Menthalia Magazine - Giugno 2012

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Reg. Trib. di Napoli N. 27 del 6/4/2012

numero 3 - Anno I/giugno 2012

in questo numero

© Nunzio Figliolini

Appunti sulla Poesia Vis à Vis con Cristiano Minellono Diciamolo con i gomitoli (Speciale Guerrilla Knitting) Andy Warhol. Alla corte dell’imperatore Dialetto che passione La fine del mondo: tenetevi liberi per il giorno... Un “Ulisse” tutto da ridere Green è trend Curiosità


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numero 3 - giugno 2012

Editoriale Condivisione

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Registrazione al Tribunale di Napoli N. 27 del 6/4/2012 Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione Direttore Editoriale: Stefania Buonavolontà Art Director: Marco Iazzetta Grafica & Impaginazione: Menthalia Design Hanno collaborato in questo numero: Stefania Buonavolontà, Martina Dragotti, Roberto Gaudioso, Rosalba Iazzetta, Riccardo Michelucci, Stefania Stefanelli Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio Ph. +39 081 621911 • Fax +39 081 622445 Sede legale: 80121 Napoli – 30, Piazza dei Martiri Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro 50132 Firenze – 17/A, Via degli Artisti Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari

È buffo pensare a come possa essere cambiato oggi, con l’avvento dei social network, il significato della parola condivisione. Se dico condivido, tutti penseranno subito ad un nuovo link sulla mia bacheca... Ma per metterla in pratica la condivisione, quella vera, è necessaria molta più forza di quella che ci vuole per spingere un tasto su una tastiera del computer. L’ignoto, il diverso, il nuovo sono concetti che si portano sulle spalle una storia fatta di diffidenza, disapprovazione e pregiudizio. Tuttavia, accettare le differenze, è una prova di sicurezza in se stessi: cedere al compromesso, inteso come mediazione, trovare un accordo, avvicinarsi, mettersi in discussione non è da deboli. Bensì dimostra grande intelligenza. Penso che trovare i codici comunicativi giusti per arrivare ad aprire “lucchetti mentali” sia più coraggioso e onorevole che arrendersi alla chiusura e al non dialogo. È troppo semplice, e molto spesso conveniente, sentenziare e classificare gli altri, e resta sicuramente più ardua l’impresa di non gettare la spugna e accogliere una sfida, perché una mente che si apre al dialogo, una barriera che cade, un pensiero accettato e non per forza condiviso sono sempre una vittoria. Che cosa è, se non questo, il concetto di comunicazione? Certamente comunicare serve a trasferire informazioni, a condividere significati, ma la primordiale essenza del comunicare risiede nell’apertura agli altri. Troppo spesso ci focalizziamo sul mittente, su noi stessi, costruendo castelli di sabbia che ci ritroviamo ad ammirare da soli. L’ apertura è sempre un arricchimento, ma non per forza un cambiamento. Anche condividere le novità e le differenze a prescindere sarebbe un’imprudenza, in quanto implicherebbe una mancanza di nerbo e di carattere... perché scegliere tutto equivale a non scegliere. Non sono in vena di moniti in questo numero... Piuttosto riflettevo con la penna in mano, domandando a me stesso, e a voi, se la meta da raggiungere sia poi così importante, se per raggiungerla si rischia di perdere il tragitto. Marco Iazzetta General Manager MENTHALIA


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Appunti sulla Poesia di Roberto Gaudioso, Poeta e scrittore – Africanista – Attivista in Human Rights I poeti difendono il portale che conduce all’intuizione, sono coraggiosi “guerrieri della luce”, il loro compito è afferrare le parole dure e plasmarne il senso. La poesia è l’arte di utilizzare in modo particolarmente sintetico ed espressivo la lingua assecondando la Forma, la quale trova la sua costituzione per lo più in ritmi e suoni. La poesia fa della lingua quotidiana un linguaggio speciale, una costruzione ritmica e metaforica, cioè fa quello che le altre arti fanno con i loro “mezzi” rendendo il loro linguaggio universale. A differenza di queste, però, il mezzo che usa la poesia è lo strumento più inflazionato del mondo: la lingua. Roland Barthes descrive il dramma della scrittura con queste parole: «Davanti alla pagina bianca, nel momento di scegliere le parole che devono segnalare con chiarezza la sua posizione nella Storia e attestare che egli ne accetta i dati, lo scrittore avverte una tragica disparità tra ciò che fa e ciò che vede; sotto i suoi occhi il mondo civile forma ora una vera Natura, e questa Natura parla, elabora linguaggi vivi da cui lo scrittore è escluso: al contrario, tra le sue mani, la Storia mette uno strumento decorativo e compromettente, una scrittura ereditata da una Storia passata e diversa, di cui egli non è responsabile, ma è la sola di cui possa far uso. Nasce così una tragicità della scrittura, poiché lo scrittore, ormai cosciente, si deve dibattere contro i segni ancestrali e onnipotenti che dal fondo di un passato estraneo gli impongono la Letteratura come un rituale e non come una riconciliazione». Secondo Barthes, il poeta moderno cerca parole che siano nuove, più dense o luminose. Nella poesia moderna i concetti sono parole che riproducono la profondità e la singolarità dell’esperienza, si tratta dell’arte dell’invenzione. In questo senso sembrano puntualissimi e precisi, nonostante la loro enigmaticità, i versi del poeta italiano Giuseppe Ungaretti, nella seconda strofa di “Commiato” in L’ Allegria:

