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VINCI UNA COPIA DI "THE ASTONISHING" Dei DREAM THEATER*
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE: - INVIA UNA EMAIL CON OGGETTO “CONTEST DREAM THEATER” ALL’INDIRIZZO: concorsi@metalhammer.it I VINCITORI SARANNO ESTRATTI SECONDO IL NUMERO DI ARRIVO DELLA EMAIL. I NOMI DEI FORTUNATI SARANNO COMUNICATI IL 30 GENNAIO 2016 SUL SITO WWW.METALHAMMER.IT *DUE COPIE DISPONIBILI
Hammer Highlights
ZAKK WYLDE GUITAR MASTERS SPECIAL 54
GLI DEI DELLA SEI CORDE Metal Hammer torna al vostro cospetto invitandovi nel regno della signora più rispettata del nostro mondo: la chitarra. Da Zakk Wylde a Joe Bonamassa, passando per Steve Wilson e ad alcuni simboli italici della sei corde, Andrea Martongelli e Alex Stornello, vi proponiamo un ritratto inedito dello strumento a cui la maggior parte del popolo Metal è più affezionato.
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LEMMY LIVES
SCORPIONS
EUROPE
Il 28 dicembre 2015 è una data che rimarrà inevitabilmente impressa nella mente di ciascun amante dell’hard rock e del metal. La scomparsa di uno dei simboli della nostra musica, Ian Fraser Kilmister, a noi tutti meglio noto come Lemmy. Un vuoto immenso, fuor di dubbio incolmabile, si è generato nel nostro cuore e vogliamo ricordarlo con un articolo firmato dal direttore Fabio Magliano.
Più di quarant’anni d’attività per gli Scorpions e sembra proprio che i tedeschi non abbiano intenzione di mollare un centimetro. Da ‘Lonesome Crow’ a ‘Return To Forever’ molto è cambiato intorno a loro, ma nulla ha scalfito la loro voglia di scuoterci come un uragano. È Matthias Jabs, chitarrista della band, che ripercorre con noi la storia del gruppo e svela alcuni succosi retroscena.
I sovrani dell’hard rock Made in Sweden sono tornati e Metal Hammer non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di intervistarli dal vivo! Il tastierista Mic Michaeli ci ha parlato del nuovo percorso intrapreso dagli Europe da ‘Start From The Dark’ del 2004 e culminato nell’ultimo ‘War of Kings’, uscito lo scorso anno, entrando nell’intimo della maturazione umana e artstica del gruppo.
METALHAMMER.IT 3
Hammer Hammer Highlights
HighLights
64 DragonForce 60 Bonamassa
walk this
way...
ay ’s Pl
64 SteveWilson
56 Judas Priest 70 Gus G.
IL RITORNO DELLA GLORIA
Benritrovati! Finalmente ci siamo, il numero che avete in mano segna il ritorno di Metal Hammer nelle edicole a distanza di oltre un anno dall’ultima Anche il 2015 è andato.volta. Altri dodici mesi senza La sensazione è dell’oramai lontaMetal Hammer. Nel dicembre molto strana: sono no 2014 il nostro direttore, passati 14 anni da quando allora caporedattore, Fabio Magliano, la concluscrissi per l’ultima voltacelebrava su sione di un anno passione) queste pagine, una(di vita. Mi ero e appena sposato, laureato e il ritorno (altrettanto di passione) avevo percorrere nuove della deciso rivista di Metal che tutti noi amivie che non sapevo dove mi amo. Il fato ha voluto che parole avrebbero portato. Un giornoleho di quell’ultimo editoriale abbiano trovato un sentierino laterale, funto da triste presagio ea mi quello che mi ci sono incamminato sono ritrovato di nuovosolo qui.qualche Un sarebbe poi accaduto giorno arrivata una telefonata giornoèdopo. Il magazine di gennaio e il fuoco della vecchia passione 2015 era bello che pronto, ansioso di s’è riacceso istantaneamente. E’ assaltare le edicole di direi. tutta Italia; la letteralmente esploso, redazione aveva lavorato, come sempre, Così è ripartita questa avventura: davanti un foglio in manieraavevamo esemplare per ripartire giàbianco e tutto da ricostruire. immaginare una dai primi giorni del Potete mese, per recuperare sfida ed un’avventura più belle di questa? Io il tempo perduto. Purtroppo non ci riesco, non oggi. Oggi le si stesse fa Metal dinamiche che venivano sviscerate in
Let
76 Opeth
Hammer, una stella che nessuno ha mai oscurato. Abbiamo lavorato per ricostruire una quell’ultimo, miglior possibile, numero siabbiamo sono rivista che fosseforse la migliore rivelate Il giornale ancora una messo giù fatali. il progetto, fatto èlastato struttura, volta crocefisso, messo alla gogna, abbiamo sottoposto inserito i contenuti… messo tutta la già nostra e a critiche e scherni di chi, dal passione difficile parnostraOra energia. che to, lo volevalamorto. “eccociSappiamo qui, a sfidare staremo insieme a lungo. tutti i problemi cheunquotidianamente Abbiamo fratello digitale ci si parano davanti, per cercare (metalhammer.it e presto di di portare contiamo avere avanti anche con pasl’edizionesione eBook unadisponibile rivista cheper non il mondomeritava mobile) ed è solo la fine alla quale l’inizio. Questo primo numero che avetestava fra leandando mani è aincontro.” tratti sono le stesse parole un numeroSì,sperimentale, usate da contiene infatti siaFabio nuoveMagliano idee cui stiamoquella lavorando che volta,e perché presto vedranno luce, ma o nulla èlacambiato, anche qualcosa di tradizionale forse tutto. La nostra che non vi lascerà del tutto voglia di farmesi ritornare spiazzati. Nei prossimi Metal Hammer nel nuove sorprese arriveranno ad arricchire la rivista per darvi sempreche di avete più. daformato Mentre la rivista prendeva forma mi sonola follia, vanti rasenta fermato ad osservare il panorama in cui ci follia scatenata saremmo andati a muovere. una La sorpresa è stata solamente dalla vo-
OGNI GIORNO ON LINE
grande e… triste. Se oggi ho il privilegio di dire bentrovati a voi lo stupore di vedere il lontà di lo tener vivoa un che deve, DEVE mondo dire stesso memarchio mi ha spiazzato. resiste in molti OggiESSERCI. in pienaMetal estateHammer 2014 ho ritrovato a paesi d’Europa, alcunimondo anche con buoni risultati, grandi linee loinstesso che avevo lasciato nel 1998, quasicose, che èmicostretto abbia a in Italia, come sembra molte altre aspettato. Siamoil ancora quiuna a celebrare fallire sotto giogo in burocraziagliassurda stessi grandi nomi di allora (dai Maiden ai che stapassati portando l’intera sui editoria arrendersi Metallica di recente palchiaditaliani, a doversi reinventare. Questo quellodiche dai oPriest agli Accept che hanno in èrampa noiistiamo facendo: Qui non lancio nuovi lavori, finoreinventarci. ai Sabbath sulla via si della pensione)… ogni band di non queste, tratta di cos’è Metal e cosa lo è,sequi si sta sommiamo deiincomponenti, di parlandoglidianni tenere vita un’idea.supera Sappiamo slancio il quarto di millennio: che tristezza. che il mondo è cambiato, che internet la Non fraitendetemi, pur amando tutti i grandi fa da e chesperato le riviste settorespiazzato si stanno del padrone passato avrei di di trovarmi maband, questo non fa per noi, non ci dal estinguendo, furore di nuove spaesato da mille nuove correnti tendenze. Niente tutto riguarda. Seequalcosa .com, .it,di.boh prenderà questo. Il mondo mi accoglie è lo stesso il posto che ciche compete, saremo sicuri che non di allora e oggi come allora sono convinto che sarà demerito nostro, perché noi ci abbiamo sia uno scenario desolante. provato, stiamo facendo lo faremo fino a Abbiamo un lo sacco di lavoro daefare, noi nel che ci saràe possibile farlo. Sta a voi darci la testimoniare voi nell’eleggere possibilitànuovi di tornare sul trono che ci spetta. beniamini di Hold thedegni (Heathen) Hammer High! essere tali. Siete con Stefano Giorgianni noi?
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UN SITO IN CONTINUA EVOLUZIONE PER DARVI SEMPRE DI PIU’
TALES FROM BEYOND David Bowie 14
Hammer Core
Metal Rubriche
MARTY FRIEDMAN
La scomparsa del Duca Bianco ha toccato anche il mondo del Metal
Avantasia 16
Torna Tobias Sammet con il suo progetto all-star. Scopriamo cosa ci a riservato
Phantasma 18
Dalla penna alla musica, il nuovo esperimento della cantante Charlotte Wessels
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
TELEGRAPH
DIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it
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CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
Bring Out the Thrash
CAPOREDATTORE WEB Gianluca Grazioli gianluca.grazioli@metalhammer.it
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Serenity 20 Il gruppo di Innsbruck
rielabora la vita di Leonardo nel nuovo full-length
Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it
Andy Martongelli
Paky Orrasi paky@metalhammer.it
Circle Of Burden
Raskasta Joulua 22 In Finlandia il Natale si
celebra in maniera diversa: con un all-star project
Sergio Rapetti s.rapetti@metal.it
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Vorna
Andrea ‘Gandy’ Perlini a.perlini@metal.it
24Dalle lande finlandesi ecco
uno dei gruppi folk-black più apprezzati del momento
Metal Cinema
Alessandro ‘Querty’ Quero a.quero@metal.it
Varg 25 Agguerrittismi, selvaggi,
sanguinolenti. Vi introduciamo nel mondo dei Varg
Elvenking 26 Gli italiani arrivano
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The Library
Beppe ‘Dopecity’ Caldarone b.caldarone@metal.it
Desert 28 La band israeliana tira le
somme dopo l’uscita dell’ultimo disco
Francesco ‘Frank’ Gozzi f.gozzi@metal.it
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Primal Fear
Pippo ‘Sbranf’ Marino p.marino@metal.it
32 ‘Rulebreaker’ è la nuova fatica dei teutonici metallers. Una garanzia
L'Antro di Graziano
Rhapsody Of Fire
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34 Alex Staropoli ci accompag-
na nella creazione del nuovo ‘Into The Legend’
Ola Englund
Apocalyptica
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36 Dalla classica al metal.
Papa Roach
38 Il gruppo statunitense è maturato. Ecco la loro confessione
Avatar 41
In esclusiva per Metal Hammer Italia un’anticipazione del nuovo album della band svedese.
Marco Aimasso m.aimasso@metal.it Roberto ‘Dulnir’ Alfieri r.alfieri@metal.it
Alex Stornello
finalmente al sospirato live album
Nessun gruppo incarna meglio questo legame
REDAZIONE
Guitar Leaks
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Marco ‘Cafo’ Caforio m.caforio@metal.it NEWS EDITOR Gianluca Grazioli FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Emanuela Giurano GRAFICA Andrea Carlotti
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Axel Rudi Pell
PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò HANNO COLLABORATO Arianna G., Alessandra Mazzarella, Marco Pezza, Enrico Mazziotta, Andrea Martongelli, Vincenzo Nicolello, Johannes Eckerström, Andrea Lami
Recensioni 80
88
PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it
TE
CI S U E V NUO
Rhapsody of Fire Into the Legend AFM 15 Gennaio
Megadeth Dystopia Universal 22 Gennaio
A T E M . WWW A7X
Buone e cattive notizie per gli AVENGED SEVENFOLD. La band ha infatti annunciato l’ingresso in studio per il mese di febbraio, quando inizierà a registrare il nuovo album con il nuovo batterista Brooks Wackerman. I due chitarristi Synyster Gates e Zacky Vengeance hanno inoltre annunciato l’accordo di endorsement con la Schecter Guitar Research. Il gruppo si trova però coinvolto in una battaglia legale con l’etichetta Warner Bros. Records, che ha avviato una causa contro la band per aver tentato di chiudere anticipatamente il contratto di cinque album dopo soli quattro appellandosi alla “regola dei sette anni” del California Labor Code. Secondo questa regola, infatti, le parti possono rescindere anticipatamente il contratto in caso si presentino determinate condizioni: gli avvocati della band hanno quindi giustificato la volontà di chiudere il contratto a causa dei cambiamenti interni all’organizzazione e il conseguente degrado dei rapporti con il gruppo.
Borknagar Winter Thrice Century Media 22 Gennaio
Avantasia Ghostlight Nuclear Blast 29 Gennaio
Primal Fear Rulebreaker Frontiers 29 Gennaio
NT
I O P G N I BREAK
Abbath Abbath Season of Mist 22 Gennaio
Dream Theater The AStonishing Roadrunner 29 Gennaio
T I . R E M LHAM
Gli ETERNITY’S END sono una nuova band neoclassical power/progressive metal fondata dall’ex-chitarrista degli OBSCURA Christian Muenzner nel 2014, a cui si è aggiunto l’ex-cantante degli ELEGY Ian Parry. La line-up della band è poi la stessa che ha registrato l’ultimo album solista di Muenzner. Il disco di debutto della band, “The Fire Within”, è stato scritto tra l’autunno del 2013 e l’inverno del 2014, registrato poi nel maggio del 2015 e mixato, masterizzato e co-prodotto da Per Nilsson degli SCAR SYMMETRY. *** I WALLS OF JERICHO pubblicheranno il loro
nuovo album “No One Can Save You From Yourself” il prossimo 25 marzo 2016 su etichetta Napalm Records. *** L’ex-cantante di TALISMAN, YNGWIE MALMSTEEN e JOURNEY Jeff Scott Soto ha annunciato un nuovo tour europeo, saranno due le date a toccare l’Italia: il 21 Aprile a Trieste ed il giorno seguente a Bresso, Milano. *** In un video delle prove che i BLACK SABBATH stanno tenendo per il loro imminente tour di addio, denominato “The End Tour”, si vede chiaramente dietro la batteria Tommy Clufetos, il batterista di
OZZY OSBOURNE, come nei precedenti tour post reunion. Questo potrebbe quindi spegnere definitivamente le speranze dei fan che vorrebbero un ritorno del batterista storico Bill Ward. *** Gli AVANTASIA sono tra i dieci finalisti per la Germania per il prossimo Eurovision Song Contest 2016. Le votazioni si terranno il prossimo 25 febbraio durante lo show televisivo che sarà trasmesso in diretta sulla televisione nazionale tedesca ARD. Il brano con cui la band concorre è il loro ultimo singolo “Mystery Of A Blood Red Rose”, tratto dall’album “Ghostlights”
in uscita a fine gennaio su etichetta Nuclear Blast. *** Underground Symphony è lieta di annunciare di aver siglato un accordo con gli Emphasis, per la pubblicazione del disco d’esordio “Revival”. La band estone propone un progressive metal caratterizzato da inserti moderni, arrangiamenti sinfonici ed eleganti passaggi gothic. *** Dave Lombardo, storico ex-batterista degli Slayer, ha annunciato di aver lasciato i Philm, la band experimental post-hardcore fondata dallo stesso musicista qualche anno fa insieme a Gerry Nestler (Civil Defiance) e Pancho
Tomaselli (War). A detta dell’artista, la motivazione sarebbe da imputare alla scelta della band nel non volere alcuna promozione da parte di Lombardo. Queste le parole del musicista in merito al suo abbandono: “Non ne parlerò. Non volevano che io promuovessi la band quando ero con loro e certamente non lo farò ora che non sono più nella band. Non voglio parlarne più. Dico semplicemente: “Ci vediamo!” Lo stesso Lombardo, in occasione di un’intervista rilasciataci lo scorso settembre, ci aveva annunciato in esclusiva di aver in mente di lavorare ad un nuovo album della band. E’ ancora incerto se la band cercherà un nuovo sostituto o meno. *** I METAL CHURCH pubblicheranno il loro nuovo album “XI”, previsto per il prossimo 25 marzo, su etichetta Rat Pak Records. Ricordiamo che questo lavoro vedrà il ritorno dietro il microfono di Mike Howe, cantante della band nel suo periodo “dorato”, dal 1989 al 1993. *** I LIFE OF AGONY sono pronti a tornare nel 2016 con un nuovo album su etichetta Napalm Records, con la quale hanno da poco firmato un contratto mondiale. Il quinto album della band, il primo in dieci anni da “Broken Valley” del 2005, si intitolerà “A Place Where There’s No More Pain”. *** “Rulebreaker” è il titolo del nuovo album dei PRIMAL FEAR in uscita il prossimo 29 gennaio 2016 su etichetta Frontiers Music srl. *** I padrini indiscussi del death metal americano proseguono il tour del loro ultimo album “A Skeletal Domain”: i CANNIBAL CORPSE tornano in Italia il prossimo maggio per un’unica data italiana che si terrà all’Alcatraz di Milano. Special guest del tour: Krisiun e Hideous Divinity. *** Gli HATEBREED pubblicheranno il loro nuovo album “The Concrete Confessional” durante la prossima primavera su etichetta Nuclear Blast. Il disco è ancora in fase di registrazione con il produttore Chris “Zeuss” Harris e sarà poi mixato da Josh Wilbur. *** Non molta fantasia per Olve Eikemo, meglio conosciuto come ABBATH, ex membro
degli Immortal. L’album che uscirà a suo nome infatti si intitolerà semplicemente “Abbath” ed uscirà il prossimo 22 gennaio 2016. *** Tyrants Of Death è il nome del prossimo tour europeo che vedrà protagonisti SUFFOCATION, CATTLE DECAPITATION e ABIOTIC. Quattro le date nel nostro paese: Brescia, Roma, Bologna ed Erba, dall’8 all’11 Marzo. *** Il nuovo album degli ABSU si intitolerà “Apsu” e sarà pubblicato il prossimo 17 marzo 2016 su etichetta Candlelight Records. La band sta ultimando le registrazioni del materiale, che sarà poi mixato da J.T. Longoria. Ospiti dell’opera sono i chitarristi Rune Eriksen/Blasphemer (AURA NOIR) e Ross The Boss (ex-MANOWAR). *** È confermato per Sabato 30 Gennaio 2016, presso l’Exenzia di Prato, lo show dei GRAVE DIGGER! La data fa parte di un tour celebrativo per il 35° anniversario della band, per l’occasione infatti verrà proposta una set-list speciale con tutti i classici del repertorio. *** I vintage rocker svedesi SPIRITUAL BEGGARS tornano con il loro nono album di inediti, dal titolo ‘Sunrise To Sundown’, che verrà pubblicato il 18 marzo su InsideOutMusic. Come per i due precedenti lavori, “Return To Zero” (2010) e “Earth Blues” (2013), gli SPIRITUAL BEGGARS vedono in formazione il frontman Michael Amott (Arch Enemy, ex Carcass) alle chitarre, assieme a Apollo Papathanasio (ex Firewind) alla voce, Sharlee D’Angelo (Arch Enemy, Witchery) al basso, Per Wiberg (Candlemass, ex Opeth) alle tastiere e Ludwig Witt (Grand Magus, Firebird) alla batteria. *** Tornano sul mercato anche i greci ROTTING CHRIST che pubblicheranno il loro nuovo album, “Rituals” il prossimo 12 febbraio 2016 via Season Of Mist *** A Roma il 13 Febbraio 2016 presso il CrossRoads si terrà il METAL FOR KIDS. UNITED!: l’evento di beneficenza dedicato al Metal in cui oltre 20 artisti nazionali ed internazionali si esibiranno in una Jam Session All-Star in favore del Centro Assistenza per Bambini Sordi e Sordociechi di Roma. Nel concerto evento si esibiranno membri
attuali e passati di alcune delle fondamentali band che hanno esportato il Power Metal e la musica Heavy “made in Italy” nel mondo tra cui RHAPSODY OF FIRE, LABYRINTH, ELDRITCH, SECRET SPHERE, VISION DIVINE e STORMLORD e altri ancora. *** I METATRONE sono lieti di annunciare ulteriori dettagli sul nuovo disco “Eucharismetal” che segna il ritorno della celebre Christian Metal Band Italiana. Il disco uscirà in versione fisica e digitale il prossimo 11 Marzo 2016 e sarà la prima produzione della neonata Rockshots Records. Insieme al nuovo disco saranno ripubblicati i primi due ormai introvabili lavori, “The Powerful Hand” in versione rimasterizzata e “Paradigma”, entrambi con materiale bonus. *** Esce in questi giorni “Scary Creatures”, nuovo lavoro dei BRAINSTORM, immancabilmente con Andy B. Franck dietro al microfono, su etichetta AFM Records. *** Il nuovo album di ROB ZOMBIE, “The Electric Warlock Acid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser”, sarà pubblicato il 29 aprile su etichetta UMe/T-Boy Records. Il disco è stato prodotto da Chris “Zeuss” Harris. *** Mentre “The Astonishing”, il nuovo doppio concept album dei DREAM THEATER, è in uscita il 29 gennaio su etichetta Roadrunner Records. *** Dopo qualche anno di pausa, i THUNDERSTONE sono pronti a tornare freschi di contratto con l’etichetta discografica AFM Records. Il nuovo album della band è ormai quasi pronto e si intitolerà “Apocalypse Again”: la data di pubblicazione è prevista per il prossimo 1 aprile 2016, anticipata dal singolo “The Path” il 10 febbraio 2016. *** I tedeschi MOB RULES pubblicheranno il loro nuovo album “Tales From Beyond” il prossimo 18 marzo su etichetta SPV/Steamhammer. Il disco è stato prodotto da Markus Teske. *** Il nuovo album dei THE 69 EYES si intitolerà “Universal Monsters” e sarà pubblicato il prossimo 22 aprile su etichetta Nuclear Blast. Il disco sarà anticipato dal
singolo “Jet Fighter Plane” il 15 gennaio e dal relativo videoclip, diretto da Ville Juurikkala, autore anche dell’artwork dell’opera. L’album è stato prodotto da Johnny Lee Michaels presso i Bat Cave Studios di Helsinki. *** Lo avrete letto e commentato in tutte le salse, data anche la fastidiosa ossessione che i social network stanno creando in occasione di qualsiasi decesso, ma è doveroso anche per noi riportare questa scomparsa: DAVID BOWIE, un altro grandissimo della scena musicale internazionale, è morto a causa di un cancro. Da poco aveva festeggiato il 69simo compleanno (l’8 gennaio) e pubblicato il suo ultimo album dal titolo “Blackstar”. *** I franco-tunisini MYRATH pubblicheranno il loro nuovo album “Legacy” il prossimo 12 febbraio su etichetta Nightmare/Sony/RED. *** Il nuovo album dei CARNIFEX sarà molto probabilmente pubblicato nel corso del 2016. La band è infatti già al lavoro sul successore di “Die Without Hope”, uscito nel 2014. *** Direttamente da Facebook, apprendiamo che il Rock N Roll Arena, noto locale di Romagnano Sesia (NO) chiuderà i battenti il prossimo 30 gennaio. Nel comunicato diffuso in rete non vengono spiegati nel dettaglio i motivi che hanno portato alla chiusura di una interessantissima attività, che peraltro ci ha visti numerose volte ospiti delle bellissime serate lì organizzate. In bocca al lupo per tutto! *** E’ confermato, torna venerdì 20 Maggio 2016 il GOF Gods Of Folk, ormai classico appuntamento Folk-metal che si svolge a Casalromano (MN). Nelle precedenti
edizioni erano sfilati sul palco del grandioso tendone del paese padano nomi come Heidevolk, Varg, Folkstone, Elvenking, Kalevala e molti altri. La manifestazione si svolgerà in una unica giornata e vedrà on-stage come headliner l’autentica novità di quest’anno: CELTICA PIPES ROCK, in Italia per questa unica data. Le altre band sono ELVENKING, ULVEDHARR, STRAWDAZE. *** Per festeggiare i quindici anni dell’album “High As Hell”, i NASHVILLE PUSSY torneranno in Europa alla fine dell’inverno. Tre le date confermate in Italia, Milano, Roma ed Arbizzano (VR). *** Uno dei ritorni più interessanti, discussi e chiacchierati di questi tempi è quello dei MEGADETH del semprerosso Dave Mustaine. “Dystopia” è infatti in imminente uscita il 22 gennaio. *** Il cantante dei LINKIN PARK Chester Bennington ha annunciato tramite il profilo Facebook della band che il gruppo ha ripreso le registrazioni del nuovo album. Sperando che non sia come il precedente… *** Gli STEEL PANTHER pubblicheranno il loro nuovo album acustico, intitolato “Live From Lexxi’s Mom’s Garage”, in formato CD e DVD il prossimo 26 febbraio su etichetta Kobalt Label Services (KLS). L’opera immortala lo show tenuto dalla band allo Swing House Rehearsal & Recording di Atwater Village, in California, di fronte ad un pubblico selezionato di un centinaio di belle ragazze.
