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La fantasia

i bambini? – Jill: Oh, sì, come nella mia storia.

Così parlammo un po’ del suo sentirsi esclusa e rifiutata dai bambini della scuola. Non aveva amici ma prima non sembrava averne consapevolezza.

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Cindy, 8 anni, disse del suo disegno: “Sono volata via dalla montagna e ora guardo i fiori e l’erba verde e le mie ali sono argentate. Mi chiamo Cindy. Vorrei essere una strega buona e così potrei volare a casa anziché camminare”. – Parlami delle streghe. – Cindy: Be’, ci sono streghe buone e streghe cattive. Le streghe cattive fanno cose cattive. Le streghe buone sono buone e naturalmente tutte quante possono volare sulle scope. – Sei mai stata una strega cattiva? – Cindy: Be’, mia madre pensa di sì! – La tua vita è sempre piena di fiori e di cose belle? – Cindy: No! Solo qualche volta.

Io e Cindy parlammo un po’ del fatto che era convinta di essere giudicata cattiva da sua madre.

Karen, 12 anni, disegnò una magnifica farfalla. Disse: “Le mie ali sono molto carine. Volo sull’acqua e sulle montagne insieme con gli uccelli verso un nuovo pianeta verde e luminoso”. In lontananza c’era un piccolo cerchio verde attorniato da linee gialle che creavano l’effetto di un’energia proveniente dal pianeta. – Dimmi un po’ del tuo nuovo pianeta. – Karen: È un bel posto. Tutto è nuovo e verde e non ci sono persone cattive. – Ci sono persone cattive nella tua vita? – Karen: Sembra che il mondo sia pieno di persone cattive. Le pareva che ce ne fossero molte nella sua vita. Continuammo a confrontare il mondo con il suo pianeta e Karen espresse i suoi sentimenti. Una delle mie fantasie preferite si chiama La lotta.

Scrivi una storia su una barchetta che si trova in mezzo a una grande tempesta. Il vento è spietato e le onde colpiscono ripetutamente la barchetta. Prova a immaginare di essere tu la barchetta e spiega come ti senti. Usa dei paragoni nella tua storia per spiegare come ci si sente a ESSERE una barchetta nel mezzo di una grande tempesta. Il vento urla e mugola mentre cerca di affondare la barchetta. La barca si difende lottando. Pensa a una qualche forma di lotta nel mondo animale simile alla situazione barca-tempesta. Scrivila qui.

Descrivi perché questa lotta animale somiglia alla situazione barca-tempesta. Immagina di essere la barchetta. Dì cosa devono fare le diverse parti del tuo corpo per combattere contro la tempesta. In che modo le diverse parti del tuo corpo ti dicono se vinci o se perdi la battaglia? All’improvviso il vento sferra l’ultimo attacco; poi muore. La barca ha vinto! Quali esperienze di vita reale hai avuto che somiglino al vento che muore e alla barchetta vincitrice? Immagina di essere la piccola imbarcazione che ha appena sconfitto la tempesta. Come ti senti nei riguardi della tempesta? Immagina di essere la grande tempesta che non sa nemmeno affondare una piccola imbarcazione. Come ti senti nei riguardi della barca?

Ci sono molti modi di usare questa fantasia. Per me il più efficace è quello di chiedere semplicemente al bambino di immaginare con gli occhi chiusi di essere una piccola imbarcazione nel bel mezzo di una grande tempesta. Dico qualcosa circa le onde e il vento e la lotta. Chiedo al bambino di essere la barca, di prendere consapevolezza di come si sente a essere questa barca, cosa succede adesso, cosa succede dopo. Poi gli chiederò di fare un disegno di se stesso come barca in mezzo alla tempesta. Regolarmente viene fuori molto materiale sulla posizione del bambino nel suo mondo e su come affronta le forze esterne.

