
4 minute read
Scelto per Te di Gianluca Fumi
Scelto Per Te
Redazione Mediastars
Advertisement
Forse un esordio simile non vi è nuovo, anzi: sono pronto a scommettere che quotidianamente mentre navigate in rete vi imbattete continuamente in offerte che si promettono di essere perfettamente su misura per i vostri gusti e le vostre necessità. Del resto i meccanismi che oggi regolano gli spazi pubblicitari sul web e, in particolare, il loro acquisto, dipendono dalla mole infinita di dati che noi utenti stessi lasciamo seminati fra le pagine virtuali, come i sassolini bianchi di Pollicino. Dati che servono ovviamente alle aziende per formulare in modo ottimizzato le proprie campagne di advertising. Ma come? Quando noi navighiamo in rete veniamo intercettati dai cosiddetti cookie che ci identificano univocamente con un numero che richiama tutti i dati che corrispondo alle operazioni che noi compiamo sul web. Si tratta dei cosiddetti first data, ovvero tutte quelle informazioni che rispecchiano, in qualche modo, gli aspetti demografici e comportamentali degli utenti: tuttavia restano ancora molto imprecisi, vuoi perché un cookie non è (ancora) associato ad una persona in carne ed ossa ma ad una cifra virtuale, vuoi perché questi cookies sono in realtà talmente fragili e volatili da durare meno di un giorno, vuoi perché non è così difficile ingannare l’algoritmo: basta mettersi a fare una ricerca su Google per fare un regalo a qualcuno che non ci assomiglia per niente. Qualcuno, ovviamente, ci ha pensato su: ecco allora la nascita dei second e third data che sono le informazioni ricavate da altri operatori terzi come ad esempio quelli in possesso delle grandi Corporation di data mining, come Amazon, Facebook, Google… e che rispecchiano principalmente lo stile di vita dell’utenza. Questi dati vengono uniti ai dati demografici e comportamentali costituendo dei veri e propri profili utente aventi determinate caratteristiche in comune. In questo modo, grazie alla profilazione che abbiamo concesso gratuitamente a queste aziende (registrati, login: nome, cognome, indirizzo…), abbiamo permesso loro di essere molto più precise nel fornirci del programmatic advertising: il passo successivo viene compiuto dalle big data solution platform che rendono tutta questa mole di dati utilizzabile in tempo reale, permettendo quindi la personalizzazione dei contenuti e l’acquisto di spazi pubblicitari visibili solo ed esclusivamente da un target molto specifico e ristretto.
Una tecnica, quella del programmatic advertising, che Facebook ha saputo valorizzare nel migliore dei modi, capendo bene le dinamiche che la regolano. Attraverso il social network di Mark Zuckerberg, è possibile veicolare il messaggio più persuasivo in base alla personalità dell’utente. Ogni utente, ovviamente, risponde a stimoli diversi e potrebbe quindi avere bisogno di messaggi differenti per arrivare comunque alla stessa situazione: ad esempio all’acquisto di un prodotto. Forse oggi da parte dei Brand non c’è ancora la piena consapevolezza che i propri utenti non fanno parte di un unico target, sono tutti consumatori unici al mondo, diversi l’uno dall’altro, che grazie a questo nuovo modo di sfruttare la tecnologia possono essere comunque raggiunti senza fatica, e parlando il loro linguaggio specifico. Il programmatic advertising sarà presto usato anche in televisione con i decoder on demand e sarà quindi possibile per gli inserzionisti attuare dei piani pubblicitari socio demografici e comportamentali. Sky Italia ha già fatto passi avanti in questa direzione: avete mai provato a guardare una serie tv on-demand a casa di un amico? Gli spot non sono mai gli stessi: se invece sono gli stessi avete un ottimo amico.
The Sexiest Job of the 21st Century
Di fronte a questa nuova realtà composta da una così grande mole di informazioni, è d’obbligo interrogarsi su come trasformarle in uno strumento di profitto. Le imprese che sapranno trovare le risposte a questi quesiti si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto ai propri concorrenti e assumeranno la configurazione di aziende datarate che non solo hanno le capacità di raccogliere dati ma anche quella di analizzarli, di conoscerli, di utilizzarli al momento giusto per colpire la propria clientela con il minimo margine di errore. Ciò che manca al momento pare essere proprio il controllo consapevole delle informazioni e la capacità di analisi; a conferma di ciò arriva un’affermazione in merito al futuro direttamente dalla Harvard Business Review che, parlando della figura dell’analista di dati, la definisce the sexiest job of the 21st century.
Data Driven vs Human Driven
Quindi, il nostro futuro sarà Data Driven? Non è questo il punto. In quest’ambito, per quanto sembri con ogni probabilità il business del secolo, ci sono ancora molte cose da verificare a cominciare da un bisogno diffuso di chiarezza e trasparenza. Il digitale ha portato enormi positività come la promessa dell’eliminazione di ogni forma di dispersione del target, aumentando l’efficacia delle campagne. Purtroppo si diffondono fenomeni indesiderati come l’overselling di contatti, o i clic da utenti inesistenti (robot o ai programmati per gonfiare queste statistiche: fate un salto su Instagram per questo).

C’è poi il tema caldo della reputazione: i grandi brand vogliono essere rassicurati. I responsabili dei marchi si chiedono con ansia: “Dove va il mio messaggio, in quale sito, in quale contesto?”. Se il sito non è appropriato il messaggio può trasformarsi in un boomerang. L’aspetto umano rimane fondamentale, anzi, fino a qui sembra l’unico freno ad una svolta verso un futuro esclusivamente data driven: il tema del futuro sarà mettere assieme i dati con il messaggio, e per farlo ci sarà un gran bisogno di esseri umani piuttosto che di algoritmi.