Io ci sono
Gli attori del civismo e della solidarietà: mutazioni molecolari e processi costituenti
Giuseppe Cotturri
Giuseppe Cotturri
Giuseppe Cotturri
Premessa e ringraziamenti
Introduzione
Formazione di soggettività politiche individuali e ri-costituzione della politica
1. Ragionevolezza versus “razionalizzazione”
2. Sempre per gruppi le forze del civismo, ma via via sempre più estese le aree in cui esse operano
3. Un nodo della Costituzione
4. Oltre la distinzione società civile/politica: per dare concretezza alla sovranità popolare
5. La rivoluzione del citoyen è processo ancora aperto
6. Le resistenze al brulicante esperimento di autonomia sociale e solidarietà
7. Le narrazioni, il ceto politico e il senso comune
8. Il tema della nostra epoca: che futuro hanno le soggettività politiche individuali?
1. Pensiero inattuale?
1.1. Pensieri nel tempo
1.2. Gramsci
2. Il sorgere di nuovi soggetti della solidarietà: incrocio di culture e mescolamenti umani
2.1. I cattolici italiani e lo sguardo sull’America
2.2. Io/noi: una parabola ricorrente?
2.3. Approssimazioni e oscillazioni della sinistra in Italia
2.4. Un nucleo etico: il terreno su cui si attesta il nuovo conflitto
3. Sussidiarietà: storia di una lunga battaglia
3.1. Processi reali e cammino delle idee
3.2. Il tentativo di accelerazione dell’Unione europea e il suo fallimento
3.3. La sussidiarietà nella revisione costituzionale italiana del 2001
3.4. La crisi della “prima Repubblica” e i tentativi di riforma costituzionale
3.5. Commissione Bicamerale e proposte dell’associazionismo civico
3.6. Crisi dei partiti e ingresso della “cittadinanza attiva” in Costituzione
4. Rivoluzione passiva o interregno?
4.1. Complessità e pensiero “a una dimensione”
4.2. Non profit
4.3. Un cambio di strategia
4.4. Soffocare l’autonomia
4.5. La riforma del Terzo settore
5. Processi costituenti
5.1. Quale costituzionalismo?
5.2. La “generatività” della politica nella Costituzione italiana e il dispositivo processuale della democrazia politica e sociale
5.3. La rigidità costituzionale
5.4. Riforme costituzionali “a colpi di maggioranza governativa”
5.5. Il ruolo di volontariato e Terzo settore nella battaglia di riforma costituzionale
5.6. La dinamica istituenti/costituenti
5.7. Una proposta
6. Fili che si riannodano
Abbiamo alle spalle un secolo in cui la centralità della politica per la storia umana si è affermata con forza, e via via è stata compresa da molti. Per l’intelligenza dei relativi fenomeni, decisivo fu lo sviluppo in carcere del pensiero politico di Antonio Gramsci, pensiero che ora trova sempre maggiore attenzione nel mondo. Gli studi gramsciani infatti hanno avuto straordinario impulso soprattutto quando l’ideologia della globalizzazione ha mostrato i suoi limiti (Vacca 2017, partic. pp. 3-19).
La costituzione politica del “moderno principe”, soggetto collettivo in forma di partito organizzato – nella visione di Gramsci – doveva consentire di integrare masse di donne e uomini nella vita pubblica, renderle partecipi delle decisioni sul proprio futuro.
L’attenzione alla dimensione di massa è ovviamente stata preminente nelle culture politiche delle sinistre, rivoluzionarie o riformiste nel secolo. Ma a lungo è parso che essa sola fosse rilevante per l’idea della politica: molti si limitavano alla più nota indicazione secondo
cui la quantità decide anche della qualità sociale. A differenza però di quel che comunemente è accaduto alle visioni che hanno animato il percorso storico del partito da lui fondato – cioè il Partito comunista italiano – la primaria importanza delle analisi relative a processi di massa, per Gramsci, non poteva e non doveva essere disgiunta da una riflessione contestuale sulle trasformazioni che investono nell’intimo le singole persone.