Un altro esercizio ha come protagonista Un ragno. Una bella fotografia a tutta pagina raffigurante una tela di ragno viene accompagnata dall’invito di fare un ragno che cerca di tessere la propria tela in un giorno di pioggia e di tempesta. Usai questa idea in un gruppo di bambini per cominciare una storia a staffetta. Cominciai dicendo: “C’era una volta un ragno che cercava di costruire la tela in un giorno di pioggia e di tempesta. E allora...”. E a turno ogni bambino aggiunse qualcosa alla storia. Dopo che la storia fu finita, chiesi ai bambini di disegnare i loro pensieri sul ragno che costruiva la tela. Un bambino, dell’età di 9 anni, dettò mentre scrivevo sul retro del suo disegno: “Mi chiamo Irving. Ho una tela con un sacco di buchi a causa della pioggia e la pioggia la rende di colori diversi. Perché la gente ci mette del gesso, sulla tela e sulla casa. Diventa blu. Il recinto diventa di tanti colori diversi. Sto bene con gli altri perché mi hanno fatto la tela di colori diversi”. Nel corso del lavoro che svolgemmo insieme sul suo disegno, mi disse di sentirsi molto contento: da un po’ di tempo, per lui le cose andavano bene. Al contrario, una ragazzina di 11 anni dettò: “Sono arrabbiatissima. Non posso farmi la tela per colpa di questo tempo triste e piovoso. Sento proprio di non poter riuscire nel mio obiettivo. Mi sento uno sfacelo totale. Per quanto ci provi, non riesco a costruire la mia tela. Ma sono decisa e non cederò”. Con molta prontezza si riappropriò del suo senso di fallimento e lo comunicò a noi del gruppo. Ogni disegno e ogni storia erano diversi, illuminanti e toccanti. Alcuni avevano punte di umorismo, come quella di un bambino di 10 anni che disse: “Se non smette di piovere entro pochi minuti, mi prendo la tela e me ne vado a casa”. In un altro gruppo chiesi ai bambini di chiudere gli occhi e immaginare di essere un ragno e di condividere ad alta voce l’esperienza di essere un ragno che costruisce la tela sotto la pioggia.

“Sono un ragno. Non vivo in nessun posto. Mi piace stare in giro. Ho tantissimi amici, ma oggi volevo stare solo, senza nessuno attorno.” “Sono un ragno. Mi piace arrampicarmi sui fiori. Mi piace vedere i fiori e gli uccelli. Non sto tanto bene sotto questa pioggia.” “Sono una vedova nera che morde un ragazzo.” “Stavo facendo una passeggiata. Cercavo di arrampicarmi su un fiore ma non ce l’ho fatta fino in cima e sono caduto.”

Nell’esercizio di Un palloncino che vola via. Una ragazzina disegnò un palloncino che volava su

una città e disse: “Mi piace qua fuori, è divertente”. Poi aggiunse: “Mia mamma se la prende sempre con me, ma io voglio essere libera come un palloncino”. Un’altra ragazzina fece un disegno simile dicendo: “Sono lontana da casa mia e per me è OK”.

Molte tecniche artistiche si prestano all’uso della fantasia partendo dalla realtà. La tecnica del cordoncino e Le figure di farfalle sono forme interessanti sul genere delle macchie d’inchiostro. Ho chiesto ai bambini di dare dei titoli a queste figure, dirmi cosa vedono, inventare una storia sulla forma o l’oggetto che vedono. Si possono trovare le istruzioni per creare queste figure, insieme con altre buone idee, nei libri per le attività dei bambini in età prescolare. È davvero un peccato che molti bambini smettano di fare cose creative a quell’età. Una delle mie esperienze più riuscite di fantasia artistica è la pittura a goccia, eseguita con vernice per macchine, che può essere acquistata nei negozi specializzati e nei colorifici. Ecco come si fa. In primo luogo, serve un posto in cui è ammesso il disordine. È meglio coprire bene il pavimento con fogli di giornale. Si fanno gocciolare un paio di cucchiaiate di vernice bianca su un pezzo di masonite di 13×18 cm, se non più grande, per pitturarlo di bianco. Su questa superficie bianca, il bambino fa gocciolare un altro colore e gira la tavola, facendogli seguire il suo percorso. Poi si usa un altro colore e via di seguito. La vernice per auto secca molto velocemente su una superficie appiccicosa: un vantaggio in questo tipo di pittura. I colori non si mischiano come quelli ad acqua e il risultato è brillante, bello e nitido. Una volta ultimata la nostra creazione, la tiriamo su e ci scostiamo a guardarla. I bambini danno dei nomi alle loro splendide opere e raccontano meravigliose storie su di esse. Una di queste opere sembrava una grotta dai colori brillanti. Chiesi al suo creatore di entrare nella grotta e dirci cosa vedeva, com’era, cosa succedeva. Quest’attività è talmente gratificante che perfino i bambini più iperattivi o “incontrollabili” la eseguono senza problemi. Molti non hanno mai creato tanta bellezza in vita loro né provato tanta soddisfazione.

