Periodico d’informazione sulla comunicazione e dintorni N. 4 - ANNO V APRILE 2016
The Nextdoor Hello: l'esperimento sociale che accorcia le distanze
Lavoro? Sì, ma via dagli uffici, oggi si è tutti Freelance! Il project manager e le Mappe… del tesoro Google al contrattacco: ecco YouTube Connect! I capolavori della Maison Fabergé: l’uovo rete di diamanti S.O.S. Lingue Power Point e non solo. Chi sono gli altri? The Nextdoor Hello: Nescafé accorcia le distanze Quibee, la nuova frontiera della lettura digitale Tolleranza Zero!
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Editoriale
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Registrazione al Tribunale di Napoli N. 27 del 6/4/2012 Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione Direttore Editoriale: Marco Iazzetta Grafica & Impaginazione: Diego Vecchione Hanno collaborato in questo numero: Federica Aiello, Riccardo Catapano, Andrea De Cinti, Enrico De Pompeis, Danilo Di Domenico, Silvia Iazzetta, Elena Mittino, Loredana Romano, Stefano Rossi Rinaldi, Mariano Santoro. Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio Ph. +39 081 621911 • Fax +39 081 622445 Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro 50126 Firenze – 20, Via Cardinal Latino Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari. La pubblicazione delle immagini all’interno dei “Servizi Speciali” è consentita ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca.
ome mai il viola? È la domanda che spesso i nostri interlocutori ci pongono non appena rotto il ghiaccio del primo appuntamento. Sono tante le motivazioni legate alla scelta di puntare sul viola per caratterizzare Menthalia ed una di queste è proprio l’essenza della domanda stessa. Non credo che blu, rosso, verde, grigio o uno qualsiasi dei colori dell’arcobaleno avrebbe suscitato la stessa curiosità. Marco Iazzetta Già chiederci “perché il viola” credo spieghi sufficienGeneral Manager temente il fatto che questo sia il colore della riflessione. Menthalia Il viola è conosciuto come il colore dello spirito e, in effetti come sostengono gli studi dello psicologo Carl Gustav Jung, agisce sull’inconscio dando forza spirituale e ispirazione. Il viola stimola i pensieri e l’intelletto, favorendo l’ispirazione e soprattutto la creatività, uno degli aspetti che sempre più spesso i nostri partner ci attribuiscono. Oltre a metterci competenza, conoscenza e passione per quello che facciamo ci piace non dare mai nulla per scontato, piuttosto andiamo a caratterizzare sempre i nostri lavori con una massiccia dose di inventiva. Allora quale miglior colore del viola per rappresentarci? Noi ne abbiamo fatto un credo e sono sempre più le persone che in questi anni sono entrate a far parte della nostra Purple People Community sui social: una pinacoteca dove predomina il colore viola, dove ogni persona che aderisce rappresenta un tassello “viola” importante per il raggiungimento dell’obiettivo. Quale obiettivo? Ogni anno Menthalia sceglie un ente a cui elargire una donazione, appena raggiunto un traguardo stabilito. In cambio cosa chiediamo? Un selfie con un pallino viola di Menthalia: un #PurpleSelfie.
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Lavoro? Sì, ma via dagli uffici, oggi si è tutti Freelance! Di Elena Mittino
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e vedi centinaia o migliaia di persone normali che cercano di scappare da un posto, mentre un manipolo di pazzi cerca di entrarci, non c’è dubbio: sono giornalisti». Ovvio, da questa frase di Knickerbocker (giornalista statunitense) si evidenziano due aspetti importanti: si sta parlando di giornalismo, e questo ci viene anche palesemente riferito, e di un tipo particolare di attività: quella sul campo. Tutte queste righe per parlare di giornalismo in sé? No. Il tema principale è il “freelance”, quello sempre più mobile, lontano dalle sedi, dagli uffici. Quando si pensa al freelance l’immagine che si dipinge è quella del giornalista, forse perché la più semplice, forse perché non potremmo immaginare questo tipo di lavoro se non sul campo. Il giornalista cerca, spesso è da casa che elabora il materiale e lo invia alla redazione, mantenendo la sua natura mobile. Eppure in Italia, ma in generale in Europa, parliamo di freelance, ossia professionisti che vengono pagati a prestazione, in diversi settori, soprattutto quelli della tecnologia con grafici e disegnatori; oppure chi è inserito nel mondo del web. Già nel 2013 questa sezione era aumentata del 50% e le cifre non hanno fatto altro che essere incrementate. Cosa comporta questo libero professionismo? Ha pro e contro? L’aspetto favorevole è che si lavora in modo indipendente, senza le direttive che vengono dall’alto, senza imposizioni e offrendo il proprio lavoro, come può essere quello di un grafico, nella versione che meglio si preferisce. Ci si pone davanti al cliente solo con se stessi. Questo panorama
però non fa altro che allargare il numero di persone specializzate, fa in modo che spesso la concorrenza possa essere esagerata e che si rischi in realtà un’attività precaria, troppo precaria. Ma è anche un metodo per re-inventarsi, per avere almeno una singola certezza. Il sito Twago, la piattaforma di intermediazione online, ha stilato un elenco di città in cui i freelancer sono più numerosi e su 15 città quattro sono italiane con Roma, Milano, Torino e Bologna al 4º, 5º, 11º e 13º posto con le ultime due in leggero calo. La città per eccellenza in cui chi offre un proprio lavoro ha possibilità di vivere è Berlino, risultando una fra le città a più ampio respiro in cui è possibile specializzarsi in una mansione. Proprio il sito web dà in forte crescita le competenze per il web: programmatori, graphic designer, chi usa Photoshop, chi Illustrator. È come se l’idea di freelance sia oggi sì lontano dalle sedi, ma sempre in zona stabile per poter lavorare.
