infine il basso Alastair Miles sufficientemente solenne e vocalmente profondo nel ruolo di Nourabad. Il coro del teatro ha dato il meglio di sé
G. Mion Dopo ben tredici edizioni, finalmente l’opera ha fatto il suo ingresso nel cartellone del festival estivo “Tra ville e giardini”, presentando il Rigoletto verdiano in uno dei chiostri del Monastero di San Bartolomeo di Rovigo. Operazione dai costi molto contenuti, pur risultando di livello artistico tutt’altro che trascurabile: si è risparmiato forse sulle scene, ricorrendo a pochi attrezzi di base, ed affidando compiti descrittivi alle luci ed agli effetti, ma non per tutto il resto. Il cast come vedremo era decisamente interessante; l‘orchestra l’affiatata Filarmonia Veneta, compagine abitualmente presente sia nelle stagioni del teatro rodigino; il coro era l’ottimo Lirico Veneto nella sua sezione maschile; ed infine in veste di direttore era presente Stefano Romani, bacchetta di grande sicurezza e di saldo mestiere, che ha offerto una concertazione vigorosa, tempi sempre adeguati, buona tenuta narrativa. Rigoletto era affidato ad Elia Fabbian, grazie al quale la personalità umana dell’essere ferito dalla vita è scaturita spontanea, con una vocalità distesa ed una recitazione naturale; mancava però un po’ di eloquenza nei passi più drammatici, specie nell’invettiva ai cortigiani. Paola Cigna ha offerto una Gilda di buon livello, molto credibile scenicamente - la graziosa figura aiutava molto - e dipanata con grazia nei passi di agilità; il Duca del tenore coreano Jung Sang Lee era abbastanza persuasivo per la voce giovane e fresca, ben impostata, ma un po’ me-
Paolo Battaglia, Paola Cigna (ph M. Brondin)
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no quanto a mera recitazione, che appariva talora impacciata. Possente e ferino lo Sparafucile tratteggiato da Paolo Battaglia; apprezzabile la Maddalena di Claudia Marchi. Il resto del cast era completato dal bravo Christian Starinieri (un encomiabile Marullo), dal basso Enrico Rinaldo (solido Monterone), da Michela Bregantin (Giovanna), Gabriele Colombari (Borsa), Paolo Bergo (Ceprano), Simonetta Baldin (Contessa di Ceprano); il paggio era Silvia Celadin. Parliamo ora dello spettacolo in sé: le scene di Giulio Magnetto più che descrittive, volevano essere evocatrici di atmosfere mediante un palcoscenico nero e vuoto, talora occupato da solidi geometrici, e un sapiente gioco di luci. Unico vero neo, la ridotta altezza del piano visivo, che penalizzava la vista di quanti stavano nelle file arretrate. I costumi di Manuel Pedretti seguivano anch’essi questa traccia, prediligendo il nero - vedi la folla dei cortigiani e delle loro dame - e imponendo solitari squilli di colore purpureo (la camicia del Duca, la gonna di Maddalena) ed un candido biancore per Gilda. In elegantissimo nero anche le danzatrici che con gesti severi hanno dato maggior significato alla scena iniziale. Il regista Federico Bertolani non molto poteva inventarsi con un palcoscenico di dimensioni modeste, e quindi ha puntato più sulla recitazione del singolo che sul movimento di massa; buono il risultato complessivo del suo intervento, comunque. Pubblico molto numeroso e partecipe, come già detto, malgrado una serata umida e caldissima, e grandi applausi per tutti gli interpreti.
Perugia SAGRA MUSICALE UMBRA «La storia dell’arte sacra è attraversata da possenti raffigurazioni della lotta fra il Bene e il Male», ha detto Alberto Batisti, direttore artistico della Sagra Musicale Umbra, segnalando il filo conduttore della 67a edizione d’una delle più importanti manifestazioni musicali europee. E a ben vedere, già il programma del grande concerto sinfonico di apertura tenutosi il 7 settembre nel Teatro Morlacchi, ed affidato alla prestigiosa Royal Philarmonic Orchestra sotto la bacchetta di Charles Dutoit, esibiva due opposte concezioni estetiche, quella luminosa e classica di Mozart, con la Sinfonia n. 39 K 543, e quella decadente e passionale di Čaikovskij, con la sua Quinta Sinfonia, intensa riflessione psicologica sui capricci del Fato. La nitida visione del grande direttore francese ripercorreva le due partiture con sottile penetrazione, esaltandone ogni aspetto, mentre da parte sua la compagine londinese confermava uno storico affiatamento e l’indiscutibile livello di eccellenza dei suoi strumentisti. Risposta generosa ad un pubblico entusiasta, il bis del delizioso Valse triste di Sibelius in una raffinata lettura.
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La giornata seguente era tutta dedicata a Bach, iniziando con un concerto tenutosi nell’Auditorium del Conservatorio perugino. Sul palco, gli ottimi Solisti di Perugia guidati con perizia e garbo da Alberto Batisti nella cantata per la Festa della Purificazione della Vergine BWV 82, che nel suo testo riprende l’evangelico «Nunc Dimittis», vale a dire la serena preghiera del vecchio Simeone che dopo aver finalmente conosciuto il Salvatore prende congedo dal mondo. A dargli voce, la perizia inter- Royal Philarmonic Orchestra, dir. C. Dutoit pretativa del baritono Filippo (ph A. Scognamillo/Studio Puck) Bettoschi. Il concerto poi proseguiva con una brillante esecuzione della Suite BWV 1067, con il valente flauto di Massimo Marcelli. La sera poi, presso l’Abbazia di San Nicolò in San Gemini si incontrava il primo dei due concerti della Kölner Akademie, formazione strumentale e vocale guidata da Michael Alexander Willens. Ancora Bach, con le tre cantate dedicate alla figura di San Michele Arcangelo, “il grande guardiano di Israele” in lotta contro le forze del Male: Herr Gott, dich loben alle wir BWV 130, Es erhub siche ein Strit BWV 19, e Man singer mit Freuden vom Sieg BWV 149, scritte a Lipsia tra il 1724 ed il 1728. Composizioni fastose che comportano l’organico delle grandi occasioni, trombe e timpani compresi: sempre precisa e sfaccettata l’esecuzione della Kölner Akademie (coro perfetto e strumentisti d’eccellenza), che accompagnava il soprano Myriam Arbouz, l‘alto Ursula Eittinger, il tenore Jan Kobow ed il basso Thilo Dahlmann. Da parte sua, Michael Alexander Willens si è mostrato un concertatore duttiSan Bevignate le ed attentissimo, in grado di ricreare il giusto equilibrio tra severità lessicale e scioltezza esecutiva. Stessa compagine e percorso dalle voci tenorili di Andreas stesso direttore la serata seguente, in Karasiak e Jan Kobow, e da quella del un concerto ospitato nella chiesa di San basso Thilo Dahlmann. Bevignate fuori Perugia, già sede dell’Ordine dei Templari. Mozart, CherubiFerrara – TEATRO COMUNALE ni e la Massoneria il programma in locandina, che prevedeva l’esecuzione di RINALDO (HÄNDEL) tre lavori massonici del salisburghese G. Mattietti (Maistermusik per coro e orchestra K In periodi di crisi non si corrono rischi. 477a, e le due cantate Die Maurerfreude Anche i teatri d’opera preferiscono punK 471 e Laut verkünde unsre Freude K tare su spettacoli collaudati, come il Ri623), e due del fiorentino: la preghiera naldo di Pier Luigi Pizzi, ripreso dai TeaEcce panis angelorum per tenore ed ortri di Reggio Emilia, dal Teatro Alighieri chestra del 1816, e la prima esecuzione di Ravenna e dal teatro Comunale di assoluta della cantata massonica Ferrara, dove il pubblico è accorso numeAmphion, ou de l’Alliance de la Musique roso tributandoli alla fine lunghi applauà la Maçonnerie, ampollosa pagina per si. Si tratta di un allestimento che risale tenore coro ed orchestra del 1786, comal lontano 1985. Da allora il repertorio posta per la cooptazione del suo autore barocco si è molto ampliato, si è consolinella loggia massonica parigina L’Olymdato nei gusti del pubblico (soprattutto pique. È un lavoro non privo di una cernon italiano), si è sviluppata accanto alta grandezza esteriore ma freddo nella la ricerca filologica anche una freschissisua intima valenza, musica d’occasione ma tradizione interpretativa (testimoben rifinita e nulla di più; nondimeno niata dalla vasta discografia e videograsia in questo, sia nelle pagine mozartiafia delle opere händeliane – tanto per fane hanno brillato la concertazione di Mire un esempio - che nel 1985 erano quasi chael Alexander Willens e la bravura deluna rarità). la Kölner Akademie, ben coadiuvati nel
Lo spettacolo di Pizzi appariva così come un classico, elegante, sontuoso e raffinatissimo, dal gusto quasi “pittorico”, per la nella cura dei costumi, del trucco, delle acconciature, delle luci radenti, che gli davano un fascino quasi caravaggesco. Ma appariva anche un po’ polveroso, come un bell’oggetto di altri tempi, tirato giù da una soffitta. Tutti i personaggi si muovevano su grandi carrelli (spostati da un esercito di 24 mimi), che trasportavano anche destrieri, draghi, barche, cavalli. Era tutto un svolazzare di drappi e panneggi leggeri e colorati. Eppure rimaneva l’impressione di una grande staticità, di un teatro barocco più solenne che fantasmagorico, con una gestualità ingessata, movimentato solo qua e là da qualche uccellino, dalle fauci di un mostro gigantesco, dalla battaglia a cavallo nel terzo atto. Magnifica Delphine Galou nei panni di Rinaldo (sostituiva Marina de Liso, che aveva cantato nelle recite ravennati), mezzosoprano francese molto ricercata dai grandi interpreti del barocco: da Marc Minkowski (a Berlino, nel Trionfo del Tempo e del Disinganno) da Christophe Rousset (a Vienna, nel Ritorno d’Ulisse in patria) da Jordi Savall (col quale ha inciso per Naïve il Teuzzone di Vivaldi), ammirevole per competenza stilistica, finezza espressiva, qualità brunita del timbro, nitidezza nelle ornamentazioni. Forse scenicamente un po’ rigida, ma difficile valutare con questa regia statuaria. Più esangui le altre voci femminili: Maria Grazia Schiavo (Almirena) era in scena, ma indisposta, quindi le prestava la voce Rosanna Savoia che cantava in buca, in un gioco di playback che rendeva ancora più astratta la rappresentazione. Roberta Invernizzi, con la sua voce piccola negli acuti, inutilmente forzata nel registro centrale, scarsa nei virtuosismi, era inadatta a incarnare vocalmente la furia della maga Armida. Meglio del tenore Krystian Adam (Goffredo), con la sua voce leggera e poco appoggiata, hanno fatto i due bassi Riccardo Novaro (Argante) e Antonio Vincenzo Serra (Mago cristiano). L’Accademia Bizantina sfoggiava un bel suono, e Dantone, forte della sua esperienza, cercava di sottolineare i momenti drammaticamente più incalzanti, pur senza trovare sempre il giusto gioco di contrasti. Colpa anche dei numerosi tagli inflitti, purtroppo, alla partitura.
