Menthalia Magazine - Settembre 2013

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Reg. Trib. di Napoli N. 27 del 6/4/2012

num. 5 - Anno II settembre 2013

IN QUESTO NUMERO

© Marco Iazzetta

Un Batman per Marsiglia Arriva Carl, il robot “barista” Comunicare il benessere Il favoloso mondo di Anna Piaggi Difendersi dall’estinzione in 5 mosse Una tela per affermare l’Io Candy Crush Saga: i dolcetti fanno gola Eccomi, sono qui! Il Carnevale colora Londra


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Editoriale

U NOI Collabtuooraarticcoolon inviaci il thalia.it magazine@men

Scopri il nostro

mondo su

n accompagnamento musicale davvero sentito quello che offre Andvinyly, un’impresa inglese, che ha pensato di farci restare vicino ai posteri in maniera piuttosto insolita: racchiusi, intrappolati, ovvero stampati in una melodia che ci porta attraverso l’eternità a parenti e amici che hanno deciso di conservare il nostro ricordo in un motivetto da canticchiare per il resto della vita. La ditta, infatti, permette di stampare su vinile le ceneri dei defunti cremati e di personalizzare i dischi con della musica a proprio piacimento. Il tutto in dieci indispensabili step che garantiscono l’immortalità. Si parte dalla verifica del servizio, fino all’individuazione del delegato che sarà l’artefice del completamento della missione. Consultabile sul sito dell’azienda, il decalogo è chiaro in ogni suo punto: 1. Indicare il luogo dove desidera ricevere il servizio per la verifica della fattibilità; 2. Indicare il membro della famiglia o il delegato che (ti) accompagnerà, ovviamente sotto forma di ceneri, alla stampa del disco;

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3. Decidere l’audio e la copertina; 4. Supervisionare la preparazione dell’originale dell’audio; 5. Ricevere una copia “campione” del disco con audio e copertina; 6. Morire;

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Registrazione al Tribunale di Napoli N. 27 del 6/4/2012 Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione Direttore Editoriale: Stefania Buonavolontà Art Director: Marco Iazzetta Grafica & Impaginazione: Menthalia Design Hanno collaborato in questo numero: Valeria Aiello, Carla Basile, Stefania Buonavolontà, Flaviana Cimmino, Andrea Ponsiglione, Marco Quadretti, Elena Serra, Alice Setafina, Diego Vecchione Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio Ph. +39 081 621911 • Fax +39 081 622445 Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro 50132 Firenze – 17/A, Via degli Artisti Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari. La pubblicazione delle immagini all’interno dei “Servizi Speciali” è consentita ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca.

7. Farsi cremare; 8. Inviare il membro della famiglia o il delegato alla stampa dei dischi; 9. Ritirare i dischi 10. Vivere per sempre… tra le note del disco. Il servizio ha un prezzo davvero accessibile a tutti: per un “pacchetto standard”, che comprende 30 vinili, siamo nell’ordine delle 3.000 sterline. Un prezzo modico, a conferma che ormai c’è un prezzo per tutto, anche per l’immortalità. Ma attenzione, specificano dall’Inghilterra, si accettano anche singole parti del corpo, ovviamente, cremate… provare per credere!

Marco Iazzetta General Manager Menthalia


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Un Batman per Marsiglia di Marco Quadretti, Web developer

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arsiglia è una città pericolosa” afferma un cittadino francese, “No!” replica Batman, mollandogli un ceffone. Questa è una delle tante vignette raffiguranti il supereroe, simbolo di una campagna alquanto insolita, che sta facendo il giro del web. La finta petizione online e la pagina Facebook Un Batman pour Marseille? è nata dopo che un pensionato è stato ucciso, tentando di sventare una rapina. Secondo alcuni testimoni i ladri, dopo una rapina in una tabaccheria, sono fuggiti su uno scooter ma dopo un centinaio di metri sono stati fermati da Jaques Blondel, un sessantunenne pensionato di AirFrance che, essendosi accorto dell’accaduto, ha cercato di intervenire investendo con la propria auto i due malavitosi in fuga. Blondel ha poi cercato di fermare i due ladri con lo spray al peperoncino ma, prima che potesse farlo, uno dei sospettati ha tirato fuori una pistola e ha aperto il fuoco, colpendolo ad una gamba e all’addome, davanti a sua moglie e sua nipote. Un campanello d’allarme contro la violenza che da qualche anno regna sulla città di Marsiglia e che nel mese di agosto ha ucciso un eroe. È proprio sulla base di questo che un gruppo di residenti della violenta città ha creato la petizione che in una sola settimana ha ricevuto migliaia di firme sul sito ufficiale. “La città ha bisogno di azione!” dicono le migliaia di persone che aderiscono