GRAPHIC DESIGNER
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Il project manager e le Mappe… del tesoro Di Loredana Romano
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e mappe mentali sono considerate tra le principali tecniche utili a supportare la realizzazione delle attività di project management. In fase di ideazione del progetto, nella fase di team building ed in quella di rielaborazione finale delle esperienze, risultano un tool perfetto per il project manager. Una mappa mentale è una forma di rappresentazione grafica del pensiero che lo psicologo cognitivista inglese Tony Buzan ha teorizzato durante lo scorso decennio, partendo da alcune riflessioni sulle tecniche per prendere appunti. L’obiettivo consiste nell’implementare la memoria visiva e quindi la memorizzazione di concetti e informazioni in sede di richiamo. Le mappe mentali (mind maps) non vanno confuse con altri tipi di mappe come le mappe concettuali, dalle quali si differenziano per la struttura, per il modello realizzativo, ma anche per gli ambiti di utilizzo. La struttura delle mappe mentali è di tipo gerarchico-associativa. Ciò implica che possono essere create solo due tipologie di connessioni: • I rami, connessioni gerarchiche che collegano ciascun elemento con quello che lo precede • Le associazioni, connessioni cioè che collegano elementi gerarchicamente disposti in punti diversi della mappa. Una mappa mentale è sempre costituita da una struttura portante gerarchica; le relazioni associative aiutano ad aumentarne l’espressività, evidenziando la presenza di legami trasversali mediante frecce ed essendo gerarchica possiede necessariamente una geometria radiale
(che quindi dal centro si propaga verso l’esterno): all’elemento centrale troviamo collegati degli elementi di primo livello, ciascuno dei quali può essere collegato con el ementi di secondo livello e così via. In genere la disposizione grafica degli elementi è a raggiera, ma è possibile estendere queste considerazioni anche ad altre forme di connessione, come quella a spina di pesce oppure ad albero. La mappa mentale è uno strumento votato alla creatività, alla memorizzazione, all’annotazione in chiave personale. Per questo il suo ideatore Buzan ha formulato il suo modello incentrandolo sull’evocatività: tutti gli elementi di una mappa mentale devono essere ricchi di immagini fantasiose e colorate, perché da un lato rendono gradevole la rappresentazione, dall’altro stimolano l’emisfero cerebrale destro, le cui funzioni supportano facoltà come la creatività, la memoria, la fantasia, l’intuizione. Per questa ragione è importante che una mappa mentale venga prodotta a colori fin dalle prime fasi di realizzazione, e non colorata in un secondo momento. Inoltre gli elementi devono essere descritti con singole parole chiave e non con periodi estesi, così da lasciare spazio a nuove associazioni e a possibili integrazioni. A differenza delle mappe concettuali, impostate secondo un modello connessionista (caratteristici due momenti distinti: quello dell’individuazione dei concetti e quello della loro combinazione), il modello realizzativo delle mappe mentali è essenzialmente associazionista: gli elementi si inseriscono e si ricombinano dinamicamente nella mappa, utilizzando una struttura gerarchico-associativa e applicando il processo di associazione mentale. L’impostazione gerarchica una mappa mentale non è assoluta, bensì
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di contesto e dispone gli elementi intorno a un centro disponendoli a raggiera: il punto di partenza è al centro, ciò che invece si colloca radialmente è punto intermedio di un processo associativo virtualmente infinito. Le mappe mentali fanno leva soprattutto sulle capacità creative personali e di gruppo, sulle risorse mentali inconsce, sulle sinestesie create con colori e immagini, sui processi che spontaneamente ristrutturano le informazioni e che ogni volta lasciano aperta più di una chiave interpretativa. Per queste ragioni sono particolarmente efficaci come strumenti di annotazione e di apprendimento, come supporto all’elaborazione del pensiero e alla creatività, come ausilio nell’orientamento personale e nella costituzione di gruppi di lavoro. Sono invece meno efficaci nella rappresentazione della conoscenza, dove l’evocatività della mappa mentale induce una minore efficacia comunicativa e maggiori margini di ambiguità. Una mappa mentale può essere l’inizio di un processo creativo, che porta alla realizzazione di output diversi per natura e per forma rappresentativa. Un brainstorming di gruppo, supportato da una mappa mentale, ad esempio, può essere preludio alla definizione di obiettivi strategici, alla formulazione di un progetto, alla scrittura di un documento di testo. La realizzazione delle mappe mentali è da sempre raccomandata su carta da Buzan: la manualità e la sensorialità del disegno manuale stimolano l’emisfero cerebrale destro, preposto alla creatività, alla fantasia, all’intuizione, pescando nella sfera cosciente ma anche nel subcosciente e nell’inconscio. Negli ultimi anni, però, sono stati sviluppati molti software utili ad introdurre