[…] Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso Questo scavo interiore testimonia e conferma le parole di Barthes a proposito della poesia moderna. Il poeta moderno è colui che affonda nell’abisso dell’esistenza, della vita, e porta alla luce parole più nuove, più dense o luminose. La prima strofa del “Porto sepolto” della stessa raccolta recita:

Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde

L’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana. Vero è piuttosto il contrario: che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. In questo senso la poesia moderna e contemporanea appare come una chiamata che si dissolve verso un linguaggio naturale o sociale. Solo in questo modo, forse, la lingua poetica riesce ad essere se stessa, profondamente sempre presente perché mai inoffensiva, perché mai compiuta, attraversa l’esistenza e tutte le sue componenti, senza trionfare su queste, ma creando uno spazio aperto, più ambiguo, inconcluso; in queste istanze risiede la forza “politica” della poesia. Ed è così che il poeta contemporaneo tenta di calarsi nella realtà, respingendo ogni accusa di astrattezza.

Naufrago nel mare del sogno nell’intimo della foresta che s’infittisce nel quale il pensare senza agire è tradire. Euphrase Kezilahabi

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Vis à Vis con Cristiano Minellono di Martina Dragotti, Copywriting & Communication

lono Cristiano Minel lla Autore di testi de musica Italiana

Essere autore di testi. Ma cosa vuol dire? Scrivere parole, dare voce ai pensieri, stare dalla parte dei contenuti, parlare alla propria penna ieri, alla tastiera oggi. Chi scrive testi non è solo un cultore della parola, ma è anche un buon osservatore. Per scrivere del mondo, di ciò che accade, per descrivere vite, raccontarle e farle amare, occorre uno sguardo più lungo, che attraversi le apparenze per cogliere l’essenza. È questo che fa un autore, “confeziona pensieri”, ci racconta Cristiano Minellono, grande autore della musica italiana ed esperto di comunicazione. A voi l’intervista... Scrittore di testi musicali, autore di alcune delle canzoni italiane più famose, scrittore di programmi televisivi, coautore di libri, attore teatrale, responsabile artistico in Fininvest, scrittore di testi pubblicitari e campione italiano di formula 3. Una personalità eclettica e creativa. Che giudizio hai del panorama comunicativo di oggi? In questa confusione di comunicazione sta imperando il cattivo gusto. La qualità della musica, della televisione e del cinema in Italia è scaduta almeno dell’80%. Gli interessi economici hanno prevaricato il bisogno di avere prodotti di qualità, e il risultato si vede. La tua, dunque, è un’astensione di protesta? Sì. Noi autori non abbiamo più la possibilità di creare nuovi talenti. Non essendoci più i grandi produttori cinematografici e discografici di una volta, non verranno più fuori le Sofia Loren e i Mastroianni, né verranno fuori i grandi registi del passato come Fellini, Germi, Rossellini perché oggi nel cinema comandano i finanziatori e la qualità ne paga le conseguenze. Nel panorama autorale televisivo accade pressappoco la stessa cosa: invece di avere due autori bravi come accadeva negli anni ’80, ci sono sette, otto autori neolaureati, senza esperienza, pronti ad assecondare le volontà del capo, senza cenni di esitazione. Non esiste più la professione di autore, ci si arrangia come si può... L’autore sia musicale, cinematografico che televisivo è sempre stato il padrone della situazione, un programma televisivo o un film si facevano come voleva l’autore adesso, invece, si fa tutto come vuole chi mette i soldi.

E la qualità ne paga il prezzo... Hai scritto testi per cantanti molto famosi, sapere per chi dovesse essere scritta una canzone ti ha mai condizionato? Non è il caso di parlare di condizionamento. Ero giustamente indirizzato, ovviamente se sai che stai scrivendo per Adriano Celentano è differente dal sapere che stai scrivendo per Orietta Berti; scrivi spesso un testo in base all’artista, rimanendo coerente con ciò che egli rappresenta. In maniera totalmente libera? Se stai lavorando con un grande artista sì. Sono spesso Le “mezze tacche” ad imporsi maggiormente e ad avere più manie di protagonismo! Come avviene il tuo processo creativo? Hai dei riti particolari, dei momenti che preferisci? Sì, per me quello della scrittura è un momento molto particolare. Se ho quindici giorni a disposizione per scrivere un testo... lo faccio generalmente negli ultimi due minuti che ho a disposizione, la pressione mi rende più creativo. Non mi è mai capitato di scrivere una canzone partendo dal titolo, eccezion fatta per “l’Italiano” ed un altro paio. Mi metto lì, ascolto la musica, e la mia creatività parte... La canzone alla quale sei più legato? Le canzoni che ho scritto con Umberto Balsamo “Pace”, “Bugiardi noi”, o quelle con Dario Farina per i Ricchi e Poveri: “Sei la sola che amo”, “Dimmi quando”... Ma comunque è difficile scegliere; sono legato alle canzoni che ho scritto in base a quello che rappresentano: “Il primo giorno di primavera” è la mia prima vera canzone, “L’italiano” è quella che ha avuto più successo nel mondo e “Sei la sola che amo” è quella che forse mi piace di più, ma che forse ha venduto di meno... Le canzoni che scrivi sono autobiografiche? Mah, in certi casi lo sono... in altri no. Un autore non può e non deve parlare della propria vita come protagonista assoluto. Deve farsi carico del sentire comune, di ciò che accade intorno e riuscire a metterlo in parole. Spesso ho cercato di immaginare situazioni nelle quali non mi sono mai trovato, vivi