La questione non deve essere intesa al modo di certe discipline di scienza sociale, che distinguono tra dimensioni macro e dimensioni micro dell’economia, della politica, ecc.: perché quella distinzione nelle scienze sociali non sorrette da pensiero critico indica piuttosto un movimento unidirezionale dall’alto. Si afferma che sia l’ordine macro dei fenomeni a decidere delle tendenze dei processi micro. Una surdeterminazione quindi, con evidente limite meccanicistico delle interpretazioni. E invece nell’originale elaborazione gramsciana della fenomenologia politica c’era la consapevolezza dell’interazione continua tra spinte dall’alto e spinte dal basso. La politica stessa si costituisce a partire da questo sapere circa le dinamiche alto/basso delle lotte sociali, e circa i “rovesciamenti” possibili. La concreta vicenda di lotte soltanto può spiegare la storia. Ci sono i rapporti di forza, certo, ma essi non sono mai definitivamente stabiliti: la prova è data dal susseguirsi ciclico di crisi che, peraltro, si rivela come “metodo di governo” ricorrente delle forze dominanti nel capitalismo. Solo tenendo molto stretto, nella riflessione, il rapporto tra aspetti collettivi e concrete, individuali esperienze di vita delle persone è possibile infatti, secondo
Gramsci, comprendere profondamente in quali modi si formi una “egemonia politica”, cioè una capacità di guida collettiva non basata solo sul dominio e la violenza coercitiva, ma su strategie e culture capaci di indirizzare il senso comune, conquistare il consenso. Si vede già da queste schematiche annotazioni quanto fosse legata quella ricerca a interrogativi sulle prospettive di sviluppo delle democrazie: contrariamente a quanto comunemente si crede, Gramsci non è un critico della democrazia parlamentare, la sua polemica contro i critici di destra e di sinistra della democrazia era netta (Vacca cit., pp. 198-208).
E questa è la ragione per cui oggi, mentre tutti i sistemi democratici sembrano regredire determinando l’indebolirsi della dialettica di cittadinanza e lo sprofondare delle società in diffuse condizioni di povertà, oggi dunque c’è tanta più ragione di tornare su quel nodo cruciale del rapporto tra soggettività politica collettiva e soggettività individuali, la cui incomprensione ha lasciato tanto spazio a spinte conservatrici, e reazionarie.
È appena il caso di sottolineare la debolezza e la drammaticità con cui si pone la questione allorché ci sia declino o addirittura scomparsa dei partiti politici che hanno costituito la forza del Novecento. La scomparsa di tutto questo alle soglie del nuovo millennio spinse uno studioso profondo e sensibile politicamente, Franco Cassano, a impegnarsi nella costruzione di “cittadinanza attiva” – denominazione che allora s’era affermata e aveva attratto molte attenzioni. Con ciò Cassano operava per la trasformazione antropologica in homo civicus, come sola linea di resistenza al dominio
dell’homo oeconomicus. Una prospettiva non solo “tutta in salita” per la scomparsa dei partiti che conoscevamo, ma una prospettiva di tempi lunghissimi, che escludeva che la politica come tale potesse bastare. Non a caso quindi evocava cambiamenti culturali e antropologici. E naturalmente questo allungarsi del pensiero nei tempi lunghi e nel campo di altri domini spirituali (etica, fede, religioni…) depotenziava, contro ogni sua intenzione, l’appello a una militanza civile così esigente e dura (vedi quanto ne è scritto nel volume curato da Moro, Petrosino, Romano 2023, pp. 229-48). Una “fatica di Sisifo” scrisse Cassano per indicare la ragionevole follia dei beni comuni (2004): quel suo libro affascinò ma non convinse tanti dei suoi lettori. Eppure indicava le contraddizioni fondamentali del tempo.
Molto del pensiero di Gramsci cominciò tardi a circolare, nel secondo dopoguerra. Precisamente si tratta di quella parte del suo pensiero formata tra il ’30 e il ’34, come sappiamo in carcere, attraverso il quale Gramsci collocò la questione dei cambiamenti sociali, quelli consapevoli e voluti e quelli inconsapevoli e passivi, in una ricca trama teorica di categorie di analisi storicopolitica di cui fanno parte egemonia e rivoluzione passiva, guerra di posizione, cesarismo o bonapartismo: di recente Marcello Musté ha ricostruito con grande cura il formarsi di questo pensiero (2022).