giorno per giorno, non contenti delle misure di sicurezza che sta attuando il governo francese. Nel documento si chiede ai cittadini di diventare “un Batman” per aiutare Marsiglia nella lotta per il buon senso e di non aspettare il supereroe della DC Comics per difendere la nuova Gotham City. Nel frattempo, la pagina creata su Facebook ha già ricevuto più di cinquemila “mi piace”, quattromila solo nelle prime due settimane. Sul sito ufficiale inoltre è presente una donazione, chissà che l’incasso non venga usato proprio per cercare di ingaggiare il Cavaliere Oscuro. In realtà non è la prima volta che è richiesto un suo aiuto. Nel 2004 infatti un uomo vestito da Batman si arrampicò sulla parete davanti a Buckingham Palace, su una sporgenza vicino al balcone dove compare la famiglia reale in occasioni cerimoniali. In quel caso però, dopo essere stato smascherato, la delusione è stata grande: sotto la maschera non c’era Bruce Wayne, bensì Jason Hatch, un attivista di Fathers 4 Justice che si batte per i diritti di custodia per i padri divorziati o separati. Anche nel marzo scorso un uomo vestito da Batman si è presentato in un commissariato di Bradford in Inghilterra e ha consegnato alla polizia un malvivente di 27 anni, suscitando stupore e curiosità. Anche qui, però, il supereroe è stato smascherato. Ad indossare i panni del Cavaliere Oscuro stavolta è stato Stan Worby, un fattorino di 39 anni che si era travestito per andare allo stadio ed assistere alla partita BradfordSwansea e che, poco prima, era riuscito a convincere un suo amico, con una serie di precedenti per furto e frode, a costituirsi. Tanti quindi gli avvistamenti del Cavaliere Oscuro: dal Molise, dove è stato avvistato a vegliare di notte la città di Isernia, al Maryland nella contea di Montgomery a bordo della sua Batmobile (una Lamborghini Gallardo cabrio nera). Chissà se un giorno non utilizzeremo il Bat-segnale per chiamare il supereroe mascherato, magari quello vero però!

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Arriva Carl, il robot “barista” di Carla Basile, Blogger & Copywriter

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i ricordate i film degli anni ‘80‘90 incentrati sul tema dei robot? Terminator, Matrix, Io, Robot, ma anche meno recenti come il famoso Blade Runner e molti altri, che hanno incuriosito ed emozionato milioni di telespettatori, anche i più reticenti ad appassionarsi al genere. Quello della robotica è diventato uno dei filoni letterari portanti a partire dagli anni ‘50, quando Isaac Asimov cominciò a descrivere minuziosamente quest’universo nei suoi libri, il cui filo conduttore è quello della creazione e dell’evoluzione delle macchine che si conclude, nella maggior parte dei casi, con la loro ribellione al genere umano. Negli ultimi decenni i ricercatori che si occupano della creazione di macchine senzienti hanno sviluppato diversi modelli con capacità cognitive sempre più raffinate, coinvolgendo nei loro studi ingegneristici anche psicologi e biologi. È dalla Germania che arriva l’ultima novità. Nell’estate scorsa, infatti, la città di Ilmenau ha visto l’inaugurazione di un bar molto particolare: un robot umanoide aiuta i suoi colleghi umani nella preparazione dei cocktail e serve i clienti, intrattenendo con loro anche una breve conversazione, “qualitativamente limitata”, come l’ha definita il Dailymail, visto che la sua capacità di riconoscimento vocale e quella di interazione sono, per il momento, “minime”. L’idea è dell’ingegnere Ben Schaefer, nel campo della robotica da ventitré anni, che a quanto pare ha creato il “barista” a partire da alcuni pezzi di robot industriali in disuso. Tante sono le novità in questa branca dell’ingegneria meccatronica: dal robot astronauta Kirobo inviato sull’International Space Station, ad Atlas realizzato per sostituire l’uomo in missioni di soccorso pericolose, a quelli più in generale usati a scopi clinici; l’ultima novità anche in campo sportivo è la notizia che sarà il

“gemello” di Kirobo, chiamato Mirata, il nuovo testimonial delle olimpiadi del 2020 che si terranno a Tokyo. In questo panorama, quella del “barista” di Ilmenau si può ritenere senz’altro una trovata simpatica (a chi infatti non piacerebbe essere servito al bar da un robot, magari anche capace di espressioni emotive?), ma anche utile all’approfondimento degli studi nel campo della robotica; Schaefer, infatti, pensa che il contatto tra i clienti del bar e il robot, ribattezzato Carl, possa affinare le sue ricerche sull’interazione uomo-macchina e apportare miglioramenti altrimenti non possibili nelle indagini compiute in laboratorio. È tanto fantascientifico dunque pensare che da una macchina di supporto si possa arrivare ad un robot che ci sostituisce completamente? Del resto non sarebbe un fenomeno nuovo se si pensa soltanto ai tanti macchinari industriali che svolgono operazioni un tempo affidate all’uomo. La letteratura fantascientifica sopra citata ci insegna che l’avanzamento in queste tecnologie può risultare controproducente sul lungo periodo: l’interazione inizialmente positiva uomo-macchina si evolve quasi sempre in un conflitto a discapito del genere umano. Sarà dunque questo il nostro destino? Gran parte di questi film sembra magnificamente riassunta nella recente serie televisiva Battlestar Galactica, in cui la battuta ripetuta più spesso è “tutto questo è già successo e succederà di nuovo”, molto in stile “eterno ritorno” nietzschiano! E che lascia intendere un inevitabile progresso robotico per l’umanità. Ma al di là di qualunque filosofia fantascientifica, resta il fatto che la creazione di nuovi robot pone degli interrogativi circa le loro potenzialità future e circa la necessità di imporre dei limiti al loro utilizzo. Per il momento siamo curiosi di scoprire com’è un cocktail preparato da Carl.


