MILANO accademia
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1999/2014
CREATIVEVOLUTION 1999/2014
ANNO VII
Ottobre 2014
Non deve sorprendere che questa idea sia costitutiva della musicoterapia, date le molte somiglianze fra processo creativo e processo terapeutico. Entrambi riguardano il trovare alternative nuove a vecchi modi di essere, pensare, sentire e interagire. Il processo creativo e quello terapeutico offrono l’occasione di esplorare e sperimentare nuove idee e modi di essere. Entrambi sono atti di innovazione , improvvisazione, trasformazione. In entrambi i processi interviene un incontro col sé più profondo: in musicoterapia l’incontro è mediato dalla musica e dall’esperienza di produrre arte. Ritornando alla parola creatività, diversi studi e ricerche, hanno sottolineato il fatto che la creatività e intelligenza sono due funzioni distinte del pensiero: la creatività è espressione del pensiero divergente; l’intelligenza del pensiero convergente. Le caratteristiche del primo sono: mentalità aperta, insofferenza per le regole rigide, curiosità, indipendenza dal campo, flessibilità, complessità, avversione per l’ovvio e le stereotipie, abitudine a trovare problemi più che risolverli; il pensiero convergente, invece, è più regolare, più prevedibile, punta alla risoluzione del problema, è dipendente dal campo, più rigido e rispettoso delle regole, è meno fluido e meno flessibile. Ormai è accertato che i diversi test di intelligenza, misurano il
pensiero convergente (abitudine a trovare una soluzione ad un problema ed a prevederne le conseguenze), piuttosto che quello divergente (abitudine a trovare più soluzioni, a mettere in discussione lo stesso problema, a non accontentarsi dell’ovvio e dello scontato). Il pensiero divergente è quello che produce la creatività, quello convergente, rappresenta l’intelligenza misurata dai test. Pertanto con persone con deficit cognitivi, se stimoliamo la creatività potremo stimolare anche l’intelligenza; quindi sviluppando la creatività del bambino svilupperemo anche la sua l’intelligenza.
Nel corso della ho realizzato, un intervento che h quello di insegna re e a pensare; l’o è quello di cerca sviluppare la str sia nei soggetti n soggetti con diffic mento, cercando loro stile cognitiv dipendente in que di chi pensa in ma. L’intervento ha quello di utilizza “musicale” cercan soggetto capace nuove informazio
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come obiettivo are il parametro ndo di rendere il e di apprendere oni e di saperle utilizzare, di renderlo più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e più capace di trovare vie ottimali alle risoluzioni dei problemi; in cui il soggetto viene esortato a diventare una persona, che percepisce attivamente e organizza la sua esperienza. Il laboratorio, nasce dall’esigenza di sviluppare un apprendimento
intrinseco , che miri allo sviluppo dell’auto-realizzazione della creatività della persona.(… perché egli possa aiutarsi da solo…). Infatti come afferma E. H. Boxill lo scopo dell’educazione musicale è il raggiungimento di un’abilità musicale; mentre quello della musicoterapia, è il conseguimento di abilità di vita attraverso la modalità della musica. Nell’ambito dell’apprendimento intrinseco, si vuole dare importanza a l’essere o meglio al divenire creativi, chiamando in causa una serie di fenomeni rilevanti, come: saper progettare, pianificare , costruire, innovare, “saper fare” e “saper essere”….. che le metodologie e attività proposte, cercano di favorire. Nel programma realizzato, vengono presentati una serie di eserciziproblem-solving, strumenti di apprendimento e giochi musicali i quali sviluppano, i diversi elementi della musica (timbro, altezza,intensità,durata…) e della teoria musicale (note, figure, pause, pentagramma, chiavi….): ogni tema sviluppa dieci stelle (dieci operazioni cognitive) rendendo quindi il soggetto più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e informazioni, divenendo sempre più capace di trovare vie ottimali nel fronteggiare le diverse situazioni problematiche quotidiane. Le numerose attività musicali realizzate, sono utilizzate con il fine di aiutare la persona ad acquisire e trasferire determinati processi e strategie cognitive in altri ambiti di
