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LUIGI ZOIA
CADERE SETTE VOLTE ...RIALZARSI OTTO
Dal fallimento al successo
La storia di un uomo che affronta la vita, le sue difficoltà e le proprie paure
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CADERE SETTE VOLTE... RIALZARSI OTTO
LUIGI ZOIA è nato a Milano nel 1948. Cintura nera sesto dan di karate, è stato per tre volte vice-campione del mondo (1971, 1973, 1975), tre volte campione europeo e tre volte campione italiano di karate di Stile Shokotan. Laureato in Bocconi, dirigente di banca prima a Milano e poi a New York; nella Grande Mela è stato imprenditore nel settore immobiliare a cui ha fatto seguito l’apertura in Europa di una società finanziaria di gestioni patrimoniali. Recentemente ha fondato l’associazione culturale Conscious Business Group di cui è presidente.
LUIGI ZOIA
S
embriamo essere condannati a vivere un’esistenza di cui a volte sembra sfuggirci l’essenza. Ciononostante quando cadiamo, dobbiamo imparare ad accettare la sconfitta e poi a rialzarci. Per farlo dobbiamo riuscire a cambiare i significati del mondo che ci assedia, cambiare la metafora della nostra vita, e trasformare l’energia della paura in capacità di agire nell’interesse di tutti. Infatti, il vero cammino verso il successo non è una lotta per vincere scontrandoci contro le avversità che incontriamo, ma è un percorso di conciliazione di quei conflitti che, originandosi dentro di noi, si proiettano sullo scherma del mondo esterno rappresentato dalla nostra esistenza quotidiana. Con il racconto della sua vita, Luigi Zoia spiega come cavalcare l’onda dell’energia e ridirigerla dall’interno per costruire nuovi futuri. Zoia ci illustra come ha trovato il successo applicando i suoi principi di vita spirituali e come si possa riuscire a sviluppare la propria capacità di trasformare in modo positivo l’energia che proviene dalle situazioni ostili. Lo ha fatto dapprima come giovane campione sportivo internazionale di karate, poi come dirigente di banca e imprenditore a New York, approdando infine all’alta finanza internazionale; in un mondo ostile dove si combatte per annientare l’avversario. Zoia è tornato da questo campo di battaglia, che si estende dagli stretti e profondi canyon di Wall Sreet, tempio del capitalismo più crudele, sino alle strade e agli edifici degradati di Harlem, dove si manifestano le più profonde contraddizioni sociali che dilaniano i suoi abitanti. Ed è tornato per spiegare come il vero successo di trova solo raggiungendo l’unità dentro di noi, riconciliando il caos dualistico esterno-interno, e imparando a trovare e poi applicare una nuova, più efficace metafora della propria vita.
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Cadere sette volte rialzarsi otto
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Nel caso di eventuali errori od omissioni nelle citazioni delle fonti, la Casa Editrice provvederà, nella prossima edizione, alle rettifiche che verranno comunicate dagli aventi diritto. Nei casi in cui non è stato possibile reperire chi potesse concedere il permesso di riproduzione, si precisa che la Casa Editrice è a disposizione degli aventi diritto. Proprietà letteraria riservata I diritti di traduzione, riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo, comprese fotocopie in bianco e nero o a colori, sono riservati.