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Comunicare il benessere di Flavia Cimmino, Account Office

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igitando la parola “benessere” online i primi risultati della ricerca sono per lo più pagine che rimandano ad articoli sulla salute, sulla forma fisica e a eventuali offerte di centri e hotel dove ristorarsi con massaggi, saune, alimentazione sana, ecc. Ma esattamente cosa si intende per benessere? Per conoscere il suo significato originario come sempre si deve fare qualche passo indietro, fino al tempo dei greci. Infatti, già Platone approfondì il tema del benessere. La parola in greco si associa a quella di felicità, il filosofo parla di eudaimonia, collegata ai termini eufrosìne, cioè gioia, e sìnferon, cioè conveniente. Quindi il benessere, da noi ridotto a semplice “stare bene”, era indicato come un movimento ordinato dell’anima che procura gioia e che realizza azioni convenienti; il benessere non è inteso dunque come qualcosa di statico, ma di dinamico, come un moto che mette in accordo il soggetto con il mondo esterno. Benessere per tutti noi oggi è uno stato di grazia, un momento di felicità per l’anima e il corpo, spesso direttamente collegabile a esperienze fuori dall’ordinario, a gite in luoghi ameni, che mettono in contatto con la natura. Si intende dunque un ritorno a uno stile di vita semplice, fatto di buon cibo, scorci naturali incantevoli, condivisione dell’esperienza con la giusta compagnia di amici. Quanti di noi infatti, appena si prospetta la possibilità di un ponte festivo, scelgono di sfuggire al solito tran tran cittadino in cui si è immersi quotidianamente? Questo accade un po’ a tutti, anche a noti personaggi del panorama musicale per esempio. Spesso infatti l’atmosfera rilassante dei piccoli alberghi lontano dalla città, arroccati su colline, in prossimità di laghi o del mare, garantisce quel benessere dell’anima che favorisce l’ispirazione. Tra questi magnifici luoghi dove rifugiarsi in totale relax, c’è un borgo medievale scelto per una convention di lancio per una multinazionale farmaceutica ed organizzato da Menthalia che si chiama Castel Monastero. Il luogo immerso tra le colline senesi conferma il concetto di immersione totale nel “benessere” in senso completo che si percepisce in ogni momento della giornata giro-

vagando nel piccolo borgo. Castel Monastero lascia stupiti di trovare tra le colline della provincia di Siena uno di quei posti in linea con il tema della salute, della forma fisica e, perché no, della sana alimentazione. Il borgo è solo uno dei tanti esempi di luoghi da sogno, dove per qualche giorno è possibile distrarsi da quella quotidianità snervante. Uno di quei luoghi di benessere, ma anche di gioia, felicità e armonia dell’anima, capace di regalare pace e tranquillità, non solo ai VIP, ma anche agli amanti del soggiornare bene. Grandi spazi all’aperto che si fondono ad architetture tipiche che promettono un percorso di benessere interiore. Luoghi da sogno, capaci di rinvigorire la mente con esperienze fuori dall’ordinario e di regalare serenità mentale, prima ancora che fisica. Nulla a che vedere con le solite foto di litoterapia che ci bombardano sul web. Non saranno i sassolini sulla schiena a farci rilassare, ma un mix di componenti tra cui, appunto, la cucina. Ebbene sì, quello che può sembrare un dettaglio quasi irrilevante se volessimo considerare la possibilità di andare a cena “fuori”, molto spesso è l’aspetto che ci potrebbe più entusiasmare. Anche perché, spesso, queste località sorgono lontano dai centri abitati, in vere e proprie oasi di pace, dove il ristorante più vicino potrebbe anche trovarsi a diversi chilometri. È proprio attraverso la cucina, stimolata dal boom di quest’inverno dei tanti format televisivi trasmessi dai più noti canali, che molti di questi resort cercano riscatto in questo difficile periodo di crisi, perché si sa che all’italiano piace mangiare, e mangiare bene. Così al via la ricerca dei nomi più noti del panorama culinario italiano e internazionale, nessuno escluso, a garanzia di gusto e qualità. Basteranno i consigli del Gordon Ramsay di turno per far esplodere in bocca il sapore di un weekend meritato? È pur vero che ognuno vive la propria vita perseguendo gli obiettivi che vuole, nella maniera che preferisce e, perché no, magari concedendosi piccoli sfizi. Ma chissà se Platone oggi avrebbe preferito ritirarsi in un luogo ameno abbandonando ogni forma di eccesso e ritrovando il contatto con la natura.

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Il favoloso mondo di Anna Piaggi di Alice Setafina, Writer

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nna Piaggi non è un nome qualsiasi. È il nome di una donna che è stata tante cose: giornalista di moda, scrittrice, traduttrice di romanzi. Ma più di tutto di una donna che aveva fatto di se stessa un’opera d’arte. Agghindata in modo eccentrico ma unico per ogni occasione, è stata sempre presente alle sfilate di moda, dove era attentamente osservata da tutti, incantati dalla sua pittoresca figura. A un anno dalla morte, avvenuta nell’agosto 2012, si ricorda la sua persona e il suo brioso mondo di cappelli, per i quali più di tutto è diventata famosa, attraverso una mostra a Milano. Durante la settimana della moda sarà possibile contemplare i suoi meravigliosi e variopinti copricapi (almeno seicento) in questa mostra dal titolo “Hat-ology”, nata dalla collaborazione dell’Associazione Culturale Anna Piaggi con il Comune di Milano, la Camera Nazionale della Moda Italiana e il curatore, Stephen Jones, autore di numerosi dei suoi strepitosi cappelli. Lo stesso Jones, su Vogue arts news ha detto di Anna “Come noi punk, lei intendeva gli abiti come un’espressione di noi stessi e non della moda. Ecco perché la rispettiamo così tanto”. È dunque soprattutto per i suoi strabilianti cappelli che ancor oggi viene ricordata ed evocata; lei stessa sosteneva di non essere mai uscita di casa senza un cappello dal 1980! Ma questo non era il suo unico tratto distintivo. L’intero aspetto di Anna Piaggi era unico e inconfondibile: il volto ricoperto da una cipria bianchissima, evidenziato dal rosso brillante sulle guance, gli occhi marcati col blu o col nero, le labbra dipinte a formare un cuore e l’immancabile cappellino di traverso che copriva un’onda di capelli spesso colorati di blu. Un personaggio quasi fiabesco, potremmo dire di un’altra epoca, ma in realtà capace di essere moderna, al passo coi tempi, pur nel suo stile vintage, concetto da lei introdotto prima ancora che ne coniassero il termine. La carriera della Piaggi comincia come traduttrice per la casa editrice Mondadori, per poi iniziare collaborazioni con le rivi-