apprendimento e nelle diverse esperienze di vita, apprendendo quindi uno stile di vita che miri verso l’auto-realizzazione (… affinché egli possa aiutarsi da solo…) Una scuola che educa a essere se stessi, anzi a “diventare” se stessi : a sviluppare al meglio le proprie risorse e le proprie tipicità affettive, intellettive, fisiche, estetiche, etiche, pratiche; dunque a costruire la propria autonomia. Il paradigma dinamico è un modello “autonomizzante”: aspira a far conquistare e padroneggiare i “mezzi” (10 operazioni cognitive) per orientarsi nel mondo, per agire positivamente, per compiere le proprie scelte, per decidere, per realizzarsi. Punta sulla realizzazione dell’io autentico, sull’intenzione critica con gli altri, sul cambiamento. A noi tocca fornire all’allievo sia strumenti mentali, sia materiali diversi fra loro (fino al limite del brain-storming) tra i quali esercitare scelte per sviluppare il suo senso critico. Quanto la creatività musicale sia veicolo primario per la conquista dell’autonomia lo suggerisce il concetto di “Metacultura”; un’educazione metaculturale viene cioè a coincidere con la costruzione di uno spirito critico, antidogmatico. Si diventa autonomi, dunque , se si impara a decidere in proprio, a trovare soluzioni personali ai problemi, a offrire spazi espressivi alla propria interiorità. In una parola a essere creativi! Pubblicato su State of Mind
La straordinarietà dei concerti del Livo Quando si sente dire, o si legge, della "magia" della musica, se ne ha un certo qual fastidio come se, con quell'espressione, si volesse liquidare la dimensione dell'arte alta come frutto di un sortilegio. Ma l'arte alta, quella che si è riversata sulla città di Livorno con gli splendidi concerti che il Livorno Music Festival ha offerto nel corso delle due settimane di attività di master di alta specializzazione, non è un miracolo soprannaturale ma il distillato di una ricerca costante, instancabile, pertinace, umile perfino, attraverso la quale l'artista si libera della dimensione artigiana e si fa poeta, creatore, cioè, di nuovi momenti d'arte. Questa la realtà che si è respirata in Fortezza Vecchia, nel concerto inaugurale del Festival, quando Teodoro Anzellotti, con le Variazioni Goldberg in una sua straordinaria trascrizione per fisarmonica, ha affascinato il pubblico della sala delle Cannoniere. La fisarmonica, uno degli strumenti più giovani e recenti, si faceva inaspettatamente e insospettatamente voce perfetta della scrittura bachiana, strumento capace di una sensibilità barocca - nel suono, nei colori, nella dinamica contenuta da un freno estremamente misurato - quant'altri mai. Avvincente al punto che neppure il disturbo di un inquinamento acustico dall'ester-
no - il pulsare del motore di un gozzo che rientrava, dal mare, nei fossi; qualche musichetta d'intrattenimento diffusa a volume troppo alto da qualcuno dei locali della Darsena - ha potuto turbare l'intimità del discorso musicale, che le luci di Elisabetta Albanese - discrete e intelligenti - rivestivano di fascino ulteriore. Ecco quindi un Bach più barocco di quanto mai lo si sia ascoltato; ecco così che una pagina tra le più classiche e famose si rivela del tutto nuova in una lettura che trasforma la sensibilità filologica in poesia. Stessa emozione si viveva alla Quadratura dei Pisani con Roland Dyens che, secondo il suo costume, trascorreva dai classici al jazz, passando per ogni possibile genere (ma ha senso catalogare la musica, di per sé linguaggio davvero universale, in generi distinti?), intessendo con il pubblico una relazione quasi d'affetti, certamente di grande consonanza. E ancora ci si trovava di fronte ad un vero atto creativo. Perché Dyens, sulle pagine altrui, ne penetra la scrittura e quasi la violenta, teneramente, per possederla a suo modo, indagandola con la sua chitarra a trarne ogni possibile, nuova suggestione. Indimenticabile il fascino della Fortezza, il Mastio di Matilde che biancheggiava a lato della Quadratura, il rombo sordo di un traghetto in partenza, il grido di un gabbiano candido contro il cielo notturno, l'infinita gamma dello strumento di Dyens, la grazia e la vibrante sensibilità della sua bravissima allieva, la quindicenne svizzera Anaïs D'Andrea, talento davvero precoce d'inaspettata maturità artistica, che era interprete di classici e di musiche dello stesso Dyens,
orno Music Festival con il quale si è cimentata in un duo davvero singolare. Ancora una serata indimenticabile è stata quella che, all'hotel Palazzo, ha riunito il pianista Jeffrey Swann, il violinista Dejan Bogdanovich con il violista Perre-Henri Xuereb, Vittorio Ceccanti al violoncello e Alberto Bocini al contrabbasso, cui si è aggiunta la giovane Chantal Balestri, allieva del maestro Swann e vincitrice di una delle borse di studio del GOI. Una serata tutta schubertiana, aperta da Bogdanovich e Xuereb con quattro lieder nella trascrizione per violino e viola che Alessandro Solbiati ha espressamente dedicato ai due strumentisti. Splendida intesa tra i due archi, che sembrano cantare a una voce. Un gioco d'archi fra ponticello e tastiera