METALHAMMER.IT 7
#metalhammerlegends
di Fabio M agliano Ph. Alice Ferrero
E alla fine, quello che tutti (ingenuamente) pensavamo non poter succedere mai, improvvisamente si è verificato, deflagrando sulle nostre teste con un fragore il cui eco, risuonerà nelle nostre orecchie ancora per parecchio tempo e dei cui danni, probabilmente, ci renderemo realmente conto solamente tra qualche anno. Lemmy non c’è più. Sebbene ci fossimo convinti, con un’aura un po’ naif, che anni di eccessi acidi, petroliere di Jack Daniel’s ingurgitate, tanto catrame aspirato da poterci asfaltare la Salerno-Reggio Calabria e polverine delle più impensa-
8 METALHAMMER.IT
bili in circolo in moto perpetuo gli avessero ormai donato l’immortalità, Mr. Kilmister è stato piegato da un male incurabile a pochi giorni dalla fine dell’ultimo tour e alle porte di un nuovo giro per il mondo. Perennemente sopra un palco, a diffondere il suo verbo, la sua musica, il suo stile di vita che ha saputo attraversare generazioni senza uscirne scalfito, riuscendo anzi a mettere d’accordo tutti, da chi impazziva per il metal a chi ascoltava il blues, da chi usciva di testa per il punk e chi si intratteneva con il rock, a prova indelebile dell’universalità
della proposta sonora dei Motorhead. Quei Motorhead le cui foto facevano bella mostra il giorno dei funerali del loro leader, attorno all’urna contenente le ceneri di Lemmy, quasi a voler avvolgere il loro carismatico cantante/bassista in un ultimo abbraccio, quasi si celebrasse in contemporanea un secondo funerale, quello ad una band che per 40 anni ha rappresentato un faro per chi era alla ricerca di musica potente, viscerale, fragorosa, sfrontata. Un’idea, in tutto e per tutto. Che oggi cessa di esistere, lasciando un vuoto incolmabile in una scena rock
sempre più povera di eroi, di qualità e di ideali. «...ascoltate FORTE la musica dei Motörhead, ascoltate FORTE Hawkwind, ascoltate FORTE la musica di Lemmy. Fatevi un drink o due. Raccontatevi storie. Celebrate la VITA che questo uomo amabile e meraviglioso ha celebrato così bene per primo. LUI VORREBBE PROPRIO QUESTO». Questo l’invito rivolto da chi ha accompagnato Lemmy negli ultimi passi di una vita che ha del leggendario, e questo l’invito che raccolgo, per condividere con i lettori alcuni dei ricordi che conservo orgogliosamente legati a
questo incredibile personaggio, e che fissano alcuni dei momenti più belli della mia avventura nel mondo del giornalismo musicale. Il primo contatto «reale» con il mondo di Lemmy, o almeno con una sua infinitesima parte, lo ebbi all’Indian’s Saloon di Bresso in occasione di un party pre-Gods Of Metal nel 1999. Lemmy se ne stava in disparte, stivaloni di ordinanza, incurante di quanto gli capitava attorno, totalmente assorto nelle campanelle e nelle ciliegie che a getto continuo uscivano fuori dalla sua slot machine. Nel bel mezzo del «gioco» una giunonica puledra, gambe lunghe sei metri, tacchi vertiginosi, gonna XXS e balconcino bene in vista gli si avvicina languidamente, come un falco che punta la sua preda...trovandosi in men che non si dica una banconota in mano e un catramoso imperativo: «Change it!». In quell’istante si sentì chiara-
mente nel locale il rumore dell’alterigia della panterona andare in frantumi, mentre una smorfia si disegnava sul volto del buon Lemmy, dopo l’ennesimo tris mancato. Il primo «incrocio professionale» fu invece una vera e propria prova del nove. Era il 2001 e Mr. Kilmister era alle prese con un’urticante serie di interviste telefoniche per promuovere il DVD «25 & Alive Boneshaker», live celebrativo per i 25 anni del gruppo. Urticante perchè, come mi fu preventivamente detto, Lemmy mal digeriva le interviste, tanto meno quelle telefoniche, quindi il rischio di vedere la chiacchierata naufragare dopo una manciata di minuti, in un oceano di monosillabi e grugniti, era altissimo. Ed infatti le prime domande di rito furono alquanto sconfortanti, con una serie di risposte biascicate che poche speranze lasciavano per il proseguo della conversazione. La svolta,
miracolosa se si vuole, la si ebbe quando si lasciò da parte l’aspetto puramente promozionale del discorso, per tuffarsi su tematiche più personali. Eccolo quindi aprirsi, con quella voce impastata di alcool e catrame ad andare a scavare nel fondo dei ricordi, per regalarci una serie di aneddoti e pillole di saggezza «lemmiana» davvero intense. “A volte mi chiedo come facciano a esserci tanti pazzi che ci seguono!“ affermò lasciandosi andare in una catarrosa risata “non mi vedo nei panni dell’icona, anzi, non voglio proprio vedermi! Penso che passare per leggenda alla lunga finisca per essere un po’ noioso. Quello che conta è andare avanti e continuare a suonare come il primo giorno. E’ anche vero, però, che questo nostro stato ci facilita molto le cose, perché la nostra condizione ci consente di continuare comunque a incidere dischi e
la gente continua a comprarli. Però leggenda… no, le fottute leggende sono tutte morte, mentre io sono ancora qui a parlarti!”. Una presa di distanza abbastanza decisa rispetto a quella dimensione da «icona» nella quale viene costantemente posto suo malgrado. Pe r c h è come p i ù
volte ripetuto nel corso delle sue esequie da chi ha avuto modo di conoscerlo a fondo e di condividere con lui parte del suo cammino «Lemmy era principalmente una persona «autentica»...L’uomo più leale che abbia mai conosciuto, e che ci ha insegnato a essere soprattutto autentici con noi stessi» come ha sottolineato nel suo intervento il figlio Paul Inder. Un uomo reale, schietto, che mai si è guardato alle spalle (“Tutto quello che ho fatto, nel bene e nel male, lo rifarei allo stesso modo - affermò deciso - Se dovessi iniziare a pensare ‘Quel disco lo avrei potuto produrre meglio’ o ‘In quel concerto avrei potuto suonare meglio…’ smetterei di vivere. Se sono qui è perché, bene o male, quello che ho fatto sino ad ora mi ha consentito di arri-
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varci, perciò va bene così”.), pronto poi a sommergere tutto con una risata sorniona che meglio di mille parole spiegava il suo modo di prendere la vita: “Se nella tua testa di senti di essere in grado di calarti l’impossibile, se trovi una donna da scoparti ogni sera e, alla fine, riesci a salire sul palco a suonare, beh, allora la legge Sesso-Droga e Rock’n’Roll è ancora validissima!”. Un’ironia caustica, che non gli ha però mai impedito di risultare estremamente lucido e tagliente nei suoi giudizi, gettati in pasto all’interlocutore con la forza tipica unicamente di chi ne ha passate talmente tan-
to da essersi guadagnato sul campo il diritto di poter affermare tutto e il contrario di tutto senza timore di poter essere contraddetto. Riguardo la situazione della scena musicale dell’epoca (claudicante, ma non ancora agonizzante come quella contemporanea) il leader dei Motorhead si lasciò andare in una considerazione che ancora oggi suona maledettamente attuale “Oggi c’è troppa informazione!” affermò prendendomi non poco in contropiede “Una volta andavi a tastare con mano le situazioni, ti lanciavi su una band, la ascoltavi, la amavi. Oggi tutti ti dicono cosa comprare, come com-
prare, chi ascoltare…e poi c’è internet, la più grande cagata partorita dall’uomo! Adesso ci puoi trovare sopra di tutto e lo spirito di ‘sfida’, l’incognita del disco, è venuta meno. Sono sicuro che, se internet fosse stato inventato al tempo del nostro esordio, i Motorhead non sarebbero qui oggi, sarebbero stati stritolati tanto tempo prima!”. Prima del congedo, dopo quasi mezz’ora di intensa conversazione, ci fu ancora il tempo di un doveroso sguardo all’infuocata situazione vissuta in quel periodo e che, a quindici anni di distanza, pare non volersi placare. Il 2001 fu infatti l’anno della tragedia delle Torri Gemelle, dell’attacco del terrorismo e del contrattacco dell’America sfociata in una guerra che pare non conoscere la fine
«Questa è la prima volta che l’America si trova sotto il tiro delle bombe” spiegò “E’ una cosa traumatica. In Europa si è vissuta indirettamente la tragedia, perché bene o male i conflitti che nei secoli si erano scatenati in Europa avevano predisposto la popolazione alla guerra, ma in America, svegliarsi convinti di essere intoccabili e ritrovarsi inermi, è stato uno shock tremendo. Una situazione simile l’America non l’aveva mai vissuta. Mai! New York è annientata, la gente è disorientata, è terribile. Ma la cosa ancor più terribile è che tutto quello che l’America fa oggi, lo fa in nome della vendetta, senza un che di razionale. Non hanno valutato le situazioni e si sono buttati contro Bin Laden, e tutto quello che vogliono, ora, è uccidere. Sono convinti che sia lui il responsabile di tutto. Lo sono anch’io, ad essere onesto, però tutto è stato troppo immediato e troppo traumatico. La vendetta ha sopraffatto la diplomazia”. Il messaggio con il quale ci si lascia, però,
fu inevitabilmente all’insegna della positività e della speranza “Io ho sempre fiducia nel futuro! Ho vissuto molte situazioni brutte, ho visto la morte, ho toccato con mano realtà molto vicine alla guerra, eppure sono ancora qui. Non vedo perché non dovrei avere fiducia nel futuro”. La prima volta, infine, faccia a faccia con «il mito» fu un anno più tardi, a Torino, in occasione di una data (poi annullata) in compagnia di Gamma Ray e Hardcore Superstar. Erano le prime ore di un afoso pomeriggio di giugno e l’intervista era pianificata in coppia con una collega il che, non lo nego, mi facilitò non poco il compito. Lemmy ci accolse con estrema cortesia sul suo tour bus e quello che subito ci colpì furono le bottiglie di Jack Daniels. Ovunque. Sui sedili. Nelle cuccette. Sulle mensole. Pareva quasi di rivivere la scena di «Fantozzi contro tutti» nella quale Pina, invaghitasi di un fornaio, riempiva ogni anfratto della casa di rosette e sfilatini... solo in una versione più acida e molto più alcolica. Lem-
my aprì il frigorifero, pieno anch’esso di bottiglie di Jack, ne prese una, si riempì fino all’orlo un bicchiere da 40 cc, offrì (ma noi declinammo cortesemente), quindi ci fece accomodare e l’intervista potè avere inizio. Come già accaduto nel corso della prima chiacchierata, iniziò a parlare poco di musica, o meglio, della sua musica. Evidentemente le domande di rito sul nuovo disco, sul tour, sulle nuove canzoni, erano per lui troppo banali e scontate. Quando si cambiò il tiro, però, eccolo nuovamente aprirsi con quella voce impastata, con quelle parole troncate che sai ti faranno sudare freddo in sede di sbobinamento. Ci intrattenne parlando di storia, di guerra, di letteratura, di fantascienza e dell’opera di Michael Moorcock, del suo amore per i Beatles, dei suoi trascorsi con Hendrix, della prima volta che si esibì oltre la Cortina di ferro e di quando si trovò a tavola con il Maresciallo Tito. Arrivò ad aprirsi al punto da arrivare a parlare del suo essere padre, un argomento etichettato dai più come tabù. Alla fine di una delle interviste più intense e per me emozionanti
fatte in 20 anni di attività, quel bicchiere venne riempito più volte e l’immagine di Lemmy-icona ne uscì ai miei occhi, se possibile, ancora più rafforzata. Uno status che confermò la sera stessa, quando il popolo metallaro torinese andato a cercare conforto per la delusione dell’annullamento del concerto al «fu» Transilvania, se lo vide comparire davanti a fine serata. Il tempo di stringere qualche mano, di bersi il suo solito Jack medio, di biascicare qualche parola a Mikkey Dee per poi tornare a rintanarsi sul suo tour bus, lasciandosi però in tutti i presenti la sensazione che in qualche modo quel piccolo gesto era riuscito a resuscitare una giornata di fatto rovinata. Questione di carisma ma, soprattutto, questione di grande intelligenza e di assoluto riguardo verso i suoi fedelissimi fan. Quel rispetto incrollabile che accompagna anche l’ultima immagine di Mr. Kilmister fissata nella mia mente. Il rispetto che lo ha portato nel 2014 a presentarsi davanti a 55.000 persone accalcate sotto il palco del British Summer Time ad Hyde Park per riversare su di essi decibel, sudore ed energia senza sosta, giocando unicamente di cuore e passione, prima di abbandonare lo stage sorretto da quel bastone divenuto
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ultimamente suo inseparabile compagno, e rifugiarsi solitario sul van, occhi bassi, una smorfia di sofferenza sul viso ma quella sensazione, palpabile, di orgoglio per essere riuscito a dare ancora una volta, nonostante tutto, tutto se stesso al suo pubblico. «Lemmy non è morto, è solamente sceso dal palco» è una delle frasi più significative com-
parse in giro per il web nei giorni susseguenti la sua scomparsa, ed è così che mi piace pensarlo, fiero nei suoi stivaloni, con il suo cappellaccio calato sugli occhi, mentre scende dal palco dopo l’ennesimo, orgasmico show, con quel sorriso compiaciuto tipico del ragazzaccio che sa, questa volta, di averla davvero combinata grossa. Buon viaggio vecchio Lem, beviti un Jack medio alla nostra salute
e ovunque tu sia, non abbassare mai il volume.
“Se pensate di essere troppo vecchi per il rock’n’roll allora lo siete. Questo succede sempre ai musicisti: li vedi sul palco e sembrano bravissimi e tutto, però sembra quasi che stiano tenendo d’occhio l’orologio “Non abbiamo ancora finito? E’ ora di tornare da moglie e bambini”. Il motivo per cui il rock è un fenomeno lega-
to ai giovani è ovviamente legato al fatto che sia stato inventato dai giovani. Poi, però, quei giovani sono invecchiati e la loro mentalità è cambiata: sono diventati più ansiosi di essere accettati e omologati. Personalmente non ho questi problemi, perchè so che non verrò mai accettato e omologato, nemmeno nel rock’n’roll! Sono sempre stato un outsider, sin dal primo momento. Ma a me va bene così, Qualcuno deve pur farlo” (Ian “Lemmy”Kilmister - “La sottile linea bianca”).
24-12-1945/28-12-2015
Bye Bye White Duke
di Marco Caforio
David Robert Jones (Londra, 8 gennaio 1947 – New York, 10 gennaio 2016) Caro David, lasciatelo dire: eri un autentico genio, e mancherai immensamente a tutti gli amanti dell’Arte nella sua accezione più pura e nobile. Ecco, iniziamo dalla fine, visto che negli ultimi venti minuti avrò abbozzato, per poi scaraventare con ignominia nel calderone degli aborti letterari, almeno una dozzina di incipit differenti. La verità? La verità è che azzeccare il giusto tono per un articolo commemorativo di una leggenda del tuo calibro costituisce impresa titanica, per una vasta serie di motivi. Anche volendo sorvolare sulle modeste doti letterarie del sottoscritto, sul senso di inadeguatezza che mi pervade e su uno stato emotivo in bilico tra l’infelice andante e il disperato, vanno comunque affrontate altre questioni nevralgiche. Partirei da un tema trito quanto vuoi, eppur non di poco conto: che c’entra David Bowie con l’heavy metal? Ehm… il fatto che Steve Harris si ispirò alla locandina del film The Man Who Fell To Earth per creare il celebre logo degli Iron Maiden sancisce un legame troppo flebile, vero? Ok, ci ho provato. Eppure, rimango convinto che di fronte a mostri sacri in grado di plasmare il corso stesso della storia della Musica, le rozze palizzate erette a difesa del nostro genere prediletto debbano venir abbattute, e che un accorato tributo sia quantomeno doveroso. D’altra parte ogni metallaro, anche il più oltranzista, destina un angolino del proprio cuore ad artisti lontani dal proprio background, e mi piace pensare che anche tu, come Fabrizio De André o i Depeche Mode, ti sia spesso ritagliato spazio vitale tra Manowar e Judas Priest. Secondo dilemma: è addirittura utopico, per uno scribacchino pressoché privo di
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dono della sintesi, pensare di comprimere in pochi caratteri le mille sfaccettature di un percorso artistico contraddistinto da un eclettismo raro e prezioso, dalla incessante ricerca di nuove forme espressive e di acute commistioni tra dimensione sonora, visiva e concettuale. Tanto utopico che non ci proverò nemmeno. Basti questo: l’unica stilla di continuità, nella tua lunga carriera, è stata proprio l’immancabile discontinuità. Il glam, il folk cantautoriale, la new wave, il progressive, l’electro pop, il soul, sono solo alcuni dei balocchi con cui ti sei gingillato nel corso dei decenni. E guai a considerarti un “mero” musicista: pittore mai banale, stimato produttore discografico, icona conturbante e provocatoria, attore dotato di un carisma impareggiabile… Roba da far impallidire orde di boriose rockstar fatte con lo stampino e sospinte dall’urgenza artistica che potrebbe avere un sampietrino, altroché. Terzo
problema: bisogna assolutamente evitare di scadere nella retorica più banale. Già, perché tu sei fuggito per tutta la vita dai demoni della banalità e della retorica, riuscendo sino all’ultimo nell’impresa di evitarne il venefico abbraccio. Intendo quindi renderti onore in modo sincero, lasciando le beatificazioni alle testate “serie” e ai “giornalisti” che magari, sino a ieri, non avrebbero saputo citare un tuo brano che non fosse Space Oddity o Let’s Dance. Vogliamo essere sinceri sino in fondo? Ammettiamo dunque che l’afflato sperimentale ti ha spinto in più di un’occasione verso vicoli ciechi. Così, a fianco di lavori inarrivabili -impossibile non citare la celebre trilogia berlinese composta da Low, Heroes e Lodger- prendono posizione capitoli opachi -penso al progetto Tin Machine e a buona parte della produzione degli anni ‘90-; assieme a ruoli cinematografici strepitosi come quello a te riservato in F u ryo,
pellicola cult del regista Nagisa Oshima risalente al 1893, vanno annoverate comparsate incolori – chi ha detto Absolute Beginners di Julian Temple?-. Non sempre ha funzionato, non sempre le scelte sono state le migliori, ma preferisco di gran lunga qualche passo falso alla stagnazione e alla maliziosa riproposizione di stilemi compositivi vincenti. Tu, per fortuna, la pensavi come me. Quarta, e se dio vuole ultima, complicazione: per celebrare la tua carriera avrei voluto mantenere un tono quanto più possibile sobrio e compassato, cosa che di solito mi riesce bene. Tuttavia, anche in questo campo ho fallito miseramente. A ben pensarci era inevitabile: con te ci sono cresciuto, ammirando con cadenza quasi quotidiana le tue gesta nei panni di Jareth (indimenticabile “cattivo” di Labyrinth, film del 1986 diretto da Jim Henson), seguendo le tue scorribande discografiche con crescente attenzione e visitando infine, la scorsa estate, la mostra a te dedicata all’Acmi di Melbourne. Ebbene, non ho vergogna alcuna nel confessartelo: credevo che certe sensazioni non potessero trovare cittadinanza fra le fredde mura di un museo, e si materializzassero solo assistendo ai concerti dei propri beniamini. Niente di più inveritiero: i brividi che mi hanno percorso mentre fissavo i tuoi vestiti di scena, mentre leggevo le lyrics scritte di tuo pugno e osservavo videoclip e spezzoni filmati di tuoi vecchi show testimoniano che la mia anima, caro David, l’hai toccata eccome. Sono certo che lo stesso vale per altri milioni di persone là fuori. Questo pensiero mi dona un minimo di conforto nella prima, triste serata senza te. Addio, e grazie per tutto.
LUCI DALL’OLTRETOMBA Tobias Sammet è certamente un personaggio esemplare. Stravagante frontman degli Edguy e “mente criminale” degli Avantasia, il cantante teutonico è riuscito a costruirsi un percorso artistico che in pochi sarebbero in grado di creare. Dopo 15 anni, sei album e tour mondiali, Sammet torna in pompa magna con un nuovo disco che si preannuncia essere un altro capolavoro, non tanto per la ricca vastità degli ospiti, ma anche per il concept e la storia che, in qualche modo, si lega - come ci confermerà il vocalist – al suo predecessore. “Ghostlights”, che ricorda anche la trilogia di ‘The Scarecrow’, ci viene così presentato: “A livello di storia è un proseguimento di ‘The Mystery Of Time’, è il suo secondo capitolo e porta con sé molta suspense. Le 20 tracce presenti in questo album sono 20 immagini, 20 momenti del viaggio spirituale del protagonista. Sono momenti che gli
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aprono gli occhi, lui stesso si pone domande riguardo l’esistenza in generale, la spiritualità. Il protagonista si sente stanco ed esausto a causa di questo ritmo malvagio che ci circonda. L’album ha in qualche modo una sorta di connessione con i primi dischi degli Avantasia, ma si rifà al concept di ‘The Mystery Of Time’, per cui è il suo secondo capitolo”. Già dalla suggestiva copertina, curata nuovamente da Rodney Matthews, si può delineare una connessione con la Wicked Trilogy, lo stesso Sammet infatti afferma: “Per qualche ragione volevo una copertina più cupa e più in stile film, qualcosa che si rifacesse alle pellicole di Tim Burton. Ho raggiunto bene quest’obiettivo con ‘The Scarecrow’ e ‘The Wicked Symphony’. Mi piace l’approccio alla Tim Burton che quegli artwork avevano. Io stesso ho fornito suggerimenti all’artista riguardo al far
rivivere il personaggio dello spaventapasseri in ‘Ghostlights’, poiché è una sorta di mascotte per gli Avantasia. Volevo costruire un collegamento a quei dischi”. Dietro a grandi album, si sa, c’è sempre anche una forte ispirazione: per il vocalist la maggior parte di essa proviene dal suo background musicale, rappresentato da celebri artisti come Magnum, Meatlof, Helloween, Queen, KISS, Def Leppard, Dio, Beethoven, Wagner, Enya, Loreena McKennit, Blackmore’s Night – come lui stesso sottolinea – ma anche la quotidianità e la lettura sembrano avere un grosso peso nel processo di creazione di un album targato Avantasia: “A livello di testi, credo che l’ispirazione derivi dalla mia ricerca attraverso la vita, sono domande che io stesso mi pongo oppure deriva da libri che leggo. Sono tutte cose che mi portano a fare domande di natura spirituale, ma allo st-
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nna G di Aria
esso tempo trovo avvincente rifugiarsi in altri mondi, scrivere la mia storia per un determinato contesto”. Argomenti interessanti la cui storia viene magistralmente narrata da personaggi specifici, interpretati qui dai maggiori artisti del music business; la metal opera di Sammet è costituita da una grande famiglia - composta principalmente da voci amiche (Kiske, Lande, Catley) che, in vista di quest’album, ha voluto accogliere altri grandiosi performer, come Geoff Tate, Dee Snider e Marco Hietala. Come vengono scelti, però, questi grandi cantanti? “Alcuni ospiti appartengono agli Avantasia, era fuori discussione avere Bob e anche Jorn, assente solo nell’ultimo disco a causa di altri impegni. Sai, quando scrivi delle cose vuoi renderle emozionanti per te stesso e devi aggiungere nuovi elementi alla musica. Questa è una cosa bella che riguarda gli Avan-
tasia, niente è prevedibile, nemmeno per me!”, questa la risposta di Toby che così prosegue: “Non c’è un piano generale dietro a tutto quello che faccio, molte delle cose che faccio si adeguano per qualche buffa coincidenza. Tu componi un brano e hai questa sensazione riguardo a ciò che potrebbe essere adeguato o no, segui l’istinto e procedi. Non ci sono troppi piani coinvolti”. E cosa dire, invece, della nuova partecipazione di Sharon Den Adel, grande assente dai tempi della “Metal Opera Part I & II”? Questa la buffa risposta del musicista: “Stavo componendo questo pezzo e mi sono detto che il brano sarebbe stato ottimo per una voce che assomigliasse a Madonna! Non so dirti il perché ma la voce di Sharon mi ricorda a volte quella di Madonna, con la sola differenza che quella di Sharon è molto più forte! Si è trattato di una sensazione, ho composto il brano e mi sono detto che fosse adatto a lei”. Quindici anni sono veramente lunghi e questo periodo, così colmo di avventure ed esperienze, ha certamente arricchito il bagaglio musicale e personale dell’artista che, in così breve tempo, non solo è riuscito a costruire una metal opera di un va-
lore inestimabile, ma è stato anche in grado di raggiungere obiettivi che in pochi, al giorno d’oggi, saprebbero prefissarsi. La sua lezione più grande? Ce la racconta lui stesso: “Spero di aver imparato molto in questi anni, credo di aver imparato molto! Ho lavorato con i migliori cantanti dell’industria musicale, se tu ti ritrovi su un palco con Eric Martin, Jorn Lande o Michael Kiske o Bob Catley o chiunque tu voglia, certamente impari qualcosa! Sono un uomo molto grato di aver avuto la possibilità di lavorare con quei fantastici e talentuosi vocalist. Non si tratta solo di avere delle registrazioni con queste persone, ho viaggiato per il mondo con loro e canto con loro ogni sera quando salgo sul palco”. Michael Kiske, però, sembra aver giocato un ruolo fondamentale all’interno del progetto Avantasia: tanti sono stati gli artisti che hanno collaborato con questo strabiliante musicista, ma come è nato il sodalizio tra Sammet e l’ex zucca di Amburgo? Facciamo un salto nel passato proprio con Tobi e torniamo con la mente al 2001: “Sono sempre stato un grande fan di Michi e devo dire che uno dei miei più grandi sogni era scrivere un album cercando di includerlo soprat-
tutto in quei brani che volevo lui cantasse. Questo era il mio sogno. Per me “Eagle Fly Free” è una delle migliori canzoni heavy metal nella storia della musica. Se ricordo bene, agli inizi è stato molto titubante, ma gli ho fatto un’ottima proposta. Questo ha fatto sì che almeno prendesse in considerazione di ascoltare sia i pezzi, sia quello che avevo da dirgli! Una volta ascoltato ciò che ho composto, ha capito che sono una persona ottimista e positiva. Mi ha risposto dicendomi che apprezza l’onestà dei miei brani, per cui ha accettato. Siamo diventati amici ed è stato bello quando siamo andati in tour nel 2010, lui sembrava essere sul punto di considerare di tornare a esibirsi dal vivo. Per lui è stata un’ottima occasione, credo che per lui sia stato facile rimontare di nuovo sul palco, perché poi si trattava di cantare 4 o 5 pezzi, non doveva preoccuparsi di niente. Penso che questo abbia aumentato la sua voglia di rimettersi in gioco”. I fan degli Avantasia non dovranno aspettare molto per godere di una nuova testimonianza live: il 22 marzo, infatti, Sammet sarà accompagnato un cast d’eccezione che ci viene qui anticipato: “Avremo un sacco di ospiti
come Eric Martin, Ronnie Atkins, sarà presente anche Jorn, mr Kiske, Bob Catley, Oli Hartmann, Amanda Somerville, Sasha, Miro, Felix degli Edguy. Sarà una lineup massiccia e quando hai una lineup del genere, puoi tenere concerti lunghi e non vedo l’ora!”. Tre ore e mezza di show faranno certamente la felicità di chiunque, visti soprattutto i noti musicisti che prenderanno parte a questa nuova tranche europea. Chiaro è l’entusiasmo che pervade Sammet che in questa sede non si è nemmeno risparmiato un piccolo pronostico legato allo sport, un altro dei suoi grandi amori. Alla domanda legata a un’ipotetica vincita della Champions League, il cantante tedesco afferma: “Ovviamente vincerà il Bayern Monaco, ahahah! Credo che ci siano tre squadre che potrebbero vincere: il Bayern, Parigi e Barcellona! Credo che queste siano le papabili vincitrici. Io spero possa vincere il Bayern, ovviamente… La Juventus non potrà vincere, poiché ha venduto Vidal”. E con questa insolita, ma divertente battuta, vi ricordo l’appuntamento all’Alcatraz di Milano che regalerà certamente un altro live da sogno!