ste l’Espresso e Panorama, e approdare al mensile Vogue dove avverrà la sua definitiva consacrazione nal mondo della moda e dove sarebbe rimasta fino alla fine, con la sua rubrica D.P. Doppie Pagine, vera scuola di glamour. Già nel 1986 entrò nel panorama mondiale della moda, quando Karl Lagerfeld la trasformò in fumetto, in una serie di avventure dal sapore onirico, nel volume Anna-Chronique. Il grande stilista diceva di lei: “Anna inventa la moda. Nel vestirsi fa automaticamente quello che noi faremo domani”. La Piaggi non parlava solo di moda, ma la raccontava con senso critico e lucidità, in maniera brillante e spudorata, insegnando a vedere oltre le tendenze e il glamour fine a se stesso. Più che dettare la moda e le tendenze, le inventava anticipando persino gli stilisti. Era presente alle sfilate, talvolta dietro le quinte, rassicurando in qualche modo tutti gli animi con la sua eccentrica presenza. E, in quelle occasioni, dava il massimo di sé: prima sul red carpet, poi sul front row, sfoggiando un trucco iperbolico, accompagnato da abiti sgargianti. Il fotoreporter del New York Times Bill Cunningham la definiva “l’unica italiana che valesse la pena fotografare”. Quella organizzata a Palazzo Morando non è la prima mostra mostra di accessori di Anna Piaggi. Già nel 2006 al Victoria & Albert Museum di Londra era stata organizzata la mostra intitolata Anna Piaggi Fashion-ology. In quell’occasione erano stati esposti quasi 3000 abiti e 265 paia di scarpe della nota giornalista (come riportato sulla rivista di arte e spettacolo online daringtodo.com). Fashion-ology era il nome con cui si tradusse la “moda-logia”, termine coniato dalla stessa Piaggi, che aveva quasi l’accezione di “mitologia della moda”. Prima di Karl Lagerfeld, Anna Piaggi aveva incontrato l’estro del disegnatore Antonio Lopez, col quale diede vita alla rivista Vanity, e quello di Vern Lambert, storico di moda. Ma il primo grande sodalizio creativo e culturale si costituì proprio con il marito Alfa Castaldi, foto-


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grafo che collaborò con Vogue in Italia e sposò la Piaggi nel 1962. Quando un personaggio del genere incide così fortemente in un settore in continuo divenire come quello della moda non si può non pensare che sia caratterizzato da un carisma senza precedenti, da una sorta di “magnetismo elegante” che ha caratterizzato poche personalità dell’epoca moderna. Eccentrici, con costumi innovativi, a volte al limite del reale star come Madonna, David Bowie, la recentissima Lady Gaga sono alcuni esempi di moda fuori dagli schemi, originale, capace di appassionare al primo sguardo. La stessa Lady Gaga durante lo spettacolo MTV Video Music Award del 2005, affermò “I’m not real, I’m theatre” rendendo pubblica la sua idea di aver costruito il proprio personaggio sull’utopia di una vita su un immenso palcoscenico. Certamente, un modo di essere che le ha fatto guadagnare molto seguito. Grandi artisti, tutti accomunati da uno stile originale, da abiti su misura dai colori sgargianti e dalle forme futuristiche. Ma per Anna Piaggi la storia è diversa; lei che ha cominciato la sua carriera forse in punta di piedi nella nota casa editrice mantovana, approdando soltanto poi nell’universo della moda, ha mostrato le tendenze in maniera non “rumorosa” ma comunque manifesta. Ha parlato di moda, scrivendo su riviste di spicco e infine l’ha indossata, plasmandola a suo piacere, facendone “espressione” e non “mostra” di sé. Con gusto eclettico e concentrando su di sé stili diversi riuniti in un solo modo di vestire e apparire, ha armonizzato forme e colori, ora in un tulle arancione combinato con cappellino fucsia a pelo corto, ora in un abito a pieghe bianche con scritte nere che sembra riprodurre i fogli di un giornale intorno alla sua persona. E ancora mascherine carnevalesche sugli occhi, lenti vintage, piccoli cilindri sul capo dai colori accesi. A coronare il tutto un inconfondibile trucco brioso e vistoso, con quei colpetti rossi sulle guance di contorno a una smorfia di serietà quasi regale. C’è da apprezzare inoltre anche la naturalezza con la quale Anna Piaggi si è mossa

all’interno di un mondo davvero diabolico, come quello della moda. Come non ricordarsi della verosimile trasposizione di questo settore nel film Il diavolo veste Prada, ispirato all’esperienza di una stagista presso la rivista Vogue, che ci offre un’immagine diabolica di un mondo che lascia scottati, sia che ci si trovi ad affrontarlo da semplici stagisti che da famose stiliste o redattrici di moda. Anna Piaggi è riuscita a non farsi trascinare nel meccanismo del pettegolezzo tipico di questo ambiente, lasciando di sé un ricordo fresco e brioso, forse davvero senza precedenti a livello internazionale.

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Difendersi dall’estinzione in 5 mosse di Valeria Aiello, Project Manager

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rofezie su profezie, ma la fine del mondo, al momento tarda ad arrivare. La attendiamo tutti, e non con poca ansia, da millenni. Aggiungerei fortunatamente. E nonostante il processo di avvicinamento al fatidico giorno sia più che mai “attivato” e ancora invisibile a chi ha gli occhi coperti da spessissimi strati di prosciutto, si continua a vivere come se nulla fosse. Verrà dal cielo? Verrà dalla Terra? Verrà dall’uomo? La fine del nostro tempo si costella dei più disparati interrogativi, lasciandoci inermi all’inesorabile Giudizio Universale. E con il collasso alle porte, c’è chi risponde al panico con qualche idea per assicurare la sopravvivenza della nostra civiltà. Progetti che sanno di fantascientifico di cui, forse è il caso, segnarsi le coordinate. Non si sa mai.

