Periodico d’informazione sulla comunicazione e dintorni N. 3 - ANNO V MARZO 2016
Project Natick: il futuro è sott’acqua Profondo Zen I capolavori della Maison Fabergé: l’uovo del Cremlino Ennio Morricone: raggiungere la consacrazione come esempio di italianità Brand Identity vs Brand Image. L’importanza di saper comunicare I social in evoluzione Gestione dei progetti e competenze comunicazionali Organismo… diagnostico I conflitti comunicativi culturali Orologi sempre più smart… La Svizzera trema
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numero 3 - marzo 2016
Editoriale
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Registrazione al Tribunale di Napoli N. 27 del 6/4/2012 Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione Direttore Editoriale: Marco Iazzetta Grafica & Impaginazione: Diego Vecchione Hanno collaborato in questo numero: Michele Botti, Riccardo Catapano, Enrico De Pompeis, Silvia Iazzetta, Elena Mittino, Stefano Rossi Rinaldi, Loredana Romano, Mariano Santoro, Rosario Sorrentino, Giuseppe Zappata. Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio Ph. +39 081 621911 • Fax +39 081 622445 Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro 50126 Firenze – 20, Via Cardinal Latino Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari. La pubblicazione delle immagini all’interno dei “Servizi Speciali” è consentita ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca.
hi più, chi meno, consapevolmente o meno, passiamo molto tempo a raccontare quello che facciamo, esprimere pareri e condividere attimi della nostra vita sui social network. Perché non farlo allora chiedendo alla propria rete di contatti di finanziare un’idea, un progetto? È questa la logica del crowdfunding, una pratica di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse con l’intento Marco Iazzetta di supportare la nascita di un progetto piccolo, come General Manager la pubblicazione di un libro o di un progetto più granMenthalia de che prevede l’apertura di una startup. C’è chi con il crowdfunding ha addirittura raccolto fondi per restaurare opere d’arte o chi ha realizzato il sogno della propria vita girando un film o organizzando un matrimonio da favola. È abbastanza facile intuire che non c’è alcun limite all’oggetto della richiesta di fondi, l’unica prerogativa è appunto quella di chiarire meticolosamente la motivazione per la quale si vogliono raccogliere fondi. La pratica più conosciuta è quella del Crowdfunding Reward, con cui il promotore si impegna a dare qualcosa in cambio per premiare il finanziatore e, nella maggior parte dei casi, il premio corrisponde proprio all’oggetto che si vuole realizzare con i soldi raccolti in crowdfunding. A fare la differenza in molte campagne è la capacità di riuscire a catturare l’interesse del finanziatore per l’oggetto. Attraverso questo editoriale Menthalia vuole condividere con voi un progetto stimolante al quale ha aderito e che ha nel crowdfunding la sua totale essenza. La nostra agenzia supporterà infatti, “Possible. Crowdfunding Tales”, il primo libro italiano sul crowdfunding, fatto in crowdfunding scritto da Maurizio Imparato, uno dei massimi esperti del settore con alle spalle moltissime campagne di successo. “Possible” perché il crowdfunding rende possibile ogni cosa, se veramente la desideri. “Crowdfunding Tales” perché ogni campagna è una favola a sé. Vive di vita propria pur rimanendo nell’intreccio narrativo. Un progetto ambizioso, che punta a diventare un riferimento per gli operatori del settore con il successivo sviluppo di un’App che funga da guida alla scelta della piattaforma giusta per promuovere la propria campagna e organizzare nel modo corretto l’agenda del crowdfunding, aiutando a capire quando e cosa postare sui social media.