Martina Franca XXXVIII° FESTIVAL DELLA VALLE D’ITRIA
ARTASERSE G. Mion L’Artaserse fu uno dei maggiori tronfi letterari di Metastasio, posto in musica da un’ottantina almeno di compositori. Scritto nel 1729, lo intonò per primo Leonardo Vinci a Roma nel febbraio 1730, seguito a ruota da J.A.Hasse che appena un mese dopo lo propose al pubblico veneziano. Entrambe le versioni conobbero
Artaserse
immensa fortuna, ma disponendo di tre inarrivabili artisti quali Farinelli per la parte di Arbace, Nicolino Grimaldi per quella di Artabano, Francesca Cuzzoni per quella di Mandane, il ‘divino sassone‘ fece del suo melodramma un’autentica antologia di funambolismi belcantistici. Nondimeno, se consegnò ai tre personaggi arie di incredibile impegno vocale, non sacrificò la tenuta scenica generale, muovendosi con grande intelligenza e gusto, in modo da non sminuire né il versante drammatico né quello squisitamente musicale grazie alla sua felice vena melodica, alla capacità espressiva ed alla grande sapienza costruttiva. Sarebbe piaciuto anche a Rodolfo Celletti, creatore del Festival di Martina Franca, riprendere questa misconosciuta partitura barocca, posta in apertura della sua 38a edizione e radiotrasmessa in diretta dalla RAI. Sarebbe stato felice, come noi, di riascoltare il talento estremo di Franco Fagioli, atteso protagonista della serata dopo le precedenti, esaltanti performances martinesi della Rodelinda händeliana e dell’Aureliano rossiniano. Successi replicati con questo Artaserse, che ha veduto il controtenore argentino sfidare e superare con disinvolta eleganza le arditezze e le complessità del ruolo, senza sminuire la verosimiglianza del personaggio anche in complesse pagine sentimentali quali “Per questo dolce amplesso”. Né meno rilevante - a onor del vero - è parsa l‘attitudine alla coloratura e la proprietà stilistica di Sonia Prina e Maria Grazia Schiavo: interpreti raffinate e pregevoli dei ruoli non meno impegnativi certo di Artabano e Mandane, giustamente anch’esse gratificate dagli scroscianti applausi del pubblico del Palazzo Ducale martinese. Un gradino più sotto stavano l’Artaserse di Anicio Zorzi Giustinani, voce grave ben preparata cui solo mancava l’abbandono al personaggio, la Semira di Rosa Bove e il Megabise di Antonio Giovannini. L’organico originale del Teatro di S. Gio-
vanni Grisostomo, dove Artaserse vide la luce, era quello tipico delle sale veneziane, molti archi e pochi fiati; nondimeno Hasse seppe costruire una partitura variegata e ricca di colore, solo in parte messa in rilievo direzione di Corrado Rovaris, la quale procedeva placida e senza voli di fantasia, come un buon kappelmeister tedesco. Un vero peccato, perché il direttore bergamasco poteva trarre dai bravi componenti dell’Ensamble barocco dell’Orchestra Internazionale d’Italia ben più che una corretta ma ben poco coinvolgente lettura. Per la regia si è scomodato un nume quale Gabriele Lavia, senza però partorire granché: una vaga collocazione ottocentesca, l’idea di un putsch militare, i personaggi costretti a girare a vuoto. Che dire? Una regia un po’ buttata lì, apparentemente poco interessata al soggetto. Modeste le invenzioni sceniche di Alessandro Camera, consistenti in alte strutture lignee sempre in movimento, che dovevano suggerire una dimora regale; alquanto ordinari gli abiti ‘800 di Andrea Viotti.
ZAIRA Vi era molta attesa per il recupero di Zaira, l’opera che Bellini compose per l’inaugurazione del ‘Nuovo Ducal Teatro’ di Parma, l’attuale Regio. Che non fosse un capolavoro, se ne accorsero già allora i parmensi che l’accolsero freddamente: debole la struttura drammaturgica, minima la delineazione dei personaggi. Solo la musica valeva qualcosa, ma questo passò in secondo piano. Non a caso il catanese ne trasfuse e parafrasò gran parte ne I Capuleti e i Montecchi, melodramma questo sì intenso e convincente grazie all’aleggiare dello spirito shakespiriano, e che infatti prese subito il volo senza mai più posarsi. Dopo di allora, salvo un’infelice ripresa fiorentina del 1836, di Zaira si persero le tracce sino alle poche, rarissime riesumazioni dal 1976 ad oggi. In vista di questa ripresa
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Zaira
martinese si è operato criticamente sulle fonti originali, e l’interesse per questo parto minore si è subito ridestato. Musica a parte, che ha i suoi motivi d’interesse, resta la modestia e la noia del libretto; e qui la regia di Rosetta Cucchi nell’intento di tenere avvinto l’interesse dello spettatore, ha voluto far troppo e deluso le aspettative. I due i piani di lettura imposti dalla Cucchi costringevano infatti ad una defatigante doppia visione orizzontale, che purtroppo sminuiva la frazione belliniana: sopra, la storia della schiava francese combattuta tra religione, amor di patria e passione per il sultano di Gerusalemme, con un po’ di Crociati reclusi nelle segrete: qui si restava fedeli ai versi del Romani, con i cantanti in costume; nel piano inferiore, in accurata sincronia, l’attualizzazione della storia. Una reporter occidentale viene rapita da estremisti islamici e tenuta prigioniera in un sordido carcere dove si tortura, si stupra, si pone in atto ogni cruda violenza. Uno dei jihadisti però finisce per innamorarsi della giornalista e trattarla, tra gli orrori generali, con un minimo di pietà. Nell’insieme una visione dei fatti realistica ma da stomaci forti, sin troppo coinvolgente; e che prevarica nettamente su quanto narrato al piano di sopra. Alla fine Osmane uccide Zaira, salvo scoprire che non gli era affatto infedele (e il terrorista ammazza la donna quando cerca di fuggire): perché venga però tagliato del tutto il Finale, con Osmane che per il dolore si toglie la vita, resterà per tutti un mistero. La direzione di Giacomo Sagripanti ha colto bene il senso della partitura belliniana, leggendola in profondità, ma con il lieve demerito d’aver adottato tempi troppo larghi. È un direttore giovane e capace dalla carriera promettente, ma che deve ancora maturare sul campo le giuste scelte. Deludente la Zaira del soprano Saioa Hernández: voce potente sì, ma troppo scura per il personaggio, e poi priva di flessibilità e morbidezza. Molto di più ha convinto il mezzosoprano Anna Malavasi nello scabroso ruolo en travesti di Nerestano, dipanato con bel mestiere; incisivo l’Osmane di Simone Alberghini, modesto il Corasmino di Enea Scala, nobilmente tratteggiato il vecchio Lusi-
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gnano da parte del basso Abramo Rosalen. Le scene di Tiziano Santi sostenevano a dovere l’idea iniziale: una grande scalinata lignea sopra, tutta aperta, e alcuni ambienti chiusi sotto, per le opprimenti prigioni di Gerusalemme o le ancor più sinistre carceri dei jihadisti. Costumi da Mille e una notte per Bellini, ovviamente attuali per gli altri, tutti disegnati da Claudia Pernigotti.
NÛR Opera da camera in un atto su libretto di Vincenzo Vivo e con musica di Marco Taralli, Nûr (cioè Luce in arabo) rappresentava per il Festival di Martina Franca, dedicato di norma al recupero del passato, una proiezione sull’avanti, sull’oggi, una scommessa con il suo pubblico. De Vivo ha scritto un testo teatrale singolare - forse anche un po’ pretenzioso - partendo da un’idea di Marco Buticchi ambientandolo in un ospedale da campo all’indomani del terremoto de L’Aquila. Qui una anziana donna cieca e senza memoria, ricoverata con altri feriti, ritrova il figlio strappatole tanti anni prima per un ripugnante pregiudizio razziale. Nelle sue allucinate visioni dialogano due famosi personaggi del passato, il monaco Pietro da Morrone -
Nûr (ph Laera - Martina Franca)
il futuro papa Celestino V, quello del «gran rifiuto» dantesco - e Jacques De Molay, l’ultimo Maestro dei Templari messo al rogo come eretico, impegnati in discorsi di pace e di perdono, guide spirituali per l’anima della protagonista nel suo cammino verso la Luce della propria coscienza. Musicalmente, Marco Taralli - classe 1967, attivo da un decennio come compositore - ha costruito una partitura dai tratti assai eterogenei, affidata ad un complesso cameristico di legni, ottoni, archi e percussioni, nella quale convive di tutto: reminescenze pucciniane, sperimentalismo Anni Trenta alla Hindemith e alla Šostacovi , stravaganze stravinskiane, avanguardia alla Sciarrino e via di questo passo, in una ipertrofia di linguaggi talora ben amministrata, talora disomogenea, alla lunga un pochino tediosa. Una sorta di gran minestrone, insomma, nel quale si faticano a distinguere i singoli sapori. Quanto agli interpreti: la vocalità di Tiziana Fabbricini (Luce) è ormai inconsistente, si salva solo sul versante attoriale; i due tenori, David Sotgiu (De Molay) e David Ferri Durà (Samir) se la sono cavata abbastanza bene; superba la prestazione del sempre verde Paolo Coni nelle vesti di Pietro da Morrone. Jordi Barnácer ha tenuto salde le redini dell’Ensamble dell’Orchestra Internazionale d’Italia con una concertazione tesa e serrata. Per Nûr, il bravissimo (e mi pare talvolta sottovalutato) Roberto Recchia ha congegnato una regia di notevole impatto emotivo, pur dovendo fare i conti con l‘esiguo palcoscenico del Teatro Verdi. Poche immagini in campo, ma lucide e ben sviluppate: basti pensare alla scena in cui una donna ferita assiste al salvataggio del figlio, mentre un’altra culla tra le braccia il figlio morto nel tentativo di allattarlo. Momenti di una forza impressionante, quasi fosse una moderna pietas michelangiolesca. Semplici ma perfettamente conformate allo scopo prefisso le scene di Benito Leonori, che ha realizzato anche i costumi.
