Reg. Trib. di Napoli N. 27 del 6/4/2012
num. 8 - Anno II dicembre 2013
© Marco Iazzetta
speciale
Nelson Mandela
IN QUESTO NUMERO Essere “On the Road” Bryan Ferry incanta Londra Il sorriso che ha cambiato il mondo Mercatini di Natale Quando Hollywood nascose i crimini del Führer
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numero 8 - dicembre 2013
Editoriale
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Registrazione al Tribunale di Napoli N. 27 del 6/4/2012
Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione Direttore Editoriale: Stefania Buonavolontà Art Director: Marco Iazzetta Grafica & Impaginazione: Menthalia Design Hanno collaborato in questo numero: Juliana Buhring, Flaviana Cimmino, Riccardo Michelucci, Silvia Vacca
Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio Ph. +39 081 621911 • Fax +39 081 622445 Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro 50132 Firenze – 17/A, Via degli Artisti Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari. La pubblicazione delle immagini all’interno dei “Servizi Speciali” è consentita ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca.
Marco Iazzetta General Manager Menthalia
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Essere “On the Road” di Juliana Buhring, first women’s GWR for fastest circumnavigation by bicycle
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a prima cosa che mi viene in mente non appena finisco un’intervista è che ho dimenticato qualcosa. Poi ripensandoci mi dico "in realtà non sono riuscita a raccontare niente. 152 giorni in bici e otto mesi di training non si raccontano in 5 minuti. Partirei da questo. Nella maggior parte delle interviste, soprattutto in Italia, la mia storia personale raccontata in “Essere Innocenti” (edizioni Menthalia) prende sempre il sopravvento mettendo in secondo piano la mia impresa. A volte ho la sensazione che gli intervistatori non hanno le idee chiare su cosa ho fatto e come. Quando il 22 dicembre 2012 sono entrata in piazza del Plebiscito a Napoli e ho fermato la bici dopo cinque mesi, una delle prime cose che ho pensato è stata che solo un anno prima non sapevo cosa fosse una bici. Pochi sono riusciti a mettere in evidenza la mia condizione di non atleta solo otto mesi prima di partire. Non solo. Quando nell’ottobre 2011 iniziai ad allenarmi, usavo una bici ibrida. Il 10 luglio 2012 decisi che avrei utilizzato una bici da corsa per avere meno peso e più velocità; quel giorno salivo, per la prima volta in vita mia, su una bici da corsa. Il 23 luglio 2012 sono partita per il giro del mondo. Molti mi chiedono cosa è cambiato dopo quest’impresa. Non molto. Continuo a lavorare come insegnante d’inglese. Ma oggi sono un’atleta. O meglio vorrei esserlo. Già purtroppo mi sono resa conto che le aziende sportive hanno poco interesse per le donne, e anche dopo aver ricevuto il massimo riconoscimento – il certificato della Guinness World Record – non sono riuscita a trovare fondi e sponsor per le altre imprese fatte e quelle che ho in mente di fare. Pensavo fosse un mio problema ma credo che riguardi il nostro genere. Ad oggi conosco quattro donne che hanno intenzione di battere il mio record l’anno prossimo e tutte hanno problemi nel trovare uno sponsor. Come ho fatto a fare il giro del mondo? Io non mi sono fermata. Non ho aspettato il desiderato sponsor per partire. Forse è
