ESCLUSIVA
THE DEAD DAISIES | EVERGREY | SOILWORK
06/2016
PA S S A G E T O T H E
F U TU R E
L'ULTIMO BALUARDO
Helsinki Vampires
Hammer Highlights
DGM 26
IL DOMINIO DEL PROG ITALICO Per questo sesto numero del 2016 abbiamo voluto puntare su una band di casa nostra, e non una qualsiasi. I DGM sono fra i più importanti esponenti del Prog Metal internazionale e con il nuovo “The Passage” sono pronti a oltrepassare i limiti del successo conosciuto, puntando al futuro e meritatamente al trono del genere.
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ABBATH
SABATON
HAMMER RELICS
Metal Hammer ha avuto la possiblità di incontrare Olve Eikemo, meglio conosciuto come, Abbath Doom Occulta, membro fondatore degli Immortal e ora frontman della sua band, gli Abbath, coi quali sta portando per il mondo l’oscuro verbo del black metal norvegese. Glaciale, quasi non fosse realmente umano, il musicista dialoga ai nostri microfoni, discutendo di passato e futuro.
In occasione della giornata di promozione dell’ultimo disco, abbiamo parlato con Joakim Brodén, frontman dei Sabaton, per approfondire ciò che sta alla base di “The Last Stand”, nona fatica del gruppo scandinavo. Un viaggio lungo centinaia di anni, attraverso alcune delle più sanguinose battaglie che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Un monito per la nostra società.
Celebriamo qui, fra le prime pagine di Metal Hammer, la nascita di una rubrica cui siamo molto legati. Nata per idea del vicedirettore Fabio Magliano, Hammer Relics vi condurrà lungo la storia della nostra testata attraverso alcuni articoli e recensioni passati da tramandare ai posteri. Iniziamo con un disco che noi tutti almeno una volta abbiamo ascoltato, condannato da una firma d’eccezione...
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Hammer Editoriale
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Hammer in the Sky Sesto numero di Metal Hammer in versione digitale, sesto capitolo di una scommessa affrontata con un po’ di incoscienza e che oggi vale qualche considerazione sparsa, a ruota libera, giusto per stilare un primo bilancio di un’avventura che sta viaggiando più veloce di quanto noi per primi avremmo potuto immaginare. Affidarsi al digitale per chi, per anni, si era prodigato per la causa del cartaceo significava confrontarsi con un mondo nuovo e ricco di insidie. Alla fine a parlare sono i numeri, freddi, diretti e, almeno in questo caso, immuni da quel gonfiaggio steroideo per anni fin troppo diffuso nell’ambito dell’editoria. Quello che gli incorruttibili contatori di Issuu certificano è che Metal Hammer si sta muovendo con una media di 12.000 letture singole mensili, destitnate a lievitare nel tempo con il risultato che
il primo numero ha ormai abbondantemente sfondato quota 30.000, e poco importa se anche qui i soliti fenomeni da baraccone sono riusciti a scaricare qualche copia rendendo pirata qualcosa già di per sè gratuito. Si ammicca e li si compatisce. Per il resto i numeri parlano di un giornale in costante crescita, mentre tra gli addetti ai lavori e (fortunatamente) tra i lettori, i responsi sono ampiamente positivi il che ci fa capire che siamo sulla strada giusta. Una strada che, con un po’ di incoscienza, non lo neghiamo (ma quella è una nostra prerogativa sin dall’inizio) ci sta portando via via a “scommettere”
sui gruppi, come confermano le copertine che, dopo i primi “usati sicuri”, sono andate via via sposando band insolite, meritevoli, valide ma forse non propriamente avvezze ad una cover story, una “rottura degli schemi” che anche in questo caso è stata premiata ampiamente. E che sul numero che avete tra le mani ci ha convinto a omaggiare una band nostrana, i DGM, che da oltre vent’anni dispensano grande musica e freschi autori di un disco, ‘The Passage’ che si candida tra i dischi caldi del 2016. Un premio dovuto che abbiamo voluto condividere con voi. Ma i contenuti sono tantissimi anche questo mese, quegli stessi contenuti che, arricchiti, troverete a brve anche sul sito ufficiale www. metalhammer.it che nei prossimi giorni sarà varato ufficialmente consentendovi di godere di una vetrina ancora più ricca e approfondita su quanto accade quotidianamente nel mondo del metal. Fabio Magliano
TUTTI I GIORNI NUOVI CONTENUTI vai al sito www.rockandmetalinmyblood.com 4 METALHAMMER.IT
RECENSIONI LIVE REPORT articoli Discografie Complete
TALES FROM BEYOND Bolgia di Malacoda 10
Hammer Core
Metal Rubriche
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
The 69eyes
“La Forza Vindice Della Ragione” è il debut album dei grossetani
TELEGRAPH
DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it
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VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it
Progspective
CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
Asenblut 11
Entriamo nel periglioso regno dei berserker teutonici per l’ultima release
Soilwork 12
Nuova release per gli svedesi, una compilation che ripercorre la loro storia
REDAZIONE
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The Rumjacks
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14 Se sentite odore d’Irlanda vi
state sbagliando di grosso, siamo nei sobborghi di Sidney
The Dead Daisie
Stay Brutal
Paky Orrasi paky@metalhammer.it
burns Golinelli hunt 15
Molti conoscono Burns e Hunt come musicisti di Vasco, questa è un’altra storia
Alessandra Mazzarella alessandra.mazzarella@metalhammer.it
Dark Buddha Rising 16
Angela Volpe angela.volpe@metalhammer.it
RockTattoo
“Dogma” è il nuovo disco dei My Regime, ce ne svelano alcuni retroscena
Temperance 19
Andrea Schwarz andrea.schwarz@metalhammer.it
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Vi accompagnamo fra gli oscuri rituali della band finlandese
My Regime 18
“The Earth Embraces Us All” è il terzo full-length del gruppo italico
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The Library
FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it
Recensioni
EVergrey 20 Gli svedesi sfornano un al-
tro grande lavoro da studio, “The Storm Within”
PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò
22 Diventato celebre con
“Sons Of Anarchy”, ecco a voi The White Buffalo
Ancillotti
Emanuela Giurano GRAFICA Stefano Giorgianni
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The White Buffalo
HANNO COLLABORATO Andrea Lami, Roberto Gallico, Dario Cattaneo, Max Novelli, Giuseppe Felice Cassatella, Vincenzo Nicolello
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24 Gli inossidabili metallers
italiani tornano con “Strike Back”
PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it WEBMASTER Gianluca Limbi info@gianlucalimbi.com
Live Report
IN COPERTINA DGM Foto di Roberto Villani
Steve Vai
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Burn Golinelli Hurt
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Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it
Metal Church
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ITE
USC e m i s s o Pr
Devin Townsend Trascendence Inside Out 9 settembre
T I . R E M LHAM
Pain Coming Home Nuclear Blast 9 settembre
A T E M . ica l l a t e WWW M i o Il ritorn
de
Brujeria Pocho Aztlan Nuclear Blast 16 Settembre
Epica The Holographic Principle Nuclear Blast 30 settembre
Si sapeva da tempo, ma ora è ufficiale. I METALLICA hanno annunciato l’uscita del nuovo full-length, che si intitolerà “Hardwired…To Self-Destruct” e sarà disponibile il 18 novembre prossimo. Le perplessità degli addetti ai lavori si sono concentrati sulla quantità di musica che conterrà l’album. Questo sarà infatti diviso in due dischi e avrà una durata di circa 80 minuti. Cosa ci riserverà dunque questa nuova fatica dei Four Horsemen? Possiamo dire solo che non dovremo attendere molto per darvi il nostro giudizio.
Flash News
Opeth Sorceress Nuclear Blast 30 Settembre
Korn The Serenity of Suffering Roadrunner 21 ottobre
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- Il nuovo album dei SABATON, “The Last Stand”, ha debuttato al numero 1 nelle classifiche di Repubblica Ceca, Finlandia e Sveza e si è piazzato in seconda posizione in Germania. Dedichiamo questa prima parte del nostro Telegraph in gran parte al prossimo disco dei METALLICA. Nel player qui sopra potete infatti guardare il video di ‘Hardwired’, prima canzone estratta dal nuovo disco “Hardwired…To Self-Destruct”. Com’è normale che sia si sono scatenati i commenti sul pezzo!
- Gli STRATOVARIUS pubblicheranno le ristampe dei propri album per earMusic, le prime delle quali saranno “Destiny” e “Visions Of Europe” . I dischi conterranno bonus track e nuovi artwork dell’artista Gyula Havancsák. - Il nuovo disco degli INFLAMES, intitolato “Battles”, uscirà per Nuclear Blast il prossimo 11 novembre. Il disco è stato registrato a Los Angeles con il produttore Howard Benson (MOTÖRHEAD, SEPULTURA, BODY COUNT).
Darkthrone, an
nunciato il nu
Il duo Norvegese DARKTHRONE, ritorna sulle scene dopo un silenzio che dura dal The Underground Resistance del 2013. Il loro nuovo album, “Arctic Thunder”, sarà pubblicato il 14 Ottobre da Peaceville Records e distribuito in Italia da Audioglobe. “Arctic Thunder” è stato registrato e prodotto direttamente dalla band al “The Bomb Shelter” Studio,
ovo disco
usato in passato dai Darkthrone tra il 1988 e il 1990. Ecco la tracklist: 1)Tundra Leach 2)Burial Bliss 3)Boreal Fiends 4)Inbred Vermin 5)Arctic Thunder 6)Throw Me Through 7)The Marshes 8)Deep Lake Trespass 9)The Wyoming Distance A breve speriamo di darvi più informazioni.
Phil Rudd, pronto ma non con Axl
La Statua di Lemmy Il giorno 24 agosto è stata inaugurata al Rainbow Bar and Grill di West Hollywood la statua commemorativa dedicata Ian “Lemmy” Kilmister. A crearla è stato l’artista Travis Moore ed è già meta di pellegrinaggio.
“Mine”, un soldato su una mina protagonista del nuovo film di Fabio&Fabio I registi italiani Fabio Guaglione e Fabio Resinaro faranno uscire il 6 ottobre il loro prossimo lungometraggio intitolato “Mine”, una storia ad alto tasso di suspense e adrenalina con l’attore Arnie Hammer nelle vesti del protagonista. Divagazione cinematografica questa che è anteprima del prossimo numero, nella rubrica Metal Cinema.
Flash News - Gli HAMMERFALL pubblicheranno il prossimo fulllength, intitolato “Built To Last”, il 4 novembre per Napalm Records. La band farà tappa in Italia il 29 gennaio al Live Club di Trezzo sull’Adda (MI). - “The Serenity Of Suffering” è il nuovo disco dei KORN. L’album verrà rilasciato il 21 ottobre per Roadrunner Records.
Il batterista degli AC/ DC Phil Rudd, dopo i problemi giudiziari, è pronto a tornare sul palco, ma non con Axl Rose. Questa sarebbe la sua dichiarazione!
Meshuggah, "The Violent Sleep Of Reason" in uscita il prossimo 7 Ottobre per Nuclear Blast I MESHUGGAH hanno comunicato la data di uscita del loro nuovo album, che si intitolerà “The Violent Sleep Of Reason”.Nuclear Blast pubblicherà l’album il prossimo 7 ottobre. Ecco la tracklist
1. Clockworks 02. Born In Dissonance 03. MonstroCity 04. By The Ton 05. Violent Sleep Of Reason
06. Ivory Tower 07. Stifled 08. Nostrum 09. Our Rage Won’t Die 10. Into Decay
- Gli italiani DESTRAGE pubblicheranno il loro nuovo album, “A Means To No End“, il 21 ottobre per Metal Blade Records. La produzione è stata affidata a Larsen Premoli presso i RecLab Studios di Milano. Il mixaggio è stato invece curato da Steve Evetts e la masterizzazione da Alan Douches. - Gli israeliani DESERT hanno reso disponibile il video di ‘Son Of A Star’ (a questo indirizzo), pezzo estratto dal disco “Never Regret”. Parte dei fondi per realizzare la clip è stata donata dai fans attraverso il crowdfunding. - I SERIOUS BLACK hanno reso nota la data di uscita del prossimo disco, che non vedrà né Roland Grapow né Thomas Stauch nella line-up. Fra qualche giorno, il 9 settembre, potremo ascoltare la loro nuova fatica.
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Voltato pagina e lasciata alle spalle non senza polemiche un'avventura ventennale chiamata Immortal, per Abbath E' nuovamente tempo di gettarsi nella mischia con una band che porta il suo nome ma, soprattutto, che si propone di mantenere accesa la fiamma oscura del black metal
d e n m a D e h T Ashes Of
di Aurelio Hyerace e Fabio Magliano Foto di Vincenzo Nicolello
Carisma. Così Olve Eikemo, conosciuto ai più come Abbath Doom Occulta, definì qualche anno fa, in un face to face nella gelida Bergen la sua capacità di incutere timore e trasudare un che di malsano anche senza l’ausilio del facepainting. Quello stesso carisma che sprigiona nei camerini del Rock Planet a poche ore di distanza dalla data italiana dei suoi Abbath. Il cantante norvegese è alticcio, l’incontro con il mare della romagna (che lui stesso non esita a definire “Oceano”) non lo ha lasciato indifferente, ma gli occhi glaciali e quella bocca pronta a torcersi in un che di indefinito nel quale cerchiamo di vederci un minimo sorriso sono li, puntati su di noi, bramosi di saperne di più sulla nuova vita di Abbath, quella post Immortal, che lo ha visto prima abbandonato quindi usurpato di quel moniker che per anni è stato vessillo del black metal più crudo, e costretto a ripar-
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tire dal suo nome di battaglia con il quale ha ribattezzato la sua nuova incarnazione artistica. Abbath. Come il disco di debutto pubblicato lo scorso mese di gennaio su Season Of Mist, prima mossa in quella guerra a scacchi che attende ora la risposta del duo Demonaz e Horgh, de-
volto e anima, ma la convivenza con i vecchi compagni di battaglia, nel 2015 era divenuta realmente impossibile “Con gli altri ragazzi non eravamo più sulla stessa lunghezza d’onda, i nostri intenti non
combaciavano più – racconta posicon voce catramosa l’artista tari del nome Immor- norvegese - C’è stato un tal e prossimi, almeno stando momento in cui mi sentivo ai proclami di rito, al ritorno ispirato, avevo idee, avevo sulle scene. E farà effetto, in- voglia di fare musica nuova, utile girarci attorno, parlare di ma per quanto esortassi i Immortal senza colui che per miei vecchi compagni, non venticinque anni ne è stato vedevo in loro la mia stessa
volontà. Tutto si trascinava stancamente, non c’era voglia di fare prove, non c’era voglia di incidere un nuovo disco, non c’era più quell’entusiasmo che ci aveva accompagnati nei primi anni della band. Eravamo semplicemente degli estranei che convivevano sotto un nome che a qualcuno iniziava a stare stretto. Cazzo, si stava parlando della mia musica, della mia vita, non doveva andare così, ed allora la strada più naturale è stata la separazione. Una volta che le strade si sono divise mi sono nuovamente sentito libero di esprimermi attraverso la mia musica, e ‘Abbath’ è la naturale conseguenza”. Una band e un album omonimo che non segnano una frattura drastica con il passato, ma semplicemente un nuovo capitolo di una storia che ha Abbath come vero fulcro “Si tratta sempre della mia musica – prosegue - Suonata da una
band diversa, da musicisti diversi, con testi differenti... ma è sempre la mia musica, non c’è una rottura drastica, è la semplice continuazione di me stesso. Nella musica degli Abbath c’è la vecchia scuola del metal, ci sono elementi rock’n’roll che amo molto e che ho sempre messo anche nella musica degli Immortal... io ho sempre fatto quello che mi piace, non ho mai pensato troppo a come dovesse suonare un pezzo...
se il brano funzionava e mi piaceva, allora andava bene così. E’ andato bene con gli Immortal, ha funzionato anche per gli Abbath”. Un progetto che prosegue stilisticamente quanto ascoltato nelle vecchie produzioni di Abbath, quantomai deciso a proseguire sulla sua strada lasciando agli altri sperimentazioni, contaminazioni e strizzatine d’occhio a ciò che maggiormente aggrada alla massa “A me interessa fare cosa mi piace, non me ne frega niente di cosa pensa la gente e tanto meno di cosa va di moda. La musica è qualcosa che ti viene dal di dentro, non può essere ragionata. Io mi sono sempre affidato all’istinto. Nella musica come per tutto il resto. La musica è libertà e io da persona libera ho sempre fatto quello che volevo, ho sempre suonato ciò che mi
piace fregandomene di quello che dicevano gli altri. Io sono la mia musica, e questa è la regola che ho sempre messo alla base di tutto”. E con gli Abbath, Mr. Eikemo non tenta di cancellare quanto fatto con la vecchia band, tanto meno avverte l’ingombrante peso di un gruppo che ha scritto pagine importanti nella storia del black metal scandinavo, destinato a ritornare come un boomerang ad ogni nuova intervista “Il nome degli Immortal non mi pesa, non potrebbe pesarmi – afferma schiettamente - perchè per anni è stata la mia vita e per alcuni versi continua ancora ad esserlo, non a caso nel mio show trovano posto diversi brani della mia vecchia band. Questo è semplicemente un capitolo nuovo della mia vita artistica, scritto insieme a
persone nuove che reputo perfette per me, in questo momento. E non me ne frega neppure del dovere ricominciare da capo, non è il successo che vado cercando, ma è la libertà. Quella libertà che mi ha consentito di sopravvivere in una scena che negli anni è implosa. Porto avanti la mia battaglia battaglia personale. Io sono ancora qui, chi mi vede sul palco sa che non l’ho tradito, che sono vero, come vera è la mia musica”. Se con gli Immortal il parallelo giunge quasi spontaneo, Abbath prende invece le distanze dagli “I”, l’all star band che nel 2006 fece gridare al miracolo con l’ottimo ‘Between Two Worlds’, disco che ad oggi non ha ancora avuto un seguito e che forse non lo avrà mai “Gli Abbath sono la naturale prosecuzione di quanto fatto con gli Immor-
video di il a d r a u G bane’ ‘Winters
“con gli Immortal eravamo e ch ei an tr es i gl de te en em ic pl m se e a ch e m no un tto so o an ev iv nv co qualcuno iniziava a stare stretto
tal, mentre gli “I” sono stati semplicemente un progetto estemporaneo che penso non avrà più un seguito. C’è stato un momento in cui mi sono trovato tra le mani una grande mole di materiale, roba che non avevo potuto usare per gli Immortal perchè troppo distanti stilisticamente dagli standard della band. Mi sono trovato a parlarne con Ice Dale degli
Enslaved e questo progetto è venuto fuori dal nulla, in modo molto naturale. Gli I sono qualcosa che è semplicemente successo, qualcosa di divertente, ma visceralmente gli Abbath sono tutta un’altra cosa”. Ed in tema di side project, impossibile non citare i Bombers con il loro tributo ai Motorhead, e lasciarsi andare ad un pensiero ad un rocker che ci ha lasciato comunque
troppo presto “Lemmy è stato il mio padre artistico – confessa rompendo almeno per un istante quel glaciale distacco che ha accompagnato tutta la chiacchierata - perchè si può dire quel che cazzo si vuole, ma senza i Motorhead non ci sarebbe stato neanche il black metal e di conseguenza gli Immortal. Il black metal è la musica del diavolo, è rock’n’roll spinto all’eccesso, è pura fottuta libertà, tutto quello che Lemmy ha sempre predicato. A volte mi capita di pensarci e fatico a credere che non ci sia più. Insieme a Ronnie James Dio è stato il personaggio più vero e corretto che abbia mai incontrato. Era semplicemente
il migliore, e credo che qui tutti dobbiamo qualcosa a Lemmy. Se oggi ci riempiamo la bocca di rock’n’roll, lo dobbiamo a lui”. La chiusura è però nuovamente affidata agli Immortal, con un gesto distintivo, una schiarita, o forse un’illusione di rito “Non si sa mai cosa può riservare il futuro, la vita a volte può prendere delle strade strane, non si può dire. Quello che è certo è che questo non è il momento di pensare se ci sarà mai una reunion con gli Immortal. C’è uno show degli Abbath da portare avanti, tutto il resto non conta”. E chi ha assistito al concerto ha avuto conferma che, Abbath o Immortal, sul palco è sempre un autentico inferno quello che prende vita ogni sera.
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Venti ferali soffiano dal grossetano, melodie seducenti e richiami alla memoria confluiscono nella proposta di una band che di scontato non ha nulla. Stiamo parlando dei Bolgia di Malacoda, gruppo nato nel 2010 che sei anni dopo, in questo Anno del Signore 2016, pubblica il full-length di debutto “La Forza Vindice della Ragione” (recensito nel numero 05/16), una delle uscite italiane meno scontate e più inebrianti di questi mesi. Ferus, vocalist e mastermind del gruppo, ci ha parlato dell’origine del progetto e dei futuri piani che lo attendono. Si inizia in maniera gaia e in pieno stile malacodiano: “Come si dice da queste parti “mainagioia” però vino a volontà e soprattutto risate sguaiate per cose deplorevoli”, queste le prime parole del cantante, che poi ricorda la genesi della band, un “progetto nato da una semplice intuizione, quella di mettere in musica ciò che mi passa per la testa ignorando stili e generi, quello che mi viene lo butto fuori, l’unico punto d’obbligo era ed è la lingua italiana; tutto gira intorno al fatto che nella mia lingua posso esprimere concetti che in altre lingue non avrebbero lo stesso senso, il ribadire questo mi duole in quanto la considero il frutto di
una colonizzazione culturale.”. Un’idea quanto mai personale che si rispecchia nei brani scritti per i Bolgia di Malacoda, nome di nobile discendenza letteraria: “Malacoda è il diavolo della bolgia dei barattieri nel canto XXI, ora non è che io conosca la “Divina Commedia” a memoria e sicuramente non l’ho letta tutta, ma suonava molto toscano; c’è una frazione di Castel fiorentino che si chiama Malacoda, a
furia di passarci mi venne in mente questo nome, poi la bolgia dei barattieri… Il vizio preminente dall’Alpe a Malta.”. Ascoltando le creazioni di Ferus s’intuisce la vastità del bagaglio musicale che comprende “direi un po’ tutto quello che mi piace ascoltare, anche generi più disparati: da Guccini a De André passando per Litfiba, Rammstein, Slayer e nel modo di
suonare sicuramente Immortal e Gorgoroth, ecco, dal cantautorato italiano al black metal norvegese”, un’eterogeneità matura che è sfociata nella messa in musica dell’Inno a Satana di Carducci, che “era un idea addirittura precedente al progetto”, confessa Ferus, “i testi che scrivo sono il frutto di sensazioni ed idee personali, parole
scaturite da pensieri a volte negativi a volte ragionevoli, in qualche caso positivi; a volte prendo spunto da qualche passaggio storico o letterario.”. Non solo testi ragionati, anche uno stile particolare a infarcire la putrida e sublimante proposta dei Bolgia di Malacoda, che cercano “di aver un sound a dir nostro “bello grasso”, ecco diciamo quella sensazione di ballonzolamento, ma come genere non saprei, più semplicemente rock-
metal, post-rock.”. Da rimarcare è pure l’accuratezza nella lingua, ben simboleggiata nel titolo dell’album: ““Salute o Satana o ribellione o forza vindice della ragione”, io in questa frase ci rivedo l’idea di rivalsa della ragione dell’uomo in sé sull’oppressione che esso stesso si è creato, la rivalsa dal prominente senso d’imbecillità che affligge questa nostra natura dalla notte dei tempi; insomma, è il concetto prevalente del disco.”. Si passa poi alle registrazioni del disco, il primo, il più arduo: “Io ho registrato chitarra, basso e voce, inoltre per le chitarre sono state effettuate sei sovra incisioni per traccia, un lavoro lungo che comunque alla fine ci ha dato soddisfazioni.”. Un lavoro non esente dalle difficoltà dell’autoproduzione: “Abbiamo contattato diverse etichette ma purtroppo non avevamo risorse per investire, con il disco abbiamo speso bene e ci hanno dato una mano due bravi tecnici del suono che abbiamo qui in Maremma.”. E sul futuro: “Abbiamo già diversi brani e alcuni li abbiamo suonati dal vivo, perciò stiamo pensando al nostro prossimo album e contiamo di riuscire a farlo l’anno prossimo. Per ora sarebbe utile ingranare la marcia e riuscire a fare più date possibili.”.