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di Arianna G. Artista, musicista, cantante, laureanda, compositrice, scrittrice. Tutto questo si può riassumere in due semplici parole: Charlotte Wessels. La front-woman dei Delain non si è mai posta alcun limite per quel che riguarda le sue passioni: da autrice di bellissimi testi a narratrice di una sua prima novella che, per l’occasione, ha debuttato proprio quest’anno grazie alla nascita dei Phantasma. Proprio di questa nuova esperienza musicale abbiamo parlato con la cantante olandese che, in questa esclusiva intervista, ci racconta la nascita di questa creatura e ci svela qualcosa in più di questo “debutto” in veste di scrittrice. Il progetto, che vanta già oltre 6mila follower su Facebook, è nato da un’idea di Georg Neuhauser, vocalist dei Serenity, la cui ambizione era creare un concept per un side project non inerente al metal. Charlotte così racconta della sua partecipazione al progetto: “Proprio nei primi tempi, Georg mi aveva chiesto se volessi cantare. Gli ho risposto di
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sì, visto che proprio con lui avevo duettato in un album dei Serenity. Questo è stato il primo contatto che abbiamo avuto, Georg ha poi chiesto a Oliver Philipps di lavorare assieme su questo disco ed entrambi erano così eccitati all’idea di realizzare un album del genere, anche se non aveva un’idea riguardo al concept. A dir la verità, non solo mi era stato chiesto di partecipare come cantante ma mi era stato offerto di far parte del team creativo. Io stessa ho avuto qualche attimo di esitazione, dal momento in cui non ho mai avuto l’ambizione nel creare un concept album, perché mi piacciono canzoni che siano in grado di essere delle piccole storie. È stato solo quando mi è balzata in mente la novella ‘The Deviant Hearts’ e l’idea di pubblicare il libro insieme al disco stesso che mi son sentita maggiormente eccitata”. Nonostante il nome Phantasma richiami alla mente l’album degli Everon, band nella quale ha militato Oliver Phil-
Due Cuori Devianti
lips (chitarrista e tastierista), esso si riferisce alla musica piuttosto che ai membri coinvolti: “‘The Deviant Hearts’ è una storia fantasy che narra anche delle sfide di ogni giorno, ho visto un parallelismo tra il concept e il nome del progetto. Tutto ciò mi ha convinta a optare per questa scelta”. L’album, la cui storia non voglio svelare per non rovinarvi l’effetto sorpresa, ha ricevuto ottimi riscontri sia dalla stampa che dai fan, anche se alcuni, come confessa Charlotte, non hanno particolarmente capito questa nuova avventura della vocalist olandese: “Credo che l’unica critica negativa ricevuta sia legata al fatto che questo progetto non sia metal, noi stessi non lo vedevamo come qualcosa di metal, poiché include molti spettri, tra cui elementi rock, symphonic e progressive. Questa è stata l’unica critica negativa che abbiamo ricevuto finora ma penso che la gente si aspettasse questo dalle nostre band principali”. Una “band nuova”, fresca,
la cui proposta musicale differisce molto dalle altre maggiormente note, poiché trattasi di un genere musicale diverso, di un metal “malinconico” che rispecchia in toto l’anima del progetto grazie a brani come “Try”, “The Lotus And The Willow”, come la stessa Charlotte afferma, o ancora “Let It Die”, brano apripista che ha presentato questa band al mondo. Altra caratteristica fondamentale di questo nuovo progetto è certamente legata anche all’aspetto visivo, dettaglio che per la nota singer è molto importante: “Per me è molto importante, mi piace molto l’arte, mi piace molto la fotografia, così come la videografia, mi piace chiedere agli artisti di collaborare per la realizzazione delle copertine, anche se questa è più una scusa per poter lavorare con i miei artisti preferiti! Non li chiamerei però ‘dettagli’, perché la parte visuale, l’aspetto visivo di un progetto simile determina moltissimo. Voglio dire, io stessa mi reputo una persona che cura
molto l’aspetto visivo e se io pensassi ora alla band, la prima cosa alla quale penserei sarebbe una delle prime foto promozionali pubblicate o l’artwork di copertina, per cui credo che sia una cosa che funziona sempre a livello inconscio. C’è stata certamente una certa attenzione sia nei photoshoot che nella realizzazione dei video e della copertina, ma devo dire che il fatto che la novella fosse scritta ha aiutato molto. C’erano così tanti elementi allettanti sui quali lavorare, abbiamo avuto un ottimo fotografo, un ottimo artista visuale, un grande team e credo che tutti fossero entusiasti riguardo questo progetto. Tutti quanti hanno fatto del loro meglio ed è stato bello. L’aspetto visivo e la musica si completano a vicenda, in particolar modo per questo progetto devo dire che non si è trattato solo degli aspetti visivi e la musica”. Un progetto veramente interessante che meriterebbe certamente di avere un seguito, ma cosa ne pensa la cantante a riguardo? “Penso che scriverò, senz’altro, ma se dovessi scrivere qualcosa lo farei senza avere una scadenza, qualcosa che porterei avanti durante le mie pause. Per quel che riguarda i Phantasma, abbiamo lavorato sodo per rispettare la scadenza. Quando l’album è uscito sia io che Georg avevamo ricevuto nuove scadenze per quel che riguardano sia i Serenity che i Delain, per cui al momento non stiamo pen-
sando ad un secondo capitolo. Siamo molto soddisfatti del risultato, è stata una cosa divertente da fare, ma non escludo la possibilità che possa esserci una seconda parte. Credo possa esserci, ma non adesso”. Un progetto che, indubbiamente, ha richiesto alla vocalist parecchia energia e tanto tempo, fattori ormai diventati essenziali per la buona riuscita di un qualsiasi buon proposito. La cantante ricorda così la nascita della sua prima novella, su cui si basa l’intero progetto: “Mi piace leggere, avevo delle ambizioni ed a un certo punto ho voluto lavorare ad una cosa di fantasia, ma non ho mai preso seriamente questa ambizione, poiché sono già abbastanza impegnata con la musica. Quando mi è stato chiesto di realizzare il concept per questo disco, ho pensato che potesse essere un’ottima opportunità di portare avanti questa cosa. Tirare fuori un concept album è stato impegnativo. Avere questa storia inclusa nel progetto mi ha da una parte dato ottime ragioni per mandare avanti questa mia ambizione segreta; dall’altra, invece, mi ha dato la possibilità di lavorare ai testi con un po’ più di libertà”. Questo nuovo progetto, però, è da intendersi solo come uno studio-project o ci sarà la possibilità di portarlo on the road? Nonostante l’idea la solletichi, Charlotte sembra essere decisa a mantenerlo solo come progetto da
studio: “È una band nata in studio, io, anzi tutti noi non vogliamo andare in tour con questo progetto per il semplice fatto che richiede troppo tempo. Io stessa ho bisogno di molta energia e concentrazione per i Delain, ma vista la storia, gli elementi visivi e il fatto che la musica sia diventata così cinematografica, c’è l’ambizione di portare tutto sul palcoscenico, solo per alcuni spettacoli, renderlo tutto quasi come una produzione teatrale”. Il 2016 sarà certamente un anno abbastanza importante per la bella vocalist olandese: in attesa del nuovo album, che verrà anticipato presto da un EP, i Delain annunciano anche l’arrivo del decimo anniversario della band, come lei stessa ci comunica entusiasticamente: “Abbiamo terminato le registrazioni di questo prossimo Ep che sarà composto di otto tracce ed il risultato è veramente fantastico. A breve arriverà un nuovo album, così come nuovi tour, torneremo di nuovo in America. Festeggeremo il decimo anniversario di attività e lo faremo in maniera appropriata, per cui il 2016 sarà un anno molto impegnativo e non vedo l’ora che arrivi”. In definitiva, i Phantasma meriterebbero una maggior attenzione da parte di chi vorrebbe
addentrarsi in progetti nuovi e interessanti e si spera possa esserci in un futuro non molto lontano la possibilità di avere una seconda parte o assistere ad una rappresentazione teatrale poiché, si sa, l’innovazione è la chiave del successo!
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di Andrea ‘Gandy’ Perlini
Nonostante gli ormai 10 anni di carriera, non tutto il popolo del power metal è a conoscenza del mondo Serenity. Abbiamo l’occasione di parlare quindi col nostro conterraneo Fabio d’Amore e col vocalist Georg Neuhauser, per far conoscere ai nostri lettori una delle più interessanti realtà odierne. “Se vi piace il metal sinfonico” inizia Fabio “che tratta di temi e personaggi storici, vi piacciono le melodie, numerose parti corali ed intrecci vocali, e dei riffing potenti, siete nel posto giusto!” ‘Codex Atlanticus’ è il quinto album di una carriera quasi decennale: “E’ sicuramente stato un percorso lungo e senza dubbio faticoso, dove ci siamo tolti un sacco di soddisfazioni, prima di arrivare a ‘Codex Atlanticus’. Ci sono ancora alcuni posti dove non siamo stati, persone che ancora non ci conoscono e alle quali vogliamo arrivare: questo è il nostro prossimo obiettivo per la nostra carriera! Forse fra 10 anni ci ritroveremo qui, sulle vostre pagine, e potremmo riparlarne!” Uno dei tratti distintivi degli album dei Serenity è senza
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Il Codice Atlantico
dubbio la ricercatezza storica. Fabio ci rivela che “Georg è docente e ha una cattedra di professore all’università di Innsbruck. È lui il ricercatore storico! Per quanto riguarda Leonardo Da Vinci, è nato tutto un po’ per caso, nei camerini del Masters of Rock. Stavamo discutendo sul futuro del nuovo album, quando all’interno di un dibattito è venuta fuori l’idea di concentrarci solamente su un personaggio. Credimi, non abbiamo neanche dovuto parlare di chi, che il nome di Leonardo era già un punto fisso.” Presentazioni che invece necessitano i nuovi membri di una band in continuo mutamento. “Alcuni cambiamenti sono venuti naturali, in quanto alcuni membri della band non desideravano più far parte di questo progetto, stare per buona parte dell’anno on the road, lontani da casa e dalla famiglia. Diciamo che non è stato un vero e proprio ‘terremoto’, come magari può accadere per altre band...nessuna sorpresa, né per Thomas né per Clementine, per la quale si è semplicemente chiuso un ciclo.” Una sorpresa invece
è stato ritrovare Amanda Somerville sul disco: “Abbiamo avuto l’onore ed il piacere di ritrovare Amanda alle parti di voce su ‘The Perfect Woman’ e sulla title-track del disco. È stata nuovamente una mossa azzeccata!” Ha fatto come sempre un lavoro incredibile! Fabio ci tiene poi a precisare che gli ospiti non si limitano ad Amanda: “Abbiamo anche un altro ospite, questa volta al violoncello: Simon Huber, che vanta collaborazioni con artisti rock e pop della scena mondiale. Inoltre, ritroviamo Tasha, la nostra voce femminile anche negli ultimi tour, che ci ha accompagnato anche su questo ultimo album, creando un ‘muro vocale’ su ‘Iniquity’ e duettando con Georg su ‘Sail’, una delle bonus track.” Approfittiamo proprio della presenza di Georg per un paio di domande anche sul progetto Phantasma e sulla sua vocalità, spesso paragonata a quella di Tony Kakko. “Sono davvero soddisfatto dei Phantasma” inizia Georg, “l’album è piaciuto molto ed è uscito solo un mese fa, quindi abbiamo nuove soddisfazioni
da raccogliere! Per quanto riguarda i paragoni, non ne sono un grande fan, ma Tony è un eccellente frontman, quindi è un piacere! La mia maggior fonte di ispirazione però è e sarà sempre Freddy Mercury.” Le curiosità sul nuovo album ovviamente non finiscono qui e si arriva a parlare delle differenze coi lavori passati. “Credo che ‘Codex Atlanticus’ sia in qualche modo molto più diretto, d’impatto, senza tanti fronzoli, non ‘gira attorno’ al tema, e va subito al sodo. I brani ti rimangono subito in testa. Però il nostro sound e trademark è ben consolidato e fuori discussione, non ha preso particolari svolte stilistiche. Abbiamo prevalentemente cercato di affinare il nostro stile e spero che la critica e i fans lo noteranno.” Ed è con l’augurio di rivederci sul palco a Febbraio in Italia (finalmente, come fa notare Fabio) che ci congediamo con i Serenity. Ora che li avete conosciuti un po’ di più non avete scuse: fate vostro ‘Codex Atlanticus’!
di Paky Orrasi
! s a m t s d Chri
ou l d n a ) out
ry r e m ( A
Natale, Natale ossia la celebrazione che più di tutte esprime la cultura di un Paese. In America, ad esempio, il moderno Natale è rispecchiato dai ricoveri in ospedale per curare le ferite procuratesi durante Black Friday, in Danimarca I bambini si vestono da folletti….In Finlandia invece? Noi il Natale lo si festeggia out and loud a suon di Metal, ovviamente. Nella terra che ospita Babbo Natale, chiamato Joulupukki, abbiamo incontrato uno dei fondatori di Raskastajoulu (Heavy Christmas) Tony Kakko. Con lui abbiamo parlato di questo progetto annuale, e del suo modo di festeggiare il Natale. Babbo Natale vive in Finlandia,
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ma forse non tutti sanno che la versione finlandese è naturalmente terrificante. Scrollatevi l`immagine dolce e carina creata dalla Coca-Cola. Joulupukki è uno spirito delle tenebre, il suo nome si traduce in “capra di Natale” che all’inizio non dava i regali ma li richiedeva, meglio se i doni erano bevande alcoliche. La capra di Natale era una creatura orribile che spaventava i bambini, indossando corna e pelle d’animale, si copriva il volto con fuliggine o una maschera di corteccia…si persino Babbo Natale aveva il face paint! Ora Joulupukki, che vive a Korvatunturi (nella Lapponia finlandese), ha assunto un`immagine più amorevole. Vive con sua moglie e I suoi assistenti, che non sono folletti simpaticissimi, ma i Tontut, creaturine a quanto irritanti e vendicative, dei sociopatici anche loro!
Ora, con questo backgroud potete capire che Raskasta Joulua è in pieno sintonia con il Natale Finlandese. Inoltre se siete dei fan accaniti del metal Finnico rischiereste una sincope o due causata dalla line up, che include, oltre a Tony Kakko, JP Leppäluoto, Elize Ryd, Antti Railio, Ari Koivunen, Ville Tuomi, Antony Parviainen, Pasi Rantanen, Tommi ”Tuple” Salmela ja Kimmo Blom. Scherzi a parte, non pensate a questa band come un gioco, Raskasta Joulua cattura la meraviglia e la gioia del periodo natalizio; le canzoni tradizionali sono accuratamente riarrangiate , con maestria ineccepibile e vocalità di tutto rispetto. Come spiega Kakko “Abbiamo guardato a questo progetto annuale con molta serierà sin dall’inizio, cercando di far partecipare le persone giuste dello scemo metal e rock finlandese. Naturalmente quando abbiamo iniziato, ormai undici anni fa,
era un progetto molto più piccolo con qualche concerto in locali. Dopo quattro o cinque anni abbiamo capito davvero cosa stavamo facendo, ottenendo concerti sempre più grandi e ampliando il nostro repertorio”. Le canzoni di Natale essendo struggenti e gloriose si prestano alla perfezione a un decoupage heavy/symphonic metal e questa band in Finlandia, e non solo, è riuscita a ravvivare quell`amore nostalgico per questi pezzi che spesso il nostro popolo heavy perde. Raskasta Joulua non ha un pubblico solamente heavy, qui sono ormai parte della tradizione e quindi se da una parte i metallari si riavvicinano a questa tradizione, coloro che non hanno nessun legame con il metal vengono a contatto con questi suoni, come ben sottolinea Kakko “Il metal è già parte della tradizione finlandese da moltissimi anni, quindi un po’ tutti possono trovare qualcosa di gradevole nella versione che noi proponiamo, di canzoni che tutti noi in Finlandia e non solo conosciamo, ma non ci limitiamo a ricostruirle in toni heavy, vi sono anche versioni acustiche”. Questa band, in fondo, non fa altro che ampliare quello
che è già o nelle Christmas Carols: solennità, potenza, malinconia. Se da una parte potete perdervi nella potentissima riverniciatura di questi pezzi, dall’altro potete anche scoprire nuove sfumature nelle voci di Kakko, Hietala, Koivunen ecc. in quanto cantando in finlandese, vi è una diversa vocalizzazione e fonetica che si traduce in suoni diversi da quelli ottenuti con la lingua inglese “Difatti, il pubblico fuori dalla Finlandia può ascoltarci nella nostra lingua originale, ma abbiamo anche pezzi in altre lingue che tutti posso riconoscere e amare, ad esempio Ave Maria, White Christmas, abbiamo anche un album totalmente in inglese “Ragnarok Juletide”. L`Idea di fare un album in inglese venne dalla label, ed era importante per noi, in quanto nella nostra line up abbiamo talmente tanti artisti conosciuti a livello mondiale che abbiamo aperto una porta per eventualmente fare degli shows all’estero, anche se l’idea è complicata da mettere in pratica. Vedi quando hai un progetto già così
grande in Finlandia, oltre alle proprie band, trovare il tempo per tutti noi di fare tour fuori casa non è facile, bisognerebbe quasi avere due orchestre dello stesso progetto che vanno in tour in differenti posti allo stesso tempo. Inoltre a Natale vogliamo stare a casa”. Chiarisce Kakko. Quindi per ora lo spettacolo, che vi assicuro è maestoso, rimane a casa. Il popolo metal è spesso laico, quindi molti lettori si staranno chiedendo cosa ci trovino artisti slegati da qualsiasi confessione religiosa in queste canzoni, di certo tutti noi siamo in qualche maniera culturalmente legati a questi brani, ci ricordano la nostra infanzia, un Natale particolarmente felice o triste, un viaggio fatto con la famiglia, lo zio che si ubriaca troppo, le bellissime litigate quando la famiglia si riunisce! Scherzi a parte siamo alla fine tutti malinconici ascoltando questi pezzi, e molti d`essi hanno messaggi che sono universali e non appartenenti ad una confessione. Uno di questi in Finlandia è Sylvian joululaulu (La canzone di Natale della capinera) , fa parte del repertorio dei Raskaska Joulua; una canzone che ci tocca da vicino, in quanto la storia parla di un uccello, originario
della Finlandia, che è costretto a migrare verso la Sicilia per l’inverno, ricordando la sua amata patria. Il brano è stato votato due volte la più bella canzone di Natale in Finlandia ed è diventata la canzone che descrive meglio la nostalgia sentita da molti finlandesi per la loro patria nordica nel periodo natalizio. C’è anche un riferimento al desiderio uccello di essere liberato dalla sua gabbia e si riferisce al desiderio della Finlandia a diventare liberato dal dominio russo. Al riguardo Kakko spiega “non sono religioso, ma sono patriottico, amo il mio Paese, e Sylvian Joululaulu in particolare è la mia canzone preferita. È una canzone per viaggiatori, per chi è costretto a stare lontano da casa, visto il mio lavoro questo pezzo mi tocca particolarmente. Inoltre il sei dicembre è il giorno dell`Indipendenza Finlandese quindi questo pezzo ricorda i nostri nonni che hanno combattuto per la Finlandia, è una canzone davvero speciale”. E tra malinconia e ricordi non dimentichiamo che il nostro eroe Kakko ha una sorpresa per i suoi fan, un bel regalo di Natale, in quanto i Sonata Arctica hanno in un’uscita un singolo chiamato “Christmas
Spirit” che non è stato creato senza problemi, e si basa su un gioco di parole, come ci spiega Kakko “scrivere le parole del pezzo era sempre un problema, in quanto non riuscivo a farlo in estate, avevo bisogno di entrare nello spirito natalizio per farlo. Quando scrivo canzoni non ho problemi, è come vedere un film e scrivere quello che immagino, ma per natale dovevo aspettare di essere più vicino a questo periodo, è stato complicato, quasi dovevo entrare in un congelatore per essere capace di buttare giù qualcosa inerente al Natale. Ma lo spirito del natale in questa canzone si riferisce all’alcool!” E in conclusione non potevamo non chiedere cosa chiedeva da bambino Tony Kakko all`oscuro Joulupukki e lui divertito ci racconta “non ricordo di aver mai chiesco grandi cose, la mia famiglia era modesta, non vi erano grandi soldi quindi chiedevo cose davvero piccole, ma un anno ricordo di aver chiesto a Joulupukki un fratello o una sorella!” E con questo sia io che Tony vi auguriamo: Hyvää Raskasta Joulua!