Il mio modello di lavoro

Vi sono un’infinità di tecniche specifiche per aiutare i bambini a esprimere le emozioni attraverso l’uso del disegno e della pittura. A parte quello che io e i bambini decidiamo di fare a ogni seduta, il mio scopo di base non cambia. Il mio obiettivo è quello di aiutare il bambino a prendere consapevolezza di se stesso e della sua esistenza nel suo mondo. Ogni terapeuta troverà il proprio modo di raggiungere quel delicato equilibrio esistente fra il dirigere e guidare la seduta da una parte e, dall’altra, seguire le direttive del bambino. I suggerimenti qui esposti hanno il solo scopo di illustrarvi le infinite possibilità esistenti e liberare il vostro processo creativo. Non vanno dunque eseguiti meccanicamente. Il processo di lavoro con il bambino è dolce, fluido, un evento fisiologico. Ogni seduta è un delicato fondersi tra ciò che accade dentro voi terapeuti e ciò che succede all’interno del bambino. Si può usare l’immagine in un’infinità di modi, per molti e svariati scopi e a livelli differenti. L’atto del disegnare, senza alcun tipo di intervento da parte del terapeuta, è una potente espressione del sé e aiuta a stabilire la propria identità, oltre che a offrire un canale di espressione alle emozioni. Partendo da queste premesse, il processo terapeutico si può evolvere nei seguenti modi: 1. Far condividere al bambino l’esperienza del disegnare. Ciò che prova accostandosi al compito ed eseguendolo, il modo in cui si è approcciato, come lo ha continuato, il suo processo. Questa è una condivisione del sé. 2. Far condividere al bambino il disegno in sé, attraverso una descrizione fatta a suo modo.

Questa è un’ulteriore condivisione del sé. 3. A un livello più profondo, facilitare un’aggiuntiva auto-esplorazione nel bambino chiedendogli di elaborare le parti del disegno, di renderne alcune più chiare, più ovvie, di descrivere le sagome, le forme, i colori, le rappresentazioni, gli oggetti, le persone. 4. Chiedergli di descrivere il disegno come se questo fosse il bambino e parlando in prima persona: “Io sono questo disegno; ho delle linee rosse su di me e un quadrato blu nel mezzo”. 5. Scegliere una parte specifica del disegno con cui identificare il bambino: “Fa’ il quadrato blu e descriviti ancora: come sei, che funzione hai, ecc.”. 6. Se necessario, porre al bambino delle domande per aiutare il processo: “Cosa fai?”, “Chi ti usa?”, “A chi sei più vicino?”.

Tali domande saranno prodotte dalla vostra capacità di “entrare” nel disegno con il bambino e aprirvi ai tanti modi possibili di esistere, funzionare e relazionarsi. 7. Focalizzare ulteriormente l’attenzione del bambino e affinare la sua consapevolezza con l’enfatizzazione e l’esagerazione di una o più parti del disegno; incoraggiare il bambino ad approfondire quanto più è possibile una parte specifica, soprattutto se percepite energia ed eccitazione in voi stessi o nel bambino o se si manifesta un’assenza straordinaria di energia e di eccitazione. Spesso le domande aiutano. “Dove sta andando?”, “Cosa sta pensando questo cerchio?”, “Cos’ha intenzione di fare?”,

“Cosa gli succederà?”, e così via di seguito.

Se il bambino risponde: “Non lo so”, non mollate; passate a un’altra parte del disegno, fate un’altra domanda, date voi la risposta e chiedete al bambino se è così o no. 8. Far creare al bambino un dialogo fra due parti del disegno, due punti in contatto o in opposizione (come la strada e l’automobile, la linea attorno al quadrato, il lato felice e il lato triste). 9. Invitare il bambino a porre attenzione ai colori. Spesso, mentre il bambino è con gli occhi chiusi, suggerisco: “Pensa ai colori che userai. Cosa significano per te i colori vivaci? E quelli scuri? Userai colori vivaci o colori spenti, chiari o scuri?”. Una bambina disegnò i suoi problemi con colori scuri e le cose belle con colori brillanti e chiari e c’era pure una differenza nella pressione che esercitava con i pastelli a cera a seconda del colore che usava. Potrei dire: “Questo sembra più scuro degli altri” per incoraggiare l’espressione; oppure: “Sembra che tu abbia premuto parecchio qui”. Voglio che il bambino sia il più consapevole possibile delle sue azioni, anche se non ha voglia di parlarne. Porre attenzione ai segnali offerti dal tono di voce, la postura del corpo, l’espressione facciale e corporea, la respirazione, il silenzio. Il silenzio può significare censura, riflessione, ricordi, repressione, ansia, paura o consapevolezza di qualcosa. Usate questi indizi per agevolare il flusso del vostro lavoro.