che, insieme agli armonici, va alla ricerca di sonorità mai udite, per attingere a colori che sembrano assai più della voce che non dello strumento. Un'eguale intesa lega il pianoforte di Chantal Balestri e il violoncello di Vittorio Ceccanti che dai sei lieder per violoncello e pianoforte, pagine leggere, idee musicali che si espongono in brevità essenziale - cavano tutta la sommessa poesia che le percorre. Il concerto si chiude con La trota, quintetto per pianoforte, violino, viola, violoncello e contrabbasso, forse uno dei più famosi, noti ed eseguiti lavori cameristici di Schubert. Ma subito è chiaro che assistiamo a un vero e proprio atto creativo piuttosto che a una mera sia pur bellissima esecuzione. Già all'esordio e del pianoforte la pagina schubertiana rivela un pianismo nuovissimo, che Swann - un tocco d'indicibile po-
tenza ed espressione, sviluppa tanto con baldanza quanto con intenso lirismo nonostante che una corda problematica, e proprio al centro della tastiera, lo costringa ad acrobatiche riscritture. Nella sala, che a stento lo contiene, il pubblico viene letteralmente sommerso dalla musica, che sgorga viva e palpitante dagli strumenti di questi cinque giganti. Secondo un'intesa comune e condivisa, fatta di grande energia, di fraseggio limpido, del gioco dei colori e delle dinamiche, di consonanza intellettuale, la pagina, pur patrimonio radicato nella memoria di ognuno, si fa questa sera del tutto inaudita, si veste di rinnovata freschezza, sorprende e regala una inaspettata "prima volta". Un'interpretazione che ha la freschezza di una session jazzistica, tanto é l'ardore creativo e lo stupore gioioso con cui i cinque complici si immergono nella pagina che tra le loro dita si veste di una squillante novità. Il lirismo di Ceccanti non finisce mai di stupire, Bogdanovich cava allo strumento una potenza corposa pari solo alla sua soffusa dolcezza; il limpido pianismo di Swann è fonte inesauribile di gioia per la testa, per il cuore, per l'orecchio; Xuereb e Bocini, in simbiosi profonda tra sé e con gli altri, completano sontuosamente un insieme indimenticabile, dove ognuno si fa servitore della musica e del solismo degli altri. Non si tratta di una bella, bellissima esecuzione: si tratta di pura gioia di fare e di ascoltare musica. Non resta che attendere e vedere se e quanto Livorno, le sue istituzioni, fondazioni, associazioni, forze economiche e produttive saranno sensibili a questo fenomeno d'eccezione e sapranno costruire le condizioni affinché il LMF si radichi sempre più nel territorio dove il suoi ideatori hanno voluto che vedesse la luce. Maria Torrigiani
LE IDEE SUL PR
La creatività negletta nel paese c Fino a pochi anni fa, qui in Italia, creatività e creativo erano parole impronunciabili. Tali da evocare, nella migliore delle ipotesi, persone e attività vanitose e modaiole, e nella peggiore un’ampia gamma di comportamenti non solo irritanti ma disdicevoli (la finanza creativa, per dire truffaldina. Le soluzioni creative, per dire abborracciate, improbabili e inefficaci). Storicamente del tutto differenti l’attenzione e l’atteggiamento di altri paesi, e specie del mondo anglosassone, in primis gli Stati Uniti ma non solo, verso l’idea stessa di creatività intesa come motore del progresso umano: la preziosa e peculiare attitudine degli individui a scovare soluzioni nuove, a scoprire elementi e connessioni sconosciute, a sperimentare e a inventare. Le idee sul produrre idee È un parroco scozzese, William Duff, a pubblicare nel 1767 An Essay on Original Genius, il primo trattato che prova a indagare le dinamiche della creatività. È l’inglese Francis Galton, scienziato eclettico, antropologo, cugino di Darwin e pioniere della biometria a formalizzare per primo la distinzione tra nature e nurture, cioè tra eredità e ambiente, e a segnalare, in Hereditary Genius, quanto l’educazione
può nel bene e nel male influenzare l’esprimersi del talento. Risale agli inizi del secolo scorso una delle prime, e forse ancor oggi la più convincente fra le moltissime definizioni di “creatività”: fa capo al grande matematico francese Henri Poincaré, che nel 1906, in Scienza e metodo, parla di trovare connessioni nuove, e utili, tra elementi distanti tra loro. Pochi anni dopo è il tedesco Wolfgang Köhler, uno dei fondatori della Psicologia della Gestalt, a coniare il termine insight per definire l’illuminazione creativa e a intuirne la natura istantanea e inattesa. Val la pena di ricordare che lo fa descrivendo la performace creativa di Sultano, il più sveglio fra gli scimpanzé ospitati nella stazione zoologica di Tenerife, e mentre in buona parte d’Europa infuria – siamo nel 1917 – la prima guerra mondiale. Così, grazie a Sultano e all’ingegnosità degli esperimenti di Köhler, l’idea di creatività si estende, anche se con tutte le necessarie distinzioni, ad alcune specie animali superiori. Quali? Ce lo dice Alberto Oliverio: sviluppano comportamenti creativi le specie che sono predatrici e non predate, i cui piccoli giocano e, quando dormono, sognano. A partire dal comportamento dei