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questi stessi principi in ambienti di office automation, con risultati più o meno rispondenti all’impostazione teorizzata da Buzan, che pure ha creato un software ad hoc. Questi applicativi consentono di realizzare in digitale mappe simili a quelle mentali, strutturate secondo un modello gerarchico-associativo e comunque particolarmente dettagliate e arricchite dal punto di vista grafico. Le rappresentazioni prodotte dall’utilizzo di questi applicativi, però, deviano dal modello originale di Buzan, facendo avvicinare la mappa così realizzata al modello delle mappe concettuali: infatti, la possibilità di inserire un testo esteso oppure dei codici iconico-cromatici nella mappa, se da un lato consente di realizzare mappe utilizzabili anche in chiave operativa, dall’altro può ridurre l’efficacia dello sviluppo in chiave creativa. Per colmare il divario tra queste mappe digitali (che sono dotate di struttura gerarchico-associativa) e il modello delle mappe mentali di Buzan è stato introdotto in letteratura il termine Solution map, per molti aspetti un compromesso tra l’evocatività delle mappe mentali e l’espressività tipica delle mappe concettuali. In effetti possono essere considerate sia mappe cognitive che creative, ma ne vogliamo rimandare l’approfondimento ad una prossima occasione. http://www. tonybuzan.com/
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Google al contrattacco: ecco YouTube Connect! Di Stefano Rossi Rinaldi
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tare al passo con la tecnologia, di questi tempi, è davvero molto complicato. Giorno dopo giorno i colossi informatici si sfidano a colpi di novità, aggiornamenti e innovazioni. Il 2016, seppur abbia appena completato un terzo del proprio cammino, lo potremmo già definire l’anno del mobile live streaming, ovvero della diffusione dei video in diretta alla portata di tutti. Dapprima il precursore di questo nuovo trend è stato Meerkat, che nel febbraio dello scorso anno lanciò un’app per iOS e Android. A quel punto, Twitter non ci ha pensato due volte, acquisendo per 100 milioni di dollari Periscope, nel Marzo del 2015. Una mossa che ha sconquassato il mercato, permettendo di cinguettare non solo un massimo di 140 caratteri, ma anche dirette video, contando un totale 10 milioni di utenti.
Tornando ai giorni d’oggi, ecco Facebook Live, la risposta di Zuckerberg all’accoppiata Twitter-Periscope. I vip e i profili verificati delle pagine, da un mese a questa parte, possono usufruire delle dirette, con l’importante upgrade della live chat e della possibilità di salvare lo stream alla fine della registrazione. Un vantaggio di non poco conto, potendo così disporre anche del video salvato visibile a tutti gli utenti. La novità sarà aperta a tutti i profili a partire dai prossimi giorni, grazie agli aggiornamenti pian piano distribuiti in tutti le nazioni. Secondo i ben informati, Google sarebbe in procinto di annunciare a questo punto la propria risposta al mercato live streaming mobile: YouTube Connect. Proprio come i predecessori, l’app salverà le clip e le lascerà a disposizione degli spettatori, dotandosi delle funzioni di chat e menzione, in modo 9da poter citare gli altri utenti. Dovrebbe essere disponibile per iOS e Android, senza integrazioni con Facebook e Twitter, costruendo dunque una community esclusiva così come accaduto con YouTube. Per disporre dell’opportunità basterà avere un account Google o YouTube per poi accedere alla news feed che mostrerà gli ultimi live dei nostri amici o i filmati dai canali seguiti. Un vero e proprio contrattacco che il colosso da oltre un miliardo di utenti è pronto a sferrare. La prima occasione utile è fissata per il 18 Maggio al Google I/O, la grande conferenza indetta per gli sviluppatori. Per il momento Google non ha voluto né confermare e né smentire le indiscrezioni. Un altro piccolo indizio per il lancio atteso da tutti, in grado di cambiare, ancora una volta, gli equilibri del mercato tecnologico. Chi si ferma è perduto!