l’errore delle altre. Io ho rischiato, pensai che nessuno avrebbe donato o creduto in qualcuno che aveva intenzione di compiere un’impresa. Ma lo avrebbero fatto se avessi iniziato l’impresa. Il mio budget personale era di 4000 euro. Li ho finiti in Nuova Zelanda e in quel momento ho lanciato un appello sui social che mi ha portato donazioni costanti da amici, sostenitori e fan che volevano vedere la prima donna al mondo circumnavigare il globo. Voglio vedere una donna battere il mio record, e poi un’altra e ancora un’altra. Sono già tanti gli uomini che hanno intrapreso la stessa impresa, non possiamo restare così indietro solo per uno sponsor. Se c’è una cosa che ho capito nel mio viaggio è che il mondo è migliore di quello che crediamo. Le persone sono gentili, appassionate e interessanti. Le persone che hanno il potere sono quelle incompetenti. Ne ho incontrate tante in posizioni “di comando” e il livello di incompetenza raggiunge davvero punte preoccupanti. Ricevo mail tutti i giorni di ammirazione da persone che mi raccontano come un’impresa come la mia riesca a motivarle nella loro quotidianità. Per me questo vale più del Guinness. Molti mi hanno chiesto come ho fatto ad attraversare da sola posti come l’Asia e, in particolare, l’India. Devo dire che solo un paio di volte mi sono sentita davvero in pericolo. La prima è stata in Nuova Zelanda quando il mio GPS si è rotto e mi sono persa nelle montagne della Desert Road (il nome la dice tutta) tra il vento e il freddo. Per fortuna sono stata letteralmente salvata dalla strada da una coppia di camperisti che si erano fermati per la notte. La seconda volta è stata in India. Direi che l’India è il luogo meno adatto per una donna che viaggia da sola, in bici poi. Tra assalti quotidiani dei locali incuriositi dal mio passaggio, la dissenteria e un simpatico ciclone che attraversava con me il Paese, credo di aver avuto il miei peggior momenti del viaggio. Ma per il resto dei paesi sono state sempre a mio agio e mi sono sempre sentita sicura.
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Alcune delle donne che partiranno il prossimo anno lo faranno con un veicolo di supporto che, chiaramente, risolverà l’aspetto avventuristico del viaggio mettendo in risalto l’aspetto sportivo.
ano molto su a, lotta. T’insegn “Dolore, miseri capace di fare sei e di cosa sei te stesso, su chi rtare la mia po treme. Provo a in condizioni es onda, fuori rc ci i quello che m mente fuori da esente. Quello sconforto del pr dall’immediato serie di mente sono una che mi viene in orditivo. al sb to Un tramon ti. et rf pe ti en mom nuotata nelle montagna. Una La cima di una n bicchiere di Mediterraneo. U calde acque del n bacio. rum speziato. U In quel momen to so che non c’è altro posto dove vorrei esse re. Perché quell a lancinante fame che cresce ogni chilometro trascorso significa che il ci bo che sto per m an giare sarà il più delizioso al mondo.
Posso dire che i miei ricordi più belli sono quelli del post-sventura. Vorrei concludere con una parte di un mio blog on the road che riassume questo stato.
In momenti di completa agonia fisica e mentale questi perfetti m , omenti sono li co me un faro in una tempesta in mare, più lumin osi del normale forse per il cont rasto. Forse lottare se rve semplicemen te a provare più piacere nei mom enti perfetti? È tutto ciò che è la vita? Una lo tta contro e un trionfo sulle av versità, per appr ezzare di più il minuscolo mom ento di complet a e rara felicità abbandono ad e essa; dove tutto , il gusto, il colo l’odore, è cosi in re, tenso perché co noscere l’opposto significa apprez zare la sua imm ensa realtà? ono il caldo e il bagnato rend e o dd fre il e Ch tutti gli altri. i che sorpassano l’asciutto piacer ca che dorogni arto signifi Che la fatica in e, che mi gn te e senza so ar en m da on of pr mirò no con una per un altro gior sveglierò fresca e cose da vedeonosciuta, nuov destinazione sc ti perfetti”. finite e momen re, possibilità in
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Bryan Ferry incanta Londra di Silvia Vacca, blogger
