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NEUROSCIENZE
SPAZIO
MISTERI
Le sorprese del gene che ci regala le parole
Arriva Vega e l’Europa riparte per le stelle
I neutrini super fanno impazzire i fisici
Le origini del linguaggio sono sepolte nel nostro Dna: ecco le ultime scoperte.
Sta per debuttare un nuovo razzo europeo. E l’Italia ha un ruolo di primo piano.
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Il test al Gran Sasso sui neutrini? Un labirinto in cui i fisici si stanno perdendo.
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BECCARIA PAGINA 26
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LO CAMPO e MAGGI PAGINA 27
GALLAVOTTI PAGINA 29
TUTTOSCIENZE UNO DEI PROTAGONISTI DEL FESTIVAL DELLA SCIENZA DI GENOVA: «RAPPRESENTO UN SIMBOLO DELL’INTEGRAZIONE UOMO-MACCHINA»
Analisi
MAURILIO ORBECCHI
L’ebollizione che ci fa coscienti
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se invece di derivare da un’Assoluta Intelligenza fossimo stati assemblati nel corso di qualche miliardo di anni da una natura assolutamente ignorante di ciò che stava facendo, né aveva in mente di costruire alcunché? Noi siamo condizionati dalla nostra psicologia immediata e ingenua; per questo motivo siamo indotti a pensare che per realizzare qualcosa sia necessario un progetto. Ma l’evoluzione della vita - afferma Daniel Dennett, evoluzionista, filosofo della mente, scienziato cognitivista, direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University - è la dimostrazione di come per costruire una macchina pensante, tremendamente complicata come un essere umano, non sia necessario sapere come farlo. È sufficiente quella che chiama «ebollizione dal basso» («bubble up»), termine con cui Dennett descrive la teoria di Darwin: in natura emergono casualmente alcuni caratteri che, se funzionali all’ambiente, si conservano; altrimenti vengono eliminati. Daniel Dennett, a Torino la scorsa settimana per ricevere il premio «Mente e cervello» del Centro di psicologia cognitiva, ha illustrato in due conferenze, al Rettorato dell’Università e al Centro incontri della Cassa di Risparmio, come la stessa coscienza sia spiegata dalla teoria dell’evoluzione. CONTINUA A PAGINA 26
TUTTOSCIENZE MERCOLEDÌ 26 OTTOBRE 2011 NUMERO 1487 A CURA DI: GABRIELE BECCARIA REDAZIONE: GIORDANO STABILE tuttoscienze@lastampa.it www.lastampa.it/tuttoscienze/
“Mi presento, sono un cyborg” La testimonianza di chi ha superato la sordità grazie a un computer ELISA FRISALDI
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rima sente il suono e poi ne comprende il significato. E’ il doppio passaggio a cui deve abituarsi chi, dopo aver perso l'udito, ricorre all'impianto cocleare. È ciò che è accaduto all'americano Michael Chorost, programmatore informatico, ricercatore e autore dei saggi sui rapporti uomo-macchina «Rebuilt» e «World Wide Mind», che perde del tutto l'udito il 7 luglio di 10 anni fa, mentre è alla guida di una macchina a noleggio per le strade di Reno, nel Nevada. Nato già con un udito debole, Michael aveva sempre portato apparecchi acustici che, amplificando i suoni, riuscivano a fargli sentire alcuni frammenti delle frasi pronunciate dagli altri. Poi, per ricostruire il senso del discorso, gli era essenziale aiutarsi con la lettura del labiale. Ma è l’impianto cocleare che gli cambia la vita come spiegherà oggi pomerig-
Michael Chorost Programmatore RUOLO: E’ RICERCATORE E PROGRAMMATORE E TEORICO DELL’INTEGRAZIONE TRA ARTE E INFORMATICA IL LIBRO: «REBUILT» - GAFFI EDITORE
gio al Festival della Scienza di Genova -. A differenza degli apparecchi acustici, infatti, la sua funzione è inviare meccanicamente tutti i suoni al cervello, i quali, però, restano privi di significato, se l’individuo non impara ad ascoltarli e ad associarli alle parole che già conosce. Ogni impianto è costituito da una parte esterna e una interna: l’elaboratore del linguaggio, dietro l'orecchio, ha un microfono che capta i suoni, li trasforma in segnali digitali e li invia a una bobina che fa da tramite con la sezione interna. Superando la barriera della cute, la bobina trasmette i segnali digitali a un ricevitore che li trasforma in segnali elettrici e li invia, attraverso un filo porta-elettrodi, alle fibre del nervo acustico nella coclea. I segnali generati da questa stimolazione arrivano quindi ai centri uditivi del cervello, dove vengono riconosciuti come suoni. Dottor Chorost, che cosa si prova ad affidare il proprio
udito a un computer?