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La Finlandia è una terra misteriosa, che attrae chi come noi si nutre di emozioni oscure e malinconiche. In realtà questa terra è da decifrare. Il carattere finlandese è un quasi impenetrabile nella sua essenza, come la propria lingua. Oscura è la sua notte che regna indisturbata per mesi e mesi, tra le tempeste gelide ed i rumori ovattati della neve, smorzati solo dalle urla alcoliche di un sabato sera come altri. I contrasti qui sono la consuetudine: buio anche di giorno, ma d’estate il sole splende anche la notte. In questa terra arcana, da secoli la malinconia, la depressione, l´inettitudine è un’arte, un´arma usata con sapienza, e tramite essa tantissime creature emergono sotto forma di dipinti, romanzi e naturalmente musica. Quando l’arte sviscera le radici folkloristiche di questa cultura, il tutto appare quasi più chiaro, come un dizionario: esso traduce letteralmente, non spiega il valore culturale di un idioma, ma di certo ci aiuta a cogliere il suo senso. Molte sono le band che naturalmente sono ispirate da questa particolare malinconia finlandese, i cui testi sono immersi nei racconti di popolari di demoni, spiriti e bardi. Tra queste band troviamo Vorna, che uniscono melodic black a folk metal, oltre a molte influenze che penetrano e rendono partico-
lare il suono di questa band proveniente da Tampere. Abbiamo incontrato Vesa Salovaara, per parlare di ‘Ei valo minua seuraa’, il nuovo misterioso album dei Vorna. ‘Ei valo minua seuraa’ (la luce non mi segue) è la chiara dimostrazione di come mutare quella tipica spossatezza che di tanto in tanto colpisce i finlandesi, in un viaggio verso l’equilibrio mentale o spirituale. Come ci confida Vesa: “La storia nella sua totalità è romanzata, ma di certo vi sono elementi che sono nati da un periodo non particolarmente felice per me. Scrivere è sempre molto terapeutico, anche se difficile perché significa andare a ricercare quei sentimenti. Scrivere nuovi pezzi, porta sempre una lezione annessa da imparare”. Un album, diversamente adulto, polimorfo e in un certo senso, ancora più oscuro, maggiormente impostato sulle melodie e un suono moderno, come lui stesso ci spiega: “Il materiale è molto più pensato, ci sono delle idee spontanee, ma abbiamo lavorato di più su questo nuovo album; i testi sono maggiormente depressi o scuri. Non abbiamo pensato inizialmente alla direzione, pian piano abbiamo deciso di evolvere per evitare di avere lo stesso taglio dell’album precedente”. I Vorna basano il loro materiale
su storie che ruotano e rievocano miti folkloristici, di una Finlandia che sembra lontana, ma attenzione, folklore e paganesimo non sono sinonimi e Vesa ci tiene a precisarlo: “La parola folklore è molto più vicina a noi di paganesimo, magari molti ci definiscono Pagan Metal, ma non sono certo che sia esatto. Paganesimo comporta religione e noi non siamo interessati a nessun credo. Il nostro interesse è incentrato su temi che risiedono nel mostro patrimonio folcloristico, storie e tradizioni. Personalmente questa passione è nata quando ero a scuola e mi avvicinai al genere fantasy, nel nostro patrimonio vi sono così tante storie affascinanti e misteriose. Queste storie hanno il potere di farci capire e svelare il mondo in cui viviamo. Credo sia un dovere conoscerle”. E pieno di mistero è il singolo Jälkemme, il primo brano scritto dal tasterista Mikael Vanninen, che come ogni ottima canzone ha avuto mille mutazioni prima di maturare nei suoi sette minuti di ottima fattura. “Il testo, ha una storia interessante. Ero all’università, ad una lezione sui cambiamenti climatici e idee morali d’oggigiorno, quello mi ha portato a scrivere questo pezzo, che riflette sui cambiamenti che ognuno di noi può avere nella propria vita, possono essere buoni ma non per ques-
to possono soddisfarti. La radice del problema affonda nella società e la natura umana, ed è frustrante.” Musicalmente i Vorna vanno in qualche modo a colmare il vuoto che la fine della band Ajattara ha lasciato in molti di noi. Vesa stesso è un grande fan e ci racconta: “Io sono un gran fan, e nel primo album confesso che sono stato influenzato molto dai loro testi; considero Pasi Koskinen un grande scrittore. Credo che siamo vicini a loro nel fatto che usiamo la lingua finlandese. Loro fecero un album acustico fantastico, cattivo e sfrontato e spesso dico alla band che dovemmo fare qualcosa in acustico, ma non sono interessati!” La voce di Vesa, in ‘Ei valo minua seuraa’, risulta evanescente, ovattata il che riesce ad evocare i suoni invernali che una strada deserta finlandese contiene, i passi pesanti tra la neve, il vento che sferza sul mare e laghi ghiacciati, e da lontano il lamento del tram che nonostante il tempo sembra essersi fermato continua la sua corsa. Speriamo che i Vorna abbiano una lunga strada davanti e continuino a ricordarci dei bardi come Väinanöonen, dal quale Tolkien prese spunto per il suo Gandalf, “se dovessi scegliere quale personaggio incarnare sceglierei lui, perché aldilà di essere un dio e un eroe è un cantante e musicista.” Conclude Vesa.
di Paky Orrasi
La reale Espressione della finlandia 24 METALHAMMER.IT
Lotta per la libertà Spesso l’inizio di un nuovo anno ispira le persone a dare una svolta significativa alla propria esistenza, provare cose nuove, uscire dalla comfort zone. Si sa che i buoni propositi difficilmente vengono portati a termine ma non è il caso dei Varg, che hanno accolto e apportato con entusiasmo dei cambiamenti veramente degni di nota al loro modus operandi. Partiamo con la prima grande novità: ‘Das Ende Aller Lügen’ potrà essere ascoltato anche in inglese, per la gioia di chi non ha confidenza con il tedesco: “L’idea ci è venuta durante le registrazioni” spiega Timo “Managarm”, bassista della band “Abbiamo pensato che fosse l’ideale per i nostri fan che non parlano tedesco. L’anno scorso abbiamo fatto il nostro secondo tour nordamericano, siamo stati praticamente in tutta Europa e molti dei nostri fan non parlano la nostra lingua: i testi sono una componente molto importante del nostro lavoro e abbiamo voluto dare a tutti la possibilità di godersi appieno ciò che abbiamo da offrire. Abbiamo trovato alcune traduzioni dei nostri testi su internet, probabilmente ad opera di qualche
fan: alcune erano ben fatte, altre terribili, perciò abbiamo pensato di occuparcene noi stessi, riscrivendo i testi da capo e non limitandoci a tradurli dal tedesco all’inglese, questo perché volevamo rendere esattamente la stessa atmosfera dei testi originali. Non è stato affatto semplice ma penso che abbiamo fatto un ottimo lavoro, spero che la gente lo apprezzi”. ‘Das Ende Aller Lügen’ comincia con il discorso conclusivo pronunciato da Charlie Chaplin nel film ‘Il Grande Dittatore’, sorprendentemente appropriato visti gli eventi che stanno sconvolgendo il mondo in questo periodo della nostra storia: “E non era assolutamente voluto” - precisa Managarm - “abbiamo cominciato a registrare quest’album due anni fa e la titletrack era già pronta da più di un anno. È una sorprendente coincidenza che sia tutto così vicino a quello che sta succedendo. Ci auguriamo che possa ispirare qualcuno a vivere e pensare positivamente, a non farsi condizionare dai pregiudizi e ad agire sempre in modo intelligente. Ovviamente né io né i miei compagni pensiamo di poter dar inizio ad una rivoluzione pubblican-
do un album ma speriamo che, in qualche modo, riesca ad ispirare minimamente chi ci ascolta”. Lo scorso 25 novembre è stato pubblicato il videoclip per ‘Das Ende Aller Lügen’: “Una sola parola: stressante. Abbiamo girato tre video in pochi giorni con questa compagnia di Berlino. Ci siamo annoiati a morte e abbiamo preso molto freddo, visto che le riprese sono state fatte all’esterno e con indosso i costumi di scena”. Forse non è stato così terribile, Managarm racconta l’esperienza ridacchiando sotto i baffi, coerente con il pensare positivo pubblicizzato poco prima. Tornando sull’album, Managarm ci rivela chi sarà la guest vocalist: “Si tratta di Anna Murphy. Siamo stati molte volte in tour con gli Eluveitie, la stimo moltissimo come musicista e come persona. In passato ha suonato l’hurdy gurdy per noi, anche dal vivo, questa volta ci ha prestato la sua voce, ha fatto un ottimo lavoro”. Non può mancare la domanda di rito sull’Italia e sul pubblico italiano: “Abbiamo suonato nel vostro Paese tre volte, l’ultima delle quali nel 2013 in occasione dell’Heidenfest, a Milano. Ottimo feedback,
di Alessandra Mazzarella pubblico caloroso, esibirsi qui è sempre una grande soddisfazione. Inoltre è l’unico Paese in cui abbia bevuto un caffè con tutti crismi” ammette Managarm “Il più buono del mondo, c’è poco da fare. Scherzi a parte, vogliamo assolutamente tornare, non vediamo l’ora”. Il 2015 è stato un anno importante per i Varg, il decimo dalla fondazione della band: “Quasi non ci abbiamo fatto caso, non abbiamo neanche festeggiato… Se faremo qualcosa sarà per i quindici anni. Sono cambiate molte cose da quando abbiamo cominciato: siamo maturati come artisti e come persone, abbiamo accolto e salutato diversi musicisti, raggiunto tanti traguardi e sicuramente non abbiamo intenzione di fermarci adesso. Ci stiamo godendo al massimo questo percorso e vogliamo continuare a farlo per molto, moltissimo tempo”. Ci auguriamo davvero che sia così. Lasciatevi ispirare dai cinque lupi di Coburg, guardate la vita da un’altra prospettiva, siate felici di ciò che già avete e fate in modo di procurarvi ciò che vi manca. Siate parte del cambiamento.
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La Notte delle Notti di Stefano Giorgianni
DOPO OTTO ALBUM DA STUDIO, ARRIVA IL DVD LIVE CHE CONSACRA LA CARRIERA DEGLI ELVENKING. NE ABBIAMO PARLATO CON DAMNA! Per una notte gli spiriti hanno invaso Pordenone. Dopo otto album da studio i nostrani Elvenking, forti del successo raccolto durante la loro quindicinale carriera, hanno preso la decisione di immortalare le loro gesta in un DVD intitolato ‘The Night of Nights’. Un titolo questo che rappresenta la voglia della band italica di mostrare a chi li segue, e non, ciò che sono, ciò che intendono trasmettere attraverso la musica. Un’opera a lungo attesa, ma arrivata nel momento in cui il gruppo si sentiva pronto per il grande passo: “Da una vita volevamo immortalare un nostro show” riferisce il vocalist Damna, con cui Metal Hammer ha il piacere di parlare: “Questo desiderio in realtà c’era già dopo due o tre album, tempi che reputo non maturi per diversi motivi. ‘The Night of Nights’ arriva in un momento in
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cui avevamo molta carne al fuoco ed eravamo molto più preparati sotto tutti i punti di vista, dalla preparazione a livello tecnico alla consistenza della nostra fan-base. Abbiamo quindi incontrato tutte le condizioni adatte per realizzare un DVD come si deve.” Un live particolare questo degli Elvenking, registrato dove i ragazzi sono nati e cresciuti: “L’abbiamo registrato a casa, praticamente. Pordenone è la nostra città, anche se abitiamo nei dintorni immediati del centro. Il Deposito, la location dove è stato registrato il concerto, è uno di quei locali dove sono stati alcuni dei concerti più memorabili del luogo, uno dei punti di riferimento della città per ciò che è relativo alla musica. È stata, a mio parere, la scelta più naturale.” Naturale sì, ma che ha escluso altre possibilità, come registrare durante un festival con un ampio pubblico oppure presentare una selezione di brani dai vari tour: “Fare una selezione di tracce registrate all’estero, dove magari c’era anche più pubblico, sarebbe stata l’occasione di esibire un lato della
nostra band e della nostra attività. Noi volevamo però portare nel DVD la nostra serata-tipo, e, registrandolo nella nostra città, abbiamo inoltre mostrato le nostre radici, facendo vedere quel che succede a casa nostra. È stato emozionante mostrare dove è nata la nostra musica e notare che molte persone sono venute anche dall’estero e da diverse parti d’Italia. È stato come invitare a casa i propri amici.” Quando ci si prepara per un live album bisogna stilare la lista dei pezzi da proporre, scelta assai ardua per un musicista, però: “Dopo tutti questi album abbiamo cercato di esplorare tutta la nostra carriera e discografia, provando a dare una certa dinamica allo spettacolo, quindi alternare pezzi veloci a quelli acustici, o ai differenti assoli. Per quanto ci riguarda non ci sono dischi di cui non andiamo fieri, dunque volevamo esprimere i diversi aspetti e cambi di sound che abbiamo attraversato.” Un disco dal vivo che raccoglie quindi una selezione attenta dei brani dai vari album che può fungere da ascolto
inaugurale per coloro che non hanno mai incontrato gli Elvenking: “Il live può essere un punto d’inizio per chi non ci conosce, vedendo tutte le sfaccettature del nostro sound, conoscendoci e rendendosi conto del messaggio che vogliamo dare. È un bel biglietto da visita.” Il gruppo è sotto contratto con AFM sin dagli esordi, è interessante sapere come l’etichetta ha accolto l’idea del live album: “Con loro c’è una collaborazione oramai più che decennale e abbiamo sempre delle discussioni costruttive. Inizialmente volevano che facessimo un nuovo disco, poi ne abbiamo parlato e credevamo che dopo otto album era il momento giusto per fare questo regalo ai nostri fans.” Come tutti i cofanetti che si rispettino anche ‘The Night of Nights’ ha sia l’edizione audio che il video inclusi: “Inizialmente non doveva esserci la parte audio, solo il DVD” racconta Damna “Poi si è deciso di fare un prodotto completo, indirizzato soprattutto a chi ci segue da anni.” Un live album richiede un notevole sforzo, soprattutto dal punto di vis-
ta tecnico: “I nostri tecnici si occupavano della serata, per quanto riguarda la registrazione audio-video ci siamo rivolti alle persone che lavorano al Deposito e ci siamo trovati molto bene. Poi ci siamo avvalsi dell’immancabile tocco di Simone Mularoni per il mastering. Ormai con lui abbiamo stretto un rapporto che sappiamo continuerà ancora. È una certezza e ha dimostrato che anche in Italia ci sono studi validi per registrare dischi metal-rock ad un certo livello.” Come tutti i dischi degli Elvenking anche ‘The Night of Nights’ è provvisto di una copertina affascinate, della quale Damna dichiara: “L’artwork è stato creato da Samuel Araya, che aveva già lavorato con noi per ‘Red Silent Ties’ ed ‘Era’. Quando si è presentata l’opportunità del DVD abbiamo subito pensato a lui. Samuel è capace di rappresentare la nostra musica in maniera naturale, a volte non ci crediamo nemmeno noi. Gli abbiamo dato un’idea ed è saltato fuori quasi immediatamente quello che potete vedere. Il suo modo di disegnare è così
raffinato e sognante che si adatta alla perfezione alla nostra musica.” Poi si pazza ad alcune chicche presenti nel DVD: “Per la prima volta nella nostra storia abbiamo
plicato. Ci siamo in questo caso avvalsi dell’aiuto di Chiara Tricarico dei Temperance e di Isabella Tuni delle Cellulite Star. Sull’ultimo pezzo, ‘Pagan Purity’, siamo
suonato una canzone che continuavano a chiederci, ‘Seasonspeech’. Normalmente comporta diversi problemi tecnici, come le voci femminili, poi è un pezzo abbastanza lungo e com-
riusciti invece a coinvolgere Jarpen e Gorlan, una sorta di rimpatriata, un’emozione fortissima scaturita dal ritornare sul palco dopo così tanto tempo con persone con cui si è condiviso di tut-
to. Anche se loro hanno preso strade diverse nella loro vita, quando ci si ritrova è un piacere enorme.” Infine Damna spiega qualcosa su ciò che è stato fatto dopo la registrazione: “In post-produzione abbiamo lavorato molto sul video, soprattutto per il montaggio. Avevamo cinque o sei telecamere, quindi bisognava elaborarlo un po’. Per l’audio c’è stato ovviamente il mixaggio che non ha causato però problemi. Non abbiamo voluto ritoccare troppo né il video né l’audio, ci sono anche errori ed imprecisioni che possono uscire in un live e non volevamo che apparisse troppo finto.” Con ‘The Night of Nights’ gli Elvenking sono riusciti quindi a coronare un loro sogno ed a regalare un prodotto di alto profilo anche ai loro fedeli fans. Non resta altro che assaporare questa prelibatezza musicale.
LA RECENSIONE 87
Più di quindici anni di carriera, otto album da studio ed ora, finalmente, ecco il live, il coronamento di un percorso professionale che ha visto gli Elvenking calcare i palchi più importanti d’Europa e costruirsi un seguito di tutto rispetto. ‘The Nights of Nights’ arriva all’apice di un percorso di maturazione artistica e musicale del sestetto friulano, iniziato nel 2000 con ‘To Oak Woods Bestowed’ e continuato inarrestabilmente fino all’ultimo, superbo ‘The Pagan Manifesto’. Questo live DVD, accompagnato dal comparto audio in formato CD, è il sunto della creazione elvenkingiana, un punto, sia d’arrivo che di partenza, che porta a compimento la deliziosa e coraggiosa proposta della band di Pordenone. Sì, Pordenone, storico centro dove gli Elvenking sono nati e cresciuti, dove la loro arte è sbocciata, germogliata ed esplosa in una miriade di petali musicali, echi di leggende racchiuse nel sound del gruppo guidato dal vocalist-sciamano Davide ‘Damna’ Moras. ‘The Night of Nights’ mostra e dimostra ciò che gli allegri saltimbanchi del Metal italico riescono a produrre, ad evocare: una scia di melodia seducente che affascina, delizia, diletta, schiavizza in un susseguirsi incessante di brani che ripercorrono la storia della band. È il ‘Manifesto’, prima traccia dell’ultimo disco, ad aprire la gioiosa rimpatriata nella città natia. Un gaio fiume ricolmo di voglia di vivere e suonare scorre e sgorga dal palco al pubblico, un tutt’uno affluente che si mescola, si mischia prepotentemente in un corso d’acqua impetuoso di sentimenti ed emozioni, scaturite da una comune brama di contagiarsi reciprocamente di un irrefrenabile senso di piacere. Seguono estratti da ‘The Winter Wake’, ‘Red Silent Tides’, ‘Two Tragedy Poets’, dal mistico ‘Wyrd’, fino a comprendere tutta la discografia degli Elvenking. Il gruppo è sugli scudi, la folla implorante, cala la notte, lo spettacolo si consuma. Il culmine si raggiunge con ‘Seasonspeech’ e ‘Pagan Purity’, il passato incontra il futuro e i due si fissano, attraverso uno specchio di memorie e intenzioni. Stefano Giorgianni
Elvenking The Nights of Nights (AFM)
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Nessun Ri Dopo il successo di ‘Never Regret’, gli israeliani Desert si confessano a Metal Hammer! Una nuova stella splende nel firmamento delle band israeliane, quella dei dark-epic metallers Desert. Fautori di un heavy metal vario e dalle mille sfaccettature, i cinque di Tel Aviv (dopo l’abbandono del chitarrista Max Shafranski) hanno raccolto diverse recensioni positive con il loro ultimo album ‘Never Regret’, un disco potente e dai richiami storici. A qualche mese dall’uscita Metal Hammer ha parlato con il vocalist Alexei Raymar dei frutti della recente fatica discografica, dei concerti che hanno visto i Desert calcare il palco con diverse star del Metal e dei progetti futuri. Il primo argomento che vogliamo toccare è il grado di soddisfazione verso il loro prodotto, specialmente se si sentono appagati dagli sforzi: “Generalmente direi di sì” esordisce il cantante “Siamo soddisfatti di quello che abbiamo fatto, l’album ha ricevuto un sacco di pareri positivi in tutto il mondo ed è stato candidato ad ‘album dell’anno’ ed è apparso nelle classifiche di diverse
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mpianto
di Stefano Giorgianni Ph. live eandreev.com
testate musicali. Anche le vendite del disco (sia digitale che fisico) stanno andando bene, nonostante le dure condizioni che il mercato musicale si sta trovando a fronteggiare. Penso che tutto sommato abbiamo
sempre cosa si sarebbe potuto cambiare o far meglio. Il segreto è di non concentrarsi troppo su questo tipo di processo, altrimenti non se ne esce più.” Il titolo del disco, ‘Never Regret’, è assolutamente d’effetto e fa ri-
fatto un bel lavoro e ne siamo orgogliosi.” Quando esce un disco si pensa che qualcosa si sarebbe potuto affinare, difatti: “In realtà questo succede tutte le volte che si finisce qualcosa: ci si chiede
flettere, molto strano per un gruppo heavy metal, ma con un significato particolare per il gruppo: “’Nessun rimpianto’ per noi sono i quattordici anni della nostra vita trascorsi in questo ambiente
e l’eterna battaglia che abbiamo affrontato, dai sobborghi delle città israeliane fino a dove siamo arrivati ora: una band solida e stabile della scena locale, che riesce ad andare in tour ed a condividere il palco con i più grandi nomi della scena metal internazionale.” Un album con emozioni diverse al suo interno, tutte con un proprio senso, infatti se si chiede quali rappresentano al meglio la band la risposta è: “Probabilmente tutte, ma per mia opinione personale le migliori sono ‘Assassin’s Fate’ e ‘Son Of A Star’. Sono orgoglioso di come sono uscite e aprono sempre i nostri live. Questi due pezzi rappresentano ciò che sarà il prossimo album dei Desert, un po’ in maniera differente rispetto al passato, ma è comunque la strada che vogliamo intraprendere.” C’è anche l’opener preferita di Alexei: “La già nominata ‘Son Of A Star’, di sicuro. È la canzone perfetta per riscaldare la folla e per fare un po’ di headbanging. Potente, intensa, con un inno
all’interno del chorus che può essere cantato anche dai nostri fans lì presenti. Non ci si sbaglia con questo brano.” Le diverse sfumature di cui si è parlato in precedenza hanno diverse matrici: “Dipende soprattutto da chi ha scritto la canzone. ‘Never Regret’ è del
nostro tastierista Oleg Aryutkin, che è influenzato in primis dal symphonic metal, mentre ‘1812’ è del nostro axeman Sergei Metalheart, un pezzo che rispecchia la sua passione per Primal Fear e Judas Priest.” ‘Never Regret’ è stato lanciato con un grande show a Tel Aviv, colmo di stelle del metal: “È stato, per ora, l’apice della nostra carriera! Suonare sul palco con Ralf Scheepers dei Primal Fear e Chris Boltendahl dei Grave Digger, musicisti che abbiamo ascoltato su disco in modo continuo negli ultimi vent’anni, è stato indimenticabile. A tratti ancora adesso mi sembra sia stato un sogno. Poi avevamo altri talentuosissimi musicisti israeliani come Yossi Sassi, Alex Zvulun dei The Fading, la cantante Infy, Yochai Davydoff e Mer-
ry Ann Genin a condividere il palco con noi. È stata una serata incredibile e memorabile.” C’è spazio anche per raccontarci del ‘Melodic Alliance Festival’, tenutosi lo scorso 22 ottobre a Tel Aviv: “È stata la prima edizione
e Alexei racconta: “Eravamo un po’ tesi per il concerto a Mosca e ci siamo informati prima del genere di pubblico (accogliendo sia critiche positive che negative su di noi). Insomma, non sapevamo proprio cosa aspettarci. Per chi non lo sapesse, la Russia è la nostra madrepatria ed
to quando ho sentito della tragedia al concerto. Posso solo aggiungere, da persona che vive in Medio Oriente da 19 anni, che posso capire che tipo di male sta affrontando l’Europa in questo momento. Quello che Parigi ha provato per un giorno, Israele lo prova tutti le singole giornate,
del nostro festival dedicato al 100% al metal melodico. Abbiamo pianificato quest’evento per molto tempo, ma solo nel 2015 abbiamo capito e realizzato che eravamo pronti ad organizzarlo ed a portarlo in vita. Non eravamo sicuri se questo tipo di manifestazione potesse aver successo in Israele, dove il metal estremo è molto più ascoltato. Alla fine è andato tutto oltre le nostre aspettative. Lo show era esaurito ed i partecipanti sono rimasti soddisfatti dell’organizzazione. È stato un piacere ritornare a suonare con i nostri amici Elvenking e altre band (c’erano anche gli Airborn a portare la bandiera italiana).” Recentemente i Desert hanno suonato per la prima volta a Mosca
il russo la nostra lingua, ma è stato il nostro debutto in quel paese. Dire che lo show è stato un successo, sarebbe poco. Tremila persone, che non sapevano nemmeno delle nostra esistenza fino a quella sera, sono impazzite e ci hanno incitato per tutto il tempo. È il miglior risultato che potessimo ottenere.” Un momento di riflessione c’è poi sugli eventi di Parigi: “Il 13 novembre è il compleanno della mia figlia più piccola, io arrivavo da un barbecue al parco e ho sentito le terribile notizie provenienti da Parigi. Direi che sono rimasto shockato è poco. Parigi è la mia città preferita, e non potevo accettare il fatto che stesse accadendo in un tal bellissimo posto, soprattut-
quando estremisti attaccano i nostri concittadini con i coltelli; poi qui ogni due o tre anni c’è un conflitto militare con missili che partono da una parte all’altra sopra le nostre teste. Faccio le condoglianze ai parenti delle vittime dal profondo del cuore. Siamo tutti esseri umani in fondo, noi stiamo per partire per un tour e dobbiamo fare andare avanti lo spettacolo. Smettere di suonare sarebbe come arrendersi agli estremisti.” E chi ha la curiosità di vedere i Desert all’opera sarà presto accontentato: “Faremo un tour con Circle II Circle e Lord Volture questa primavera. Saremo in Italia il 28 aprile a Roma e il giorno seguente a Milano. Nel 2017 invece ci sarà il nuovo disco.”