Il PCI fondato nel ’21 venne a conoscenza solo molto tempo dopo di questo pensiero complesso, articolato e potente con cui il fondatore rifletteva anche autocriticamente sulle ragioni della sconfitta del movimento op eraio che, nel biennio rosso 1919-20 in Italia, voleva “fare come in Russia”. I comunisti scoprirono il pensiero gramsciano con la pubblicazione dei “Quaderni del carcere”, prima edizione 1948-51. Fu però con la
pubblicazione critica dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana nel 1975 che presero forza studi tali da proporre le categorie, di cui stiamo parlando, come chiave di interpretazione storico-politica di tutto il Novecento.
Uno degli studiosi contemporanei più attenti, ad esempio, ha segnalato qualche anno fa (Frosini 2017) come la lettura di Gramsci proposta dallo storico Franco De Felice nel 1977, basata appunto sulla pubblicazione critica dei Q uaderni, avesse indicato una via in questo senso a tutta la ricerca successiva.
La formulazione con cui De Felice aveva riassunto l’analisi storico-politica gramsciana nel saggio del ’77 è la seguente:
«Trasformazioni molecolari delle forze in campo; assorbimento e decapitazione dell’antagonista da parte dei gruppi dominanti che in tal modo sviluppano una iniziativa egemonica; scarsa e disorganica consapevolezza di sé della forza antagonista».
Come si vede la questione delle trasformazioni molecolari costituiva l’inizio del ragionamento, il punto ne cessario di partenza della riflessione se si vuol capire la politica. La capacità di cambiamento delle forze borghesi è tale da indurre processi capillari di trasformazione, anche involontari.
Trattandosi della fenomenologia della crisi, che interessa a Gramsci, le trasformazioni che possono essere dette mutazioni (antropologiche) in senso stretto sono quelle che si manifestano nella sfera individuale: nel “sentire”, nel vivere “ripiegati” dalle contraddizioni esterne. Quello però è il luogo e l’occasione del sorgere
di volontà oppositiva, del coraggio di lottare, di pensiero critico. E che a questo pensi Gramsci è confermato dal fatto che, ogni qualvolta fa riferimento a fenomeni molecolari di tale tipo, usi propriamente la parola “mutazioni”, per dire di cambiamenti che avvengono negli uomini, non nelle cose.
L’espressione di De Felice circa la “decapitazione dell’antagonista” evoca certamente uso estremo di violenza, omicidi e carcerazioni nello stato totalitario. Ma ha anche valore metaforico. Bisogna capire anche come, a partire da un potere di coercizione così violento, si possa raggiungere un risultato di passivizzazione dell’avversario politico anche con manovre che attaccano la sfera morale e intellettuale: corruzione, ricatto, intimidazione, cui possono seguire ritiro dalla lotta di figure eminenti a capo del fronte avversario, trasformismo, cambio di “gabbana”, cedimenti, tradimenti…
Interessava molto a Gramsci dunque quel che avviene nel vissuto delle persone, poste di fronte a durezze intollerabili dalle contraddizioni reali. In questo senso la parola “molecolare” – sottratta a ogni suggestione naturalistica – era primo mattone di un altro linguaggio, da “inventare” per dare della politica una rappresentazione ravvicinata, “vivente” (Pizza 2003, p. 34 ss.).