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o n a m in a rr a it ch la n co re Lasciatemi canta o n ia p o n ia p e n o z n ca a n u lasciatemi cantare o er fi o n so e n e' ch er p re ta Lasciatemi can o er v o n a li a it n u o n a li a it n u o n so un amore che magari è tranquillo, ma poi lo proietti in altre situazioni, possibilità, sfaccettature. La cosa principale per un autore è la fantasia. Ho scritto “Il tempo se ne va” per Celentano, che è la storia di un padre che si accorge che la figlia è cresciuta, che oramai è una donna, ed io non avuto una figlia femmina. Ci vuole anche una grande capacità di osservazione.

Ti definisci un “confezionatore di pensieri”, non per forza i tuoi. Ma spesso le tue parole sono divenute universali, hanno creato atmosfere e sensazioni in cui moltissime persone si sono riconosciute. Questo significa fare l’autore di mestiere. Il segreto è non fare la canzone per te. La canzone non deve essere un monumento a te stesso o una creatura che comprendi solo tu. La canzone deve essere per tutti, deve riguardare tutti, per cui è necessario che l’autore conosca e comprenda il momento politico e sociale della nazione in cui lavora, che senta la gente e che viva... in modo tale da poter raccontare, non solo la sua vita, ma soprattutto quella degli altri. Non puoi esimerti, vogliamo un’aneddoto! Ne avrai a centinaia da raccontare... ti va di sceglierne uno da raccontare ai nostri lettori? Era il 1984 e fui contattato da Freddy Naggiar per scrivere il testo della canzone che Albano e Romina avrebbero portato a Sanremo. Era l’anno in cui Toto Cutugno era dato da tutti per vincitore. L’ultimo giorno utile per l’invio della canzone mi telefonò Albano, dicendomi che ancora non aveva il testo. Io ero in sala d’incisione, non avevo ancora scritto nulla (di questo particolare, però, nessuno era a conoscenza) e avevo con me soltanto un foglio sul quale avevo annotato la metrica della canzone. Dettai il testo della canzone ad Albano per telefono, creandolo lì, su due piedi. La canzone s’intitolava Ci sarà. Come andò a finire? Vincemmo Sanremo! Ma è una cosa prettamente italiana. All’estero sono numerose e molto richieste le collaborazioni con autori importanti... Difatti, la gente non si rende conto che non essendoci più sul mercato autori come Bigazzi, Minellono, Mogol, Calabrese, Beretta, Pallavicini, ovvero i grandi parolieri della musica italiana, la canzone italiana è morta. All’estero,

invece, gli editori musicali fanno a gara per accaparrarsi la firma di autori importanti. In Italia, oggi, l’autore non viene preso in considerazione...

Una parola può significare tantissime cose, può avere diverse accezioni, è determinata da un contesto o da un’emozione. La parola utilizzata da uno scrittore è differente da quella di uso comune; un autore la colloca in quella posizione, le dà quella determinata sfumatura per uno scopo preciso. Un autore ha rispetto delle parole che usa. Com’è il rapporto tra autore e parola nella scrittura di un testo musicale? In una canzone, la cosa molto importante è che bisogna cercare di esprimere un concetto ampio con poche parole, non viceversa. Ad esempio con frasi del tipo: “accendere la luce, la carta e la matita ed aspettar che il mondo mi esca dalle dita” oppure “Quando il mondo parla con la mia mano è lì che ti amo” esprimi mille cose in un’unica frase... Bisogna riuscire a catturare un momento, una situazione ed esprimerla in un rigo. Cristiano, ti vediamo molto attivo anche sulla questione SIAE. Cosa ne pensi? Penso che noi autori siamo stati vittime per decenni di una rapina continua da parte degli editori che hanno approfittato vergognosamente della situazione, prendendosi il 100% dei diritti delle canzoni. Adesso è giunto il momento che la SIAE torni in mano agli autori, è nata come SIA, Società Italiana Autori, e tale deve ritornare ad essere. Ma in un’epoca legata fortemente all’apparenza, alla forma, che ruolo hanno i contenuti? Quanto conta la parola? La parola oggi conta poco, è mercificata, svilita. Oggi le grandi case di produzione pagano pochissimo gli autori, soprattutto nel campo televisivo. L’arte nel nostro Paese viene incredibilmente trascurata. La cosa incredibile è che tutto ciò accade proprio in un Paese conosciuto nel mondo come il Paese dell’arte, della creatività. Calcola che la professione di autore non viene tutelata dalla legge, che non ci garantisce alcun diritto. Oggi non consiglierei ad un giovane di intraprendere questa carriera, a meno che non abbia dei mezzi propri per potersi mantenere e tanta, tanta passione.