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Ed ecco che con 'Rulebreaker' i Primal Fear escono con il loro undicesimo studio album, davvero tanti per un gruppo che agli esordi era stato accolto con diffidenza e spetto etichettato come un progetto dai minuti contati... Già dai suoi primi mesi, il 2016 ci offrirà delle uscite davvero interessanti e di qualità. Tra queste spicca sicuramente ‘Rulebreaker’, nuovo lavoro dei Primal Fear, che ce li presenta con qualche novità, per quanto sempre nelle mani della coppia di ferro formata da Ralf Scheepers e Mat Sinner. “Ne sono assolutamente felice! Abbiamo lavorato quasi un anno su questo album concedendoci solo piccole interruzioni e ci abbiamo messo un sacco di lavoro, sudore e soldi per realizzare un disco che rispecchiasse tutte le nostre aspettative e la nostra visione” ecco come ce lo presenta proprio il biondo bassista “ma ora possiamo dire che siamo molto orgogliosi del nostro nuovo album, delle nuove canzoni e della prestazione di tutte le persone che sono state coinvolte nella sua realizzazione!” Senza contare gli sforzi per reggere alle inevitabili
pressioni nel salvaguardare l’eredità dei Primal Fear e per non deludere i fan di lunga data: “Naturalmente c’era una certa pressione. Grazie a ‘Delivering The Black’ abbiamo raggiunto le migliori posizioni in classifica mai toccate nel corso della carriera dei Primal Fear e ricevuto davvero ottimi riscontri da parte dei fan e dai media. Ma durante il songwriting, già dai primi riff e melodie, abbiamo notato che avevamo un sacco di grandi idee ed una forte spinta creativa. E ora, dopo il tour più lungo che abbiamo mai fatto, sappiamo davvero molto bene cosa i nostri più fedeli fan vogliono sentire dai Primal Fear” e visto che la vostra formazione si è rafforzata con il rientro di Tom Naumann, e un’inedita lineup a tre chitarre, spiega come si è svolto il songwriting: “Tutte le musiche sono state scritte da me e Magnus Karlsson, proprio come
per l’album precedente. Ralf ci ha raggiunti solo in un secondo tempo e ha aggiunto alcune melodie vocali e diversi testi. Dal momento che Tom è rientrato nella band ho scritto con lui la canzone ‘Raving Mad’ e Ralf ci ha aggiunto il testo, proprio come facevamo nei primi tempi.” Visto che Tom si è preso cura della lavorazione, chissà se si è trovato a proprio agio lavorando assieme a così tanti musicisti, con un sacco di melodie e le varie sezioni strumentali... e magari pure con eventuali problemi di ego da risolvere. “Ormai ho una certa esperienza e so esattamente di cosa stai parlando. Ma visto che io sono il responsabile di una produzione, non ho certo il tempo per problemi di ego. L’obiettivo più importante per me è come alla fine devono venire fuori album e master ultimati. C’è spazio in abbondanza per tutti all’interno della band per divertirsi e fare del Rock... ahaha.” E ora c’è anche un nuovo batterista nella band: Francesco Jovino, che non ha preso parte al processo di composizione: “No, non è stato coinvolto alla fase compositiva, ma ha
fatto realmente un grande lavoro in studio di registrazione ed è un ragazzo eccezionale. L’aver potuto suonare dieci anni con gli U.D.O. è una gran cosa e gli ha permesso di capire come si suona un mid-tempo. Questo ci ha offerto una nuova dimensione ed è stato proprio piacevole lavorare con lui!” In anticipo all’uscita del disco, il primo singolo estratto dall’album è stato ‘The End Is Near”, e in seguito sono state rese disponibili anche ‘In Metal We Trust’ e ‘Bullets & Tears’, ben tre canzoni, forse pure troppe … “Abbiamo bisogno di creare aspettative per l’album, quindi abbiamo bisogno di necessario avere una strategia. Ci sono tanti grandi album che saranno rilasciati ogni mese e noi dobbiamo competere con loro” Mat dimostra di aver le idee ben chiare “Così rilasceremo un’altra canzone all’inizio di gennaio e il secondo videoclip esattamente nel giorno di uscita dell’album, in modo che i nostri fan non lo debbano acquistare a occhi chiusi e sapranno esattamente come suona il nuovo album dei Primal Fear e siamo fortemente
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di S
Breaking the...Rules! 32 METALHAMMER.IT
convinti che lo ameranno, tanto quando lo amiamo noi!”. Cosa scopriremo invece nei testi … - “Questo aspetto ce lo siamo divisi tra il sottoscritto (otto canzoni)” è sempre Mat Sinner a parlare “Ralf (tre) e Magnus (due). Magnus ha scritto sui temi classici del ‘Metal’, Ralf è più il tipo di scrittore che guarda a cose del futuro, mentre i miei testi parlano di infrangere le regole, di tenere duro e provare a rimanere libero e ribelle!” certo che alcuni titoli come ‘The End Is Near’, ‘Bullets And Tears’ o ‘At War With The World’, sono piuttosto forti. Mat dà poi la sua opinione sulla violenza che si diffonde nel mondo: “Se si ascoltano i testi ci si accorge che è davvero il contrario. Potremmo star qui a discutere per tre giorni su quello che oggi sta succedendo in questo mondo e sulle conseguenze di tutto questo, che è davvero un limite per un mondo libero e per un pensiero pacifico. Sono veramente incazzato per quello che sta succedendo e suonerò a Parigi nel mese di febbraio, orgoglioso e fiero nel nome del Rock!” Idee e posizioni davvero chiare e ferme per Mat, con il quale poi torniamo a puntare l’attenzione sul disco, so-
prattutto per quanto riguarda i suoi aspetti tecnici: “Per la produzione abbiamo usato un approccio un po’ diverso, dato che abbiamo potuto imparare molto dalla precedente produzione. Abbiamo registrato la batteria e un po’ di altre cose nello studio di Jacob Hansen in Danimarca, poi abbiamo registrato le chitarre presso il Magnus Stuntguitar Studios in Svezia e le vocals nello studio di Ralf, dopo di che sono ritornato in Danimarca, nello studio di Jacob per mixare l’album con lui. Finalmente abbiamo trovato un modo per migliorare e per fare le scelte migliori. Siamo estremamente soddisfatti del risultato finale e, a mio parere, del sound più potente e perfetto mai ottenuto per i Primal Fear. È possibile ascoltare l’album tanto con un impianto economico quanto con uno di quelli più costosi, ma la resa sonora resta sempre ‘really fat and kicking’.” Di sicuro una canzone come “We Walk Without Fear” può essere solo il risultato di un grande lavoro e di collaborazione: “Io e Magnus siamo due persone che hanno lavorato sodo e in tranquillità nel corso degli anni ottenendo ottimi risultati. Questa volta abbiamo avuto
l’idea di scrivere quella che si è rivelata la nostra canzone più lunga di sempre, con un sacco di cambi di ritmo, armonie, grandi passaggi e spazi per i duelli di chitarra. Ci abbiamo lavorato sopra per sei mesi fino a quando siamo stati felici dell’arrangiamento definitivo, e per quanto, come si può immaginare, ci sia toccato registrare e mixare tre volte più a lungo rispetto ad una canzone normale, alla fine ne è valsa la pena.” E sull’edizione deluxe ci sono pure un paio di bonus track, ‘Final Call’ e ‘Don’t Say You’ve Never Been Warned’: “Queste canzoni avrebbero potuto facilmente trovare posto in una posizione diversa nella tracklist, ma di questi tempi è necessario rendere l’uscita più interessante con bonus track di grande qualità e anche materiale visivo, interviste, video, ecc. Entrambi i brani sono stati registrati e mixati assieme agli altri, e sono dei pezzi realmente Metal.” Dopo tanti anni sulla breccia, Mat sente la stessa energia e le sensazioni che sentivi nei primi anni della tua carriera, ma: “E’ differente: ora sono un sacco più saggio ma sempre in forma come nei miei primi giorni, ma d’altra parte mi sto godendo la mia carriera anche di più e sono davvero grato di poter lavorare in questo business e di essere una persona soddisfatta!” E ora lo aspetta un 2016 davvero impegnativo per metterlo alla prova: “Suoneremo dapprima in Europa nel mese di febbraio, poi nei mesi di marzo/aprile porterò avanti il tour del mio progetto Rock Meets Classics, con tanto di orchestra e con ospiti come Joey Tempest degli Europe, Steve Walsh dei Kansas, Doro,
Thin Lizzy e un sacco di altri grandi artisti, quindi con i Primal Fear saremo per sei settimane negli Stati Uniti e in Canada, poi in Giappone e in Australia nel mese di giugno, seguiranno un sacco di festival estivi e a settembre toccherà al Sud America, e infine per ottobre si torna a suonare un’altra serie di concerti in Europa.” Guardando ancora un volta al 2015 ricorda quali sono stati i punti momenti migliori: “I miei concerti preferiti nel 2015 sono stati il Monsters Of Rock festival a San Paolo del Brasile con i Primal Fear e il devastante Rock Meets Classic show al Wacken Open Air Festival, entrambi sono ‘all time highlights!’.” Essendo in dirittura d’arrivo non resta che tornare a ‘Rulebreaker’: “Naturalmente. Ascoltate “Rulebreaker” e sono sicuro che non vi deluderà. Speriamo di essere invitati a qualche bel festival in Italia. Amo da sempre l’atmosfera estiva, e nella speranza di potermi ritagliare dieci giorni di vacanza dopo l’Australia, conto proprio di trascorrerli in un luogo segreto, lì in Italia.” Lasciamo Mat Sinner al pensiero di potersi godere le sue vacanze, e noi cerchiamo di divertirci all’ascolto del loro ultimo album e magari pure nell’assistere ad un loro concerto: i Primal Fear raramente deludono le aspettative.
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Non solo miti e leggende I Rhapsody Of Fire sono certamente una delle band più rappresentative del panorama power metal internazionale, tanto da diventare, nel corso di questi ultimi vent’anni, una vera e propria istituzione per tante neonate realtà musicali. La separazione con Luca Turilli ha segnato un punto di svolta nella carriera della band e anzi, sembra aver persino “agevolato” in qualche modo il nuovo corso dei Rhapsody che, in seguito a questa scelta, si sono rimboccati le maniche e hanno regalato ottimi album, tra cui il nuovo “Into The Legend”. Per l’occasione ne abbiamo parlato con Alex Staropoli, il cui lavoro, come lui stesso sottolinea, è durato oltre due anni ma il cui sudore è stato ben ricompensato: “Ho iniziato a lavorare subito dopo Dark Wings Of Steel, quindi diciamo che sono passati due anni in cui mi sono dato da fare e mi sono sentito davvero molto ispirato, pieno d’energia. C’è stato un bel lavoro e devo dire che è stato prolifico e molto, molto positivo per tutte le persone coinvolte che hanno portato positività e grande gioia! Qualsiasi persona che ha contribuito a quest’album l’ha fatto in un modo davvero pieno di entusiasmo e credo che questo si senta dall’inizio alla fine”. Un lavoro intenso e curato nei minimi dettagli anche per quel che riguarda la progettazione della copertina, che ha visto lo stesso Staropoli in veste di graphic designer: “È interessante la
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cosa, perché ho lavorato con Felipe che ha curato le copertine degli ultimi album dei Rhapsody Of Fire, però non ero convintissimo alla fine! Ho cominciato a fare degli esperimenti di grafica e praticamente l’ultima “mano di vernice” gliel’ho data io. È una cosa che mi ha dato particolarmente soddisfazione perché è una cosa che non avevo mai fatto e che, da un punto di vista artistico, mi ha dato molta soddisfazione! Volevo dare più dinamica per dare alla copertina più profondità e, non avendo mai fatto lavori di grafica, devo dire che sono rimasto abbastanza sorpreso. Sono contento che ci sia un po’ di me anche nella copertina”. Un album che si preannuncia essere un disco sensazionale, maestoso, ma rispecchia in toto l’anima della band? È pertanto vero che questa nuova release è “l’album che i Rhapsody avrebbero voluto fare da sempre”? “Io non ho mai detto una cosa simile, perché non corrisponde assolutamente al mio modo di pensare, nel senso che ogni album che abbiamo fatto è l’album che volevamo fare, soprattutto ai tempi di Turilli! Questa frase darebbe adito a pensare che volessimo fare un album così ma non l’abbiamo fatto per fare altro”, queste le parole di Alex, il cui pensiero sembra essere molto deciso. Cosa rappresenta, quindi, “Into The Legend” per Staropoli e soci? “E’ la conseguenza di “Dark Wings Of Steel”, un album che
di Arianna G.
non volevo fosse orchestrale e troppo pomposo di proposito! Volevo fare una cosa un po’ diversa! “Into The Legend”, invece, rappresenta proprio quello che volevo fare adesso, ovvero ripercorrere – con una chiave più moderna e una demarcazione più decisa per i tagli – tutti gli elementi che abbiamo sempre avuto e che ci rendono abbastanza unici, come l’orchestra, il baroque sound, i cori, le varie atmosfere e le situazioni che noi abbiamo creato praticamente dall’inizio della nostra carriera”. Questo “Into The Legend” offre quindi molte novità, prima fra tutte l’assenza del grande Christopher Lee, recentemente passato a miglior vita. La terribile scomparsa dell’amico e collega ha in qualche modo influenzato la composizione del disco? “No, non direi. Magari ascoltando la suite o certe parti strumentali, ci si immagina Christopher Lee che narra e lì ti viene un brivido, perché è stato un elemento molto importante per noi. Pensa che all’inizio noi cercavamo solo una voce da usare come narratore, non avevamo ambizioni di avere una persona famosa. È stata una cosa abbastanza a sorpresa, poi il fatto che lui stesso ci abbia chiesto di farlo cantare e di collaborare assieme ha tramutato questa cosa in una vera e propria collaborazione. È stato un privilegio lavorare con lui. Per noi è meraviglioso avere ancora la sua voce, il suono e la sua presen-
za nei nostri album” . Un disco la cui realizzazione ha sì richiesto due anni di lavorazione, ma il cui sviluppo si è svolto regolarmente, visti soprattutto gli impegni di Fabio Lione, impegnato anche con Angra e Vision Divine. Un lavoro la cui resa è stata facilitata grazie all’alta professionalità del cantante pisano, Alex così commenta l’operato del vocalist: “Il lavoro è andato molto bene, non è durato più di due settimane, perché Fabio già conosceva i brani. Io ho scritto le melodie e lui doveva scrivere i testi, per cui c’è stato un bel lavoro dietro. È stato bello coinvolgere la band nelle registrazioni e Fabio ha dato veramente il meglio di sé, è stato davvero incredibile. Mi ha dato parecchia soddisfazione per il fatto che per quest’album gli siano piaciute veramente tutte le canzoni e abbia lavorato intensamente per ogni singola nota che ha cantato”… ma si sa, dietro ad un grande album non c’è solo il naturale talento degli artisti. I nostri, infatti, si son rivolti alle mani esperte di Maor Appelbaum, il cui lavoro ha lasciato Staropoli senza parole: “Volevo una persona nuova e l’idea di avere un mastering fatto negli Stati Uniti mi ha stimolato parecchio, perché mi piacciono certe sonorità. È stato un lavoro davvero di generosità immensa da parte sua, perché non era tutto dovuto, però insomma, visto che era parecchio coinvolto, il risul-
tato finale sinceramente mi ha lasciato senza parole. Lo trovo davvero molto, molto buono”. E così, infatti, è stato: il disco non solo presenta
un lavoro di produzione impeccabile, ma vanta anche la partecipazione di un’illustre orchestra, qui resasi protagonista indiscussa del platter; “Into The Legend”, infatti, come affermerà la mente creativa della band, vede coinvolti alcuni strumenti musicali mai utilizzati finora e vede partecipe anche un coro di voci bianche. Entusiasticamente il musicista triestino dichiara: “Per la prima volta, ho voluto lavorare con un coro di voci bianche ed è stato davvero incredibile, i cori epici che abbiamo avuto sono forse tra i migliori che ho mai fatto; tra
le voci avevamo Giacomo Voli, a cui ho appunto chiesto di organizzare i cori. Anche con l’orchestra abbiamo fatto un lavoro davvero certosino, abbiamo fatto due sessioni, un assolo di archi e uno di brass, proprio per averle separate, ed è stato davvero notevole!”. Con questo nuovo album, i Rhapsody sembrano veramente aver puntato in alto e aver osato il tutto per tutto, specialmente con la traccia conclusiva, una lunga suite di 17 minuti descritta come la traccia più epica mai realizzata prima d’ora. Seppur lo stesso Staropoli si fosse promesso di non cimentarsi più in brani così lunghi, il risultato – è veramente ammirevole. Dello stesso pensiero è il musicista triestino che così ne commenta la creazione: “È un brano davvero bello che ti fa venire voglia di suonarlo addirittura dal vivo! È particolare, dato che è una canzone che dura un quarto d’ora e, visto quanto vola via, è un buon segno! È così ricca che è quasi indescrivibile! La devi sentire per poi capire di che cosa stiamo parlando”. Avremo modo quindi di sentirla dal vivo? Stando alle affermazioni di Alex, l’idea di base c’è e alcuni pezzi saranno certamente riproposti in sede live. Fortunati saranno invece i fan americani che potranno ammirarne la maestosità al 70.000 tons of metal. L’attesa per noi italiani sarà leggermente più lunga, soprattutto dopo l’emozionante esperienza in supporto agli Scorpions lo scorso novembre. I Rhapsody of Fire, come conferma lo stesso Alex nella parte conclusiva della nostra chiacchierata, stanno lavorando a un nuovo tour europeo, il cui svolgimento dovrebbe avvenire intorno al mese di Aprile. In attesa di rivederli presto live on stage, vi invitiamo a lasciarvi trasportare dalla magia scaturita da questo album, il cui ascolto vi regalerà certamente qualche brivido lungo la schiena.
Guarda il video di "Into the Legend" su metalhammer.it METALHAMMER.IT 35
DOMANDA/RISPOSTA CON Il metal e la musica classica, un connubio inscindibile, un legame che si è sempre più rafforzato nel corso degli anni. Dalle elaborazioni chitarristiche neoclassiche di Malmsteen, ai diversi progetti di riproposizione di repertori classici come la Miskolc Experience dei Therion, c’è un gruppo che rappresenta appieno l’unione di questi due generi, ovvero gli Apocalyptica. Band nata all’inizio negli anni Novanta e che ha debuttato nel 1996 col famoso ‘Plays Metallica by Four Cellos’, i finlandesi hanno saputo portare una ventata di freschezza nel Metal, grazie al loro uso del violoncello distorto. Abbiamo parlato con loro in occasione dell’ultima data italiana all’Alcatraz di Milano lo scorso 29 ottobre. Ecco cosa ci hanno raccontato! La prima domanda riguarda il vostro passato: chi sono gli Apocalyptica e perché sono nati? “Siamo stati dei musicisti classici, che hanno deciso di usare i violoncelli per suonare la musica metal, genere che amiamo da sempre. In realtà abbiamo provato a suonare la chitarra, ma alla fine abbiamo adattato i nostri strumenti. Un giorno, al termine di un nostro concerto siamo stati contattati da una piccola casa discografica che ci ha proposto di registrare un disco. Ci siamo un po’ stupiti, in fondo avevamo alle spalle pochissima esperienza. Ma abbiamo accettato. Pensavamo di poter vendere qualche centinaio di copie ed invece il nostro lavoro
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è approdato in 13 paesi diversi, vendendo migliaia di dischi. Francamente non ce lo saremmo aspettato, anche perché il budget era davvero limitato. Alla fine siamo riusciti a mettere da parte qualche soldo per iniziare a suonare la nostra musica”. Perché avete scelto di trasformare il Metallo con contaminazioni classiche? “La scelta è stata dettata dal fatto che eravamo appassionati di metallo e buoni suonatori di violoncello. Così abbiamo deciso di fare ciò che eravamo capaci. Abbiamo scelto brani del Metallica e con quelli abbiamo creato il primo album. Avevamo cover anche dei Sepultura, Panthera e Faith No More
e con le quali ci è stato proposto di incidere un secondo disco, ma la cosa non è avvenuta. Trasformare pezzi rock in opere classiche è stato soprattutto un gioco dettato dal fatto che lavorando come strumentisti professionisti in orchestre sinfoniche, abbiamo trovato divertente rivisitare brani così lontani da ciò che suonavamo ogni giorno”. Poi siete passati a scrivere brani originali. E’ stato complicato questo passaggio? “Non è stato molto difficile sinceramente. La casa discografica avrebbe voluto che suonassimo ancora le cover, ma noi ci siamo rifiutati. Volevamo dare un’identità alla nostra band e per farlo abbiamo deciso di comporre brani originali. Così abbiamo iniziato a pensare ai suoni, alle composizioni, dimenticandoci di essere dei suonatori classici. In questo modo siamo entrati in modo profondo nel mondo degli Apocalyptica. Il tutto è stato molto naturale, semplicemente perché non c’era un’altra strada”. E i fan del metal come vi
di Vincenzo Nicolello
hanno accolto? “È stato molto divertente. Il pubblico metal ha accolto con benevolenza la nostra musica, anzi era letteralmente pazzo per il nostro approccio alla musica che amava. Quindi non ci sono stati problemi davvero”. E in Italia? “C’è moltissimo dell’Italia nella nostra musica. I violoncelli sono realizzati dal liutaio Vincenzo Postiglione. Sono fantastici.” Come spiegate che in Finlandia la musica metal sia un fenomeno “mainstream” in grado di conquistare le classifiche di vendita? “In Finlandia succede proprio questo. Ogni singolo album metal entra nella top ten delle hit parade è un fatto normale. Il metal è considerata musica mainstream e il punto di non ritorno è stato la partecipazione dei Lordi (un altro gruppo metal finlandese ndr) all’Eurovision Song Contest. Da quel momento niente è stato come prima. Dobbiamo dire che la musica metal è anche anarchia e il suo posto migliore sta nell’underground”.
Da qualche tempo stanno emergendo i 2Cellos, che in fondo stanno percorrendo il vostro stesso percorso musicale… “Parli di quei due ragazzi dei Balcani? Loro stanno facendo esattamente le stesse cose che noi facevamo nel 1999. Ma poi abbiamo smesso, perché non volevamo essere una cover band. Pensiamo che siano un fenomeno per teen ager, anche se sono degli ottimi musicisti. La differenza tra noi e loro? Noi abbiamo la musica metal nel cuore, loro invece il pop. Mi ricordano Richard Clayderman o David Garrett, credo che possano avere la stessa audience”. Ritorniamo alla vostra musica. Concordate se dico che ultimamente i violoncelli sono meno presenti nel suono degli Apocalyptica? “Non siamo d’accordo o quanto meno siamo d’accordo almeno in parte, visto che ultimamente la batteria è un po’ troppo invadente, scherziamo ovviamente (ridono). Sicuramente la batteria è molto dominante, ma allo stesso tempo pensiamo che nell’ultimo album (Shadowmaker) i violoncelli hanno un suono molto più pulito e caratteristico, di quanto
succedesse nei dischi precedenti, quando li usavamo un po’ come chitarre. Le tracce erano distorte per essere più affini al metallo. Ci siamo resi conto che si sono moltissime distorsioni nel suono naturale degli archi e abbiamo puntato su questi, senza bisogno di modificarli con il mixer. Qualcuno continua a pensare che noi abbiamo le chitarre… ma si sbagliano!” Da qualche tempo avete in Frack Perez la vostra voce. Ipotizzate che possa diventare un membro del gruppo? “Frank ha cantato nell’ultimo album ed ora ci accompagna in tour, ma davvero nessuno sa cosa succederà quando tutto sarà finito. Dipende molto da quale tipo di progetto metteremo in cantiere. Lui si è inserito molto bene ed è un cantante fantastico ed è probabile che possa continuare a collaborare con noi. Detto questo non possiamo prevedere se in futuro la nostra musica prevederà ancora una voce, magari punteremo di nuovo sullo strumentale, non lo sappiamo davvero. Ci piace vivere alla giornata e quello che ci piace oggi, magari ci annoierà tra qualche mese: la musica cambia,
le influenze cambiano, noi cambiamo”. Alcuni mesi fa avete pubblicato il disco Wagner Reloaded, registrato a Lipsia e suonato con una grande orchestra sinfonica. Come mai non avete fatto anche il dvd? “Il concerto lo puoi trovare integralmente su Youtube. In realtà era in programma che ci fossero le riprese, poi all’ultimo i tecnici contattati non sono arrivati e non abbiamo previsto il piano alternativo e credo che alla luce di tutto, sia stata una stupidata. Possiamo dire che ci ha contattato Gregor Seyffert e potrebbe nascere una collaborazione per uno spettacolo. Lui ha delle visioni molto strane e pazze. L’abbiamo incontrato a Berlino e abbiamo apprezzato la sua genialità, saremmo molto felici di far parte di questo grande progetto, di cui non possiamo anticipare nulla”. Cosa nasconde il futuro degli Apocalyptica? Metal, Classica, Rock o altro? “Shadowmaker non è un vero e proprio album metal, possiamo definirlo rock. Per il futuro vediamo cosa ci verrà in mente di suonare. Per ora abbiamo da concludere il tour europeo, che ci impegnerà fino a
Natale, poi partiremo per quello mondiale, con date in Sud America, Australia. Poi faremo qualche festival estivo e quindi, una volta a casa ci metteremo a pensare, ma sarà solo alla fine del 2016. Di sicuro abbiamo in mente qualche idea. Per esempio sta per arrivare il 20° anniversario del nostro primo album (Plays Metallica by Four Cellos ndr) e potrebbe nascere qualcosa per celebrare questa ricorrenza. Musicalmente siamo un po’ come le api e saltiamo di fiore in fiore. Chissà dove arriveremo questa volta? Sarà di nuovo metal? Sarà strumentale? Sarà musica sinfonica? Chi lo sa. Una cosa la possiamo dire: il metallo è nel nostro cuore. Un’altra cosa la vogliamo sottolineare: non vogliamo essere come gli Iron Maden che fanno sempre lo stesso album, cambiando solo il titolo. I fan dovranno farsene una ragione e seguirci. Loro sono intenditori e sanno che ci piace sperimentare, cambiare, lasciarci contaminare. La nostra benzina è il cambiamento e lo è stato sin dal primo album.”
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Si dice che la musica sia la cura dell’anima e che, spesso e volentieri, sia un valido aiuto per affrontare i momenti più bui della nostra vita. Nel corso degli anni, molte sono state le band che hanno voluto aiutare il prossimo grazie alla propria musica e ai propri testi, sempre più profondi e ricchi di significato e, tra i tanti validi artisti di questo vasto panorama musicale, troviamo anche i Papa Roach che con l’ultimo album “F.E.A.R.” hanno voluto trasmettere un messaggio molto forte: affronta la vita e tutto ciò che essa ti regala e risorgi. Proprio di quest’ultima creatura nata dalla penna di Jacoby Shaddix ne abbiamo voluto parlare con Tobin Esperance, bassista della band, il quale ci ha voluto raccontare qualcosa in più
sul disco e sul forte messaggio che vi si cela dietro. Il disco, nonostante gli scetticismi generali, ha ottenuto un ottimo riscontro in tutto il mondo ed è stato una sorta di “valvola di sfogo” per i quattro musicisti. Lo stesso Tobin infatti afferma: “Durante il processo di realizzazione di quest’ album, abbiamo scoperto che dovevamo sbarazzarci di tutta quella merda che ci ha disintegrati e volevamo divertirci di nuovo, cercando di rendere le cose più speranzose, ottimiste, se capisci quel che voglio dire. Credo che fossimo arrivati a un punto nelle nostre vite in cui non sentivamo più quella sensazione di angoscia e cercavamo di capire come affrontare le cose quando si è più grandi. Non abbia-
mo più 19 anni, dobbiamo capire dove sta la soluzione, dobbiamo trovare un modo per goderci la vita”. A detta del musicista, “F.E.A.R.”, acronimo di “Fear Everything And Rise” è certamente un disco più heavy che, a volte, si presenta più vulnerabile, mentre altre si rivela più pesante. È un disco che porta con sé un significato molto forte e deciso, ma da cosa deriva un titolo così semplice ma diretto? Questa la spiegazione dal punto di vista di Esperance: “Penso che il titolo riassuma più che altro il contenuto dell’album. Come dicevo prima, l’album a livello di contenuto si riferisce alle tematiche, alle lyrics, ai sentimenti, a tutta quella merda con la quale ti sei dovuto confrontare nel cor-
so della tua vita”. Un disco, quindi, che vuol essere un monito per tutte quelle persone che vogliono trovare una via d’uscita dalle problematiche che la vita offre e che vuole aiutare la gente ad uscire dal tunnel. Ma la musica può davvero essere uno stimolo, un aiuto per affrontare le paure e combattere i momenti più cupi della nostra esistenza? “La musica ti sostiene in queste situazioni, ti aiuta ad affrontare quei momenti difficili, a superarli. I nostri stessi fan ogni giorno vengono da noi a raccontarci come la musica sia riuscita ad aiutarli in momenti molto duri e io credo fermamente in questo.” Qual è, però, il messaggio che si cela dietro questa nuova release? Che cosa volevano veramente
Oltre la Paura
di Arianna G.