è un marchio Casa Editrice Luigi Trevisini S.r.l. mfp@trevisini.it www.mental-fitness.it I edizione ottobre 2014
Con i tipi della Casa Editrice Luigi Trevisini S.r.l. Via Tito Livio 12 - 20137 Milano
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Indice Prefazione pag. 7 Introduzione di Alberta Brusi » 9 Introduzione del Maestro Hiroshi Shirai » 11
I. FALLIRE » 15 1. A Manhattan 2. Raccogliere fragole a 5 dollari l’ora 3. Aggrapparsi al Floridita 4. Una paura mai provata prima 5. Cambiare la metafora della vita
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II. CONTINUARE A CRESCERE E TRASFORMARSI » 27 1. Trasformazioni 2. L’incontro con il karate 3. Il cammino del karate 4. La Bocconi 5. Milano non basta più 6. Vendere pentole in Australia 7. Mettersi in gioco emozionalmente 8. Non si vive di solo karate 9. La crescita professionale
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III. I VALORI DEL KARATE » 45 1. Il Bushido e il suo codice morale 2. Comportarsi secondo i propri valori 3. Giacomo, mio padre 4. Non dimenticare la differenza tra la verità e le bugie 5. Il rientro a Milano
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IV. IN CONTATTO CON LA PROPRIA PARTE EMOZIONALE » 53 1. Mio padre 2. Mia madre 3. La passione del karate 4. L’energia del karate
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Indice
5. Il combattimento nel karate 6. Citibank a New York 7. Decido di sposarmi 8. Il racconto di Eliana 9. La fatica e le speranze di un immigrato 10. La forza di un sogno
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V. IL NEMICO SEI TU » 73 1. Non aver paura 2. Che cosa succede quando svieni 3. Bushido: sconfiggere il proprio ego 4. Dare tutto per ricevere di più 5. Andare oltre i propri limiti 6. La vecchia Milano degli anni Cinquanta e Sessanta
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VI. DETERMINAZIONE E PERSEVERANZA » 85 1. Il metodo Pestalozzi 2. Il metodo Berchet 3. Il maestro Shirai e la tecnica della sopravvivenza 4. Tanta pratica. Fino alla nausea 5. La disciplina 6. La passione per non fermarsi mai 7. Il metodo appreso nel karate
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VII. DISTACCO E CONSAPEVOLEZZA » 99 1. Filosofia del karate » 99 2. Il distacco nel servizio militare » 101 3. In famiglia » 102 4. La lezione dei maestri » 102 5. Il maestro Kase » 103 6. Prigionieri delle nostre vittorie » 104 7. La tecnica che ti riempie » 105 8. La frugalità di mia madre » 108 9. La pratica del distacco e il mio mba » 110
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indice
VIII. PROGETTARE » 113 1. Il traguardo 2. Progettare la federazione 3. Il nucleo sportivo di karate nei Carabinieri 4. L’angelo custode 5. Le altre case di Manhattan 6. La polvere accumulata può costruire una montagna 7. La Casa Service
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IX. COSTRUIRE » 131 1. La grande finanza 2. Non fermarsi mai 3. Le competenze 4. Per cominciare 5. Nicholas 6. Conoscere se stessi 7. Costruire l’impresa
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X. L IBERARSI DALLE PROPRIE PRIGIONI DIGRESSIONE IN TRE ATTI: LA CAVERNA ALL’AEROPORTO DI SAN FRANCISCO » 145 1. Il mito della caverna 2. Prigionieri di noi stessi 3. La metafora è la chiave per capire e affrontare la realtà
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XI. IL CAMBIAMENTO PARTE DA DENTRO » 153 1. Le scarpe lucide dei carabinieri 2. Quale rivoluzione? 3. Harlem 4. Il punto di rottura 5. Il pianeta proibito 6. Quando il sogno divenne incubo
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Indice
XII. UNA METAFORA COME GUIDA PER COSTRUIRE LA TUA REALTÀ » 167 1. La metafora 2. La metafora della danza 3. La promessa: entro 5 anni sarei tornato a New York 4. Costruire le opportunità 5. Ognuno è arbitro della propria vita 6. Salvato da un idraulico 7. La vita collabora con la finanza
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XIII. SCONFIGGERE LA PAURA » 183 1. Nel dojo forgiati dalla paura 2. Paura ad Harlem 3. La camminata sul fuoco
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XIV. ASSUMERSI LA RESPONSABILITÀ DELLA PROPRIA VITA » 193 1. La passione per la libertà tra Einaudi, l’America e Shirai » 193 2. Self-reliance » 195 3. Imparare a prendere decisioni » 196 4. L’importanza di un Executive mba » 199 5. Crisi a Citibank in arrivo » 203 6. Equilibrio economico » 205