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I capolavori della Maison Fabergé: l’uovo rete di diamanti Di Mariano Santoro
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eter Carl Fabergé, leggendario artista-gioielliere, è stato il genio creativo che ha regalato al mondo capolavori senza tempo, per bellezza e maestria di lavorazione. Francesi nella sensibilità artistica ma con un’anima russa, le opere d’arte di Carl Fabergé sono in grado di raccontare e di ripercorrere tutta la storia e la tragicità della dinastia dei Romanov, gli ultimi Zar di Russia. Dal 1885, Carl Fabergé divenne l’orafo ufficiale della Corona Imperiale iniziando la produzione delle famigerate Uova Imperiali. L’idea fu carpita dal desiderio dello Zar Alessandro III di regalare un uovo di pasqua particolare per festeggiare i vent’anni del loro fidanzamento. Il risultato fu così gradito che a partire da quella Pasqua, la famiglia imperiale russa commissionò a Fabergé la realizzazione di un nuovo uovo ogni anno. Una tradizione che andò avanti fino alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, quando la caduta dell’impero russo degli zar costrinse Fabergé a scappare in Germania e poi in Svizzera. Per la Pasqua del 1892, la Maison Fabergé realizzò l’uovo rete di diamanti che il penultimo Zar di Russia Alessandro III, donò a sua moglie la Zarina Marija Fedorovna. Fabbricato a San Pietroburgo, sotto la supervisione del maestro orafo finlandese August Holmström, l’uovo rete di diamanti è alto poco meno di 11 cm e costruito in giadeite, oro, diamanti taglio rosetta, argento e raso. La giadeite, prezioso minerale dai toni bianchi e verdi, è il tema principale dell’opera caratterizzata dalla presenza di sedici bande ondulate di argento e oro tempestate di diamanti taglio rosetta. Queste bande, che si incrociano formando losanghe e racchiudendo quindi l’uovo in una sorta di reticolo, si diramano dalle due estremi-
tà dopo sono posti due grandi diamanti. All’interno dell’uovo un rivestimento di raso che ospita la sorpresa: un piccolo elefante d’avorio ad orologeria, in parte smaltato, con un mahout nero seduto sulla testa e una torretta d’oro. Le zanne, la proboscide, il dorso e i finimenti erano tempestati di piccoli diamanti taglio rosetta. L’elefante rappresentava l’Ordine dell’Elefante, antico e prestigioso ordine cavalleresco della Danimarca, patria della zarina Marija. Un supporto, attualmente mancante, costituito da una base rotonda di pietra verde pallido con sopra tre putti d’argento che sorreggevano l’uovo. Durante la Rivoluzione del 1917, l’uovo fu confiscato dal Governo provvisorio e venduto nel 1920 all’Australian Pearl Company. Attualmente l’uovo è di proprietà di Artie McFerrin, un facoltoso uomo d’affari di Houston che insieme alla moglie possiede una delle più importanti collezioni delle opere d’arte di Fabergé degli Stati Uniti. L’uovo rete di diamanti non è però più dotato della propria sorpresa, smarrita per molti anni e riemersa solo nell’ottobre del 2015 all’interno della British Royal family’s collection.
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SEO-SEM: dar senso alla presenza online Di Enrico De Pompeis
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l mondo del digitale avanza. Ok, questa frase sarebbe potuta andar bene per iniziare un articolo sulle tecniche del marketing digitale almeno una decina d’anni fa. Il fatto è che non si ferma: ormai il digitale è divenuto uno degli aspetti predominanti nell’analisi strategica di diffusione e valorizzazione del brand e non solo perché oggi internet è uno strumento facile da utilizzare e alla portata di tutti ma perché è fondamentalmente uno strumento completo. Raggiungere un utente, comprendere quali sono le sue esigenze, studiare il tipo di ricerca che fa e capire cosa visita e quanto tempo resta all’interno della pagina consente alla rete di mostrare annunci mirati a persone che stanno cercando proprio quei beni/servizi. Tutte operazioni indispensabili nel tentativo di convertire gli utenti in clienti. Il piano d’azione non è poi così tanto diverso rispetto ad un piano di marketing convenzionale. Bisogna innanzitutto stabilire le priorità e mettere in atto un piano d’azione. In una fase del marketing digitale in cui vi è una così esponenziale proliferazione, la stesura di un contenuto di qualità non può più essere ritenuta una condizione sufficiente affinché lo stesso risulti competitivo rispetto alla concorrenza. L’utente bisogna raggiungerlo. A cosa serve realizzare un sito internet di qualità, con un contenuto editoriale di alto profilo se poi non si è rintracciabili in rete? In maniera molto
elementare, è questa la motivazione per cui è fondamentale svolgere attività di Search Engine Optimization (SEO) e di Search Engine Marketing (SEM). Sebbene, in una generica improvvisazione di tanti operatori del settore, i due termini sono impropriamente utilizzati come sinonimi l’uno dell’altro è bene chiarire che si tratta di due attività ben distinte. Cerchiamo di capirci meglio. Dalle due definizioni emerge con forza l’importanza della scelta delle parole chiave e di come, apparentemente, una volta identificate possano non essere più toccate: “tanto la nostra attività non ha cambiato orientamento”. Nulla di più sbagliato. I motori di ricerca, zio Google su tutti, rivedono di continuo i parametri per l’organizzazione dei ranking con la probabilità di rendere obsolete le tecniche di ottimizzazione tanto faticosamente ricercate. Va da sé che lavorare in attività SEO significa farlo con un occhio al presente ma con l’altro proiettato verso un ben più lungo periodo. Diverso invece l’approccio dello svolgimento di attività SEM che devono necessariamente essere orientate a un lasso temporale molto più breve, dovendo lavorare nell’ottimizzazione dei risultati “richiesti” in quella porzione di tempo. Appare quasi scontato affermare che affinché il gioco funzioni le operazioni devono camminare tutte di pari passo. Con il passaggio alla valorizzazione della
SEO
Si tratta dell’ottimizzazione di una pagina web affinché goda di una considerazione da parte dei motori di ricerca, tale da risultare all’interno della Search Engine Result Page rispetto alla parola chiave ricercata. Fare SEO significa quindi far rientrare la propria pagina web agli utenti giusti, quelli che stanno cercando prodotti e servizi come quelli offerti dalla mia attività.