«Non avevo alternative. Volevo uscire dall'isolamento. La difficoltà di adattarsi a un impianto cocleare è paragonabile allo sforzo che facciamo da piccoli per imparare la nostra prima lingua o, in seguito, per conoscere una lingua straniera. Per diverso tempo non capisci nulla, le parole che si affollano la testa sono suoni privi di senso. Solo dopo un anno la mia capacità uditiva era paragonabile a quella di quando usavo l'apparecchio acustico. La famiglia e i miei amici sono stati un supporto fondamentale: hanno rispettato con pazienza i miei tempi di recupero». In che senso si sente un cyborg?
«Dal momento in cui il primo impianto di coclea è entrato in funzione, il mio corpo è cambiato in modo irreversibile. Ero l'esempio vivente della possibile integrazione uomo-macchina. Mi sono dovuto abituare all' apparecchio esterno che, grazie a un magnete, aderisce alla testa, e al fatto che ogni cosa suonava in modo diverso rispetto a prima. Ma l'impianto non ha modificato la mia personalità, la percezione che ho di me stesso. Ero e rimango Mi-
chael, l'uomo che adora le lasagne e il suo gatto, Elvis, che odia gli insegnanti noiosi e che allora, come poi è accaduto, sperava di innamorarsi». Come ha imparato a decodificare gli impulsi che gli elettrodi trasmettono al suo nervo acustico?
«Con gli audiolibri per bambini: ascoltavo la lettura dei racconti e contemporaneamente seguivo il testo. Così, un po' al-
«L’impianto cocleare lascerà il posto a sonde nanotech per leggere nel pensiero degli altri» la volta, ho imparato ad associare i suoni che sentivo alle parole di cui già conoscevo il significato. Anche parlare con gli altri è stato un esercizio di grande aiuto. Dovevo familiarizzare il più possibile con i nuovi suoni e imparare a spostare l'attenzione dalle labbra del mio interlocutore ai suoi occhi. Un vero sprone a vincere la mia timidezza». E’ passato un quarantennio dai primi impianti di coclea. Quanto è stata perfezionata la tecnica chirurgica?
«I progressi sono stati notevoli. Basti pensare che l'installazione del mio primo impianto ha richiesto un'ora e mezza mentre, a distanza di soli quattro anni, il secondo intervento si è concluso dopo 41 minuti. Oggi questa tecnica chirurgica è diventata di routine, ma ho notato che negli ultimi anni i progressi sono rallentati. I motivi possono essere diversi, tra cui i costi necessari a migliorare la resa degli apparecchi già in uso e il fatto che il settore è nelle mani di una sola società. Ma non escludo che impianti cocleari basati sulle potenzialità degli impulsi elettrici abbiano raggiunto il loro massimo sviluppo e sia quindi arrivato il momento di spingersi oltre». Ha qualche idea?
«Tra le tecnologie più promettenti, già in fase di sperimentazione sui roditori, si parla di optogenetica e nanotecnologie. L'optogenetica, una nuova branca della scienza che combina ottica e genetica, ricorre a raggi laser in grado di attivare e disattivare i singoli neuroni in base alla lunghezza d'onda della luce emessa. In alternativa, una serie di nanosonde potrebbero risalire i capillari dalla periferia del corpo fino al
cervello e da lì regolare lo scambio di informazioni tra neuroni. A ogni modo credo dovremo attendere alcuni decenni prima che nuove tecnologie prendano il posto degli impianti cocleari». In «World Wide Mind» lei immagina un futuro in cui le tecnologie ci metteranno in contatto con le emozioni altrui. Può spiegare?
«Credo che potremo avere la possibilità di conoscere in tempo reale ciò che un amico o i nostri colleghi vedono e sentono. Sarà la risposta della scienza al desiderio di relazioni più profonde e al tentativo di raggiungere livelli d'intelligenza superiori. Così, per esempio, un gruppo di poliziotti impegnati in un’operazione potrà coordinarsi a distanza». Non ha paura di scenari così estremi?
«Il mio scopo è stimolare gli altri a pensare come la tecnologia può favorire modalità d'interazione più umane. Resto convinto del fatto che, per quanto sofisticata, nessuna tecnologia potrà insegnarci a comunicare, ad ascoltare con attenzione o a entrare in empatia. Questo è un compito che, per fortuna, spetta solo a noi».