XV. UN BILANCIO » 207 1. Ricomincio da qui » 207 2. La visione » 212 3. Il flusso della vita e dell’energia » 213
IL FUTURO » 218 RINGRAZIAMENTI » 219 RACCOLTA TESTIMONIANZE » 220
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I. FALLIRE
È
1. A Manhattan
il 1990: ho 42 anni e sono praticamente fallito. Sono con l’acqua alla gola. I soldi sono finiti e i debiti crescono ogni giorno. Davanti a me c’è la scrivania invasa da carte, fatture e conti da pagare. Sono carte piene dei numeri che da mesi girano sempre più vorticosi nella mia mente. Non stanno più tornando i conti da qualunque parte li guardi. Lentamente questo vortice mi sta stringendo come un boa e non mi lascia più lo spazio per respirare. Fisso a lungo il telefono. Mi sento perso. Devo chiamare l’avvocato e iniziare una conversazione che non voglio sostenere. Dalla finestra si vedono le torri di Manhattan. I palazzi grigi di pietra, la città dei miei sogni e del capitalismo americano. Forse fuori c’è il sole, ma dentro di me la giornata è cupa, pesante, con un cielo scuro carico di presagi negativi. Mi sento soffocare e nello stesso tempo mi manca il pavimento. È come precipitare in un buco senza fondo. Il fallimento. La sconfitta. Tornare in Italia, a Milano, la città che avevo lasciato quasi dieci anni prima. Tornare dai miei genitori, da mio padre. Sconfitto. Ancora oggi ho un ricordo preciso, nitido, di quel momento della mia vita. Un ricordo che ha la chiarezza di un’istantanea, perfettamente conservata nel tempo. La situazione era diventata insostenibile: avevo lasciato un lavoro di prestigio in uno dei più grandi gruppi bancari al mondo e avevo deciso di mettermi in proprio per segui15
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I. FALLIRE
re un investimento immobiliare fatto qualche anno prima. Ero il proprietario di una serie di appartamenti a nord di Manhattan in due zone di Harlem, all’epoca il quartiere metà nero, metà latino e più povero della città. L’investimento era il frutto dell’idea di posizionarmi a buon mercato in una zona di frontiera della città che in qualche decennio avrebbe potuto rivalutarsi. Certo, c’erano state delle difficoltà fin dall’inizio. Non per niente era considerata una zona di frontiera. Mi aveva però attirato l’idea di investire proprio nella frontiera nera e latina. Aveva un che di pionieristico. Le due zone di Harlem, molto diverse nelle loro strutture sociali e culturali, avevano un fascino innegabile. La latina, soprattutto, era caratterizzata da case popolari come quelle descritte nel film West Side Story, dove nelle calde notti degli anni Cinquanta bande rivali di giovani portoricani si scontravano o sognavano un futuro luminoso guardando la luna e il cielo stellato dalle scale antincendio e dai tetti dei palazzi. Avevo visto il film da ragazzino ed ero rimasto affascinato da quello spirito di avventura in cui la vita non era impostata tutta dentro una strada sicura, certa, diritta, tipica della società borghese da cui provenivo io. L’edificio che avevo acquistato nella parte nera di Harlem, ai piedi di una collina famosa per la chiesa dove si cantano ancora oggi i più bei canti spiritual d’America, era invece in una zona per caratteristiche completamente diversa dall’altra. E anche questa mi aveva affascinato e rapito fin da subito. Ricordo che quando mi fu segnalato lo stabile in vendita andai a visitarlo immediatamente. Era sera e pioveva. Arrivai in macchina in una zona dove a quei tempi di norma i bianchi non si sarebbero mai avventurati, nel cuore della Harlem nera delle rapine e degli omicidi, con le auto bruciate abbandonate ai margini della strada. Il tratto dove mi dovevo recare era più tranquillo, con vista sulla parte nord di Central Park. Arrivai e mi trovai davanti a un edificio molto signorile, di sei piani con ventiquattro appartamenti spaziosi. La testimonianza più forte di un antico prestigio era il fatto che in quello stabile negli anni Trenta 16