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trasmettere i Papa Roach? Lo stesso Tobin afferma che vi era un’intenzione di volersi connettere ai propri fan, questa la sua dichiarazione: “Volevamo che le persone potessero connettersi e rapportarsi a noi, volevamo far sì che la gente non si sentisse sola. Quando abbiamo scritto inizialmente “The Last Resort”, il messaggio che volevamo trasmettere era questo: Prendi in mano la tua vita, anche se sembra che per te sia difficile e che il mondo ti sia contro. Qui vale la stessa cosa!” “F.E.A.R.”, quindi, si fa manifesto della forza nascosta in ognuno di noi e si appella, in musica e parole, a tutte
quelle persone che, grazie alla musica, trovano il coraggio di reagire e rialzarsi in piedi dopo una brutta caduta. Per i Papa Roach questo disco rappresenta un nuovo passo in avanti rispetto lo scivolone fatto con “The Connection”, album criticato dai giornalisti e dalla solida fanbase della band americana. Questo pensiero è condivisibile? “Ogni volta che pubblichiamo un disco ci troviamo ad affrontare la stessa storia, ogni paio d’anni (ogni due anni) ci troviamo ad affrontare nuove esperienze e ogni volta cerchiamo di scrivere un nuovo capitolo. Sì, credo che questo disco sia certamente un passo in
avanti, forse merito anche della direzione musicale intrapresa.” Ne seguirà, quindi, un successore o “F.E.A.R.” è da considerarsi un capitolo a sé stante? “Non me la sento ancora di dire o affermare che il prossimo disco potrebbe essere tanto diverso da questo” dichiara Tobin “Potrebbe forse indirizzarsi verso un’altra direzione musicale, non sai mai come i fan possano accettare la cosa. Non si può mai sapere!” L’album è, inoltre, arricchito dalla presenza di alcuni special guest, come Royce e Maria Brink (In This Moment); proprio quest’ultima, a detta di Tobin, rappresenta l’high-
light del platter: “Il frutto di questa collaborazione è riuscito benissimo. Mi piace la voce di Maria e credo che si adatti bene al brano. È una cosa fantastica”. Cosa dovremmo aspettarci, quindi, dai prossimi live della band? Questa la risposta entusiastica di Tobin: “Un sacco di energia! Abbiamo il nostro stile, abbiamo il nostro personale approccio alla musica che ruota comunque intorno alla sola e pura passione. Durante gli show la gente salta, vedi il pubblico che canta insieme a te, tutti ballano, ridono, ci sono persone che piangono, altre che si incazzano. Solitamente durante i 90 minuti
ano m n i i d n e Pr a la tua vit che a r b m e s anche se e e l i c i f f i d per te sia i sia t o d n o m l che i contro
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messi a nostra disposizione durante gli show, vediamo che ci sono sempre un sacco di emozioni coinvolte.” Innegabile, quindi, il forte entusiasmo del musicista che non vede l’ora di tornare in Europa, paese che dal 2000 ad oggi da sempre ha calorosamente accolto lui e i suoi compagni. “Sono sempre eccitato ed emozionato ogni volta che torno in Europa. Abbiamo tenuto alcuni dei nostri migliori show là e la cosa mi piace!”, risponde Esperance che, tra una risposta entusiastica e l’altra, ci racconta anche della simpatica iniziativa intrapresa dalla band e lanciata sui suoi maggiori canali di informazione per invitare i rispettivi fan a scegliere le
città nelle quali avrebbero voluto vederli suonare. “Non so da chi sia partita l’idea. Non so veramente chi abbia avuto l’idea di questa iniziativa, ma è una cosa interessante. È la prima volta che proponiamo una cosa del genere, visto che non siamo in tour. Credo che
È il caso di dirlo quindi: tempora mutantur et nos mutamur in illis, i tempi cambiano e noi cambiamo con loro. I Papa Roach sentono fortemente l’aria d’innovazione e, poco alla volta, lo stanno dimostrando. Tante cose sono successe in quindici anni, tante sono state le svolte nella carriera della band californiana e tanti sono stati i cambiamenti, sia a livello personale, che a livello musicale e non solo… ma quale è stato il cambiamento più grande? “Quando abbiamo iniziato a m u ove re i primi passi in questo ambiente, non c’erano ancora i social media. Non c’erano Facebook, bandcamp, youtube, Spotify… Abbiamo dovuto ‘abbracciare’ e cercare di
to s e u q e h c credo nte e m a t r e c disco sia ti n a v a n i o un pass e h c n a o t i r forse me e n o i z e r i d della musicale a intrapres
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sarà una cosa che potremmo proporre anche in futuro, giusto per vedere e capire dove la gente vorrebbe vederci suonare”.
essere più coinvolti con le nostre famiglie, abbiamo cercato di connetterci e rapportarci con i nostri fan in altri modi. Abbiamo cercato di far tesoro di questo, di imparare e questa già è stata una grossa sfida. La cosa più importante per me è essere riuscito a divertirmi con la band durante tutti questi anni e cercare ancora di divertirci insieme”. A questo punto è lecito chiedersi: cosa dovremmo aspettarci dalla band? Ancora non ci è dato saperlo e, in attesa di scoprirlo a breve, non ci rimane che tenere gli occhi puntati su questa valida realtà musicale che tanto ha dato nel passato e tanto ha ancora da offrire.
di Johannes Eckerström La produzione del nuovo album raccontata dal vocalist Johannes Eckerström Avete già sentito tutto! No, non sto parlando della musica, oh no! La musica è di fatto più distante da qualsiasi altra cosa stia succedendo nel mondo in questo momento. È come il metal di oggi dovrebbe essere, secondo cinque arroganti svedesi. Ha una profondità ed un limite a cui la nostra generazione non sembra preoccuparsi di mirare. Non si tratta in alcun modo di un album dal sound retrò, ma si colloca chiaramente nella categoria “arte perduta”, nell’arte perduta del cercare di fregarsene e di fare del metal qualcosa con un po’ di significato. No, ciò che avete sentito prima è la cronaca della registrazione di un album! Ci sono troppe trappole in cui cadere. Mi sono già dato un paio di pacche sui polsi per averlo voluto definire come un qualcosa di strabiliante, una giostra, un “hell of a ride”, ma poi è stato quello a colpirmi, perché questo è l’album più meritevole di una tale descrizione, perché abbiamo fatto un bel viaggio per farlo. Per “Hail the Apocalypse” questa giostra ci ha portato in Thailandia, stavolta volevamo invece essere più vicini a casa, cosa che ci ha alla fine portato a girare ancor di più. Abbiamo iniziato da Dresda, in Germania, per la batteria, il basso e le chitarre e da tutte quelle cose che puoi fare quando
affitti uno studio in un antico castello. Già! Eravamo in un castello pazzesco, proprio come i Sabbath per “Sabbath Bloody Sabbath”, o gli Stones per “Exile on Main Street”. Fottutamente creativi! La parte migliore erano tutti i giocattoli che i ragazzi del posto avevano radunato: hammond, cembalo, pianoforti, arpe, sintetizzatori e quant’altro. Questi avevano tutti i tipi di microfoni strani da mettere sulla batteria per farla suonare in modi diversi. Era un ambiente creativo al massimo per lavorare su un album creativo. C’era anche qualcosa di veramente speciale nell’uscire dal letto, aprire la porta e andare al lavoro, almeno per un po’. In più avevamo in nostro bar, cosa ancora più pazzesca, almeno per un po’. Ugualmente speciale è stato essere a casa per una session. Non ho dormito nel mio letto durante le registrazioni delle parti vocali per un a l bum dal
2009, quindi è stato bello farlo ad Helsinki, sull’isola-fortezza Suomenlinna, nello studio con lo stesso nome. L’edificio era una prigione, ma registrare lì è stato più liberatorio di qualsiasi altra cosa. Il fil rouge nel creare quest’album è stato quello di variare il suono e l’attrezzatura di registrazione per ogni canzone, per contrastarle e renderle dinamiche. Avevamo un paio di microfoni che si scambiavano, e la cosa preferita che dovevo fare nel registrare le mie parti in growl era di tenerli con una mano, facendo saltar fuori la voce come se fossi sul palco, cosa che ha reso il processo più veloce. Quindi, dalla Germania alla Finlandia e per finire la Svezia. Abbiamo passato gli ultimi giorni a Spinroad a Lindome, dove sono nato e cresciuto. Abbiamo registrato un po’ di chitarre e qualche parte vocale in parallelo mentre Tim e Jonas stavan o ancora
registrando gli assoli in Germania, dunque Lindome è stato in effetti il primo posto dove abbiamo messo tutto assieme. Ci sono veramente molte tracce stavolta. Solamente per quelle di batteria si potrebbe raccontare una storia per tutti gli arnesi e le stanze che abbiamo adoperato. Ho detto storia? Che volevo dire con questo? Credo voi dobbiate rimanere sintonizzati con gli Avatar per scoprirlo. E ciò che potrei dire è che abbiamo sempre cercato di superare noi stessi, di surclassare le precedenti conquiste e di essere e far diventare gli Avatar la più grande cosa possibile, qualunque essa sia. Può ancora suonare come un frontman che sputa cliché, ma credo che non appena avrete la possibilità di ascoltare ciò che abbiamo fatto sarà evidente anche per voi. Tre studi, tre paesi, un mese. Cinque tipi svedesi e una tipa americana. Sylvia Massy ha dimostrato di essere la chiave per far funzionare questo mostruoso progetto. Lei ha tirato fuori il meglio di noi, come musicisti e come creatori. È il perfetto misto di conoscenza tecnica, visione artistica e pazzia. Ci siamo spronati a vicenda, l’unica reale maniera per misurare la qualità di quello che si sta facendo. Ci risiamo. Un altro cliché per finire. Ma state sicuri che la musica si spiega di gran lunga da sola. Alla prossima!
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S T H G I S L T H H G I G I H L H G I H
DUE GIGA NTI DEL R OCK IN DUE IN TERVISTE ESCLUSIV E
C X E
S E V I S U L
Cinquant’anni di Scorpions, così citano le locandine sparse per il Forum di Assago di Milano, oggi 11 Novembre 2015. Un traguardo notevole, viziato probabilmente da un’interpretazione si troppo permissiva della parabola creativa del gruppo tedesco, ma che suscita sentimenti di profondo rispetto per una realtà assoluta che ha contribuito in maniera determinante allo sdoganamento del rock pesante negli ultimi quattro decenni (il loro disco di esordio ‘Lonesome Crow’ è stato pubblicato nel 1972). Già, perché gli Scorpions hanno radici profonde, in un periodo lontano nel quale l’hard aveva una dimensione del tutto differente rispetto a quella attuale e gli Scorpions non erano nemmeno avvicinabili alle star planetarie che ognuno i voi conosce grazie al fischiettio iniziale della melensa ‘Wind Of Change’. Una carriera in continuo crescendo la loro, tra copertine eccessive (…e censurate, come quelle di ‘Virgin Killers’ e ‘Taken By Force’) e musica ribollente di ammic-
camenti espliciti al gentil sesso (non se ne abbiano le nostre generose lettrici). Un rullo compressore fatto di riff al vetriolo e melodie che si stampano per sempre nella mente che ha schiacciato ogni convenzione piegandola alla logica del puro divertimento, quello che si gode in un’arena bene attrezzata pronta ad accogliere il passaggio della band per incensare l’ultimo nato, quel ‘Return To Forever’, che in pochi si aspettavano. Ad essere biechi speculatori questo concerto dovrebbe far parte di quel tanto declamato tour di addio alle scene imbastito ormai qualche anno fa, ma che ormai non ha più alcuna pretesa di essere rispettato. Primo dalla band e poi da un pubblico sempre ricettivo, pronto ad assumere una buona dose di elettricità e volume davanti alle transenne: sta di fatto che il pubblico assiepato all’esterno del palazzetto milanese rumoreggia numeroso e che una volta di più
I T A RN
TO PER ARE! T S RE di Andrea Vignati
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siamo convenuti, tutti, per godere della magia dell’hard rock senza tempo di cui i nostri sono tempo immemore fedeli autori. Accediamo al parterre desolato, illuminato asetticamente da luci alogene bianche, per incontrare Matthias Jabs, chitarrista solista della band di Hannover, disponibile per una godibile chiacchierata prima di una performance che si rivelerà esaltante sotto il punto di vista tecnico (ineccepibile) e personale. Per rompere il ghiaccio l’argomento iniziale della nostra chiacchierata verte sul materiale più recente della band, quello estratto dall’ultimo lavoro in studio (‘Return To Forever’, edito lo scorso
Febbraio) e dall’appeal dei nuovi brani nella dimensione live degli Scorpions: “Mi fa piacere constatare che la gran parte dei nostri fan abbia reagito in maniera straordinariamente positiva al nuovo materiale. Siamo una band con alle spalle una storia notevole ed è più che naturale che il pubblico voglia sentire i pezzi più famosi o significativi della nostra carriera; scoprire invece che ‘Going Out With a Bang’ oppure ‘We Built This House’ sono normalmente accolte con lo stesso clamore del resto del set ci ha in qualche modo sorpresi. Eravamo coscienti del potenziale di queste due song, ma la prova del palco è un’altra
cosa e già dal primo concerto, lo scorso maggio in Cina, ne abbiamo saggiato la portata. Il tour è in pieno svolgimento, siamo già stati in Nord America ed ora tocca alla cara e vecchia Europa. Ci sentiamo in forma e tutto ci fa pensare che sarà un tour trionfale.” La convinzione di Matthias cerca di essere contagiosa, da scafato attore del circus rock’n’roll, ma avvertiamo una certa malinconia quando il discorso si sposta sull’atteggiamento dei fan, oggigiorno meno coinvolti e sempre più esigenti: “Riuscire a rimanere al passo coi tempi significa capire, o meglio, anticipare il trend. Noi lo abbiamo fatto spesso, restando fed-
eli però alla personalità di questa band: per riuscirci è stato necessario rivedere i principi dell’entertainment. Negli anni ’70 dovevi saper suonare e stare sul palco significava riprodurre al meglio i tuoi pezzi caricandoli di adrenalina, magari sfruttando più l’improvvisazione che il mestiere. Negli anni ’80, quando tutto era patinato e ricco, dovevi trovare la melodia giusta, saper armonizzare i pezzi per renderli sempre più catchy. I ’90 hanno demolito tutte le convinzioni del rock’n’roll e ci hanno traghettato verso una generazione di fan che passa il concerto col proprio IPhone tra le mani ed assimilano
le nostre performance attraverso il display dello smartphone. Come rimanere a galla? Creando uno spettacolo nello spettacolo, usando laser show sempre più imponenti accompagnati da enormi pannelli led dove l’aspetto visuale diventa complementare al sound sprigionato dalla band. Sono trucchi costosi, che in un momento di crisi dell’industria musicale appaiono sempre più difficili da gestire, ma è anche l’unico modo per rimanere contemporanei e scacciare l’onta di dinosauri del rock che molti ci vorrebbero cucire addosso!” Il chitarrista è ancora più esplicito circa la divulgazione della musica, oggi sempre più impersonale: “Siamo sopravvissuti a tre ere geologiche: quella del vinile, quella del CD e quella attuale, della musica digitale. Ai tempi del vinile dovevi curare ogni dannato dettaglio e l’artwork di copertina diventava il tuo biglietto da visita verso il mondo esterno.
Puoi immaginare da solo l’attenzione capitale circa l’impostazione grafica, personale e comunicativa che una band doveva applicare. Con il CD questa attenzione si è notevolmente ridotta, andandosi quasi a spegnere del tutto con l’era digitale, dove le copertine dei dischi sono visibili alla stregua di minuscoli francobolli. Però c’è un aspetto positivo per band di catalogo come noi: siamo stati capaci di rimettere sul mercato i nostri vecchi album almeno tre volte, no?” Ed è proprio solleticando il passato del musicista di Hannover che il ghiaccio si rompe definitivamente, andando a ripescare addirittura i primi momenti di Matthias negli Scorpions (si parla del 1979 ragazzi): “Mi sono unito alla band sostituendo un mostro del calibro di Uli John Roth, che tra l’altro conoscevo personalmente provenendo dalla stessa area geografica. Entrare nella band è stato come trovare la quadratura del cerchio per gli Scorpions: Uli aveva uno
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stile molto vicino a quello di Jimi Hendrix, cosa che non aveva alcuna soluzione di continuità con la direzione intrapresa a quei tempi dal gruppo. Il mio sound, seppure fossi in grado di replicare quello di Uli, si proponeva come trait d’union tra l’hard classico dei primi album ed un contributo più personale che fosse in grado di creare quel sound distintivo (letteralmente segnature sound, pronuncia Matthias) che poi ha dato fisionomia agli Scorpions come la maggior parte del pubblico conosce. Senza peccare di superbia, credo che fu proprio ‘Lovedrive’ (1979) a segnare il cambio di passo, accompagnato poi da ‘Blackout’ (1982), il disco della definitiva celebrazione internazionale. Pensa che nell’anno in cui fu pubblicato, ‘No One Like You’ fu il singolo più trasmesso dalle radio americane. A quei tempi non c’era altro, la radio rock era solo ed esclusivamente americana e noi raggiungemmo un successo senza precedenti. Tra i due album fu pubblicato ‘Animal Magnetism’ (1980), un disco che soffrì sin troppo dell’eccessiva premura legata alla pubblicazione: solo 6 settimane, tra registrazione, missaggio, editing e stampa. Per assurdo l’intervento chirurgico […alle corde vocali] a cui fu sottoposto Klaus (Meine, il cantante) ci permise di ottenere il massimo risultato proprio da ‘Blackout’. Sei mesi di tempo, un periodo fantasticamente lungo nel quale concentrare la nostra attenzione circa ogni dettaglio. Se permetti, il risultato ha pagato abbondantemente
l’attesa!” La curiosa ricettività del mercato americano ha, secondo Matthias, plasmato anche il modo di stare sul palco della band: “Noi ci siamo fatti letteralmente le ossa in America, come gruppo di apertura, per parecchio tempo. Negli Stati Uniti il concerto era una forma di espressività diversa rispetto a ciò che accadeva in Europa: da noi Eric Clapton saliva sul palco, suonava divinamente per un’ora e mezza e non diceva una parola. In America c’era Ted Nugent che tra un pezzo e l’altro inseriva sermoni incandescenti per incendiare il pubblico. Quello era vero entertainment. Motor City Madman, lo chiamavano, e noi eravamo rapiti dal suo stile. Suonare per il pubblico a stelle e strisce significava saper tenere il palco e noi facevamo di tutto per apprendere quest’arte unica. Considera che suonare in Europa, nella migliore delle ipotesi, consisteva nel fare dieci date in Germania, tre in Italia e poi passare attraverso le maggiori capitali. In America suonavi per sei mesi di fila, addirittura nove col tour di ‘Crazy World’ (1990). Gli USA sono diventati rapidamente il nostro target, per il quale ci siamo formati e grazie al quale abbiamo raggiunto il successo vero e proprio.” Segue una interessante disamina di come prende forma un pezzo degli Scorpions: “Il nostro modo di scrivere è cambiato col tem-
o fatti sa m ia s i c i o N te le os n e m l a r e t let ppo di u r g e m o c , in America, per parecchio apertura onare per il tempo. Su stelle e strisce pubblico aa saper tenere il significav palco...
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po: quando sei giovane vuoi scrivere di tutto ciò che per te è nuovo, che sia una nuova città, una ragazza conosciuta chissà dove, oppure un’esperienza mistica vissuta in condizioni non proprio consone. Con l’esperienza impari a gestirti ed il tuo pensiero si rivolge ad situazioni diverse, più spirituali se vuoi, ma altrettanto potenti: ‘The Zoo’, ad esempio, è stata scritta per celebrare la devastazione della 42° strada di New York a fine anni ’70. C’erano locali, prostitute e spacciatori ed il nostro manager ci portò li per conoscere qualcosa in più della Grande Mela. Oggi non scriveremmo più lo stesso pezzo, privilegiando magari l’aspetto sociale della cosa. Capisci cosa intendo? Tu sei li per catturare il momento e come artista cresci facendo esperienze, la tua musica riflette esattamente quello che stai vivendo nell’esatto momento e sei bravo se sei in grado di tradurlo per tutti.” C’è però un elemento assoluto che plasma una canzone, che la rende riconoscibile per sempre: “Credo fermamente nel potere del riff. Si tratta della chiave di volta attorno alla quale ruota tutta una canzone: c’è una app, chiamata Soundhound (ragazzi fatela vostra, si tratta di una specie di Shaz-
am ma con una marcia in più secondo esperti del settore, nda), che ti permette di capire se un determinato riff è già esistente sulla piattaforma Youtube o, più in generale, nella rete. Questo aiuta molto quando si tratta di comporre un nuovo brano. Dopotutto il riff rappresenta la porta di acceso di una canzone ed il compositore deve stare molto attento per evitare di ripetersi o copiare qualcosa (anche a livello subliminale, del tutto involontario) che già è stato pubblicato. Il riff è nella nostra cultura, dalla musica classica con Beethoven a quella contemporanea radio-friendly (si lancia nel canticchiare il tema principale della sinfonia n°9 del compositore tedesco bissato dallo stile tamagotchi di qualche melodia insulsa). Mi conforta pensare che gli Scorpions siano stati capaci di scolpire nella pietra alcuni tra i riff più riusciti dell’hard rock contemporaneo, questa è una delle motivazioni che ci permette di tirare dritto contro tutti i detrattori.” Aria di pensione per loro? Boh, noi ci crediamo poco.
Con l’espe rienza imp ari a gestirti ed il tuo pensie ro si rivol ge ad situazioni diverse, sp irituali se vuoi, ma altrettan to potenti...