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SEM
Svolgere attività di SEM significa invece la messa in atto di una serie di attività di web marketing nell’intento di incrementare il traffico in entrata di un sito web dalla ricerca di una o più parola chiave, con il supporto di appositi strumenti di web analysis per valutare e confrontare i risultati delle singole operazioni. Molto spesso, anche qui in maniera impropria, le attività SEM sono associate con l’esclusivo lancio delle campagne AdWords. Bene, l’attività di Search Engine Advertising (SEA) o la Social Media Optimization (SMO) sono solo alcune delle attività all’interno della SEM.
qualità di un sito internet da parte di Google, è stato dato un definitivo calcio ai siti “truffaldini” che tempestano di spam e AdWords per poi scoprirsi un contenitore vuoto. La via per la credibilità è oggi segnata dalla redazione di un prodotto editoriale mirato, di qualità e che trovi non solo corrispondenza nei criteri di Google ma anche da parte del lettore. Campagne AdWords, con investimenti significativi, possono fruttare incrementi significativi di popolarità del sito web nel breve tempo ma se questo non è supportato da una navigazione semplice, chiara e soprattutto fruibile da qualsiasi dispositivo, il traffico guadagnato cesserà con ogni probabilità non appena i rubinetti delle inserzioni si chiusi. Ecco perché, in maniera molto sommaria e semplice, è essenziale una strategia integrata di sviluppo web, SEO e SEM per dare un senso, e sfruttarne tutti i vantaggi del caso, alla presenza online della propria attività. Se un nostro potenziale cliente cerca sul web prodotti e servizi che rientrano nella nostra attività, ma il nostro sito non è presente nei risultati di ricerca è praticamente come non esserci online. Quindi? Oltre a realizzarlo il sito, bisogna posizionarlo bene con un lavoro SEO. E per aumentare il traffico non può bastare chiaramente l’invito all’azione di amici e
parenti. Se abbiamo scelto di realizzare un sito web è per promuovere i servizi e le attività da noi forniti, non certo per mostrare ai famosi amici quanto siamo bravi nel web design. Ergo, occorre investire in attività SEM per renderci visibili, mostrando i nostri annunci a chi sta cercando prodotti e servizi come quelli svolti dalla nostra azienda. E, per concludere, che senso avrebbe fare tutto questo se poi il nostro sito si presenta datato, di difficile utilizzo e soprattutto non adattabile dispositivi più utilizzati? La presenza online non è un trend, non è uno status symbol o una moda. È un’opportunità, tra le più significative della storia dell’advertising, e va sfruttata.
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S.O.S. Lingue Di Silvia Iazzetta
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orse non tutti sanno che ogni anno del mondo muoiono 25 lingue. Oggi le lingue vive sono circa 5000 e nel giro di 100 anni, se niente interverrà a modificare il corso delle cose, la metà di queste 5000 lingue sarà morta. Darwin afferma nel libro “L’origine della specie” del 1859 che «le lingue sono organismi naturali che [...] nascono, crescono, si sviluppano, invecchiano e muoiono». I cambiamenti della società e delle relazioni economiche non possono lasciare intatto il lessico, perché le parole riflettono le culture e le idee. Sembra che la lingua abbia tre modi per scomparire. Il primo è la trasformazione: nel corso di un processo, che può essere lungo, una lingua viene modificata abbastanza profondamente perché si possa affermare che ne è nata una nuova; è la storia della trasformazione del latino in diverse lingue romanze. La sostituzione: si può affermare che la lingua venuta dall’esterno si sostituisce a un’altra, che in precedenza era l’unica testata in un gruppo umano, quando, dopo avere coesistito con la lingua nuova per un periodo molto variabile, finisce per esserne assimilata. L’estinzione: si tratta di un abbandono totale della scena, concomitante, per definizione, con la scomparsa degli ultimi parlanti che si estinguono senza discendenti. L’estinzione di una lingua, dunque, coincide con quella degli ultimi vecchi che ancora la balbettavano, a volte con quella dell’intera comunità che la parlava, indipendentemente dall’età dei suoi componenti. L’estinzione sfocia nella sostituzione quando, come accade molto di frequente, le generazioni seguenti abbandonano completamente la lingua in questione e ne adottano un’altra.