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Project Natick: il futuro è sott’acqua Di Riccardo Catapano
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l mondo informatico è sempre più indirizzato allo sviluppo e all’aggiornamento del Cloud, quel paradigma di erogazione di risorse informatiche, come l’archiviazione, l’elaborazione o la trasmissione di dati, che è perennemente connesso ai nostri dispositivi durante le navigazioni. Per rendere tutto questo possibile, le grandi case dell’hitech sono alla costante ricerca di infrastrutture all’avanguardia, in grado di contenere data-center giganteschi. Nodo critico risulta l’impatto ambientale, considerando l’ingente quantità di calore generata che, sempre più spesso, costringe le aziende a collocare queste strutture in zone freddissime del pianeta e a fornirle di sofisticati impianti di raffreddamento a basso impatto termico. L’ultima novità in questo campo arriva direttamente dalla Microsoft (proprietaria di circa 100 data-center sparsi per il globo con una spesa complessiva di circa 15 miliardi di dollari per la loro gestione), che con il suo Project Natick spera di dare una svolta decisiva all’annoso problema: l’azienda fondata da Bill Gates e Paul Allen ha infatti ideato dei container a tenuta stagna da ancorare sul fondo dell’Oceano per contenere i numerosi server. Il primo prototipo messo in campo, anzi in acqua, denominato Leona Philpot, ha già dato risultati incoraggianti, andando oltre le aspettative del team sperimentale: immerso ad agosto del 2014 nelle acque al largo della California, ha perfettamente funzionato per 105 giorni. Il progetto è ancora in fase embrionale ma sono diversi i punti che lasciano pensare che ci si possa trovare di fronte a una vera e propria rivoluzione per lo sviluppo informatico del futuro: oltre al sopracitato raffreddamento garantito
dalle profondità oceaniche, c’è da fare i conti anche con i consumatori. Il 50% della popolazione vive infatti vicino alle coste, e andando a creare un data-center vicino a dove c’è domanda sicuramente l’offerta risulterà maggiore. Interessanti anche i tempi di realizzazione che potranno richiedere solo 90 giorni contro i due anni mediamente necessari a edificarne uno sulla terraferma. Come se non bastasse, i progettisti iniziano a pensare anche agli aggiornamenti e alle migliorie di tali capsule, immaginando lo sfruttamento delle correnti sottomarine per auto-alimentare i dispositivi. Ovviamente non mancano gli ostacoli e i dubbi che tale progetto comporta: uno tra tutti, la difficoltà di manutenzione. Per cercare di aggirare il difficile intervento umano a tale profondità, si cercherà di rendere le capsule operative al 100% senza manutenzione diretta per almeno 5 anni. Così come si lavora per l’impatto ambientale per cercare di evitare la dispersione e il mutamento delle temperature marine, oppure prevenire l’inquinamento acustico che potrebbe infastidire alcuni animali. Ciò che è certo è che siamo all’alba di una nuova era: la tecnologia ha intrapreso una nuova strada, degna del talento visionario di Jules Verne e del suo “Ventimila leghe sotto i mari”. Sarà la scelta giusta?
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Profondo Zen di Rosario Sorrentino
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I capolavori della Maison FabergÊ: l’uovo del Cremlino di Mariano Santoro
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Ennio Morricone: raggiungere la consacrazione come esempio di italianitĂ di Elena Mittino
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Brand Identity vs Brand Image. Di Enrico De Pompeis
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BRAND IDENTITY Kapferer introdusse per la prima volta il concetto di Brand Identity nel 1986, definendolo come tutto ciò che rende il marchio significativo e unico, comprendendo il valore del marchio, l’obiettivo e l’immagine morale, che insieme costituiscono l’essenza dell’individualità che differenzia il brand dagli altri. La Brand Identity coinvolge molte dimensioni ed ogni aspetto della comunicazione del brand, che sia formale o informale, verbale o non verbale, materiale o non materiale.
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L’importanza di saper comunicare BRAND IMAGE Posizionata sul lato del destinatario del modello di Kapferer, la Brand Image rappresenta invece la somma delle percezioni che si formano nei consumatori,
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come questi percepiscono un marchio e lo identificano/differenziano rispetto a quello di altre marche. Questa percezione è determinata dall’attribuzione di valori e di significati peculiari al sistema d’offerta dell’impresa, frutto delle associazioni detenute nella memoria dei consumatori. Sono proprio queste associazioni che forniscono il reale significato del marchio al consumatore.