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Diciamolo con i gomitoli di Stefania Stefanelli, Autrice e Sceneggiatrice Televisiva

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vete presente la dolce nonnina che sferruzza seduta sulla sua centenaria poltrona davanti al camino con gli immancabili occhialetti sul naso? Dimenticatela. E dimenticate anche i cari vecchi murales. Dimenticate quei ragazzi che armati di bombolette e vestiti come modernissimi rapper, creano il viso di Bob Marley sulle squallide mura grigie delle periferie urbane, in poco tempo e sotto gli occhi di un pubblico metà estasiato, metà infastidito. Hanno fatto il loro tempo. Oggi la street art è nelle mani di quella nonnina che ha lasciato poltrona, camino e occhialetti e si è trasformata in una specie di vendicatrice solitaria che la notte, mentre tutti dormono, va in missione segreta per le strade della città a colorarle con le sue creazioni fatte a maglia. Ed ecco che al risveglio gli anonimi pali della luce, le fontane arrugginite e le tristi statue nei parchi appaiono diverse, ricoperte di creazioni colorate e, in una sola parola, vive.

Lo chiamano yarn bombing, ovvero “bombardamento tessile”. Le puriste di quest’idea sono le Guerrilla Knitting, un gruppo di audaci signore di mezz’età che vivono in Cornovaglia e che, in totale anonimato, portano avanti il progetto di un autonomo abbellimento delle città non per fama o guadagno, ma per il gusto di sorprendere e di sorprendersi. Non si sa mai quando colpiranno, ma scelgono sempre eventi importanti durante i quali palesarsi e stupire tutti. È pura poesia. L’idea di usare un’arte vecchia come il cucco per ritrasformare i monocromatici paesaggi urbani in paesaggi naturali sui generis senza inquinarli e senza rovinarli è quanto di più moderno sia stato pensato negli ultimi decenni. (E di certo molto più futurista del vandalo che buttò inchiostro rosso nella fontana di Trevi pensando di essere originale e che invece rischiò di comprometterne funzionamento e colore per sempre). La lana sembra quasi avvolgere ciò che copre e quegli strani accostamenti di colori comunicano più allegria di quanto potrebbe fare una fiera di paese.

È un modo per riprendersi il territorio e non è un caso che dopo il terremoto che ha devastato L’ Aquila nel 2009 sia stato subito promosso un evento denominato “Mettiamoci una pezza – Una città ai ferri corti” per riempire con lo sferruzzamento il vuoto lasciato dai crolli.

Comunicazione, colore, lavoro artigianale, iniziative sociali e un bel po’ di creatività .

Ma anche un perfetto veicolo pubblicitario, che nelle mani giuste può trasformarsi in un business serio. E infatti il fenomeno sta spopolando grazie al collettivo Knitta Please fondato da Magda Sayeg, un’intraprendente texana che ha fatto di questo passatempo un vero e proprio mestiere, pubblicizzando al massimo il lavoro suo e del suo team ed arrivando a lavorare su commissione in tutto il mondo. Vanta collaborazioni con i marchi Vodka, Smart Car, Mini Cooper, esposizioni in numerosi musei, un web store in cui acquistare t-shirt e cover per telefoni cellulari rigorosamente fatti a maglia, un sito internet (www. magdasayeg.com) dove è possibile seguire passo passo i viaggi del gruppo ed ammirare una galleria fotografica in cui troneggiano immagini di interi bus ricoperti di lana. Bellissimi anche questi, senza dubbio. Ma volete mettere l’emozione di svegliarsi e scoprire una nuova installazione lì dove non ve la sareste mai aspettata? Volete mettere il romanticismo dell’anonimato delle artiste ed il sospetto che la cara vecchietta che compra la verdura con voi al mercato sia in realtà una guerrilla girl?

Volete mettere il concetto di “arte per l’arte”? Eterna lotta tra ragione e sentimento, insomma. In ogni caso, geniale.


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© www.magdasayeg.com

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Location: Bali, Indonesia

Location: Mexico City

Location: Paris, France


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Andy Warhol. Alla corte dell’imperatore di Martina Dragotti, Copywriting & Communication

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1928 - Pittsburgh: nasce Andrew Wahrola JR. 1949 - Carnegie Mellon University di Pittsburgh: si laurea e si trasferisce a New York. 1952 - Hugo Gallery di New York: tiene la prima mostra personale. 1956 - Bodley Gallery: espone alcuni disegni e presenta le sue Golden Shoes in Madison Avenue. 1960 - Comincia a realizzare i primi dipinti che si rifanno a fumetti e immagini pubblicitarie. 1962 - Fonda la prima Factory. 1967 - Si lega al gruppo rock dei Velvet Underground (di Lou Reed), di cui finanzia il primo disco. 1968 - Rischia la morte, all’interno della Factory, per l’attentato di Valerie Solanas. 1980 - Diventa produttore della

Andy Warhol’s TV.