Guarda il video di ‘Inno a Satana’ dal disco
i o v i d n u s Nes sia fello!
l arrivano a i n a t e s s o r Ig length! ne primo full rlato col abbiamo pa ferus! mastermind
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di Stefano Giorgianni
A volte, tra il nuovo singolo di qualche bella vocalist ammiccante e l’ultimo lavoro solista del guitar god di turno, capita di ritrovarsi tra le mani l’ultima uscita di una band come gli Asenblut, artisti validi e capaci non ancora benedetti dalla luce dei riflettori, e si rimane così colpiti dalla qualità del prodotto che saperne di più diventa quasi un’esigenza. Scambiamo perciò quattro chiacchiere con Tetzel e Claus, che ci svelano i retroscena di “Berserker”, terzo capitolo della loro discografia: “Sul piano musicale si potrebbe parlare di una certa coesione tra i brani ma non si può dire lo stesso se si prendono in considerazione i testi, perché quando sono stati scritti non c’era un concetto particolare da sviluppare in più punti” esordisce Tetzel. “Una tematica comune a gran parte delle canzoni dell’album è la lotta, non intesa come mero combattimento ma come tentativo di rivalsa dell’eventuale protagonista contro un altro personaggio, contro il mondo intero o perfino contro se stesso. È tutto collegato alla figura del Berserker”. Un aspetto interessante di “Berserker” è la convivenza di antico e moderno nella stessa proposta. Alle sonorità pagan infatti si accostano tematiche ben più vicine ai nostri giorni: “I riferimenti al mondo videoludico non mancano” conferma Tetzel: “ad
esempio ‘Berserkers Ruhmeserinnerungen’ risente moltissimo dell’influenza di “Dark Souls”. I videogiochi sono un’ottima fonte di ispirazione: oltre alla soddisfazione di poter raggiungere determinati risultati con le proprie abilità, un buon videogioco offre una storia di base solida e affascinante. È una forma d’arte, come il cinema o la letteratura”. È quindi logico chiedere se
creare una colonna sonora per un videogame potrebbe essere un lavoro nelle corde degli Asenblut: “Se una compagnia ci contattasse tenteremmo sicuramente di essere all’altezza del compito. Con questo album abbiamo lavorato in senso contrario: l’ispirazione per ‘Helden Des Ewigen Sturms’ viene da “Heroes Of The Storm” e, una volta scritto il pezzo, abbiamo contattato la Blizzard. Magari non ne verrà fuori niente ma non si sa mai... Scrivere la colonna sonora di un videogame sarebbe una sfida veramente
impegnativa ma è qualcosa che farei assolutamente, avendone la possibilità” aggiunge Claus. Come altre band della scena tedesca, gli Asenblut scrivono i testi delle loro canzoni nella loro lingua: “Molte band provenienti da qualunque parte del mondo scrivono i testi nella loro lingua e vengono apprezzate in ogni caso,
quindi a volte il problema della comprensione può essere accantonato. Abbiamo già provato a tradurre uno dei nostri pezzi in inglese nell’album precedente e abbiamo avuto molti riscontri positivi, se anche stavolta il responso sarà buono si potrebbe pensare alla produzione di un doppio album. Non abbiamo intenzione di rinunciare ai testi in tedesco perché siamo molto attaccati alla nostra lingua ma dare la possibilità di capire i nostri testi a molte più persone sembra un’ottima idea; d’altro canto tradurre fedelmente le canzoni sarebbe impossibile, perché la metrica del tedesco
non ha nulla a che fare con quella inglese”. Alla soglia del decimo anno di attività, i due Asenblut si sentono chiedere se, potendo tornare indietro, si comporterebbero diversamente da quanto fatto: “Sì” ammette candidamente Claus “Penso spesso a come sarebbero venuti fuori i vecchi album se avessimo avuto un budget più cospicuo a disposizione quando li abbiamo registrati. Inoltre per un certo periodo abbiamo avuto una carenza di musicisti, perciò era complicato fare qualunque cosa, dalla produzione di nuovo materiale agli eventi live. In certi momenti forse avremmo potuto fare di più e meglio”. Tetzel rincara la dose: “Siamo arrivati al terzo album e potrebbe esserci la svolta definitiva per noi, quella che ti distrugge o ti dà lo slancio che ti è mancato fino a questo punto. Tutto ciò che abbiamo ottenuto in nove anni è stato frutto di immensi sforzi e sotto un certo punto di vista avremmo apprezzato un maggiore supporto. Un’altra cosa che ci è mancata all’uscita dell’album precedente è stato il sostegno da parte dell’etichetta: nonostante fossimo in sintonia sul piano umano, mancavano i mezzi per pubblicizzare il nostro lavoro. Adesso la situazione è diversa, abbiamo le carte in regola per far ottenere a “Berserker” l’attenzione che merita”.
nuovo disco "Berserker" e' il ici! ve lo dei furenti teuton Tetzel von presentiamo con Cleinkrieg Asenblut e Claus
La FURIA DEL BERSERKER
di Alessandra Mazzarella METALHAMMER.IT 11
th Resonance", I Soilwork pubblicano "Dea e inediti che fara' una compilation di rarita' n. ce ne parla il sicuramente ingolosire i fa frontman bjorn strid!
e t r o M i d a z n a n Riso
Ventuno anni di sudore e sacrifici per raggiungere la vetta del death metal svedese, una lunga scalata che ha portato i Soilwork a guadagnarsi l’olimpo del genere, a instaurare una solida fanbase con migliaia di adepti sparsi in giro per il mondo. Per festeggiare questo ventunesimo anniversario d’attività del gruppo, gli scandinavi hanno regalato ai propri fans una raccolta di inediti e rarità intitolata “Death Resonance”, che contiene, fra gli altri, l’EP “Beyond The Infinite” a suo tempo rilasciato nel solo mercato asiatico (e da noi recensito nel numero 4 del 2014). Un’uscita inusuale che marca l’ennesima release per il gruppo di Helsingborg capi-
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tanato dal carismatico Björn “Speed” Strid, che abbiamo contattato per farci dire qualcosa in più su questa nuova fatica discografica. “Mi sento alla grande riguar-
do a questo disco! È una compilation unica, che comprende pezzi scritti in un arco di tempo di dieci anni,
brani remixati e masterizzati apposta per acquisire un sound omogeneo.”. Quando si pubblica un
disco del genere ci si chiede sempre se quello sia il momento adatto, e qui il vocalist puntualizza: “Non ne sono sicuro, però nell’ultimo periodo ho notato che diverse
di Stefano Giorgianni
band rilasciano compilation, magari qualche volta senza essere troppo pensate. In questo senso ti dico di sì, era il momento giusto.”. Dettaglio che colpisce ancor prima di far partire la musica è il sublime artwork, che per Björn è “la conseguenza di quello di “The Ride Majestic”, drammatico e silente. Questa copertina rappresenta le nostre emozioni durante le registrazioni dell’ultimo full-length; abbiamo avuto diversi lutti familiari e questa cover rappresenta una ‘chiamata dall’aldilà.”. “Death Resonance” rappresenta per il pubblico l’occasione di intravedere anche altri lati della musica dei Soilwork e il vocalist
ra t s o n a ll e d o s o li g o g sono or e h c e n io s s a p a ll integrita’e de i. n o z n a c le e r a e r dimostriamo nel c
Guarda qui il Lyric Video di ‘Helsinki’, Opening Track di “Death Resonance” spiega perché le tracce qui incluse sono state accantonate ai tempi in cui sono state scritte: “La maggior parte delle canzoni non hanno trovato posto negli album forse per il loro carattere più progressive o per qualche sfumatura che in quel periodo non ci rappresentava appieno. Ora, essendo una band più dinamica, incline a continue svolte nello stile, abbiamo creduto fosse il momento per una release così, con i nostri “brutti anatroccoli” che trovano finalmente il loro spazio nella discografia.”. La compilation è anche un modo per tributare i fan per il loro supporto, come conferma il frontman: “In certo senso di
Death R e 01. Hels T racklis sonancein k i t 02. Dea 03. The th Resonance face End Begins Be low The 04. My SurN e r 05. The ves, Your 06. Res se Absent EyeEveryday Tool 07. Wheisting The Cur s 08. For n Sound Collidrent 09. Sweever Lost In V es 10. Sad et Demise ain 11. Ove istic Lullabye 12. Mar rclocked 13. Sov tyr 14. Whe ereign 15. Kill rever Thorns ed By Ig nition May Grow
sicuro. Abbiamo fatto storcere il naso a un sacco di gente quando abbiamo rilasciato “Beyond The Infinite” solo in Giappone, e ce ne siamo accorti quando molti hanno ascoltato i pezzi su YouTube, dimostrando apprezzamento. Quindi questa compilation è per tutti quelli che volevano quell’EP nella loro collezione.”. Negli anni i Soilwork hanno anche dimostrato di tenere di più alla loro integrità di artisti che a rendere la loro musica più commerciale, “ci si sente più in pace con sé stessi quando si realizza che non si può diventare la più grande band del pianeta, anche se questo potrebbe accadere (ride, ndr.)”
afferma Björn “sono orgoglioso della nostra integrità e della passione che dimostriamo nel creare le canzoni. Un sacco di sacrifici sono stati fatti, incluse cattive scelte lavorative, ma l’amore per la musica rimane sempre.”. E riguardo al proprio genere il vocalist riferisce: “Non importa quanto serie o sincere siano le tue canzoni o i tuoi testi, voglio che sul palco la gente viva sempre come fosse una festa. So che può suonare superficiale, ma preferisco viverla così.”. Il frontman continua parlando dei propri testi, che “sono molto intimi e riflessivi, il che spero possa far arrivare un messaggio e ispirare la gente.
La musica è comunque il mio rifugio più sicuro”. Si parlava in precedenza dell’integrità dei Soilwork e del successo, termine che Björn raggiunge quando “ricevo il master del nuovo album, mi sdraio e lo ascolto per la prima volta nella sua interezza, sentendo brividi lungo la spina dorsale e provando una connessione totale con ciò che si fa per vivere.”. Tornando a “Death Resonance” facciamo focalizzare il vocalist sulla tracklist e chiediamo se qualcuno di questi pezzi può diventare un nuovo classico o cavallo di battaglia per i Soilwork: “’Death In General’ e ‘Helsinki’, credo questi brani staranno con noi molto tempo.”.
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ica esi, ma la mus d n a l ir o n o s n No nk a voi l'irish pu o c ec ! a s es t s e' la rock dei the rumjacks! Melodie allegre e cangianti si riverberano dalle lontane terre australiane, arie estranee all’oceanico continente, più confacenti alle verdi pianure d’Irlanda. Non fatevi dunque ingannare dalla provenienza di questo quintetto d’ineffabili musicisti, pronti a scuotere il terreno e le membra con le loro canzoni, a immergervi nella tradizione gaelica con raggianti composizioni a tinte punk rock. I The Rumjacks, nobili menestrelli facenti parte del genere che annovera fra i suoi ranghi i bostoniani Dropkick Murphys e i teutonici Fiddler’s Green, si presentano ai microfoni di Metal Hammer con la loro terza uscita da studio, intitolata “Sleepin’ Rough”: “Vi ringraziamo di ospitarci sulle vostre pagine” esordisce il bassista Johnny McKelvey, che continua “siamo appena tornati da alcuni show in Germania e Olanda, quindi siamo molto stanchi, ma anche felici!”. Johnny ci introduce subito la scelta di suonare musica irlandese in Australia: “È stato un po’ come ritrovare noi stessi in questo tipo di musica. Il nostro cantante è di Glasgow, mentre tutta la mia famiglia proviene da Belfast e quella di Adam (mandolino, banjo) è di Dublino, quindi siamo tutti cresciuti con la celtica. Quando siamo cresciuti ci siamo orientati verso altri generi, lasciando indietro le radici musicali e incontrando il punk rock. Poi, quando abbiamo scoperto band che mischiavano queste due cose, abbiamo deciso di seguirne la strada, tornando ad apprezzare quel che ascoltavamo un tempo.”. La conversazione si sposta sui gusti musicali dei membri della band, che passano da “rockabilly, hardcore, ska e thrash...”, però c’è spazio anche per il Metal, con “gli Slayer, d’altronde chi non prova a suonare qualcosa loro quando imbraccia lo strumento per la prima volta?!” e poi “Anthony e Adam ascoltano un sacco di metal e il nostro autista in Europa era il bassista dei Vader, suonava sempre nel van. Poi ti nominerei anche King Parrot e Thy Art Is Murder, due famose band australiane.”. Si passa a “Sleepin’ Rough” e alle differenze con i dischi precedenti: “Credo sia un bel misto tra i nostri due album passati. Questa è stata la prima volta in cui abbiamo radunato
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Guarda il video di ‘A Fistful O’ Roses’
The
s k c a j Rum
PUnk-
di Stefano Giorgianni
severanza
tutto in una sola stanza, tutta la strumentazione, il produttore, l’ingegnere, tutti noi, questo per aver un sound più vivo possibile”. Johnny spiega in seguito come si svolge il songwriting, che vede “Frankie con parte di una canzone pronta, con qualche accordo o l’idea delineata, poi ci mettiamo intorno al tavolo per far funzionare la cosa, con strumenti acustici di solito. Successivamente andiamo in studio e accendiamo gli amplificatori.”. La carriera dei The Rumjacks è stata segnata da qualche cambio di stile, con sprazzi dinamici ed eterogenei, per non annoiare i fan e soprattutto per sperimentare, cosa che forse ha
penalizzato la band: “Questo genere, con non molti gruppi che vi militano, è abbastanza commerciale, alcuni hanno fatto successo inserendo brani in televisione, nei film, negli sport” puntualizza Johnny, che prosegue “non so quale sia la chiave, ma credo che l’audience sia ampia e non comprende solo gente che ascolta musica celtica irlandese.”. ‘A Fistful O’ Roses’ è il primo singolo dal disco, una canzone che “si concentra sulla distruzione della vita notturna e della scena musicale a Sidney, una città che ancora chiamiamo casa ma che non riconosciamo più. Politici corrotti, il costo della vita esorbitante e la linfa vibrante del centro succhiato via dalla nostra capitale, si tratta di
questo. È triste, perché una volta Sidney era una grande città e molto viva dal punto di vista musicale, ora tutto è cambiato e sembra che non possa migliorare.”. Il discorso termina quindi sulla scena metal, sulla quale chiediamo qualche dettaglio in più: “Sfortunatamente non c’è un granché, come per tutto il resto. Molti locali stanno chiudendo perché non possono permettersi di chiamare e pagare le band e sempre meno gente accorre ai concerti. Questo è MOLTO triste per noi, soprattutto perché ci sono grandi gruppi a Sidney, anche metal, che potrebbero farsi valere... solo che non c’è molto da fare. Questa è la risposta più felice che posso dare...”.
Metti insieme tre musicisti dal pedigree internazionale ed avrai sorprese inaspettate oltre a gustose anticipazioni per i prossimi mesi….
SUONARE NON E' MAI di Andrea STATO COSI' DIVERTENTE Schwarz Cover band o no cover band? Questo é il dilemma che attanaglia migliaia di appassionati in lungo ed in largo della Penisola, c’è chi vede la morte della musica, quella originale e chi invece le considera come una buona colonna sonora per passare una serata in compagnia di amici in birreria. Lungi da noi in questa sede dibattere l’argomento, ci sono anche realtà strane, che apparentemente sembrano uno strano intreccio di talenti musicali provenienti da background diversissimi tra loro. BGH, acronimo di Burns - Golinelli - Hunt, è tra questi ultimi. Musicisti che negli ultimi anni si trovano ad essere la backing band di Vasco Rossi e che si ritrova a suonare in giro per l’Italia quasi per gioco come ci raccontano loro stessi in un’affollata conferenza stampa in occasione della data tenutasi in quel di Pianezza (To) qualche settimana fa e curiosi di capire che tipo di spettacolo questo terzetto possa offrire: “Rock and Roll! Questo è quello che ci piace ascoltare ed è anche quello che preferiamo suonare, ci si può aspettare materiale di Jimi Hendrix, Black Sabbath, Alice Cooper, Kiss, Beatles, The Who e così via. La nostra alchimia è perfetta quando suoniamo con Vasco e quindi perchè non possiamo divertirci e divertire il pubblico? È una bellissima esperienza trovarci a suonare, oltre ai nostri impegni con Vasco
per una volta vogliamo suonare a modo nostro brani che ci piacciono per il semplice gusto di suonare.” Quello che traspare in tutto questo strampalato contesto è il clima disteso e divertito che regna tra loro “siamo tre monellacci con una voglia enorme di suonare insieme dal vivo, non ci sono ambizioni di nessun genere tranne una...il divertimento. Siamo molto soddisfatti del fatto che la
gente abbia capito la nostra sincerità musicale, ci stanno chiedendo di aggiungere date su date ma abbiamo tantissimi altri impegni che non ci permettono di andare oltre i sette show programmati. Questa per noi tre è un’enorme soddisfazione che va al di là di tutto”. Questi tre musicisti hanno suonato per Alice Cooper, Evanescence, Black Label Society, Franco Battiato, Stadio, Gianna Nannini e ci si stupisce sempre di come si riesca a comporre e suonare stili così diversi in maniera così
magica essendo solo sette le note musicali: “Le note musicali sono come le persone, sono magiche nella misura in cui riesci a mescolarle insieme, ogni volta in maniera diversa come quando devi comporre un puzzle. L’arte è così, non c’è un modo preordinato di scrivere e di concatenare le note, è pura magia. E poi devi avere
orecchio: non puoi dire che tutto il metal o qualsiasi altro genere musicale sia uguale. Se ti piace vai dentro le cose, ti addentri e scopri tante sfacettature diverse, noi siamo i BGH e facciamo queste cose a modo nostro. Abbiamo le nostre personalità ed i nostri suoni. Amiamo fare i musicisti!”. Sul palco così come durante la conferenza stampa Burns / Golinelli / Hunt sono degli autentici mattacchioni camaleontici uniti dalla voglia di stare insieme e di vivere il presente ma sempre con un occhio di riguardo al futuro come traspare dalle parole di Stef
Burns: “come abbiamo già detto il feeling tra di noi è incredibile, Will Hunt è certamente tra i migliori batteristi con i quali mi sia capitato di lavorare, sul serio. Ed è per questo motivo che io e Will abbiamo deciso di lavorare ad un nostro progetto insieme negli Stati Uniti con l’obiettivo di produrre un album di Hard rock melodico per i primi mesi del 2017. Al momento abbiamo coinvolto Jeff Blando, già con Slaughter e Vince Neal e sta venendo bene, cerchiamo di suonare del cosiddetto Classic rock di stampo melodico con un taglio il più moderno possibile. Siamo già in trattativa con qualche etichetta ma è ancora tutto allo stato embrionale, non ci possiamo sbilanciare troppo ma avrete presto notizie su di noi!” Nonostante i tantissimi impegni il terzetto non vede l’ora di bissare questa esperienza il prossimo anno “ne abbiamo già parlato tra di noi, ci piacerebbe tantissimo riprovare a trovarci insieme su di un palco a divertirci suonando in lungo ed in largo per l’Italia ma siamo consapevoli che bisognerà vedere come si svilupperanno i prossimi mesi e quali spazi ci verranno concessi dai tanti appuntamenti già programmati. Ma ci piacerebbe veramente tanto, speriamo. Nel frattempo viviamo giorno per giorno, ma se succederà avrete presto notizie. Stay rock!!!”
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Dal vivo i Dark Buddha Rising sono una vera e propria esperienza mistica. La band finlandese, che ha in cantiere il successore di 'Inversum', sa officiare rituali oscuri che trasportano nell'abisso sonoro dove la notte sa trasmutarsi in magiche alchimie crepuscolari. Incontriamo a Tilburg il chitarrista Vesa Ajomo.
MANTRA NOTTURNI di Barbara Volpi Foto Live di Marco Manzi (Helrocks.com)
Vengono da Laitila, un posto sperduto vicino alla costa finlandese, uno di quei luoghi dove d’inverno è notte quasi sempre. L’oscurità, dunque, è più conosciuta della luce. Ti culla, ti protegge, ti parla, ti sussurra mantra tenebrosi che diventano il tuo intimo linguaggio. L’occultismo quindi diventa l’idioma più diffuso, e se fai musica (cosa che accade spesso quando sei costretto a stare al chiuso quasi sempre e ad intrattenerti) esso arriva ad esprimersi attraverso il suono. Ora il sestetto si è trasferito nella vicina Tampere, dove la scena musicale pullula di nuove band, tutte dedite a sviscerare geroglifici sonori degni delle messe nere, tanto
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che si è arrivati a parlare di ‘Finnish occult scene’. Vesa Ajomo (ex Hexvessel, anche Mr. Peter Hayden e Atomikyla) è un cappellone biondo con la
do i tempi come quando suona. “La band si è formata intorno al batterista e al bassista che sono fratelli. Avevamo tutti la passione per lo space rock ed eravamo accomunati da as-
colti come Neurosis, Ufo Mammut, ISIS, pelle ricopPelican. Poi, con il tempo, ci erta di simboli esoterici, che siamo diretti in luoghi ancodeve aver fumato più di un ra più oscuri e musicalmente cammello marocchino e quindi più heavy. Tutti noi siamo parla piano e a lungo, dilatan- interessati all’esoterismo e,
essendo io anche il grafico del gruppo, mi piace studiare il simbolismo occulto. Io sono anche quello che scrive le liriche, per cui mi viene naturale esplorare attraverso di esse i percorsi dei rituali magici”. Ad esempio, uno dei tatuaggi in bella vista su un suo braccio riprende due triangoli capovolti incrociati, che rappresentano la congiunzione di ombra e luce, di mondo materiale e mondo spirituale.“Ritengo che per diventare un buddha sia necessario toccare il seme dell’ombra, che è semplicemente l’opposto e il complementare della luce. Non possono esistere l’uno senza l’altro. Lo comprendi anche quando suoni. Non ci possono essere note alte senza quelle basse e non c’è musica senza silenzio. La musica è una sorta di ini-
Ritengo che per diventare un il re a cc to o ri sa es ec n a si a h d bud licep m se è e ch , ra b m l’o el d e m se entare m le p m co il e o st o p p l’o te en m della luce.
ziazione, come la vita. Spesso si affrontano situazioni molto dolorose, l’esistenza ti spinge verso anfratti claustrofobici di disperazione, ma se penetri questi luoghi mentali con con il suono riesci a decodificarne il significato e a privarli della loro malignità. Spesso quando siamo sul palco avviene una sorta di esorcismo, e ne usciamo tutti purificati, noi e il pubblico. La nostra esplorazione dell’ombra non è mai negativa, ma trionfale”. In effetti questi
ragazzi dalla pelle diafana non hanno l’aspetto delle persone depresse, anzi, sono pieni di energia. “Non siamo esseri umani tristi. Siamo solo degli esploratori dell’esistenza e delle sue proiezioni. Ci interessano gli stati di coscienza fuori dall’ordinario che il suono, che è una vibrazione primordiale, può suscitare. Lì i demoni baciano gli angeli ed avviene il matrimonio alchemico tra gli opposti”. Il gruppo sta già lavorando al successore di ‘Inversum’, anche se la maggior parte del lavoro verrà fatta all’ultimo momento. “Di solito registriamo nel nostro studio di registrazione piuttosto velocemente. In realtà le canzoni nascono spontaneamente da lunghe jam session, quindi non abbiamo bisogno di pianificare nulla in anticipo, o di lavorare in pre o post produzione. Come ci vedete dal vivo, così siamo in studio. Improvvisiamo sempre. E’ la musica che ci conduce nei suoi territori, noi semplicemente ed umilmente la seguiamo. Poi ne
definiamo un perimetro per strutturare l’album, ma è un lavoro conseguente. Definirei la nostra vena creativa come un viaggio, un processo, un perenne work in progress”. E le liriche, che sembrano i sermoni ermetici di un sacerdote gnostico? “Anche i testi nascono come un flusso istintivo dove le parole si agganciano l’una all’altra generando un significato che si comprende solo a posteriori. Spesso la musica è ispirata dalle immagini, anzi, nella mia visione, poiché io sono anche un designer, quei due linguaggi sono strettamente connessi. ‘Dakhmandal’ ne è stato un esempio e il mio corpo tatuato ne è l’incarnazione fisica”. I mandala sono simboli grafici esoterici che stimolano certi stati interiori e la musica spesso nasce come la loro trasposizione sonora. “Non sono un sostenitore delle teorie cospirative, ma se io immagino il mondo com’è oggi veramente mi viene visualmente in mente il simbolo degli Illuminati. Vedo un triangolo con il vertice che è come il capo di una piovra, la quale poi muove i suoi tentacoli verso il basso. E’ difficile lottare contro tale sistema potentissimo ma la musica, se stimola le cosci-
enze, può essere un veicolo di risveglio”. I Dark Buddha Rising celebrano con le loro lunghe litanie una personale forma di spiritualità. “Ho letto molti testi esoterici buddisti ed induisti. Ciascuno contiene qualcosa di buono, anche se non mi convince mai in toto, fino al punto della fidelizzazione. Alla fine la ricerca deve essere libera e quel cammino di libertà passa a parer mio più attraverso il suono che alla religione”. Anche senza credere in norme precostituite, qualsiasi musicista che si esibisce in pubblico non può esimersi dal comunicare, il che determina un certo grado di responsabilità. “Non siamo dei profeti. Siamo dei musicisti che cercano soltanto di passare le proprie esperienze”. Eppure la ‘Finnish occult scene’ continua ad acquisire proseliti al di là della sua volontà. “La Finlandia è una terra peculiare perché è molto isolata. Questo crea l’humus per l’innestarsi di incesti particolari, fomentati dal fatto che è freddo e buio per la maggior parte dell’anno. Quando non puoi esplorare fuori, esplori dentro” spiega Vesa “e ciò ti porta inevitabilmente all’incontro con i mondi paralleli, che poi la musica semplicemente canalizza”.
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I My Regime sono la nuova band di Christian “Spice” Sjöstrand , ex-chitarrista e voce negli Spiritual Beggars ora in forza ai Kayser, altra band di coriaceo Thrash Metal: “Avevo scritto venti canzoni prima di chiedere a Bob Ruben (batteria) se fosse interessato nell’impararne qualcuna e magari registrare un demo. Abbiamo preso uno studio, l’idea era quella di registrare 3-4 canzoni in un week end. Il giorno prima di registrare mi è venuta l’idea di farne un disco, Bob fu d’accordo e registrammo le tracce di batteria di tredici canzoni in un fine settimana. Dopo di che ho contattato la Scarlet Records per sapere se fosse interessata nel produrre l’album.” Reclutati Alexander Sekulovski al basso e Marvin Karenius alla seconda chitarra la band completa l’album. Un disco che sa di revival, di classico Thrash marcio e veloce, forse poco personale, una scelta che Spice motiva così: “E’ il sound che mi piaceva da ragazzino ed ho sempre voluto suonare. Quando ho fondato i Kayser ho voluto seguire questa strada, poi all’alba del secondo disco i miei compagni della band hanno voluto cambiare il sound. Con i My Regime invece è proprio questo quello che voglio
fare”. Il Metallo contenuto in “Dogmas” è accostabile per molti versi al classico suono Slayer, principalmente composto da brani brevissimi di circa due minuti, più qualche pezzo leggermente più strutturato utile per raggiungere il minutaggio minimo di 35 minuti perché “Dogmas” possa definirsi un album e non un EP. Un discorso poco originale, ma sentito come necessario per Spice: “Non importa quello che pensa la gente, se non è originale
chi se ne frega. Non m offendo quando mi dicono che assomigliamo agli Slayer, questo è il disco che loro si sono dimenticati di registrare. Naturalmente cerco di arricchire (“to spice up” in originale, burlone!)” il suono con elementi personali. Se non ti sta bene ok, chi se ne frega.” Non importa l’originalità, conta solo l’attitudine e la voglia di spac-
care tutto e i My Regime non si tirano indietro: ”Le band uscite negli ultimi dieci anni hanno suoni iperprodotti e spessi e questo non mi piace. Manca loro l’energia che cerco quando ascolto musica.” E nell’album della sua band l’energia non manca, il sound ruvido e sporco, quasi scarno, trascina e diverte senza grossi picchi o momenti di stacco, ed è lo stesso Spice
a confermare quest’impressione: ”Non c’è una particolare ‘hit’ nel disco, è un fluire di rabbia e frustrazione in musica lungo tutto l’arco del disco. Fosse stato per me avrei incluso solo i pezzi veloci, ma per contratto dovevamo raggiungere i 35 minuti perché fosse un album completo e non un’EP, così ho incluso anche qualche pezzo meno veloce per rifiatare e dilatare un po’ il disco.” Una dichiarazione d’intenti niente
male quindi, una sfrenata corsa a tavoletta per sfogare i nervi e divertirsi nel farlo. Con testi arrabbiati e attitudine sincera cui Spice tiene molto: “Quello che conta è che a me il disco piaccia. Se piace a qualcun altro è una cosa in più per me. Volevo solo ottenere un disco ruvido e veloce, registrato senza effetti o produzioni particolari, un po’ come fece Rick Rubin con “Reign in Blood”. Viene spontaneo dunque chiedersi se i My Regime siano solo lo sfogo temporaneo di un’artista arrabbiato, ma Spice chiarisce che non è così: “Ho già dieci canzoni pronte. Voglio buttarne giù un altro paio per il prossimo disco. Non vedo questa band come un progetto estemporaneo. Credo di aver bisogno di questo gruppo per sfogare rabbia e frustrazione e con i ragazzi della band ci riesco benissimo.” Basta l’attitudine senza compromessi per invogliare i metalheads ad ascoltare l’album, nell’affollato panorama odierno? Secondo Spice sì: “Se siete stufi di ascoltare Metal ripulito e digitalizzato e volete sentire quel feeling dei vecchi dischi del passato allora date una possibilità a “Dogmas” ed immergetevi in esso. Di sicuro troverete qualcosa che fa al caso vostro.”