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I social in evoluzione di Stefano Rossi Rinaldi
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Gestione dei progetti e competenze comunicazionali di Loredana Romano
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Organismo… diagnostico di Giuseppe Zappata
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a medicina di oggi, tecnicamente potente come non lo è mai stata nel corso della storia dell’umanità, si avvale di mezzi sofisticatissimi per esplorare l’interno del corpo umano. Le radiazioni ionizzanti dei raggi X penetrano i tessuti biologici molli permettendo di ricavare immagini radiografiche, gli ultrasuoni danno quelle ecografiche, la risonanza magnetica produce immagini estremamente precise anche in tempo reale, mentre impiegando isotopi radioattivi per “illuminare” l’interno del corpo umano per ricavarne immagini si entra nell’ambito della medicina nucleare. Tra le varie tecniche diagnostiche, quelle in campo ionizzante si espletano in ambienti appositamente progettati e verificati al fine di minimizzare la pur debole presenza di radioattività dispersa
durante gli esami e dunque necessitano di speciali schermature anti raggi X, da applicare all’intero perimetro della stanza. Gli operatori stessi, sia medici che tecnici, si avvalgono di ambienti “regia” protetti da cui impostare i parametri degli apparati radiologici e quindi attivare le scansioni. Gli ambienti che ospitano queste apparecchiature per “imaging” sono spesso semplici contenitori impersonali, luoghi frequentati per il solo tempo dell’esame diagnostico e dunque non valorizzati dal punto di vista estetico-funzionale. Fortunatamente l’umanizzazione degli spazi di cura è un tema che sta trovando ampio campo di studio e sperimentazione nell’edilizia sanitaria, partendo dall’approccio “esigenziale”, sia fisico che psicologico. Il benessere ambientale, inteso come
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insieme delle condizioni che garantiscono il benessere fisico e sensoriale degli utenti, deve tenere conto di quei fattori, detti “stressori” ambientali, che influenzano negativamente il comfort psicofisico e sensoriale diventando fonte di fatica per gli utenti. Rumori, assenza o carenza di luce naturale, colorazione degli interni e materiali con caratteristiche e finiture poco confortevoli stanno suggerendo schemi progettuali che possano prevedere il mascheramento e la mimetizzazione delle apparecchiature medicali nonché degli eventuali terminali impiantistici, compatibilmente con il lavoro e le esigenze operative del personale sanitario. Le stesse espressioni formali degli involucri edilizi destinati a laboratori diagnostici possono essere modificate con lo scopo di armonizzare, nel modo più rilassante possibile, la serie di eventi che coinvolgono gli utenti, il personale medico, gli apparati medicali e lo stesso ambiente diagnostico. In questo senso, nuovi materiali detti “solid surfaces” sotto forma di lastre termoformabili, con caratteristiche antibatteriche ed una grande scelta cromatica, sono in una fase di sperimentazione per introdurre negli spazi diagnostici un tipo di architettura di interni “organica” e dunque con forme sinuose che al contempo possano integrare macchinari e funzionalità. Tali semplici accorgimenti possono coniugare le necessarie pratiche diagnostiche con un miglioramento delle reazioni psicologiche del paziente durante l’esame. Le pannellature disegnate per creare queste suggestioni biologiche sono realizzate in laboratori specializzati dopo una progettazione assistita da programmazione computerizzata e quindi tra-
sportate sul sito per essere riassemblate e saldate fino a comporre una unica parete flessuosa, piacevole al tatto e alla vista, di facilissima manutenzione. Questa pelle tecnologica vedrà poi l’inserimento di monitor, display, sistemi di controllo e comando e quant’altro necessario al funzionamento del “sistema” diagnostico concepito non più soltanto come un contenitore di macchine medicali ma come un organismo di diagnosi più umanizzato. Scienza e non fantascienza.
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I conflitti comunicativi culturali di Silvia Iazzetta
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fallimenti della negoziazione comunicativa sono frequenti nell’incontro di individui dalle abitudini comunicative differenti, come persone che provengono da diverse classi sociali, o tra generazioni, tra uomo e donna e, infine, tra individui che non appartengono alla medesima cultura. Nelle società maggiormente sviluppate, dove lo scambio è più frenetico e frequente, all’aumento dei contatti tra individui di differente provenienza segue spesso la radicalizzazione delle incomprensioni. In una società composta da gruppi chiusi la comunicazione è affidata in molta parte a presupposti taciti, convenzioni che assicurano la stabilità dell’interpretazione, offrono un’identità e un’appartenenza simbolica, e soprattutto velocizzano lo scambio facilitando la cooperazione. In un mondo dove lo scambio tra gruppi e culture differenti è intenso, non si può più fare facile affidamento sulle convenzioni implicite senza rischiare continui malintesi. Il rischio dell’incomprensione va compensato dunque con una maggiore esplicitazione dei presupposti comunicativi, con il conseguente aumento della quantità necessaria di comunicazione. Comunicando con culture diverse occorre trasmettere non solo un messaggio, ma anche la chiave interpretativa con cui tale messaggio va inteso. Inoltre, un’apparente eguaglianza di un mezzo comunicativo può far cadere nell’illusione che una tale differenza non ci sia e far abbassare la guardia di fronte ai rischi di malinteso. Insorgono, infatti, incomprensioni tra individui che, pur parlando la