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aveva vissuto anche Louis Armstrong, ed era ancora abitato per la maggior parte da vecchi neri emigrati in quell’epoca dalla Georgia su fino a New York sotto la spinta della pressione antirazziale. Come ho detto, me ne innamorai e immediatamente decisi di comprarlo. La cifra era irrisoria. Con quei soldi avrei potuto a malapena comprare un piccolo appartamento nella parte meridionale dell’isola di Manhattan, qui invece potevo acquistare un intero edificio. E, grazie ad un prestito di una banca locale, potei acquistarlo con pochissimo contante. Alcune persone mi avevano detto che c’era un motivo se gli stabili in quelle zone a quel tempo costavano così poco. Anzi, mi avevano suggerito di non comprare in quella zona perché gli stabili erano ingestibili, sia per l’alto costo delle riparazioni che soprattutto per gli inquilini, fuori controllo. Ma non avevo ascoltato nessuno e dovetti imparare la lezione da solo poco tempo dopo. Intanto, però, con quella decisione senza rendermene conto mi ero spinto fuori dalla mia zona di conforto. Le conseguenze furono spettacolari, come sarebbe sempre stato nel corso della mia vita ogni volta che avessi varcato quella soglia. Dal punto di vista delle riparazioni sapevo che gli immobili avevano bisogno di interventi, ma essendo al mio primo investimento negli Stati Uniti avevo mal calcolato la situazione. Non ero un investitore professionale e infatti, poco tempo dopo, i nodi vennero al pettine. Pur essendomi avvalso di consulenti professionisti del settore, le dimensioni del problema si rivelarono molto più grandi del previsto. Per fare i primi lavori di manutenzione avevo acceso un prestito da Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation), l’azienda parastatale che opera nel settore dei mutui immobiliari delle case popolari. Dopo poco mi ritrovai pieno di debiti mentre il mercato immobiliare attorno a me stava precipitando. Si era innestata, totalmente imprevista, la violentissima crisi economica del nord-est, per di più proprio quando io ero al massimo dell’esposizione finanziaria. 17
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2. RACCOGLIERE FRAGOLE A 5 DOLLARI L’ORA La crisi non era niente di simile a quello che avevo visto e studiato in Italia. Infatti, mi trovavo di fronte a un evento che, venendo dal nostro paese dove fenomeni di tale violenza sono sconosciuti, era semplicemente spaventoso: al confronto le recessioni italiane sono delle passeggiate di primavera. Per le strade di New York ogni tre negozi ce n’era uno sbarrato da travi di legno con su scritto «Fallito». I ristoranti, quelli ancora aperti, erano sempre tutti vuoti, anche il sabato sera. Ricordo che un fine settimana ero andato nel Massachusetts. Fu un viaggio impressionante. La strada era costellata di cartelli «In vendita». Sembrava che ci fosse stata una guerra, qualche carestia, e che la popolazione avesse abbandonato in massa l’area. Una casa sì e una casa no erano state messe sul mercato, e non si riusciva a venderle perché nessuno aveva i soldi per comprare. Non avevo mai visto una cosa simile nella mia vita. Le aziende licenziavano impiegati e quadri a centinaia. In due anni tutto il middle management delle corporation della zona fu decimato. Più di trecentomila persone persero il lavoro nella sola Manhattan: c’erano ingegneri elettronici e laureati in economia e commercio che andavano a raccogliere fragole per 5 dollari l’ora nel Vermont. Il mercato immobiliare era crollato, ma l’amministrazione della città di New York continuava a tenere gli affitti bloccati, caricando sui proprietari tutti gli oneri delle manutenzioni e in questo modo creando una situazione artificiale di antagonismo tra i proprietari e gli inquilini. Con il mio investimento e l’esposizione con le banche, non avevo abbastanza entrate e le case perdevano valore a un ritmo di 100.000 dollari dell’epoca all’anno. La mia personale crisi economica non era il lato peggiore. Ero infatti circondato dall’odio degli inquilini afroamericani che vivevano nelle mie case e dal rancore e l’indifferenza degli inquilini latini. In un mondo di spacciatori 18
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di droga, di guerre tra bande, di pericoli e minacce fisiche rivolte anche a me, ero costantemente preoccupato, stressato. Non dormivo più di un’ora o due a notte. La mattina, con la schiena bloccata dalla tensione, non riuscivo ad alzarmi: dovevo letteralmente rotolare per terra per riuscire a scendere dal letto e muovermi lentamente per quindici minuti prima di tornare a camminare normalmente. Non avevo mai sperimentato una simile pressione, ma dentro di me sapevo che non mi sarei mai piegato. Ero un combattente. Avevo sempre portato a termine tutto nella mia vita e l’avrei fatto anche questa volta. Ma iniziavo a non vedere la via di uscita.