Dobbiaco FESTIVAL DEL SUD TIROLO ALZIRA Incastonata temporalmente tra Giovanna d’Arco ed Attila, l’ottava fatica teatrale di Verdi - cioè l’Alzira - non ha mai avuto vita facile. Le recite napoletane dell’agosto 1845 non furono un mezzo disastro, come talora si narra; ma neppure seppero suscitare grande interesse, come poi accadde a Milano ed altrove, sino alla definitiva e prematura scomparsa dal repertorio. Vale in questo caso, più che la stroncatura che le diede l’autore stesso la celebre, lapidaria affermazione «Quella è proprio brutta» - il sereno giudizio di Massimo Mila, quando identificava i momenti salienti della partitura nella Sinfonia, nell’aria di sortita di Gusmano, nella cavatina di Alzira «Da Gusman, su fragil barca» (e la cabaletta seguente), nel duetto Alzira/Zamoro, in tutto il finale dell’atto primo; e poi, passando al secondo, nel forte duetto Alzira/Gusmano «Il pianto, l’angoscia», e nella bella aria di Zamoro «Irne lungi ancor dovrei». Per poi individuarne pure gli innegabili difetti generali: il recitativo sempre troppo sbrigativo, gli accompagnamenti cadenzati e comuni, una conclusione fragorosa che sciupa assurdamente il precedente crescendo di interesse. “Purtroppo la natura dell’arte…è tale che una piccola percentuale cattiva nuoce alle parti buone, assai più di quanto possa giovare la presenza del buono in mezzo ad elementi scadenti”, commentava ancora Mila concludendo che, anche a causa di un libretto assai convenzionale né particolarmente brillante, pur essendo “non trascurata né sciatta, Alzira è tuttavia quella che fra le opere giovanili di Verdi mostra le minori inquietudini di ricerca drammatica». Con queste infelici premesse, rarissimo poterla ancora ascoltare; l’ultima occasione importante a Parma, giusto dieci anni fa, inserita nel Festival Verdi sotto la guida di Bartoletti. Occasione dunque preziosa dell‘Alto Adige Festival di Dobbiaco, che da tre anni recupera un titolo di scarsa circolazione affidato alla vigile bacchetta di Gustav Kuhn - il mèntore della manifestazione sudtirolese - che l’ha offerta lo scorso settembre in forma di concerto alla Gustav Mahler Saal. Il carisma e l’entusiasmo del direttore austriaco nell’affrontare una pagina così poco frequentata ma pure sempre interessante, hanno contagiato l’orchestra Haydn di Trento e Bolzano, in forma eccellente: tensione sempre nervosa, accompagnamento brillante, atmosfere centrate, grande musicalità evidente non tanto negli squarci strumentali, quanto in un sostegno solido e possente agli interpreti. Qualche perplessità invece sul versante delle voci, soprattutto per l’Alzira del soprano giapponese Junko Saito: una voce abbastanza interessante e di temperamento, ma che nei fatti qui evidenziava un’emissione alquanto perigliosa, con fa-
Alzira
ticoso controllo dei piano e con mezze voci poco consistenti, e all’insù acuti taglienti e forzati sino al limite (talora sorpassato) del grido. Fastidiosa poi la dizione, negligente e non sempre chiara (vedi un «Ci fia?» per «Chi fia?), altro peccato difficilmente perdonabile. Assai meglio figurava per dire, pur nella parte ‘secondaria’ di Zuma, la nostra brava e graziosa Anna Lucia Nardi. Più apprezzabili le cose sul versante maschile: il bavarese Ferdinand von Bothmer conferiva statuario risalto alla figura di Zamoro, grazie ad una vocalità tenorile generosa, abbastanza attenta a quel fraseggio ed a quell’accento che il Verdi giovanile pretende dai suoi interpreti; Thomas Gazheli sapeva tratteggiare a dovere, con voce potente e con giusto stile la figura un po’ ambivalente di Gusmano, psicologicamente non certo semplice; il basso Francesco Facini scolpiva un Alvaro nobile e virile, grazie ad una voce bella e ben calibrata in profondità; positiva prova di Joshua Lindsay e Joe Tsuchikazi nei panni di Ovando e di Otumbo. Ottima prestazione del coro dobbiacense (ma di fatto proveniente dal festival austriaco di Erl) preparato da Marco Medved. La serata è stata videoregistrata dalla Unitel, in vista dell’inserimento in un’opera omnia verdiana che sarà edita per le prossime celebrazioni del 2013.
In certi momenti ci è parso di trovarci immersi in quadri scenografici di grande bellezza che richiamano alla memoria gli splendidi presepi napoletani popolati da molteplici personaggi e quello che ci ha colpito maggiormente sono stati i coloratissimi costumi di Maurizio Millenotti curati nei minimi particolari: quale meraviglia di spettacolarità. Zeffirelli comunque ha saputo costruire un imponente palazzo del settecento che si sviluppa con l’aiuto di colonne decorate in godibilissime e suggestive prospettive dove l’uso adeguato delle luci completano il tutto. E su questa scenografia si è mossa anche la sua regia. Il novantenne maestro ha ben saputo gestire non solo le masse ma si è soffermato nei particolari per quel che riguarda i personaggi principali. Don Giovanni è messo in evidenza come autentico libertino seduttore e Ildebran-
Verona – ARENA DON GIOVANNI G. Franchini Verona ha inaugurato la sua stagione lirica estiva con un titolo inconsueto e mai rappresentato finora nel grande spazio areniano. Si tratta di “Don Giovanni” e ovviamente viene subito da pensare che quest’opera di Mozart, che non prevede l’utilizzo di grandi masse, sia inadatta ad un tale palcoscenico. Niente di più sbagliato poiché Franco Zeffirelli ci ha letteralmente sbalorditi confezionando uno spettacolo assolutamente strepitoso dal punto di vista visivo.
Ildebrando D’Arcangelo (ph Ennevi)
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do D’Arcangelo ci ha convinti sia per prestanza scenica sia per emissione vocale. E che ottimo interprete è stato anche Marco Vinco quale Leporello, decisamente una coppia vincente. Lo spettacolo ovviamente gode di momenti di intimità, non fa parte del grand’opera e soprattutto nel finale lascia spazio ad un lugubre cimitero popolato da tombe monumentali. Ed è in questi passaggi intimi che maggiormente emergono qualità e pecche dei cantanti. Nel complesso tutto il cast è risultato all’altezza della situazione e oltre ai due cantanti citati mettiamo in primo luogo Carmen Giannattasio nel ruolo di Donna Elvira. Masetto e Zerlina erano alla recita a noi riservata i freschissimi Vincenzo Taormina e Christel Lotzsch. Molto apprezzato e aderente al personaggio di Don Ottavio Saimir Pirgu mentre Donna Anna era Anna Samuil e il commendatore Gudjon Oskarsson. A dirigere Daniel Oren che ovviamente ha saputo tenere bene insieme orchestra e palcoscenico seppure alle prese con una partitura a lui poco congeniale. La stagione è proseguita con riprese di produzioni precedenti e precisamente “Aida” nel collaudato allestimento di Gianfranco De Bosio ovvero la ricostruzione dell’edizione 1913 che per la cronaca ritornerà ancora nella prossima stagione, quella del centenario, insieme ad una nuova edizione realizzata da La Fura dels Baus. “Carmen” e “Turandot” di Zeffirelli, “Tosca” di De Ana nonché “Romeo e Giulietta” di Francesco Micheli.
Seattle ATTILA V. Coppo La grande attesa per il ritorno di Attila, assente dalle scene di Seattle da oltre venticinque anni, non è stata delusa e il successo riscosso è stato notevole. Gli interpreti, John Relyea (Attila), Ana Lucrecia Garcia (Odabella), Antonello Palombi (Foresto) e Marco Vratogna ( Ezio), supportati dalla direzione musicale di Carlo Montanaro e dalla regia di Bernard Uzan, hanno presentato al pubblico una convincente versione dell’opera verdiana la cui collocazione storico-temporale è stata estesa ben al di là del periodo risorgimentale del cui clima essa è impregnata. Infatti, l’allestimento scenico disegnato da Charles Edwards sembrava appositamente creato per essere “ senza tempo in ogni tempo”, con riferimenti a edifici storici romani in decadenza, contestualizzati con quelli di un quartier generale militare con tanto di graffito ‘A’ color rosso sangue e gigantografia propagandistica del re unno di chiaro riferimento totalitarista. I costumi dei sudditi richiamavano tute mimetiche, mentre Attila era vestito di pelliccia ed Ezio indossava una divisa rosso fuoco. Non sono man-
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cati i riferimenti alla visione universalistica di guerra come distruzione e sofferenza: immediatamente prima che iniziasse la musica, alcuni colpi di arma da fuoco hanno presentato la caduta di Aquileia. Per quanto riguarda gli interpreti, John Relyea (Attila), di ritorno a Seattle dopo aver interpretato lo stesso ruolo a Washington DC, si e’ fatto apprezzare per il suo timbro rotondo e pieno, il cui range vocale si addice perfettamente alla tessitura scritta per il condottiero unno. Egli stesso, in un’intervista rilasciata a “Opera News”, ha dichiarato “Attila è [una tessitura] ideale per me...la grande aria e cabaletta sono scritte nel registro medio della voce per buona parte della melodia...e questo si addice bene al mio profilo.” Molto ben eseguita era infatti l’aria del primo atto, che ha messo in luce i riflessi baritonali della sua voce e la sua naturale flessibilità anche nel registro acuto: scenicamente è stato un Attila spavaldo e risoluto, ben poco intimorito dal sogno premonitore della prossima disfatta. Ana Lucrecia Garcia (Odabella), apparsa recentemente al Teatro alla Scala nel medesimo ruolo, ha saputo piegare la sua voce, dotata di buona estensione e di solida tecnica, ai passaggi più impervi di agilità drammatica. Dotata di buona omogeneità nel passaggio di registro, ha eseguito con eleganza e morbidezza sia i passi legati, sia quelli caratterizzati da ampi salti intervallari. Odabella è un ruolo molto impegnativo, soprattutto alla luce del fatto che in Verdi le agilità e i virtuosismi descrivono stati emotivi, intensi e passionali, e richiedono pertanto una esecuzione vigorosa ma armoniosa, energica ma fluida. Grande la prova di Marco Vratogna, perfetto baritono verdiano, dotato di ottima estensione vocale, morbidezza di emissione, solida tecnica e varietà di fraseggio, qualità emerse sia nel duetto con Attila del prologo sia nell’aria del secondo atto. Ottima anche l’interpretazione di Antonello Palombi, un Foresto malinconico e confuso, dalla vocalità chiara e squillante, ben controllata e supportata da una sapiente gestione delle dinamiche. Belle sia la cavatina nella scena settima del prologo, sia la languida e sentimentale romanza del terzo atto. Altri interpreti erano Jason Slayden (Uldino), al suo debutto a Seattle, voce giovane e non ancora perfettamente formata e Michael Devlin (Leone), basso-baritono di Chicago. Carlo Montanaro ha egregiamente condotto l’orchestra con struggente passione ed energia, trascinandola con impeto e dinamismo costanti, e regalando al pubblico intense emozioni.