Si può quindi affermare che una lingua è estinta quando non ci sono più parlanti nativi, vale a dire utenti che la imparano dall’inizio della loro vita nell’ambiente familiare e sociale, e ai quali tale apprendimento conferisce quella che si può chiamare competenza nativa; composta dalla conoscenza completa e dalla capacità di uso spontaneo. Questi due elementi fanno della lingua uno strumento di comunicazione adatto a tutte le circostanze della vita quotidiana. I cambiamenti subiti da una lingua in via di distruzione sono assai più rapidi di quelli, del tutto normali, che caratterizzano la vita delle lingue non esposta al declino. I subutenti non sono sempre consapevoli del ritmo al quale la loro lingua si scompagina, anche quando si tratta di un ritmo vertiginoso. Spesso sono convinti di continuare a parlare una lingua normale, quando invece moribonda. Nella maggior parte dei casi le forme che danno l’illusione di una continuità sono già quelle di un altro sistema, il cui instaurarsi prelude l’estinzione totale. Possiamo distinguere tre gruppi di cause principale dell’estinzione. Morte brutale di una lingua a causa della scomparsa di tutti parlanti: catastrofi naturali, genocidi, epidemie, migrazioni. • Scomparsa degli ultimi parlanti senza trasmissione; • occultazione come strategia di sopravvivenza; • la deportazione. Le cause economiche sociali: • la pressione di un’economia più potente; • la nascita di una classe sociale superiore; • declino della vita rurale; • abbandono delle attività tradizionali.
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Le cause politiche. Vi sono, poi, alcune circostanze che facilitano l’estinzione delle lingue: il purismo difensivo e l’assenza di standardizzazione da un lato, dall’altro la mancanza di scrittura e il fatto di costituire un gruppo minoritario. Un eccesso di purismo nell’atteggiamento o nelle prescrizioni può accelerare il processo di precarizzazione di una lingua malata. Alcuni rifiutano i prestiti a favore di parole con base locale che da tempo nessuno usa più. Altri applicano questo atteggiamento alla grammatica, restando legati con ostinazione a forme o a costruzioni desuete. L’assenza di scrittura non è di per sé una causa diretta di estinzione di una lingua. L’esistenza della scrittura, infatti, non ha impedito che lingue un tempo prestigiose e diffuse si estinguessero, mentre esistono nel mondo contemporaneo, soprattutto in Africa e Oceania, numerosi pidgin che non si scrivono e che tuttavia svolgono bene il loro compito, consentendo la comunicazione, e sono di conseguenza assai vitali e non sembrano correre il rischio di estinguersi a breve termine. Ciò detto, tra due lingue che per altri fattori sono soggette agli stessi rischi di obsolescenza, quella che possiede un sistema di scrittura sarà in genere meglio attrezzata dall’altra per resistere. Per concludere possiamo distinguere tra le lingue in pericolo da quelle lingue che, a giudicare da molti indizi, paiono destinate a un’estinzione immediata. Le lingue minacciate, invece, sono quelle lingue che saranno in pericolo in un futuro prevedibile, che coincide al massimo con la durata di una vita umana. Si è constatato che le maggiori concentrazioni di lingue minacciate si trovano nelle regioni della Terra in cui dominano
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condizioni di sottosviluppo e al contrario le lingue più diffuse sono anche quelle che appartengono alle entità politiche più strutturate. Purtroppo il numero delle nascite delle lingue non compensa quello delle scomparse. Quando si sa che la lingua è sul punto di estinguersi, non c’è altra azione possibile che conservarne le tracce con tutti i mezzi di cui si dispone.