Vi presentiamo "Dog ma", ultima fatica dei My regime
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spaccare
di Max Novelli
Terzo full length per i temperance, che dimostrano di non volersi piu' fermare!
La Forza delle Parole Ci sono gruppi che in uno stretto lasso di tempo riescono a entrare nel cuore della gente, a scalare l’irta parete scoscesa che porta al successo, e fra questi ci sono i nostrani Temperance. Troppo semplicistico sarebbe definirli gli Epica italiani, ma sta di fatto che per magniloquenza delle composizioni e per l’assoluta presenza scenica della vocalist Chiara Tricarico, la band in cui milita il mago della sei corde Marco Pastorino (Secret Sphere) non ha nulla da invidiare ai celebri olandesi. Dall’anno di formazione, i Temperance hanno rilasciato ben tre album, a scadenza pressoché annuale, dimostrando un’invidiabile alacrità e sveltezza nel songwriting, oltre a dedicare il giusto tempo alla promozione delle release, supportando grandi nomi del Metal internazionale. A tal proposito il prossimo settembre uscirà il terzo full-length intitolato “The Earth Embraces Us All”, non abbiamo dunque perso l’occasione di parlarne col funambolico bassista Luca Negro. All’inizio della conversazione ci concentriamo sul titolo altisonante e carico di significato scelto per questa release: “L’intenzione, fin dalle parole del titolo, è quella di trasmettere un messaggio assolutamente positivo, non solamente attraverso il “canale” musicale, ma anche e soprattutto tramite le parole. Siamo convinti del potere magico che hanno le parole nel trasmettere emozioni. Potremmo dire che mentre la musica fa muovere i corpi,
le parole fanno “smuovere” le coscienze” esordisce il bassista, che poi continua “Il titolo è infatti proprio una presa di coscienza del presente, del qui ed ora, hic et nunc. E con tutte le sfaccettature questo titolo può scaturire: quella religiosa e spirituale, quella ecologista, quella degli amanti dello spazio e del rock psichedelico, quella dei fisolofi nichilisti, quella di coloro che pensano alla natura come forma maligna e castigo divino, a quella di coloro invece che guardano alla natura come forma benigna. Un elenco che è volutamente insolito, però tanto il titolo quanto i brani dell’album
trasmettono un messaggio che ognuno ha facoltà di interpretare singolarmente, ma con la costante volontà di focalizzarci in modo positivo sul presente.”. Come detto in precedenza “The Earth Embraces Us All” è stato partorito a solo un anno da “Limitless”, questo perché “credo che succeda spesso a molti, se non a tutti, che quando si finisce di dire una cosa, non si è nemmeno fatto il primo respiro che si scopre che c’era ancora molto da dire
oppure che qualcosa l’avresti potuta dire semplicemente in modo diverso, ecc. Ecco questo è più o meno quello che è successo a seguito di “Limitless”, sentivamo di avere qualcosa da aggiungere e abbiamo iniziato a lavorare immediatamente, cogliendo il tutto come una sfida, e vivendo a pieno il lavoro fatto in studio, vagliando tra soluzioni diverse dal nostro solito, e sempre tenendo conto di ciò che ci piace veramente suonare.”. Il merito all’origine di questa serrata attività e ricchezza nel songwriting è però di
“Marco e Giulio, hanno fin da sempre un’alchimia che li lega in maniera profonda e si manifesta in studio. Lavorano in simbiosi, cercando e trovando instancabilmente soluzioni compositive. Il tutto con una velocità strepitosa. Senza nulla togliere ovviamente a lavoro che rimane comunque di un gruppo, di una band.”. Scavando più a fondo nei dettagli dell’album si scorge un brano nella nostra lingua, che è dovuto alla ricerca di “molte soluzioni innovative (per noi e per la musica che i Temperance hanno
di Stefano Giorgianni e Alessandra Mazzarella
prodotto finora s’intende!). Una soluzione che ci affascinava molto è stata quella che abbiamo optato appunto in “Maschere”, il cui testo è cantato completamente in italiano. La lingua inglese internazionalizza molto, cantare nella propria lingua non deve essere un motivo di disprezzo per un gruppo. Certamente non è facile abituare le orecchie immediatamente alla lingua italiana, soprattutto dopo la prima parte dell’album, che è cantata totalmente in inglese.”. E qui proponiamo una strana idea, di un album del tutto in italiano: “Mi cogli impreparato su questo (ride, ndr.). Potrebbe essere un’idea, certamente vagliabile.”. Per ultima cosa discutiamo dei diversi tour che li hanno coinvolti e di ciò che è rimasto più impresso alla band: “Parlando in modo personale, l’esperienza che ricordo con più piacere sono i giorni passati nel tour sulla costa Ovest degli States a fine 2014, a seguito dell’uscita del primo disco. Vedere un mondo molto differenze dal nostro, e poi le varie situazioni vissute e la calorosità che ho trovato nelle persone e nei musicisti d’oltremare ha lasciato dentro di me un’energia positiva che sento ancora oggi” e poi termina affermando che “gli Slipknot, a Giugno del 2015, e per quanto mi riguarda sono stati artisti ai quali ho pensato e sui quali ho ragionato molto dopo aver condiviso lo stesso palco, considerando lo show e tutti gli effetti, l’energia e la potenza di tutta la musica.”.
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Gli artisti svedesi del prog metal sono tornati con un altro disco di classe. Ce lo presentano Tom Englund e Johan Niemann! Alcuni artisti si scavano un posto nel cuore dei loro seguaci per la loro innata abilità nel regalare infinita bellezza con ogni lavoro pubblicato. Gli Evergrey fanno parte di questa cerchia ristretta, con il loro incredibile talento nel temperare la freddezza chirurgica del progressive con una carica emotiva che solo pochi esperti del settore sanno infondere nelle loro creazioni. Sono il vocalist Tom Englund e il bassista Johan Niemann a parlarci del nuovo album della band, “The Storm Within”: “C’è una frase nell’ultima canzone dell’album, “There’s not a sound, just a storm within”, e ciò che vorrebbe significare è che nella vita di tutti i giorni ci imbattiamo in moltissime persone ma non abbiamo la minima idea di cosa succeda dentro di loro”. Spiega Tom: “l’album gira intorno alle nostre lotte interiori, a ciò che si fa per riprendersi dopo
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Tempesta Interiore
aver raggiunto un punto di rottura. La “tempesta interiore” è il tormento che ci portiamo dentro, invisibile agli occhi di chi ci guarda”. “The Storm Within” è nato seguendo una serie di procedure già collaudate dagli Evergrey:
Jonas, è molto impegnativo perché lui è molto esigente, come me, e fa di tutto per ottenere esattamente il suono che ha in testa. Poi abbiamo lavorato allo stesso modo con le
chitarre ed è stato molto interessante. “Abbiamo Parlando per me, registrare registrato “The Storm in presa diretta è un’avvenWithin” praticamente come tura, non sai mai cosa ti abbiamo fatto con l’album capita. Ogni volta il risultato precedente” ci racconta Joè diverso e si cerca sempre di han “prima basso e batteria ottenere la registrazione perin presa diretta, è stato bello fetta, è difficile ma ne vale perché adoro suonare con la pena”. Tocca a Tom aggi-
di Alessandra Mazzarella
ungere il suo punto di vista: “Io invece mi sono occupato di registrarli e per me non è stato così difficile, alla fine gira tutto nell’ottenere la registrazione giusta e non è un peso ma un privilegio. Abbiamo registrato ai Top Floor Studios di Gothenburg, che si trovano nello stesso edificio in cui abbiamo registrato un DVD dieci anni fa. Il mixaggio invece è stato fatto in Danimarca da Jacob Hansen, come per l’ultimo album”. Gli Evergrey hanno già estratto due singoli da ‘The Storm Within’: ‘Distance’ e ‘The Paradox Of The Flame’, di cui sono disponibili i videoclip, girati dal pluripremiato regista Patric Ullaeus nelle magiche e desolate lande islandesi, tra distese ghiacciate e cieli immensi: “La parte più drammatica del video di ‘Distance’ non è tanto la mia linea vocale in sé, quanto piuttosto il magnifico paesaggio islandese e, ovviamente, il
Guarda qui il video di ‘Distance’ da “The Storm Within”. Clip girato dal noto Patric Ullaeus
messaggio contenuto nella canzone” commenta Tom, che ci tiene a esprimere la sua preferenza: “se devo dire la mia, il video di ‘The Paradox Of The Flame’ sarà ancora più bello, credo sia il più bello che abbiamo girato in tutta la nostra carriera”. “The Storm Within” vanta una collaborazione di tutto rispetto con Floor Jansen, che divide il microfono con Tom nello splendido duetto ‘In Orbit’. Da dove nasce questa collaborazione? Il vocalist non esita a raccontarci la nascita di questo fortunato paso doble: “Conosco Floor dai tempi degli After Forever, è sempre stata una nostra grandissima fan, oltre ad essere una carissima amica mia e di mia moglie Carina. Un giorno, mentre chiacchieravano davanti a un bicchiere di vino, mia moglie le chiese, senza prima consultarsi con me” precisa Tom, un po’ piccato “se le sarebbe piaciuto can-
tare su uno dei nostri album. Floor disse che le avrebbe fatto piacere ma da noi non era mai partita la richiesta. Carina quindi mi suggerì di chiederle di partecipare alle nostre registrazioni, ma io non avevo una canzone per lei e per me è fondamentale che le canzoni siano cucite addosso a qualcuno per fargliele cantare. Un giorno Rikard, il nostro tastierista, mi ha mandato la registrazione di una linea di tastiera e, ascoltandola, ho pensato subito che fosse molto vicina allo stile dei Nightwish; abbiamo sviluppato l’intera canzone e poi chiesto a Floor di prestarci la voce: ‘In Orbit’ è nata così”. Floor Jansen è una delle cantanti più apprezzate del momento con un seguito incredibilmente nutrito e fedele. Avere a disposizione un brano che la coinvolge sarebbe un asso nella manica per qualunque band, perciò quanto Tom ci rivela subito
dopo non ci stupisce, anzi, conferma che gli Evergrey sono ben consapevoli di quanti vantaggi porterà loro giocarsi questa carta fortunata: “L’intento commerciale degli Evergrey è sicuramente quello di rendersi noti al maggior numero possibile di persone. Floor ha una grande fanbase e una fortissima influenza sui suoi ascoltatori quindi sì, ‘In Orbit’ sarà il terzo singolo estratto dal nostro album e presto ne gireremo il video”. Anche Tom si è prestato recentemente a una collaborazione: lo troviamo infatti in ‘Ghost Of Insanity’, uno dei singoli estratti da “The Passage”, nuovo album degli italiani DGM: “Simone (Mularoni, axeman dei DGM, ndr) è uno dei miei migliori amici” ci rivela. “Quando mi ha chiesto di partecipare al nuovo album della sua band ho accettato immediatamente. Questa estate sono stato da lui a Rimini, abbi-
amo bevuto vino, registrato qualcosa e bevuto altro vino” scherza Tom. “Sono una band incredibile e il nuovo album è fantastico”. Le ultime parole di Tom vengono spese per la moglie, Carina Englund, per lui una compagna nella vita di tutti i giorni e anche in quella lavorativa. Ci spiega con piacere quale sia la sua posizione effettiva nella realtà degli Evergrey: “Carina è presente nei nostri album dal 1996, sia da protagonista, sia in ruoli più marginali. È come una spezia straordinaria e raffinata che arricchisce le nostre produzioni. Le piace essere coinvolta nei nostri progetti ma il suo interesse per il business musicale finisce qui. Non è mai venuta in tour con noi e non vuole farlo, ha una sua band con cui suona musica pop anni 80 ed è solo per divertimento. Lei è contenta così e noi siamo contenti di averla dalla nostra parte”.
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Jake White, in arte The White Buffalo, e' uno dei cantautori piu' in voga del momento, conosciuto sia per i suoi brani contenuti nella colonna sonora del serial "Sons Of Anarchy", sia per la sua vena intimista e profonda, nella quale immerge la sua arte tradotta in musica. Lo abbiamo seguito nella sua data del 28 luglio, quando a Modigliana, nel cuore dell’Appennino tosco-romagnolo, ha aperto il suo magnifico primo tour italiano.
Hold The Line Modigliana è un affascinante paesino abbarbicato sull’Appennino tosco-romagnolo, punto di snodo tra le province di Forlì-Cesena, Ravenna e, appena una manciata di chilometri più in là, Firenze. Una Firenze che pare quasi voler rivendicare il fondamentale ruolo del Granducato di Toscana, quando, neppure un secolo fa, Modigliana ne faceva appunto parte. Modigliana, la quale da tempo rientra nel classico circuito marchiato Strade Blu (un’iniziativa questa da applausi a scena aperta, che tende a coinvolgere le realtà musicali più interessanti sia nazionali che estere, e che vanno dal blues al country, dal folk al vintage rock, tassativamente dedicata al live e che si svolge durante l’intera stagione estiva “spalmata” tra Faenza, Modigliana, Brisighella e comuni limitrofi), per l’edizione 2016 funge da suggestiva cornice alla data di
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apertura della prima tournée italiana di Jack Smith, in arte The White Buffalo, cantautore statunitense dai più conosciuto per i suoi brani colonna sonora di Sons Of Anarchy, serial televisivo di grandissimo successo arrivato alla sua settima ed ultima stagione. Un autentico affresco
musicale, quello creato dal gigantesco Jack, completamente a suo agio nel raccontare storie di vita vissuta on the road, a schivare cazzotti nelle risse o respirando i fumi dell’alcool, dentro il quale i suoi perso-
naggi cercano forse l’atto della rivalsa, non solo l’oblio più totale. Jack è un menestrello d’altri tempi, un cantore che ama sia Bukowski che Springsteen, un eroe umile che, partito dal natio Oregon, si è impossessato
via via di ogni nota e strofa incontrate lungo il suo tormentato viaggio. Un viaggio che oggi chiama a sé nuove “anime”, qui nella Romagna più incontaminata, al cospetto di un numeroso pubblico per lo più composto da biker fanatici di Sons Of Anarchy e di tutto
di Alex Ventriglia
ciò che suona “stradaiolo”, da cultori della più sanguigna musica “a stelle e strisce” e dai molti paesani la cui curiosità è regola di vita. Affiancato dai fidati Christopher Hoffee (basso) e Matt Lynott (batteria), Jake smuove e conquista immediatamente, ‘Dark Days’ ha grandissimo potere, più che una canzone di apertura è una mantra ancestrale. ‘When I’m Gone’ è il piatto forte di ‘Shadows, Greys & Evil Ways’ (dei cinque finora incisi, forse l’album più rappresentativo del cantautore americano), appena prende il via scatta definitivamente la scintilla, di un concerto tra i più intimi e toccanti mi sia mai capitato di partecipare. Si respira aria di fratellanza, di comunione, Jake, scalzo e con a tracolla una semplice chitarra acustica, ad incantare con i suoi racconti un pubblico che appare particolarmente rapito, ‘One Lone Night’, ‘Every Night Every Day’,
Guarda qui il video di ‘I Got You’, pezzo tratto dall’ultimo full-length “Love and The Death Of Damnation”
Non un concerto come gli altri, lo spettacolo offerto da Jack Smith e i suoi The White Buffalo è un evento speciale, dove possiamo riscoprire molto di noi. di purissimo spirito bluegrass, ‘I Got You’ e ‘Chico’, entrambi estratti dall’ultimo full length ‘Love And The Death Of Damnation’, brani che sul palco assumono una dimensione più importante e decisa, specie il secondo, accigliato e meglio articolato. E ancora: l’accorata ‘Oh Darlin’ What Have I Done’, ‘Love Song #1’, l’oscura ‘Come Join The Murder’ (se Nick Cave fosse nato negli States, questa è la musica che avrebbe suonato, umbratile ed evocativa, dal coriaceo feeling southern), prima di scatenar le danze grazie alla dinamica ‘Don’t You Want It’, capace di tingere con colori accesi una serata magica in tutto e per tutto, dove sono la bellezza della musica e la semplicità dei suoi interpreti ad ergersi quali protagonisti assoluti. Piazza Cesare Battisti pulsa di vitalità e di tradizioni passate, ma fortunatamente non dimenticate in quest’incontro con uno degli artisti più veri e sinceri dell’intero panorama americano, che con Modigliana sembra aver sancito un patto segreto, ricco di significati nascosti, ma preziosi, dannatamente preziosi. E proprio a Modigliana che Jake viene raggiunto da sua moglie Kasey e dal loro figlioletto di nove anni, per proseguire insieme il cammino attraverso l’Italia, alla scoperta di un Paese che amano molto, un Paese che li stupirà ancora, anche nelle tappe di Trieste e Brescia, a coronamento di un tour che ha fatto molto parlare di sé, era
da tempo che non si libravano nell’aria sensazioni così forti ed emozionanti… Un tour nel quale han fermamente creduto Cesare ed Enrica di PMA Promotion, affiancati dall’eclettico Riccardo di Bagana Rock Agency, un trio con nel cuore la passione per il rock d’autore più solenne, trio grazie al quale lo spirito marchiato The White Buffalo ha vibrato lungo lo Stivale tricolore. ‘Into The Sun’, ‘Home Is In Your Arms’, ‘Joey White’, ‘This Year’, l’istintiva ‘Joe And Jolene’, le bellissime ed estremamente significative ‘Go The Distance’ e ‘The Whistler’, canzoni in cui l’ispirazione di Jake si tocca con mano. Jake che non smette mai di interagire con il suo pubblico, spalleggiato da Chris, bassista che non si tira certo indietro se c’è da scherzare e far battute. Ormai siamo ai pezzi finali, ai saluti, che vorremmo rimandare, è una ‘The Pilot’ suggestiva, quasi fremente, a scuotere questo incantevole spicchio di Romagna. Ma è con i capolavori di ‘Once Upon A Time In The West’, la coppia ‘Wish It Was True’ e ‘How The West Was Won’, che il cantautore dell’Oregon si congeda definitivamente, con una classe d’altri tempi, rendendo omaggio a un pubblico letteralmente in visibilio. Non un concerto come gli altri, lo spettacolo offerto da Jack Smith e i suoi The White Buffalo è un evento speciale, dove possiamo riscoprire molto di noi. Fin nel profondo.
Uno dei brani piu’ celebri di white buffalo e’ ‘come join the murder’, pezzo che chiude la serie “Sons of anarchy”
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F rateLLI DI SANGUE Stride il grammofono, con la musichetta anni ’50 che sorprendentemente funge da intro per ‘To Hell With You’, il quale irrompe senza alcun pudore né remora, un brano che, per causa ed effetto, mi ricorda la mitologica ‘Fast As A Shark’ degli Accept! Li gonfia subito così i pettorali ‘Strike Back’, secondo, attesissimo full length album marchiato Ancillotti, una band che dobbiamo tenerci ben stretta, se di gran blasone è il nome, a fare tutto il resto sono la fierezza artistica e un’attitudine mai doma. Con la band pressoché al gran completo, presenti il frontman, lo storico Bud, e il bassista Bid, gli Ancillotti orgogliosi come non mai, più il chitarrista Ciano Toscani quasi a fare gli onori di casa nei Tartini Studio 5 di Parma, incalzati dall’elettrico Fausto Tinello, fautore dell’ottimo lavoro di produzione alla base di ‘Strike Back’. Al-
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bum con il quale, diciamolo immediatamente, il quartetto sposta molto più in alto, e in maniera netta e decisa, la fatidica asticella, consapevole delle proprie ambizioni, come sottolinea lo stesso Ciano Toscani: “Credo che ‘Strike Back’ sia
veramente un grande album, sia a livello compositivo che emozionale. Siamo riusciti a comporre un album molto naturale, con maggiore varietà e dinamica e con grandi melodie senza che questo significhi minima-
mente una diminuzione di potenza e immediatezza. Appena finito di ascoltarlo, vi verrà voglia di riascoltarlo e riascoltarlo ancora! Sì, credo sia un album con una forte
identità che rappresenti in tutto e per tutto la crescita di questa meravigliosa band, grazie a delle grandi canzoni, che oggi è la cosa che ci interessa di più”. ‘Immortal Idol’ – il secondo brano che prende spunto dalla tragica uccisione di John Lennon (con tanto di finale provvisto di
di Alex Ventriglia
annuncio televisivo dell’epoca) per puntare il dito contro coloro i quali, i propri idoli, vorrebbero ucciderli, e non solo amarli – pare infatti voler subito confermare questa varietà stilistica, con i suoi tempi rocciosi e marziali, e con un occhio di grande riguardo verso la melodia e delle ritmiche che sanno tantissimo di Black Sabbath. E’ la volta quindi di ‘Fight’, presentato in anteprima all’Acciaio Italiano Fest e primo singolo dell’album, ovverossia un classicissimo anthem in puro Ancillotti-style, nel quale la chitarra di Ciano comincia letteralmente a carburare, prima di esplodere su ‘Firestarter’, uno degli episodi che meglio rappresentano la “nouvelle vague” griffata ‘Strike Back’ e che ha dalla sua parecchie novità, prima fra tutte quella di essere il primo pezzo “politico” scritto dal Bud (con l’assistenza dello storico James Hogg, co-autore dei testi ed elemento
Ascolta qui ‘Fight’, dal nuovo full length “Strike Back”, in uscita per Pure Steel il 16 settembre!