ORFÉE ET EURYDICE Dopo un’assenza di ventiquattro anni, è tornato sulle scene di Seattle Orphée et Eurydice di Cristoph Willibald Gluck. William Burden (Orphée), Davinia Rodriguez (Eurydice) e Julianne Gearhart (Amour) hanno incantato il pubblico per
la loro eleganza e intensità drammatica. Già noti al pubblico di Seattle sia il direttore d’orchestra Gary Thor Wedow, di ritorno dopo il successo della Zauberflöte del 2011, sia il regista José Maria Condemi, presente nel 2007 con La bohème e nel 2009 con Il trovatore; esordio invece su questo palcoscenico per il coreografo Yannis Adoniou. L’allestimento ha mostrato una buona coerenza complessiva: le scene, in particolare, si basavano su linee essenziali in cui la scelta delle linee e dei colori si sposavano con la visione del compositore di considerare l’opera come le arti figurative, per cui la situazione drammatica viene descritta, o meglio dipinta, suscitando nello spettatore le stesse emozioni di un quadro. Buone le scelte registiche: il primo atto si apriva con Orfeo e il coro ai lati di un grande albero privo di foglie, ma con un possente ramo trasversale proprio al centro della scena, con lo scopo di centrare lo svolgimento del dramma attorno a esso. Emozionante la scena delle furie, dove i bellissimi costumi del coro, ispirati alla visione estetica della celebre danzatrice Martha Graham, hanno ricreato un’atmosfera da girone dantesco, con colori cupi e con i danzatori che muovevano i loro corpi a imitazione della mitica, mostruosa Idra. Essenziale la scena dei Campi Elisi, dai colori scontati (azzurro lo sfondo e collina con prati verdi e fiori) e dai costumi minimalisti, che ha consentito sia ai ballerini che ai cantanti di muoversi sempre in posizione centrale. Yannis Adoniou ( greco di nascita, ma ormai stabile a San Francisco), ha realizzato un “balletto-pantomima” sul modello originario di Gasparo Angiolini, il coreografo che collaborò con Gluck e Calzabigi, ricco di valenza drammaturgica: il balletto dell’Ade evocava le fiamme e i tentativi di respingere gli intrusi attraverso movimenti circolari e improvvisi salti, mentre nei Campi Elisi la danza era integrata da elementi narrativi che costituivano una chiara anticipazione dello sguardo di Orfeo che provocherà la morte di Euridice. Nell’impegnativo ruolo di Orphée ha riscosso un vivo successo William Burden, di ritorno a Seattle dopo le interpretazioni, nel 2010, di Edgardo in Lucia di Lammermoor e di Dodge in Amelia. Voce chiara e brillante, ha convinto per le sue naturali doti drammatiche. Il buon impiego tecnico delle dinamiche ha contribuito a esaltare l’espressività poetica del testo e a definire il profilo del personaggio. L’Eurydice di Davinia Rodriguez possiede tutta la delicatezza ed eleganza del carattere gluckiano, con timbro dolce, buon legato ed emissione morbida. Julianne Gearhart, nei panni di Amour, viene dal Seattle Opera Young Artist, dove si è perfezionata: voce dolce e fluida, ma anche rotonda e intensa, è dotata di grande intensità interpretativa. Ottimi sia il coro sia l’orchestra, che sotto la direzione di Wedow ha magistralmente
supportato i cantanti in scena e intensificato la struggente eleganza della musica di Gluck. Gluck and the operaOn openlibrary.org
MADAMA BUTTERFLY Con la presenza di oltre settemilacinquecento spettatori in quindici giorni di rappresentazioni, Madama Butterfly di Giacomo Puccini ha segnato la conclusione della stagione 2011-2012 del Seattle Opera. Una stagione ricca di soddisfazioni sia per il pubblico sia per il Direttore Generale Speight Jenkins, sotto la sua cui direzione il teatro è cresciuto per fama e per qualità artistica. Non solo il McCaw è diventato punto di riferimento internazionale per gli appassionati wagneriani (Der Ring des Nibelungen verrà ripresentato nell’agosto 2013), ma, in occasione proprio di questa Butterfly, per la prima volta è stata realizzata una trasmissione in simulcast presso il KeyArena per celebrare il cinquantenario della fondazione del Seattle Center e del Seattle Opera, che avvenne in occasione della Esposizione Mondiale del 1962. Nel ruolo di Cio-Cio-San c’era Patricia Racette, acclamata tra le migliori interpreti pucciniane presenti attualmente sulla scena internazionale, che ha recentemente interpretato lo stesso ruolo al Metropolitan Opera, ed è stata Tosca a Huston, nonché Giorgetta, Angelica e Lauretta nel Trittico a San Francisco. Tra gli altri interpreti, Stefano Secco (Pinkerton), Brett Polegato (Sharpless), Sarah Larsen (Suzuki), Doug Jones (Goro) e Carissa Castaldo (Kate). La Racette ha decisamente monopolizzato la scena con la sua bravura e la sua personalità: vocalmente perfetta, possiede un timbro pieno e rotondo fino alle note più acute, e si avvale di legati morbidissimi che le consentono un ampio grado di libertà interpretativa e una perfetta esecuzione dei minimi dettagli. La sua presenza scenica è di livello costantemente alto, ma più di ogni altra cosa emerge la sua volontà di entrare totalmente nel personaggio e mostrarne senza timore i lati più emotivamente nascosti. Di lei è stato scritto: “Espone il suo carattere al mondo crudele e sembra pronta a farsi schiacciare, ma la sua abilità nel farsi vulnerabile in scena sembra affermare la pienezza della sua propria vita emotiva”. (Oussama Zahr, Opera News, 2011). L’eroina pucciniana della Racette vive la pienezza della gioia giovanile aspirando a una vita diversa, ingenua e sognante, che matura e si scurisce nel dubbio che come in un lampo diventa realtà, e che la farà ripiombare nel disonore e nella vergogna a cui non riesce a sopravvivere. Convincente l’interpretazione del tenore Stefano Secco, dal timbro chiaro e squillante, un Pinkerton che non dà voce solo a una sciovinista spavalderia militare americana, o all’antagonismo culturale fra Oriente e Occidente, ma sa anche manifestare espressioni di tene-
rezza e rimorso e fa emergere, nella sua incapacità di confrontarsi con Butterfly, la superiorità emotiva di quest’ultima. Voce interessante quella della Suzuki di Sarah Larsen, brillante e ricca di colori, morbida e agile: sarà la protagonista della rossiniana Cenerentola in programma per la prossima stagione. Buona la prestazione degli altri cantanti, in particolare il baritono Brett Polegato, dall’emissione calibrata e pastosa, che è stato uno Sharpless tenero e malinconico nel guardare con rassegnazione all’ inevitabile, tragico destino della protagonista. Una regia sobria, quella di Peter Kazaras che, con i costumi disegnati da Susan Benson per la Canadian Opera Company, ha scelto una neutralità scenica di tinte pastello, su cui ha potuto giocare con semplici effetti speciali quali ombre cinesi o minimi movimenti degli elementi mobili di scena, lasciando ampio spazio ai cantanti. Il direttore bulgaro Julian Kovatchev ha dimostrato di possedere una profonda conoscenza delle voci, e ha perfettamente coniugato la prestazione dell’orchestra con quella degli interpreti vocali.
CONCERTO DI RENÉE FLEMING In una sala gremita di ammiratori, Renée Fleming ha incantato il pubblico del Benaroya Hall, sede della Symphony Orchestra di Seattle, con un programma che ha confermato le sue grandi qualità vocali e la sua versatilità in diversi generi musicali. Definita “la voce più bella d’America” Renée Fleming ha costruito il suo successo attraverso un ampio spettro di stili musicali, dal belcanto al verismo, dal jazz alla musica leggera. Tre volte vincitrice del prestigioso “Grammy Award” per le voci liriche con incisioni di arie di Bellini, Rossini, Donizetti e Puccini, ha cantato sotto la direzione di grandi direttori d’orchestra come James Levine, James Conlon, Georg Solti e Claudio Abbado. Ha cantato alla cerimonia di insediamento del Presidente Obama al Lincoln Memorial e, lo scorso anno, alla commemorazione delle vittime del 11 settembre 2001. Dotata di naturale eleganza e facilità nell’emissione, la Fleming ha cantato in modo impeccabile, con una morbidezza nelle transizioni di registro che sottolinea la sua eccezionale estensione e la perfetta tecnica vocale. Accompagnata dall’Orchestra Sinfonica di Seattle diretta da Ludovic Morlot, ha esordito con Sheherazade, il ciclo di tre poesie ( Asie, La flûte enchantée e L’indifférent ) per voce e orchestra di Maurice Ravel su testo di Léon Leclère, meglio noto sotto lo pseudonimo wagneriano di Tristan Klingsor. Eseguita per la prima volta nel 1904 alla Société Nationale de Musique di Parigi dal mezzo soprano Jeanne Hatto, Sheherazade esprime, con il suo linguaggio descrittivo ed evocativo impregnato di melodie orientali e denso di
sensualità, la simultaneità di immagini poetiche, come l’evocazione del dolce rollare della barca sulle onde, o dell’Asia misteriosa e incantata o, come ne L’indifferent, l’attrazione per un “jeune étranger”. La Fleming ha saputo cogliere tutta la magia e l’eleganza del fraseggio giocando magistralmente con le dinamiche e le agogiche presenti nel testo ed esaltando il linguaggio musicale con articolazione, scansione e accento impeccabili. Dal grave all’acuto la sue emissione è sempre morbida e agile, ricca di sfumature e arricchita da un legato perfetto. Dopo la celebre “Aria dei gioielli” dal Faust di Gounod, il “Vilja Lied” dalla Lustige Witwe di Lehar e il “Marietta Lied” da Die tote Stadt di Korngold, a conferma della sua versatilità, la Fleming ha eseguito tre brani di tutt’altro genere il primo dei quali, Endlessy, appartiene al repertorio del gruppo rock inglese “Muse”, i cui componenti sono noti per la particolarità del genere musicale che praticano, influenzato da musica elettronica, glam, prog rock, heavy metal e anche musica classica. Si tratta di una canzone d’amore, costruita su una linea vocale ritmica e ipnotica, in cui la vocalità sfoggiata dalla Fleming era rotonda e profonda, ricca di colori e armonici, basata su tonalità tipiche della voce parlata, a conferma del percorso di ricerca su diverse forme espressive e interpretative che la cantante sta portando avanti. Anche in Night Flight to San Francisco, del compositore americano Ricky Ian Gordon, autore di musica vocale ad ampio spettro, dal musical all’opera, la cantante ha dato prova di grande espressività vocale, sorprendendo quindi il pubblico con l’interpretazione di una canzone scritta da Benjamin Gibbard, compositore di musica grunge di Seattle, dal titolo Soul Meets Body. Gibbard e il suo gruppo Death Cab for Cutie si inspirano alle alternative musicali degli anni ’90 del Novecento, tra cui i Nirvana, e alla letteratura americana della “beat generation” di Kerouak, esprimendo la tensione non risolta tra il mondo materiale tipico dei paesi occidentali e la ricerca spirituale. Del compositore canadese Leonard Cohen il soprano ha interpretato poi l’iconica canzone “Hallelujah”, scritta nel 1984 e divenuta subito famosa. Il concerto si è quindi concluso con due arie e una canzone fuori programma: “Io son l’umile ancella” da Adriana Lecouvreur di Cilea, “O mio babbino caro” da Gianni Schicchi di Puccini e “ We hold these truths” di Todd Frazier. In una recente intervista, la cantante ha dichiarato che il programma del concerto di Seattle “è definitivamente quello a cui mi sto dedicando ora, e offre un più ampio quadro dello stato della mia voce”. E sicuramente, al vertice della sua carriera artistica, Renée Fleming appartiene al novero delle cantanti che hanno rivoluzionato il costume interpretativo.
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Londra – COVEN GARDEN FALSTAFF G. Mattietti Al Covent Garden è andato in scena il nuovo Falstaff di Robert Carsen coprodotto con la Canadian Opera Company e la Scala (dove sarà diretto nel 2013 da Harding). Il regista canadese è stato attratto soprattutto dal dinamismo dell’opera verdiana («è un’opera che non si ferma mai. È incredibile come Boito abbia condensato tre commedie di Shakespeare in un libretto così brillante») e ha trasportato la vicenda nell’Inghilterra degli anni 50, nel confronto tra una middle class in ascesa (incarnata da Ford e dalla sua famiglia) e un’aristocrazia in declino (incarnata da Falstaff). I costumi retro, eleganti e coloratissimi, di Brigitte Reiffenstuel, i geometrici spazi scenici disegnati da Paul Steinberg contribuivano efficacemente a questa trasposizione, insieme al veloce gioco di luci che seguiva il ritmo della musica e sembrava adattarsi alle diverse atmosfere emotive dell’opera. Il primo atto si svolgeva all’interno di un ristorante, con tavoli apparecchiati e una grande boiserie di legno chiaro alle pareti: un armadio in disordine e un grande letto nella prima scena, grandi lampadari e clienti accomodati nella seconda, con il quartetto delle donne – bravissime - a un tavolo, Ford con Bardolfo e Pistola, simili a due gangster, ad un altro tavolo. Tra i camerieri che scorrazzavano dappertutto, a servire, a presentare il conto, c’era anche Fenton che poi furtivamente amoreggiava con Nanetta sotto a un tavolo. Il secondo atto si apriva su una specie di elegante smoking room, un club per aristocratici, simbolo dei bei tempi andati, con poltrone in pelle, quadri di cavalli, Falstaff che arrivava in abito di tweed e panciotto, Ford che irrompeva, con fare rozzo e tracotante, come un cowboy o un petroliere texano, con anelloni, stivali, e una valigetta piena di dollari. Nella scena seguente la casa di Ford era trasformata in una cucina, enorme e dai colori sgargianti, che sembrava uscita da una pubblicità di elettrodomestici degli anni 50, con perfette casalinghe, e un’enorme finestra che sembrava aspettare solo la defenestrazione di Falstaff. Il terzo atto iniziava invece in una stalla, dove Falstaff si riprendeva dal tonfo nell’acqua del Tamigi, adagiato su un mucchio di fieno, in una situazione assai comica accentuata dalla presenza di un cavallo (vero) che lo fissava incuriosito. Le pareti della stalla si aprivano poi su un grande cielo stellato che sovrastava l’ultima scena, spoglia, senza la quercia di Herne (ma le grandi pareti in radica!), dove l’atmosfera misteriosa fatta di luci e di fumi, si dissolveva alla fine in una gioiosa sfilata di tutti i personaggi su un lungo tavolo, ritmata sul canone «Tutto nel mondo è burla». Spettacolo riuscitissimo, e pubblico in delirio, anche per l’eccellente prova offerta da Daniele Gatti sul podio, che ha estratto dalla par-
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Falstaff - Ambrogio Maestri (ph Ashmore)
titura un suono trasparente, tagliente e leggero, dalle nitide scansioni ritmiche e con un perfetto equilibrio tra la buca e il palcoscenico. Immenso, per stazza e per bravura, il Falstaff di Ambrogio Maestri, vocalmente duttile, capace di alternare una voce tonate e passaggi aggraziati e sensuali, teatralmente naturalissimo nel rendere il suo carattere gioioso, generoso, emotivo, buffo in tutte le sue mise, dai mutandoni del primo atto alla tenuta rossa, da caccia alla volpe, con la quale si presentava all’appuntamento galante. Ottimo anche il resto del cast, con un’esuberante Marie-Nicole Lemieux, nei panni di Mrs. Quickly, intrigante, ironica, dalla voce rotonda e la gestualità ammiccante, un’elegante Ana María Martínez nei panni di Alice, la Nanetta di Amanda Forsythe dall’espressività dolce e dal timbro vellutato, la coppia Bardolfo e Pistola (rispettivamente Alasdair Elliott e Lukas Jakobski), comici anche come figure, uno alto e uno basso, un po’ Gianni e Pinotto.