1983 - Espone al Cleveland

Museum of Natural History e gli viene commissionato un poster commemorativo per il centenario del Ponte di Brooklyn.

1986 - Si dedica ai ritratti di Lenin e ad alcuni autoritratti. 1987 - Muore durante una semplice operazione chirurgica.

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n giorno, correva l’anno 1962, Andy Warhol si recò nell’appartamento di Billy Name, suo amico fotografo, e restò affascinato dal modo in cui era decorato: il color argento straripava dagli ambienti, specchi rotti e patine in carta stagnola rivestivano gli spazi rimasti, ovunque si assaporava uno stile proto-glam decadente. Subito fu tutto chiaro, era così che voleva fosse il suo loft appena preso in affitto al 231 East della quarantasettesima strada a Manhattan, passato alla storia come The Factory.

Ogni giorno, in quella Silver Factory (fabbrica d’argento) i cui rivestimenti di carta stagnola ricoprivano finanche l’ascensore, il folle Andy portava manciate di palloncini argentei, che faceva galleggiare sul soffitto; era un ambiente decadente e underground, una sorta di laboratorio collettivo di idee e progetti, una corte nella quale contaminazione, decontestualizzazione e sregolatezza diedero vita ad opere celebri ed intramontabili. Nella Factory il buon proposito all’ordine del giorno era quello di dissacrare il concetto di opera d’arte: spettacolo, musica e arte erano costantemente intrecciati e, mentre qualcuno si dedicava ad un provino e qualcun altro era impegnato in una serigrafia, qualcun altro... si faceva di anfetamine.

Geniale, stravagante, bizzarro, ironico...

questo e molto altro sarà Andy Warhol nel panorama comunicativo degli anni a venire. Una sera del 1965, nel quartiere del Greenwich Village di New York, al Cafè Bizarre, una band musicale venne licenziata dagli organizzatori dopo l’esibizione: troppo volgari e scandalosi quel Lou Reed e la sua banda che si faceva chiamare Velvet Underground. Andy, quella sera si trovava proprio lì, seduto ad un tavolo... e rimase folgorato: quei

folli erano perfetti per la Factory, erano la sua arte trasposta in musica, erano in pieno stile Warhol. Messa a disposizione la Factory per le prove, diventò il loro consulente estetico e produsse il loro primo Lp. Fu così che le parole “Take a Walk on the Wild Side” – fatti un giro nella zona selvaggia – diventarono il richiamo persuasivo della Factory, il canto della sirena con cui Warhol e la sua corte ammalieranno la società americana da lì in avanti. Un’arte senza confini che ha sugellato le icone-simbolo del XX secolo: senza ricerca estetica, pretese polemiche o biasimi, le opere di Warhol hanno contribuito in maniera essenziale a fotografare lo spirito alienato e psicotico della società di massa americana, spersonalizzata, seriale, riproducibile, a scadenza... Tuttavia incredibilmente democratica: il volto di Marylin Monroe come le Campbell’s Soup, Elvis Presley, Mao Tse-tung e le lattine di Coca-Cola divengono icone, nulla più che oggetti di una narrazione documentaristica di una storia che potrebbe intitolarsi “La società dell’immagine”.

Io vivo la mia vita alla luce del sole. Sarò felice di dirvi quello che sto facendo ogni minuto di ogni singolo giorno .

Questa frase mi appare più che mai attuale, mentre scorro la bacheca ricolma di aggiornamenti di stato del mio social. Quasi come se la sua visionaria e dissacrante personalità avesse fatto un giro negli anni duemila e avesse voluto preannunciare alla società di massa americana di rifarsi il trucco, di indossare la maschera... perché di lì a poco, ognuno avrebbe avuto i suoi quindici minuti di popolarità.


Š Patrizia Basile

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Dialetto che passione di Rosalba Iazzetta, Accounting Office LA LINGUA – Buon giorno, fratello. Tu hai la cera rannuvolata. IL DIALETTO – Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in quest’aspetto. LA LINGUA – Perché mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace essere chiamata sorella. (…) Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre? legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni?

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osì scriveva De Amicis ne L’Idioma gentile del 1905 chiamando la lingua “sorella del dialetto”, essendo entrambi figli di uno stesso albero. Beh, a centosette anni dalla pubblicazione di questo libro e a centocinquantuno dall’unione del Bel Paese, i mille dialetti del nostro stivale sobbollono più vivi che mai. In effetti, tra lingua e dialetto non vi è una differenza di tipo linguistico ma di status; la lingua ha una connotazione ufficiale negata al dialetto e dovuta a ragioni storiche e sociali, infatti, una stessa forma espressiva può essere, secondo le epoche e le zone, classificata come lingua o come dialetto, tuttavia il loro rapporto insinua una subalternità ideologica impropria rispetto alla realtà linguistica. Nel terzo millennio tutti, o quasi, parlano l’italiano, ma il dialetto risulta essere ancora un’importante risorsa, poiché alcune parole mantengono il loro puro significato solo se pronunciate nel dialetto originario, e, provando a tradurle in italiano, perdono gran parte dell’efficacia espressiva. In tempi recenti, abbiamo assistito ad una rivalutazione del vernacolo che assume qualche carattere di nazionalità grazie all’introduzione, in dizionari della lingua italiana, di lemmi che un tempo appartenevano puramente al dialetto (il napoletano inciucio, il romanesco malloppo, il genovese mugugno, la piemontese ramazza, per citarne alcuni). Oggi questi termini fanno parte del lessico comune e non sono più percepiti come parole dialettali. Anche nel mondo del web (pensiamo a social network, blog e chat) assistiamo a passaggi dall’italiano al dialetto, colorati e divertenti, definiti dagli esperti code mixing, quasi a sottolineare un’ufficialità non uf-