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Power Point e non solo. Chi sono gli altri? Di Danilo Di Domenico
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al mondo scolastico a quello lavorativo, passando per l’accademico, il mondo delle presentazioni in slide è una costante imprescindibile. Che si tratti di presentare un’idea, di illustrare un progetto o di fornire supporto ad un discorso, risulta ancora difficile trovare uno strumento più flessibile, duttile e immediato delle care e vecchie slide. Quando si parla di presentazione è sottointeso che ci si riferisca ad una presentazione realizzata con Power Point. Il programma di Microsoft resta ancora lo standard per la creazione di presentazioni ma le alternative non mancano e guadagnano terreno. Diamo una breve panoramica agli strumenti più utilizzati per la creazione delle nostre presentazioni: 1. Power Point (Microsoft) Per semplicità di utilizzo e familiarità resta il programma preferito e più utilizzato dai più e meno esperti. Il formato .ppt è lo standard senza il quale non si va da nessuna parte. Multi-piattaforma da sempre, trova nel prezzo l’unica potenziale barriera all’ingresso anche se nelle ultime release, Microsoft ha reso la piattaforma gratuita per tutti i dispositivi con dimensioni dello schermo inferiori a 10,1 pollici. La versione 2016 ha introdotto una serie di importanti novità che riguardano la condivisione del lavoro, le modifiche live e via cloud da parte dei partecipanti. 2. Presentazioni (Google) A nostro avviso, la più concreta alternativa a PP. Interamente gratuito (basta avere un account Google), permette l’accesso alla piattaforma da qualsiasi in qualsiasi luogo ed in qualsiasi momento. Tutto è accessibile mediante Google Dri-
ve, è completamente compatibile con PP permettendo una facile e reciproca conversione dei file con possibilità di esportazione in formato. Modifiche salvate automaticamente mentre si digita, chat in diretta e modifiche in tempo reale con i partecipanti sono i plus. 3. Keynote (Apple) La risposta di Apple, alla maniera di Apple. Keynote è uno strumento potente, non eccessivamente, e che punta tutto sulla semplicità di utilizzo e su una serie di interessanti dettagli grafici, effetti e funzionalità che specialmente in alcuni settori possono davvero rappresentare un must. Da Cupertino tengono a precisare la compatibilità con PP ma d’altra parte Keynote è studiato prettamente per l’ecosistema di Apple, con tutte i problemi e vantaggi del caso. 4. Prezi (Prezi Inc.) Il più cool dei software per la realizzazione delle presentazioni. Prize ha reinventato il concetto stesso delle presentazioni, presentando un sistema innovativo di scorrimento delle slide molto più interattivo e decisamente più in grado di coinvolgere. Dopo sette anni di attività l’effetto “wow” si è un po’ attenuato e la difficoltà di utilizzo, combinata con la compatibilità esclusiva con la sua app in cloud (disponibile per comunque per tutte le piattaforme), rappresenta ancora oggi un limite difficile da superare.
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The Nextdoor Hello: Nescafé accorcia le distanze Di Federica Aiello
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a comunicazione nell’era dei social. Non così scontato ma anzi, l’invasione su ogni scala dei social network ha reso la comunicazione quasi un vero e proprio tabù. La nostra attività quotidiana di postare, condividere, commentare e socializzare con persone che vivono in paesi o continenti diversi, quasi stride con il grande silenzio che invece sempre più spesso caratterizza le persone che circondano fisicamente il nostro mondo. Menzione particolare va fatta per i nostri vicini di casa, da sempre oggetto di discussioni, incroci di sguardi tra le scale spesso non seguiti da un saluto verbale, imbarazzanti silenzi negli ascensori. Insomma, la lista potrebbe essere molto più lunga e sottolineare quanta incoerenza poniamo nel nostro modo di porci e di renderci disponibili. In questo scenario si va a collocare “The Nextdoor Hello”, geniale iniziativa di marketing promossa dal colosso svizzero Nescafé volta all’accorciamento delle distanze. Fra i balconi di un palazzo di Milano, sono stati installati dei tavoli rossi – a mo’ di ponte fra un balcone e un altro, ndr – caratterizzati dalla presenza di tazze e caffè. Iniziare la giornata nel modo giusto, con un buon caffè e socializzando con i nostri vicini! L’esperimento è stato portato alla luce con un bel teaser, diffuso sui canali social dell’azienda con l’hashtag #TheNextdoorHello, condiviso in maniera massiccia dalla rete che ha accolto in maniera più che positiva l’iniziativa contribuendo alla diffusione con rivisitazioni personali del “The Nextdoor Hello” mentre il marchio Nescafé gira, gira e gira… per cui, obiettivo raggiunto! “L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle
persone di comunicare con i propri vicini di casa – ha dichiarato Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ, in un’intervista rilasciata al portale Ninja Marketing –. L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento “sul campo” raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè. Grazie a delle telecamere nascoste abbiamo ripreso la diffidenza tra i condòmini all’interno di un palazzo, e abbiamo dato loro la possibilità di abbattere le distanze con un ponte che li avvicinasse, non solo metaforicamente ma anche fisicamente. In questo caso il “ponte” era proprio un tavolo con sopra due Red Mug NESCAFÉ. Il risultato è stato un inaspettato avvicinamento tra vicini di casa”.