Wasser - S. Maria Sun - Boris Grappe
Francoforte WASSER Già applaudita alla Biennale di Monaco, Wasser (acqua), prima opera di Arnulf Herrmann, è approdata con successo anche all’Opera di Francoforte, che la coproduceva. Opera musicalmente raffinata, piena di invenzioni timbriche e strumentali, ricca di parti vocali e di concertati, molto efficace dal punto di vista drammatico, nella sua rappresentazione della irreversibilità degli eventi e di uno stato mentale in cui si mescolano ricordi e incubi, si evoca la sofferenza per la perdita di una persona amata (come una rilettura del mito di Orfeo e Euridice). Protagonista della storia è Robert, un uomo che si risveglia, una sera, in una camera di hotel, completamente disorientato. Va nella lobby, dove c’è un party, ma dove tutto appare strano, distorto, fuori sincrono. Ha l’impressione di conoscere quella
gente - ma non riesce a ricordare - forse anche una donna, Katja, che danza e canta in pubblico. Quell’immagine si sovrappone a quella della moglie scomparsa, generando in lui profondo turbamento, un riaffiorare confuso di sentimenti, un mondo di affetti inafferrabile, che alla fine si dissolve, come un sogno. Il librettista Nico Bleutge (scrittore con il quale Herrmann aveva già collaborato per altre composizioni vocali) ha lavorato a stretto contatto con il compositore, dando forma a un testo intimamente legato alle idee musicali, un libretto articolato in tredici brevi scene che scorrevano senza soluzione di continuità, fatto di versi brevi, spezzati, pieni di allitterazioni, che già da soli creavano una dimensione di inquietudine e di smarrimento. Arnulf Herrmann, nato a Heidelberg nel 1968, con studi a Monaco, a Dresda, a Parigi (dove ha frequentato l’Ircam e studiato con Gérard Grisey e Emanuel Nunes), a Berlino (dove è stato allievo di Jörg Mainka, Gösta Neuwirth e Hanspeter Kyburz), ha creato una drammaturgia spiraliforme, con continui accumuli di tensione, cercano la massima integrazione tra testo e musica, costruendo alcune scene su un principio di rotazione, che mimava il gioco a ritroso della memoria. Nella scrittura strumentale (destinata a venti virtuosi dell’Ensemble Modern, diretti da Hartmut Keil), ha cercato di dare a ogni scena una precisa caratterizzazione sonora e timbrica, sfruttando elementi molto connotati, linee melodiche (anche il canto di un bambino fuori scena, e un’aria del tenore, un po‘ come quella del Rosenkavalier, cantata davanti a un microfono da Sebastian Hübner), ritmi di danza, sincopati jazz, strutture periodiche. Ma sempre sottotraccia, come parte integrante di un ordito complesso, che faceva ampio uso dei fiati, con improvvise frammentazioni, effetti di gocciolamento, un continuo gioco di distorsioni armoniche e linee microtonali. Anche il live electronics, sviluppato insieme a Josh Martin (dello studio elettronico dell’Akademie der Künste di Berlino), era sempre legato a specifiche situazioni drammatiche, soprattutto nelle scene di sogno, accompagnate anche dai suoni pizzicati di lunghe corde tese all’interno del bar, come magiche arpe che evocavano ancora la cetra di Orfeo. Un altro elemento chiave dell’opera, e veicolo di memorie, era un vecchio giradischi, sul quale girava un disco in vinile decentrato e traballante, e dal quale uscivano suoni carichi di forza evocativa, ma molto distorti. Il baritono Boris Grappe impersonava molto bene il personaggio smarrito e angosciato di Robert, col suo completo chiaro da impiegato, elegante e anonimo, con una montatura di occhiali grande e squadrata (costumi di Anna Sofie Tuma). Il suo personaggio era moltiplicato da quattro alter ego identici a lui (interpreti del Vokalensemble Schola Heidelberg), che creavano un gioco di specchi, tipico degli incubi, e fornivano un tessuto po-
lifonico, come un corale di sottofondo che accompagnava molte scene; mentre Katja era interpretata da Sarah Maria Sun, impeccabile vocalmente e credibile seduttrice nel suo luccicante abito di strass blu. La regia di Florentine Klepper e le scene di Adriane Westerbarkey ricreavano un’ambientazione nitida, po’ sinistra, che mirava a ricreare lo spazio psichico della vicenda: un hotel con arredamenti anni 50 e grandi finestroni con saracinesche che ricordavano i motel di Edward Hopper; gli strumentisti che suonavano su un lato della grande lounge, come un’orchestrina, tutti con il loro papillon bianco; alcuni effetti sorprendenti, come l’acqua che colava dalle pareti, il fumo proiettato su un velatino, i giochi d’ombre; il fondale grigio che Robert strappava, come fosse il velo della memoria, che lasciava però spazio a immagini grigie, ancora più sfocate e confuse; il letto sul quale veniva adagiato alla fine, come in un funerale. Poi i bei video in bianco e nero (della finlandese Heta Multanen) proiettati ovunque, che accentuavano la dimensione onirica, i personaggi che sembravano usciti da un quadro di Grosz, i volti deformi o bendati, le foto che parevano ricordi d’infanzia. E acqua dappertutto, che colava dalle pareti, che bagnava il pavimento, che ondeggiava nel grande acquario dell’hotel: elemento purificatore, liquido amniotico, simbolo del fluire inesorabile delle cose, metafora del liquefarsi di tutte le indentità e di tutti i legami.
Rotterdam FESTIVAL - VALERY GERGIEV Nel 1995 Valery Gergiev ha creato a Rotterdam il suo festival personale, sfruttando e valorizzando le qualità dell’Orchestra filarmonica della città olandese, e facendo di questa rassegna, nel corso
Valery Gergiev
degli anni, uno dei principali eventi musicali nei Paesi Bassi. Il Gergiev-Festival celebrava quest’anno il mare come fonte di ispirazione musicale, ma toccando in realtà diversi miti acquatici, e spaziando (anche oltre il repertorio sinfonico) dalla Mer di Debussy e dalle Oceanidi di Sibelius, dal Sinking of the Titanic di Gavin Bryars, alla Moldava di Smetana, a Super flumina Babylonis di Palestrina. L’Isola dei morti di Arnold Böcklin costituiva un intrigante trait d’union nei due concerti inaugurali, dove sono stati eseguiti i due omonimi poemi sinfonici di Rachmaninov e di Max Reger. Gergiev ha colto l‘atmosfera cupa, della partitura di Rachmaninov, che descrive il viaggio della barca che trasporta i morti con un andamento lento e uniforme in 5/8, ma sottolineando anche lo slancio lirico delle progressioni e gli improvvisi squarci di luce. Nella Toteninsel di Reger (terzo dei quattro poemi sinfonici op. 128 dedicati a Böcklin) faceva invece emergere il contrasto tra linee quasi inudibili e esplosio-
Valery Gergiev - Festival
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ni drammatiche, l’impatto organistico dei blocchi orchestrali, il lento rarefarsi dell’ordito orchestrale nella sezione finale. C’era anche molta terraferma in questo festival dedicato al mare. Bellissima, e di grande forza evocativa, la lettura di Tout un monde lointain di Dutilleux, ispirato a un verso di Baudelaire (dalla Chevelure dei Fleurs du Mal) pieno di sensazioni esotiche, allusive, sensuali - nei cinque movimenti (Enigme, Regard, Houles, Miroirs, Hymne) che richiamano altrettanti versi baudelairiani e che evocano «l’Asia languida, l’Africa cocente, un mondo lontano, assente, quasi defunto». In questo concerto per violoncello la parte solistica era affidata al talentuoso giovane violoncellista armeno Narek Akhnazaryan, e ai suoi virtuosistici arabeschi Gergiev rispondeva evitando ogni languidezza, piuttosto plasmando movimenti rapidissimi, evaporazioni, gocciolamenti, trascoloramenti, sibili, soffi, con sonorità sempre scintillanti, mai soffuse. Atmosfere molto russe emergevano invece nel Concerto per pianoforte n.4 di Rodion Shchedrin. Olli Mustonen affrontava con grande souplesse la difficile scrittura pianistica, eclettica, nervosa, armonicamente ricchissima, messa in risalto da uno sfondo orchestrale fatto di macchie di colore, lunghe fasce, echi costruiti su minimi frammenti modali, risonanze come di grandi campane. In netto contrasto di carattere la Quinta sinfonia di Prokofiev acquistava, sotto la bacchetta di Gergiev, una forza quasi psichedelica, tratti espressionistici nell’avvilupparsi di temi e figure ritmiche del primo movimento, nei crescendo spinti al parossismo, nella trascinante esplosione di gioia dello scherzo, nelle spigolosità ritmiche del finale. In Also sprach Zarathustra il direttore russo evidenziava la struttura contrappuntistica della partitura, dando un’inedita nitidezza ai colori e alle linee, evitando l’effetto di caos anche negli episodi più densi, convogliando tutta la tensione verso la fuga centrale e l’esplosione vitale del valzer. Evento clou del festival è stata l’esecuzione, in forma di concerto, di Otello, che Gergiev ha diretto con l‘orchestra del Mariinsky. Lettura indimenticabile, che esaltava le qualità dell’orchestrazione verdiana, sottolineandone gli scarti agogici, gli elementi virtuosistici, la mutevolezza timbrica, le movenze danzanti, le risonanze metalliche, i bagliori mefistofelici, estraendone una grande varietà di soluzioni espressive, che sembravano cogliere, come un sismografo, ogni piega e sfumatura emotiva dei personaggi. Metà del merito andava all’eccellente cast, solo penalizzato dall’acustica dall’auditorium De Doelen, non ideale per le voci. Otello era il tenore lettone Aleksandrs Antonenko, voce squillante, grande sicurezza negli acuti, un fraseggio molto curato e sempre musicale. Straordinario Alexei Markov, trentacinquenne baritono russo, che dava voce a uno Jago insinuante, con la sua voce possente e vellutata, piena di ammiccamenti, capace di
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giocare su contrasti estremi di sonorità, ma sempre con eleganza, senza sguaiatezze, in un’interpretazione venata di lucida follia. Autentica rivelazione è stata Viktoria Yastrebova, cresciuta anche lei, come Markov, nel grande vivaio del teatro Mariinsky: una Desdemona sensuale, dal timbro caldo, piena di passione nel duetto con Otello, capace di una infinità di accenti e di sfumature nella Canzone del salice. Non a caso molti la vedono come l’erede naturale della Netrebko.