topi nei labirinti è invece l’americano Edward Tolman a intuire, verso la fine degli anni Quaranta, quanto flessibilità e finalizzazione siano importanti per raggiungere un obiettivo, e a formulare il concetto di mappa cognitiva. Un paio di decenni prima, il tedesco Karl Jaspers si è interrogato (1922) sui legami tra genio e follia, mentre nel 1926 l’inglese Graham Wallas ha concepito un efficace modello – in quattro fasi: preparazione, incubazione, insight e verifiche – del processo creativo. E ancora: è l’americano Joy Paul Guilford a formulare, negli anni Cinquanta, il concetto di pensiero divergente, che l’angloungherese Arthur Koestler riprenderà chiamandolo bisociazione. Negli anni Sessanta è l’americano Mel Rhodes a definire, mettendo a sistema la mole di studi prodotti fino ad allora, i quattro fattori che concorrono al verificarsi di un fenomeno creativo: le qualità individuali, il processo mentale attivato, la messa a punto di un prodotto originale e valido socialmente, il contesto socioculturale. Person, Process, Product e Place sono le quatto P della creatività. È l’americano Sarnoff Mednick a disegnare il RAT (Remote Association Test), che indaga la ca-
RODURRE IDEE
che fu il più creativo del mondo pacità creativa di scovare connessioni tra elementi eterogenei, ed è l’americano Ellis Paul Torrance a sviluppare, a partire dalle intuizioni di Guilford, il primo test affidabile del pensiero creativo, il TTCT, che prende in esame la fluidità, la flessibilità, l’originalità e il grado di elaborazione che connotano i diversi prodotti creativi. Sono, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, gli americani Gardner e Sternberg a divulgare, anche presso il largo pubblico, un’idea di intelligenza come complesso di capacità e di attitudini differenti. In tempi più recenti, è il croato-americano
Mihaly Csikszentmihalyi a mettere a punto il concetto di flow, lo stato di flusso, la condizione psichica di chi è totalmente immerso in un compito creativo e lo padroneggia. è Dean Simonton dell’University of California a dare, al fenomeno della creatività e sulla orme di Francis Galton, una dimensione quantitativa. È Teresa Amabile ad analizzare, presso la Harvard Busines School, le mille relazioni tra creatività dei singoli e creatività di gruppo, innovazione, impresa. E si potrebbe continuare accostando nomi a nomi, intuizioni a intuizioni. Meglio ricordare, invece, che l’interesse statunitense nei confronti dei fenomeni creativi subisce un enorme impulso già alla fine degli anni Cinquanta grazie a cospicui finanziamenti governativi volti a difendere la supremazia
scientifico-tecnologica americana nei confronti dei sovietici in occasione della Space Race, la gara per la conquista dello spazio. In seguito ci si accorge che ragionare di creatività serve anche a sviluppare l’innovazione che mantiene competitive le imprese. Barak Obama, nel discorso per la rielezione del 2012, afferma che gli Stati Uniti resteranno un grande paese non perché hanno un grande esercito, ma perché hanno grandi università. Del resto la creatività è anche, non dimentichiamolo, un importantissimo fattore di adattamento e, in quanto tale, costituisce un vantaggio evolutivo non solo per gli scimpanzé come il Sultano studiato da Köhler ma anche per gli esseri umani, e si traduce in vantaggio competitivo per le nazioni. Gli italiani e la creatività: per quasi tutti un po’ astuzia, un po’ dono del cielo. In Italia, a parte pochi pionieri inascoltati – tra questi è necessario ricordare almeno Gabriele Calvi, autore de Il problema psicologico della creatività a metà anni Sessanta, e Aldo Carotenuto per alcuni scritti – il mondo accademico e scientifico appare per decenni piuttosto disinteressato all’argomento. (continua)
Silvano Arieti, autore di Creatività, La sintesi magica, lavora negli Stati Uniti. In tempi più recenti, ben che vada, gli imprenditori più curiosi, i manager più attenti e i lettori di saggistica divulgativa vanno a cercarsi sui bestseller americani che vengono tradotti nella nostra lingua (alcuni meritevoli, altri assai meno) qualche ricetta ready to use per avere idee. Solo da una manciata di anni i lavori di Melucci, Antonietti, Legrenzi, Masi e non molti altri cominciano a destare attenzione e a diffondere qualche prospettiva nuova e più consistente.