Non sono molte le occasioni in cui Gramsci usa quella espressione, né egli la colloca in contesti omogenei. Dallo studio molto approfondito di Mustè, già citato, riprendo tre passaggi di Gramsci che credo illuminanti del fatto che egli avesse piena consapevolezza della scivolosità della materia, così da farne un uso di “prima approssimazione” piuttosto che una definizione
irrigidita in schemi teorici precostituiti. Ragionando di americanismo egli esclude che si possa trattare di un tipo di svolgimento graduale di quella che lui chiama rivoluzione passiva, ma dubita subito anche trattarsi solo “dell’accumularsi molecolare di elementi destinati a produrre un’esplosione, cioè un rivolgimento di tipo francese” (Mustè, p. 124). Si potrebbe forse trattare della “espansione di tipo passivo, nella figura di una molecolare guerra di posizione” (p. 125): ma neppure questo è convincente, perché la mutazione discende dalla “estensione molecolare del sistema di fabbrica” (p. 133), da un dato di fatto dell’economia quindi, non da una cultura politica già operante.
Appare così che le mutazioni possono essere indicative di tre diverse posture soggettive: ripiegamento passivo e acritico, accumularsi di “risentimenti” esplosivi, attrezzarsi per una lotta di lunga lena. I processi “adattivi” alle rivoluzioni dall’alto quindi possono avere diverse potenzialità. Alcune autolesionistiche, di impotenza e rinuncia; altre riflessive e progettuali di cambiamento, che determinano alla lotta.
La rip etizione tre volte dell’aggettivo molecolare, per situazioni che si vogliono indicare come differenti, sottolinea un’elusiva disposizione soggettiva degli individui, non pronti a una rivoluzione e neppure ad attrezzarsi per una “guerra di posizione”, guerra di resistenza, ma piuttosto piegati e rassegnati dal sistema di fabbrica. Gramsci nota che l’americanismo, pur non potendo essere considerato come rivoluzione passiva, non produce società civile ricca e autonoma, piegato com’è dalla forza dell’organizzazione economica industriale.
L’americanismo così produce un nuovo tipo umano. E Gramsci sente tutta la violenza insita in questa “manipolazione”, tutta la violenza che sempre presiede alla imp osizione di modelli comportamentali cui conformarsi, senza riconoscere la basilare e irrinunciabile esigenza di libertà e autonomia delle persone.
Non era soltanto una considerazione derivante da osservazione dell’esterno quella del piccolo sardo: egli aveva cominciato a vedere in se stesso le mutazioni indotte dal regime carcerario. Per spiegarle alla cognata Tania fece riferimento a una novella di Poe: i naufraghi nella tragica condizione in cui si trovano in una scialuppa abbandonata alle forze del mare per sopravvivere giungono anche a praticare l’antropofagia. Che certo in condizioni “normali” fa orrore a ciascuno. Costretti, si diviene però altra persona. Pensiero e attitudini del corpo si aggrappano alla possibilità antropologica di mutare fin nel più profondo dell’essere uomo.
La questione delle mutazioni attiene quindi più di ogni altra cosa alla sfera della soggettività: al formarsi della volontà del singolo, ma anche alla sua distruzione. Alla sua capacità di lottare contro le trasformazioni che più ripugnano all’etica. L’elemento della lotta, del conflitto nella sfera intima mostra interamente la specificità dell’essere umano. La prospettiva di un cedimento su questo piano indica l’avvicinarsi di situazioni catastrofiche per il singolo: questo Gramsci vedeva per se stesso, nell’aggravarsi della malattia per cui, quattro anni dop o, morì. Questo aspetto della sua riflessione mostra che egli aveva percezione chiara del fatto che la politica, come fatto vitale, sia espressione di rapporti di forza
determinati ma anche di soggettività imprevedibili. Tale consapevolezza avviò il suo pensiero non a una resa, ma alla comprensione più profonda dei processi che intervengono nel formarsi della volontà.