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e si cercasse nel vocabolario un termine per definire l’eleganza, la sensualità, l’educazione, la genialità e la raffinatezza, basterebbe un solo nome: Bryan Ferry. Il concerto tenutosi presso lo O2 Shepherd’s Bush Empire di Londra lo scorso 30 novembre, è stato la perfetta chiusura ad un tour che ha riscosso un clamoroso successo e che, partito ad aprile da Berlino, ha visto il cantante inglese impegnato in più di tentotto date in giro per l’Europa, ventidue delle quali nel Regno Unito. Definirlo concerto, però, è riduttivo: accompagnato dalla Bryan Ferry Jazz Orchestra e dalla sua rock band, Ferry guida una macchina del tempo che trasporta il pubblico dal passato al presente e viceversa, creando un mix di suoni e visioni mai concepito prima d’ora. Rock e jazz si miscelano creando uno spettacolo unico per gli occhi e per le orecchie, dove sonorità anni ‘20 entrano nel presente stravolgendo meravigliosamente una carriera che dura da oltre 40 anni. Il palco è occupato inizialmente dalla sola orchestra che, guidata dal pianista Colin Good, ripercorre in chiave jazz i più grandi successi di Ferry da solista e con i Roxy Music: dall’energica “Do the Strand” ad una languida “Slave to Love”, passando per “Avalon” ed una meravigliosa “Just Like You”. Le energie accumulate durante l’attesa si sprigionano alla comparsa di un Ferry in splendida forma il quale, avvolto in uno smoking floreale firmato Luis Vuitton e accompagnato dal giovane chitarrista Oliver Thompson e dalla batterista Cherise Osei, dà il via ad una poderosa Reason or Rhyme (l’ennesimo testo meraviglioso del songwriter britannico, che conta tra gli estimatori un certo David Bowie) con tutta la band al completo: due batteristi, tromboni, sassofoni e clarinetti, pianoforti e tastiere e tanto di più, confermando la capacità del cantante di unire suoni diversi in un amalgama unico ed inimitabile. Il pubblico, da quello in transenna ai posti a sedere, è in piedi ed è una festa. Nel tour vengono riproposte molte canzoni
dall’album “The Bride Stripped Bare” del 1978: da un’acustica ballata irlandese con tanto di mandolino, “Carrickfergus”, a “Same old Blues”, “Can’t Let Go”, una toccante “When She Walks in the Room” con un nostalgico Ferry al pianoforte, “Hold on I’m Coming” e la versione jazz di “This Island Earth”. Cover di Bob Dylan si rincorrono nella scaletta e Ferry, da maestro delle cover quale è, le rende come al solito intrise di un sapore nuovo: da “Knockin’ On Heavens Door”, ad una commovente “Don’t Think Twice it’s All Right”, per finire il concerto con A Hard Rain’s A-gonna Fall. Il maestro Colin Good fa parlare i tasti del suo pianoforte a coda, introducendo una superba “A Song for Europe”, mentre l’assolo di chitarra di Oliver Thompson non ha niente da invidiare a quello che fu del violino di Eddie Jobson ben 39 anni fa. Dopo un intervallo di qualche minuto ed un nuovo “jazz-set”, con tanto di balletto offerto dalle bravissime coriste rigorosamente vestite in abiti anni ‘20, Ferry fa nuovamente la comparsa sul palco, questa volta in un vestito blu scuro. Si susseguono le emozioni suscitate dai coinvolgenti successi dell’artista: “Remake-Remodel”, “Smoke Gets in your Eyes”, “Jealous Guy”, “Casanova”, “Street Life”, “Love is the Drug”, “Let’s Stick Together”. Tutti i brani acquistano una forza nuova, tutto il teatro è in piedi a ballare e cantare, anche gli stessi musicisti: Richard White ed Enrico Tomasso intervallano sassofono e tromba con i cori, partecipando all’euforia del pubblico. Con “Editions of You”, il cantante inglese è alle tastiere, suonando con tanta energia che sembra essere tornati indietro di quarant’anni. Trentaquattro brani che dimostrano la capacità innata di Ferry di inventare e reinventarsi, senza essere ripetitivo o sentire il bisogno di sedersi sugli allori, rimanendo quel genio incontrastato capace di sedurre con la sua voce di velluto, incantare con i suoi testi ed ispirare da sempre il mondo della musica. E non solo.