Ecco un esempio di come cogliere un segnale del corpo sia stato il solo, più importante fattore risolutivo di una situazione difficile.

Cindy, età 5 anni, mi era stata portata per disturbi del sonno.

Nella prima seduta le chiesi di disegnare la sua famiglia e lei disegnò volentieri se stessa, sua madre e sua sorella. Sapevo che i genitori erano divorziati e che la bambina vedeva il padre regolarmente. Le diedi un altro foglio di carta dicendole: “So che tuo papà non vive con te, però anche lui fa parte della tua famiglia. Vuoi disegnarlo qui?”. Per un attimo, il panico si dipinse sul suo volto e altrettanto rapidamente scomparve. Ma io colsi quell’espressione fugace e dolcemente dissi: “Hai paura di qualcosa se ti chiedo di farlo”. A bassissima voce rispose: “Be’, Jill vive con lui”.

Così risposi: “Che ne dici allora di disegnare papà e Jill su quest’altro foglio?”.

Cindy sorrise felice e si mise al lavoro. (Fu quasi come se avesse avuto bisogno del mio permesso.) A Cindy piaceva Jill (fu quanto emerse dai dialoghi con le figure della famiglia), ma non a sua madre. Questa bambina di 5 anni si era fatta carico dei sentimenti della madre e per questo aveva avuto paura di includere Jill nel suo primo disegno. Quando dissi: “Credo che alla mamma non piaccia molto Jill”, lei annuì e mi lanciò una timida occhiata di intesa.

Con il consenso di Cindy, chiesi alla madre di raggiungerci dalla sala d’aspetto. Le dissi che a causa dei suoi sentimenti negativi verso Jill, Cindy non si sentiva autorizzata a vivere i propri sentimenti positivi verso la stessa persona; che era necessario che aiutasse Cindy a imparare che ognuno può avere i propri sentimenti e che erano leciti i suoi, positivi, verso Jill, anche se lei non piaceva alla madre. Con questa nuova consapevolezza la madre di Cindy smise di imporre i suoi sentimenti alla figlia e non ci fu bisogno di altre sedute. Una chiusura rapida, basata su un piccolo segnale del corpo. 11. Lavorando sull’identificazione, aiutare il bambino a “riappropriarsi” di quanto è stato detto sul disegno o su parti di esso.

Potrei chiedere: “Ti senti mai in questo modo?”, “Ti capita mai di farlo?”, “In

qualche modo si adatta alla tua vita?”, “C’è qualcosa che hai detto, quando facevi la parte del cespuglio di rose, che potrebbe valere per te come persona?”, e così via. Domande come queste si possono formulare in molti modi. Io le pongo con attenzione e molto dolcemente. Non sempre i bambini devono

“riappropriarsi” delle cose. A volte i bambini si chiudono e sono molto spaventati. A volte non sono pronti. Talvolta è sufficiente che emerga qualcosa dal disegno, anche se essi non lo riconoscono per se stessi. È probabile che possano dire che ho già sentito ciò che avevano da dire; o che hanno espresso a suo tempo quel che volevano o che avevano bisogno di esprimere, a modo loro. 12. Mettere da parte il disegno e lavorare sulle situazioni di vita del bambino e sulle Gestalt aperte che emergono dal disegno. Talvolta ci si arriva direttamente dalla domanda: “Questo si adatta alla tua vita?”, a cui il bambino assocerà spontaneamente qualcosa della sua esistenza. Oppure il bambino potrà farsi improvvisamente silenzioso o un’espressione potrà attraversargli il volto. Potrei chiedergli: “Cos’è successo?”, e di solito il bambino comincia a parlare di qualcosa, della sua vita attuale o passata, che si ricollega in qualche modo alla sua situazione di vita presente (a volte invece il bambino risponde: “Niente”). 13. Far attenzione alle parti mancanti e agli spazi vuoti nei disegni, e lavorarci. 14. Seguire il flusso di figura del bambino oppure il mio, laddove trovo interesse, eccitazione ed energia. Talvolta lavoro con ciò che è evidente e talvolta con l’opposto di ciò che è evidente. Il bambino che disegnò Disneyland nella fantasia della grotta sottolineava il piacere e il divertimento che gli suscitava quel luogo.