3. AGGRAPPARSI AL FLORIDITA Ci voleva un’ora al mattino per arrivare al mio ufficio percorrendo l’Upper West Side lungo il fiume Hudson, e l’unico momento bello della giornata era la fermata al caffè El Floridita, sulla Broadway all’altezza della 156ma strada ovest, dove facevo colazione tutte le mattine alle otto. Era l’unica cosa positiva a cui potessi aggrapparmi mentalmente. Un mio amico mi aveva suggerito che nei momenti difficili occorre mantenere la concentrazione su una cosa positiva, anche se piccolissima, e rimanerci incollati con tutta l’attenzione possibile come ad un salvagente, per riuscire a mantenere l’equilibrio mentale e non lasciarsi travolgere emozionalmente dalla mareggiata degli eventi. Era un amico americano, un uomo di business con tante cicatrici. Lo ascoltai: in America le crisi picchiano duro e la gente aveva ancora lo spirito di sopravvivenza molto sviluppato. Gli avevo creduto e lo considero ancora oggi uno dei migliori consigli che io abbia mai ricevuto. In quel periodo incredibilmente buio della mia vita, infatti, il caffè mattutino, anzi il cafè con leche di El Floridita, era il punto di riferimento che mi guidava e mi dava la forza emozionale di affrontare la giornata. 19
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Al Floridita poi tornavo anche all’ora di pranzo per mangiare un piatto di platanos maduro frito, il cugino della banana che, quando matura e diventa dolce, viene fritto secondo una ricetta dominicana. È un piatto semplice ma gustoso, che mi piaceva molto. Non sono dettagli per dare colore al racconto della mia storia. Erano le piccole cose alle quali mi ero aggrappato. Avevo bisogno di rilassare la mente, di creare un contesto all’interno del quale potessi collocare tutte le cose negative che accadevano ogni giorno ad Harlem. La mia vita doveva essere più grande di quella situazione incasinata che vivevo negli edifici in affitto, circondato dai debiti e da un odio cieco e assoluto. Quello del Floridita in realtà non era l’unico momento che mi concedevo. Niente di straordinario: siccome abitavo all’altezza della 30ma strada e dovevo arrivare sino ad Harlem all’altezza della 135ma, ogni mattina percorrevo verso nord la West Side Highway, la strada a scorrimento veloce che costeggia la parte occidentale dell’isola di Manhattan. Mentre salivo verso nord nel traffico della mattina, potevo vedere il New Jersey alla mia sinistra, con i grattacieli di Jersey City che facevano da contraltare, dall’altra parte dell’Hudson, a quelli di Manhattan, che invece mi accompagnavano sfilando alla mia destra. Davanti, se alzavo lo sguardo sopra il traffico, vedevo passare grandi aerei di linea che procedevano pigri da est a ovest e iniziavano la lunga discesa che li avrebbe portati a curvare, correre paralleli alla Highway e poi atterrare finalmente all’aeroporto di Newark, che era dietro le mie spalle a sinistra. Quando arrivavo a costeggiare l’Upper West Side, infine, c’era il parco di Riverside, carico di sfumature di verde e, in primavera, illuminato da un’esplosione di fiori di ciliegio bianchi sino a farlo sembrare un’isola di cotone candido nel grigio antracite della città, che lo sovrastava con i suoi imponenti palazzi color ardesia. La mia mente si rilassava, smetteva di irrigidirsi: arrivavo a pensare senza opporre resistenza, in maniera morbida, 20
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alla situazione che stavo vivendo. Non credevo, non riuscivo a capacitarmi che mi sarebbe mai potuta succedere una cosa simile. Non pensavo che avrei mai avuto tanta paura. Tuttavia, era una paura molto nuova. A Milano il karate, la disciplina che avevo seguito per quasi due decenni, mi aveva insegnato a superare la paura fisica nel modo più diretto e duro: prendendo le botte. Quando ero appena un ragazzo il maestro Shirai, che poi sarebbe diventato mio cognato, mi aveva insegnato così una lezione fondamentale: non abbiamo paura dei colpi dell’avversario, ma dell’idea mentale che abbiamo di quei pugni. Abbiamo paura della minaccia del pugno. Ci spaventa il pensiero di ricevere un pugno, ma non il pugno in quanto tale. Anzi, quando poi arriva la botta, si scopre che non è poi una gran cosa.