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1972 – Roxy Music Roxy Music
1974 – Bryan Ferry Another Time Another Place
1977 – Bryan Ferry In Your Mind
1982 – Roxy Music Avalon
1994 – Bryan Ferry Mamouna
2010 – Bryan Ferry Olympia
1973 – Roxy Music For Your Pleasure
1974 – Roxy Music Country Life
1978 – Bryan Ferry The Bride Stripped Bare
1985 – Roxy Music Boys & Girls
1999 – Bryan Ferry As Time Goes By
2012 – Bryan Ferry The Jazz Age
1973 – Bryan Ferry These Foolish Things
1975 – Roxy Music Siren
1980 – Roxy Music Manifesto
1987 – Bryan Ferry Bete Noire
2002 – Bryan Ferry Frantic
1973 – Roxy Music Stranded
1976 – Bryan Ferry Let’s Stick Together
1980 – Roxy Music Flesh + Blood
1993 – Bryan Ferry Taxi
2007 – Bryan Ferry Dylanesque
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Il sorriso che ha cambiato il mondo di Riccardo Michelucci, giornalista
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ono Vox ha dedicato a Nelson Mandela, di cui era amico oltre che profondo ammiratore, un commosso ricordo sul Time Magazine dal titolo “L’uomo che non poteva piangere”. Sembra una metafora poetica ma era vero: Madiba non aveva più lacrime perché la polvere e il calcare delle cave di Robben Island, la prigione nella quale era stato rinchiuso dal 1963 al 1990, gli avevano causato un danno irreversibile ai dotti lacrimali. Nessuno, neanche le persone a lui più vicine, l’ha dunque mai visto piangere, ma nessuno potrà neanche mai dimenticare il suo sorriso. Nelson Mandela è stato il più grande rivoluzionario del XX secolo perché è riuscito a coniugare politica con felicità, a comunicare con tutto se stesso un messaggio di positività capace di deviare il corso della storia, e a fare del mondo un posto migliore. Eppure, ribaltando la tesi centrale di Marshall McLuhan, potremmo dire che per il grande leader sudafricano il mezzo non è mai stato il messaggio. Negli anni cruciali delle sue battaglie contro l’apartheid, Mandela non ha potuto disporre né della rete né dei social network, non aveva faraonici uffici stampa, né plotoni di iperpagati ghost writer. Senza pensare che per oltre un quarto di secolo è stato anche privato della libertà. Fino ai primi anni ‘90 l’unica immagine che il mondo conosceva di lui era quella di un uomo malinconicamente rinchiuso dietro le sbarre, oppure era costretto a ricordarlo attraverso le vecchie foto della militanza giovanile nell’African National Congress, o quelle del famoso processo di Rivonia del 1963. Mandela è stato un grande comunicatore che non ha potuto disporre di grandi mezzi di comunicazione. Un messaggero di pace senza essere un vero pacifista. A pensarci bene non è stato neanche un non-violento nel senso gandhiano del termine. Negli anni ‘80, quando stava ancora marcendo nel carcere di massima sicurezza e il percorso del Sudafrica verso la democrazia era ancora lungo e difficile, Margaret Thatcher non si fece scrupoli a
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Speciale Nelson Mandela
definirlo “un terrorista”. Nel vocabolario colonial-conservatore della Lady di Ferro era una descrizione che non faceva una piega. In gioventù Mandela aveva sostenuto la necessità di combattere il segregazionismo istituzionale bianco facendo uso anche delle armi. Era stato uno dei fondatori e il comandante dell’ala armata del suo partito. Aveva coordinato la campagna di sabotaggio contro l’esercito e gli obiettivi del governo, organizzato campi militari, elaborato piani per una possibile guerriglia che ponesse fine al regime dell’apartheid. Nel giugno 1980 riuscì a far uscire dalla prigione un manifesto d’incitamento ai suoi compagni che recitava: “Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l’apartheid!” Cinque anni dopo aveva rifiutato un’offerta di libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata e per questo era rimasto in prigione fino all’11 febbraio 1990. Ma ciò che il mondo non poteva ancora sapere era che quei 27 anni