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numero 4 - aprile 2016
Quibee, la nuova frontiera della lettura digitale Di Riccardo Catapano
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vete presente Spotify, quella piattaforma che offre lo streaming on demand di numerosi brani musicali? Adesso c’è la possibilità di ottenere lo stesso servizio anche per consultare una vera e propria “libreria digitale”: grazie a Quibee, app nata dall’idea di tre ragazzi di Torino, sarà infatti possibile sfogliare una vasta selezione di libri oltre che di quotidiani e periodici direttamente dai propri dispositivi. Attraverso i beacon, segnali che riescono a delimitare determinati contenuti ad aree ristrette, l’intento è quello di ristabilire il rapporto tra luogo fisico e prodotto digitale, interrompendo la dispersione che la multimedialità comporta. “È come una versione 2.0 del bastone di legno col giornale attaccato, solo che i bastoni sono disponibili solo in un numero limitato, mentre con Quibee le copie digitali di riviste e libri sono potenzialmente infinite” spiega Luca Bona, uno dei tre soci fondatori di questa rivoluzionaria app. “L’idea è nata mentre ero al mare e mi stavo terribilmente annoiando. La cesta con tonnellate di giornali era abbandonata all’ingresso dei bagni, nessuno leggeva ma tutti stavano sul lettino attaccati a smartphone e tablet. Così
ho iniziato a pensare come unire le cose e nel 2014 abbiamo lanciato il progetto pilota”. L’idea partorita è stata quella di selezionare 10 spiagge italiane dove installare i beacon per delimitare l’accesso ai prodotti del gruppo RCS, permettendo così ai clienti di poter usufruire gratis per 30 giorni di una smisurata libreria, il tutto a spese degli stabilimenti balneari. L’esordio è stato decisamente promettente tanto da spingere il team a proporla sul mercato per espandere il proprio raggio d’azione: l’obiettivo, semplice quanto intrigante, è quello di divenire un punto di riferimento per chiunque si trovi in quei luoghi come aeroporti, bar, sale d’attesa, metropolitane o musei dove, un momento di attesa, potrà essere sfruttato per sfogliare il proprio libro preferito o un quotidiano, rendendo la permanenza un intrattenimento culturalmente originale. Non mancano però i dubbi ed i rischi che tale opera si porta dietro, come il problema sui costi dei contenuti: spostando infatti la spesa dal cliente direttamente al gestore, si potrebbe dare a quest’ultimo un’occasione in più per attirare la clientela. Il guadagno potrebbe infatti nascere dalla pubblicità, a patto che non diventi assillante nei confronti degli utenti stessi. Per non parlare del potenziale arrivo di un operatore straniero capace di coinvolgere altri partner (anche internazionali) che possano monopolizzare la fetta di mercato disponibile, archiviando Quibee come l’ennesima buona idea partorita dal Made in Italy ma rimasta inesorabilmente in cantiere. Come riporta lo stesso Bona “Il margine innovativo c’è”, ci sarà anche qualcuno disposto a scommettere su questa evoluzione della “lettura”?
numero 4 - aprile 2016
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Tolleranza Zero! Di Andrea De Cinti
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ome anticipato nel numero di febbraio, in questo numero descriveremo l’intolleranza al lattosio e al glutine (e celiachia), problematiche molto diverse fra loro ma ben studiate, diagnosticabili e trattabili. L’intolleranza al lattosio è dovuta alla carenza dell’enzima (lattasi) che “digerisce” questo zucchero; può essere temporanea, quando è dovuta ad un episodio diarroico intenso, che sfalda la mucosa intestinale (dove viene prodotta la lattasi), oppure permanente. In questo caso l’insorgenza e l’intensità dei sintomi aumenta con l’età, visto che la produzione di questo enzima dovrebbe terminare con lo svezzamento, ma a causa del consumo di latte e derivati, continua anche in età adulta, sebbene con minore efficacia. Il livello di produzione della lattasi in età infantile è determinato geneticamente e questo ci permette di fare una stima delle probabilità di diventare intolleranti al lattosio, tramite un test genetico. Al contrario, la diagnosi viene effettuata con il cosiddetto “Breath Test”, che consiste nel bere una determinata quantità di lattosio e registrare la presenza di idrogeno nell’espirato (segno che il lattosio è stato fermentato dai batteri intestinali e non digerito dalla lattasi), a tempi prestabiliti. Riducendo od eliminando il lattosio dalla dieta e sostituendo i latticini con altri alimenti senza lattosio, che garantiscono l’apporto di nutrienti, le problematiche scompaiono; nel caso si sia costretti a consumare un pasto con lattosio, è possibile assumere la lattasi sotto forma di integratore. Per quanto riguarda l’intolleranza al glutine, va detto che può trasformarsi in celiachia solo se c’è una predisposizione genetica, in contemporanea ad un
consumo cospicuo di glutine e in corrispondenza di un evento scatenante che attivi o indebolisca il sistema immunitario. In questo caso si scatena una reazione immunitaria contro i villi intestinali (patologia autoimmune), che vengono appiattiti riducendone la capacità di assorbimento dei nutrienti. Attualmente l’unico rimedio è l’esclusione definitiva del glutine dalla dieta, dopo la quale l’intestino riprende la propria funzionalità e le probabilità di sviluppare patologie correlate alla celiachia, si riduce notevolmente. Nel caso di una semplice intolleranza, che non comprenda la reazione autoimmune, è sufficiente ridurre l’apporto nutrizionale di glutine, senza la necessità di escludere le contaminazioni. Per confermare la diagnosi, a parte il test genetico, che permette di prevenire o escludere la celiachia, è necessario dosare gli anticorpi specifici ed eseguire un’endoscopia digestiva con biopsia. Anche il dosaggio della calprotectina, sostanza associata a tutte le patologie infiammatorie croniche intestinali, risulta talvolta utile per evidenziarne la presenza nelle feci (dove normalmente non dovrebbe trovarsi), ma senza ulteriori approfondimenti non consente di diagnosticarle.
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