Si sviluppò così un pensiero politico della traduzione di mutazioni molecolari “passive” in azioni politiche determinate. Gramsci sapeva bene che ogni concezione del mondo poggia su tre elementi costitutivi: filosofia, economia e politica. E si poneva il problema della traducibilità dei linguaggi (Fistetti 2023, p. 56). Il diventare soggetto politico attivo e partecipe delle scelte che lo rig uardano passa per la comprensione di questo nodo cruciale della vita di ciascuno e di tutti. Le categorie di analisi che Gramsci apprestò a tal fine vollero contrastare il determinismo che caratterizzava certa storiografia e p ortare più vicino l’intelligenza a concrete situazioni di lotta. Anche quando i cambiamenti sociali sono imposti dall’alto (figura di “rivoluzioni passive” come si è detto) il problema del consenso individuale e dell’incidenza di eventuali scelte di soluzioni “adattive” delle concrete persone rimane. È questo il terreno su cui è possibile dispiegare strategie di riformismo. I cambiamenti cioè possono essere progressivi, anche se pesa una diffusa “passivizzazione”. La differenza tra il modo in cui Gramsci intuiva il senso delle mutazioni molecolari e il modo in cui esse si dispiegano oggi e appaiono così rilevanti deriva da uno sviluppo storico enorme e decisivo: la democrazia – che per Gramsci era obiettivo lontano per cui lottare – dalla fine della Seconda guerra mondiale per un trentennio è stata una realtà dispiegata in molta parte del mondo.
E la democrazia crea spazi e opportunità all’autonomia sociale tali da investire sempre l’ordine esistente. Quel che dunque si rivela già in mutazioni molecolari, in democrazia può sostenere disegni di transizione e riforma p olitica: è la “lievitazione” di quelle oscure intuizioni gramsciane che sfugge a chi non analizza criticamente i processi storico-politici.
Con l’incalzante crisi dei sistemi democratici dagli anni Novanta, gli spazi di traduzione delle mutazioni molecolari in esperimento sociale autonomo divengono contraddizione interna ai sistemi capitalistici. E i soggetti autonomi alla ricerca di interessi generali sono “un disturbo” per le forze dominanti. Così prendono forma strategie di contenimento-manipolazione che cercano di porsi come nuove “rivoluzioni passive”. A loro volta piene di aporie e contraddizioni, però. I soggetti del nuovo civismo ne sono la contraddizione, ancora alla ricerca di un proprio modo di rendere egemone un’altra visione del mondo. Questa situazione “di mezzo” tra vecchio che muore e nuovo che ancora non ha forza vitale – che Gramsci avverte – è documentata nella storia italiana dal modo in cui alle soglie del Duemila si affacciò un’idea di ruolo “costituente” del civismo (“sussidiarietà”), rimasto incompiuto.
Possiamo passare ora a considerare, rispetto alla questione posta, le tappe che ne scandiscono lo sviluppo. Non si intende pertanto tracciare una storia esaustiva del processo con cui – dopo la spinta per nuovi movimenti politici “di contestazione” data dal ’68 – presero forma soggetti della solidarietà che si ponevano essi pure come nuovo soggetto politico ma in modo radicalmente diverso.
Non ne faremo propriamente la storia, dunque, ma con qualche richiamo a date e passaggi determinanti proviamo a ricavarne una scansione che aiuti a comprendere come esse nel tempo abbiano segnato la storia p olitico-istituzionale del paese: è questa collocazione in un quadro più largo che manca, a noi sembra, quando si parla di volontariato, cittadinanza attiva e Terzo settore.
È indubbio che fu la cultura cattolica in Italia a generare le nuove forme di soggetti di solidarietà, trascinando persone anche tanto diverse e influendo per questo
sulle forze politiche organizzate. Il Concilio Vaticano II voluto nei primi anni Sessanta da papa Giovanni XXIII sospinse la comunità cattolica a svolgere un più attivo ruolo nella società per la pacificazione del mondo. La sua spinta nel ’68 si è riflessa anche nella “contestazione cattolica”, molto ricca e articolata nei temi e negli obiettivi sociali, come ha mostrato un bel libro (Santagata 2016). Per tradurre il Concilio in azione diffusa papa Paolo VI costituì nei primi anni del decennio successivo la Caritas, primo presidente mons. Giovanni Nervo. Fu la Caritas a promuovere un nuovo attivismo sociale non solo per i tradizionali obiettivi caritativi di sostegno agli ultimi, ma per realizzare spinte di indirizzo dello stato sociale e la costruzione e cura di “beni comuni” (Cecconi 2020). Forte ancora nella memoria dei militanti è un convegno “sui mali di Roma” del ’74 (all’apertura parteciparono 6mila persone, nacque lì il Movimento Febbraio ’74), che i dirigenti democristiani del temp o intesero come attacco al partito e che, certo, era manifestazione di un “nuovo soggetto politico” sceso in campo accanto ai partiti, non necessariamente contro di essi (De Rita 2019, p. 47 ss.). Luciano Tavazza, cui erano affidate le conclusioni dei due giorni di dibattito in 14 sale della città, raccolse ogni indicazione operativa, ogni proposta di rinnovamento, dando basi e prospettiva a quello che, nel ’75, fu presentato come nuovo Movimento di volontariato (MoVI). Monsignor Nervo ha ricordato quanto l’esperienza del convegno romano sia stata determinante per tutta la vita e il lavoro di Tavazza (2010, p. 42).