medesima lingua, in realtà adottando stili e strategie così differenti da generare stati conflittuali mascherati dall’apparente condivisione dello stesso codice. La differenza culturale si rif lette anche sul modo di argomentare e di condurre una discussione. La differenza di strategie retoriche e argomentative delle culture consiste spesso in una differente concezione di che cosa sia un ragionamento o la sequenza argomentativa corretta. Ogni cultura ha una sua “logica”, una sua percezione della razionalità. O meglio: di come essa si deve manifestare nella comunicazione. E nelle situazioni di incongruenza il disaccordo si traduce in una reciproca sfiducia nella razionalità dell’interlocutore, talvolta anche nel sospetto di una sua debolezza mentale. Il tutto contribuisce infine a una generale incapacità di coordinare e negoziare le reciproche interpretazioni. Fin qui si tratta di malintesi, incomprensioni dovute alla mancanza di un codice comune. Un malinteso, se percepito come tale, non è un conf litto. L’interpretazione di un comportamento come errore (o “diversità” di convenzioni) o come il frutto di un’interazione conf littuale dipende da criteri complessi. Anche in questo caso l’omogeneità di tali criteri è un motivo di stabilità delle interpretazioni, mentre l’assenza di omogeneità può creare problemi. Dal momento che questi criteri sono anch’essi culturalmente codificati, è facile dunque che dalla dimensione del malinteso si passi a quella del conf litto.
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Orologi sempre più smart… La Svizzera trema di Michele Botti
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gli analisti tuttavia non incoraggiano la presa di posizione dei produttori svizzeri, valutando al rialzo le previsioni di vendita degli orologi intelligenti che dovrebbero aumentare sensibilmente arrivando a toccare quota 50 milioni nel 2016 e sfondare addirittura i 65 milioni nel 2017. Difficile a questo punto dare credito alle parole del Ceo di Swatch, Nick Hayek, che definì l’Apple Watch «nulla più di un giocattolo interessante». La proiezione, invece, è abbastanza chiara: sulle orme di quanto fatto dagli smartphone, gli smartwatch sembrano indirizzati a diventare oggetti di uso comune e non un più un «giocattolo» per appassionati nerd. Difficile a questo punto interrogarsi sul futuro degli orologi tradizionali con i produttori sempre più costretti a rifugiarsi nell’esclusività e nel lusso dei propri prodotti. Nel corso dei secoli l’orologio ha già superato la crisi del non essere più utilizzato come mero strumento di misurazione dell’orario, vistosi soppiantato da cellulari e computer, ma quanto piuttosto di ricoprire il ruolo di indicatore sociale. Fino a quando questo riuscirà a reggere il passo con l’intelligenza di dispositivi comunque in continua evoluzione, non ci è dato sapere. Saranno le regole del tempo a scandirlo, più che mai in questo caso.
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l mondo è in continua progressione e l’avanzamento della tecnologia è dirompente. Il concetto di “smart” ha ormai invaso la maggior parte degli oggetti di uso quotidiano divenendo predominanti nella telefonia e nell’intrattenimento. In attesa della futuristica introduzione di una smart-car, un altro celeberrimo oggetto di culto è stato messo sotto smacco: l’orologio svizzero. È ormai notizia diffusa che la vendita degli smartwatch ha sorpassato quella degli orologi svizzeri. Secondo il rapporto pubblicato da Strategy Analytcs, il sorpasso è avvenuto nell’ultimo trimestre del 2015 quando circa 8,1 milioni di smartwatch sono stati venduti rispetto ai 7,9 milioni dei tradizionali orologi swiss made. Un distacco relativamente ancora troppo basso per gridare al miracolo, ma se si contestualizza il dato rispetto ai differenziali percentuali maturati in riferimento allo stesso periodo del 2014 allora qualche riflessione è d’obbligo. Il calo di vendite degli orologi svizzeri si è assestato attorno al 5% ma quello che fa impressione è l’incremento del 316% (si, 316%) che gli smartwatch hanno registrato in appena 12 mesi. Una crescita mostruosa che però non sembra aver smosso, almeno per i momento, gli storici produttori elvetici che guardano ancora con scetticismo al mercato degli orologi intelligenti. L’unico top-brand che ci abbia almeno provato è Tag Heuer con il suo Connected da circa 1.300 €. Una mossa comunque rivedibile del produttore svizzero considerando la conquista di poco meno dell’1% dello share di mercato a fronte del 16% detenuto da Samsung o dell’inarrivabile 63% di Apple con il Watch. Le previsioni de-
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