ficiale, svincolata da ambiti non formali, e a dimostrazione del fatto che il dialetto non è appannaggio esclusivo della popolazione anziana. In ambito letterario, teatrale, cinematografico e musicale il dialetto risuona: note, nei romanzi di Camilleri, le espressioni tipicamente siciliane che sembrano colorare di profumi ed immagini le parole; le commedie di Eduardo De Filippo, le opere di Dario Fo e le bellissime canzoni del poeta De André, come Crêuza de mä, scritta in genovese, o L’Ave Maria e Zirichitaggia, scritte in dialetto sardo. Pensiamo ancora alle espressioni prese in prestito dal dialetto da Pasolini, Sciascia e D’Annunzio, o alle poesie dialettali di grande respiro nazionale di Trilussa, Belli, Cecco Angiolieri, Di Giacomo e Porta. E come non citare i bellissimi film di Troisi, nei quali ha sdoganato il dialetto napoletano rendendolo accessibile a tutti, o personaggi come Sordi, Fabrizi, Benigni, Gassman, Totò che hanno reso familiari e nazionali espressioni tipicamente dialettali, che ci ritroviamo ad usare in questa o quell’altra occasione e, talvolta, anche in situazioni un po’ più ufficiali quasi a voler rompere il ghiaccio per alleggerire un contesto troppo formale. Certo, la lingua italiana è meravigliosa anche perché, oltre che delle lingue classiche, delle influenze straniere e delle varie dominazioni che ne sono state fonte rigogliosa, si è arricchita di qualcosa di tipicamente italiano: il dialetto, che con le proprie “piccole” radici che scorrono attraverso tutto lo stivale, passa dall’estremo nord all’estremo sud, e valorizza la nostra lingua con sensazioni, profumi, colori, immagini e sentimenti. In fondo, quasi a voler dire un’eresia, la Divina Commedia non è stata scritta in latino, lingua ufficiale del tempo, ma in volgare con una lingua che attingeva dal toscano, con inserimenti di lombardismi, francesismi, latinismi, meridionalismi e neologismi.


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e scommesse sono aperte: a quando la fine del mondo?! Maghi, profeti ed esperti in finedelmondologia non fanno altro che sciorinare date e dati allarmanti su pseudo catastrofi ed estinzione globale, a causa di allineamenti planetari sospetti, nubi tossiche, tettonica a zolle, placche e apocalisse.

Ma la data più quotata, “quella che tutti temono

o attendono (a seconda che il loro bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo pieno), è quella del 21-12-2012, ad esclusivo copyright dei Maya .

Ad essere onesti i signori Maya erano tutt’altro che millantatori: a loro si devono i più spettacolari centri urbani dell’antichità (Tikal, Palenque, Yaxchilán, Copán, Piedras Negras, Uxmal, Tulum, Chichén Itzá, per citarne alcuni), noti per le loro tecniche aritmetiche e la scrittura, erano anche degli abili coltivatori rispettosi della terra e... forse sì, è il caso di ammetterlo, leggermente ossessionati dal tempo e dal suo scorrere. Più ricercato e conosciuto rispetto a quelli di starlette desnude dal piglio artistico, il Calendario Maya è un calendario molto elaborato, basato su una concezione ciclica del tempo. Ecco, allora, ben presto spiegata la loro ossessione: un tempo ciclico comportava la dinamica del ritorno delle stesse influenze e conseguenze, era necessario, dunque, riuscire a calcolarlo. Per questo, la civiltà Maya era attratta dall’attività degli astri, specialmente da quella del sole, che si presentava sotto angoli che cambiavano a seconda dei diversi periodi dell’anno. E fu così che, grazie all’osservazione e alla meticolosa registrazione di quanto accadeva, i Maya riuscirono a determinare le date esatte dei solstizi, ovvero il giorno più corto e quello più lungo dell’anno.

senza fare allarmismi, “è Ecco, proprio in quello più corto,

il 21 Dicembre 2012 – giorno del solstizio d’Inverno – che secondo i Maya sarebbe prevista la visita della signora Fine, che di cognome fa Del Mondo .

È forse per questa grande precisione e meticolosità che li caratterizza, che questa data mette tanto timore? O, forse, per il bisogno di sentirci tutti accomunati ad uno stesso destino? Ad ogni modo la profezia dei Maya è un fenomeno che ha scatenato riflessioni e fenomeni che vanno dal bizzarro all’esoterico, dal divertente allo stimolante, ad estensione senza dubbio globale. Se Google rappresenta l’unità di misura con la quale definire l’entità dei fenomeni sociali, ecco alcune cifre: digitando Maya 2012 all’interno del motore di ricerca appaiono circa 293 milioni di risultati, appena 200 milioni in più rispetto alla voce Presidente USA.