4. UNA PAURA MAI PROVATA PRIMA A Milano, nel dojo di via Piacenza, avevo imparato ad affrontare il mio vero nemico: quello che sta dentro di me. Questo mi permetteva di fronteggiare i miei avversari sul tatami e vincerli. Ma a New York, in questa nuova situazione, ero del tutto impreparato: non vedevo il mio avversario, non sapevo dove dirigermi, non sapevo contro chi combattere. Invece, mi trovavo di fronte a una paura che non avevo mai provato e che mi bloccava completamente. Avevo paura di fallire, mi vergognavo all’idea di dover tornare in Italia con le pive nel sacco, pieno di debiti e dopo aver speso tutto quello che avevo a disposizione. Non vedevo l’uscita, non trovavo vie di fuga percorribili. Ero ossessionato da questo unico pensiero, notte e giorno: vivevo come risucchiato da un gorgo nero che mi tirava sempre più a fondo. La telefonata con il mio avvocato fu il momento chiave. Mi rispose la sua segretaria, una donna non più giovane e molto simpatica, che mi mise in attesa. Dopo pochi minuti mi passò in linea il mio vecchio amico. Era come sempre felice di sentirmi. Aveva un accento marcatamente newyorkese, molto rapido ma al tempo stesso pastoso, come se 21
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avesse sempre in bocca uno dei suoi sigari cubani preferiti. Non mi ricordo cosa mi disse né cosa gli risposi: posso immaginare che fossero frasi insignificanti, quello «small talk» che è una religione per i popoli anglosassoni e che non può essere violato neanche di fronte alle più devastanti tragedie. Poi, gli spiegai il problema della mia attività economica, oramai sull’orlo del fallimento. Mi diede un appuntamento. Fu quello il momento in cui mi sbloccai. Mi resi conto che dentro di me per la prima volta avevo accettato la mia situazione. Avevo smesso di combatterla. Ero tecnicamente fallito. Anzi, mi stavo dando il permesso di fallire. Avevo perso la battaglia. Ero caduto. Avevo preso un pugno in faccia e ora non ne avevo più paura. All’improvviso calò su di me un grande senso di pace. Guardai fuori dalla finestra, tenendo sempre la cornetta vicino all’orecchio anche se la comunicazione si era oramai interrotta: la città era sempre la stessa, sempre grigia come un’enorme lavagna, però sembrava diversa: i colori erano diventati più brillanti, le forme più definite, i contorni più marcati. Era la stessa Manhattan, ma era anche un’altra città. Aver accettato la sconfitta mi permetteva finalmente di respirare, di liberare la mia mente dal giogo dell’ansia. Il tempo si era fermato. Lentamente ritornai in me, lentamente ripresi a pensare: era una sensazione diversa, non c’era più la cappa asfissiante della paura del fallimento che bloccava i miei ragionamenti. Si era rotto qualcosa dentro. Avevo una sensazione di discontinuità e sapevo che adesso potevo finalmente ripartire. Era come se avessi aperto gli occhi e visto ciò che non vedevo prima. Finita la telefonata ero sollevato e pronto ad affrontare tutte le sfide che avevo di fronte. Decisi che a quell’appuntamento con il mio avvocato non sarei andato. E infatti non ci andai mai: non ne avevo più bisogno.
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5. CAMBIARE LA METAFORA DELLA VITA In realtà, però, non era cambiato niente all’esterno: non avevo trovato i soldi che dovevo alle banche o una soluzione al problema delle riparazioni che continuavano a inghiottire centinaia di dollari tutti i giorni. Tuttavia, era cambiata completamente la mia attitudine. Mi venne in mente che, se mi ero trovato incastrato in modo così scomodo di fronte alle avversità della mia attività, lo dovevo a qualcosa di più profondo che non il solo problema materiale che dovevo affrontare. Se gli appartamenti che avevo acquistato e che cercavo di gestire erano diventati un inferno, con gli inquilini che lottavano apertamente contro la mia amministrazione e in un contesto per il quale non era possibile immaginare alcuna soluzione, limitarsi a valutare le scelte operative fatte non avrebbe portato a un cambiamento di fondo. La prossima volta avrei ripetuto gli stessi sbagli, avrei rifatto gli stessi errori, e mi sarei ritrovato nella stessa situazione. La scelta di trovarmi dove mi trovavo l’avevo fatta io. Ci doveva essere una ragione, anche se inconscia, per aver preso quella strada. Ripensai al mio passato. Avevo costruito la mia vita come una serie di gare da continuare a vincere e in cui primeggiare, in cui la determinazione, la passione e l’impegno potevano farmi arrivare dove volevo. Per me sconfiggere gli avversari voleva dire per prima cosa essere concentrato, adattarmi a ciascuno di essi per cogliere ogni minima opportunità per arrivare alla vittoria. Voleva dire saper scattare prontamente. Ma voleva anche dire essere preparato e allenato. Ci voleva energia, determinazione e focalizzazione. Era come correre una lunghissima corsa a ostacoli. Mi resi conto in quel momento ancora più profondamente di un segreto che da sempre si nascondeva nella mia mente: le situazioni della vita sono in realtà lo specchio di chi siamo noi internamente. Io ero la lotta, io ero il conflitto, la gara a ostacoli. Non era il mondo fuori di me, ma 23
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