Non c’è dunque da meravigliarsi se la prima grande ricerca sull’idea che gli italiani nel loro complesso hanno della creatività, svolta da Eurisko nel 2004, restituisce percezioni superficiali e contraddittorie: per un intervistato su due la creatività è importante per moda (60% di risposte positive) e cucina (43%) … per poco più di uno su venti (6% di risposte positive) è importante per l’economia. Per la maggior parte degli intervistati, compresi i giovani universitari, la creatività si risolve nel rompere (si noti bene: non nel superare, ma nel trasgradire) le regole, ed è un fatto privato che può rendere la vita più gratificante appagando il narcisismo individuale: magari si traduce in un hobby da coltivare senza troppe pretese nel tempo libero, magari coincide con la capacità di destreggiarsi astutamente in campo lavorativo. Insomma: nella pratica quotidiana,
per i nostri connazionali, la creatività non è altro che una versione più sofisticata dell’arte di arrangiarsi mentre, se viene considerata in una più ampia prospettiva storica, appare come un misterioso dono del cielo che in passato ha benedetto pochi eletti famosissimi (Leonardo, Michelangelo…), e che tuttora, per motivi altrettanto misteriosi, continua a essere una gratuita benedizione permanente per il Paese. Che, qualsiasi cosa “creatività” significhi, a molti sembra “creativo” per definizione, anche se gli unici esempi di creatività che le persone hanno in mente ormai riguardano personaggi resi famosi dalla tv. Da segnalare l’eccezione di due gruppi: le élite produttive (professionisti, imprenditori…) dichiarano che creatività vuol dire talento e tenacia, conoscenza, competenza, sfida per ottenere risultati che hanno valore. È una visione condivisa anche dagli anziani, e il dato è meno sorprendente di quanto sembri: si tratta delle medesime persone che, nel dopoguerra, hanno saputo, con tenacia e talento, ricostruire l’Italia, avviandola a una stagione di espansione e benessere. La pratica della creatività è stata concreta nelle loro mani ed è rimasta intatta nella loro memoria. Creatività, istruzione, caratteri personali e situazioni ambientali Nel 2006 viene pubblicato il rapporto UE/Kea intitolato l’Eco-
nomia della cultura in Europa: si tratta di un grande studio sistematico che prova – cosa non facile – a dare una lettura ampia e organizzata delle dinamiche dell’intero comparto delle attività culturali e creative, e a valutarne l’impatto economico: editoria, moda, design, cinema e fotografia, radio e tv, web, teatro, videogiochi, arti visive, musei, siti archeologici, turismo culturale… i risultati sono impressionanti. L’intero settore culturale e creativo in Europa vale, nel 2003, più di 654 miliardi di euro. Fattura più del doppio di tutta l’industria dell’automobile (271 miliardi) e contribuisce al pil europeo più di tutte le attività immobiliari. Cresce, in cinque anni, del 12,3% in più rispetto alla crescita economica globale. In quasi tutti i paesi europei il settore della cultura e della creatività dà il maggior singolo contributo alla crescita della ricchezza nazionale. In Italia vale il 2,3% del pil, in Gran Bretagna il 3%, in Francia il 3,4%. E bisogna considerare un fatto rilevante: per come è strutturato, il rapporto non tiene conto (è un gran peccato, e una carenza che andrebbe rimediata) delle creatività espressa nella ricerca scientifica e tecnologica: la ricerca di base e quella applicata e le attività che riguardano l’innovazione di processo e di prodotto. Se si riuscisse – di nuovo: non è facile – a valorizzare anche
questi ambiti, e a misurarne le ricadute in termini di valore, si potrebbe finalmente avere la sensazione tangibile di quanto, nel loro complesso e per l’economia di una nazione, possono contare le idee. Il rapporto UE/Kea passa, nel nostro paese, del tutto sotto silenzio. Esattamente come da sempre passano sotto silenzio, o quasi, gli sconfortanti risultati dei test Ocse-Pisa, che misurano la performance scolastica dei nostri ragazzi e segnalano un consistente deficit (oggi in leggero miglioramento), e ancor più preoccupanti disparità territoriali per quanto riguarda la capacità di leggere, scrivere e comprendere testi, la competenza matematica e scientifica e, ahimé, la capacità di problem solving. Si tratta di capacità di base, in assenza delle quali di creatività non si parla proprio. Senza formazione di base e senza preparazione specialistica è impossibile per chiunque immaginare, inventare, e dunque produrre innovazione di valore. È il Nobel Herbert Simon, padre dell’intelligenza artificiale, a formulare la Teoria dei dieci anni: non si possono ottenere risultati originali in qualsiasi ambito, dagli scacchi alla fisica quantistica, se non dopo almeno un decennio di costante applicazione, e dopo aver interiorizzato almeno cinquantamila chunks (letteralmente: “grossi pezzi”) di