Esso raccolse anche tantissime persone non
motivate da scelte religiose, ma da una etica civile. In quegli anni le forze politiche italiane cercavano di dar corso a un periodo di “solidarietà nazionale” attraverso l’incontro dei due maggiori partiti, DC e PCI, per un tentativo molto cauto di uscire dalle contraddizioni imposte dalla Guerra Fredda. Spezzato quel tentativo nel ’78 col rapimento e l’assassinio dell’on. Aldo Moro, cittadini “orfani del compromesso storico” a maggior ragione confluirono su comuni impegni civili: a parere di mons. Pasini, secondo presidente della Caritas, si trattava del modo concreto con cui persone comuni continuavano a cercare di “uscire dalla Guerra Fredda” (Pasini 2010, p. 49 ss.).
Alcuni dei “padri” del volontariato (Nervo stesso) erano stati partigiani e ponevano Costituzione e cittadinanza democratica al primo posto rispetto a impegni “di parte”, laica o religiosa che fosse (Frisanco 2019).
Da questa impostazione germinò anche quella che poi propriamente è stata chiamata “cittadinanza attiva”. Concentrandosi sul problema di assicurare una espansione della cultura dei diritti di cittadinanza, un gruppo di giovani proveniente dal movimento Febbraio ’74 si pose a tutela dei diritti del malato inventando modi diffusi di monitorare il funzionamento delle istituzioni sanitarie dopo la riforma del 1978: fondatore e dirigente ne è stato Giovanni Moro, che poi ha elaborato la cultura di cittadinanza dedicando a questo tutta la sua opera di studioso.
Quel nuovo volontariato e le specifiche forme di cittadinanza attiva hanno dunque diffuso un fare autonomo per fini sociali che culture politiche stataliste non
concepivano: l’attivismo politico di sinistra, come si sa, ha avuto sempre carattere sostanzialmente rivendicativo e ha concentrato sullo Stato la responsabilità di politiche per l’eguaglianza e il progresso sociale.
In un bel saggio di inquadramento storico recente un giovane studioso ha ricostruito il percorso attraverso cui il cattolicesimo italiano ha contribuito invece allo sviluppo del Terzo settore e, attraverso questo, al cambiamento della stessa politica. L’impegno di riconoscere istituzionalmente volontariato e cooperazione sociale (leggi 266 e 381 del 1991) si collegava a posizioni maturate per l’assistenza privata già nel primo decennio repubblicano (Creatini 2022).
Nella seconda metà degli anni Settanta, su cui ci stiamo ora concentrando, la tematizzazione di un agire autonomo dei cittadini per solidarietà sociale s’era ormai arricchita attraverso confronti con altre culture, non solo italiane. In un convegno sul volontariato a Viareggio uno dei più autorevoli sociologi italiani, Achille Ardigò, riprendendo un tema del civismo americano, fece insistito riferimento a uno scritto dell’economista Burton Weisbrod del ’77 (trad.it. 1980, pp. 237-53).