Seguendo l’opposto di quanto faceva figura per lui, dissi: “Credo che nella tua vita non ci sia molto piacere né divertimento”. Di solito lavoro innanzitutto con quello che viene facile o agevole al bambino, prima di andare alle cose più difficili e scomode. Ritengo che se si parla delle cose più facili, i bambini sono poi più disponibili a trattare argomenti più critici. Se chiedo loro di dipingere le emozioni tristi da una parte e quelle felici dall’altra, i bambini trovano spesso difficoltà a condividere le emozioni tristi finché non hanno condiviso le emozioni, più sicure, di felicità. Comunque non è sempre così. A volte i bambini che trattengono molta rabbia avranno bisogno di farla uscire prima che possano venir fuori le emozioni positive. Posso scegliere di trattare ciò che per me fa figura. Mentre sono con il bambino mi può capitare di provare una certa forma di tristezza o di disagio. Oppure posso rimanere colpita dalla postura che assume il bambino mentre parla e decidere quindi di soffermarmici. Quando vedo bambini che manifestano in qualche modo dei disturbi, so che qualcosa non funziona nell’equilibrio naturale e nel flusso dell’intero organismo, della persona. Fare terapia si può definire come un tornare indietro per individuare e riattivare la funzione fuori posto. Il normale sviluppo e la crescita di un bambino sono parte essenziale del mio modello di lavoro. Il neonato è in stretto contatto con i suoi sensi: si crogiola nella sua nuova consapevolezza di odori, suoni, luci, colori, visi, sapori e sensazioni tattili. Si manifesta nella sua sensualità e in essa fiorisce. Presto diventa consapevole del proprio corpo e apprende di poter toccare, raggiungere, afferrare e buttare per terra. Muove le gambe, le braccia, il corpo e scopre il controllo e la padronanza. Man mano che il corpo e i sensi raggiungono nuove vette di consapevolezza, lo stesso accade alle emozioni. Il neonato non fa alcuno sforzo per nascondere le emozioni; anzi, le esprime pienamente. Quando un bambino è arrabbiato, noi lo sappiamo. Quando è felice, lo sappiamo. Sappiamo quando è ferito o spaventato, quando è tranquillo o beato. Il neonato ha già scoperto che quei suoni

che aveva sentito, e che poi aveva riprodotto da sé, avevano un significato; che potrebbe cominciare a comunicare verbalmente con gli altri per rendere noti i suoi bisogni: prima tramite suoni, poi con le parole e infine con le frasi. Via via che il suo intelletto si sviluppa, il neonato comincia a esprimere curiosità, pensieri, idee. Nel frattempo i sensi e le sensazioni fisiche raggiungono livelli di sviluppo sempre più sofisticati. Il bambino non ha problemi di autostima finora; si limita semplicemente a essere. In ogni senso, è un essere esistenziale. Nel bambino, lo sviluppo sano e ininterrotto dei sensi, del corpo, delle emozioni e dell’intelletto è alla base del suo senso del sé. Un forte senso del sé porta a un buon contatto con il proprio ambiente e le persone che ne fanno parte. Presto i bambini imparano che la vita non è perfetta, che viviamo in un mondo caotico, un mondo di contraddizioni e dicotomie. In più, i genitori che tirano su i figli hanno le loro difficoltà personali con cui misurarsi. I bambini imparano ad arrangiarsi e compensare. Molti se la cavano bene a vivere, crescere e imparare. Molti no. Secondo me molti bambini classificati come bisognosi di aiuto hanno una cosa in comune: un indebolimento delle funzioni di contatto. Gli strumenti del contatto sono guardare, parlare, toccare, ascoltare, muoversi, odorare e gustare. I bambini problematici sono incapaci di fare buon uso di una o più funzioni di contatto nelle loro relazioni con gli adulti della loro vita, con gli altri bambini o con l’ambiente in genere. Il modo in cui usiamo le nostre funzioni di contatto costituisce la prova della nostra forza o della nostra debolezza. Poiché un forte senso del sé predispone a un buon contatto, non c’è da stupirsi se quasi la totalità dei bambini che vedo in terapia non ha molta considerazione di sé, malgrado possano fare di tutto per non farlo trapelare. I bambini piccoli non danno la colpa dei loro problemi ai genitori o al mondo esterno. Piuttosto, credono di essere cattivi, di avere fatto qualcosa di sbagliato, di non essere abbastanza belli o brillanti. Eppure, a un qualche livello, c’è una fortissima volontà di sopravvivenza, la volontà di spuntarla. C’è ancora qualcosa del neonato puro dei primordi. In qualche modo i bambini si auto-proteggono. Alcuni si ritraggono per non essere feriti. Alcuni inventano fantasie per divertirsi e rendersi la vita più facile e vivibile. Alcuni sono tutti gioco-casa-scuola (poiché è tutto collegato) come se niente fosse e lasciano fuori dalla porta tutto ciò che è doloroso. Alcuni si auto-proteggono trovando il modo di emergere; questi bambini attirano molta attenzione, il che spesso tende a rinforzare proprio quel comportamento che gli adulti detestano. I bambini fanno quello che possono per riuscire, per sopravvivere. La loro è una spinta verso la crescita. Nonostante le lacune e le interruzioni nel funzionamento naturale, essi sceglieranno un qualche comportamento che li aiuti a venirne a capo. Potranno comportarsi in maniera aggressiva, ostile, rabbiosa, iperattiva. Potranno chiudersi in un mondo di loro invenzione. Potrebbero parlare il meno possibile o non parlare affatto. Potrebbero cominciare ad avere paura di tutto e di tutti o di qualcosa in particolare che tocca la loro vita e le persone che ne fanno parte. Potrebbero diventare eccezionalmente “buoni” e compiacenti, in maniera eccessiva. Potrebbero attaccarsi morbosamente agli adulti della loro vita. Possono bagnare il letto, farsi la cacca addosso, avere l’asma, allergie, tic, mal di pancia, mal di testa, incidenti. Non ci sono limiti a ciò che un bambino può fare nel tentativo di soddisfare i suoi bisogni. Con l’adolescenza, questi comportamenti possono diventare più marcati oppure sfociare in altri, quali la seduzione e la promiscuità oppure l’uso eccessivo di alcol e altre droghe. Dietro questi tentativi di arrangiarsi ci sono sempre dei bisogni insoddisfatti che sfociano nella perdita del