informazione. Creatività e cultura: un intreccio indissolubile Creatività e cultura sono intimamente intrecciate non solo negli studi che indagano le dimensioni dell’ICC, l’industria culturale e creativa. Sono intrecciate perché l’una alimenta l’altra. La capacità di pensare in modo creativo e di inventare qualcosa di nuovo non è un dono del cielo: è una conquista dell’individuo che decide di mettere a frutto un proprio grande o piccolo talento: studia, impara, sperimenta con tenacia ostinata, dedizione e passione. Lo fa per affermare se stesso. Per sfidarsi. Per curiosità e irrequietezza, per tenere sotto controllo un disagio, per trovare una ragione di vita. Lo fa essendo disposto a lavorare in modo intensivo (le persone creative sono in genere workaholic, e il problema non è convincerle a lavorare ma, se mai, a smettere). Raramente lo fa – su questo tutti gli studiosi concordano – solo per soldi: la motivazione intrinseca (il senso di gratificazione e orgoglio che ciascuno trae dal proprio saper pensare e saper fare, e dall’essere riconosciuto come persona capace) è, in termini di produzione creativa, molto più potente di quella estrinseca, costituita da premi materiali: la creatività ha una componente epica che andrebbe rispettata, e mai sottovalutata. (continua)
L’altro dato da non sottovalutare, per il governante che, magari, decidesse di promuovere e sviluppare la capacità creativa nazionale in funzione anticiclica, è l’importanza del contesto nel favorire o contrastare la vocazione creativa dei singoli: e “contesto” significa tante cose. Istruzione e formazione di buona qualità disponibili per tutti, e valorizzazione sociale dell’essere istruiti e formati. Fluidità sociale e meritocrazia. Apertura culturale. Disponibilità di risorse e di finanziamenti, e trasparenza nell’allocare le une e gli altri. Alta pressione sugli individui perché raggiungano risultati eccellenti, ma disponibilità degli strumenti indispensabili per raggiungerli. E ancora, capacità di integrare conoscenze, esperienze, generazioni, generi: diversi studi dimo-
strano che la creatività dei gruppi non è correlata tanto alla creatività individuale dei singoli partecipanti quanto alla varietà di competenze, esperienze e prospettive che ciascun gruppo esprime nel suo complesso. In questa logica occorre sottolineare che istituire e promuovere in ogni campo, con forza, un patto generazionale per il trasferimento di conoscenze può fare, per lo sviluppo della creatività nazionale, molto più e meglio che un “largo ai giovani” detto così, a prescindere. In altre parole: buttar via l’acqua sporca insieme all’anziano esperto piò rivelarsi, nel tempo, una pessima idea. Quali prospettive, nel paese che è stato il più creativo del mondo? Ancora nel 2010 il ministro Giu-
lio Tremonti, varando una Finanziaria che taglia i già modesti investimenti nazionali sulla cultura, giustifica la propria scelta a muso duro sostenendo che la cultura non si mangia. Non è vero, né in senso metaforico né in senso letterale. Poco dopo uno studio European House – Ambrosetti dimostra che l’impatto economico di ogni euro investito nel settore culturale corrisponde a 2,49 euro (risultato economico diretto, indiretto e indotto). E che per ogni incremento di una unità di lavoro nel settore culturale si ottiene un incremento totale delle unità di lavoro nel sistema economico di 1,65. A riportare questi numeri con una certa soddisfazione è, tra gli altri, Famiglia Cristiana. Gli ultimi dati disponibili riguardanti lo sviluppo delle imprese culturali e creative nazionali fanno capo al Rapporto Civita sull’industria culturale e creativa pubblicato a novembre 2012: le imprese private italiane del settore sono poco meno di 180 mila e rappresentano il 4,5% del totale nazionale delle imprese. Solo in Germania ce ne sono di più (190mila). L’Industria creativa si addensa al Nord (il 54,2% del totale nazionale) e quella culturale al Centro (39,8%). Nelle regioni meridionali si trovano, rispettivamente,
il 21,4% e il 13,1% dei centri di produzione. A Milano e a Roma si concentrano il 17,5% e il 17,2% degli addetti. Spesso le imprese sono piccolissime e stentano non solo a fare sistema e a promuoversi, ma anche a tirare avanti. Stiamo comunque parlando di di 355.825 posti di lavoro, il 2,2% del totale nazionale. è il 2,9% in Germania, il 3,0% in Spagna, il 3,2% in Francia e nel Regno Unito. In rapporto alla popolazione, il peso dell’industria culturale e creativa è maggiore nel Regno Unito (105,4 addetti per 10 mila abitanti), seguito da Spagna (88,1), Francia (85,9) e Germania (81,5) in Italia abbiamo solo 60 addetti per 10 mila abitanti. Dunque perfino in Italia, perfino oggi, e con tutti gli evidenti ambiti di miglioramento, i numeri del lavoro creativo restano importanti. E occorre ricordare che, ancora una volta, dall’indagine manca ogni cenno alla creatività scientifico-tecnologica. Eppure, alla base dell’invenzione di una proteina sintetica, di un film, del nuovo profilo di un alettone o di una scultura o di un brano musicale c’è sempre un’intuizione, individuale o di gruppo, e un gran lavoro di ricerca e sviluppo. I linguaggi impiegati sono diversi, come sono diversi gli ambiti e i processi nel loro dettaglio ma, come dire?, la materia prima – il pensiero che sfida se stesso e la norma esistente per andare oltre – è la medesima. Sono identiche le esigenze degli