di carcere avevano avuto in lui l’effetto catartico di una risurrezione a nuova vita. Tra le anguste mura e le privazioni di Robben Island Mandela aveva compiuto il suo percorso prima spirituale poi politico, trasformandosi in un leader di statura planetaria, capace di tenere a freno gli istinti vendicativi di un popolo stremato dalle più brutali angherie. Di evitare con una sola parola e un singolo gesto della sua mano un bagno di sangue altrimenti inevitabile. La migliore celebrazione di questo traguardo si ebbe tre anni dopo, quando alla fi ne di aprile del 1994 si tennero le prime elezioni multietniche del Sudafrica e migliaia di persone si misero in fi la per ore, con grande pazienza e compostezza, per poter esercitare questo diritto per la prima volta nella loro vita. Ma la sua credibilità e la sua autorevolezza non gli derivavano dal Nobel per la pace ottenuto l’anno prima, bensì dal fatto di aver vissuto sulla propria pelle le battaglie per il rispetto, per il perdono, per l’importanza dell’educazione. E per essere riusci-
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to a tradurre questi concetti in azione, in rivoluzione, a costo della propria libertà. Il suo messaggio di pace e di riconciliazione è stato veicolato globalmente nel miglior modo possibile grazie alla sua arma più potente: il sorriso. Non per caso, subito dopo la sua morte, quello che secondo la classifica di Forbes rappresenta da anni il “brand di maggior valore al mondo”, cioè Apple, gli ha dedicato la homepage del proprio sito, riconoscendolo come simbolo planetario di libertà e dignità umana. Per giorni una semplice immagine in bianco e nero di Mandela – ovviamente sorridente – affiancata dalla sua data di nascita e di morte ha fatto bella mostra di sé nella pagina iniziale del sito della Mela. Un giusto tributo a un uomo che ha combattuto con la forza della felicità, e con questa è riuscito a cambiare il mondo (foto a cura di Lorenzo Moscia).
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Mercatini di Natale di Flavia Cimmino, Account Office
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l modo migliore per immergersi nell’atmosfera natalizia non può che essere la visita ad uno dei tanti mercatini di Natale. Questa magnifica tradizione nordica è diventata ormai una delle tappe fisse per i veri fautori del Natale, i quali approfittano di quest’occasione per immergersi nel clima, nei colori e nell’atmosfera della festa. Pare che tale tradizione sia parecchio longeva e risalga addirittura al XIV secolo quando per gli acquisti all’ingrosso bisognava aspettare le fiere organizzate in genere alla scadenza di ricorrenze annuali come ad esempio il periodo dell’Avvento. Sembra, infatti, che il primo mercatino di Natale sia stato organizzato nel 1434 nella città tedesca di Dresda. Questa magnifica tradizione si è poi propagata in tutte le città tedesche e nei paesi che hanno poi subito nei secoli la dominazione tedesca o austriaca. Negli ultimi anni però, ogni nazione europea ha un proprio mercatino di Natale ed ognuno ha le proprie caratteristiche e particolarità. Le piazze delle città che ospitano questi fantastici mercatini, dall’Avvento in poi, assumono un’aria a dir poco fiabesca. Si cammina tra chalet di legno addobbati a festa, banchi imbanditi di dolciumi, omini di marzapane, candele, spezie, pigne e rami di pino, ghirlande, ninnoli a tema, tutto accompagnato da un suggestivo sottofondo