Le capsule del tempo Westinghouse Nonostante il nome faccia tornare in mente la saga di Ritorno al Futuro, le capsule del tempo non hanno nulla a che vedere con la DeLorean volante di Emmett Brown. Si tratta di due capsule vere e proprie, dalla lunghezza di 2,2 metri per circa 30 centimetri di diametro, realizzate con leghe speciali: la prima, chiamata Cupaloy, costituita principalmente di rame con tracce di cromo e argento, comparsa per la prima volta nell’esposizione universale di New York del 1939, e la seconda, battezzata Kromarc, costruita in una lega di acciaio, nickel, cromo, manganese e molibdeno e presentata all’esposizione universale del 1964. Entrambe realizzate dalla Westinghouse, l’azienda produttrice di reattori nucleari, sono in grado di resistere all’erosione del tempo per 5000 anni. Ma a cosa servono? Purtroppo non a viaggiare nel tempo, nel senso comune del termine, bensì a trasportare nel futuro microfilm con testi di letteratura, immagini d’arte contemporanea, istruzioni sulla produzione di energia atomica e di razzi per raggiungere lo spazio, articoli sugli ultimi sviluppi scientifici e tecnologici, dizionari e anche quegli almanacchi che avrebbe-

ro potuto fare la fortuna di Marty McFly. Nessuno quindi tornerà dal 1985 dopo essersi assicurato che gli eventi futuri vadano secondo natura. Piuttosto, chi avrà la fortuna di aprirle, nel 6939 e nel 6934, ovvero tra 5000 anni, si ritroverà una serie di informazioni che, a dire il vero, non credo tornino davvero utilissime a un’umanità sopravvissuta all’apocalisse. Coordinate 40°44’42’’N 73°51’2’’O. Flushing Meadows Park, Queens, New York City, USA.

La cripta della civiltà Sotterranea, nata dalla mente dell’americano Thornwell Jacobson, influenzato dalla scoperta della tomba di Tutankamon. Per un attimo è come essere catapultati in una sceneggiatura degna di Steven Spielberg, con tanto di archeologi intenti a recuperare tesori perduti. Si tratta della Crypt of Civilization, una camera sigillata in grado di conservare, per millenni, le vestigia dell’epoca contemporanea. Annunciata via radio dalla NBC nel 1937 e ultimata nel 1940, la cripta lunga 6 metri, alta e larga 3 metri, è semplice da raggiungere. Nessun tempio nella giungla, ma basterà recarsi al Phoebe Hearst Memorial Hall, uno degli edifici in stile gotico del complesso universitario Oglethorpe di Brookhaven, alle porte di Atlanta, in Georgia, per scoprire la camera dal tetto in pietra di 3 metri e mezzo incorporata nelle fondamenta del palazzo. Sigillata da un portello di acciaio saldato, la cripta riprende lo stile dell’antica tomba egiziana, se non fosse per il fatto che ad abitarla non ci sono mummie, ma solo artefatti umani. Niente preziosi per gli esploratori del futuro, ma oltre 800 opere di letteratura su microfilm, accompagnate da un lettore elettronico e da uno a manovella, nel caso in cui, quando verrà aperta, non esista l’elettricità. E poi registrazioni di personaggi storici dell’epoca, tra cui Hitler, Mussolini, Stalin e Roosvelt, oggetti donati da tutto il mondo, scientifici e non, e notizie sulla Seconda guerra mondiale. Ebbene sì, un’altra amara delusione per i fortunati


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archeologi che nel lontano 8113, anno in cui la cripta dovrebbe essere aperta, si ritroveranno senza nemmeno un anellino. Coordinate: 33°52’20’’N, 84°19’53’’O. Oglethorpe University, Brookhaven, Atlanta, USA.

Georgia Guidestones Inquietanti, misteriosi, enormi, proprio come i megaliti di Stonehenge. Pietre gigantesche collocate e ordinate secondo precisi calcoli astronomici. Proprio come a Salisbury, ma nessuna traccia di popolazioni primitive. Il Georgia Guidestones risale infatti al 1980, quando un anonimo commissionò l’opera a una ditta di costruzioni in granito. Ricoperte da iscrizioni in otto lingue tra le più parlate al mondo: inglese, cinese, hindi, spagnolo, arabo, russo, swahili ed ebraico, le pietre sono orientate in modo che da una piccola fessura sulla pietra centrale, perpendicolare alla posizione del Sole a mezzogiorno, un raggio di luce vada a colpire una delle quattro lastre laterali disposte intorno, indicando il giorno dell’anno. A completare la struttura, una lastra di copertura, e una scritta a indicare l’obiettivo del monumento: “Lasciate che queste pietre-guida conducano all’età della ragione”. E poi serie di misteriosi precetti per garantire l’armonia della civiltà umana. Sconvolgente. Coordinate: 34°13’55’’N, 82°53’40’’O. Elbert County, Georgia, USA.