Per noi, la band è una famiglia, ognuno aiuta gli altri anche nei problemi di tutti i giorni. Per cui, oltre al legame di sangue, c’è il rispetto e la voglia di fare grandi cose insieme
fondamentale per tutta la scena hard’n’heavy toscana, da sempre al fianco del gigante di Prato). Velata o meno, la denuncia nei confronti di Donald Trump, pericolosamente avviato verso la Casa Bianca, si contrappone a un sound arioso e potente e al tempo stesso “patinato”, ideale da spararsi a palla fantasticando le classiche highways americane. Da applausi scroscianti la performance alle tastiere di Simone Manuli, capace di regalare quel quid melodico in più, a uno dei brani portanti dell’album, il quale nelle atmosfere può ricordare i Judas Priest “americanizzati”, ‘Turbo’ e ‘Ram It Down’ stanno lì ad insegnare… Si passa poi a ‘The Beast Is Rising’, e, come il titolo lascia presagire, è un pezzo che sale sempre più, cresce e tritura qualsiasi resistenza, prima di lasciare il campo a ‘When Night Calls’, una delle gemme più preziose oggi presentate a Parma: concettualmente vicina ad ‘Autostrada dei Sogni’, l’immortale cavallo di battaglia della Strana Officina, la canzone è
uno degli highlights assoluti dell’album, dentro il quale si intrecciano grande gusto melodico e un piglio più battagliero che mai, con il Ciano a fare il diavolo a quattro tra assoli e svisate d’autore, chiamando fuori tutto il suo amore per mostri sacri quali Jimi Hendrix, Randy Rhoads e Michael Schenker. L’impianto frigge, le sue valvole, ormai esauste, fischiano, la botta è sfiancante, al Tartini Studio 5, roccaforte dentro la quale opera Fausto Tinello, che per ‘Strike Back’ ha strizzato ogni stilla di energia: “Abbiamo deciso anche per questo album di affidarci a Fausto e ai Tartini Studio perché, oltre che avere a disposizione dei professionisti, all’interno degli studi si respira sempre un’aria molto positiva e stimolante, e quando devi registrare un album questo tipo di sensazione è l’ideale. Diciamo che il mio apporto all’album è stato decisivo sino a dove le mie conoscenze e capacità in studio potevano arrivare, il resto è merito di Fausto
Tinello, per gli amici Tino, che si è dedicato al 100% all’album superandosi anche questa volta”, il pensiero di Ciano in merito alla qualità offerta dagli studi parmigiani e al sodalizio artistico con Tino. Ispirato dai famigerati processi alle streghe nella Salem del XVII secolo, ‘Burn, Witch, Burn’ è un brano dalle fosche tinte horror e con molto di King Diamond, nel quale il four-piece suona compatto e spietato, con Brian Ancillotti inquietante nocchiero a guidar
le danze, fino ai gelidi rintocchi finali. Anche in questo caso, il punto di svolta è notevole, notevolissimo. Di ‘Lonely Road’ potremmo scrivere pagine, sia per la
bellezza di questa semi-ballad, sia per l’impatto emotivo che provoca nei presenti, sa molto di profondo tributo a se stessi, oltre ad essere un’esortazione a non mollare, e a non farlo mai. Nonostante anni tremendi, gli ultimi due particolarmente duri e difficili, durante i quali sono venuti a mancare diversi loro familiari, ragion per cui i vincoli di sangue che legano gli Ancillotti e lo stesso Ciano son stati determinanti, per affrontare le avversità. ‘Lonely Road’ trovo che sia il simbolo della loro rinascita, un simbolo segnato da tante cicatrici… “Ci troviamo bene tra di noi, in studio e in tour, ma anche una volta scesi dal palco, come amici. Per noi, la band è una famiglia, ognuno aiuta gli altri anche nei problemi di tutti i giorni. Per cui, oltre al legame di sangue, c’è il rispetto e la voglia di fare grandi cose insieme”, Ciano lo spiega bene, cosa vuol dire far parte degli Ancillotti. Se ‘Life Is For Living’ mette alla berlina i social network che ci stanno letteralmente succhiando via la vita, su cui Bud gioca molto con la sua passione per Ozzy, ‘Never Too Late’ è un altro di quei brani che fanno la differenza, dal monolitico tessuto ritmico, ma dall’appeal straripante, anche grazie a un Bud con una marcia superiore! A tirar giù il sipario, ‘The Hunter’ con il suo carillon che stupisce e disorienta, ma solo per un istante, perché quella che si presenta è una formazione travolgente e coesa, che conduce un assalto all’arma bianca, tipo gli Accept di ‘Breaker’ che escono una sera a far macello assieme ai Priest di ‘Killing Machine’, ecco, provo a rendere l’idea così! I quattro suggellano la fine di “Strike Back” con un brano fremente che forse è la quintessenza degli attuali Ancillotti, dove ognuno splende di luce propria, ma in cui è il gioco di squadra ad essere messo al primo posto delle priorità. Qui dentro c’è dell’acciaio. Vero. Incredibilmente vivo, pulsante. Puro ed inossidabile. Provate a scalfirlo, non ci riuscirete…
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Crescere, evolversi...questo sembra diventato da anni il mantra che accompagna ogni nuova
DGM. Apprfondiamo il discorso direttamente con Simone Mularoni e Fabio Costantino…. uscita dei
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E VO L U Z I O N E
I
C O N T I N UA
DGM arrivano a produrre con “The Passage” il loro ottavo disco di una discografia in crescendo. Oggi, Anno Domini 2016, arrivano a produrre il loro disco più maturo di sempre, un album che vede la band con un sound più maturo e maggiormente composito dove si possono apprezzare influenze più melodic rock in un compound sonoro ancora riconducibile al prog metal. Tuttavia i DGM hanno saputo produrre il meglio della loro discografia, una delle rivelazioni di questo 2016. La carriera della band, come nella vita di tutti i giorni, è stato un susseguirsi di tappe alcune fondamentali a partire da “Momentum”, il loro penultimo album come si evince dalle parole di Simone Mularoni: “Momentum” ci ha dato
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un’ulteriore spinta verso il grande pubblico e con ogni album cerchiamo di espandere la nostra fanbase il più possibile. Le tappe più significative sicuramente sono state il primo tour in Asia con date in Cina e in Giappone, il ritorno al ProgPower USA per la seconda volta e tante altre date sia da headliner che di supporto in giro per l’Europa. Il disco ha avuto comunque una gestazione più lunga del solito visto che abbiamo provato ad essere ancora più autocritici del solito.” In questo percorso una tappa importante è stata l’aver trovato un’etichetta di primo livello come la nostrana Frontiers. I suoni del nuovo album hanno al suo interno alcune influenze più melodic rock, quasi come se questo
abbia in qualche modo influito sul sound della band “È stata una coincidenza. Il disco era pronto come songwriting già a settembre 2015 e la “chiamata” da parte di Frontiers è arrivata solo verso Marzo 2016. Da sempre tutti noi siamo fan sfegatati dell’hard rock di ogni tipo, da quello più soft dei Toto a quello più “aggressivo” degli Whitesnake o Rainbow e in questo disco, in maniera del tutto naturale, sono uscite allo scoperto le influenze di quelle grandi band. Il nostro obiettivo è stato quello di creare belle canzoni “moderne” seguendo però la “lezione” dei gruppi storici.” Non si può dire che non ci siano riusciti. L’evoluzione dei DGM su “The Passage” passa anche attraverso una produzione di primissimo piano,
di Andrea Schwarz Foto di Roberto Villani
certamente migliorata rispetto al recente passato e sempre ad opera del buon Simone Mularoni. Il loro sound oggi è più ricco, ha al suo interno maggiori sfaccettature: vi sono ancora parti che richiamano ai Symphony X ma in maniera minore forse perché stufi di essere catalogati e mischiati nel calderone “prog metal”... “I complimenti fanno sempre piacere e quindi desidero ringraziarti. Essendo il mio lavoro da ormai 15 anni penso sia normale che ogni disco suoni meglio o comunque più completo rispetto ai precedenti. Se si analizzano i lavori che ho prodotto con i DGM spero si possa notare il mio “miglioramento” come engineer disco dopo disco. In “Frame”, il primo che ho mixato per la band, non avevo ben chiaro quale
“THE PASSAGE” TRACKLIST The Secret (Part 1) The Secret (Part 2) Animal Ghosts Of Insanity Fallen The Passage Disguise Portrait D aydreamer Dogma In Sorrow
dovesse essere il sound della band, in “Momentum” invece avevamo volutamente scelto di utilizzare un sound più diretto, quasi claustrofobico, mentre per questo disco volevo che tutto suonasse più “epico” e “gigante”. Ho fatto quindi scelte diverse in fase di produzione proprio per perseguire questo obiettivo ed inoltre penso che sia servita l’esperienza maturata negli ultimi quasi 10 anni trascorsi tra questi 3 album. Non abbiamo mai badato molto alle analogie, siamo tutti debitori delle grandi band del progressive, specialmente i Symphony X che sono in assoluto ancora adesso tra i nostri preferiti; chiaramente crescendo e facendo tanti dischi si cerca di sviluppare una propria personalità. Ritengo che al
giorno d’oggi in questo genere sia difficile creare qualcosa di nuovo e di totalmente originale, il nostro obiettivo è sempre stato e continua ad essere quello di scrivere brani accattivanti e possibilmente mai scontati, strizzando l’occhio ai capostipiti ma cercando di inserire più influenze possibili.” Certamente l’album non è esente da alcune migliorie che avrebbero ulteriormente innalzato il livello già buonissimo delle tracce presenti a cominciare dalle parti corali il cui compito è stato lasciato totalmente all’ugola di Marco Basile: “Ogni critica è sempre ben accetta e di sicuro ne teniamo sempre conto! Ragioniamo tantissimo sugli arrangiamenti e in questo senso riteniamo che le parti
vocali fossero già abbastanza complete in termini di “quantità”! Più che altro siamo una band che finora non ha mai utilizzato backing tracks dal vivo e cerchiamo sempre di scrivere parti che poi riusciamo a ri-eseguire live in maniera adeguata. Capisci quindi che se avessimo inserito ad esempio un coro gospel sarebbe stato difficile ricreare quel tipo di coro visto che solo io ed Emanuele dal vivo cantiamo! Non è ovviamente escluso che le cose cambino da qui in avanti, vedremo.” Stimolati dall’argomento, ci vengono in mente i DGM su un palco pensando a quali possano essere i programmi per vederli nuovamente on stage dopo tanti mesi passati chiusi in uno studio di registrazione: “Ti dirò che ci stiamo già
preparando perchè abbiamo già settembre, ottobre e novembre belli pieni tra date italiane, alcune date in Europa tra Belgio, Olanda, Francia e Svizzera e poi qualche bella sorpresa come un festival a Tel Aviv, in cui non abbiamo mai suonato, e il ritorno in Giappone a Novembre. In più c’è in ballo un tour europeo di almeno due settimane nel 2017, ma il tutto è ancora in via di definizione quindi sapremo tutto sicuramente tra qualche settimana.” Nella carriera di qualsiasi band suonare dal vivo il proprio repertorio è qualcosa di fondamentale, di vitale importanza. I DGM hanno avuto la fortuna di suonare in Paesi come il Giappone e gli USA, esperienze che possono donare e lasciare esperienze
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PER QUESTO DISCO VOLEVO CHE TUTTO SUONASSE PIÙ “EPICO” E “GIGANTE”
NOME: SIMONE MULARONI STRUMENTO: CHITARRA PARTICOLARITA’: PRODUTTORE FILE SELECTION
memorabili sotto il profilo musicale e personale: “Esperienze diversissime ma egualmente incredibili. A livello professionale sicuramente entrambe ci hanno arricchito tantissimo, la differenza della gestione tecnica dei live in questi Paesi è assolutamente sconcertante. I fan giapponesi sono incredibilmente scatenati e impazziscono per la nostra musica, non ci aspettavamo assolutamente un locale pieno a Tokyo, è stato veramente emozionante! In USA al ProgPower è stato tutte e due le volte magnifico: la cosa che ci ha impressionato di più, oltre al trattamento ricevuto, è stata la preparazione degli spettatori. In entrambe le edizioni a cui abbiamo partecipato, tutti cantavano o sapevano comunque i nostri brani e non è una cosa da poco non essendo mai stati a
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suonare in quelle zone prima. Siamo sicuri di aver dato il 200% in ogni concerto e le reazioni ricevute sono sempre state memorabili, speriamo quindi che nelle prossime date sia lo stesso!” Nel mondo musicale odierno sembra diventato imprescindibile avvalersi di alcuni ospiti che tante volte fungono più da selling point per invogliare l’ascoltatore all’acquisto senza nulla aggiungere alla qualità delle canzoni. Ancora una volta il quintetto si è avvalso della collaborazione di alcuni guest “mirati” anche se risultano quasi ininfluenti sulle sorti finali di “The Passage” visto il già alto livello qualitativo raggiunto: “La scelta dei nostri guest in questo disco, come nel precedente, è prima di tutto dettata dall’amicizia con gli ospiti. Per noi è fondamentale che chi partecipa ad un nostro lavoro sia prima di
tutto una persona a noi legata nella vita reale e che abbracci la nostra visione della musica. Oggi è molto facile mandare mail a qualche management e avere poco dopo delle tracce da qualche guest sparso per il mondo in cambio di poche (o molte..) centinaia di euro, mentre noi abbiamo cercato qualcuno che effettivamente ci conoscesse e ci apprezzasse come band e come musicisti. Sia con Michael (Romeo) che con Tom (Englund) abbiamo un rapporto di conoscenza/ amicizia e rispetto reciproco che va avanti da anni, e quindi è bastato fargli sentire i brani in questione per avere un responso positivo! Con Romeo ovviamente sarebbe stato impossibile registrare nella stessa location, mentre con Tom è stato più semplice visto che è volato a Rimini per registrare insieme a me
in studio. In questo modo sicuramente il brano ha avuto un apporto e una spinta ancora più personale soprattutto perché le linee e le parti che ha cantato sono state scritte e pensate insieme. Alla base della scelta c’è comunque sempre l’ammirazione per le loro band di appartenenza, di cui siamo tutti grandi estimatori.” Un altro aspetto che purtroppo generalmente si tende a mettere in secondo piano sono le lyrics a meno che non ci si trovi di fronte ad un concept album. Quasi come se questo aspetto sia un contorno rispetto alla musica “Diciamo che i nostri testi seguono quasi un unico filo conduttore nel senso che anche se trattano di argomenti differenti, tutti i nostri testi sono ispirati alle nostre vite o ad episodi e sensazioni che realmente abbiamo vissuto o provato.
VIDEO SELECTION Ghost Of Insanity Fallen
RITENGO CHE AL GIORNO D’OGGI IN QUESTO GENERE SIA DIFFICILE CREARE QUALCOSA DI NUOVO E DI TOTALMENTE ORIGINALE, IL NOSTRO OBIETTIVO È SEMPRE STATO E CONTINUA AD ESSERE QUELLO DI SCRIVERE BRANI ACCATTIVANTI E POSSIBILMENTE MAI SCONTATI Ovviamente non citiamo nomi o luoghi in maniera diretta, visto che spesso parliamo di situazioni molto personali. Non abbiamo mai sentito inoltre il bisogno di scrivere testi di attualità o che trattassero del sociale, nemmeno abbiamo mai esplorato il filone fantasy o affini. In sostanza, ogni brano ha un argomento a sé stante, ma tutti sono collegati dalle tematiche personali e conflitti interiori che ognuno di noi prova o ha provato nel quotidiano. Per quanto riguarda l’importanza, ti dirò che questo è il disco in cui in maniera maggiore abbiamo curato i testi e la loro rilevanza nell’economia dei brani, proprio perché sentivamo che le composizioni erano più “profonde” rispetto al passato.” La band nel corso della sua carriera ha visto parecchi mutamenti in seno alla line-up, l’unico
elemento che ha seguito l’evoluzione della band da “Wings of Time” del 1998 è certamente Fabio Costantino, testimone diretto delle tappe fondamentali della loro carriera e insieme a Mularoni, ha potuto “toccare con mano” i cambiamenti della scena musicale italiana nel ruolo di musicista il primo, anche di produttore il secondo: “La carriera del gruppo è molto lunga e puntellata da diversi episodi che hanno contribuito alla creazione degli attuali DGM. Ogni cambio di line-up, ogni concerto fatto ed ogni volta che si è cambiata etichetta discografica, abbiamo fatto un passo in avanti più o meno importante. Ovviamente, decidere di continuare anche dopo che Diego Reali ha dato forfait è stato fondamentale perché ci ha permesso di incontrare Simone e trasformare il sound dei DGM in ciò che è
attualmente. Il passaggio dalla Elevate Records alla Scarlet, la tanta “gavetta”, i primi Gods of Metal, le partecipazioni ai Prog Power in Europa ed in America, il tour con i Symphony X, le date in Cina a Giappone da headliners ed ultimo, cronologicamente, il passaggio alla Frontiers...sono tutte tessere del puzzle dei DGM. Quello che raffigura attualmente è “The Passage”. Il quadro completo è, secondo me, lungi dall’essere scoperto e, tra l’altro, siamo i primi a volerlo rendere il più grande possibile. Quello che abbiamo visto e quello che continuiamo a vedere sono tantissimi gruppi validi che però spesso soffrono di scarsa promozione o visibilità. La cosa però che ci rincuora è che le band italiane sono molto caparbie e si sacrificano e impegnano tantissimo per perseguire gli obiettivi che si pongono.
Riteniamo che negli ultimi anni il metal italiano stia guadagnando sempre più credibilità soprattutto all’estero, dopo essere stato bistrattato per tanto tempo! Lo dimostra per esempio il fatto che anche in studio, sempre più bands straniere richiedono di lavorare qui, ispirate da album di bands come per esempio Elvenking, Trick or Treat, Vision Divine giusto per citare alcuni esempi. Sembra la solita “banalità” dire che l’ultimo disco sia il migliore, ma noi ci crediamo tantissimo. Siamo soddisfatti di ogni nota che abbiamo registrato e non cambieremmo una virgola. L’impegno e il tempo che abbiamo riposto in questo album è monumentale e speriamo che ogni ascoltatore apprezzerà gli sforzi e gli standard di qualità che cerchiamo di mantenere ed aumentare in ogni uscita.”
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ProgSpective di Andrea Schwarz
Nel numero scorso abbiamo trattato in maniera veloce e fugace la nascita di quel prog metal che ha fatto la fortuna di una band come i Dream Theater e avevamo accennato al fatto di come, “filosofeggiando” un po’ sull’argomento, gruppi come i Queensryche prima e Fates Warning poi, accesero la prima scintilla di questo movimento che riscosse pieno successo solamente con la band di Petrucci & Co. con la pubblicazione di “Images & Words”. Ed effettivamente i Fates Warning sono stati i loro “reali” padri putativi (tralasciando i Rush, vera e propria Musa ispiratrice), quelli che hanno loro spianato la strada e che ancora oggi continuano la loro magnifica carriera. Proprio l’uscita del loro nuovo album intitolato “Theories Of Flight” è l’occasione per parlare di una band seminale che ha saputo dare tantissimo alla scena e dalla quale in tanti hanno attinto a piene mani così come la ripubblicazione di “Remedy Lane” dei Pain of Salvation, entrambi su Inside Out, invece ci permette di mettere a confronto chi ha segnato la strada e chi invece
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è rimasto un pò un eterno incompiuto. Anno Domini: 1989. Esce un disco fondamentale che ha cambiato il corso della carriera della band di Matheos & Co.: Perfect Symmetry. Arriva dopo sei anni dal primo album edito su Metal Blade, quel “Night on
to” Mark Zonder alla batteria (già con gli epici Warlord), il sound vira decisamente verso un prog metal dalle forti tinte melodiche e maggiormente sperimentale come ben si denota dall’utilizzo di un quartetto d’archi in
B ro ke n ” che vedeva il quartetto fortemente influenzato dal sound NWOBHM degli Iron Maiden (nel frattempo vengono pubblicati altri 3 albums, “The Spectre Within”, “Awaken The Guardian” e “No Exit”). Grazie all’entrata in pianta stabile di Ray Alder dietro il microfono (già su No exit) e di un “cer-
“Chasing Time”, esperimento assolutamente inedito per quegli anni. Come dimostrerà la successiva produzione le atmosfere si fanno più cerebrali e malinconiche grazie ad un tappeto di arrangiamenti complessi ed una sezione ritmica molto articolata, merito del drumming eclettico di Zonder. Accompagnati da tes-
ti che abbandonano le tematiche fantasy degli esordi e più ancorati alla realtà, le influenze prog rock vengono fuori in brani come “At Fates Hands” (con Kevin Moore alle tastiere come special guest) e “Through Different Eyes” che verrà scelto come singolo (e di cui girarono anche il relativo videoclip). E da qui in poi Jim Matheos e soci inanellano dischi magistrali fin dal successivo “Parallels” passando da “Inside Out” del 1994, dischi sublimamente prog metal ma con un’attenzione più marcata verso un songwriting più “semplice” e diretto nonostante in entrambi i dischi siano presenti brani articolati come “Monument”, “The Eleventh Hour” e “Life in Still Water”. Arriviamo quindi al 1997, un anno d’oro per gli amanti del genere: è la volta dei Vanden Plas con “The God Thing” e il loro possente prog metal intarsiato a grandi linee con il power/class metal di marca teutonica così come il seminale “The Divine Wings of Tragedy” dei Symphony X, prog metal “sporcato” da influenze classico-barocche.
E in tutto questo panorama irrompono nel mercato discografico i Pain O f Salvation con il loro “Entropia”, un concept album (come tutti gli altri dischi da loro pubblicati d’altronde) che dimostra tutta la bravura e complessità compositiva/esecutiva del gruppo capitanato
dal carismatico Daniel Gildenlow, autore di tutti testi e delle musiche. La band svedese, appena pubblicato il loro primo album, si trova tra le mani già il successore, quel “One Hour by the Concrete Lake” dove ritmiche serrate, arrangiamenti solari ed una musicalità dissonante riescono a produrre un autentico capolavoro coniando uno stile assolutamente unico ed inimitabile che li fece conoscere al grande pubblico. Cominciò così in punta di piedi la loro entrata nel gotha del panorama prog metal, mentre i Fates Warning non rimasero con le mani in mano pubblicando uno dei loro migliori prodotti: “A Pleasant Shade of Grey”, una traccia unica divisa in dodici parti prodotta sublimamente da Terry Brown. Summa della loro discografia, forse la gemma più pura di una stupenda trentennale carriera alla quale ha fatto seguito un tour da headliner che li portò anche in Europa e che li vide proporre il disco per intero. L’anno 2000 vede protagoniste entrambe le band: i Fates Warning con “Disconnected” che ha rappresentato un’altra sterzata stilistica contraddistinguendo tutta la successiva discografia fino ai giorni nos-
tri: suoni più oscuri dove le chitarre di Jim Matheos risultano essere più taglienti che mai
ma mantenendo sempre inalterato il loro classico trademark. Ed i Pain Of Salvation invece pubblicano “The Perfect Element Part I”, anch’essi mantenendo le ottime premesse del predecessore “One Hour….”: un giusto mix tra l’originalità di “Entropia” e la produzione di “One Hour…”. A questo disco, per i Pain Of Salvation, seguiranno produzioni un pò controverse quali l’oscuro “Remedy Lane”, il teatrale “Be” dove per la prima volta si intravedono influenze folk e classica per finire con “Scarsick” che vede una band allontanarsi prepotentemente dal prog metal per abbracciare stili come l’’hip hop, l’alternative rock, il crossover, il nu metal e
addirittura la disco music (nel brano “Disco Queen”). Insomma,
sembra di trovarsi di fronte ad un’altra band che, del tutto legittimamente, prosegue il proprio percorso stilistico allontanando al tempo stesso quella fetta di pubblico che li aveva conosciuti ed apprezzati per il loro innovativo prog
metal degli inizi. Anche i Fates Warning dopo “Disconnected” diradano parecchio la loro produzione producendo nel corso dei successivi dieci anni solamente un album, quel “FWX” che è l’acronimo di “Fates Warning X”, decimo
sigillo della loro carriera che proseguiva idealmente il percorso intrapreso dal suo predecessore e che ha rappresentato la dipartita di quel Mark Zonder che con il suo eclettico drumming aveva caratterizzato il sound della band. Per entrambi i gruppi gli anni successivi sono caratterizzati da concerti sporadici, malattie e problematiche di
salute (Daniel Gildenlow) e cambi di formazione che ne hanno fortemente rallentato le carriere senza mai interromperle del tutto. Se paragoniamo queste due bands sotto il mero aspetto musicale possiamo notare parecchie differenze ma quello che li accomuna è la volontà di andare oltre gli schemi, il cercare di proporre sempre qualcosa di diverso, disco dopo disco rimanendo fedeli a se stessi invece che al mercato o a quello che i fans si potrebbero aspettare da loro. E facendo così continuano fino ad oggi a deliziare i nostri padiglioni auricolari, non sempre con risultati corrispondenti alle intenzioni, ma questo fa parte probabilmente delle aspettative che ognuno nutre legittimamente ad ogni uscita. I Fates Warning sono stati, e continuano indubbiamente a esserlo, una delle band che hanno saputo rappresentare al meglio il concetto di prog metal rimanendo quasi un gruppo elitario non raccogliendo grandi consensi di pubblico paragonati all’indubbia eccellenza della propria discografia. Almeno se pensiamo ai livelli di popolarità raggiunti dai Dream Theater. I Pain Of Salvation sono stati un po’ la nuova “big-thing” ma a causa di cambi di line-up e di una leadership abbastanza “ingombrante” di Daniel Gildenlow non hanno saputo mantenere le premesse (e promesse) iniziali alle quali forse gli appassionati del genere avevano riposto. Come potete leggere su queste pagine, per entrambe le band questo 2016 le vede protagoniste con un ritorno discografico che farà molto discutere ma che indubbiamente faranno rimanere alta l’attenzione su musicisti che non si tirano indietro, cercando di stupire senza dover per forza essere scontati e prevedibili. E questo è la migliore garanzia per ogni prog metal fan.
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o album degli Guerra e Pace nel nuov a voi "the agguerriti svedesi, ecco Last stand"!
A lezione di Storia di Stefano Giorgianni
“L’uomo non impara dalla propria storia”. Questo è l’insegnamento che i Sabaton vogliono dare a chi ascolta la loro musica, che, rispetto a ciò che si crede, non è una mera esaltazione della guerra e degli eroi bellici, è invece un veicolo per risvegliare le coscienze della gente al fine di evitare di ripetere i grossi errori del passato. In questo spirito è nato “The Last Stand”, nono studio album del gruppo di Falun, un viaggio attraverso millecinquecento anni di sangue versato, di battaglia combattute da uomini coraggiosi per difendere la propria libertà e quella delle loro nazioni. Ne abbiamo discusso con Joakim Brodén, voce e mente dei Sabaton, lo scorso luglio durante la giornata di promozione del disco a Milano. “Non vedo l’ora di iniziare il nuovo tour!” esordisce il vocalist, poi specificando “Sai, di solito, quando terminiamo la registrazione di un album
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mi prendo una pausa da tutto perché ho talmente la testa invasa dalle nuove canzoni e dal lavoro fatto che non ne posso più. A quel punto devo confessare che odio tutto quel che ha a che fare con la musica... Non voglio suonare per qualche periodo, ma questa volta è stato diverso, siamo passati direttamente dalla sala di registrazione alla promozione dell’ultimo disco in giro per l’Europa e ai festival del continente europeo. Credevo veramente di rimpiangere questa scelta, tuttavia devo dire che mi sto divertendo un sacco, soprattutto per gli show con gli Iron Maiden, con gli Scorpions, il tour americano che verrà poi o quello europeo seguente con gli Accept. Quindi per la prima volta nella mia carriera non mi sento depresso o spinto al suicidio...”. L’attività dei Sabaton in questi ultimi anni è stata frenetica, e lo conferma Joakim:
“Non ci siamo mai fermati praticamente, abbiamo terminato il tour di “Heroes” a marzo e abbiamo cominciato a registrare “The Last Stand” il 4 aprile. Dal 2014 abbiamo fatto circa centosettanta date ed è durata fino a settembre 2015, con rari momenti di respiro. Dopo abbiamo rallentato, facendo solamente cinque show in cinque mesi e questo ci ha permesso di scrivere l’album; quindi, anche se sembra la nostra sia stata una marcia inarrestabile, ci siamo concessi un momento di decelerazione per mettere a punto quest’ultimo disco.” Da tempo il gruppo scandinavo si sta battendo anche per acquisire una solida fanbase negli USA, mercato assai differente da quello europeo. A riguardo Joakim ci confessa: “Negli Stati Uniti siamo ancora una band abbastanza piccola, se così si può dire, rispetto a quel che siamo diventati in Europa. Però devo
Guarda qui il lyric video di ‘The Lost Battalion’, quinta traccia di “The Last stand”
Joakim Broden "si puo' affermare che l'uomo non impara nulla dalla storia, e'sempre portato a ripetere gli stessi errori." dire di aver notato sempre una maggior affluenza ai nostri concerti. Quando si è in tour negli States spesso si pensa “eh dai, dammi un palco grande come si deve”, tuttavia nell’ultima tornata di concerti abbiamo suonato in manifestazioni importanti, anche se il modo in cui si svolgono le cose in America è diverso; a volte ti sembra di suonare in un teatro, per la distanza cui si trova il pubblico. Devo anche dire che a seconda dello Stato in cui eravamo avevamo un’audience diversa, questa è una particolarità degli USA.” Ci focalizziamo poi su “The Last Stand”: “Per quest’album il processo di songwriting non si è mai fermato e sono contento di aver coinvolto più persone nello sviluppo delle canzoni. Questa è la prima volta in cui ciascun membro dei Sabaton ha partecipato alla scrittura dei pezzi, ad esempio i due chitarristi, Chris Rörland e Thobbe Englund, hanno dato un gran contributo in ‘The Last Stand’ o ‘Shiroyama’, poi c’è stato Ken Kängström, un tecnico del suono che viveva con me e la mia ragazza una decina di anni fa, una vecchia conoscenza dunque.”. I Sabaton studiano sempre in maniera attenta i loro album, e quest’ultimo non è certo un’eccezione, anche se c’è stato qualche
intoppo: “Una scelta era maturata all’inizio, poiché avevamo un’idea già delineata per l’album, però solo un mese prima delle registrazioni avevamo solo una canzone pertinente a quello che avevamo in mente, quindi abbiamo dovuto gettar via tutto e ricominciare daccapo” poi precisa “Qui devo confessare che il 40% del disco è composto da suggerimenti dei nostri fan. Ad esempio ‘Last Dying Breath’ ci è arrivata da un sacco di ragazzi serbi che ci ha inviato anche un bel po’ di informazioni. Era dai tempi di “Coat Of Arms” che non succedeva una cosa del genere, consigli che sono arrivati comunque anche per “Heroes”. Ecco, tutti questi album sono stati creati grazie ai nostri fan.”. Dai personaggi di “Heroes” agli avvenimenti di “The Last Stand”, due modi di trattare uno stesso tema, a questo punto il vocalist racconta: “La direzione di orientare tutto verso particolari eventi storici è appunto nata trenta giorni prima di entrare in studio, quando ciò che avevamo pensato non riusciva a incastrarsi col materiale che avevamo in mano. Non è ovviamente un concept, però ha un tema, un filo rosso che collega tutte le canzoni. Quello che unisce tutte le tracce e gli avvenimenti
che abbiamo scelto è “l’ultima resistenza” contro un nemico e come si può vedere ripercorre moltissimi anni di storia, dai tempi delle Termopili fino al 1988 con la guerra in Afghanistan. E alla fine, vedendo tutto questi eventi che si verificano in questo grande lasso di tempo, si può affermare che l’uomo non impara nulla dalla storia, è sempre portato a ripetere gli stessi errori.” Poi una curiosità sul primo pezzo scritto per l’album: “’Blood Of Bannockburn’ è stato il primo pezzo scritto per “The Last Stand” più o meno un anno fa.”. Ci concentriamo poi sulla figura dei fratelli Tägtgren, che accompagnano i Sabaton dagli inizi: “Nella musica l’influenza di Peter non ha effetto, tutto il contrario invece per ciò che concerne la produzione e il suono. In una certa maniera lui e suo fratello sono stati presenti in tutti gli album dei Sabaton. “Primo Victoria” fu registrato da Tommy Tägtgren e Peter arrivò dandoci dei consigli fondamentali per la riuscita del disco. Il sound attuale dei Sabaton è dovuto per l’80% ai Tägtgren, “Art Of War” è stato registrato da Tommy e Peter l’ha mixato, poi “Coat Of Arms” mixato da Tommy e registrato da Fredrik Nordström, in seguito c’è stato
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solamente Peter.”. Non solo i pezzi degli svedesi hanno carattere anthemico, anche le loro scenografie non scherzano. A tal proposito chiediamo se hanno già pensato a come arricchire un piatto già ricco di effetti: “Non credo un terzo carro armato (ride, ndr.), penso che stiamo bene con due al momento. Abbiamo iniziato qualche tempo fa a pensare a delle scenografie per “The Last Stand”, poi ci siamo accorti che ne sarebbero servite almeno cinque diverse, adatte a diversi periodi storici, e non abbiamo sicuramente quel budget disponibile. Aggiungeremo invece qualcosa a quello che abbiamo già, con alcuni prototipi già pronti, però al momento non posso fare promesse perché non so quello che funzionerà. Il problema principale sono sempre gli effetti pirotecnici, ci sono delle rigide regole da seguire, per la nostra incolumità e quella del pubblico, in alcuni stati alcune cose potrebbero essere persino illegali. Dobbiamo sempre pensare a come rendere lo show al meglio possibile in tutti i paesi, evitando di trasgredire le leggi. Di sicuro non sono diventato un musicista metal per dare fuoco a tutto quello che mi sta intorno.” Poi si passa all’argomento tastierista, alla domanda su una presenza stabile vista l’importanza degli arrangiamenti negli ultimi dischi
Cambio alla chitarra! Tommy ‘ReinXeed’ Johansson va a sostituire il defezionario Thobbe Englund, che ha lasciato i Sabaton qualche giorno fa. Johansson è un musicista molto conosciuto in Svezia , sia come chitarrista che come cantante, per alcuni progetti come Reinxeed, Golden Resurrection (con Christian Liljegren dei Narnia) e Swedish Hitz Goes Metal.