individui che, nonostante i tempi grami e per pura passione, decidono di mettersi in gioco nelle attività creative e troppo spesso si trovano (nei laboratori, negli studi professionali, nelle imprese, nelle case editrici, nelle agenzie… o come singoli autori, ricercatori o artisti) ad affrontare situazioni di precarietà insostenibile e di sfruttamento, con scarsissime tutele, poca formazione strutturata, e in un isolamento pressoché totale proprio perché il sistema è frammentato, le imprese sono minuscole, il riconoscimento sociale del lavoro creativo è scarsissimo, le politiche di sviluppo sono inesistenti e l’eterogeneità dei compiti e degli ambiti sembra impedire alle persone stesse che svolgono lavori creativi di riconoscersi come appartenenti a un’unica, grande, multiforme categoria che potrebbe, e dovrebbe, rivendicare con orgoglio la propria importanza. Forse è venuto il momento di cambiare le cose anche nel nostro Paese, che secoli fa – non certo oggi – è stato sì il più creativo del mondo. E potrebbe tornare, se solo sapesse coltivare i propri talenti, a conquistarsi un buon ruolo nella produzione di idee che generano ricchezza, benessere e crescita, non solo materiale. La pesante crisi sistemica attuale potrebbe trasformarsi in un’opportunità. Perché questo succeda, è però indispensabile
che si diffonda tra gli italiani la consapevolezza di quanto valgono le idee, e prima ancora di che cosa significa “pensiero creativo”, e di come questo sia strategico per affrontare un futuro incerto e necessariamente segnato da cambiamenti vorticosi. Quella che oggi chiamiamo “crisi” domani ci sembrerà forse soprattutto una grande trasformazione. Siamo infatti in mezzo alla transizione fra un’economia industrale novecentesca e un’economia basata sulla conoscenza e la creatività, nella quale l’innovazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi settore, ha un valore centrale. Tra una società e un’economia in cui tutti sanno che cosa devono fare e una società e un’economia in cui sempre più persone devono trovare soluzioni nuove a problemi nuovi. Inizia così la presentazione della mostra Benzine – le energie della tua mente prodotta dalla Fondazione Marino Golinelli. Se c’è un buon punto da cui partire per svolgere il compito fondamentalissimo di spiegare, mostrare, raccontare, educare, suscitando – anche – l’emozione e la speranza che sono indispensabili al nascere di una visione nuova, è proprio questo. Annamaria Testa Questo è il testo integrale che ho scritto per il catalogo della mostra Benzine (Bologna, Palazzo di Re Enzo, gennaio 2013 – Milano, Triennale, febbraio 2013)
Testi e immagini tratti da ‘Nuovo e utile’ Fonte: www.nuovoeutile.it Concessione ‘Nuovo e Utile’ - redazione@nuovoeutile.it.
Anche in Italia nasce la prima casa OFF GRID, compl E’ stata costruita a Monsano, nelle Marche in provincia di Ancona, dall’azienda Energy Resources. La costruzione è scollegata da reti di luce e gas. L’OFF GRID sta diventando una vera e propria tendenza del mondo occidentale. Sempre più famiglie scelgono uno stile di vita indipendente a autonomo al 100%. Molti statunitensi, a causa della pressione fiscale, hanno deciso di rinunciare alla carta di credito, alla televisione satellitare, alla tecnologia di ultima moda, lasciando i quartieri urbani per trasferirsi in campagna e optare per uno stile di vita autosufficiente. Off grid significa vivere senza bollette. Un’utopia fino a poco tempo fa. Una reale possibilità oggi. Stati Uniti (come
dimostra il video sopra) e Paesi del Nord sono la dimostrazione concreta che si può fare. Scegliere di vivere in un’abitazione off grid oltre a rappresentare un vantaggio economico porta numerosi benefici che riguardano due aspetti ben precisi: per prima cosa si realizzano abitazioni che producono solo energia pulita, in secondo luogo si costruisce in luoghi più isolati, senza prestare attenzione ai mille ostacoli di allaccio alle reti di distribuzione elettrica, gas. La tecnologia off grid è basata sull’utilizzo di diverse forme di produzione dell’energia, l’elettricità è ricavata da fonti rinnovabili: solare, eolico, geotermico e biomasse, le eccedenze vengono trasformate in idrogeno che
letamente autosufficiente. alimenta riscaldamenti, cucine e, se si possiede un veicolo ad idrogeno, fa da carburante. E’ previsto anche un sistema di fitodepurazione per il riciclo delle acque di scarico di bagni e cucine che dopo vari trattamenti possono essere riutilizzate. Sebbene in Italia la casa off grid rappresenta una novità, all’estero è una realtà già consolidata: in America le famiglie che attualmente vivono in case off grid sono circa 20.000, mentre nei paesi nord europei troviamo veri e propri quartieri. Esempio interessante è Hammarby y Sjostad a Stoccolma, che conta quasi 25.000 abitanti. Oltre all’utilizzo di pannelli solari per la produzione di acqua calda ed energia elettrica, si sfrutta un sistema pressurizzato di smaltimento dei rifiuti. I rifiuti così arrivano in centri di smaltimento già differenziati, dove parte viene riciclata e parte (su questo si potrebbe discutere) utilizzate per produrre energia che contribuisce ad alimentare il quartiere. Spiega Enrico Cappanera, autore del progetto della casa a Monsano: “ora le multinazionali possono realmente preoccuparsi, è finita l’era del petrolio. Operazioni come questa rendono più concreti i concetti legati alla terza rivoluzione industriale ed aprono le porte ad una nuova stagione per l’umanità, dove sarà la generazione distribuita di energia elettrica da fonti rinnovabili a ripristinare l’equilibrio tra uomo e pianeta“. RISPARMIO - Quanto si può risparmiare con questa tecnologia?