La volta dei semi Bill Gates, la Fondazione Rockfeller e la Monsanto come Keanu Reeves in Ultimatum alla Terra. Ma al posto della sfera luminosa della confederazione delle civiltà, un bunker tra le nevi perenni della Norvegia. Per il resto, l’intento è lo stesso: preservare e difendere le specie, in questo caso semi, dall’estinzione. Aggiungendo la collocazione, a dir poco apocalittica, ecco salire il brivido dello sterminio dell’umanità, accusata

di uccidere il pianeta. Un progetto per la conservazione della biodiversità che, tanto per scrollarsi un po’ di colpe dalle spalle, è minacciata non dall’uomo ma dall’incombente cambiamento climatico. Lo Svalbard Global Seed Vault contiene decine di migliaia di campioni, che restano di proprietà di coloro che li hanno depositati, mentre il governo della Norvegia ne garantisce solo la conservazione alla stregua di una banca. L’enorme bunker, che si trova all’interno di una montagna sull’isola di Spitsbergen, nell’arcipelago norvegese delle Svalbard, garantisce una temperatura mai superiore ai -3° C, assicurando così la naturale conservazione dei semi per migliaia di anni. Coordinate: 78°14’10’’N 15°29’32’’ N. Spitsbergen, isole Svalbard, Norvegia.

L’Orologio dei 10.000 anni È difficile prevedere come sarà l’umanità tra diecimila anni. È ancora più difficile immaginare come si sarà evoluta la tecnologia, sempre che non sia scomparsa già da tempo. E da uno sguardo indietro nel tempo ci si accorge che diecimila anni fa eravamo appena agli esordi della civiltà. Un lasso di tempo enorme, fatto di generazioni su generazioni, alla base di un progetto avveniristico che si propone di essere uno strumento capace di sensibilizzare l’umanità rispetto al pensiero a lungo termine. L’Orologio della Long Now Foundation, promosso molti anni fa da Stewart Brand, guru dell’ecologia e della sostenibilità ambientale, e da Kevin Kelly, ex direttore dell’edizione americana di Wired, si trova nel ventre di una montagna nei dintorni di Van Horn, una tipica cittadina texana nel mezzo del deserto, in un area donata alla Long Now da Jeff Bezos, numero uno di Amazon. Ancora in costruzione, continuerà a segnare il tempo per 10.000 anni con un apporto minimo di energia affinché i popoli del futuro continuino a riflettere sul tempo e… diciamoci la verità, a ricordare il nome del suo ideatore. Coordinate: 31°2’33’N 104°49’59’’O. Van Horn, Texas, USA.

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Una tela per affermare l’Io di Stefania Buonavolontà, Marketing & Communication

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uando si legge dell’esistenza di una “tela più grande del mondo” il pensiero vola a opere famose di grandi dimensioni che possiamo aver visto nel nostro Paese o durante un viaggio all’estero. Ne sono esempi famosi il quadro Guernica di Picasso, che raggiunge i 3,5 m x 7, 7,8 m di grandezza, o l’affresco Giudizio Universale di Michelangelo che raggiunge i Unive 13,7 m x 12,2 m! 13, In realtà chi dice che le tele sono esclusivamente reali? Esiste infatti un progetto di disegno virtuale, nato nel 2008 sul sito WebCanvas.com, che è diventato di fatto la tela più grande del mondo. Ciascun utente che si registri gratuitamente sulla piattaforma può contribuire ad accrescere l’enorme disegno. E quello che oggi appare come un misto di graffiti, simboli, disegni e parole copre l’originaria scritta che recitava la proposta di matrimonio di un anonimo graffitaro alla sua fidanzata. L’idea della tela è del londinese Antonio Roldao Lopez e, a quanto pare, è stata accolta con entusiasmo dalle tante persone che subito hanno contribuito a riempirla, lasciando lì la propria impronta. E il punto forse è proprio questo. Se in città la presenza di un graffito colpisce ed incuriosisce, lasciandoci però nel ruolo di semplici ammiratori di questi disegni dagli sgargianti colori, un graffito sul web su cui poter intervenire in prima persona è un invito irrinunciabile a mostrare se stessi. Sì, perché in fondo si tratta proprio di una mostra di sé. Che cos’è che spinge a partecipare a tanta grandiosità se non un pizzico di esibizionismo? Esplorando il quadro collettivo si nota come al progetto abbiano preso parte molti tipi di personalità: il disegnatore esperto, il tifoso che inneggia alla vittoria della sua squadra, il meno bravo che decide di arrangiarsi con un piccolo scarabocchio, quello che invece si cimenta in una titanica impresa, ecc. Li accomuna tutti la volontà di essere notati… o di partecipare? La vista di uno spazio, in parte già scarabocchiato, in parte ancora da riempire, fa

scattare in noi il desiderio di non rimanerne fuori, di “lasciare il segno” e, perché no, di andare addirittura a sovrapporci all’impronta di qualcun altro in tempo reale. Nessuno osserva il nostro gesto nell’atto di compierlo, come accadrebbe invece su di un muro in città dove il senso di vergogna potrebbe impedirci di esternare il nostro Io, e desideriamo che tutti lo vedano una volta finito, che lo apprezzino, che lo commentino.


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Quale occasione più ghiotta per dar mostra di sé, della propria bravura e del proprio pensiero sia per chi già vive pienamente la propria superbia sia per chi, invece, vive normalmente nell’anonimato? Non c’è dunque bisogno di scomodare lo psicanalista Heinz Kohut, caposcuola della “Psicologia del sé”, per definire la tela e in generale qualsiasi opera grandiosa come un’estensione del proprio Io. In fondo, che c’è di male ad essere un po’

esibizionisti/narcisisti? A guardare la tela virtuale viene in mente il “Siate affamati, siate folli” di Steve Jobs e, sulla sua scia, il titolo del libro di Donald J. Trump “Pensa in grande e manda tutti al diavolo”, uscito nello stesso anno di nascita di questa tela. Chissà che l’ideatore del quadro virtuale non abbia tratto spunto proprio da quest’affermazione e abbia deciso di stare a vedere quanti fossero disposti a pensare in grande come lui.