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Se dovessimo affiancare agli Europe l’aggettivo potenti, come la prendereste? Immagino già i più oltranzisti di voi issare la bandiera dello sdegno, sguainare frasi fatte di capelli cotonati e ragazze che lanciano i bikini ai piacioni svedese. Beh, questo ha fatto parte della loro storia, perché negarlo? Ma è davanti alla sostanza di un album come ‘War Of Kings’ che l’affare si complica: ragazzi, questo lavoro suona come un possente monolite hard rock, un ritratto a tinte fumose di un gruppo che unisce drammaticità a ritmo, songwriting ispiratissimo a partiture inusuali dove il profumo di un’epoca senza tempo satura l’ambiente. Perché, direte voi, complicarsi la carriera con un disco così originale e potenzialmente distante dalle coordinate storiche del
loro marchio di fabbrica? La risposta è semplice, perché gli Europe sono cambiati, hanno mutato la pelle come un longevo serpente ed affinato la propria dimensione artistica: non un parto affrettato, ma un cammino lungo ed articolato, intrapreso con ‘Start From The Dark’ (2004). Come un distillato che migliora col tempo, gli Europe di oggi sono addirittura sorprendenti ed ancora più inaspettato è il loro successo trasversale, che unisce tre generazioni di fan che poco hanno da spartire tra loro. L’occasione per provare sulla nostra pelle questa promiscuità ci è regalata dal passaggio milanese della band, all’Alcatraz di Milano (lo scorso 28 novembre): noi abbiamo prontamente intercettato il tastierista Mic Michaeli per capire un po’ meg-
lio attorno a quali presupposti è stato concepito il nuovo album ed il pacato e disponibile musicista svedese ci conferma la ricerca ostinata dei quei profumi hard in voga negli anni ’70, orientamento che ha condizionato in modo determinante il sound di ‘War Of Kings’ : “Avevamo chiaro sin dall’inizio quale piega doveva prendere il sound del nuovo album, lo abbiamo cercato e fortemente voluto. Ci siamo documentati per comprendere meglio come venivano creati gli album nella prima metà degli anni ’70, quale strumentazione veniva utilizzata e quali erano gli accorgimenti tecnici più comuni per ottenere quel sound. Tutto ciò perché volevamo cambiare faccia agli Europe sondando le nostre origini comuni, che
proprio nelle opere hard rock di quell’epoca trovavano più convergenze. Per questo motivo abbiamo iniziato la collaborazione con Dave Cobb (il produttore del disco), vero esperto nel settore, arrangiando i brani con un occhio di riguardo particolare verso l’impatto armonico. Finalmente le mie tastiere sono riuscite ad emergere e penso che il risultato finale sia complessivamente molto equilibrato e vincente. Il fatto che la band abbia di proposito scelto questa direzione stilistica fa onore alla scelta, presa più di dieci anni fa, di ritornare insieme a fare musica: tornare per esprimere una dimensione musicale personale, non per scimmiottare la band milionaria che fummo negli anni ’80.” Curioso però constatare che
KINGS WILL BE KINGS! di Andrea Vignati Il re non si p Ph. Talleee Savage iega davanti Ph. live Sergio Rapetti a nessun com capo chino a promesso. Eb gli Europe, m b en e onarchi dell avviciniamoc za sbavature: ’hard rock ca ia ‘War Of Kings p a c i d i un album sen ’, tornata per espressione c � restare. ontemporanea di una band
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l’evoluzione stilistica del gruppo coincida con una netta sferzata retrò nei suoni: “Concordo, ma la ragione principale dietro questa scelta sta proprio nel rispetto di noi stessi, prima di tutto e poi per i fan: non ti nascondo qualche naso arricciato tra loro, ma nel complesso penso che il pubblico abbia ormai capito di che pasta siamo fatti. Non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, suoniamo per noi stessi e questo ci permette la sacrosanta libertà di sperimentare in ogni direzione che sia coerente coi nostri mezzi. Hard rock è una parola, una definizione che se interpretata troppo rigidamente coincide con la castrazione artistica: in molti potranno rilevare che gli arrangiamenti per ‘War Of Kings’ non sono per nulla lineari o prevedibili. Beh, questo credo sia un grande pregio anche se può scontentare qualcuno. Meglio prediligere l’aspetto personale e guardare dritto in avanti accettando tutti i rischi derivanti.” Mic estende il concetto al comportamento generale, maturo e professionale della band, migliorato con l’esperienza e con la disillusione: “Siamo persone diverse che col tempo hanno imparato a rispettarsi. C’è chi ama stare in tour, Ian (Haugland, il batterista) ad esempio e chi, come me predilige l’aspetto creativo dello studio. C’è chi ancora pensa di fare la rock star (detto con un tono beffardo) e chi ha capito che rimanere coi piedi per terra è l’unica risorsa per sbarcare il lunario. La crisi dell’industria discografica è tremendamente pesante ed anche una band come la
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nostra, che se l’è sempre passata bene con le royalties, ormai deve stare in tour per sostenere tutti i costi e ricavare il necessario per permetterci di andare avanti. Il digitale, seppure non rispetti completa-
mente il concetto di ascolto che gradisco è la frontiera del futuro: grande accessibilità e facilità d’usufrutto. Quel che serve è definire regole chiare per tutelare sia gli utenti che gli artisti. Io stesso, grande amante del vinile, ho trasferito tutti i miei LP in soffitta ed ascolto solo in digitale.” La visi-
one di Mic si allarga ora, sino ad affrontare argomenti spinosi, come l’integrazione razziale nella sua candida Svezia: “Stiamo cambiando e lo stiamo facendo rapidamente, forse più del previsto. La musica, la cultura in generale pare aver perso il suo centro e ci saranno situazioni nuove che prolificheranno da questa situazione. La nostra società sta mutando e l’apertura verso culture differenti non d i c o che faccia paura agli svedesi, ma li rende insicuri. Sai, la famosa paura delle diversità: mai come oggi si è espressa in maniera più chiara. Sono orgoglioso di provenire da una nazione dove la gente vuole approdare e non fuggire, ma devo anche ammettere che noi svedesi siamo sempre stati col piede in due scarpe. Durante il secondo conflitto mondiale eravamo teoricamente neutrali, però accettavamo i nazisti ed i russi a patto che nessuno dicesse nulla degli uni agli altri. Avverto la tensione, la percepisco, ma ritengo sia difficile capire in quale direzione si svilupperà questa condizione: ci vorranno un paio di generazioni per attuare realmente, a tutti i livelli, il concetto di integrazione. Di una cosa sono certo però: non ho l’illusione di credere che la musica possa fare qualcosa in merito. La musica sta alla finestra, funge magari come ausilio, da lente di ingrandimento o da filtro attraverso gli occhi di chi la compone, ma non può certamente cambiare le cose a livello politico: questa convinzione, un po’ ingenua, la lascio a chi vive con molte più illusioni del sotto-
scritto.” Sfruttando la schiettezza di Mic, chiediamo lumi circa la ragione intrinseca poiché gli Europe contemporanei hanno ancora senso di esistere. Cambiano le mode, le attitudini e…l’età avanza: “Siamo persone più mature rispetto a quando fondammo la band, questo è logico, ma ci tengo a sottolinearlo perché la maggior parte dei nostri errori di valutazione è sempre stata legata ad una certa superbia. L’ignoranza di dare tutto per scontato, l’essere arrivati ad un livello tale che niente e nessuno, nemmeno il tempo, sarebbe stato in grado di demolire. Oggi, grazie alla consapevolezza, sappiamo cogliere meglio il senso della nostra esistenza e siamo grati a chi ci permette di proseguire nel nostro cammino artistico. In questo gruppo di persone inserisco anche noi stessi, con tutti i vizi e le virtù che ci contraddistinguono. Dodici anni di assenza dalle scene ci hanno fatto bene, hanno riportato tutti noi, chi più e chi meno (nota polemica?), con i piedi per terra: l’idea di tornare a suonare assieme doveva valere solo per uno show, nel 2000 in Svezia, ma poi, una volta sul palco qualcosa si è s b l o c c a to , abbiamo capito che quella situazio n e , che gli E u rope, c i mancavano. Ci sono voluti però tre anni per considerare realmente la possibilità di ritornare in attività: io per primo avevo
profondi dubbi circa la riuscita di questa impresa. Il confronto tra noi tutti ci ha permesso di ritornare sulla stessa lunghezza d’onda col presup-
posto però di non ripeterci, allontanandoci il più possibile da quello che fummo negli anni
’80. Ci siamo chiariti immediatamente: saremmo tornati solo per creare qualcosa di nuovo, di significativo per la band…e così è stato.” Lasciarsi alle spalle arene gremite di fan, soldi, ragazze e gloria divina non deve essere stato facile, comunque. Ironico pensare al testo di ‘The Final Countdown’, che alla luce dei fatti suona quasi la premonizione che qualcosa sarebbe cambiato in modo irreversibile per la band: “Non so dirti quale fosse il vero spirito di Joey quando scrisse quel testo, ma non credo si trattasse di nulla di così l u n g i m i r a n t e. Aveva 22 anni e si occupava di godersi ogni secondo della propria celebrità: appurato questo ci sono state infinite speculazioni sul significato di quel pezzo. C’è chi lo ritiene u n brano ambientalista, chi invece lo intende gravido di significati profondi: io penso solo che sia un testo che è rimasto sempre attuale proprio perché non dice nulla di esplicito. Tratta del necessario abbandono, a cose fatte, per cercare nuove opportunità, situazioni sconosciute che possono far paura, nascoste in ogni dove. C’è un lieto fine? Chi può dirlo?” Mica male interpretare questo significato in relazione al periodo attuale della band: e se non è premonizione questa…
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Guitar Special La sei corde esercita da sempre un fascino particolare sui giovani musicisti. Strumento maggiormente suonato dai ragazzi che si avvicinano alla musica, la chitarra gode di una fama e di un’adorazione sconfinata nel nostro mondo, perché, in fondo, senza di lei, il Metal non esisterebbe. Abbiamo quandi scelto di dedicare il cuore di questo numero speciale, del nostro ritorno, a lei e ad alcuni dei suoi più emblematici suonatori, tentando di spaziare il più possibile, raccogliendo artisti che hanno adoperato, nel corso degli anni, lo strumento in diverse maniere, stravolgendone l’uso ed inondando di meraviglia gli occhi ed il cuore di milioni di aspirati guitar hero. Siamo certi che questo è il primo passo di un lungo percorso in cui vogliamo accompagnarvi.
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Zakk
Wylde
A D A R T LA S O P M I L O ’ L R E P
Sul podio dei colossi del metal si trova un trono imponente, Una figura maestosa
, di quelle che riescono a mutare
qualsiasi nota in un qua lcosa di massiccio. Nat o Jeffrey Phillip Wielandt
, divenuto poi Zakk Wylde, Nome che si è
guadagnato, grazie al talento e ad uno stile riconoscibilissimo, il tit olo di re della sei cor de.
di Paky Orrasi
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Era il 1988: Ozzy Osbourne realizza “No Rest for the Wicked”, un titolo che si è rivelato una premonizione lanciando Mr. Wylde e la sua rivoluzione che ha distrutto e riscritto i manuali di chitarra moderna con uno stile che ha immediatamente influenzato ogni musicista della sei corde. E come da titolo per i dannati non vi è riposo, difatti la sua carriera è stata una giostra sempre in corsa, andando dal debutto con il Re del Metal alla fondazione dei Black Label Society. Il suo stile si origina nei suoi miti, e da una passione nata quando era piccolo: “La prima chitarra seria che ho preso in mano credo fosse una Gibson SG e poi la Les Paul, naturalmente volevo suonare la chitarra come i miei miti Tony Iommi, Eddie Van Halen, Al Di Meola, Jimi Hendrix, non stavo a pensare alle specifiche dello strumento. A otto anni ho iniziato ad essere interessato alla chitarra, ma naturalmente non stavo li a suonare tutto il tempo. A quattordici anni ho invece capito che volevo dedicare la mia vita alla chitarra ed ho iniziato a prenderla sul serio” così ricorda Wylde. Wylde non si è fermato all’emulazione, da divorato il loro stile per poi rivoluzionare l´uso delle scale pentatoniche e l´uso del-
le artificial harmonics: “Ho sviluppato il mio stile seguendo una semplice regola, ossia suona quello che vuoi e non quello che è popolare, quello che tutti suonano. Andare controcorrente è quello che ti valorizza rispetto agli altri. Quando Bon Jovi era fortissimo i Guns N’ Roses continuavano a fare le proprie cose, e quando loro erano la regola, intanto si stava formando il movimento underground di Seattle di cui nessuno ancora conosceva nulla.” Poi su uno dei tratti che contraddistingue il suo stile: “Riguardo alle artificial harmonics mi sono ispirato a Billy Gibbons degli ZZ top.” Essere famoso e farlo per soldi non è mai il motore che l´ha spinto ad eccellere. Ed è forse per questo motivo che pochi ragazzi oggi possono davvero consolidare il loro nome negli annali del metal, persone come Mr. Wylde non sono andati mai alla ricerca di musica usa e getta per un paio di minuti di fama. Lui ha sempre lavorato ossessionatamente su quelle sei corde, e il riconoscimento è arrivato non solo dai fan, ma anche da colossi quali la Gibson e Epiphone . Famosissime sono difatti le chitarre firmate da lui, come la magnfica Gibson Les Paul Bullseye, e con Epiphone la Camo Les Paul, Bullseye Les Paul, e la Bullseye ZV.
Zakk Wyld 1967
1975
Nasce a Bajonne (New Jersey)
Inizia a Suonare
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1981 si dedica alla chitarra
1988
Avendo dato il massimo ormai a queste compagnie, Zakk ha deciso di buttarsi in un nuovo grande progetto, aprendo una sua compagnia per chitarre, amplificatori e pedali la Wilde Audio: “è semplicemente l´ovvio passo successivo”, ci spiega: “Ho avuto una carriere fortunatissima, ho suonato con Ozzy, ho una band di successo, ho avuto l`onore di creare chitarre per grandissime compagnie. Pensala così: ho giocato a baseball e poi allenato per gli Yankees e ho avuto successo, quindi in quel contesto la prossima cosa da fare per andare avanti è essere un proprietario di squadra. Ho imparato tantissimo, con i migliori nel campo. Ora posso avere ancora più libertà”. Le linee saranno disponibili dal 2016 e rispecchiano in tutto e per tutto la sua versatilità, difatti la linea di chitarre è poliedrica e include modelli dal look moderno ma anche retrò. Tra le prime ad essere state presentate vi sono le chitarre The Viking V, The Odin ( con il suo tipico design Bullseye ), and The War Hammer. Creare i propri strumenti significa totale libertà, lasciando in un certo senso la casa dei genitori per doversela cavare totalmente da solo, iniziando con uno schizzo su carta e portarlo a termine. Senza nessun limite. Naturalmente i fan si aspetteranno
il massimo da questi modelli. Wylde non ha pensato al rischio di dover far fronte a queste richieste, essendo il proprietario ha i suoi tempi: “la qualità è quella che conta, se un prodotto non è pronto non si mette a tavola, insomma. Abbiamo passato due anni a preparare questi strumenti, rivisitandoli e modificandoli, senza nessuna fretta”, precisa Wylde. Con la qualità arriva anche un costo che non tutti possono permettersi, ma Wylde ha pensato anche a questo “con noi avrai tre gruppi, ci saranno chitarre di 400 dollari, chitarre che vanno sugli 8001000 dollari e chitarre da 3.000 dollari”. Aver chiamato la propria compagnia Wylde Audio ha una ragione precisa. La compagnia non vuole limitarsi a chitarre, amplificatori e pedali ma vuole pian piano evolvere mettendo altri prodotti musicali sul mercato, ad esempio microfoni. Wylde in tutte le interviste, inclusa la nostra, tiene a precisare che: “non vi sono assolutamente problemi con le compagni con le quali ho lavorato, è solo una questione di crescere ed evolvere”. Questo vuol dire che ben presto potrete ammirare questi strumenti dal vivo in quando naturalmente Wylde ha già iniziato a testare le proprie chitarre on the road.
de Timeline 1996 Esce “Book of Shadows”
1998
2004 Viene ucciso Dimebag
2009
2015
Si separa da ozzy
Nasce la wylde Audio
... to be continued
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Zakk Wylde con il suo look sempre over the top, la sua grossa risata e il portamento degno di un vichingo riesce a rendere anche un piano macho, uno strumento che ha suonato per trasformare delle canzoni Heavy Metal in acustico e far partire la sua avventura chiamata Unblackened. L’idea originale era di far un solo concerto acustico al Nokia Club di Los Angeles ma visto il successo dell`album live i Black Label Society hanno deciso di portare questo album on the road: “qualsiasi pezzo metal può diventare acustico. Non è difficile, mi sono messo al piano, ho iniziato a cantare la melodia di quelle canzoni. Basta avere una mente fresca e un piano” ci spiega Wylde, “ho sempre voluto portare questo album sul palco, ora abbiamo finalmente avuto tempo. La versione acustica non fa perdere il carattere alle canzoni, è semplicemente qualcosa di nuovo”. Questo 2016 è davvero pieno zeppo di eventi per la roccia dei Black Label Society, tra tour mondiali, ventisei date, il glorioso party per i settanta anni di Lemmy e, udite udite, l’uscita di ‘Book of Shadow II’: “Stiamo lavorando a questo album al momento” spiega Wylde “abbiamo iniziato e poi ci siamo dedicati al concerto di beneficenza per Tony MacAlpine , al compleanno di Lemmy e al tour, al momento siamo di nuovo sull`album. Dopo altri impegni con i BLS ci rimettiamo a lavoro col mixaggio etc. Ci sarà il tour e sono certo che lo porteremo anche in Italia, inoltre combineremo anche Book of Shadow ai nuovi pezzi di Book f Shadows II”. Sotto la corteccia dura, si nasconde un uomo con un grande cuore, difatti lo scorso dicembre Steve Vai, John 5 e Zakk Wylde hanno organizzato un concerto di beneficenza per Tony MacAlpine – al quale è stato recentemente diagnosticato un cancro al colon. Al trio si sono uniti anche Mike Portnoy, Billy Sheehan e Derek Sherinian: “Tony è un caro amico, ci sonosciamo da sempre” afferma Wylde “un talento eccezionale, e quindi cercare d`aiutarlo è naturale”. Zakk prima si salutarci ha un messaggio per i suoi fan italiani: “Forza ragazzi, ci vedremo tra un po’ con Book of Shadows sul palco!”
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La bullseye di Zakk wylde
Diventata un simbolo per l’intero mondo della chitarra, la Gibson modello Les Paul Bullseye di Zakk Wylde rappresenta il sogno di molti giovani musicisti. In produzione dal 2003 (poi distribuita anche in versione adatta a tutte le tasche, marcata Epiphone) è dotata della micidiale accoppiata di pickup EMG 81-85! Successivamente sono stati rilasciati altri modelli signature del berserker americano: dalla Les Paul Camo (dove il motivo Bulleye veniva sostituito con il caratteristico militare) alla Flying-V, passando per l’ancor più ipnotica Buzzsaw e la funerea (proprio a forma di bara) Graveyard Disciple. Il Bullseye è stato mantenuto nella nuova serie della Wylde Audio che arriverà presto sul mercato.
Flash
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Per chiudere questo speciale sull’Odino della chitarra, abbiamo pensato di riproporvi uno dei libri più inconsueti che sono arrivati sugli scaffali delle librerie da un po’ di anni a questa parte. Si tratta di ‘Il Metal Spiegato ai Bambini’ (titolo originale ‘Bringing Metal to the Children’), volume scritto a quattro mani da Zakk Wylde e Eric Hendrikx, nonostante molti di voi conosceranno oramai il contenuto del...va beh, chiamiamolo testo. Sì, perché quello che ci si trova davanti quando si scorrono le pagine di quest’opera (sappiamo che il termine non sarebbe quello appropriato, ma non se ne trovano di migliori) è un susseguirsi di vere e proprie confessioni, di consigli spregiudicati e spassionati ai giovani
che vogliono intraprendere il mestiere della rockstar. Se il tono a prima vista (forse anche a seconda e terza) può sembrarvi scanzonato e scherzoso, badate bene; all’interno de ‘Il Metal Spiegato ai Bambini’ c’è passione pura e vi sono degli insegnamenti sul “come sopravvivere al music business” che non sono affatto scontati e gratuiti. Non parliamo tanto delle ‘Regole del Tour’ o delle ‘Tecniche di Sopravvivenza per Tour Mondiali’, guardate invece dove Zakk scrive (p. 133): “È da un po’ che dico che il mio lavoro non è più quello di fare dischi. Oggi le band devono suonare dal vivo e vendere magliette. Sotto un certo punto di vista sono finiti i giorni di Appetite for Destruction. D’altra parte, però, questo concede alle
band e agli artisti un controllo molto maggiore di quello che avevano prima. Al giorno d’oggi i gruppi sono veramente i capi di loro stessi, il che è abbastanza una figata. Se avete ventinove anni e la Atlantic Records non vi ha messo sotto contratto, non dovete struggervi o rassegnarvi a veder svanire il vostro sogno. Manco per il cazzo.” Questo è uno dei passi in cui, fra le mille esilaranti corbellerie e aneddoti wyldiani, si può apprendere qualcosa, qui e in molti altri punti. Si capisce poi senza mezzi termini che Zakk Wylde è “uno vero”, come scrive Chris Jericho nell’introduzione, uno a cui non interessa se con il suo linguaggio o le sue affermazioni può dar fastidio od offendere qualcuno. Lui è un berserkr, anche se (p.
24): “io non penso sul serio di essere un fottuto vichingo. Ma visto che tutti continuano a ripetermi questa stronzata - per giunta prendendomi anche per il culo - solo perché ho dei cazzo di capelli lunghi e la barba, ho deciso di stare al gioco. E a giudicare dai risolini che sento da voi figli di troia, penso pure che la cosa vi diverta.” Insomma, potrà irritarvi, indisporvi, ma non troverete un... libro...migliore di questo se siete dei veri vichinghi (...perdonaci Zakk)! Stefano Giorgianni
Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Il Metal Spiegato ai Bambini. Cronache e misfatti della vita in tour (e non solo...) Autori: Zakk Wylde, Eric Hendrikx Collana: I Cicloni 14 Pagine: 308 pagine + 8 di foto a colori Formato: 16x23 ISBN 978-88-96131-51-0 Prezzo: 20,00 Euro
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tiedes al r p n t ni, u a su Me n a lt ici dod rima vo assa! a am iata la p iniz k! Per Joe Bon a r ie oc io di carr es-r Una del blu a il gen i nato er Ital m Ham
The Blues King di Stefano Giorgianni
Joe Bonamassa è senza dubbio uno degli emblemi odierni della sei corde. Con il suo blues-rock ha conquistato il globo intero, esibendosi nei luoghi più prestigiosi e ambiti per un musicista. Di innegabili origini italiane, Joe inizia presto il suo rapporto con il blues, aprendo concerti per il leggendario B.B.King a soli dodici anni. Nel 2000, a 23 anni, pubblica il suo primo album, ‘A New Day Yesterday’, e da quel momento inanella una serie di successi, arrivando sino all’ultimo ‘Live at Radio City Music Hall’, il coronamento di una carriera straordinaria in quello che è probabilmente il teatro maggiormente noto nel music business. Bonamassa non è solo un artista fuori dal comune, ma anche uno
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dei più apprezzati chitarristi della sua generazione, grazie al suo stile che ha rinverdito un genere come il blues-rock, riportandolo all’attenzione del grande pubblico. Negli anni, fra le sue influenze, Joe ha dichiarato di avere mostri sacri come Eric Johnson, Gary Moore, Jeff Beck, Jimmy Page, Peter Green, ma sicuramente alla base della sua arte vi sono leggende come B.B.King e Stevie Ray Vaughan. Recentemente Bonamassa si è cimentato in tour per omaggiare tre dei più rappresentativi esponenti del blues, Albert, B.B. e Freddie King, in una serie di concerti che prende per l’appunto il nome 3-Kings. Un tour anomalo se si pensa all’importanza dell’artista, che sa di non essere però da
solo: “Zakk Wylde stesso sta facendo qualche concerto per omaggiare i Black Sabbath. Tutti hanno le loro influenze. Tutti hanno i propri eroi. Di tanto in tanto può essere divertente cercare di ricreare la loro musica come tributo alle persone che ti hanno ispirato e credo che i fans lo apprezzino. Non credo che sia un’attitudine espressamente blues fare queste cose.” Da musicista di successo, Joe ha suonato in innumerevoli posti, ma c’è mai stata un’occasione in cui si è sentito nervoso? Lo dice immediatamente: “Non credo. Qualche volta è snervante quando stai registrando qualcosa per un DVD e sai di avere una singola occasione per eseguire bene quel determinato pez-
zo. Ad esempio quando è venuto Eric Clapton sentivo che quello era un momento da dentro-o-fuori per me, sapevo che sarebbe stato un punto di rottura, di quelli che capitano una volta soltanto.” Bonamassa è noto anche per la capacità di rilasciare album a scadenze precise, spesso annuali, ed anche per esser un lavoratore instancabile: “Da nuovo artista c’è un momento critico, ovvero quello in cui scopri che la seconda parola nella musica è business, gli affari. Bisogna quindi trattare il tutto come fossero degli affari. Non puoi pensare che siano gli altri ad occuparsi di questo lato. Non puoi né come artista, né come membro di una band, né come solista. Ad esempio
possedere un’etichetta evita di dover sedersi nell’ufficio di un qualche tizio a parlare di cose senza senso. Poi arrivano i promoter, che ti dicono che hai venduto meno biglietti dell’ultima volta in cui hai suonato in quel posto e quindi ti daranno la metà dei soldi. A questo punto sei già in una situazione in cui gli altri controllano il tuo destino. Il vero trucco è quello di controllare tante porzioni del tuo destino quanto sia umanamente possibile.” Poi si passa a parlare della Gibson Les Paul, l’arnese del mestiere di Joe, oramai un’estesione del suo corpo: “Sono uno che suona la chitarra elettrica, non l’acustica. Ho iniziato con l’elettrica e finirò la carriera con l’elettrica. Tutti hanno un tono nella propria testa, un sound che pensano sia il loro ideale. Quando adoperavo Telecaster o Fender Stratocaster, o le SG, o qualsiasi altro tipo di Fender o Gibson, sentivo che potevo arrivarci, ma avevo bisogno di più pedali o di alcune modifiche. Con la Les Paul devo solo iserire
punto in cui sentivo di dover salvare un po’ di materiale. Come oggi, mi sono alzato e sono andato in un negozio di strumenti in città, ho comprato un amplificatore e poi ne ho comprato un altro, e poi altri ancora. Erano tutti Fender antecedenti al 1965. Ho tutti oggetti doppi, tripli, quadrupli. Certo che, da collezionista, trovare cose in buona od eccellente condizione è sempre più difficile, anche a causa della graduale scomparsa dei piccoli negozi”. Il musicista ricorda anche dove ha ottenuto la chitarra più preziosa della sua collezione: “È una flying V del ‘58 che ho
il jack nell’amplificatore e ho ciò che voglio.” Joe è anche un collezionista di chitarre e amplificatori e spiega: “È strano. C’è stato un
recentemente acquistato da Norman’s Rare Guitars ed ha anche una storia abbastanza forte alle spalle. Il negozio era già aperto nel 1958,
ad Indianapolis.” Avendo iniziato così giovane, Joe è
li in scuole degli Stati Uniti, dove, a causa dei problemi
senza dubbio uno di quelli che è nato col dono di saper suonare la chitarra al meglio, ma non è d’accordo: “Nel mio caso si tratta di quanto tempo ci si applica all’esercizio. Il mio è per il novantanove percento lavoro e dieci percento dono naturale. Alcuni possono solamente s t a r lì ed aprire la bocca che la voce e s c e fuori. Per me non è stato così. H o dovuto sedermi ed i m parare come sviluppare una tecnica.” Forse per questo ha istituito la Keeping the Blues Alive Foundation, che supporta studenti, insegnanti e progetti musica-
economici, molti dei programmi di questo genere vengono tagliati: “Se nessuno paga per questa cosa, qualcuno dovrà farlo. A questo scopo nasce l’associazione. La necessità è la madre di tutte le invenzioni. È difficile raccogliere soldi, ma è un progetto importante e si è dimostrato che la musica aiuta i ragazzi a migliorare in altre materie fondamentali come la matematica e le scienze, poiché riescono a concentrarsi meglio ed a dar sfogo alla creatività meglio che stando seduti a giocare coi videogiochi. Tutto questo li aiuterà a far meglio nella loro vita.” Se si chiede a Joe se ha in mente una data per la pensione la risposta è secca: “L’obiettivo è di continuare per altri ventidue anni. Così arriverò a 62 anni con una cinquantina d’anni di carriera, se i fans me lo permetteranno.” E cosa farà Bonamassa da pensionato? “Lavorerò il legno. Sarò come Bob Villa e creerò qualcosa come This Old House, ma la chiamerò This Old Guitar.”