senso del sé. A volte il bambino agisce sulla base di idee che non gli appartengono, non sono legittimamente sue. Spesso i bambini crescono credendo a tutto quello che sentono dire sul proprio conto, inghiottendo per intero informazioni errate. Ad esempio, una bambina può credere di essere stupida perché il padre, in un momento di rabbia, frustrato, l’ha chiamata stupida. Può cogliere un tacito messaggio di fondo, del tipo “sei imbranata” perché i genitori ridono ogni volta che le cadono oggetti dalle mani o perché sono continuamente impazienti di fronte ai suoi laboriosi tentativi di fare le cose. I bambini spesso assumono le caratteristiche e le descrizioni che hanno raccolto dagli altri e le mettono in pratica. Allora il mio compito di terapeuta è quello di aiutare il bambino a separare se stesso da queste valutazioni esterne e dai concetti errati di sé e aiutarlo a riscoprire il suo essere. Quindi, ogni qualvolta lavoro con un bambino, un adolescente o anche un adulto, so che sarà necessario tornare indietro e ricordare, riguadagnare, rinnovare e rafforzare qualcosa che una volta esisteva nel neonato, ma che ora sembra smarrito. Via via che si risvegliano i sensi e che l’individuo comincia a riconoscere il proprio corpo, potrà riconoscere, accettare ed esprimere le emozioni perdute. Apprenderà che può fare delle scelte e verbalizzare le sue richieste ed esigenze, i pensieri e le idee. Imparando a conoscersi e ad accettare se stesso nella sua diversità da voi, l’individuo entrerà in contatto con voi e voi ve ne accorgerete. Tutto questo è possibile tanto a 3 quanto a 83 anni. Io lavoro per costruire il senso del sé del bambino, rafforzarne le funzioni del contatto e rinnovare il contatto con i suoi sensi, il corpo, le emozioni e l’uso dell’intelletto. Nel frattempo, spesso decadono le condotte e i sintomi che usava per un’espressione e una crescita impropria, senza che il bambino si renda pienamente conto del cambiamento in atto. La sua consapevolezza viene così indirizzata nuovamente a una sana considerazione delle proprie funzioni del contatto e del proprio organismo, dunque verso condotte più soddisfacenti. Il bambino si sviluppa attraverso l’esperire. La consapevolezza è così strettamente legata al fare esperienza che non c’è l’una senza l’altra e viceversa. Allo stesso modo, via via che in terapia il bambino sperimenta i suoi sensi, il suo corpo, le sue emozioni e il modo in cui può usare l’intelletto, riacquista una sana posizione verso la vita. Lascio fare quindi al bambino tutta l’esperienza possibile, laddove ne ha più bisogno. E quando posso, lo incoraggio a prendere consapevolezza del suo processo esperienziale. Quando chiedo a un bambino di darmi una frase da scrivere sul suo disegno, che riassuma la sua situazione, questa è una dichiarazione della sua consapevolezza. Quando chiedo: “Ti senti mai così?”, riguardo a una rosa che, caduta dal cespuglio, sta morendo oppure: “Questo si adatta alla tua vita?” a proposito della storia di un orso in cerca della vera mamma orsa, sto cercando consapevolezza esplicita. Di sicuro, questa consapevolezza facilita il cambiamento. Man mano che si sviluppa la consapevolezza del bambino, noi possiamo incominciare a esaminare le opzioni e le scelte possibili, possiamo sperimentare nuovi modi di essere oppure occuparci delle paure che il bambino ha nascosto per impedirsi di fare nuove scelte che possano migliorare la sua esistenza. In un paio di episodi, raccontati in questo libro, dico: “Non so davvero cosa sia successo”. So per certo che il bambino ha sperimentato qualcosa insieme a me e che, dopo, si è sentito meglio, spesso senza alcuna dichiarazione esplicita di comprensione o di consapevolezza. Una volta con una bambina feci un neonato d’argilla, le dissi che quella era lei e feci finta di farle il bagnetto. La bambina ne fu felice e soddisfatta e quella sera espresse alla madre il desiderio di cominciare a fare la doccia. (La bambina in passato si era rifiutata di fare il bagno e la doccia.)