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numero 5 - settembre 2013

Candy Crush Saga: i dolcetti fanno gola di Elena Serra, Events Management

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andy Crush Saga è il gioco per smartphone e Facebook che da qualche mese si è imposto come mania del momento. Il nome non vi è nuovo? Avrete sicuramente ricevuto richieste di partecipazione da un vostro contatto per sbloccare un nuovo livello! E magari per mancanza di tempo o interesse non avete mai approfondito la questione. Di cosa si tratta esattamente? È un gioco che rientra nella categoria dei puzzle a livelli, il cui scopo è spostare, all’interno di una griglia, dei dolcetti di colori differenti in modo da poter eliminare quelli dello stesso colore in gruppo, a partire da un minimo di tre; una volta eliminati prenderanno posto nello spazio vuoto i dolcetti presenti sopra. Le mosse possono essere orizzontali e/o verticali e lo scopo di ogni livello è non rimanere senza mosse da poter eseguire o senza tempo a disposizione (nei livelli a tempo). L’ obiettivo è l’eliminazione di tutte le gelatine presenti, far scendere un determinato numero di ingredienti o eseguire alcuni ordini. Nell’idea, Candy Crush Saga, sembra riprendere il gioco Bejeweled, altro rompicapo in cui al posto dei dolcetti sono presenti delle gemme colorate. A rendere dinamico il gioco sono poi alcune varianti, come la possibilità di ricevere degli omaggi che aiutano a eliminare più dolcetti in una stessa riga orizzontale o verticale e a innescare una sorta di reazione a catena. Un gioco dunque immediato e semplice anche per i meno abituati a questo genere di passatempo. Ed è su questa logica che Riccardo Zacconi, cofondatore della King.com, ha impostato la sua fortunata Candy Crush Saga; infatti, secondo quanto riporta la sezione “Media” della rivista britannica The Guardian, Zacconi si posizionerebbe al

56esimo posto della top 100 delle persone più potenti dei media. L’italiano, con alle spalle precedenti esperienze estere, arriva a Londra nel 2001 per lavorare nel settore tecnologico e partecipa poi alla fondazione di King.com, piattaforma di giochi web. Il fenomeno Candy Crush sembra addirittura aver distolto l’attenzione da Ruzzle, gioco altrettanto utilizzato che impone però la presenza di almeno un utente dall’altro lato per poter cominciare la sfida, e da FarmVille, il gioco da sempre più giocato su Facebook, secondo quanto riportato da diversi quotidiani italiani fino al gennaio 2013. Sempre secondo la rivista The Guardian, le persone ormai in grado di collegarsi anche fuori casa alla piattaforma Facebook, mediante mobile, trascorrerebbero il tempo a disposizione più giocando che leggendo le notizie d’attualità. Nulla di nuovo nel panorama dei cosiddetti social games, ma comunque una tendenza che ha preso piede da pochi anni a questa parte, sulla scia della diffusione dei vari social network. Quale sarà il segreto della popolarità di questo gioco? Come racconta Zacconi a Wired.it, “È importante creare una grafica essenziale, ma accattivante, con una durata di massimo tre minuti per ogni livello, in modo da poter essere giocato anche durante l’attesa di un pullman”. Strategia senza dubbio vincente, che finirà col contagiare anche giochi realizzati su altre piattaforme. L’interrogativo sempre aperto è: nei pochi minuti di pausa a disposizione è più rilassante incastrare dolcetti dagli sgargianti colori, affondando la testa nel proprio cellulare, oppure distrarsi chiacchierando con amici e colleghi? Per adesso è la prima scelta che va per la maggiore, ma chissà che in futuro non ci possa essere un’inversione di tendenza.


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numero 5 - settembre 2013

Eccomi, sono qui! di Andrea Ponsiglione, Events Management

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ome faccio a cambiare o rimuovere la mia posizione dall’applicazione Facebook quando aggiorno il mio stato?” è una vera e propria FAQ inserita nell’elenco delle domande a cui risponde il noto social network da quando fu introdotta l’applicazione Facebook Places. Per gli utenti di iPhone, iPad e iPod Touch esiste inoltre un’applicazione gratuita sviluppata da Apple che consente di condividere la propria posizione geografica tramite Internet e trovarsi l’un l’altro con facilità, solo dietro espresso consenso degli utenti. Sono esempi di geolocalizzazione. Il termine significa “identificazione della reale posizione geografica di un individuo o di un oggetto tramite internet e la rete”. Capita a volte di essere geolocalizzati a propria insaputa, per esempio uscendo con un gruppo di amici e trovandosi poi “taggati” da uno di loro nel luogo in cui ci troviamo. Che ci piaccia o no eccoci individuati da tutto il nostro e il loro entourage di contatti. C’è chi reagisce sentendosi violato nella propria privacy ancora una volta, correndo a detaggarsi appena possibile, e chi è ben lieto di far sapere a tutti che è lì a divertirsi. E provandoci gusto, la volta successiva potremmo essere noi stessi gli utilizzatori dell’applicazione. Ci sono naturalmente molti risvolti commerciali del fenomeno. Le aziende e gli esercizi commerciali, infatti, possono creare campagne di comunicazione e di vendita mirate grazie alla conoscenza del territorio e del modo in cui gli utenti interagiscono con esso. Non mancano neanche i risvolti sociali per orientamenti sessuali diversi. È una nuova modalità di approccio anche per il mondo dell’omosessualità, in quanto gli incontri tra persone con stesso orientamento sessuale sono resi maggiormente possibili grazie ai “geosocial network”. Sembra che a spopolare in questo specifico settore sia Grindr, applicazione per smartphone definibile come un vero “cercagay”, si scarica e si correda di foto e breve descrizione fisica e in poco tempo si individuano tutti i gay che hanno effettuato la registrazione in prossimità del luogo. Il suc-