Ginevra JJR (CITOYEN DE GENEVE) G. Mattietti Ginevra ha celebrato il trecentesimo anniversario della nascita di uno dei suoi più illustri cittadini, Jean Jacques Rousseau, con un’opera lirica, commissionata al compositore Philippe Fénelon, e intitolata JJR (Citoyen de Genève). Un «divertissement philosophique» nato dalla collaborazione col drammaturgo Ian Burton e col regista Robert Carsen. Quasi una sfida, perché si trattava di riassumere in uno spettacolo di poco meno di due ore, la vita e il pensiero di una personalità multiforme, piena di interessi disparati e di contraddizioni. Il risultato è parso piuttosto disorganico, a tratti anche ingenuo e caotico, ma ha avuto un buon appeal sul pubblico. Le otto scene in cui si articolava l’opera (l’ultima delle quali concepita come un vaudeville), inquadrate da un prologo e un epilogo, corrispondevano ad altrettanti temi ricorrenti nel pensiero di Rousseau: la Natura; Dio; il piacere del testo; L’Infanzia e l’educazione; La Botanica; La sessualità e la sensibilità; il denaro; la Musica. «In questa storia, puramente immaginaria – spiega il compositore -, che non è la narrazione della vita di Jean-Jacques, abbiamo voluto mostrare diverse sfaccettature delle riflessioni del filosofo e articolare una struttura drammaturgica intorno ad alcuni temi essenziali che lo hanno occupato nel corso di tutta la sua esistenza». Così nel libretto si confrontano
un gran numero di personaggi, che mettevano in moto una lunga teoria di dialoghi e di riflessioni sul mondo e sull’umanità: c’erano tre Rousseau, mostrati – spesso simultaneamente – in tre fasi della sua vita, a 12 anni (interprete era il controtenore belga Jonathan De Ceuster, che rendeva assai bene la personalità fragile del piccolo JJR), a 21 anni (lo interpretava il giovane baritono Edwin Crossley-Mercier, molto apprezzato per la grande espressività e il bel fraseggio) e a 66 anni (il tenore Rodolphe Briand, grande attore, con una certa carica di humour). C’erano le donne amate da JJR, Mme de Warrens (l’elegante Allison Cook) e Thérèse Levasseur (una commovente Isabelle Henriquez), e poi Diderot, che faceva una breve apparizione ingabbiato nella sua prigione (lo interpretava il baritono Marc Scoffoni), il marchese de Sade e Voltaire (entranbi interpretati dal vulcanico François Lis); e c’erano anche alcuni personaggi usciti da opere di Rousseau, come il Vicario (dall’Émile), Julie e Saint-Preux (dalla Nouvelle Héloïse), che formavano anche un bel quartetto insieme a JJR e Thérèse, Colin e Colette (dal Devin du village); e ancora Robinson Crusoe (il tenore Christopher Lemmings), figura letteraria molto amata da Rousseau, e protagonista nella scena dedicata all’Educazione, la Juliette di Sade (una sensuale Emilie Pictet), l’Enfant sauvage tratto dalle memorie di Jean Itard. Nel suo libretto, Ian Burton ha mescolato citazioni da testi originali, parti inventate, una grande quantità di voci riprese dal Dictionnaire de Musique (alla base del vaudeville finale, che è risultata una scena davvero troppo didascalica), con alcuni riferimenti ai nostri tempi (internet, il nucleare). La musica di Fénelon è parsa eclettica, a tratti molto asciutta, a tratti stravinskijana, infarcita di citazioni dai Ranz des vaches alla Carmagnole (intonata nella scena finale da un coro “rivoluzionario” che sciamava in sala), da Rameau a Offenbach. Mix di canto e voci parlate (microfonate), con numerosi elementi che creavano “atmosfera”, come il corale intonato durante l’omelia del Vicario, il cinguettare degli uccelli, i campanacci
JJR (ph GRG - C. Parodi)
che evocavano i pascoli montani. Ma era una musica senza evoluzione, e senza temperatura drammatica, nonostante l’energia profusa dal giovane direttore Jean Deroyer e dall’ottimo Ensemble Contrechamps. L a regia di Carsen non si discostava dall’impianto didascalico dell’opera, con i costumi di Miranu Boruzescu fedeli all’epoca di Rousseau, e le scene di Radu Boruzescu costruite su un grande tappeto verde che si piegava sul fondale, come un prato di montagna, punteggiato da carriole piene di fiori, molto adatto ai discorsi sulla natura, sul giardinaggio, sulla botanica.
Stoccarda ECLAT / FESTIVAL NEUE MUSIK STUTTGART È sempre un appuntamento imperdibile per la musica contemporanea il Festival Eclat di Stoccarda, quest’anno con 17 prime esecuzioni e un focus sulle musiche per pianoforte (si sono esibiti grandi pianisti della musica contemporanea come Nicolas Hodges, Ian Pace, Christoph Grund, Yukiko Sugawara, Florian Hoelscher), sugli ensembles vocali e sulla danza. Tra le composizioni scritte per pianoforte solo ha colpito, per finezza della scrittura pianistica e forza drammatica, il nuovo pezzo di Harrison Birtwistle - ospite d’onore del festival Gigue Machine, dedicato a Nichilas Hodges, e concepito come una parodia dell’antica danza, piena di sottili variazioni ritmiche. Se poi Refractions della svizzera Madeleine Ruggli appariva un pezzo gradevolmente astratto, un gioco caleidoscopico e puntillistico che richiamava Boulez, basato su figure staccate e sottili risonanze, colpiva invece la forza narrativa, drammatica di Quel portone dimenticato di Sven-Ingo Koch, giovane compositore tedesco che durante la sua “residenza” a Villa Massimo, a Roma, si è lasciato ispirare da una passeggiata notturna ai fori imperiali: lavoro molto dinamico, pieno di ostinati, di elementi ritmici un po’ jazz, di lampi improvvisi, con una sezione centrale lenta e sospesa e un finale che sfumava nel nulla. In qualche caso l’uso del pianoforte era associato all’elettronica, a dimostrazione degli ampi margini di sperimentazione che offrono ancora le interazioni tra il suono strumentale e quello digitale. In Branenwelten 6 Robert HP Platz faceva ricorso al live electronics per ottenere culmini di densità su una trama pianistica che intrecciava lunghi trilli, cascate di suono, toccando i registri estremi e giocando su ampi crescendo. La parte elettronica fungeva invece da vero deuteragonista, del tutto indipendente dal pianoforte, in LOL di So Jeong Ahn (compositrice coreana, con studi a Berlino, ora attiva in Canada), pezzo carico di energia, pieno di cluster e di elementi percussivi, che traeva ispirazione e titolo dalla celebre “risata” usata nel linguaggio della rete (LOL: Laughing Out Loud). A Stoccarda non potevano
mancare i Neue Vokalsolisten, vera istituzione da queste parti e mattatori in tutte le rassegne di musica contemporanea. Le composizioni a loro dedicate tendevano ad esaltare le qualità individuali, anche teatrali, dei singoli cantanti, ma anche a sottolineare le caratteristiche fonetiche e semantiche dei testi attraverso un approccio genuinamente madrigalistico. Bellissime, in questo senso, le Zwei Szenen per sette voci di Friedrich Cerha: la prima (Wohlstandskonversation) era un sottile gioco contrappuntistico che sfruttava anche un sapiente mix di canto e parlato; la seconda (Hinrichtung) metteva in risalto la voce tagliente (anche troppo) del controtenore Daniel Gloger, solista sullo sfondo di una trama ondeggiante, molto espressiva delle altre sei voci. Un’attenzione estrema al valore poetico del testo caratterizzava il nuovo pezzo di Luca Francesconi, Herzstück per sei voci, tratto dall’omonimo minidramma di Heiner Müller: il rispetto della parola e del senso lo portava a intrecciare varie espressioni vocali e dialoghi parlati, insieme a respiri, fischi, scioglilingua, brusii (che richiamavano Berio), dall’esito molto teatrale. Un vero ciclo di madrigali, movimentato, istrionico, erano i Falsche Lieder per sei voci di Gordon Kampe, che prendevano spunto da situazioni musicali molto connotate, e sfruttavano una grande varietà di materiali musicali, anche kitsch, rapide progressioni, melopee intonate a bocca chiusa, echi di operette, in una trama polifonica densa e nervosa, molto comunicativa (il pubblico rideva a crepapelle). Più sperimentale, e radicale, inner empire di Christoph Ogiermann, si ispirava invece al mondo animale, e usava come materiali non solo suoni gutturali, ruggiti, guaiti, gargarismi, conati, sibili (tutto amplificato), ma ricorreva anche ai suoni prodotti da diversi vegetali (che i cantanti spezzavano, sminuzzavano, trituravano, masticavano). Alcuni lavori esploravano poi le possibili interazioni della scrittura vocale con l’orchestra o con l’elettronica. Un grande trittico per sei voci (sempre in Neue Vokalsolisten) e grande orchestra (l’Orchestra sinfonica della Radio di Stoccar-
da SWR, diretta da Matthias Pintscher) era Limits and renewals di Sandeep Bhagwati (compositore indiano allievo di Boguslaw Schaeffer, Brian Ferneyhough e Tristan Murail), lavoro inutilmente lungo e ripetitivo, nonostante alcuni squarci espressionistici, momenti di rarefazione, zone a cappella, nervature arcaizzanti o esotizzanti di grande effetto. Un impianto decisamente descrittivo mostrava poi To the forest di Tomoko Fukui, dove il coro (il SWR Vokalensemble Stuttgart diretto da Marcus Creed) interagiva con pianoforte, percussioni e sassofono: ispirato a racconti per bambini e ad alcune scene del film Rashomon, era costruito su una trama corale sorda, sussurrata, come sottovetro, fatta di elementi assai semplici ma molto movimentata, e su una parte strumentale ricca di invenzioni timbriche. Un autentico capolavoro era il pezzo che ha concluso la rassegna, hij 2 di Mark Andre: partitura per coro a cappella e elettronica (dove il titolo sta per “Hilfe Jesu”), immersa in una dimensione ieratica, contemplativa, basata su una sofisticata interazione tra voci e elettronica, su una delicata trama di rumori prodotti in vario modo (ad esempio muovendo della carta stagnola o soffiando su alcune girandole), su raffinati giochi di spazializzazione (anche il coro era disposto per gruppi intorno alla sala), che generavano una sostanza sonora palpitante, avvolgente, intessuta di soffi, suoni di vento, respiri e sospiri. Hanno un po’ deluso invece due lavori molto attesi, però estranei al repertorio vocale e pianistico: si trattava di Souvenir in memoriam Gérard Grisey di Magnus Lindberg, pezzo per venti strumenti, dal discorso un po’ retorico, nonostante il sapiente uso delle armonie spettrali, i bei florilegi solistici, il gusto timbrico di tipo impressionista; e dello spettacolo di danza Platzregen ispirato al libro di Peter Handke Die Stunde, da wir nichts voneinander wussten (L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro) dove la coreografia, fatta di gesti isolati e nervosi, di Fabian Chyle, era accompagnata solo assai sporadicamente dagli interventi musicali (registrati) del compositore uruguayano Alvaro Carlevaro.