Cosa possono fare consumatori di beni a consumo collettivo, se la provvista di essi risulta carente sia nel settore pubblico che in quello privato di mercato? La risposta di Weisbrod era che si sarebbero sviluppate organizzazioni volontarie come produttrici extrastatali di beni. Qui non importa considerare le conseguenze e la prospettiva di sviluppo indicata dall’americano (a suo giudizio i produttori volontari, se avessero conquistata la maggioranza, avrebbero spostato poi sullo Stato la
responsabilità di produrre beni di quel tipo: su questo Ardigò avanzò riserve). Qui importa l’idea che possa darsi auto-organizzazione dei cittadini: “Un fare da sé di gruppo”, dando luogo così in economia a un “Terzo settore”, né pubblico né di mercato. L’indicazione sostanzialmente nasceva da una secolare tendenza nella storia americana, sottolineata già da Tocqueville: individualismo e libertà di iniziativa dei cittadini caratterizzavano la democrazia in America fin dal suo sorgere, nel b ene e nel male.
Tale spirito pubblico ancora negli anni Sessanta del Novecento connotava quella che allora fu indicata come “nuova frontiera” dal più giovane presidente americano, J.F. Kennedy. Nell’insediarsi alla Casa Bianca egli aveva colpito l’opinione pubblica mondiale ribadendo con enfasi quell’indicazione per il cittadino medio: “Non chiederti cosa può fare il paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Frase che non avrebbe avuto quella credibilità e quel peso se non fosse stato pacifico per quel paese che gli spazi di autonomia sociale e la libertà di iniziativa individuale in linea di principio erano aperti.
In seguito non sarà più così. In quella famosa dichiarazione c’era anche appena velata una diversa tematica, che negli anni successivi sarà dominante per la p olitica statunitense: non sovraccaricate di domande l’amministrazione. Il difficile tema della responsabilità concorrente del cittadino era messo sul tappeto negli anni della “nuova frontiera” kennediana da un robusto ottimismo nell’opinione pubblica. Non solo gli americani avevano forte senso di egemonia sul mondo per il
ruolo avuto nella vittoria della Seconda guerra mondiale, ma in tutto l’Occidente sul futuro si concentravano sp eranze in considerazione del fatto che, morto Stalin, la nuova dirigenza sovietica aveva parlato per la prima volta di “coesistenza pacifica” con l’Occidente e una delle più grandi autorità morali e religiose, il nuovo papa Giovanni XXIII della Chiesa cattolica, come si è detto, stava portando la Chiesa come comunità tutta a essere protagonista di un processo di distensione e pace (Formigoni 2000, p. 437 ss.).
L’appello alle forze della società civile in quegli anni, dunque, aveva grandi spazi in cui espandersi e rivelava non poche ambizioni. Maturò però nel successivo decennio un opposto indirizzo: forze intellettuali e dirigenti delle economie e della politica, a fronte della crisi dei sistemi capitalistici in America, Europa e Giappone aderirono alla dottrina del “sovraccarico di domanda” che soffocherebbe le democrazie (Trilateral Commission 1975). Sulla base di tale dottrina ebbe avvio una svolta autoritaria in America e nel mondo, con l’imposizione di governi “decisionisti” che, per perseguire disegni strategici organici agli interessi delle forze economiche dominanti, erano determinati a sciogliersi da quanto le rappresentanze democratiche richiedono.
Iniziò allora una sempre più drammatica divaricazione tra orientamenti delle forze dominanti e opposte spinte di forze sociali diffuse. Ruolo fortemente innovativo in questa vicenda hanno avuto iniziative di autotutela, con ricorso a risorse di autonomia sociale. La storia dell’enorme sviluppo da allora del cosiddetto Terzo settore nasce nel corso di questo conflitto.
C’è in questo libro lo sbocco di una lunga riflessione, nata da interrogativi e linee di ricerca che forze di volontariato e operatori di Terzo settore hanno suscitato. Il libro rielabora categorie concettuali, cercando nelle forme di soggettività individuali i cambiamenti molecolari che possano fronteggiare il declino dei partiti di massa. Si individua il nucleo etico che promuove la nuova soggettività. Si ipotizza un processo di riforma coerente col disegno costituzionale democratico, capace di opporsi ai tanti tentativi di riduzione della sovranità popolare che da anni si dispiegano.
Euro 16,50 (I.i.)
ISBN 979-12-5626-028-7