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Par Sundstrom
dei Sabaton: “È un argomento di cui abbiamo discusso nel 2012, quando ci fu la separazione con i precedenti membri dei Sabaton. Daniel Mÿhr a quel tempo svolgeva il ruolo di tastierista e avevamo intenzione di portarlo con noi, però due settimane prima del tour statunitense ci ha chiamato dicendo che preferiva rimanere a casa, a quel punto abbiamo messo da parte l’idea. Poi a oggi tutti gli effetti pirotecnici e le luci sono connessi a questo sistema sincronizzato e accuratamente redatto, quindi ci servirebbero almeno due tastieristi per far funzionare le cose a dovere...”. Stuzzichiamo poi Joakim con l’idea di un tour con un’orchestra e ci risponde: “Mi piacerebbe un sacco, ma questo significherebbe sedersi per mese con un direttore d’orchestra per arrangiare tutte le nostre canzoni alla perfezione e al momento quel tempo non c’è, o andremmo in bancarotta tentando di fare un qualcosa del genere, stando fermi da tutto il resto. Se potessi farlo vorrei almeno scrivere cinque o sei canzoni per l’occasione, da suonare solamente con l’orchestra, oltre alla metà di “Carolus Rex” che è già pronto per la metà. ‘A Lifetime Of
War’ ad esempio è un brano che si adatta benissimo.” Grande cura è anche riservata agli artwork, da tempo affidati alla mano di Peter Sallai: “Questa volta, a dir la verità, abbiamo anche provato a contattare diversi illustratori” confessa il cantante “Ovviamente prima è stato discusso il tema della copertina, di cui non vi rivelerò un granché in quanto ci sono cose che voglio usare in futuro... Alla fine comunque abbiamo scelto Peter perché abbiamo capito che è l’unico in grado di capire ciò che vogliamo e di realizzarlo. A lui non interessa farsi assegnare il lavoro o prendersi i soldi, quello che traspare è che tiene al risultato finale. Se si osservano tutte le edizioni di “The Last Stand” si vedono cover differenti o ancora meglio se si guarda nel booklet, le vere opere d’arte sono lì dentro. Specialmente per ciò che riguarda l’earbook, dove il lavoro è stato rifatto. Peter ha preso delle foto, dove esistevano, delle battaglie e ci ha lavorato per riprodurne l’effetto. Con lui non si tratta mai di un copia-incolla, ma di illustrazioni create ad hoc per quell’edizione o formato.” Joakim tiene poi a specificare qualcosa sulla Tank Edition di “The Last Stand”: “Tra le edizioni limitate c’è quella col carro armato, creato con lo stampo del nostro Audie e modellato al computer appositamente. Non è un modellino cinese che potete comprare al supermercato, questo ci tengo a dirlo...”. Se la guerra è l’argomento che prevale nei testi dei Sabaton, esiste anche il suo corrispettivo, ovvero la pace, termine di cui chiediamo
il significato al vocalist: “Ecco, ci sono talmente tante guerre nella storia dell’umanità da scrivere almeno altri duecento album dei Sabaton. Come ho detto in precedenza “l’uomo non impara dalla storia” e questo si può verificare osservando i cambiamenti che sono avvenuti ogni cinquanta o cento anni, il mondo è mutato per eventi che si sono ripetuti e se non è stato il pianeta intero qualcosa è successo in una particolare regione. Certo è che fino a quando i politici non realizzeranno e accetteranno quello che sta succedendo ora, non si andrà molto lontano. Questa cosa riguarda anche la gente stessa, che se non inizierà ad agire in una qualche maniera tutto rimarrà così, stagnante, e potrò peggiorare. Guardare quindi indietro, per esempio a ciò che è successo in Germania tra gli anni ‘30 e la fine della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe già un passo in avanti. Spesso, leggendo i libri di storia, ci si chiede come sia potuto accadere, come l’abbiano lasciato succedere, ebbene, fra settant’anni magari guarderanno a noi e si domanderanno “come cazzo hanno fatto a non fare niente?”. Ultima curiosità è relativa al legame fra i Sabaton e i paesi europei orientali, fra cui la Polonia: “I polacchi sono molto istruiti sulla loro storia e in molti paesi dell’Est Europa c’è un gran senso d’identità nazionale. Inoltre, se scriviamo un pezzo su degli eventi o dei personaggi meno conosciuti ci aiuta a portarli alla luce del sole, a concentrare dell’interesse intorno a loro. La Polonia ha subito l’invasione nazista, poi l’influenza comunista e sono stati segregati dietro la Cortina di Ferro e in pochi cantano la loro storia. Mia madre è della Repubblica Ceca e ha visto l’arrivo dei carri armati sovietici nelle piazze nel 1968, quindi c’è anche un certo legame personale con quella parte d’Europa. Comunque credo ci siano paesi con una forte mentalità e identità nazionale che meritano di essere valorizzati.”.
I brani di "The Last Stand" 1) Sparta Il pezzo narra la Battaglia delle Termopili fra i 300 spartani comandati da Re Leonida e i persiani. 2) Last Dying Breath La coraggiosa difesa della capitale serba nel 1915 durante la Prima Guerra Mondiale, in cui spiccava Dragutin Gavrilović. 3) Blood Of Bannockburn Nel 1314, 9 anni dopo l’esecuzione di William Wallace, ci fu una delle più importanti battaglie della prima guerra d’indipendenza scozzese. 4) Diary Of An Unknown Soldier Lo scontro delle Argonne nel 1918, sul Fronte Occidentale della Prima Guerra Mondiale, offensiva di cento giorni degli alleati contro i tedeschi. 5) The Lost Battalion Il “Lost Battalion” è il nome dato a nove compagnie della 77a Divisione durante la battaglia delle Argonne del 1918. Oltre 550 uomini intrappolati nella morsa del nemico... 6) Rorke’s Drift La battaglia di Rorke’s Drift tenutasi il 22 e il 23 gennaio 1879 fra l’esercito inglese e i guerrieri Zulu, durante la guerra anglo-zulu. 7) The Last Stand La storia di 189 coraggiosi soldatidella Guardia svizzera nel mezzo del Sacco di Roma del 1527. 8) Hill 3234 Ambientata durante la guerra in Afghanistan del 1988, quando 39 soldati sovietici dell’aviazione furono attaccati da 250 mujaheddin. Alla fine solo sei soldati sovietici persero la vita, rispetto alle 200 perdite dei mujaheddin. 9) Shiroyama Nel 1877 i Samurai, guidati da Saigo Takamori, si ribellarono al governo giapponese. Quella di Shiroyama fu l’ultima battaglia della ribellione di Satsuma. 10) Winged Hussars Ambientata durante l’assedio di Vienna del 1683, quando le forze ottomane circondarono la capitale austriaca e gli Ussari Alati di Polonia arrivarono in difesa della città e della popolazione. 11) The Last Battle Dopo la caduta del Terzo Reich, nel 1945, uno strano scontro infuriò sulle montagne tirolesi. I soldati della Wehrmacht e gli americani si unirono per sconfiggere le SS e salvare i prigionieri del castello di Itter.
Festeggiano Halloween da ventisette anni. The 69 Eyes sono gli eclettici sovvertitori dell’heavy rock finlandese. Controcorrente e contorti come la Finlandia, incapace di trovare l’equilibrio tra buio e luce, fracasso e introversione. Abbiamo incontrato Jussi 69 al suo bar TheRIFF, insieme a Bazie per un lungo viaggio nella storia musicale della band e della loro nazione...
s e r i p m a V e h T f O The Ride
di Paky Orrasi
Sam: What’s that smell? (cos’è quello odore?) -Edgar: Vampires, my friend. Vampires….(Vampire, amico. Vampiri). Così recitava un film cult sui vampiri degli anni ´80 “The Lost Boys” (alla Generazione Y e specialmente Z è toccato Twilight… per la serie “si stava meglio quando si stava peggio”), uscito nel 1987 il film divenne presto una pellicola di culto per gli adolescenti e non solo. I ragazzi perduti divennero la voce dei ribelli e tra quelli che furono tremenda-
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mente ispirati da questo da questo film, troviamo chi avremmo poi conosciuto come “The 69 Eyes”. Sembra che lo scorrere degli anni non abbia sfiorato Jussi 69, il suo look da eterno vampiro rock-punk è lo stesso di anni fa, e immutata è la sua energia quando inizia a raccontarsi nel privè del TheRIFF, una stanza piccola, accogliente ed elegante con un lampadario che crea una luce soffusa sulle pareti viola e divani stile puff , uno stile che punta a
far rilassare intorno a un tavolino. A suo fianco Bazie, un artista profondamente diverso, tranquillo e per nulla stravagante. Questa difformità di forze ha da sempre bilanciato la line-up, che, di fatto, non è mai cambiata. Ma se pensate che i vampiri siano una naturale creatura dei primi anni ´90 in Finlandia, sbagliate. All’epoca non vi erano mainstream band nel rock, punk o glam, le radio suonavano ben altro genere “musica tristissima finlandese,
Flashback: L´esplosione dei copycats e dei contratti discografici in Finlandia. Con la consacrazione degli H.I.M e The 69 Eyes in Finlandia durante il 2002 iniziò il periodo in che scherzosamente definisco: “Scusa ma tu suoni?” Seguito dal 2005 “si distribuiscono contratti discografici a chi usa la matita nera”. Durante i primi quattro anni della mia permanenza qui, ogni giorno affiorava qualche nuova band, specialmente da Tampere, con un contratto discografico, tour promozionali e naturalmente album sfornati a go go. Era impossibile andare in un locale e conoscere dei muratori, tutto il successo dei The 69 Eyes e H.I.M aveva portato le case discografiche a voler sfruttare il momento e cercare esportare band su band, prive di originalità, troppo giovani e senza una visione artistica se non voler fare quello che fu definito Love Metal alla H.I.M. e Goth Rock alla 69 Eyes. “Di botto si formarono così tante band che cercavano di scrivere la stessa musica, Gothic o come la definivano, ma ora chi è rimasto? Nessuno solo noi” commenta Bazie. Difatti una dopo l’altra queste band smisero di essere attive. Al riguardo Jussi 69 commenta “le uniche band finlandesi a lavorare sono quelle della nostra età, con l’eccezione di Santa Cruz e Lost Society. Il resto siamo noi, e gente che suona da vent’anni come Children of Bodom, Amorphis, Nightwish, ecc.”.
Guarda il video di ‘Dolce Vita’ da “Universal Monsters”
nelle radio non c’era spazio per altro. Le band che esistevano al di là del pop finlandese erano underground” afferma Jussy69. Unica eccezione Hanoi Rocks e Smack, la prima ispirò Jussi 69 mentre la seconda influenzò Bazie. Furono queste due band ad aprire la strada per tutte le successive, e come sbiega Jussi69 “furono le prime formazioni ad avere successo all’estero. Hanoi Rocks ebbe una carriera breve ma di grande impatto, e in poco tempo lasciò un segno nella storia del rock. Lo stesso per la band Smack, Axl Rose ha in pratica rubato tutto dal cantante degli Smack , inoltre Slash adora entrambe queste band”. Il suono dei primi 69 Eyes era improntato sullo Sleeze, un genere che all’epoca stava emergendo in tutto il
mondo e ben presto, grazie al successo di band quali Guns N’ Roses e L.A. Guns, si impose nella scena. “Seppur il nostro suono era all’inizio basato su Sleeze e Glam, le influeze goth e le sfumature di horror erano già presenti. Ad esempio già in ‘Wasting the Dawn’. Queste divennero più chiare e predominanti album dopo album e trovarono il loro ordine in ‘Blessed Be’”, spiega Bazie. Fu difatti il nuovo millennio a ultimare la creatura dai sessantanove occhi nell’album ‘Blessed Be’, che consacrò i Vampiri di Helsinki; Gothic Girl, vinse un disco d’oro e l’album raggiunse il primo posto in Finlandia. Jussi69 e Bazie al nostro microfono affermano che riflettendo ora sono felici che il loro grande successo arrivò tardi, in quanto non essendo ado-
lescenti non furono storditi dalla fama. Bensì fu il risultato di anni di tour, in pratica non pagati, e grandi sforzi per affermarsi. Il successo del loro quinto album portò a un periodo di dieci anni durante i quali la band non si fermò un secondo; tra tour europei e in USA, dischi d’oro e platino la loro carriera ormai era in perenne ascesa. Difatti, i due album successivi “Paris Kills” e “Devils” furono immediatamente dischi d’ oro. “Devils” portò i vampiri finalmente negli Stani Uniti, la terra dei personaggi di cui a lungo la band aveva cantato, come Jim Morrison e Brandon Lee “Andare lì era sempre stato il nostro sogno, non voglio stare qui a ostentare ma bisogna essere onesti, noi siamo stati la prima band finlandese a fare qualcosa
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Curiosita’: la collaborazione con Ville Valo. “La storia è divertente, quando eravamo al Tavastia, e un ragazzo molto giovane e estremamente timido si avvicinò dicendo che se mai avessimo avuto bisogno di qualcuno per backing vocals, lui era ben disponibile. È divertente perché nonostante lui abbia iniziato con noi e abbia lavorato durante i primi anni degli H.I.M, nel mentre questa band ha conquistato il mondo”. Ville Valo lavorò nei cori di Wrap Your Troubles in Dreams, Wasting the Dawn, Blessed Be and Paris Kills nel 1997, 1999, 2000 and 2002. “Molti pensano che noi fossimo in competizione, ma invece gli H.I.M hanno aperto così tante porte per le band finlandesi. La mia che crearono era pazzesca! In Finlandia vi erano così tanti ragazzi che venivano per studiare la lingua, ed erano fan degli H.I.M , la richiesta era così grande che non vi erano abbastanza insegnanti di finlandese! Siamo un paese così piccolo e ci supportiamo a vicenda, il successo di una band apre le porte per le altre e bisogna solo essere contenti.”
Guarda il video di ‘Lost Boys’ da “Devils”
in America. Gli H.I.M avrebbero iniziato ad andare lì più o meno nello stesso periodo”, confessa Jussi69. Il loro successo in America aumentò stagione dopo stagione, fino al palco del tempio Whisky a Go Go. Parlando dell’America non si può che parlare di Bam Margera, che al momento è a Helsinki, e della grande amicizia in particolare con Jussi 69. Difatti Jussi è arrivato al TheRIFF in fretta e furia dopo aver registrato la sua trasmissione
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, o r e v m u lb a n u o m a v le o V , o t t o d o r p r e v o e o t in f n no volevamo l’anima
radiofonica, e ci ha raccontato che nel mentre si stava preparando a registrare, all’improvviso ha sentito qualcuno bussare come un pazzo, ed era Bam. Jussi ci ha poi spiegato che lui viaggia solo con la sua carta di credito, non ha un cellulare. Quindi si è presentato lì solo per vedere che stava facendo, alla fine hanno registrato tre ore di trasmissione radiofonica insieme. Bam Margera è stato di grande aiuto per molte band finlandesi, in particolare
The 69 Eyes e H.I.M. Una amicizia vera che si può riassumere in questo ricordo di Jussi 69 “All’epoca del video The Lost Boys Green Day e Snoop Dog chiesero a Bam di girare i loro video, e Bam rifiutò, dicendo che lui avrebbe lavorato solo per la musica che ama. Quando abbiamo girato The Lost Boys con lui ancora giravano dei soldi nella musica, quindi facemmo di tutto per avere delle persone ottime per fare gli effetti speciali e cose del genere,
e Bam non volle essere pagato. Ha un cuore immenso e dato che ogni tanto suono nella sua band, io non ho mai chiesto un centesimo perché siamo davvero amici e lui è un ragazzo fantastico e generoso”. Bam ha speso una decina di giorni qui a Helsinki e noi di Metal Hammer abbiamo una grande esclusiva: Jussi 69 ci ha rivelato che Bam sta lavorando a due film, il primo “I Need Time To Stay Useless” incentrato sulla perdita del suo amico Ryan Dunn. Jussi 69 ci ha raccontato che Bam dopo
la morte di Dunn attraversò un periodo di grave depressione, il film spiega questo periodo fino alla sua rinascita. Il secondo film “Earth Rocker” è incentrato su Bam Margera che segue qualsiasi cosa che Andy McCoy, chitarrista degli Hanoi Rocks faccia. Il 2016 ci ha portato la laro nuova perla: “Universal Monsters”, un album che ha riportato la rudezza del rock come ci spiega Bazie “volevamo un suono vero e non perfetto, lasciando persino gli errori, in quanto avevamo già fatto un
Guarda il video di ‘Jerusalem’ da “Universal Monsters”
album completo nella produzione e che usava al massimo la componente pop. Ora volevamo riportare il suono crudo”. E Jussi 69 aggiunge “non facciamo finta di essere quindicenni, quindi è sicuramente un album più maturo. Jyrki viaggia sempre, e per questo album è andato a Gerusalemme e da lì nacque il pezzo ‘Jerusalem’. Inoltre ha studiato l’italiano, quindi puoi anche sentire qualcosa in italiano in ‘Dolce Vita’. Volevamo un album vero, non finto e over prodotto, volevamo l’anima.”.
Focus: TheRIFF: il sogno di Jussi69 finalmente diventato realta’. Il 15.5.15 fu il giorno che Jussi69 vide il suo bar finalmente aprire le porte. Un sogno che ha sempre coltivato, sin dai tempi delle sue serate da DJ in vari locali europei, incluso il Transilvania di Milano. TheRIFF è oggi il posto dove ogni musicista si ferma dopo il concerto. Ad esempio io mi sono ritrovata a bere birre nello stesso bar con Mikkey Dee dei Motörhead, i Machine Head, hli Opeth e mille altri musicisti. Un posto del genere può esistere solo a Helsinki, ben conosciuta da tutti come una città dove nessun vip viene disturbato. “Sono felicissimo perché tutti amano questo posto. Ho voluto creare un’atmosfera elegante, dove tutti si sentissero benvenuti, non solo i rockettari. La musica non è molto alta il che ti permette di bere e parlare con i tuoi amici.” Abbiamo chiesto a Sami Lehtonen, che Jussi69 ha fortemente voluto al suo bancone di raccontardi il TheRiff: “È un onore lavorare nella scena rock, non è un lavoro, è uno stile di vita. theRIFF è sempre aperta a tutti, si può venire con gli amici o da soli, qui ognuno è tuo amico. Lavorare con Jussi 69 e il resto dei ragazzi qui al theRIFF, si può descrivere in: click, click, BOOM!”.
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dal precedente A nemmeno dodici mesi Daisies di David Lowy ad De e Th i , n’ io uc ol ev ‘R nuovo, esplosivo, ci sorprendono con un ’n’roll settantiano! album di purissimo rock
E M A N E H T N I ALL OF ROCK!
Finché ci si diverte, tutto va bene. Questo sembra dirci al telefono un rilassatissimo John Corabi, quando ci parla dell’attività recente dei “suoi” The Dead Daisies. E’ infatti un approccio rilassato e scanzonato quello che questo supergruppo mostra di avere nei confronti della musica, un approccio che appunto permette di vivere appieno lo spirito del rock’n’roll che dichiarano tanto di amare, e di produrre dischi con una velocità sbalorditiva, senza perdere niente in qualità. Per fortuna, lo scatenato cantante
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ci ha voluto raccontare parecchie cose sulla band, partendo appunto dall’inizio… Si inizia subito da come si sono formati i The Dead Daisies e come siano arrivati allo stato attuale e a questo nuovo disco:“La band è stata formata da David Lowy, uno dei nostri attuali chitarristi, e dall’ex cantante, Jon Stevens. Con una prima manciata di canzoni misero su il progetto, chiamando a suonare Marco Mendoza, Dizzy Reed e Richard Fortus. Nel 2015, solo l’anno scorso, l’ex cantante Jon ebbe seri problemi che gli
impedirono di portare avanti le attività con la band. Quindi hanno chiamato me. Da lì è stata una corsa incredibile, abbiamo cominciato a lavorare al disco vecchio in marzo, l’abbiamo finito in aprile, è uscito in giugno e siamo andati in tour con Kiss e Whitesnake per tutto il resto dell’anno. Come ben sai, il 2016 è l’anno della reunion dei Guns N’Roses e quindi Dizzy e Richard hanno dovuto unirsi al carrozzone Guns, ragione per cui ora alla solista c’è Doug Aldrich. A me hanno chiesto di restare, e
di Dario Cattaneo
quindi ho partecipato a tutte le composizioni di ‘Make Some Noise’, in cui ci sono un sacco di canzoni anche mie.” Come detto, i nomi coinvolti sono conosciuti e hanno carriere di successo in band molto famose. Questo crea sempre aspettative nei fan che ancora non hanno ascoltato in disco, che si aspettano una copia di questa o quella band: “Innegabile che, leggendo la formazione, in molti si aspettino un certo tipo di rock/metal stradaiolo, un po’ a metà tra Guns, Whitesnake e Motley Crue, ma devo dire
che la cosa non ci importa. Ascoltando soprattutto gli ultimi due album si avverte che l’identità dei The Dead Daisies è ben definita, quindi non è importante cosa uno si aspetta. Inoltre, stiamo crescendo, c’è un’evoluzione continua che porta le canzoni a livelli sempre successivi, quindi il rischio di rimanere schiavi di un certo tipo di sound non credo esista proprio.” Si è accennato al cambio alla solista tra Fortus e Aldrich. Due stili molto diversi. Ci si chiede quindi dove la band ci abbia perso o
guadagnato: “In realtà sono tutti e due molto bravi, sia come musicisti che come compositori, oltre che come persone. Nelle dinamiche del gruppo non avvertiamo alcuna differenza, anche perché entrambi sono passati nella band perché in primis ci conoscevamo da tanto tempo, e soprattutto siamo amici. E’ importante questo per i The Dead Daisies, il conoscersi, il voler suonare insieme, e tutti e due hanno queste caratteristiche. Non ci serve nessun ego, nessuna personalità esuberante alla solista, solo un
buon amico con delle buone capacità, ovviamente. Stilisticamente, hai ragione,sono molto diversi, ma entrambi adatti allo stile della band. Anzi, è stato proprio Fortus a farci il nome di Doug!” Passiamo a descrivere il sound di’Make Some Noise’: “E’ un classico, rampante, rock’n’roll sullo stile anni ’70. Niente più direi. Volevamo qualcosa che suonasse così, e l’abbiamo ottenuto.” E’ un sound un po’ diverso da quello del precedente ‘Revolucion’, però… “Già, anche questo è vero. E’ più
aggressivo, più heavy. Credo che questo derivi dal fatto che prima avevamo Dizzy che suonava le tastiere, ora siamo privi di quello strumento. Ecco, forse ‘Revolucion’ era più eclettico, aveva per dire una ballad vera e un paio di brani che si appoggiavano molto sulla tastiera, invece ‘Make Some Noise’ è decisamente più compatto. David Lowy ha deciso che la nuova forma di questa band doveva essere quella canonica con due chitarre, basso e batteria, un po’ come gli AC/DC o gli Aerosmith.