Se questa bambina avesse detto: “Sono consapevole del fatto che vorrei tanto che mi si trattasse ancora come una neonata, ora che c’è il fratellino, e che non farò il bagno finché qualcuno non lo riconosce”, probabilmente saprei cos’è successo. In realtà, so soltanto di averle offerto un’esperienza per lei appagante, che le ha consentito di sentirsi abbastanza sicura da fare un altro piccolo passo verso la crescita. Chi mi ha seguito in questo discorso potrebbe dire: “OK, sono disposto a fare una prova. Cosa faccio dopo?”. L’importante è il come. Come costruire il senso del sé di un bambino, come irrobustire le sue funzioni del contatto, come rinnovare il suo contatto con i sensi, col corpo, con le emozioni e la mente? Come aiutarlo a esperire i suoi sensi, il suo corpo, le sue emozioni, l’uso dell’intelletto? La risposta a queste domande può suonare molto semplicistica, ma ho il dovere di avvertirvi che questo libro non vuole essere un manuale di riparazione. Penso al mio lavoro nelle scuole, che svolgo allo scopo di aiutare i bambini a superare le difficoltà di apprendimento. Da parte dei ricercatori è stato fatto un buon lavoro di descrizione dei problemi che molti bambini presentano nelle aree della percezione. Alcuni hanno difficoltà nell’articolazione figura-sfondo e non sono in grado di selezionare una lettera o una parola in mezzo a tante. Altri hanno dei problemi di orientamento visivo per cui non riescono a distinguere le “b” dalle “d” o “was” da “saw”. Sono stati inventati giochi ed esercizi meravigliosi per aiutare a correggere queste deficienze e sostenere il bambino nelle aree più deboli. Passiamo dunque molte ore con il bambino, aiutandolo a identificare i blocchi rossi in una gamma di colori e a distinguere i quadrati dai triangoli e dai cerchi, in modo da migliorare la sua percezione figura-sfondo. Il bambino diventa abbastanza capace dopo molta pratica, ma spesso ancora non sa leggere. Non è così semplice. Migliorare i sensi non significa che non appena il bambino saprà distinguere tra morbido e ruvido oppure tra note alte e note basse, allora starà improvvisamente meglio con se stesso e cambierà comportamento. I bambini sono creature complicate e in essi accadono molte cose in contemporanea. Per esempio, a un bambino viene dato del colore per la pittura manuale, perché sperimenti e migliori la sensibilità tattile. La fluidità del colore e la sensazione di sensualità che ne deriva, così come il puro godimento dell’attività, aprono il bambino alla condivisione di profondi sentimenti e questo lo porta a parlare di alcuni problemi della sua vita, il che a sua volta conduce a una discussione sulle sue possibilità di risolvere quel problema. Oppure potrebbe non accadere nulla di tutto questo. Può darsi che dipinga in silenzio per tutta la durata della seduta. O forse potrebbe rifiutare la sola idea di dipingere manualmente perché lo trova infantile. Il terapeuta deve mantenersi strettamente in sintonia con il bambino man mano che questi risponde all’attività, in modo da riconoscere le oscillazioni del suo processo. Il terapeuta deve mantenersi in stretto contatto con il bambino per sapere quando parlare e quando restare in silenzio. In altre pagine di questo libro, offro molti esempi di tecniche che servono a dare al bambino esperienze sensoriali, corporee, emozionali, intellettuali e verbali. Queste idee dovrebbero aprire all’immaginazione del terapeuta un’infinita gamma di possibilità creative. Lavorando con un bambino, non mi è molto difficile decidere qual è la tecnica che ci vuole. Man mano che imparo a conoscere il bambino, tutti i conti tornano. Spesso è lui stesso che manifesta ciò di cui ha bisogno, proprio con l’attività che sceglie. E talvolta resistendo tenacemente a un’attività, mostra proprio di averne bisogno! Devo dire di nutrire a volte qualche preoccupazione circa il ruolo dell’intervento terapeutico sui bambini. Mi chiedo se il risultato del mio