Ce lo spiega questo interessante documento della Off Grid Academy: “Con la casa autosufficiente sarebbe possibile arrivare a tagliare totalmente il contributo mensile delle famiglie ai grandi erogatori di servizi. Un calcolo iniziale e parziale parla di circa 4.000 euro l’anno di risparmio per le famiglie italiane“. COSTI - Dove sta il problema? Per raggiungere il 100% di autoconsumo l’impianto fotovoltaico off grid ha spesso “bisogno” di batterie di accumulo che “raccolgano” l’energia in surplus prodotta di giorno per renderla disponibile nei vari momenti della giornata. Nonostante gli evidenti benefici questo tipo di sistemi stenta ancora ad imporsi definitivamente. Il perché deve essere ricercato nell’elevato costo delle batterie, che siano esse al piombo acido (con un’efficienza energetica del 75 – 80%), ad alta temperatura (con efficienza energetica del 85 – 90%) o agli ioni di litio (con efficienze energetiche maggiori del 90%) purtroppo oggi richiedono ancora troppi anni per ammortizzare l’investimento. Anche se sembrerebbe che i prezzi stiano lentamente scendendo, anche perché si stanno sempre più diffondendo pacchetti “all inclusive” (i pannelli fotovoltaici, l’inverter e l’accumulo), che presentano il vantaggio di essere una tecnologia composita studiata per lavorare insieme, garantendo conseguentemente le massime prestazioni e il massimo risparmio. Con la fine degli incentivi al fotovoltaico, ormai un lontano ricordo, non sarà facile, forse impossibile, “tagliare” fuori le multinazionali. Considerando anche che la politica energetica di questo Governo non va proprio nella direzione di favore queste tecnologie.
MADE
Ecco come grazie a Google e altre pia Si fa presto a dire Made in Italy. All’estero piace così tanto, che spesso trovano fortuna prodotti solo all’apparenza nostrani, mentre qui, sul territorio, manca il racconto delle attività artigianali che da secoli portano avanti la tradizione del vero made in Italy. Google ha deciso di colmare questo vuoto comunicativo usando i suoi mezzi. Google.it/madeinitaly è la piattaforma realizzata dal Google Cultural Institute (al progetto hanno preso parte anche il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e Unioncamere), che mette a disposizione un centinaio di “mostre digitali” sulle eccellenze produttive del Paese. Oggetto di questi percorsi sono categorie di prodotto, e non singole aziende (es. “Arte orafa crotonese”, “Concia Toscana”, “Pane di Altamura” etc). Perché farlo? “È un modo di promuovere gli italiani nel mondo“, spiega Carlo D’Asaro Biondo, Presidente Sud e Est Europa, Medio Oriente e Africa di Google. “Noi mettiamo a servizio le nostre competenze, poi è chiaro che se ci sono aziende interessate, possono promuoversi online attraverso i nostri strumenti. È un modo per meritarci di che vivere, niente da nascondere!”. Quanto il costo dell’operazione? “Non ne ho
idea, è difficile da valutare, ma dei 30 ingegneri del Google Cultural Institute, 6 si sono dedicati a questo progetto” risponde. La seconda piattaforma messa in piedi all’interno di questa iniziativa è quella più funzionale alle imprese stesse: eccellenzeindigitale, realizzata con la fondazione Symbola e coordinata dal Prof Stefano Micelli dell’Università Ca’ Foscari di Venezia è un sito di formazione per coloro interessati a promuovere online i loro prodotti e le proprie competenze. “Nel 1999 svolsi una ricerca che indagava le ragioni della poca presenza online delle nostre PMI”, racconta Micelli. “Le ragioni che venivano spesso elencate dagli intervistati erano riconducibili a due fattori. In primo luogo, gli artigiani sentivano nella rete un effetto ‘catalogo’ che non rappresentava la loro storia, l’intensità culturale dei loro prodotti. Secondo, pensavano di dover cedere alla standardizzazione, senza poter dar voce alle loro realizzazioni su misura”. Ma ora, continua Micelli, la Rete è cambiata, e se i nostri artigiani puntano all’internazionalizzazione, dovranno anche abbandonare “la cultura del segreto che hanno detenuto per lungo tempo come un vantaggio competitivo davanti alla concorrenza”.
IN ITALY
attaforme il vero “made in Italy” sbarca sul web. Terza fase del progetto è costituita da venti borse di studio per giovani “digitalizzatori”, che per 6 mesi affiancheranno le aziende con lo scopo di educarle all’uso del digitale (il bando di partecipazione e i territori interessati saranno resi noti nel mese di febbraio). E se il Ministro Nunzia De Girolamo ha proposto a Google l’idea di “mettere su una piattaforma di ecommerce dedicata all’agroalimentare italiano”, alzando l’asticella rispetto all’impegno di Eric Schmidt (che lei chiama Adam, come il celebre Smith), l’Executive Chairman ha annunciato che Google ha deciso di “offrire il suo contributo per accompagnare il Made in Italy alla conquista dell’economia digitale”. La sua presenza online è ancora debole: solo il 34% delle PMI ha un proprio sito, e se si conta chi lo usa per l’e-commerce, la percentuale scende al
13%. Tutta via la domanda promette bene. Nel 2013 le ricerche su Google relative ai settori del Made in Italy sono cresciute del 12% rispetto all’anno precedente. In testa alle ricerche resta la moda, seguita dal settore automotive. Diletta Parlangeli (gennaio 2014)