cesso è stato enorme, al punto da tentare di applicare l’idea anche agli eterosessuali, che però non hanno accolto con lo stesso entusiasmo la novità. Un altro aspetto da non sottovalutare è anche la morbosa attenzione che le persone danno poi a questo tipo di informazione. Da quando esiste la possibilità di condividere ogni nostro passo sul web è facile immaginare come lo stalking abbia avuto maggiore impatto nella vita di molti. Pensiamo infatti a quelli che inizialmente riottosi all’iscrizione su Facebook o Twitter e simili, per mantenere la propria privacy, decidono infine di cedere al fascino della condivisione sociale. Quanti di essi a causa di ripetuti “agguati stalkeristici” hanno deciso di abbandonare i social? Chi tra loro resiste setta la privacy a livelli altissimi, ma rischia comunque di essere trovato. Per non parlare di possibili atti criminali, per esempio i furti in casa che quest’estate hanno arricchito la cronaca di molti giornali. Sembra che siano stati soprattutto i VIP a subire furti in appartamento e non si esclude la possibilità che la smania di geolocalizzarsi possa aver fornito informazioni utili ai ladri. Il poter rintracciare il proprio mobile attraverso la sua posizione è un aspetto molto positivo ed è carina anche l’idea di raggiungere e rintracciare gli amici attraverso una mappatura dei luoghi, ma forse cominciano a essere troppi i tentativi di annullamento della privacy. L’aspetto interessante è che sembra siamo noi stessi a decidere di abbassarne il livello presi dalla smania di condividere.

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numero 5 - settembre 2013

Il Carnevale colora Londra di Diego Vecchione, Graphic Designer

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a pochi giorni si è concluso il secondo Carnevale più grande al mondo: il Carnevale di Notting Hill. Questa festa nasce come evento informale quando nel 1966 una maestra organizza all’aperto una sfilata dei bambini del London Free School Festival, che finisce col diventare un corteo per promuovere l’identità culturale della comunità del quartiere. Siamo negli anni ‘60 e la comunità caraibica, principalmente proveniente da Trinidad, si riunisce abitualmente presso il Mangrove Restaurant gestito da Frank Crichlow (attivista per i diritti civili di origini caraibiche scomparso da pochi anni) e lo elegge luogo di riferimento per i residenti in zona. Il tutto va incorniciato nel clima di emarginazione e di oppressione in cui la popolazione di colore di Londra veniva mantenuta da parte dei poliziotti inglesi. Col tempo l’evento, che inizialmente nasceva come atto di risposta contro gli attacchi razziali di quel periodo, ha assunto una connotazione ufficiale, più precisamente dal 1987, diventando un imperdibile appuntamento sia per la comunità londinese che per i turisti di tutto il mondo. Ci sono cinque categorie in cui si suddividono le attrazioni: • Mas, da masquerade, cioè i gruppi in maschera; • Soca, cioè Soul e Calipso, gruppi che suonano la musica tipica del Carnevale di Notting Hill; • Steelbands, bande di percussionisti; • Gruppi danzanti; • Musicisti di strada, che contribuiscono a creare l’ambiente tipico (reggae, jazz, soul, house, hip-hop e funk music). L’organizzazione è massima: dagli stand dove mangiare, alle sfilate di maschere e di ballerine succinte, ai vari sound system dislocati lungo tutta l’area con diversi tipi di musica, in particolare la tecno-house apprezzata dai più giovani. Anche l’uso di alcune droghe leggere sembra essere tolle-

rato dai “bobbies” londinesi, pronti a intervenire solo in caso di eccessivi disordini, come riportato nella guida italiana vivilondra.it. Sembra proprio non manchi niente! Un’atmosfera davvero briosa a giudicare dalle foto che impazzano sul web a conclusione della festa. E che tra l’altro richiama ogni anno nuovi curiosi che magari impossibilitati a raggiungere Rio de Jainero decidono di ripiegare sull’altrettanto famoso e più vicino Carnival di Notting Hill. A differenza del Carnevale di Rio, dove l’evento si tiene prima della Quaresima, nel quartiere londinese il Carnevale si tiene nell’ultima settimana di agosto. Piumaggi colorati, musica e divertimento sono alla base della festa, che si rivolge sia a grandi che a piccoli. Ma in un’occasione di festa di tale proporzione non mancano anche atti di violenza che talvolta mietono anche qualche vittima. Nonostante ciò la sorveglianza è molto elevata e, secondo il Post, soltanto quest’anno avrebbe contato circa 5.000 poliziotti schierati nel quartiere. Resta da chiedersi com’è vista questa manifestazione così pittoresca, dal sapore tutto caraibico, dalla controparte cittadina dei Lord. Ci si aspetterebbe che un Carnevale così, che rompe il quotidiano ordine per cui è tanto rinomata la città, susciti qualche fastidio negli inglesi più disciplinati ed educati. Ma a giudicare dal numero elevato di visitatori cittadini che affluisce ogni anno, sembra che sia molto apprezzata la vivacità calda dei balli caraibici. Siete incuriositi dall’evento? Se avete in programma una visita a Londra potrebbe essere un’idea proprio farla coincidere con il prossimo Carnevale. Il consiglio che tutte le varie guide offrono è di informarsi con buon anticipo sugli orari e i tipi di mezzi di trasporto da prendere per evitare spiacevoli situazioni di confusione, indicando anche altri piccoli accorgimenti per vivere al meglio quest’esperienza.

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