Un’interessante iniziativa, senza dubbio divertente, è quella de laprofeziadeimaya.it che ha avuto inizio il 21-06-2012, a sei mesi esatti dalla presunta data X. Lo spazio web permette agli utenti di lasciare un proprio messaggio al mondo, che verrà poi pubblicato in un volume in cui ciascuno sarà indicato come autore. Il volume, come fa sapere la redazione de laprofeziadeimaya.it, sarà edito nel febbraio 2013, fine del mondo permettendo!


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Un “Ulisse” tutto da ridere di Riccardo Michelucci, Giornalista

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rano ancora gli anni ‘50 quando il commediografo americano Thornton Wilder definì “un pazzo” e “un imprudente” il grande anglista fiorentino Giulio De Angelis per aver intrapreso un’opera quasi proibitiva come la traduzione in italiano di Ulysses, il capolavoro di James Joyce. Nel 1960, dopo anni di lavoro, e senza disporre di approfondite conoscenze della letteratura e della storia irlandese, De Angelis fece uscire nella collana “Medusa” di Mondadori diretta da Elio Vittorini un’edizione destinata a rimanere per oltre mezzo secolo l’unica trasposizione in italiano. Le revisioni e gli aggiornamenti che negli anni successivi hanno arricchito quel lavoro pionieristico non sono bastate a evitare che uno dei testi fondamentali del letteratura contemporanea giungesse fino ai giorni nostri legato a canoni linguistici e interpretativi di un’altra epoca. Col passare del tempo, l’opera è divenuta un testo sempre meno leggibile da un pubblico italiano di non specialisti. Ecco perché era auspicabile che la scadenza dei diritti d’autore sulle opere di Joyce – caduta nel gennaio scorso – coincidesse con un’occasione di rilettura critica del grande romanzo dello scrittore dublinese. A cogliere al volo tale opportunità, bruciando sul tempo anche la concorrenza di editori più specializzati, è stata Newton Compton, che ha dato alle stampe una nuova edizione italiana tradotta e curata da Enrico Terrinoni, corredandola con un apparato critico paragonabile a quello delle grandi edizioni annotate in lingua inglese. Docente di letteratura inglese all’Università di Perugia, già autore di numerosi scritti su Joyce, Terrinoni ha impiegato quattro anni di lavoro per ultimare l’opera, e adesso basta sfogliare le due edizioni per notare subito grandi differenze stilistiche e lessicali.

La mia versione mira a rispettare la colloquialità del testo – ci spiega – Ulysses è un libro tutt’altro che inaccessibile, è al contrario un libro comico, con un linguaggio raramente aulico, è un’opera intesa da Joyce per il lettore comune .

Già, il lettore comune. Proprio quello che di fronte alla consistenza del volume e alla scarsa punteggiatura tipica del flusso di coscienza joyciano era solito scappare a gambe levate, abbandonando il volume alle prime pagine o, peggio, condannarlo per sempre alla polvere delle librerie. A detta di molti critici De Angelis non era riuscito a cogliere fino in fondo lo humour di Joyce mentre questa nuova traduzione, oltre che essere resa in un italiano inevitabilmente più moderno, cerca di riprodurre per quanto possibile tutta la comicità del libro, dando anche la giusta importanza alla componente linguistica e culturale irlandese. A partire dall’ambiguità semantica del libro, nel quale l’autore gioca con una lingua che non è soltanto l’inglese, ma anche l’irlandese del popolo, della Dublino operaia e lavoratrice. Terrinoni è riuscito a cogliere


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numero 3 - giugno 2012

appieno questi aspetti seguendo le orme di illustri studiosi irlandesi come Declan Kiberd, Seamus Deane, John McCourt e altri, che lavorano da anni per affermare il carattere popolare di Joyce, partendo dalla riscoperta linguistica e dalle potenzialità semantiche del suo capolavoro. Ma sostiene che non avrebbe mai potuto tradurre Ulysses senza un apparato di solide conoscenze critiche maturato in lunghi anni di lavoro a Dublino, e gli studi condotti in Italia nell’ambito della scuola joyciana di Giorgio Melchiori, ora proseguita da Franca Ruggieri. “Melchiori fu uno dei consulenti di De Angelis, entrambi grandi traduttori. Il mio lavoro, grazie anche alla consulenza di Carlo Bigazzi, tenta di emanciparsi da quell’impresa pionieristica, ma non posso non provare un debito di riconoscenza nei loro confronti”. Terrinoni aveva già curato la trasposizione di opere di autori in lingua inglese come l’irlandese Brendan Behan e gli scozzesi Muriel Spark e John Burnside, “ma con Joyce – sostiene – siamo su un altro pianeta.

Ulisse è un testo “plurale” che richiede una miriade di strategie traduttive. Ogni episodio possiede la propria tecnica, e gli stili con cui Joyce si cimenta sono innumerevoli.