di musiche e canti natalizi. In più a rendere tutto più magico c’è la possibilità di gustare per strada dolciumi di ogni tipo, prodotti tipici e bere cioccolata, vino aromatizzato, succo d’arancia rigorosamente bollenti. I mercatini più affascinanti dove lasciarsi avvolgere dall’aria natalizia, ovviamente non possono che essere in Germania dove questa tradizione è nata. A Monaco di Baviera il venerdì che precede la prima domenica d’Avvento, una folla si raduna a Marienplatz, nel cuore della città, e aspetta impaziente che alle 17:00 in punto il borgomastro inauguri solennemente il mercatino di Natale. Vengono accese 2500 candeline che illuminano un albero di Natale di quasi 30 metri. Il cuore della città diventa magico, profumo di vin brulé, di mandorle tostate e delle tipiche salsicce bavaresi si diffonde nell’aria e comincia il Natale. Berlino vanta invece i suoi mercatini a tema, da quello ecosostenibile nel quartiere Mitte a quello illuminato con lampade al cherosene, per arrivare a quello ebraico, che ricorda la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme. A Stoccarda è sito il mercatino di Natale più grande del mondo che occupa ben due vie e due piazze cittadine. Al centro di ognuna viene issato un abete che riflette i colori delle varie decorazioni. Anche qui passeggiando tra le bancarelle si possono
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assaggiare delizie tipiche del posto e riscaldarsi con qualche piacevole bevanda calda. Spostandoci in Austria, a Vienna, nella splendida Rathausplatz ogni anno viene decorato un enorme albero di Natale accanto al quale viene posta una maestosa corona dell’Avvento. Tutta la città è un susseguirsi di piccoli mercatini sparsi da Maria-Theresien Platz fino a Karlspaltz passando per il Castello del Belvedere e Piazza Freyung. In ognuno di questi luoghi, circondati da panorami molto belli si trovano bancarelle di artigianato, decorazioni in vetro, biscotti allo zenzero e punch caldo. In Svezia, la meravigliosa Stoccolma si trasforma per l’occasione dei mercatini in un luogo speciale, con un’atmosfera veramente incantata. Nella città vecchia il tradizionale mercatino si tiene dal 1915 nella piazza di Stortorget dove nelle casette rosse si comprano e si mangiano specialità gastronomiche locali, come il gingerbread e il glögg, le tipiche polpette, oppure formaggi e dolci. In Francia uno dei mercatini più conosciuti, è quello sito nella splendida Strasburgo. In piazza Kleber un fiume di bancarelle colorate illuminano la notte dando luce al maestoso abete addobbato posto al centro della piazza. Le casettine in legno offrono oggetti tradizionali e cibi tipici della tradizione alsaziana. Nella Repubblica Ceca, il mercatino di Natale è allestito nel cuore di Praga, nella piazza della città vecchia, dove più di 150 casettine di legno sono sistemate in modo da formare una stella e sulle bancarelle, si possono trovare cristalli di Boemia, oggettistica in vetro, giocattoli in legno e ninnoli in paglia. A partire dal 1990 anche l’Italia ha accolto questa tradizione nordica e vanta di numerosi mercatini natalizi che vale davvero la pena visitare. Senza dubbio l’Alto Adige è la regione italiana in cui la tradizione dei mercatini natalizi ha radici più profonde. Fino all’Epifania, Bolzano ospita il mercatino di Natale più grande d’Italia. Immersi nel profumo di cannella e spezie si possono acquistare addobbi e decorazioni in legno, vetro e ceramica realizzati da artigiani, prodotti tipici in lana cotta e si gustano Zelten, dolci natalizi e vin brulé.
L’atmosfera magica prosegue anche a Merano, dove casette addobbate e allineate lungo la passeggiata del fiume Passirio, mettono in mostra creazioni artigianali degli artisti locali, addobbi natalizi, prodotti in tessuti tradizionali, tra cui le famose creazioni in feltro, e statue in legno. Anche Verona ha, da qualche anno, un gemellaggio con la città di Norimberga quindi la tradizione tedesca viene omaggiata. Mentre Napoli, città dei Presepi, vanta un mercatino perenne nella via San Gregorio Armeno a Spaccanapoli, affiancata da Salerno dove i mercatini di Natale sono una novità arrivata solo negli ultimi anni. C’è solo da scegliere dove cominciare questa fantastica avventura dei mercatini di Natale che difficilmente può essere descritta poiché è un’emozione guidata dai sensi: ascoltare le melodie natalizie, ammirare le luci, respirare i profumi, gustare i sapori e toccare con mano le tradizioni.