lavoro – cioè il loro nuovo comportamento – non sia spesso contraddittorio rispetto al loro milieu culturale e alle loro aspettative. Oppure mi chiedo: sto limitando il loro modo gioioso di crescere e la loro auto-determinazione, per aiutarli ad adattarsi a una situazione inumana, nascondendo i problemi come polvere sotto il tappeto? Devo continuamente ricordare a me stessa che il mio compito è di aiutare i bambini a sentirsi forti dentro, aiutarli a vedere il mondo che li circonda per ciò che è realmente. Voglio che essi sappiano di poter decidere come vivere nel loro mondo, come reagirvi, come manipolarlo. Ma non posso arbitrariamente scegliere per loro. Posso solo contribuire a dare loro la forza di fare le scelte che vogliono fare e a capire quando non c’è scelta. Crescendo, diventando più forti e vedendo se stessi più chiaramente in relazione al mondo, potranno forse prendere la decisione di cambiare le strutture sociali che impediscono loro di operare il tipo di scelta desiderata. Ci sono certi presupposti di base, necessari per chiunque lavori con i bambini: bisogna amarli, stabilire con loro un rapporto di accettazione di fiducia, conoscere qualcosa del loro sviluppo, di come crescono e apprendono, comprendere i contenuti importanti che corrispondono a particolari livelli di età. Bisognerebbe avere dimestichezza con i diversi disturbi dell’apprendimento che colpiscono i bambini, e che non solo intralciano il loro processo di apprendimento, ma spesso causano disturbi collaterali. Ritengo che bisognerebbe avere l’abilità di essere direttivi senza essere invadenti, dolci e gentili senza essere passivi o non direttivi. Ritengo che chiunque lavori coi bambini debba conoscere le dinamiche del sistema familiare ed essere a conoscenza degli influssi ambientali sul bambino – casa, scuola, altre istituzioni di cui può far parte. Si dovrebbero avere cognizioni circa le aspettative culturali riposte nel bambino. Si dovrebbe essere fermamente convinti che ogni bambino è una persona unica, meritevole e con dei diritti umani. Si dovrebbe avere familiarità con l’uso di buone tecniche di base di counseling, come l’ascolto riflettente, le tecniche di comunicazione e di problem solving. Credo che sia essenziale essere aperti e onesti con il bambino. E avere senso dell’umorismo perché venga fuori il bambino giocherellone ed espressivo che è in noi. Vorrei rivolgermi a tutti quei terapeuti che non vogliono lavorare con i bambini. I bambini hanno bisogno di alleati. Spero che i terapeuti che credono al valore dell’uomo e all’uguaglianza tra gli esseri umani comincino a capire che rifiutando i bambini come clienti, essi creano una separazione che perpetua l’inferiorità dei giovani. I bambini meritano di più. L’approccio che presento è una forma di autogestione. Ritengo che in nessun modo si possano commettere errori se si ha buona volontà e ci si astiene da giudizi e interpretazioni – se si accetta il bambino con riguardo e rispetto. Con queste premesse, si può fare contatto con qualunque bambino e dargli un aiuto efficace. Mantenendovi entro questi ampi confini, non potrete sbagliare. I bambini si apriranno solo nella misura in cui si sentiranno abbastanza sicuri per farlo. I genitori possono usare le tecniche qui descritte per scoprire chi sono i loro figli e aiutarli a scoprire chi sono i loro genitori. Gli insegnanti hanno riferito risultati strabilianti dopo aver provato alcune di queste tecniche. Si può rimanere nell’ambito del generico o ci si può addentrare nei problemi, tutto dipende dall’esercizio e dalle proprie abilità. In quasi tutte le classi nelle quali ho insegnato, qualcuno ha sollevato la questione delle controindicazioni, o meglio delle cose che sarebbe meglio non fare con un bambino. A parte i no più ovvi, che sono direttamente all’opposto dei sì (no ai giudizi ecc.), ho molto poco da dire sull’argomento. Non mi riesce di pensare a una regola generale che vada bene indistintamente per tutti i bambini. Non dirò: “Non

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