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La mia traduzione ha seguito il principio dell’inclusività: quando un’espressione si scompone in ramificazioni multiple, ci vuole una resa molteplice, polisemica, per creare un’ambiguità parallela a quella originale. È il lettore ad avere sempre l’ultima parola”.

a bowl g n i r a e b , d irhea from t he sta r and a o r r i m a h c i wh of lather on essingr d w o l l e y ssed. A gently d razor lay cro e n i a t s u s s dled, wa r i g n u , n ing air. w n o r g o m d l i m n the behind him o l aloft and intoned: bow ei. d e r He held the a t l a d a -introibo


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Green è trend di Stefania Buonavolontà, Marketing & Communications

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a coscienza ambientale si sta facendo sempre più strada, anche in Italia, nel mondo dei consumatori ed una maggiore domanda, per fortuna, stimola il mercato dell’offerta, che inizia a rispondere a tale esigenza. L’interesse verso tematiche ecologiche da parte dell’opinione pubblica cresce in maniera interessante e la ricerca di informazioni – facilitata grazie ad internet – su quali siano i cambiamenti che il pianeta sta attraversando, fornisce al cittadino gli strumenti necessari per aprirsi ad una riforma etico-ambientalista, in chiave propositiva e sensibile.

Ma cosa significa Green Economy?

Sembra quasi un ossimoro ed invece è qualcosa di possibile, auspicabile e già praticato. Un’economia verde è un’economia il cui impatto ambientale è contenuto entro dei limiti accettabili. Tecnologia e conoscenza scientifica sono punti fondamentali che devono accompagnare la crescita e la diffusione di questo cambiamento. Oltre alle fonti di energia rinnovabile, infatti, gioca un ruolo fondamentale in questo contesto l’impiego di tecnologie e tecniche in grado di aumentare l’efficienza energetica dei macchinari o delle abitazioni al fine di ridurre sprechi di energia e di risorse. Un comportamento sostenibile è la strada che può portare ad un benessere collettivo.

Anche pensando alle vacanze: esistono, infatti, strutture alberghiere ecosostenibili che rilassano il turista e stressano meno l’ambiente!

EcoWorldHotel è il primo Brand alberghiero ecosostenibile e il primo Marchio di Qualità Ambientale per strutture ricettive in Italia, che raggruppa oltre 120 tra hotel, b&b, agriturismi, residence, alberghi diffusi, ecc.. Nel 2007, EcoWorldHotel ha redatto la “Guida per le strutture ricettive ecosostenibili”, contenente i requisiti, nel rispetto della normativa italiana ed europea, per ottenere il Marchio: 15 requisiti obbligatori e 75 facoltativi suddivisi in diversi ambiti; a seconda degli interventi realizzati e, quindi, del punteggio complessivamente raggiunto, il diverso impegno ambientale che caratterizza ogni struttura viene indicato con un numero crescente di Eco-foglie da 1 a 5, proprio come le stelle nella classificazione alberghiera.

Tra i diversi riconoscimenti ricevuti in questi anni, il 25 marzo 2011 EcoWorldHotel è stato premiato per l’innovativo sistema di classificazione in Eco-foglie con il “Premio Impresa Ambiente 2011”.

Questa magnifica iniziativa parte dal presupposto che si debba iniziare dal coinvolgimento responsabile e motivato degli operatori turistici e dei loro ospiti per conquistare una risposta efficace al problema della salvaguardia dell’ambiente.


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Curiosità Facecrooks: il libro delle facce, Non ci vedo più dalla fame. si ma dei ricercati! È falso!

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icon facecrooks designed by antonmircea.com

©facecrooks

iamo in New Jersey e l’ispettore Mickey Bradley, sceriffo della contea di Bergen, ha deciso di creare un sito internet. No, lo sceriffo non era stanco di accalappiare malviventi, anzi! Per acciuffarli meglio, ha preso l’idea in prestito al Signor Zuckerberg e ha creato il social network dei ricercati. Nel sito, infatti, al posto degli amici si archiviano delinquenti di ogni genere. L’idea è nata per istituire sul web una pagina di allerta e di informazione al cittadino, in particolar modo per i crimini informatici. I visitatori del sito devono accettare specifiche condizioni d’uso, in base alle quali s’impegnano a non usare il sito per “intimidire o molestare gli altri”. Facecrooks, inoltre, invita gli utenti ad utilizzare il sito solo per le segnalazioni... e a non improvvisarsi supereroi!

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stato dimostrato che quando sentiamo quegli imbarazzanti brontolii allo stomaco e siamo presi dalla voglia di assaltare il frigorifero, le nostre facoltà visive in realtà aumentano. Ma solo nei confronti delle parole che hanno a che fare con il cibo, che ci appaiono più nitide rispetto alle altre. Il processo avviene a livello inconsapevole, afferma Rémi Radel dell’Università Sophia-Antipolis di Nizza, in Francia, che per il suo esperimento ha reclutato 42 studenti, metà affamati e metà sazi. I soggetti affamati hanno dimostrato di vedere le parole inerenti al cibo più chiaramente e hanno avuto migliori risultati nel riconoscimento dei termini culinari. «È incredibile che gli esseri umani riescano a percepire immediatamente ciò di cui hanno bisogno» ha commentato Radel «c’è qualcosa in noi che seleziona le informazioni esterne per renderci la vita più facile».

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