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‘Long Way to go’ E’ Stato il primo singolo estratto da “Make Some Noise”! guarda il video! Con questo non voglio dire niente di male su Dizzy, un gran tipo con un gran senso dell’umorismo con cui è facile divertirsi alla grande, ma forse questa forma più minimale sposa meglio il sound che volevamo ottenere. L’approccio è più crudo, ecco cosa volevo dirti.” La curiosità ci porta al processo di scrittura nei The Dead Daisies, se sia David Lowy il compositore principale: “In realtà le cose sono più complesse. Viviamo tutti in parti diverse del mondo. Lowy e il resto del management stanno in
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Australia. Doug, Brian Tichy e Marco Mendoza stanno a Los Angeles. E io vivo a Nashville, in Tennessee. Quando ci troviamo in studio per lavorare a un nuovo album, non abbiamo altro che qualche riff. Partiamo da quelli, mettiamo insieme le varie idee e creiamo delle basi piuttosto solide per future canzoni. Cominciamo a registrare da subito, poi proviamo varie soluzioni e vari aggiustamenti per far sì che la canzone funzioni davvero. In pratica scriviamo registrando. Per questo i nostri tempi in studio sono mol-
to corti, pensa che per ‘Make Some Noise’ ci abbiamo messo solo 45 giorni a comporlo, registrarlo e produrlo!” Un paio di tracce mi hanno colpito molto… a ‘Long Way To Go’, sappiamo che è di Corabi, e sembra molto interessante: “Sai… se vai sul telegiornale, tutti i giorni, soprattutto qui negli States, hai a che fare con la brutalità e la cattiveria dell’uomo. Razzismo. Terrorismo. Gli argomenti sono questi. Guerre. Impoverimento ambientale. Fame nel mondo. Stati in allerta. Qualcosa che mi ha colpito
molto è l’attuale problema che abbiamo tra la gente di colore e i poliziotti. Sai, le sparatorie? Ecco. La cosa che mi sconvolge, è che ciascuna di queste persone sembra non prendere in considerazione l’idea di semplicemente sedersi… e discutere. Solo questo. Discutere. Trovare un terreno comune, un qualcosa che possa essere accettato da entrambi. Lo so bene che nessuna delle due parti sarà mai soddisfatta di un accordo mediato, ma forse il non volere sempre avere il 100% della ragione aiuterebbe a
‘Revolucion’ era più eclettico, aveva per dire una ballad vera e un paio di brani che si appoggiavano molto sulla tastiera, invece ‘Make Some Noise’ è decisamente più compatto. composizione del disco stesso. E’ un modo che abbiamo di fare omaggio alle band che hanno tracciato la strada che noi seguiamo. ‘Fortunate Son’ era un nostro cavallo di battaglia live, la suonavamo nel tour americano, europeo e asiatico, ovunque andavamo, la gente la cantava, e sapeva ogni singola parola. Non potevamo non includerla nel disco, è stata una hit di praticamente tutti i nostri concerti. Per quanto riguarda ‘Join Together’, brano dei The Who, beh, la troviamo molto vicina a quello che facciamo noi ora!” Ogni artista è legato in particolar modo a qualche traccia dell’album, Corabi afferma che “’Long Way To Go’ ha un testo che sento molto, di sicuro. Oltre a quello… ti risponderò, ma se me lo
costruire un discorso. Ma è impossibile, è la natura umana: se siamo convinti di una cosa, è quella. Niente compromessi, niente vie di mezzo. Per questo ‘Long Way To Go’, perché molta strada dobbiamo percorrere in questo mondo per risolvere i problemi del mondo. Una strada forse troppo lunga.” Ci sono due cover di brani famosi nel disco, il vocalist spiega come sono state introdotte: “Più o meno in un disco mettiamo un paio di canzoni di band che riteniamo abbiano influenzato le sessioni di
chiedi domani potrei aver già cambiato idea su quali pezzi preferisco di questo album! Oggi ti direi: ‘Long Way To Go’, ‘Last Time I Saw The Sun’, ‘We All Fall Down’ e ‘Mainline’.” Per quanto riguarda il sottoscritto la preferità è ‘Song And A Prayer’: “Ahahah, sai che ce l’hanno detto tutti! Quelli della casa discografica, i tizi in radio, gli amici… mi sa che è una grande canzone anche quella!” Chiediamo poi qualche informazioni sulla promozione dell’album, sul tour che sta per arrivare: “Ahahah, siamo già in tour! Ti sto telefonando da una pausa. Certo, faremo quello che sappiamo fare meglio, gireremo il mondo, e batteremo vari paesi, con show da headliner o al fianco di
nomi famosi, coprendo in particolare America ed Europa, come sempre!” Quindi la vita rock’n’roll non si ferma mai… Per concludere, ora che ha almeno una ventina d’anni in più rispetto quando registrò il famoso disco con la band più oltraggiosa della terra, i Mötley Crüe… che significato ha, ora, al termine ‘vita rock’n’roll’ per John Corabi: “Per me il rock’n’roll significa ancora divertimento. Certo, il successo è sempre negli occhi e nei pensieri di tutti noi, e quindi non posso dirti che non mi interessa avere successo e fare soldi, ma ti dico che divertirmi ed essere in grado di scrivere buona musica e suonarla davanti a belle platee in giro per il mondo, mi ripaga anche di un eventuale mancanza degli altri obbiettivi. Per me la vita rock è ancora legata al concetto di divertimento, prima ancora di ogni altra cosa…”
divertirmi ed essere in grado di scrivere buona musica e suonarla davanti a belle platee in giro per il mondo, mi ripaga anche di un eventuale mancanza degli altri obbiettivi. METALHAMMER.IT 43
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@Gardone Riviera (BS) 5 luglio 2016 Testo e Foto di Andrea Lami
Questo tour di Steve vai E’ Dedicato all’album “Passion and Warfare” che sta attraversando il suo venticinquesimo anno di vita 44 METALHAMMER.IT
Questa sera Steve Vai ci eseguirà per intero il suo album più famoso/apprezzato. Il pubblico piano piano si accomoda nell’anfiteatro, con rispettoso silenzio ed educazione. Alle 21.30 inizia lo show. Nello schermo posto sopra alla batteria inizia il video di “Crossroads” (Mississippi Adventure), il film con Ralph Macchio in cui Vai ha preso parte e dopo poco entra il guitar hero, incappucciato, con degli occhiali fluorescenti e la chitarra con dei led sul manico pronto ad eseguire “Bad Horsies” estratta da “Alien Love Secret” seguita da “The Crying Machine” un altro brano conosciuto però estratto da “Fire Garden”. Brano nel quale il chitarrista decide di fare un fuoriprogramma rendendomi attore involontario, infatti mi chiede la macchina digitale per fare qualche foto. Foto -non proprio belle- che vedrete insieme alle mie. L’atmosfera si fa più intensa durante l’esecuzione di “Whispering A Prayer”. Il pubblico è talmente coinvolto che lo stesso Steve dice in un quasi perfetto italiano “non agitatevi troppo, porca miseria”.
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Finalmente è arrivato il momento desiderato da tanti. Steve ci spiega che l’idea di suonare per intero tutto l’album lo ha sempre spaventato anche perché non si ricordava tutte le parti, ma finalmente oggi ha “the right band, the right audience and the right night” e quindi si parte dal primo brano “Liberty” preceduto dal “heads up” mentre sul maxischermo partono le immagini del videoclip. Durante l’esecuzione dei brani, Vai ricorda di aver suonato alcune delle parti di questo album dal vivo insieme ad un suo idolo, tale Brian May dei Queen, ed ecco partire il video di quell’incontro.
L’esecuzione di P&W prosegue quando arriviamo ad “Animal”, nel video compare un amico di Steve, tale Joe Satriani ed insieme iniziano prima a chiacchierare e poi a duettare. Sarà anche registrato, ma quanta precisione anche se Joe scherza mettendosi delle parrucche, la maschera da alieno, gli occhiali con gli occhi disegnati. Il tema della canzone rimane tranne che per l’esecuzione di un solo da paura per poi rientrare tra gli schemi del brano. Scambio di complimenti, saluti e si prosegue fino ad arrivare a quello che sarà il culmine della serata e cioè “For The Love Of God” un brano di per sé emozionante ascoltato a casa, figuratevi qui, in un anfiteatro mentre nello schermo passano le immagini del videoclip. Prima standing ovation alla quale Steve risponde con un “Ti amo”. Negli anni 90, anno di uscita, questo era il momento in cui bisognava o girare il vinile/la cassetta e si ripartiva con “The Audience Is Listening”. Cosa che succede anche questa sera. Il brano riparte unitamente alle immagini del relativo videoclip, fino a quando non arriva il secondo ospite, al secolo John Petrucci (Dream Theater) che fa i complimenti per il traguardo raggiunto da “P&W” ed ecco iniziare un duetto. Altro brano accompagnato dal videoclip è “I Would Love To”, il preferito di chi vi scrive.
Le canzoni dell’album si susseguono tanto da non accorgerci di essere arrivati alla fine. Steve, visibilmente emozionato, ringrazia per la partecipazione e ci racconta che la prima volta che è venuto in Italia era il 1982 insieme al suo maestro Zappa, non finisce di raccontarlo e parte un altro video (l’ultimo) “Black Napkins” nel quale vediamo un giovane Zappa duettare con un giovanissimo Vai ai quali si unisce lo Steve Vai del presente (sembra di essere in “ritorno al futuro”!!). Lo show sta volgendo al termine quando il chitarrista decide di fare una cosa assai divertente e cioè prendere due persone del pubblico (questa sera saranno scelti tali Grazia e Patrizio) e, dopo le presentazioni, fargli inventare un ritmo per la batteria, un giro di basso, uno per la chitarra… poi il compito più “difficile”, creare una melodia. Ogni cosa creata viene ripetuta dai musicisti creando così un brano che viene suonato in quel momento. Un gioco decisamente semplice per musicisti di questo livello, ma allo stesso tempo impressionante per tutte le persone del pubblico. Il concerto volge al termine quando Steve sul palco ringrazia tutti (altra standing ovation) ma non solo per questa sera, ma per questi 37 anni di carriera musicale. I chilometri macinati sono stati davvero tanti, ma l’emozione di ascoltare tutto P&W ha decisamente vinto. Grazie Steve Vai
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@Vertigo Fest Assago (TO) 10 luglio 2016 E’ scoppiata l’estate, ci mancano solo i telegiornali a sottolineare il caldo africano che sta colpendo la Penisola. Tutti gli anni la stessa storia, quasi come se non ci fossero segni tangibili della voglia di stare sotto l’acqua fresca tutto il giorno (ed a volte anche di notte). E quindi che si fa? Si cerca di trovare un senso a tutto questo disagio spulciando giornali locali e nazionali per trovare qualche posto per rinfrescarsi e svagarsi. Fortunatamente il lato positivo dell’estate sono i punti verdi nelle maggiori città ed i tantissimi concerti all’aperto, di soluzioni ce ne sono una miriade, per tutti i gusti. Musica originale e cover band, tutta l’Italia ne fa sfoggio tra concerti ad hoc e sagre paesane. E quindi via, si esce. Ti catapulti alla ricerca di qualche bravo gruppo che proponga musica originale, stufo di ascoltare l’ennesimo gruppo tributo ed in chi ci si imbatte? Nei BGH, l’acronimo della estemporanea cover band formata da Stef Burns / Claudio Golinelli / Will Hunt, la backing band del tanto amato (sul suolo italico) Vasco. Musicisti di innato talento e di indiscussa fama, perché non provare a vedere cosa combinano insieme? Almeno due terzi della band sono in qualche modo tra gli artefici della cosiddetta svolta metal del Vasco nazionale e quindi non poteva non stuzzicare la curiosità del sottoscritto e dei presenti che, gioco forza, sono accorsi per ascoltare qualche cover del Blasco.
Le uniche concessioni al Blasco riguardano alcuni intermezzi/versioni strumentali de “Gli Angeli” e “Un Senso” che nonostante siano state strutturali alla scaletta sono risultate quasi musicalmente superflue ma molto apprezzate dai presenti. Al Vertigo Beer Festival non è mancato nulla, oltre ai litri di birra (come poteva essere altrimenti?) la musica ha avuto un ruolo fondamentale grazie alla maestria ed all’estro di tre grandi musicisti ed un ospite d’eccezione: il rock.
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di Andrea Schwarz Foto di Roberto Villani Ed invece, tra la gioia del sottoscritto e di (pochi) altri Burns & Co. spendono le loro energie interpretando Kiss (“Rock ‘n roll all nite”), Alice Cooper (“Hey Stoopid”), Jimi Hendrix (“Voodoo Child” ed “Hey Joe”), The Who (“My Generation”), Beatles (“Any Time at All”), Van Halen (“You really got me” e “Ain’t Talkin’ ‘bout love”). A pensarci bene parliamo pur sempre di una cover band ma, a differenza delle miriadi di band simili, qui l’esperienza ed il mestiere infarciscono l’esibizione del terzetto. Golinelli detto il Gallo è musicista preparato e preciso (diploma di contrabbasso al conservatorio) ed è uno showman divertente e navigato, il giullare della band mentre Stef Burns con il suo stile eclettico ipnotizza il pubblico trovandosi perfettamente a suo agio con tutti gli stili musicali proposti, soprattutto quando vengono fuori le sue radici bluesy nei classici Hendrixiani. E Will Hunt? Tira fuori un drumming lineare e possente frutto delle sue esperienze con Black Label Society, Evanescence, Dark New Day...un animale da palco che ogni band vorrebbe con sé.
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@Beast Coast Fest Ripatransone (AP) 9 agosto 2016 di Giuseppe F. Cassatella L’atipica cornice di un anfiteatro romano, a pochi chilometri da Ascoli Piceno, ha ospitato il ritorno in Italia dei Metal Church. Gli statunitensi hanno chiuso una serata iniziata alla grande con l’esibizione dei Grim, solidi rocker dal piglio ororrifico d’ispirazione fumettistica Il secondo giro è toccato invece ai Deed, che nella mezzoretta a loro disposizione hanno riversato sui presenti un’ottima mistura di power\prog. I redivivi Centvrion non hanno perso lo smalto che gli aveva garantito una certa notorietà nei primi anni del nuovo secolo. Il loro Hyper Metal di stampo epico è ancor’oggi una bella mazzata sui denti! Gli ascolani Battle Ram hanno fatto valere il fattore campo, buona fetta dei presenti sotto il palco ha intonato all’unisono col gruppo di Fabrizio Sgattoni i brani provenienti dal finora unico platter pubblicato, quel Long Live the Ram del 2013. Di tutta altra pasta (al sapor di zolfo) i Baphomet’s Blood che hanno condotto la serata su coordinate ben più estreme rispetto a quelle delle compagini che li hanno preceduti. Sul palco quattro persone dedite al caos assoluto, con sonorità rozze e aggressive in bilico tra thrash\black old school e rock and roll marcio di matrice Motorhead.
Inutile fare tanti giri di parole, i Metal Church sono una band che avrebbe meritato un destino migliore, vista la qualità media elevata della propria produzione. Certo le cartucce migliori se le sono giocate nei primi album, ma poi Kurdt Vanderhoof (una sorta di Wilson Grant Fisk buono) e compagni hanno sempre tirato fuori album più che dignitosi. Io stesso, pur non avendo apprezzato l’ultimo XI, devo ammettere che un paio di ottime canzoni sono presenti anche sul nuovo lavoro. Ed evidentemente la pensano così anche gli americani, che in una scaletta aperta da “Fake Healer”, hanno trovato lo spazio per inserire per le recenti “Reset”, “Killing Your Time” e “No Tomorrow”. Gli apprezzamenti maggiori li hanno ricevuti, però, pezzi come “Start The Fire”, “Watch The Chieldren Pray” e “Beyond The Black”, che hanno dimostrato come la formazione attuale ̶̶ ormai stabilizzatasi intorno alle figure di Steve Unger, Jeff Plate e Rick van Zandt ̶ abbia un’ottima resa anche sui classici. Capitolo a parte merita il figliol prodigo Mike Howe, rientrato alla base dopo la lunga assenza iniziata all’indomani della pubblicazione di Hanging in the Balance (1993): vero protagonista della serata, nonostante un aspetto più da ingegnere che da rock star, con la propria ugola versatile ha arringato i fan adoranti! Un vero crescendo di emozioni, passate attraverso canzoni come “In Mourning”, “Gods of Second Chance”, “Date with Poverty”, e culminate nel bis “Badlands”\”Human Factor”! Una band in gran spolvero, che forse in studio ha perso in parte il proprio tocco magico, ma che dal vivo regala ancora tante emozioni, non lesinando entusiasmo, sorrisi e sudore. A noi bambini non resta che tornare a pregare, ogni volta che ci è permesso, nell’unica, vera e inossidabile Chiesa di Metallo!
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l a t u r B Stay di Trevor Dopo il nostro soggiorno a Yekaterinburg, si riparte a fare sul serio, si riparte con la vita on the road. Questa volta il mezzo che ci accompagnerà al prossimo show é un pullman, di certo meno confortevole delle cuccette treno, tuttavia la distanza è di soli 250 km, distanza che ci separa da Yekaterinburg a Taj, città industriale, sita sui monti Urali, tappa del nostro prossimo concerto. Nonostante il nostro primo scetticismo all’esterno del club, l’interno ci regala una piacevole sorpresa: il Dredge Rock, è un locale davvero carino, con un buon impianto. Cinque band precedono lo show Sadist, quando sono le 23.00 parte l’intro
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di “The Devil riding the evil steed”, di lì in poi segue la set list, contenente quindici brani. Tra foto, autografi su cd, t-shirt e inconsuete parti del corpo (audaci le signorine russe) si riparte. Il viaggio notturno ci riporta ancora una volta a Yekaterinburg, i promoter locali hanno voluto organizzare una masterclass di chitarra, basso e batteria così Tommy, Andy e Alessio saranno impegnati, in uno dei pochi giorni di day-off. È il 31 maggio, quando lasciamo definitivamente Yekaterinburg, dopo giri turistici e saluti di rito, siamo diretti a Chelyabinsk, città nota per essere stata colpita da un meteorite nel febbraio 2013, ma questa è tutta un’altra storia... questa volta Chelyabinsk sarà colpita dalla furia del death metal. Il Hyaena Biting Europe Tour fa visita al The Noch, club situato nel cuore della città; si tratta di un locale molto bello, con un impianto potente e con tecnici locali molto competenti. Oltre agli amici Thy Disease e Thrashred, salgono sul palco due band locali, una di queste, curiosamente, si presenta sul palco senza batteris-
ta, ma con l’ausilio di una batteria elettronica, che accompagna i riff di chiaro stampo black metal. Il terzo album Sadist, “Crust”, sembra essere il più apprezzato da queste parti, “Perversion Lust Orgasm” e “Christmas Beat”, vengono richieste a gran voce, queste sono le soddisfazioni del musicista, il perché di tante ore di viaggio e duri sacrifici. Il consueto viaggio nella notte, via ferrovia, ci accompagna a Magnitogorsk, città che ci avvicina ulteriormente, alle zone caucasiche. Il primo impatto con la città stessa, sembra essere buono, nonostante il promoter locale, ci racconta che purtroppo è nota per inquinamento e industrie che scaricano direttamente nel fiume, nonostante ciò, ci sono diversi pescatori, ai bordi dell’incriminato fiume. Che dire del concerto? Il Piranha è un club di medie dimensioni, ma quello che sembra mancare è l’abitudine a tali eventi. Il giorno seguente, rappresenta l’ultimo concerto in territorio russo. Prima di raggiungere Samara, facciamo tappa nella
suggestiva Ufa, davvero molto bella. Samara è certamente una città pronta e preparata al Metal, anche a quello più estremo, allo Zvedza, locale che ci ospiterà, sono passati di recente, diverse band, tra cui Vader, Kataklysm, Napalm Death, Sepultura e altre. Il club, è ben attrezzato, sotto ogni punto di vista, il palco è profondo, alto, un paio di scatti al Backdrop Sadist, rendono giustizia. Il concerto scorre via bene, tra il calore del nutrito pubblico, a fine concerto, ci portano ad autografare i primi album e il nuovo “Hyaena” in vinile. Ultima data in Russia, con estremo piacere, siamo pronti a raggiungere l’Armenia, terra dove abbiamo gettato le basi otto anni fa e dove abbiamo lasciato diversi amici. L’aeroporto di Samara è piccolo, tuttavia,
il problema dei bagagli permane, e prima di riuscire a convincere le rigide signore al check in, passa parecchio tempo, che mette a serio rischio, il nostro arrivo nella capitale Yerevan. Dopo due ore di volo, atterriamo in terra armena. Ho sempre avuto stima per questo popolo, mite, ospitale, e anche questa volta le mie sensazioni non vengono di certo tradite, anzi, ancora una volta, l’amico Arsen, promoter della serata e la crew si dimostrano preparati, attenti e cordiali, abbiamo la fortuna di godere dell’ottimo cibo locale, speziato ma non grasso. Quanto al concerto, quello di Yerevan si rivela tra i migliori, grazie al calore del folto pubblico. Non ci sono soste, siamo di certo provati, tuttavia la passione e la curiosità ci fanno andare avanti. A metà mattinata siamo già pronti e desiderosi di marciare verso la Georgia. Sono stati organizzati un paio di concerti, il primo nella suggestiva cornice della bellissima Tbilisi, città a metà tra cultura araba e frammenti occidentali, mentre il secondo show a Kutaisi; si tratta di un open air nell’ex fortezza militare. Mi voglio soffermare proprio su questo secondo concerto in terra georgiana: va detto che questa nazione non è certo avvezza a un certo tipo di eventi, specie per la situazione legata alla religione dove a causa di forti rivendicazioni alcuni show vengono annullati all’ultimo momento. Fortuna che non è il nostro caso, il Colosseum Kutaisi Open Air si svolge senza alcun intoppo, tra un pubblico eteroge-
neo, dalle prime fila, emerge una bandiera della Georgia
con su il logo Sadist; siamo felici, soddisfatti. Ormai siamo in giro come nomadi da un mese, il tour sta volgendo al termine, ma prima di chiudere ci attendono ancora tre show in Ucraina, uno in Moldavia e quello conclusivo in Polonia. Il primo dei tre concerti in Ucraina, è previsto al Metropolis di Ilyichevsk, località turistica affacciata sul mare, nei pressi di Odessa. Il Metropolis è un locale attrezzato molto bene, non manca nulla, neanche il pubblico che risulta essere numeroso e partecipe. Alla serata prendono parte anche due band italiane, i Fragore e gli amici Black Propaganda. Nonostante ci troviamo in un Paese colpito da guerra e conseguente crisi economica, il tutto è organizzato a perfezione, i promoter locali dimostrano passione e attenzione, ingredienti essenziali per far sì che le cose riescano nel migliore dei modi. Anche la serata di Ilyichevsk volge al termine, allo stand del merchandise, le t-shirt Sadist vanno a ruba. Dopo esserci riposati a dovere in un hotel nei pressi del club, è già tempo di scaldare i motori, prosegue il tour, alla conquista di Chisinau, capitale della Molda-
via. Il locale scelto è l’Albion, un club di medie dimensioni nel centro città,
gente mite, pronta a divertirsi sulle note delle ultime nate in casa Sadist, brani iniziali con cui ci presentiamo al pubblico. Il promoter moldavo è un fan Sadist di vecchia data, siamo soddisfatti, appagati da questa calata nella mite Moldavia. Ci stiamo avvicinando alla coda di questo lungo tour, ma, prima di chiudere a Cracovia, dobbiamo affrontare ancora un paio di show in Ucraina, il primo di questi a Kiev, al Bingo Club, il locale di punta per quel che riguarda il metal e il rock nella capitale. Quando Alessio e Tommy salgono sul palco, le prime fila iniziano a scaldarsi, specie il gentil sesso, sulle note di “The devil riding the evil steed”, poi è la volta di Andy mentre un istante dopo tocca anche al sottoscritto: la formazione è al completo,
e il pubblico ucraino è felice di riabbracciare i Sadist, dopo sei anni. Si chiude il set con “Sometimes They come back”, un brano che, nonostante i suoi 23 anni, suscita ancora un certo fascino, e questa è la magia che avvolge il metal. Tra foto, autografi, attestati di stima salutiamo i promoter locali e
ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria di Kiev, da lì, un treno ad alta velocità ci porterà fino alla turistica Lviv, dove, prima del consueto soundcheck abbiamo la possibilità di fare un giro in centro città. Ma veniamo al club, l’Event Hall, è un locale davvero molto bello, a t t re z z a t o al meglio, i m p ia nt o , backline residente, backstage, tecnici, i presupposti per fare bene ci sono tutti, spetterà a noi portare in alto la nostra bandiera tricolore. Ai 150 ticket, venduti in prevendita, si aggiungono un altro centinaio di persone e nel club c’è davvero un bel colpo d’occhio. Il pubblico ucraino si conferma caldo, sono grato a questa gente, alla loro stima nei nostri confronti e l’appuntamento è alla prossima, invitando i presenti a seguirmi con un “Horns Up”. Siamo al termine del tour nell’Europa dell’Est, soddisfatti ma sicuramente anche molto stanchi, Cracovia significa l’ultimo concerto, il dire arrivederci ai ragazzi che hanno condiviso con noi questi trentacinque giorni. Il congedo avviene nella suggestiva cornice del Rotunda Club, locale storico, per l’occasione e per chiudere nel migliore dei modi. A fine set Sadist risaliamo sul palco in formazioni miste e regaliamo al pubblico, prima “Symbolic” dei Death e di seguito “Highway To Hell”, cavallo di battaglia degli AC/DC. Tra abbracci e qualche “see you soon”.. è tempo di salire sull’aereo che da Cracovia ci porterà a Milano, un paio di giorni e saremo ancora in viaggio, alla volta di uno dei festival più belli in Europa, l’Hellfest a Clisson. In alto il nostro saluto!!
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INTERVISTA A MARKY RAMONE di Barbara Volpi
“Non è per soldi che ho scritto questa autobiografia” precisa subito Marky Ramone in occasione della presentazione italiana del suo libro ‘Punk rock Blitzkrieg: la mia vita nei Ramones’ (Tsunami Edizioni). “L’ho fatto perché come superstite della storica band ho il dovere di rendermi testimone della verità, di ciò che essi sono stati veramente. Mi sento un miracolato. Tutti gli altri sono morti ed io sono vivo. Credo ci sia una ragione”. Marky Ramone si è salvato perché il fato gli ha voluto molto bene ma anche perché, a differenza degli altri Ramones, lui stesso sostiene di non aver mai fatto uso di
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droghe pesanti. E’ stato alcolista. Finché un giorno è entrato con l’automobile nella vetrina di un negozio e ha quasi ucciso delle persone. Allora ha capito che era arrivato il momento di ripulirsi e di cambiare vita. Così Marc Bell (questo è il suo vero nome) sì è preso del tempo e si è rimesso in sesto. Ha abbandonato lo stile di vita rock n’roll e anche il gruppo che l’aveva reso celebre ma con il quale era praticamente impossibile condurre una vita senza eccessi. E pensare che nel 1983 furono proprio Johnny e Dee Dee a chiedergli di lasciare la band per i suoi gravi problemi con la bottiglia e forse, inconsciamente, gli salvarono la vita. Loro non ce l’hanno fatta e come sopravvissuto ora Marky sente di avere una missione: quella di dire la verità circa i Ramones e la scena punk newyorkese dei tardi anni settanta che ruotava intorno al CBCG’s. Mr. Bell prima di cambiare il suo nome in Marky Ramone aveva suonato nei seminali Dust e aveva fatto parte degli altrettanti seminali Richard Hell & The Voidoids, padrini
della poi cosiddetta ‘blank generation’ (dall’omonimo album del 1977), dunque non era un neofita e per questo fu fortemente voluto da Tommy in persona. A vederlo pare un reperto ben conservato: sessantaquattro anni, capelli corvini con frangione da copione, magrezza, chiodo e pelle diafana. Parla con calma, cercando di sgretolare gli stereotipi e di fornire la sua verità su una scena che è stata uno spartiacque nella storia della musica. “Mi ci
occuparsi delle licenze, etc. E’ stato molto stancante ed infatti credo che non scriverò mai più un altro libro in vita mia”. Forse la realtà è che ci si stanca a rileggere la propria vita alla moviola, rivisitando memorie non sempre piacevoli, riportando alla luce ricordi anche dolorosi che si erano impantanati nello sgabuzzino oscuro del tempo. “Certo scrivere un’autobiografia è come un’operazione di verità davanti ad uno specchio: non
sono voluti cinque anni per completare il libro. Dovevo trovare uno scrittore in grado di aiutarmi che rispettasse la mia identità e alla fine ho scelto Rich Herschlag, ma poi si trattava di mettersi fisicamente al lavoro, raccogliere le foto,
puoi mentire a te stesso su ciò che è stata la tua vita, nel bene e nel male, non puoi nasconderti gli errori commessi, ma proprio per tale ragione questo processo è stato estremamente utile. Inoltre ti rendi conto che le esperienze ti hanno reso più
SPECIALE MARKY RAMONE
saggio, che hai imparato delle lezioni. Quella più grande che mi sentirei di nominare è quella di inseguire sempre i propri sogni, a costo di andare contro tutto e tutti. Quando i Ramones iniziarono non avevano credito ed in seguito vennero legittimati prevalentemente all’interno della scena che ruotava intorno al CBCB’s, che era la nostra casa. Altrove eravamo considerati dei freak e degli sbandati. Invece noi abbiamo perseverato con la nostra verità ed ora, a posteriori, mi rendo conto che nel nostro piccolo abbiamo cambiato un certo modo di approcciare la musica”. Il punk fu un fenomeno di rottura in primis sonoro (canzone brevissime come un pugno in faccia) e poi anche attitudinale perché sentenziava il fatto che tutti potessero fare del rock n’roll, pur senza possedere la tecnica o avere alle spalle una casa discografica, il famigerato motto del DIY. Il punk sentenziava che la
musica potesse nascere dal basso e venire dal basso legittimata, in un battessimo molto democratico. Ma che valore ha ancora esso oggi, ora che è stato fagocitato dall’establishment perdendo il valore eversivo originario e trasformandosi spesso in una moda per poser? “Il punk non può morire perché è la voce dell’indignazione rispetto alle ingiustizie e alle brutture dell’esistenza, di cui il mondo è ancora pieno (penso alla corruzione, alla disoccupazione, ma anche alle relazioni sbagliate) . Il punk è bisogno di verità, di coerenza, di denuncia, di lotta, affinché non si diventi inermi e rinunciatari rispetto alle asimmetrie e alle iniquità. Esso è energia di reazione e forza di combattimento. Noi, e in quel ‘noi’ includo anche gente come Patti Smith o i primi Talking Heads, credevamo nel potere d’urto della musica, nell’impatto che essa poteva avere sul sentire delle persone”. Eppure rispetto ai Sex Pistols, ai Clash, e ad un certo punk inglese più estremo, sguaiato o militante i Ramones venivano percepiti per certi versi come un gruppo meno impegnato. “Ma ciò è vero perché noi non siamo mai stati una band dichiaratamente politicizzata. Non abbiamo mai avuto l’intenzione di proporre slogan o ricette ideologiche. Noi suonavamo per divertirci ma lo facevamo in modo sarcastico, scanzonato, rompendo degli schemi e riportando ciò che vedevamo intorno a noi in quel momento senza filtri. Il nostro scopo era quello di distrarre le persone che venivano ai nostri show dai loro problemi facendole stare meglio. Tramite i nostri brani esse potevano rilasciare le
tensioni e scatenarsi senza freni liberandosi dallo stress. Ciò che noto oggi nei giovani è una certa abulia, una sorta di rassegnazione nell’accettare tutto. Invece bisognerebbe uscire di casa e tornare per strada a urlare, a protestare per un mondo migliore e a suonare”. Come attore protagonista di un mondo che per le nuove generazioni appare come un passato remoto, Marky Ramone è suo malgrado un’icona. L’influenza dei Ramones come precursori delle scene minimal wave e no wave newyorkesi ma anche del punk in generale è riconosciuta da tutti. “Io non mi sento un’icona ed allora noi non ci rendevamo conto dell’impronta che avremmo lasciato nel music-business. Soltanto con il tempo abbiamo realizzato la nostra importanza, quando molti artisti che non erano neppure così affini hanno iniziato a fare nostre cover o a citarci come principali fonte di ispirazione e come esempio (penso a certi gruppi grunge o anche ai Red Hot Chilly Peppers). Credo che il nostro ruolo abbia travalicato i confini del musicale per diventare veramente generazionale ed attitudinale. Tale consapevolezza mi ha dato una spinta ulteriore nello scrivere il libro. Chi ci prende come esempio deve sapere tutta la verità,
deve comprendere le luci ma anche le ombre che spesso ci hanno portati al limite dell’autodistruzione. Se la nostra vita, oltre alla nostra musica, può aiutare qualcuno a stare meglio allora io, come musicista ma anche come persona, ho assolto al mio ruolo”.
Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Punk Rock Blitzkrieg. La mia vita nei Ramones. Autore: Marky Ramone Editore: Tsunami Pagine: 384 pagine + 16 a colori ISBN: 978-88-96131-87-9 Prezzo: 21,50 Euro Acquistalo qui!
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di Fabio Magliano
Pietre miliari del metal ignobilmente stroncate al momento della loro pubblicazione, band accolte come nuovi messia e scomparse nel giro di qualche anno... tra conferme e smen-
tite, previsioni azzeccate ed altre disilluse, un viaggio negli archivi di Metal Hammer per vedere come la nostra rivista accolse lavori oggi considerati “storici” al momento della loro uscita. Oggi tocca ai Manowar con “The Triumph Of Steel” e al ritratto che ne fece nel 1992 Luca Signorelli E’ singolare vedere come la prospettiva di un disco cambi nel corso del tempo, lavori oggi considerati pietre miliari del metal accolti con freddezza dalla critica al momento dell’uscita o lavori subito etichettati come “next big thing” in grado di risollevare le sorti dell’heavy metal, finiti in un nano secondo nel dimenticatoio. E’ proprio per andare ad esplorare questa prospettiva che oggi è nato “Hammer Relics”, una rubrica che, andando a spulciare nello sconfinato archivio di Metal Hammer, si propone di “riesumare” le recensioni di quei dischi oggi considerati “storici” per vedere se le aspettative dell’epoca sono state confermate o se sono state disilluse, tra riscoperte, conferme o clamorose topiche. A tenere a battesimo la prima puntata della rubrica, una recensione dal lontano 1992 firmata da Luca Signorelli, una penna che ha fatto la storia della nostra rivista.
Nel Numero 10, Anno III di ottobre ‘92, Luca senza troppi giri di parole demoliva “The Triumph Of Steel” dei Manowar, un lavoro oggi considerato fondamentale nella discografia dei quattro paladini del “true metal” ma che, all’epoca venne accolto con scetticismo dagli afecionados del combo newyorkese, alle prese con un importante cambio di line-up (fuori Ross The Boss e Scott Columbus, dentro David Shankle e Rhino) e con un lavoro ambizioso introdotto da una suite di 28 minuti, “Achilles, Agony and Ecstasy” ispirata alle vicende dell’Iliade e dell’eroe Achille. Un disco destinato a dividere i fan tra chi non lo considerava all’altezza dei primi lavori come “Battle Hymns”, “Hail To England”, “Into Glory Ride” e “Sign Of The Hammer” e chi, invece, vedeva in esso un promettente nuovo inizio per Joey DeMaio & C. Sarà stato buon profeta il “nostro” Luca? Impossibile dirlo, visto che “The Triumph Of Steel” ancora oggi, a 24 anni di distanza, continua a dividere i true metal fan, in una diatriba che pensiamo durerà in eterno.
Metal Hammer - Anno 3 Nr 10 - ottobre 1992 Manowar The Triumph Of Steel (Eastwind) Uaaaaahhhh! Ahahahahahahaha! Ahahahahahahaha! Ragazzi questo si che è divertimento. Sì, lo so, il Fronte Per La Difesa Dei Manowar dopo questa recensione mi cercherà per affettarmi (come il Fronte Amichetti dei Guns ‘N’ Roses, due mesi fa), ma non riesco a fare a meno di ridere. Premetto che, anche quando tutti li adulavano, e su un sacco di magazines italiani e non uscivano recensioni deliranti sui loro ‘capolavori’, ho sempre trovato i Manowar assolutamente molli, insignificanti e non degni di leccare neanche le suole delle scarpe di Judas Priest, Blue Oyster Cult o Rush (tanto per citare tre gruppi che giocano con la fantasy). E questo disco conferma solo che sono sempre stati quattro americani con un grande amore per la commedia di quart’ordine. Andiamo, i casi sono due: o questo disco è una parodia (e allora come
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parodia è divertente ma non esilarante), oppure, se è serio (ma non credo) siamo di fronte a un caso patologico di stupidaggine acuta. I testi fanni pena, non solo per il soggetto, ma anche per la pura costruzione, la musica è un’accozzaglia di luoghi comuni incredibili, in pratica un gruppo Metal come probabilmente se lo immagina il PRMC, le stesse capacità strumentali della band (non disprezzabili negli altri dischi), sono ridotte al minimo. Chi diavolo vogliono prendere in giro? La mia teoria è che, dato l’ingiustificato successo degli Spinal Tap, i Manowar abbiano deciso di salire sul carrozzone, e comporre un disco che prende in giro il loro stesso genere. Che sicuramente è più divertente di quello dei Tap, ma non mi sembra particolarmente interessante… Luca Signorelli
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Segreti, consigli, curiosita' dal mondo del tatuaggio
di Alex “Necrotorture”Manco
Questo mese vi proponiamo un tattoo report del tutto speciale perché la diretta interessata è la mia pelle!!! Inizia tutto per caso, il caro Antonio Crovara Pescia, allievo di Gino Scuro del Papillon Tattoo Art Studio di Manfredonia (Foggia), posta su Facebook l’idea di realizzare un volto in occasione della prima edizione della TattooLand di Cerignola. Mi imbatto in questo post e gli propongo una bellissima caricatura di Angus Young trovata in rete del digital artist Andre Koekemoer, che entusiasma subito Antonio e che mi fa schizzare
dalla sedia!!! Ci siamo, il giorno è arrivato, lettino pronto, tutto il materiale sterile monouso è in attesa di essere scartato, i colori per le sfumature ed i riempimenti sono posizionati in file sul tavolino da lavoro, le macchinette a bobina son li che scaldano i motori e lo stencil del fantastico Angus è pronto per prendere posto sulla mia gamba, tre due uno, si parte!!! Antonio usa per linee due macchinette a bobina rispettivamente con aghi 7 e 5 (round line) leggermente allargati, mentre per
la colorazione e le sfumature due macchinette rotative rispettivamente con aghi magnum da 7 e 13. Si parte con le linee, l’anima di ogni tattoo, da lì Angus prende forma ora dopo ora, totalizzando quattro ore e mezza di intenso lavoro e concentrazione su una zona del corpo dove la pelle è abbastanza dura in cui stendere il colore per il riempimento della giacca e del cappello fino alle sfumature del viso richiedono varie riprese al fine di raggiungere un ottimo risultato nella fase di guarigione. Ogni colore scelto è una miscela di più tonalità, gli aghi vengono bagnati ripetutamente nelle varie colora-
zioni per ottenere le giuste miscelazioni che daranno vita ad un vero e proprio capolavoro, la pelle inizia a subire lo stress, le pause servono giusto a far riposare Antonio e a dare un po’ di assestamento ai colori iniettati nella pelle e poi subito si riparte verso la fine di questo fantastico ritratto. Ogni volta che mi tatuo è sempre una esperienza fantastica dove dal dolore ne vien fuori il risultato tanto atteso e vedere sulla propria pelle un Angus energico che stringe la propria chitarra è una sensazione indescrivibile, guardate l’espressione, il movimento delle labbra, le sfumature del volto e l’intensità dei colori, tutto questo è possibile solo se ti affidi a mani esperte e ovviamente a tatuatori di alto livello. Con la pelle non si scherza ragazzi, i tatuaggi non sono fatti per essere cancellati, restano!
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85 DGM The Passage (Frontiers)
I DGM sono ormai una band che a livello nazionale (ed internazionale) ha saputo disco dopo disco ritagliarsi uno spazio proprio nel panorama (prog) metal senza per questo doversi piegare a questa o quella moda. Ecco, volendo far loro “le pulci”, possiamo dire che il loro stile ha ricalcato in maniera troppo marcata la linea delineata da una delle loro Muse ispiratrici per antonomasia: Symphony X. Fino ad invitarne quei mostruosi musicisti nei loro album come Russel Allen (su “Momentum”) e Michael Romeo su questo “The Passage”. Ma questa volta il quintetto si è superato, si è tolto di dosso quella noiosa e fastidiosa etichetta producendo un album accattivante dall’inizio alla fine inserendo alcune influenze tipicamente melodic rock che rendono il disco maggiormente interessante e, soprattutto,
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originale. I prodromi di questo nuovo corso erano già presenti in Momentum con un brano come ‘Universe’, hanno potenziato questa tendenza grazie anche alla mirabile produzione dello stesso Mularoni, probabilmente uno dei suoi migliori prodotti di una ormai ultradecennale carriera. A questo va aggiunta una prestazione sopra le righe di Marco Basile che dopo l’entrata nella band nel lontano 2007 sfodera un cantato personale e sempre “sul pezzo”, ispirato e mai banale. A voler muovere una critica, bisogna onestamente registrare il fatto che se le parti corali fossero state potenziate ed “ingigantite” con altri coristi e non limitandosi a “doppiare” le parti vocali dallo stesso Basile, il risultato sarebbe stato ottimo. Ciò non toglie però che la qualità del songwriting e della produzione sia apprezzabilissi-
ma portando su un altro livello il nome DGM. Questo lo si nota in brani come “Animal”, scelto come singolo apripista, il brano più “mainstream” con un ritornello catchy che ti si stampa in testa fin dal primo ascolto senza scadere nella prevedibilità più assoluta, tastiere sempre presenti e mai invadenti ed un suono di chitarra tagliente e di spessore. ‘Dogma’ è uno dei brani ancora dal forte flavour alla Symphony X (avendo come guest un “certo” Michael Romeo) mentre ‘Ghost Of Insanity’ (che vede Tom Englund degli Evergrey come guest al microfono) ha un carattere melodic rock quasi in stile Eclipse con grandi cori e gustosi arrangiamenti di tastiera che impreziosiscono il risultato finale. ‘Fallen’ ha un attacco assassino che ti investe, un incedere heavy con lodevoli aperture melodiche dove si nota il lavoro certosi-
no, paziente ma puntuale del basso di Andrea Arcangeli. ‘The Secret’ è il brano più epico con una prima parte maggiormente prog (pure con i suoi cantati nella parte finale a là Journey di Eclipse) così come una seconda parte con una più spiccata propensione al melodic rock mantenendo sempre inalterato il carattere prog del brano nel suo insieme. “The Passage” è un album brillante che ci consegna una band in piena forma ed ispirata. I membri del gruppo hanno trovato il giusto equilibrio per una prima parte della tracklist con più concessioni al cosiddetto melodic rock di stampo scandinavo ed una seconda parte più votata al prog metal dei Symphony X. Verrebbe proprio da dire….bentornati DGM, pronti a scrivere un altro importante capitolo di una fulgida carriera. Andrea Schwarz
93 Blues Pills Lady In Gold (Nuclear Blast/Warner)
Solo un album. Ai Blues Pills è bastato solo e soltanto un album, lo straordinario, omonimo full-length d’esordio del 2014, per irrompere nei piani alti, per trasformarsi in una delle assolute formazioni di punta della Nuclear Blast, la quale ha sempre avuto l’occhio lungo nello scovare i nuovi talenti, le formazioni del domani. E per la band proveniente da Örebro, Svezia, la label tedesca nulla ha lasciato al caso, anzi ha puntato forte, decisamente forte, investendoci tutte le energie, e facendo sì che il nome Blues Pills risultasse sempre fresco, attuale, complice la buona ispirazione compositiva del four-piece e una confidenza con il palcoscenico semplicemente sbalorditiva, specie per un giovane gruppo alle prime armi come il loro. I Blues Pills hanno il futuro dalla propria parte, mi pare sia evidente, tutti coloro che li criticano per quella vena revivalistica alla base del loro sound, beh, si mettano definitivamente il cuore in pace, perché i Nostri di carte vincenti da giocare ne hanno ancora in abbondanza, e se nella line-up vanti una come l’affascinante Elin Larsson, hai di che dormire tranquillo per anni e anni a venire. Elin è una grande cantante, amante delle sonorità Sixties e di conseguenza cresciuta alla scuola di Janis
Joplin e Grace Slick, l’alfa e l’omega di detto stile vocale; una che è nata in Svezia, ma che ha vissuto parte dell’adolescenza in California, un tempo terra promessa per tutta la celeberrima flower power generation, è da lì che sorsero alcune delle stelle più luminose del firmamento rock. Ma Elin, tutto questo, lo sa benissimo, ha respirato lo stesso, inebriante humus, lo ha fatto proprio, quasi rivoluzionandolo, diventando dei Blues Pills sia l’inestimabile fulcro canoro, che l’elemento distintivo, di una band che troviamo familiare anche e soprattutto per la sua presenza fondamentale, aggiungerei imprescindibile quando ad entrare in circolo sono i dieci brani che compongono questo attesissimo “Lady In Gold”, un album balzato immediatamente in cima alle classifiche di mezza Europa dopo neppure dieci giorni dalla data della sua uscita! Questo, tanto per ribadirne il blasone, di un gruppo che ha lavorato enormemente per arrivare fin qui, consumando ogni sua stilla di energia su centinaia di palchi, suonando quasi con ossessione e travolgendo grazie a quel conturbante profumo vintage che i Blues Pills sprigionano irresistibilmente. L’effetto sorpresa, per forza di cose, si è oggi stemperato, compensato brillantemente da una mag-
gior sicurezza nei propri mezzi, il suonare costantemente ha prodotto grandi frutti, la vivida, parossistica title-track posta in apertura è strabordante, nella sua violenta rivendicazione… La ragazza veste d’oro, è regale ed autoritaria, tutti si piegano ai suoi voleri. Un brano che dice già molto, se non tutto, della sublimazione stilistica che si dibatte all’interno del secondo studio-album degli svedesi, ne simboleggia la dirompente ascesa. Ma molti i passi determinanti dentro ‘Lady In Gold’, magnifica la ballad semi-acustica ‘I Felt A Change’, in cui Elin si erge a protagonista totale, oppure la successiva ‘Gone So Long’, che scivola via sinuosa ed istintiva, una canzone questa in grado realmente di condizionare le fortune di un album. Movimentata è anche ‘You Gotta Try’, che parte a rilento con un blues sofferto e crepuscolare, per poi ritrovarsi velocemente trasformata in un suggestivo vortice cosmico. Bellissima è ‘Rejection’, nel corso della quale il rock e il soul si studiano e si stuzzicano a vicenda, in un contesto nobile e solenne, peccaminoso solo apparentemente... Questa, in sintesi, la regalità di “Lady In Gold”, un album che, lasciato libero, finirà per entrarvi nel sangue. Alex Ventriglia
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Sabaton The Last Stand (NUCLEAR BLAST/WARNER) 86 Anderson/Stolt Invention OF Knowledge (Inside Out/ 75 Sony)
Ora, che i Sabaton abbiano trovato la quadratura del proprio sound non lo scopriamo di certo oggi, quindi è inutile star qui a disquisire sull’aria fritta. “The Last Stand” è il nono capitolo discografico di una band che negli ultimi sei anni almeno (considerando il successo guadagnato dopo “Coat Of Arms” e l’esplosione in seguito a “Carolus Rex”) è stata capace di guadagnarsi tanti estimatori quanti denigratori, e di questo non possiamo farci niente, capita a tutte le band che riescono a concentrare su di sé le luci della ribalta, i primi comunque prevalgono sui secondi, altrimenti l’esponenziale crescita degli svedesi non si spiegherebbe. Il punto è che attaccarsi a sterili pregiudizi o a spiegazioni trite e ritrite (“hanno raggiunto il successo e si sono seduti”, “hanno trovato la formula e non la mollano più”) serve pressoché a nulla al fine di dare il corretto giudizio a quest’ultima fatica discografica dei ragazzi di Falun. Chi si è lamentato della mancanza di epicità e anthemicità (‘Sparta’ e ‘The Last Battle’ dove le mettiamo?), rimpiangendo ‘Ghost Division’ o ‘Primo Victoria’ (anche allora ci fu chi diede dei quattro immeritati), altri che puntano il dito sull’esasperata omogeneità dei pezzi (sarà, ma io tra ‘Rorke’s Drift’ e ‘Shiroyama’ o ‘Winged Hussars’ non sento la stessa cosa), chi si è intestardito su una tracklist da montagne russe del disco (di questo si poteva parlare per “Heroes”, dove qualche filler poteva anche esserci), insomma fra gli addetti ai lavori, con cui ci si confronta inevitabilmente sulle uscite, pochi contenti e molti col naso torto. Così non si va da nessuna parte però, perché c’è una falla nella catena dei presupposti: se i Sabaton non sono mai piaciuti, la cosa peggiorerà, è inutile cercare a ogni disco di incaponirsi per vedere se sono cambiati, non succederà mai. Quindi, cosa dire di “The Last Stand”? È un nuovo, conseguente album degli svedesi, né più né meno di quel che avete già potuto ascoltare (salvo per il capolavoro “Carolus Rex”). Un disco di guerra, pace, irruenza e riflessione. Tanto basta. Stefano Giorgianni
Prendetevi del tempo, tanto tempo. Scegliete una giornata dove rilassarvi ascoltando musica, un bel divano e qualcosa da sorseggiare. Questo è il contesto ideale per potersi accostare ad un disco inedito del duo Anderson / Stolt, il primo insieme per un’estate in cui segnaliamo l’ennesimo disco di qualità. Astenersi amanti del rock diretto e senza fronzoli, accorrano coloro che invece hanno amato (ed amano) il prog anni ‘70 dove l’arte si fa musica. Le carriere di Stolt (Kaipa, Transatlantic) ed Anderson (Yes) non hanno bisogno certo di presentazioni, i loro indiscussi talenti si fondono qui per formare un sound dalle mille sfacettature che definire prog è quasi riduttivo, a volte tante piccole sfumature ed arrangiamenti si notano dopo molti attenti ascolti. Le coordinate sonore si denotano fin dall’opener “Invention”, barocche, ariose ed allo stesso tempo magniloquenti: la voce di Anderson è usata dallo stesso come uno strumento musicale ed è parte integrante delle canzoni al pari di chitarre e/o tastiere. Stolt da par suo è riuscito a mettere in musica il genio di Anderson dando un “taglio” settantiano al tutto grazie alle esecuzioni di musicisti di tutto rispetto come Felix
Lehmann (batteria), Jonas Reingold (basso), Tom Brislin (tastiere), tutti e tre già insieme a Stolt nei The Flower Kings. Non fidatevi delle prime sensazioni che il primo ascolto vi donerà ma andate a fondo scoprendo un infinito caleidoscopio di suoni e sfumature. Non ve ne pentirete. Andrea Schwarz
Skillet Unleashed (Warner)
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Gli americani Skillet, una delle band christian rock più note nel loro genere, si ripropongono a distanza di tre anni dal loro ultimo lavoro “Rise” con “Unleashed” sempre per Atlantic Records. L’album è composto da dodici brani, simili tra loro per ritmica e stile. La voce pulita del fondatore John Cooper si alterna e si fonde armonicamente con quelle femminili della batterista Jen Ledger e Korey Cooper (tastiere, chitarra ritmica, sintetizzatore), in un ottimo lavoro di produzione. Vengono usati molti effetti vocali per rafforzare e dare corpo al cantato, basato su strofe cadenzate con ritornelli e parti più melodiche. La grinta arriva dalla base ritmica incalzante, caratterizzata da un massiccio uso di tastiere, effetti elettronici e sintetizzatori. La struttura dei brani è pressochè la medesima; alcuni pezzi
risultano molto piacevoli se ascoltati separatamente, ma nell’insieme dell’album rischiano di perdersi. Evocativo e di immediata presa il duetto ‘I want to live’, mentre ‘Famous’, con la sua carica, sembra scritta apposta per far ballare. “Unleashed” si presenta con un artwork aggressivo e scuro, in contrasto con alcune scelte di sonorità che avvicinano gli Skillet al pop rock, rendendo questo album un prodotto sicuramente fruibile al vasto pubblico e adatto all’utilizzo cinematografico. Molti dei testi sono a sfondo motivazionale, di ispirazione religiosa, caratteristica per cui gli Skillet sono celebri e di cui vanno fieri. “Unleashed” è un album di facile ascolto, sicuramente d’impatto e dinamico. Angela Volpe
q5 New World Order (Frontiers)
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I Q5 sono una band nata nel lontano ‘83 a Seattle, quando non era ancora la patria del grunge e che nel corso di 2 anni sono diventati abbastanza famosi (cosi dicono le note che ci sono pervenute) grazie alla pubblicazione di ”Steel The Light” 1984 e “When The Mirror Cracks” 1985. Per le solite divergenze musicali la band si scioglie ma il cantante Jonathan K ed il chitarrista Rick Pierce formano i Nightshade
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dando alla luce l’album “Dead Of Night” che praticamente è il terzo album del Q5. La band prosegue il suo cammino producendo altri album. Nel 2014 i Q5 si sono riformati per suonare allo Sweden Rock e la risposta del pubblico è stata così positiva da spingere la band ad una sorta di reunion anche se solo con il bassista Evan Sheeley. Oggi i Q5 si sono ufficialmente riformati e tornano con un album contenente quattordici canzoni nuove (di cui una strumentale) che ricalcano in pieno lo stile di -ormai- trent’anni fa. Hard rock con influenze metal che riportano alla mente band come Ac/dc (“We Came Here To Rock”, “The Right Way”) o gli Iron Maiden (“One Night In Hellas”) o Accept (“Tear Up The Night”) ma anche Kiss (“Just One Kiss”). Le canzoni contenute in questo come-back non sono male, ma non si può certo gridare al miracolo, anzi. A dirla tutta, prima di questa release io non conoscevo proprio i Q5 e dopo aver ascoltato l’album più volte non è difficile ammettere che non sarà questa la reunion della quale si parlerà prossimamente. Andrea Lami
CRISTIAN BAGNOLI Rockambolo (Materiali 75 Musicali Ed.) A distanza di 6 anni e con 2 album già all’atti-
vo, torna Cristian “Cicci” Bagnoli, chitarrista/cantante già all’opera con Claudio “gallo” Golinelli, Steve Rogers Band e Maurizio Solieri Band. L’ultimo suo lavoro era un album pop/rock con cantato in italiano, oggi invece abbiamo in mano un album quasi totalmente strumentale dove “Cicci” può esprimere sé stesso senza nessun freno. Si parte con “Ireland” un brano molto dolce che sembra mescolare due stili e più precisamente quello di Eric Johnson e di Mark Knopfler. Si prosegue con “Brakeless” di matrice sicuramente più rock, soprattutto per l’armonia/ritmica, che per certi versi ricorda il grande Joe Satriani. Nel finale troviamo un duello tra la chitarra e un hammond (suonato da Fabrizio Foschini degli Stadio) che avrebbe fatto la gioia dei Deep Purple. “Siamo qui per scommessa” è il brano più semplice del lotto, merito anche del testo/ coro. L’orecchio dell’ascoltatore è abituato al formato classico della canzone fa presto a seguirne la melodia. “Boomerang” ti rapisce con un basso pulsante sopra il quale la chitarra di Cicci è libera di spaziare in lungo e largo. “Riflessi All’Alba” è la ballad, particolarmente delicata e melodica. “Cypscy (dedicated to J.B.)” è il brano che chiude questo gioiellino, l’influenza, anzi la dedica è rivolta al grande Jeff Beck ed infatti la canzone ne ricalca lo stile. Cicci dà alla luce un album nel quale varia da uno stile all’altro senza perdere di personalità, cosa che capita non proprio a tutti i musicisti! Un album non solo per i chitarristi ma per tutti. Andrea Lami
Any Given Day Everlasting (REDFIELD REC.) 86 Soilwork Death Resonance (Nuclear Blast/ Warner) 70 Son tempi strani, nella Un anno dopo “The Ride Majestic”, il nuovo album dei Soilwork per Nuclear Blast è una collezione di rarità, con l’aggiunta di due inediti. Nonostante i brani provengano da album diversi, il suono generale dell’album è compatto e omogeneo. In “Death Resonance” troviamo l’intero Ep “Beyond the infinite” risalente al 2014 ma commercializzato solamente sul mercato asiatico. A seguire, sono state inserite le bonus tracks presenti negli album “Stabbing The Drama”, “Sworn To A Great Divide” e “The Panic Broadcast” nelle versioni esclusive per il mercato giapponese. In apertura dell’album, ‘Helsinki’, il primo inedito, caratterizzato da una combinazione equilibrata di aggressività e dinamicità, con l’aggiunta di un velo nostalgico. Medesima impronta per la title track, un pezzo che include tutte le peculiarità per le quali i Soilwork sono da anni apprezzati dal pubblico. La band svedese ha quindi voluto mettere a disposizione dell’affezionato pubblico europeo alcuni brani finora rimasti prerogativa dei fans orientali. Le quindici tracce selezionate per “Death Resonance” raccolgono tutta la potenza espressiva della musica