Platzregen_Sigmund
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Lione BIENNALE MUSIQUES EN SCENES Compie vent’anni la Biennale Musiques en scènes di Lione, uno degli appuntamenti da non perdere, in Francia, per gli amanti della musica contemporanea. Rassegna sempre stimolante, mai elitaria, che tende al massimo coinvolgimento del pubblico, soprattutto dei giovani. E che spinge a riflettere sulle nuove strade che prendono non solo la musica, ma le arti in generale nel mondo contemporaneo, che si interroga sulle più recenti forme di creatività, sul superamento del mito modernista del “nuovo a tutti i costi”, di fronte all’attività di molti compositori che riproducono, rielaborano, “riciclano” altre musiche, e creano semmai nuovi contesti musicali, nuove “forme”, attingendo invece i materiali nei vastissimi bacini che offrono le moderne tecnologie e la rete. Perno vitale di queste esplorazioni è il Grame (www.grame.fr), centro di ricerca e di creazione musicale fondato a Lione, nel 1982, da James Giroudon e Pierre Alain Jaffrennou, e che resta uno dei centri di eccellenza in Europa per la ricerca applicata nel campo dell’informatica musicale. Ospite d’onore quest’anno era Michael Jarrell, compositore svizzero (nato a Ginevra nel 1958), con studi a Tanglewood, in Germania (con Klaus Huber) all’Ircam di Parigi, e poi per tre anni (dal 1988 al 1990) a Roma, prima come “pensionnaire” a Villa Medici, poi come membro dell’Istituto svizzero di Roma. Tra le numerose composizioni eseguite spiccavano soprattutto l’«opera parlata» Cassandre del 1994, capolavoro di introspezione psicologica in musica, affidato all’Ensemble Intercontemporain e alla voce recitante di Fanny Ardant. È stato poi eseguito un pezzo per orchestra del 2008 ... Le ciel, tout à l’heure encore si limpide, soudain se trouble horriblement... esempio del suo linguaggio capace di sviluppare e articolare all’estremo elementi minimi di partenza, e dello straordinario virtuosismo nella scrittura orchestrale. Le sontuose armonie spettrali si intrecciavano con atmosfere sospese e rarefatte, con filamenti di suono echeggiati dalle percussioni (ad esempio dal vibrafono suonato con l’archetto). Esempio di un linguaggio quasi manieristico, di un approccio molto artigianale con gli outils della musica contemporanea, ma capace di creare una dimensione intimistica, evocativa, piena di echi arcaici, di memorie personali, di rimandi al mondoantico (anche il titolo era tratto dal De rerum natura di Lucrezio). A esaltare le qualità di questo lavoro orchestrale ci ha pensato poi Peter Rundel sul podio dell’Orchestra del Conservatorio di Lione, un orchestra di giovani, ma dalle qualità straordinarie. Nello stesso concerto è stato eseguito anche un bellissimo lavoro di Misato Mochizuchi, compositrice nata a Tokyo nel 1969, “bambina prodigio” (già a 13 anni si esi-
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Terres et Cendres
biva in concerto, come pianista, insieme a Mstislav Rostropovitch), poi cresciuta musicalmente a Parigi, con Paul Méfano, Emmanuel Nunes, Brian Ferneyhough, all’IRCAM, sempre attratta dalle scienze e dai misteri della natura. In Camera lucida (1999) il riferimento era all’universo della fotografia descritto da Roland Barthes nel libro La Chambre claire (La camera chiara, pubblicato in Italia da Einaudi), alla fotografia come «medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo». La Mochizuchi sembrava trasformare il gioco degli obiettivi e delle focali in altrettanti fenomeni acustici, muovendo la materia sonora da una trama orchestrale molto rarefatta, ma piena di turbolenze sorde e di tensione, verso grandi accordi, ampie fasce armoniche, sempre screziate da una fitta trama di percussioni. Giocava con una materia che si faceva ritmicamente incalzante ma sempre meno densa, con superfici timbriche trascoloranti, fino a una trama finale di glissandi discendenti degli archi, che generava un effetto di progressivo spegnimento. Completavano il programma una bella esecuzione della Mer diDebussy e Nocturno di Isabel Mundry, lavoro destinato a un piccolo gruppo orchestrale e costruito con una struttura a ondate, sull’alternanza tra una pasta orchestrale
densa e movimentata e momenti di sospensione, ma non sempre risolto sul piano della forma. Notevoli due dei lavori eseguiti dall’Ensemble Actem, pure formato da musicisti giovanissimi: Ondulaciones del cileno Roque Rivas (classe 1975), pezzo di grande seduzione armonica, che prendeva le mosse da un materiale semplice, con un movimento ondulatorio perturbato da continui innesti ritmici e una parte elettronica che contribuiva ad articolare il materiale e a farlo proliferare nello spazio; e Entropies di Karl Naegelen (nato nel 1979, e formatosi anche come sassofonista e chitarrista) che cercava effetti stridenti negli strumenti tradizionali, distorsioni da chitarra elettrica sugli archi, con zone movimentate e crepitanti e momenti di sospensione che contribuivano a imprimergli una fisionomia drammatica. Concerti di grande appeal sul pubblico sono stati anche quelli dell’Ensemble Orchestral Contemporain diretto da Daniel Kawka, che ha presentato al pubblico Karakuri poupée Mécanique, per voce e strumenti di Ondrej Adamek, compositore praghese (nato nel 1979) in grande ascesa, Fog and Bubbles del giapponese Kenji Sakai, Droben schmettert ein greller Stein di Jarrell, e un nuovo pezzo dello svedeseJesper Nordin, Circe, per percussione e ensemble: l’impianto era narrativo e il gusto un po’ rapsodico, ma era molto interessante
l’approccio sperimentale, il sofisticato processo elettronico che permetteva di captare attraverso sensori i gesti del percussionista Jean Geoffroy, per poi trasformarli in suoni (processo che spiegava anche il titolo, ispirato al mondo magico di Circe). Di Jesper Nordin si è ascoltato anche un lavoro per violoncello ed elettronica (solista Benjamin Carat), dove tutto il lavoro informatico partiva da una melodia popolare, un richiamo usato dai pastori per richiamare il gregge. La fusione di tecnologia e elementi gestuali, popolari, primitivi o naturalistici, ritornava anche nel concerto “psichedelico” del violoncellista Arne Deforce (con l’elettronica e gli effetti video di Phill Niblock), che ha eseguito Time & Motion Study II di Brian Ferneyhough, pezzo storico del 1976, dove la complessità di scrittura diventava virtuosismo vertiginoso, puro gesto, dove il violoncellista veniva “annientato” dal materiale che lui stesso produceva; Foris, nuovo pezzo di Raphaël Cendo, pezzo iconoclasta che evocava luoghi selvaggi e sconosciuti attraverso una proliferazione di modi d’attacco, un dettagliato catalogo di effetti sonori («turbolenze, rumori sordi, deflagrazioni, scricchiolii, passaggi di strane entità»); e tre pezzi del minimalista newyorkese Phill Niblock (www.phillniblock.com) per violoncello, pianoforte e elettronica (Harm, Poure, Feedcorn Ear), dove un semplice colpo di archetto generava processi di accumulo e saturazioni estreme, spazializzate, effetti di pura pressione sonora, «privi di ritmo, di melodia e di armonia», assordanti (tanto che alpubblico erano distribuiti tappi per le orecchie). Le “magie” prodotte dall’interazione tra uno strumento solista e l’elettronica dominavano anche nel concerto di Christophe Desjardins, autentico mito della viola contemporanea [si consiglia l’ascolto di un cd pubblicato recentemente da Aeon “Alto / Multiples” con musiche di Hindemith, Berio, Boulez, Jonathan Harvey, Wolfgang Rihm]. Desjardins ha eseguito un nuovo pezzo del compositore francoargentino Sebastian Rivas, Sous l’écorce (ispirato alla poesia Entrada a la Madera di Pablo Neruda), pezzo pieno di effetti rumoristici e di spazializzazioni, che sfruttava ancora un sensore di movimento per trasformare in suono anche la componente del gesto strumentale; e la bellissima Partita I (2006) di Philippe Manoury, anche questa basata sull’analisi del gesto strumentale volta a intensificare le relazioni tra suono acustico e elettronica: una specie di ampia suite, in sette parti, basata su sette espressioni musicali diverse, con una costruzione armonica densa e avvolgente, ma piena di interferenze e di colpi di scena. Alla Biennale di Lione non sono mancati gli appuntamenti con il teatro musicale. Questi però un po’ deludenti. Si trattava di due nuove opere: Terres et Cendres di Jerôme Combier (scritta su commissione dell’Opéra di Lione e messa in scena al Théâtre de la Croix-Rousse) e Espèces d’espaces di Philippe Hurel (commissionata dal Grame messa in scena al Théâ-
tre de la Renaissance). L’opera di Combier si basava su un libretto dello scrittore afgano Atiq Rahimi, che riadattava un suo celebre, omonimo romanzo (Terra e cenere, pubblicato in Italia da Einaudi). La storia di Terres et Cendres è ambientata nel periodo dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, in un villaggio distrutto dai tank dove sopravvivono solo un bambino, Yassin che crede che il mondo sia di colpo ammutolito (e invece è lui a essere diventato sordo), e suo nonno Dastguír, che si mette in cammino per raggiungere il padre di Yassin, che lavora in una miniera, e per annunciargli lo sterminio di tutta la famiglia. La partitura aveva bei momenti musicali, con venature etniche, una certa varietà di stili vocali, zone madrigalistiche (di sei personaggi di contorno, come un coro greco che interagiva nei dialoghi parlati), lungi vocalizzi e tenere berceuse, mescolate con le sonorità secche e sorde degli strumenti e di un tamburo iraniano. Ma nel complesso risultava troppo lenta, poco drammatica (nonostante gli sforzi di Philippe Forget sul podio), con le sue dinamiche sommesse e ipnotiche, e con un uso eccessivo (e poco coraggioso) del parlato. La regia di Yoshi Oida (scene di Tom Schenk e costumi di Richard Hudson) calava la vicenda in un crudo realismo fatto di muri scrostati, pilastri di cemento, carcasse arrugginite di automobili. Ma proprio mancando una forte componente drammatica, anche questi elementi apparivano come congelati in un tableau, come elementi puramente visivi di una natura morta “con moderne rovine”. Lasciava perplessi anche l’opera di Philippe Hurel (il suo primo cimento operistico) Espèces d’espaces, basata sull’omonimo testo di Georges Perec (Specie di spazi, pubblicato in Italia da Boringhieri). Testo in forma di saggio, nello stile di una conferenza sugli spazi dove viviamo, con il suo linguaggio pseudo-scientifico, i risvolti ludici e ironici, l’ossessione delle liste e dei progetti, il
gusto per l’arte combinatoria. Tutto questo si traduceva in una musica piena di contrasti stilistici, che chiamava in causa un soprano (Élise Chauvin) e un attore (Jean Chaize), con un tono comico che alla lunga risultava però sguaiato e ripetitivo, come una serie di gag mal cucite insieme. A dimostrazione che non basta basarsi su un testo letterario originale e di qualità, per ottenere una musica originale e di qualità. Sgangherata e clownesca anche la regia di Alexis Forestier, costruita con grande economia di mezzi, giocata su impalcature metalliche, tavoli, sedie, schermi spostati in continuazione, uno spazio scenico che intendeva fare da specchio al pirotecnico gioco di parole del testo, ma sembrava solo animato da un’inutile frenesia.