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Quando Hollywood nascose i crimini di Riccardo Michelucci, giornalista
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he ruolo ebbe l’industria cinematografica di Hollywood di fronte all’inarrestabile ascesa del nazismo in Germania? Quello che all’epoca era il più potente mezzo di comunicazione del mondo si limitò a chiudere entrambi gli occhi oppure si spinse oltre, stringendo un vero e proprio patto col Diavolo pur di salvaguardare i propri interessi commerciali? L’influenza del governo tedesco sull’industria cinematografica statunitense negli anni che precedettero lo scoppio della Seconda guerra mondiale era già stata indagata in passato dagli storici, ma mai prima d’ora erano stati rivelati particolari scabrosi come quelli raccontati in un saggio appena uscito negli Stati Uniti. Zusammenarbeit, letteralmente “collaborazione”, è il termine ricorrente in molti documenti ufficiali finora inediti che il giovane ricercatore di Harvard Ben Urwand ha trovato negli archivi tedeschi e statunitensi. La sua ricerca, confluita nel recente volume The Collaboration. Hollywood’s Pact with Hitler, l’ha spinto ad affermare che i rapporti intercorsi in quegli anni tra Hollywood e il Terzo Reich furono molto più profondi e duraturi di quanto raccontato finora dagli storici. La prima a piegarsi alle pressioni naziste fu la Universal Pictures, che modificò in chiave filo-tedesca la versione origi-
L’agenda agenda 2014
nale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Tutto ebbe inizio il 5 dicembre 1930 quando Joseph Goebbels, all’epoca un semplice deputato al Reichstag, guidò una violenta protesta all’interno di un cinema di Berlino, durante la prima del film tratto dal noto romanzo di Erich Maria Remarque. Secondo i nazisti, la pellicola offendeva i soldati tedeschi in ritirata nella Grande Guerra e per questo fecero interrompere la proiezione gridando e liberando topi in sala fino a far scappare gli spettatori. Alcuni giorni dopo, la Commissione sulla censura mise al bando il film e costrinse il produttore, l’ebreo Carl Laemmle della Universal, ad apportare tagli e drastiche modifiche alle copie già in circolazione in tutto il mondo. In quegli anni il successo dei film americani dipendeva in buona parte dal mercato tedesco e fu per questo che molte pellicole iniziarono a cadere sotto la scure della censura nazista, che si allargò ben oltre i confini germanici. Con l’ascesa di Hitler al potere nel 1933, gli studios si piegarono uno dopo l’altro al volere del Reich: dalla Fox alla Rko, dalla Mgm alla 20th Century Fox. Urwand sostiene che almeno una ventina di pellicole girate per il pubblico statunitense furono modificate pesantemente o addirittura ritirate dalla distribuzione su pressione dei nazisti,
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del Führer che pretesero anche l’allontanamento degli attori ebrei dai set. Georg Gyssling, console tedesco a Los Angeles fino al 1941 ebbe un ruolo centrale in tutto ciò: fu lui a costringere i produttori ad accettare l’articolo 15 del regolamento cinematografico tedesco, secondo il quale in Germania venivano proibiti in blocco tutti i film dei produttori che avevano distribuito ovunque nel mondo anche un solo film sgradito al Reich. Registi e sceneggiatori vennero così obbligati a concordare i loro lavori con lo stesso Gyssling, a cominciare da Herman Mankiewics, l’autore che prima di collaborare con Orson Welles alla sceneggiatura di Quarto potere fu costretto a interrompere la lavorazione di The Mad Dog of Europe, una pellicola che denunciava l’antisemitismo di Hitler, e che per questo non fu mai girata. Ma il libro di Urwand si spinge oltre, fino a mettere in dubbio persino il ruolo dei fratelli ebrei Harry e Jack Warner, i fondatori della mitica Warner Bros finora accreditati di un rischioso impegno personale in chiave antinazista. Lo studioso di Harvard afferma che furono proprio loro a far cancellare la parola “ebreo” dai dialoghi del film La vita di Emile Zola e a soddisfare con solerzia tutti i diktat dei funzionari del Reich che avevano messo sotto stretto controllo le loro pellicole. Secondo l’inquietante ma dettagliatissima ricostruzione di Urwand tutto, anche dopo i terribili pogrom della “Notte dei cristalli” del 1938, venne sacri-
ficato sull’altare degli interessi economici delle major del cinema. Che non ricevettero in cambio soltanto benefici in termini di incassi al botteghino. Alla Mgm, alla Paramount e alla 20th Century Fox fu persino consentito di aggirare la legge tedesca, che all’epoca vietava alle aziende straniere di esportare i loro profitti in valuta. Vi riuscirono perché avevano investito i loro soldi in alcune aziende legate all’industria tedesca degli armamenti – ha spiegato Urwand – ed erano così diventate a tutti gli effetti finanziatori della macchina bellica del Reich. Lo Zusammenarbeit terminò solo alla fine del 1941, con l’attacco a Pearl Harbor e l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.
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