Il metalcore è uno dei generi allo stesso tempo più amati e bistrattati di oggi. Eppure ogni tanto c’è un lampo di luce, un groviglio di suoni che può metter d’accordo tutti e, per quanto riguarda il sottoscritto, questo bagliore è rappresentato dagli Any Given Day. La giovane band tedesca, autrice dello stupefacente “My Longest Way Home” (da me votato come album -core del 2014), torna in questo 2016 con un album che conferma ciò che di buono era stato fatto in precedenza e, se possibile, accresce il valore del quintetto di Gelsenkirchen. Il sound rimane pressoché invariato rispetto al precedente full-length, con una mistura equilibrata fra metalcore e djent (la rinomata variante informe si dice inventata dai monolitici Meshuggah), dove troneggia la voce del possente Dennis Diehl, un armadio a quattro ante capace anche di regalare emozioni con un cantato pulito di tutto rispetto. Analizzando questo “Everlasting” più in profondità, si può notare come non vi siano filler di alcun genere; ogni pezzo è disposto in maniera sapiente nella tracklist, adornando l’album con un saliscendi di sensazioni sullo stampo di “My Longest Way Home”. Cinquanta minuti di altalenanti botte sonore e di flebili sfumature melodiche che di tanto in tanto offrono angoli di rilassamento; affermazione quest’ultima giustificata già dall’opener ‘My Doom’, traccia dalla partenza quieta e dall’impettito sfogo improvviso, un’alternanza che si colloca appieno nel sound degli Any Given Day. Impressionante per tutta la durata dell’album è il lavoro della sezione ritmica, composta da Raphael Altmann dietro le pelli e Michael Golinski al basso, un duo che esalta la cadenza tipica del djent e sostiene alla grande l’opera di riffing degli axeman Andy Posdziech e Dennis Ter Schmitten. Continuando nell’ascolto si scorgono altri preziosi nascosti in “Everlasting”, come ‘Levels’, nella quale Diehl fornisce una delle migliori prestazioni del disco, l’irruenta ‘Coward King’, ‘Sinner’s Kingdom’, ‘Hold Back The Time’ e ‘Arise’, dove troviamo Matt Heafy dei Trivium a dare man forte all’indomito vocalist. Abbiamo trovato la release -core del 2016? Potremmo scommetterci qualcosa! Stefano Giorgianni
sito www.metalhammer.it METALHAMMER.IT 57
Evergrey The Storm Within (AFM/AUDIOGLOBE)
dei Soilwork, dal puro sapore melodic death metal svedese. Angela Volpe
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Asenblut Berserker (AFM/ Audioglobe)
Nella vita s’incontrano tante persone con cui finiamo per instaurare dei legami più o meno saldi e profondi, persone che dicono di conoscerci e di cui noi diciamo lo stesso; a volte però non basta conoscersi da tutta una vita e condividere gli stessi tracciati d’esistenza per capire appieno cosa succede nella testa delle persone che amiamo, altre volte siamo noi stessi a indossare una maschera mentre sotto la superficie si scatena l’inferno: è questo il nocciolo attorno al quale orbita il nuovo album degli Evergrey, “The Storm Within”. In “The Storm Within” emerge il lato più umano del progressive: c’è una componente emotiva importante che si muove agile tra le ricche linee melodiche e le brillanti soluzioni ritmiche. È la grande varietà delle tracce proposte a dare corpo alla tempesta interiore: si parte con la marziale “Distance” per poi ritrovarsi nell’occhio del ciclone con un pezzo up-tempo ed energico come “Passing Through”; questi subitanei cambi di registro conferiscono all’album una caratteristica ambivalenza, una spettacolare commistione di luci e ombre che ipnotizza l’ascoltatore come la luce della candela fa con l’ingenua falena. È doveroso spendere qualche parola per la sezione vocale di “The Storm Within”: Tom Englund si conferma ancora una volta come un vocalist di rara abilità, accorato e sincero, capace di toccare il cuore di chi l’ascolta con una delicatezza senza pari. Vanno menzionate anche le due featurettes che hanno impreziosito ulteriormente “The Storm Within”: la prima è Carina Englund, moglie di Tom e asso nella manica della band già dagli anni dell’esordio. Dai bambini del suo coro nella traccia d’apertura al duetto con il marito, “The Paradox Of The Flame”, Carina aggiunge quella vibrazione in più con il suo timbro corposo e unico. C’è un’altra donna di alto calibro a dividere il microfono con Englund: è Floor Jansen, che in “In Orbit” seduce e incanta, restando al centro dell’attenzione senza però rubare la scena. “The Storm Within” è il delizioso frutto del lavoro di una band straordinaria, un album alla portata di tutti che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta nella sua vita, specialmente quando si sente tutt’intorno quell’opprimente mancanza di bellezza che ci ingrigisce la vista e il cuore. Alessandra Mazzarella
tacca sulla cintura degli Asenblut, un lavoro dignitoso, di tutto rispetto e ricco di spunti interessanti che potrebbero essere sfruttati in occasione di un’uscita futura. Alessandra Mazzarella
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Freschi di contratto con la AFM Records e sotto la guida di Sebastian Levermann (frontman degli Orden Ogan e proprietario dei Greenman Studios), i tedeschi Asenblut danno alla luce il terzo capitolo della loro avvincente saga, “Berserker”. Le sonorità della band risentono fortemente dell’influenza della scuola estrema scandinava, con palesi richiami alla tradizione viking di cui gli Amon Amarth sono gli orgogliosi portabandiera. Tema ricorrente in “Berserker” è lo scontro tra il singolo e le difficoltà, rappresentate di volta in volta da persone, eventi o perfino da se stessi. La proposta musicale in sé è un death metal infuso di black, corredato di una sezione vocale di rara ferocia e impreziosito da inserti melodici niente affatto scontati. Un punto a favore degli Asenblut è certamente l’aver evitato di far ristagnare i propri testi in quei miti norreni da cui hanno attinto innumerevoli band nel corso degli ultimi vent’anni, preferendo fonti d’ispirazione più moderne e vicine ai gusti degli ascoltatori più giovani. “Berserker” è un buona
Metatrone Eucharismetal (Rockshots)
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Uscito a marzo per Rockshots Music, questo disco dei Metatrone è senz’ombra di dubbio una delle release più valide nel cosiddetto Christian Metal. Particolare orgoglio nel recensire questo full-length c’è anche da italiano, poiché si tratta di una formazione italica e di grande valore, cosa da non trascurare nel marasma degli album ignobili che arrivano di giorno in giorno sulle nostre scrivanie. Ebbene, dopo “La Mano Potente” (2005), seguita a stretto giro dalla versione inglese intitolata “The Powerful Hand”, e dal successivo “Paradigma”, il verbo dei Metatrone continua a diffondersi tra i discepoli con questo “Eucharismetal”, un disco di comunione e fratellanza metallica con pochi eguali in questo 2016. Per chi non conoscesse il gruppo catanese, si è di fronte a un power-prog metal di qualità, con sprazzi di estremo segnati dal growl di Padre Davide Bruno, l’elemento di spicco per quel che riguarda la formazione italica. Sul fronte novità si
ha invece l’entrata del bassista Dino Fiorenza (Billy Sheehan, Steve Vai, Paul Gilbert) e di Salvo Grasso alla batteria (Hypersonic, DenieD); una sezione ritmica rinnovata dunque, che contribuisce a rendere il sound dei Metatrone ancor più compatto e incisivo. Tra gli ottimi arrangiamenti di Davide Bruno e il timbro distintivo di Jo Lombardo, il gruppo siciliano inanella un pezzo pregevole dietro l’altro, si citino ad esempio l’opener ‘Alef Dalet Mem’, dove s’innalza un power d’annata con un chorus orecchiabile e una grande prestazione dell’intero combo, l’eclettica ‘Molokai’, con un ottimo lavoro di basso di Fiorenza e il testo ben ricamato nella nostra lingua, oppure la classica ‘Mozart’s Nightmare’, nella quale primeggia il talento alle tastiere di Bruno. Un lavoro da inserire assolutamente nella collezione dei patiti del Power e ovviamente del Christian Metal! Stefano Giorgianni
Temperance The Earth Embraces Us All (Scarlet/ 74 Audioglobe) Il terzo album dei Temperance per Scarlett Records si chiama “The Earth Embraces Us All” e segue a distanza di appena un anno “Limitless”. Fin dal primo ascolto, appare evidente il grande lavoro di questa band che in tre anni ha
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raggiunto apprezzamenti e maturità artistica. Gli undici brani del nuovo album sono ben studiati, con arrangiamenti curati e un ottimo lavoro di produzione. Tutto ciò emerge subito, con il primo brano in scaletta ‘A Thousand Places’, che introduce tutta la grinta che caratterizza i Temperance. Cavalcate epiche, ritornelli potenti, sessione ritmica incalzante, forti richiami alle sonorità folk, questi ultimi più netti in ‘Unspoken Words’ . Tutti i brani sono strutturati in maniera accattivante e risultano coinvolgenti, ne è un ottimo esempio ‘At The Edge Of Space’. In ‘Maschere’, l’unico brano con testo in italiano, esplodono le tastiere e i suoni elettronici. Chiara Tricarico si conferma una delle voci italiane femminili più interessanti del panorama metal italiano, poiché il suo stile non è mai stucchevole, ma tagliente e preciso. Dopo soli tre anni di attività alle spalle, i Temperance hanno dimostrato abilità notevoli e un potenziale decisamente promettente. “The Earth Embraces Us All” è un album consigliato anche a chi solitamente non ama e non ascolta questo genere. Angela Volpe
Crazy LIXX Sound Of the Live Minority 75 (Frontiers) I Crazy Lixx sono erroneamente più famosi per aver avuto nella line-up
l’attuale chitarrista degli Hardcore Superstar, che per quello che sono riusciti a produrre. Ad oggi la band svedese ha dato alla luce quattro album in studio di buona fattura che li hanno fatti passare brevemente da “nuova scoperta” a realtà da tenere sott’occhio. La tracklist di questo live album è abbastanza equilibrata visto che le canzoni in esso contenute fanno parte di tutta la discografia della band. Si inizia subito bene con “Rock And A Hard Place”/”Lock Up Your Daughter” e “Blame It On Love” tutte estratte da “New Religion”, l’album più saccheggiato visto che sei dei quattrordici brani provengono da lì. Si prosegue mantenendo l’asticella della qualità alta con “Riot Avenue” ma anche “Hell Raising Women” o con “Heroes Are Forever” una canzone ripresa d’esordio “Loud Minority” ma recentemente re-incisa ed inserita nell’omonimo album uscito ormai due anni fa. Fortunatamente la band è passata più volte in Italia, quindi abbiamo avuto la fortuna di poterli vedere sul palco e quello che stiamo ascoltando oggi non è altro che la fotografia di cosa questa band sa fare. Il nuovo chitarrista Jens Lundgren (ex Bai Bang) è perfettamente integrato nella band e dà il suo apporto per la riuscita di questo album live, come spesso accade, destinato ai superfan della band o a chi si vuole avvicinare ad una band glam/sleazy con una buona vena melodica. Andrea Lami
Pain Of Salvation Remedy Lane (Revisited) (INSIDE OUT/SONY)
75 Revocation Great Is Our Sin 60 (Metal Blade) Gli americani Revocation sono un quartetto dedito ad una feroce miscela sonora a cavallo tra il buon vecchio thrash con reminiscenze death cercando al tempo stesso di dare al tutto un taglio moderno per rendere la loro proposta sonora interessante. Tecnica sopraffina, una certa propensione a scrivere musica dove la brutalità viene mitigata da solismi classici ed un’attenzione ad imbastire vocals “melodiche”. Aggiungiamo anche che “Guilt Is Our Sin” è certamente il loro prodotto migliore della loro decennale carriera che certamente non dispiacerà agli amanti del genere. Ma come in tutte le cose c’è un ma, con la lettera maiuscola. In un mercato odierno altamente inflazionato con ogni genere di uscita ormai quotidiana duole constatare che la proposta dei Revocation difetta di quella originalità che li farebbe innalzare dal calderone generale nel quale inevitabilmente tutte le band rischiano di finire. L’estrema tecnica e perizia esecutiva di cui la band è dotata (nonché la buonissima produzione di cui gode l’album) non sono sufficienti per innalzare il disco al di sopra della media. Un vero peccato anche se i die-hard fans del genere troveranno ciò di cui gioire.. Andrea Schwarz
Remedy Lane rappresenta senza ombra di dubbio uno dei momenti migliori nella produzione dei Pain of Salvation, un album che quando uscì nel 2002 suonava molto più accessibile rispetto a “One Hour by The Concrete Lake” e “The Perfect Element”, due dischi che lo avevano (a livello temporale) preceduto pur mantenendo pienamente fede alla natura prog della band. Fu ancora una volta un concept album ma la forza creativa di Daniel Gildenlow & Co. è riuscita a far suonare questi 13 brani come parti a se stanti di un mosaico unico, rendendo fruibile ed intrigante il loro prog sperimentale ed affatto scontato. “Remedy Lane” riusciva nell’obiettivo di mostrare il lato più solare del gruppo, un ideale ponte stilistico tra l’aggressività di “One Hour by….” ed il loro progetto acustico “12:5” passando da brani old style come “Second Love” a momenti maggiormente heavy come in “A Trace of Blood”. Ma perché oggi siamo qui a parlare di un grandissimo album...uscito nel 2002? Avete ragione. Ma perchè Daniel Gildenlow, vera mente e cuore pulsante dei Pain of Salvation ha ben pensato di ripubblicare questo masterpiece in versione remixata riuscendo nell’intento di migliorarne la qualità sonora laddove altre bands hanno fallito. Il merito di tutto questo va tributato a Jens Bogren che, dopo aver lavorato a “Scarsick” riesce a rendere il suono della batteria più pieno e roccioso, le chitarre maggiormente presenti. Ma la cosa che colpisce di più è il fatto di aver messo in risalto le parti cantate e gli arrangiamenti tanto che in alcuni casi è possibile ascoltare alcune sfumature musicali o vocali che nella versione originale erano troppo impastate in un magma sonoro che rendeva il suono monolitico e troppo “confusionario”. Se inizialmente si potevano avere dubbi sull’utilità di questa operazione, bisogna onestamente ammettere che con “Remedy Lane - Re:visited (Re:mixed)” Jens Bogren ha creato un masterpiece nel masterpiece. Insomma, chi aveva adorato la versione originaria nel 2002 scoprirà nuove emozioni ed arrangiamenti “inediti” mentre per tutti gli altri è un modo sorprendente per scoprire un autentico must della discografia dei Pain of Salvation. Andrea Schwarz
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Twilight Force Heroes Of Mighty Magic (NUCLEAR BLAST/WARNER)
60 My Regime Dogmas (Scarlet/ Audioglobe)
Il nuovo album, “Heroes Of Mighty Magic”, uscito per Nuclear Blast riporta prepotentemente ai Rhapsody degli inizi ma eliminando le parti più cupe e aggressive (da cercare col lanternino in Legendary Tales, ma c’erano). Non si trova una parentesi dark alla Manowar o magari digressioni più pop-metal squadrate come fanno Edguy o Sonata Arctica. Qui c’è solo la corsa sfrenata verso un inevitabile trionfo. E viene da fare l’analogia con i Dragonforce. Cosa aveva di speciale, infatti, la band di Herman Li? Una velocità inverosimile; la mossa giusta per farsi notare che presto si trasformò in un vicolo cieco. Come il power in sé isolava una serie di elementi metal esasperandoli, i Dragonforce fecero un ulteriore lavoro di focalizzazione. I Twilight Force portano oggi alle estreme conseguenze un altro segmento caratterizzante del power: la gioia. Sembrano fuori di testa e non per i costumi ma l’entusiasmo, l’ottimismo, la sfrenata voglia di credere agli elfi, i draghi e la vittoria incondizionata su forze avverse che dovrebbero essere tipo i cattivi di Shannara ma con le mani legate dietro la schiena. Eccoli, una combriccola di cosplayer uscita da un boschetto dietro al Wacken e da chiedersi se non siano la versione fantasy degli Steel Panther. No, loro ci credono sul serio. Non infarciscono di rutti fatati pezzi come Powerwind. Non ironizzano sull’assoluta mancanza di fica dei nerd che trascorrono pomeriggi a lanciarsi maledizioni in tenuta da druido. Loro sono serissimi, auspicano l’esistenza dei draghi, assumono nani come roadie e la gente finisce per rispettarli e lasciarsi conquistare. Basta vedere i filmati dei concerti, su you tube. In quei video la gente non poga, fa girotondi e trenini, ma in fondo è la diretta conseguenza della scelta artistica dei Twilight Force: se al metal togli l’oscurità, la rabbia risentita, il pessimismo, la paura, quello che rimane è puro nettare serotoninico. Il pubblico ovviamente non può più massacrarsi col mosh e finirà per fare i trenini. E cosa c’è di male in tutto questo? Niente, è solo un altro capitolo della Storia di questo genere o il momento in cui tutto si fotte definitivamente. Personalmente dopo averli sentiti mi sono dovuto ricostituire con l’intera discografia dei Pig Destroyer.
60
La scelta di suonare Thrash tradizionale è pratica molto comune al giorno d’oggi, forse anche troppo, data la mole di gruppi che si dedicano al genere senza apportare qualcosa di proprio. I My Regime, la nuova band di Spice (al secolo Christian Sjöstrand, ex membro storico degli Spiritual Beggars) non sono purtroppo un’eccezione. L’intenzione e l’attitudine non mancano affatto, quello che latita è la capacità di andare un po’ oltre un discorso che hanno fatto e pure meglio, molti altri in passato. Capiamoci, non si pretende l’originalità ad ogni costo, ma un minimo di personalità sì. Spesso le linee vocali ed i riff sembrano assomigliarsi un po’ tutti fra loro, rendendo le canzoni piuttosto impersonali. E’ il problema di un genere di nuovo inflazionato e immanente da anni. Con questa premessa sembra quasi che il disco sia una bruttura esagerata, ma non è così. Ci sono momenti ben riusciti ed energici come “Suicide Christ”, dove la voce di Spice aggredisce per bene l’ascoltatore e la velocità del pezzo convince. In altri ci si diverte meno, come in “Cuba Libre” praticamente una cover di “Death’s Head” degli Slayer, ma si ha sempre la sensazione che nonostante la buona volontà
ci si dimenticherà presto di questo disco dopo qualche ascolto. Buono per sfogare rabbia ed energia sul momento, però se cercate del Thrash che abbia qualcosa di diverso e peculiare, allora i My Regime non fanno per voi. Max Novelli
National Suicide Another Round (Scarlet/ 72 Audioglobe) Passata la sbornia di band thrash di seconda generazione, fenomeno che ha caratterizzato l’ultimo decennio, oggi non ci resta che contare i sopravvissuti. Tra i meritevoli di citazione ci sono sicuramente i National Suicide, freschi autori di “Anotheround”, il successore di “The Old Family Is Still Alive” del 2009. Mettiamo subito in chiaro le cose, i National Suicide sono una thrash band atipica, pur se riconducibili a quell’alveolo, i trentini hanno una spiccata propensione melodica che può ricordare certo speed metal (Metal Church e Overkill) ma anche il bellicoso primo power metal tedesco (Grave Digger e Running Wild), se non addirittura l’heavy classico degli Accepet. Tra velocità ad altissimi giri, assoli a gogo e cori anthemici a iosa, spunta a caratterizzare il tutto – in positivo o negativo, a seconda dei gusti – l’ugola di Stefano Mini, cantante dal timbro acido e stridulo, che richiama in alcuni
frangenti il lavoro di alcuni illustri colleghi quali David Wayne o Udo Dirkschneider. Tutte queste componenti rendono “Anotheround” un album piacevolissimo da ascoltare perché vario, avvincente e trasversale. Brani come No Shot No Dead, I Refuse to Cry, Fire at Will e I Have No Fear, vi faranno dimenare come degli ossessi senza un attimo di tregua. “Anotheround”, pur non essendo un capolavoro, è un disco che vale la pena procurarsi, nonostante il parere negativo dell’Associazione Italiana Ortopedici! Giuseppe F. Cassatella
Eversin Trinity: the Annihilation
(My Kingdom)
68
Terzo lavoro che segna una crescita artistica costante per i siciliani Eversin che, con ‘Trinity: the Annihilation’ non solo confermano quanto di buono fatto vedere in 15 anni di carriera, ma spostano l’asticella un po’ più in alto, riuscendo nell’intento di dare vita ad una proposta sonora che, se da un lato continua a mantenere ben chiare quelle che sono le radici stilistiche del gruppo, dall’altro mostra una spiccata dose di originalità, merce rara di questi tempi. ‘Trinity: the Annihilation’ esplode senza troppe remore con il suo bagaglio stilistico radicato nel sound dei Testament, degli Slayer
Francesco Ceccamea
Ogni Giorno nuove recensioni sul nostro 60 METALHAMMER.IT
e dei Forbidden, giusto per citare quelle che maggiormente fanno capolino tra le note di questo disco, rilasciando però, con il susseguirsi degli ascolti, elementi che ne fanno un disco carico di attitudine e di personalità. Quella personalità che non manca all’opener ‘Flagellum Dei’, una chiara dichiarazione di intenti che poco spazio lascia a fronzoli ed orpelli, concentrata com’è nel raggiungere in modo diretto e possibilmente doloroso l’obiettivo. ‘Fire Walk With Me’ proposta con James Rivera degli Helstara duettare con Angelo Ferrante è puro thrash vecchia maniera, mentre nella claustrofobica ‘Chaosborn’ inizia a far capolino quel che di personale di cui accennavamo in precedenza, inserito in un contesto schizoide dove pesantezza e velocità vanno perfettamente a braccetto. In ‘We Will Prevail’ spunta un altro special guest d’eccezione nelle vesti di Glen Alvelais (Testament, Forbidden) che impreziosice con la sua sei corde uno dei brani più riusciti del disco. Così come degne di menzione sono anche la robusta ‘Crown Of Nails’ e la tetra title track cui spetta il compito di chiudere con il botto (nucleare, tanto per rimanere in tema con il concept del disco) un lavoro che sancisce la definitiva consacrazione degli Eversin. Fabio Magliano
Perseus A Tale Whispered In The Night (Buil2kill Records / Nadir Music)
78
Ritorno in grande stile per i pugliesi Perseus, che con “A Tale Whispered In The Night“ fanno dei giganti passi in avanti rispetto al debut album “The Mystic Hands Of Fate”, disco che aveva lasciato con l’amaro in bocca diversi addetti ai lavori. Il credo dei brindisini è sempre quello del Power Metal, ma stavolta le composizioni sono ben più ragionate e curate rispetto alla scorsa release. “A Tale Whispered In The Night“ presenta difatti una struttura complessa, anche se scorrevole, con addirittura diciannove pezzi nella tracklist, la maggior parte dei quali sono comunque dei brevi intermezzi, come i dettami del genere vogliono. Scelta comunque coraggiosa quella dei Perseus, che si propongono di raccontare una storia con potenza e leggerezza, inframezzandola con il rischio di far perdere il ritmo al disco, cosa che comunque non accade, lasciando scivolare le brevi tracce d’interludio come sosta per l’udito dell’ascoltatore. Oltre alla produzione (a opera dell’onnipresente Simone Mularoni) e al songwriting, i due tratti distintivi di questo “A Tale Whispered In The Night“, i pugliesi scoprono in Antonio Abate il vero punto di forza,
un’ugola power d’altri tempi, che da ‘The Diary’ a ‘I’m The Chosen One’ si fa valere nota su nota. E così, tra ‘Magic Mirror’ e ‘Son Of The Rising Sun’, si scopre una band che sembra del tutto rinnovata, finalmente vicina al compimento. Chissà se il prossimo passo sarà quello decisivo... Nel mentre godiamoci questo “A Tale Whispered In The Night“. Stefano Giorgianni
AAVV Live at Wacken 2015 (UDR/Warner)
76
Chiudiamo questo numero con l’annuale uscita del DVD di Wacken, quella dell’anno 2015. Prima cosa che salta all’occhio è l’ottimo packaging, il quale, come al solito, contraddistingue le release che celebrano uno dei festival metal più importanti d’Europa. Per quanto concerne la tracklist abbiamo anche stavolta un menu adatto a tutti i gusti, segno che ai piani alti se ne intendono eccome. Si parte difatti coi mitologici Judas Priest, si passa ai Sabaton, ai Running Wild, Death Angel, Danko Jones e Santiano; insomma, a seconda del vostro palato qui troverete ciò che fa per voi. Nota di merito anche per la qualità audio/video , che possono consolare chi non ha potuto recarsi al festival. Un DVD da far entrare nella vostra collezione dunque, sperando di poterci incontrare a Wacken! Stefano Giorgianni
extrema The Old School EP (PUNISHMENT 18/ ANDROMEDA)
70
Non c’è bisogno di troppi giri di parole, per inquadrare il disco che abbiamo tra le mani. Con quell’attitudine che ne ha marchiato a fuoco un cammino lungo trent’anni e quella tendenza ad andare dritti al punto senza preamboli, gli Extrema se ne escono oggi con ‘The Old School EP’, un titolo che pochi dubbi lascia riguardo ciò che andremo ad ascoltare. Con questo lavoro, giunto a tre anni di distanza dall’eccellente ‘The Seed Of Foolishness’, Tommy Massara & C. ci regalano cinque tracce pescate in qualche cassetto rimasto chiuso dal 1987, ai più conosciute perchè comunemente proposte in sede live ma ad oggi inedite in chiave discografica, ad eccezione di ‘Life’, che qui comunque viene risuonata e ri-registrata seguendo i canoni dell’epoca in cui fu concepita. Oltre a ‘Life’, un pauroso assalto in bilico tra thrash ed hardcore, in questo EP trovano spazio la cruda ‘Carcasses’, brano che racchiude tutto lo spirito originario della band, la spietata ‘Tribal Scream’, un assalto all’arma bianca “salvata” giusto da aperture melodiche studiate ad hoc per spezzarne la tensione, quella ‘Child Abuse’ già conosciuta in sede live e qui proposta con l’ospitata d’eccezione firmata da Ralph Salati dei Destrage, e la strumentale ‘M.A.S.S.A.C.R.O’ nella quale, a farla da padrona, è la sei corde di Massara.A chiudere il cerchio una versione dal vivo di ‘Life’ che non fa altro che confermare lo stato di forma della band, ed il doveroso tributo a Lemmy con ‘Ace Of Spades’. Un ottimo tributo per il trentennale di una band che continua a “fare danni” sui palchi di tutta Italia, niente a che fare con iniziative nostalgiche: gli Extrema sono vivi, vegeti, in perfetta forma ed i loro lavori sono qui a testimoniarcelo. Fabio Magliano
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