Marsiglia LA CHARTREUSE DE PARME La Chartreuse de Parme fu scritta da Henri Sauget su un libretto verboso e didascalico di Armand Lunel (che era amico e librettista anche di Darius Milhaud), un testo oscillante tra prosa e versi che sottolineava gli aspetti romantici, sentimentali della vicenda, il girotondo amoroso (il conte Mosca ama la duchessa Sanseverina, che ama appassionatamente il nipote Fabrizio del Dongo, che ama Clelia figlia del generale Conti, governatore della torre dove viene imprigionato proprio Fabrizio), più che quelli politici e patriottici. Anche per questo non godette di grande fortuna. Messa in scena nel 1939, fu interrotta dopo nove rappresentazioni a causa della Guerra. Fu ripresa solo nel 1968 a Grenoble,città natale di Stendhal. Encomiabile dunque lo sforzo del Teatro di Marsiglia di resuscitare questa rarità, che è comunque un grande affresco musicale nello stile ibrido di Sauget, che ha un po’ del modernismo del gruppo dei Sei (ad esempio nel-
La Certosa (ph Christian)
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l’armonia, che echeggia Poulenc), un po’ di lirismo romantico (che rimanda a Gounod e Massenet) mescolati in una scrittura sofisticata, caratterizzata da un ampio melodizzare, da un nitido tematismo, da un grande declamato sillabico nella scrittura vocale (ma che lascia emergere numerose arie), da una ricca orchestrazione (dominata dai fiati), da venature marziali e momenti caricaturali (che rimandano all’opéra-comique), soprattutto nelle scene con i sodati, da alcune evocazioni “italiane”, come nenie e barcarole, ma in uno stile molto francese. Un affresco privo però di una vera temperatura drammatica, nonostante gli sforzi di Lawrence Foster, sul podio, che dimostrava di aver fatto un grande lavoro d’insieme, nel trovare i giusti equilibri tra la fossa e il palcoscenico, e con un coro non sempre impeccabile. Ottimo invece il cast, con interpreti che si sono dimostrati anche ottimi attori, ben calati nei rispettivi personaggi: a partire da Sébastien Guèze, un Fabrizio giovane, dall’emissione leggera e espressiva, capace di slanci focosi e mezze voci, in una parte difficilissima, per la costante presenza in scena, e per la tessitura spinta all’estremo, che purtroppo qualche volta lo costringeva a ripiegare su un orribile falsetto; cantava sempre con grande pathos e gusto Nathalie Manfrino, una Clelia commovente, anche per la straordinaria grazia della sua recitazione; elegantissima, di una bellezza radiosa appariva poi il mezzosoprano Marie-Ange Todorovitch nei panni di Gina, che si interrogava (come la Marescialla) sulla caducità della bellezza, sfoggiando una voce calda e vellutata. E se il nobile fraseggiare di Nicolas Cavallier calzava alla perfezione con il personaggio del conte Mosca, il vocione tonante e fibroso del basso Jean-Philippe Lafont dava al generale Conti, per contrasto, un aspetto davvero torvo. La regista Renée Auphan ha risolto bene i problemi di un’azione molto compressa, fatta di dieci quadri, che si succedono con repentini scarti temporali e ambientali. Ha trasportato l’opera dall’epoca napoleonica ai primi del Novecento, in uno stile classico, un po’ convenzionale, ma sempre molto efficace, dominato da un raffinato esprit de géométrie. Un evidente gusto per le simmetrie caratterizzava anche le scene di Bruno de Lavenère, basate su un intelligente sistema di pannelli e fondali mobili che permettevano rapide transizioni (disegnavano ora l’elegante palazzo della Sanseverina, ora i luminosi spazi della villa di Locarno, ora il cortile della prigione, ora la Chiesa di Santa Maria della Visitazione, dominata da una enorme croce luminosa nella misticheggiante scena finale), con una nicchia rialzata (che diventava ora il palchetto alla Scala, ora la cella della torre dove era richiuso Fabrizio). Questa scenografia, molto essenziale era impreziosita da calessi e arredi d’epoca, e dai costumi, curatissimi e preziosi, di Katia Duflot, che evocavano l’atmosfera di un’alta società prossima al collasso.
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MODENA
Opera 2012-2013 La Stagione lirica 2012-2013 si è aperta il 17 ottobre con Don Carlo, un’importante produzione presentata in un nuovo allestimento curato dal Teatro Comunale. L’opera, uno dei titoli più impegnativi del repertorio verdiano, sia per cast vocale che per impianto scenico, è assente da trent’anni dal palcoscenico modenese e in questa particolare versione della partitura non è stata più rappresentata in tempi moderni. Lo spettacolo è curato dal newyorkese Joseph Franconi Lee, regista affermato a partire dagli anni Novanta nei maggiori teatri italiani e internazionali, che dello stesso titolo ha già curato le riprese dell’allestimento storico di Luchino Visconti per il Teatro de la Maestranza di Siviglia e, con la direzione di Zubin Mehta, per il Teatro Comunale di Firenze. Le scene, disegnate da Alessandro Ciammarughi, saranno realizzate nello storico laboratorio del Teatro Comunale da Rinaldo Rinaldi, modenese allievo di Koki Fregni e in questo settore artista fra i più affermati a livello internazionale. Questa edizione di Don Carlo sarà basata sulla versione originale che nel 1886 venne approntata e approvata da Giuseppe Verdi proprio in occasione della rappresentazione all’allora Teatro Municipale, divenuta nota al mondo operistico come “Versione di Modena”, e aprirà le celebrazioni al Comunale del bicentenario della nascita del compositore. Alle celebrazioni verdiane sarà dedicato anche Otello, anch’esso allestito dal Teatro Comunale e, come Don Carlo, realizzato in coproduzione con la Fondazione Teatri di Piacenza. La parte musicale dello spettacolo sarà affidata a Maurizio Barbacini, fra i direttori italiani più apprezzati nel panorama internazionale che nella sua prestigiosa carriera annovera collaborazioni con teatri lirici di grande prestigio, fra i quali Metropolitan Opera New York, San Francisco Opera, Opéra de Paris, Deutsche Oper Berlin, Staatsoper di Vienna, Bayerische Staatsoper e, in qualità di direttore principale, con l’Opera Company
of Philadelphia. In febbraio andranno in scena due titoli fra i più amati e popolari del repertorio lirico: Le Nozze di Figaro e il Barbiere di Siviglia. Le due produzioni nascono nel contesto di un ambizioso progetto che il Teatro Comunale ha intrapreso per dare meritato spazio a giovani, affermati musicisti formati nelle migliori istituzioni italiane, e che la scorsa stagione ha già visto con successo la produzione de La bohème. I due titoli, entrambi appartenenti al filone della commedia musicale fra Sette e Ottocento, condividono anche la medesima ispirazione letteraria al dramma di Beaumarchais e costituiscono, dal punto del soggetto narrativo, l’una il seguito dell’altra, fornendo pertanto motivo di interessante e stimolante confronto da parte del pubblico. Alle Nozze di Figaro, allestite a Modena in coproduzione con Piacenza e con la Baltimore Opera Theatre (USA), prenderanno parte i cantanti perfezionatisi al CUBEC Accademia di belcanto Mirella Freni, mentre il Barbiere di Siviglia, una coproduzione con I Teatri di Reggio Emilia, sarà eseguito con la partecipazione dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano. In occasione del bicentenario della nascita di Charles Dickens, celebrata nel 2012, il Teatro Comunale ha commissionato una nuova opera liberamente tratta dal romanzo Oliver Twist a Cristian Carrara, un giovane compositore considerato fra i più brillanti della sua generazione, le cui musiche sono state eseguite da importanti complessi quali la Filarmonica Toscanini di Parma, i Berliner Symphoniker, l’Orchestra Giovanile Italiana, l’Orchestra del Teatro Lirico di Cagliari e l’Orchestra Nuova Scarlatti di Napoli. L’opera, fuori abbonamento, andrà in scena domenica 16 dicembre, ed è prodotta nel contesto della rassegna MusicaSuMisura, dedicata in particolare al pubblico delle famiglie. Dopo i successi di Cats e Happy Days, torna a Modena, la Compagnia della Rancia, dal 1988 principale società di produzione di musical in Italia che oltre alla ripresa e traduzione di spettacoli americani come Grease e A chorus line ha prodotto successi originali come Dance! e Pinocchio. Grease, il musical dei record che ha conquistato quasi 1.500.000 spettatori in tutta Italia in più di 1.000 repliche, andrà in scena al Comunale il 22 e 23 gennaio. Si riconferma quest’anno il ciclo di incontri Invito all’opera, a cura degli Amici dei Teatri Modenesi in collaborazione con la Fondazione Teatro Comunale di Modena, che darà occasione al pubblico di conoscere i dettagli dei titoli in cartellone attraverso il contributo di esperti e la testimonianza diretta dei protagonisti.
2012 2013
DON CARLO
“Versione di Modena,1886”. Opera in cinque atti. Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Musica di Giuseppe Verdi Direttore Fabrizio Ventura Regia Joseph Franconi Lee Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Comunale di Modena Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena Fondazione Teatri di Piacenza
Le nozze di Figaro
Opera buffa in quattro atti. Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart Direttore Aldo Sisillo Regia Rosetta Cucchi Nuovo allestimento della Fondazione Teatri di Piacenza In collaborazione con CUBEC Accademia di belcanto Mirella Freni Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Baltimore Opera Theatre Venerdì 15 febbraio ore 20 turno A Domenica 17 febbraio ore 15.30 turno B
Il barbiere di Siviglia
Commedia con musica in due atti. Libretto di Cesare Sterbini Domenica 16 dicembre ore 16 fuori abbonamento
Musica di Gioachino Rossini Direttore Francesco Angelico
Oliver Twist
Coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia Fondazione Teatro Comunale di Modena In collaborazione con Accademia Teatro alla Scala
Prima esecuzione assoluta
Opera da camera in un atto Libretto di Cristian Carrara dall’omonimo romanzo di Charles Dickens
Musica di Cristian Carrara Direttore Flavio Scogna Regia Soo-Sho Nuova opera commissionata e prodotta dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena Martedì 22, mercoledì 23 gennaio ore 20 fuori abbonamento
Compagnia della Rancia presenta
Grease il Musical
di Jim Jacobs e Warren Casey Traduzione Michele Renzullo Adattamento Saverio Marconi Traduzioni delle canzoni Silvio Testi e Michele Renzullo Regia Saverio Marconi Co-regia Marco Iacomelli fondatori di diritto
Venerdì 1 febbraio ore 20 turno A Domenica 3 febbraio ore 15,30 turno B
fondatori che partecipano alla gestione
www.av en i d a.i t
Mercoledì 17 ottobre ore 20 turno A Venerdì 19 ottobre ore19 fuori abbonamento Domenica 21 ottobre ore 15,30 turno B
Domenica 10 marzo ore 15,30 turno B Martedì 12 marzo ore 20 turno A Venerdì 15 marzo ore 19 fuori abbonamento
Otello
Dramma lirico in quattro atti. Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi Direttore Maurizio Barbacini Regia Pier Francesco Maestrini Allestimento del Teatro Regio di Parma Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena Fondazione Teatri di Piacenza Gli abbonamenti alla Stagione lirica 2012 2013 sono in vendita da martedì 18 a sabato 29 settembre per gli abbonati alla Stagione precedente; da lunedì 1 ottobre anche per i nuovi abbonati. Biglietteria del Teatro Comunale, corso Canalgrande 85, telefono 059 2033010, fax 059 203 3011, biglietteria@teatrocomunalemodena.it Acquisto telefonico abbonamenti e biglietti: telefono 059 2033010. Informazioni e biglietti online: www.teatrocomunalemodena.it
La direzione si riserva di apportare ai programmi eventuali modifiche che si rendessero necessarie per cause di forza maggiore.
Opera
TEATRO COMUNALE LUCIANO PAVAROTTI