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LA RECENSIONE 77
Joe Bonamassa, 38 anni e ventisei di carriera se si conta l’esordio appena dodicenne al seguito del leggendario B.B. King. Un artista eclettico, uno dei maggiori esponenti del blues-rock contemporaneo, un musicista instancabile che si esibisce quasi ogni sera dell’anno. Proprio questa intensiva attività live porta Bonamassa a rilasciare (PROVOGUE) dischi dal vivo ad un ritmo impressionante (si ricordino i recenti ‘Beacon Theatre: Live from New York’ e ‘Muddy Wolf at Red Rocks’), arrivando ora a proporre questo ‘Live at Radio City Music Hall’, registrato nel sacro tempio della musica a stelle e strisce. Certo che i profani potrebbero chiedersi il motivo per il quale è necessario acquistare l’ennesimo prodotto che immortala le gesta dell’ex enfant prodige newyorkese. Ebbene, è facile da dirsi. Bonamassa non si limita a proporre di volta in volta gli stessi pezzi, egli studia attentamente le scalette, cercando di portare sempre una ventata di freschezza alle proprie esibizioni. ‘Live at Radio City Music Hall’ non scade dunque nella ripetizione, è senza alcun dubbio una vigorosa celebrazione delle doti dell’alfiere della sei corde, un disco che mischia approcci ed atmosfere differenti, coinvolgendo il pubblico dalla prima all’ultima canzone. Ben due inediti sono presenti in quest’occasione, il primo è ‘One Less Cross To Bear’, mentre il secondo porta il titolo di ‘Still Water’ ed è incluso nel set acustico che si trova verso la metà del concerto. L’alternanza fra acustico ed elettrico dobbiamo dire che giova allo spettacolo di Bonamassa, abile nell’intrattenere il pubblico dal punto di vista della musica, un po’ meno da quello dello spettacolo. Joe non è sicuramente quello che si definisce un animale da palcoscenico, nonostante la volontà ci sia tutta, quindi se non conoscete il bluesman newyorkese e cercate qualcuno che vi intrattenga visivamente, beh, avete sbagliato soggetto. A noi però Bonamassa piace così, preciso nel picchiettare le corde ed intimamente coinvolto nelle proprie composizioni. Assolutamente un live che non può mancare nella collezione degli appassionati della chitarra. Stefano Giorgianni
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Joe Bonamassa Live at Radio city Music Hall
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i n o u s i e d e n o g Da stre o s s u c s i d n i e o r e a di Paky Orrasi
Ogni genere e generazione ha un proprio profeta. Nella sua figura minuta e dietro gli occhialli, Wilson nasconde il fenomeno che ha segnato il genere progressive moderno e non solo. Una storia di Natale per chi vive a tempi dispari.
Ph. Naki Kouyioumtzis
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Quando il nostro caporedattore mi ha commissionato questo articolo, naturalmente ero felice come una bambina a Natale, tuttavia ben presto è insorta una foresta d’idee confuse tra di loro. Come riassumere chi da nerd si è mostrato nell’artista che ha conquistato il mondo del progressive, e non solo? Come spiegarvi il lato più visionario di questo artista da molti descritto come un genio moderno?E come non cadere nella fan-tale? Non ho mai nascosto il mio enorme amore e pura ammirazione verso questo musicista, e non tenterò di nascondermi dietro la maschera di giornalista impostata e neutrale. Noi raccontiamo la musica, noi vi portiamo a conoscere artisti. La passione congiunge le tre parti in gioco: giornalista, musicista e pubblico. Ed è la passione di un bambino dalla quale nasce il nostro racconto. La nostra storia inizia in Hemel Hempstead (Inghilterra), precisamente nel Natale del 1975, dove un bambino di otto anni s’innamora di due album, due lavori che avrebbero distinto il suo viaggio e dato il via alla sua grandiosa avventura. “Mia madre regalò a mio padre una copia di “Dark Side Of The Moon” e mio padre contraccambiò con “Love To Love You Baby”. Per circa un anno li ascoltai a ripetizione. I Floyd avevano un percorso narrativo logico e Donna Summer un una 17 minuti di sinfonia disco che è ancora uno dei miei pezzi preferiti di musica, in retrospettiva posso vedere come sono quasi interamente re-
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sponsabili per la direzione che la mia musica ha preso da allora”. Steven ha sempre ricordato quella data, da quel giorno lui ha associato la parola album con narrazione, sia musicale che lirica, prediligendo lavori di musica molto strutturale, portentosa e con molta enfasi sull’atmosfera e sulla tragedia della condizione umana. La sua storia è di un bambino prodigio che iniziò a sperimentare con la chitarra a otto anni ed a dodici con un lettore multitraccia e un Vocoder. Da adolescente negli anni Ottanta, Wilson iniziò a interessarsi alla musica degli anni Sessanta e primi Settanta; ad interessarlo era quella particolare esplosione di creatività, quando la musica rock era davvero considerata una forma d’arte per la prima volta. Inoltre non bisogna trascurare l’Inghilterra negli anni Ottanta, specialmente Manchester, che fu una fantastica fabbrica musicale. In questo clima ben presto quel ragazzo dall´apparenza un po’ nerd perso tra i suoi esperimenti di Avant-garde e industrial sarebbe diventato l´incantatore dietro i No-Man e i Porcupine Tree. Wilson formò entrambe le band nel 1987, prima che il nostro eroe fosse interessato a cantare e scrivere musica, dove canto e testi erano interamente un lavoro a cui pensava Bowness. Ma è con i Porcupine Tree che piano piano ha mostrato la sua grande visione, con piccoli passi. Portando innovazione, musica totalmente controcorrente. Non dimentichia-
moci che all’inizio degli anni Novanta tutti ascoltavano Nirvana e Soundgarden, il grunge regnava, pezzi di oltre dieci minuti e lunghi assoli di chitarra erano impensabili. Tuttavia dietro il gusto della massa vi sono sempre persone che cercano altro. Ed è in questo clima che esce “On the Sunday Of Life” (1992) , prima pietra dei Porcupine Tree. Il primo pezzo, Music for the Head, era interamente strumentale ed, a pensarci ora, profetico, in quanto proprio la musica strumentale sarebbe diventata un trade-mark per questa band. Il gruppo, che era nato come un progetto una tantum, continuò a crescere grazie a passa parola, in un’era antecedente internet, portandolo ad ottenere sempre più successo e quindi a consolidarsi. I Porcupine Tree sono riusciti a sfidare i generi, fondendo ambient, prog rock e avanguardia. I loro ritmi ipnotici li hanno consacrati sovrani del progressive, raccogliendo pura venerazione dai loro fan e crescendo in continuazione. La loro discografia include dieci album che sono considerati una gemma della mu-
sica anglosassone e non solo. La loro influenza è ben visibile nella moderna generazione di progressive rock / metal. In particolare Steven Wilson, che ha influito enormemente sul suono di band quali Opeth ed Anathema, grazie a una produzione che ha fatto sprigionare ancora maggiormente la bellezza delle loro composizioni. La band, grazie specialmente ai loro ultimi lavori, “Fear Of A Blank Planet” (2007) e “The Incident”(2009), ha incontrato successo nelle classifiche non solo europee ma anche americane, a dimostrazione che la loro musica non ha bisogno di compromettersi per arrivare ad un successo anche commerciale. Ma è nel 2009 che questo cantante, compositore, polistrumentalista ed eccelso produttore decide di mettere in stand-by i Porcupine Tree per imbarcarsi in un viaggio solista, che è riuscito a superare ogni aspettativa e ad alzare ancora una volta il livello di un’arte di cui egli sembra essere l’unico custode e bardo. Difatti, ad oggi, Wilson ha pubblicato ben quattro solo
Ph. Lasse Hoile
album, con il quinto in uscita a Gennaio, nei quali ha sviluppato e arricchito la sua filosofia artistica che l’ha catapultato sulle prima pagine di giornali musicali di tutto il mondo, premi, primi posti nelle classifiche anche di mercati difficili come l’Italia. La sua musica si basa ancora una volta su vari strati musicali, grazie a una qualità impressionante ed a narrative profonde. Il suo ultimo album, ”Hand. Cannot. Erase” è stato acclamato ad unisono dalla critica e premiato con primi posti nelle classifiche europee. Anche tramite questo album Wilson ha continuato la sua battaglia contro l´abuso dei social media, in molte interviste ha spiegato che l’album ha scelto di raccontare una storia sintomatica dell’età dei social, dove si potrebbe essere circondati da milioni di persone ed es-
sere a nc o ra completamente isolato. Non a caso nell’album vi è un verso che dice “Download the life you wish you had”. Wilson è stato sempre critico di un mondo che dà alle persone l’opportunità di fare della vita un gioco di ruolo e di creare una facciata, un’immagine e racchiudersi in una realtà abbastanza antisociale. La critica di Wilson si tras forma in battaglia vera e propria quando si parla di musica e rivoluzione musicale. Già nel 2008 Wilson realizzò un documentario che mostrava vari metodi per distruggere un iPod, a MTV commentó: “Il mio timore è che l’attuale generazione di ragazzi che stanno nascendo in
questa rivoluzione dell’informazione, --con Internet, telefoni cellulari, iPod, questa cultura dello scaricare, ‘American Idol’, la prescrizione di farmaci, PlayStation – sia distratta da cosa sia importante nella vita, dallo sviluppare un senso di curiosità per ciò che è là fuori”. Quello che reputo curioso in questo artista è il fatto che almeno fino a qualche hanno fa non si considerava un chitarrista o un cantante. Invece ora, col passare degli anni, è riuscito ad affermarsi non solo come produttore di valore altissimo, compositore eccelso ma anche per le sue qualità di chitarrista. Sebbene egli dica che in fat-
to d i chit a r r e non sa bene cosa stia facendo, egli è un ottimo chitarrista, inoltre spesso ha dichiarato di usare la chitarra in molti modi non convenzionali e che quindi, molte persone confondono la sua chitarra con suoni delle tastiere o altri suoni elettronici. Ad esempio, quasi ogni suono del suo primo album diverso da batteria o basso è stato creato con la chitarra. La tastiera è poco presente. Quindi, Wilson usa un la chitarra elettrica per creare suoni mai sentiti prima. Questa è la chiave per comprendere il motivo per cui egli non si consideri un chitarrista ma prima di tutto un produttore, e la chitarra è uno dei suoi strumenti, una fonte illimitata di suoni. Una curiosità, ad esempio, è racchiusa in ‘Belle de Jour’, tratto da “Grace for Drowning” , in quanto per la prima volta Wilson
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ha suonato con le dita le corde di nylon. La canzone fu da lui scritta proprio per sforzarsi a diventare abbastanza bravo per registrare. La discografia di questo visionario è assurda tra solo, Porcupine Tree, No-Man, Storm Corrosion, Blackfield, Bass Communion, la lista sarebbe infinita. Non ha nulla da dimostrare, tut-
tavia da buon perfezionista e gran lavoratore continua a sfornare perle su perle, sorprendendo per bravura e vero valore artistico. La sua sensibilità verso la società in cui viviamo, l’isolamento in cui siamo intrappolati vengono raccontate con liriche profonde, che quasi contrastano con il suo mondo fatto di perfetti mix sonori. Pezzi quali
‘The Reven Refuses to Sing’ e ‘Harmony Korine’, Lazarus sono musicalmente e liricamente pezzi di altissima poesia e composizione musicale. Anima e talento tecnico si fondono per creare pura grazia, che, diciamoci la verità, oggigiorno è rara. A 50 anni è arrivato finalmente al successo meritato, senza anelarlo, senza pre-
giudicare e senza svendersi. Siamo certi che “4 ½”, questo il titolo del prossimo album, alzerà ancora il tiro per farci perdere in un ennesimo viaggio musicale senza precedenti.
Il suo nome è oramai parte del Metal, si trova nell’olimpo dei guitar hero, è l’axeman di Ozzy Osbourne e ha da poco inaugurato una carriera solista che sicuramente non farà altro che accrescere la sua fama. Di chi stiamo parlando? Ovviamente di Gus G., al secolo Kostas Karamitroudis, chitarrista di origine greca ma trapiantato negli Stati Uniti, che nel corso di questi ultimi dieci anni ha suonato con Mystic Prophecy, Nightrage, Arch Enemy e Dream Evil, ha avuto l’onore e l’onere di sostituire il leggendario Zakk Wylde nella band del Madman per eccellenza e ha da qualche tempo rilasciato i primi due album del suo solo-project. Metal Hammer ha parlato col guitar hero della sua storia e della sua musica, con un particolare accento sulla carriera solista in notevole ascesa. ‘I Am The Fire’, questo il titolo del primo full-length di Gus G., un titolo eloquente ed infuocato per un progetto nato quasi per caso: “Avevo diverse idee di canzoni che non potevano stare in un album dei Firewind” esordisce Gus “una volta radunate tutte queste bozze le ho stese assieme a differenti cantanti, come Mats Leven e Jeff Scott Soto. È stato quello il momento in cui ho capito che potevo realizzare un disco solista.” L’ispirazione, componente principale per qualsiasi musicista, quella scintilla da cui nasce tutto e che può venire da qualunque parte: “Tutto per me è ispirazione. Un film, un’altra canzone, il cielo, le stagioni, eventi che segnano la nostra vita quotidiana. Alcuni dei brani all’interno dell’album sono molto personali, parlando di amore, emozioni, progetti futuri e argomenti come questi. Credo che tutti ci basiamo su queste cose. Un pezzo nasce con una piccola idea oppure anche un riff e poi si espande. Nel caso del mio progetto solista ho registrato le prime demo in studio e le ho mandate ai diversi cantanti per svilupparle. Qualche volta una canzone nasce anche da un titolo, con un’idea specifica
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di quello che deve essere trasmesso attraverso il testo.” Gus G. è un uomo dalle mille risorse e dai mille progetti, quindi non deve esser stato facile trovare il tempo per dedicarsi interamente al proprio album: “Il songwriting è durato qualche mese ed ero in mezzo ai tour dei Firewind, quindi molto materiale l’ho scritto on the road. I riff di ‘My Will Be Done’ e ‘Eyes Wide Open’ sono saltati fuori sul tourbus o nel backstage durante il riscaldamento. Una volta a casa ho potuto dedicarmici completamente.” Per quanto riguarda i temi dei testi il chitarrista ha già parlato delle sue ispirazioni per le canzoni ma tiene a chiarire: “Per esempio in ‘Summer Days’ si parla dei ricordi dell’infanzia soprattutto durante la stagione estiva che suscita molte emozioni. ‘Eyes Wide Open’ tratta di morte e ‘I Am The Fire’ è su quel fuoco che tutti abbiamo dentro, quella forza che ci guida nella nostra vita.” In ‘I Am The Fire’ ci sono degli ospiti eccezionali come Mats Leven, Jeff Scott Soto, Tom Englund, David Ellefson, Billy Sheehan e molti altri. ‘I Am The Fire’ ha una particolarità per essere un album di un guitar hero, quella di non essere interamente strumentale, questo perché: “Non sono come la maggior parte dei chitarristi!” afferma Gus ridendo “Mi annoio facilmente con gli album strettamente chitarristici. Mi piace la chitarra inserita in una bella canzone. Nel mio album persino le tracce strumentali hanno parti e melodie, non sono solamente delle basi dove mi diletto con degli assoli.” Quest’anno esce invece ‘Brand New Revolution’, continuazione ideale del precedente: “Avevo i brani, per cui mi sono detto: “Perché no?”. A dire il vero, avevo lavorato a 5 o 6 brani insieme a Jacob Bunton poco dopo aver completato la lavorazione sul mio primo album solista e ad Ottobre 2014 abbiamo avuto i nostri primi show negli States. Subito dopo, il mio co-produttore Jay Ruston mi ha
suggerito di portare la band in uno studio di registrazione a Los Angeles e abbiamo registrato dal vivo alcune nuove demo insieme a Jacob. Ho passato 3 giorni in uno studio e ho registrato sei tracce. Abbiamo tenuto le parti di batteria e di basso e successivamente ho sovra inciso le chitarre. Il punto era che in quel momento avevo già la metà dell’album completata e registrata prima della fine del 2014. Sono tornato in Grecia e, un paio di mesi più tardi, ho registrato altre sei nuove tracce ed ecco qui il risultato.” L’axeman greco ha partecipato fino ad ora a diversi songwriting per altrettante band. La differenza fra scrivere un disco solista e uno di un gruppo è: “La grande libertà che si ha, non aver restrizioni o limiti. Si può creare un album di un qualsiasi genere, oppure di mille generi. All’interno ci possono essere chitarra acustica, ballad, elementi tecnici, tracce strumentali, inni al rock, canzoni adatte per la radio. Con i Firewind abbiamo il nostro sound e stile, quindi si deve stare entro quelle linee. Dopotutto siamo diventati famosi con queste particolarità, dunque non dobbiamo stravolgere la nostra musica. Mi piace comunque inserire dei nuovi elementi anche nei Firewind, anche se non ho tutta la libertà che posso permettermi nel progetto solista.” Da questi argomenti recenti si torna in-
dietro nel tempo, quando Gus non era ancora un personaggio affermato della scena musicale internazionale: “Ho avuto sicuramente i miei brutti momenti, dove ho avvertito una grande frustrazione. La gente pensa che quando hai raggiunto un livello di notorietà alto sia più facile. In realtà non è così. Il music business è duro e spietato per tutti. C’è molta, troppa competizione in questi giorni. Senza dubbio non ho mai avuto il desiderio di mollare per due motivi: primo perché non sono uno che si dà per vinto facilmente e secondo non avrei saputo cos’altro fare. Suonare la chitarra è tutto quello che ho.” Ad aiutarlo nei momenti difficili ci sono senza dubbio stati i suoi idoli e la musica: “Amo l’hard
Fuoco e Rivoluzione di Stefano Giorgianni e Arianna G.
rock ed il rock classico, l’heavy metal e tutti questi generi. Inoltre qualcosa di pop, il new age, il blues fanno parte della mia cultura. La buona musica è buona musica in qualsiasi caso. Per i chitarristi direi che se qualcuno mi sente suonare si accorgerebbe che il mio stile viene da Yngwie Malmsteen, Tony Iommi, Paul Gilbert, Gary Moore, Michael Schenker e Uli Jon Roth.” Ora un altro salto indietro nel tempo, nel momento in cui Gus ha sostenuto l’audizione per diventare il chitarrista di Ozzy: “Il provino si è tenuto a Los Angeles. Ho ricevuto una email dal management di Ozzy e ho imparato dieci canzoni prima di presentarmi. Ero molto nervoso” ricorda l’artista “ma una volta arrivato, ho conosciuto la
band e ripassato le canzoni un po’ di volte. Ero pronto. Poi Ozzy e Sharon sono venuti ed ho suonato sei canzoni davanti a loro. Ozzy si è voltato e mi ha detto: “Sei fottutamente grandioso”. Pochi minuti dopo si sono riuniti tutti in una stanza e sono tornati indietro chiedendomi se volevo unirmi alla band per uno show. È stato il giorno più bello della mia vita!” Grande ruolo quello che ricopre Gus ma che comporta anche una grossa responsabilità, posto che è stato di Randy Rhoads e Zakk Wylde: “È eccitante ed allo stesso tempo pesante. Sei lì, sopra ad un palco in uno stadio a suonare dei classici con cui sei cresciuto. Ho guardato quei leggendari video ed ora sembra impossibile esser il protagonista di quegli stessi pezzi! È pura euforia.” Gus è entrato nella band di Ozzy per l’album ‘Scream’ ed ha avuto un ruolo ben preciso: “Dovevo aggiungere par-
ti di chitarra ai brani scritti da Kevin Churko e Ozzy. Non hanno avuto un chitarrista per qualche tempo ed avevano bisogno di qualcuno che suonasse riff ed assoli. Nessun solo era stato ancora scritto. È stato un compito duro, ma visto e considerato credo di aver fatto un buon lavoro. Sono orgoglioso di esser stato parte di un album di Ozzy.” Durante la sua carriera il chitarrista ha suonato con Firewind, Dream Evil, Mystic Prophecy, Nightrage, che gli hanno regalato: “Esperienza e conoscenza. Suonare con tutte queste band da giovane mi ha reso più preparato sia come chitarrista che musicista.” Sul finale un pensiero sui nostrani Arthemis e sul passato tour: “Gli Arthemis sono stati grandiosi, mi piace moltissimo la band, i ragazzi suonano alla grande e sono sempre positivi! Conosco Andrea da molti anni, quando militava nei Power Quest. La band ha avuto modo di andare in tour con i Firewind e gli Angra. Ho portato con me gli Arthemis durante tutto il tour europeo nei primi
mesi di quest’anno e una cosa che mi ha veramente sorpreso è stata la loro etica del lavoro. Tutti loro si alzavano molto presto al mattino e ognuno di loro aveva il rispettivo lavoro di cui occuparsi. Nessuno si è dimostrato pigro, tutti quanti avevano la propria chiara visione di dove volevano essere e cosa volevano raggiungere. È una cosa così rara oggigiorno.” Per ultima cosa Gus lascia un consiglio ai ragazzi che vogliono intraprendere la sua stessa strada: “Devono aver fede in se stessi e nella loro musica, persino nei momenti peggiori, quando tutti gli altri membri lasciano, quando perdono soldi in concerti o quando l’etichetta li scarica. È tutto parte di questo mondo. La perseveranza è quello che ci vuole. E per piacere, siate gentili con tutta la gente con cui lavorate, dai compagni di gruppo al personale che vi segue, dai gestori dei club ai promoter, fino ai fans. Questo fa grande differenza. A nessuno piacciono gli stronzi, ma tutti apprezzano la gente gentile e con talento.”
Gus G. visto da Gus G, da qualche anno a questa parte prode braccio destro del Prince of Darkness Ozzy Osbourne, leader della GUS G band e della Power Metal band greca Firewind, rappresenta sicuramente una delle più grandi rivelazioni della chitarra Rock-Metal degli ultimi anni e non smette mai di sorprenderci.Fortemente influenzato dai grandi guitar heroes come Yngwie J. Malmsteen, Uli Jon Roth, Tony Iommi, George Lynch, Randy Rhoads, Gary Moore, Jake E. Lee, Gus è capace di creare un suo stile personale che affonda le proprie radici nel Classic Rock e nell’Heavy Metal portando sempre con sé le sonorità caratteristiche della sua cultura musicale nazionale di cui da sempre è orgoglioso. Scale, arpeggi eseguiti sia in alternate-picking, string-skipping nello stile di Paul Gilbert e solo in pochi casi con l’utilizzo dello sweep-picking, un utilizzo della tecnica del legato molto energico e caratteristico, un forte senso ritmico anche nelle progressioni soliste, ritmiche esplosive, granitiche e melodia a non finire rappresentano il vero punto di forza del Greek warrior che sa creare progressioni musicali sempre interessanti, senza mai annoiare l’ascoltatore. L’utilizzo della scala minore armonica e delle pentatoniche blues in maniera sempre travolgente e spaziando talvolta in altri generi musicali in maniera sapiente, cosa cha fa capire l’immensa cultura musicale del nostro Gus, il quale ha sempre lasciato le porte aperte a qualsiasi stile chitarristico o musicale, per rendere la sua musica ancora più fresca ed interessante.
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Metal Hammer vi porta nel regno del celebre chitarrista americano, diventato oramai una star del Sol Levante! Marty Friedman è a pieno titolo uno degli emblemi della sei corde, un simbolo per tutti i metallers che amano la chitarra. Dagli indimenticabili Cacophony con Jason Becker, alla militanza nei Megadeth, tutti hanno potuto apprezzare il suo stile raffinato ed i suoi assoli al fulmicotone. Qualche tempo fa è uscito il suo ultimo album ‘Inferno’, che l’ha portato a ripresentarsi di fronte ai suoi fans occidentali più in forma che mai. Metal Hammer ha parlato con quello che è oggi l’uomo dei due mondi, fra le sue origini statunitensi e il suo paese d’adozione, il Giappone, concentrandosi sulla creazione di ‘Inferno’ e sull’influenza nipponica sulla sua arte. Marty ci accoglie cordialmente, con la tipica pace che si confà all’uomo orientale, ed esordisce: “Sono contento di essere qui e parlare con voi di Metal Hammer Italia. Lo scorso anno ho svolto nel vostro paese un clinic tour con Andrea Martongelli ed è stato fantastico! La gente è stata eccezionale e mi sono divertito un mondo!” Si inizia subito con il concetto che sta dietro alla sua recente fatica: “L’idea di creare un album come ‘Inferno’ viene sia da me che dall’etichetta, Prosthetic Records, che ha pubblicato cinque dei miei album che precedentemente erano stati rilasciati solamente in Giappone. Il punto fondamentale era farmi tornare in posti che non ascoltavano e incontravano la mia musica da tanto tempo, poiché sono stato in Giappone per molto tempo svolgendo diverse attività nel luogo. L’etichetta è stata subito entusiasta del mio pensiero, di ritornare in mercati da tempo non battuti. Questo è il concetto fondamentale dietro ‘Inferno’.” Ascoltando il disco ci si accorge che il chitarrista ha voluto strutturarlo in maniera diversa e difatti
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afferma: “Sapevo che ‘Inferno’ doveva avere un approccio più internazionale, in quanto la maggior parte dei miei album precedenti si basavano molto sul Giappone ed erano indirizzati al pubblico giapponese. Avevo dunque bisogno di qualcosa dal respiro più ampio. Ho pensato ‘cosa voleva sentire il mondo da Marty Friedman e dal suo nuovo disco’, che tipo di suono, che tipo di musica, che tipo di emozioni. Ho cercato quindi di dare un sound molto aggressivo all’album, cercando sempre di essere me stesso. Questo è tutto ciò che ho fatto.” Poi ci si sposta sul songwriting e sulle libertà che Marty ha sentito di potersi prendere in questo caso: “Sul processo di scrittura delle parti strumentali, devo dire che è funzionato in maniera diversa rispetto al solito. Questo perché ci sono sia pezzi strumentali che cantati. Quando crei un album totalmente strumentale devi saper mantenere l’attenzione dell’ascoltatore alta; in questo caso, invece, avendo dei brani cantati e dei testi mi sono espresso ancor più liberamente nelle parti strumentali.” Ma non è stato così facile giungere al prodotto finale, perché: “Ho fatto un sacco di demo prima di arrivare al risultato finale. Il processo di songwriting è stato molto lungo quindi, circa sedici mesi.” Dettaglio che balza subito all’occhio del disco è il titolo, minaccioso ma ragionata: “Per q u a n t o riguarda il titolo, volevo un album che suonasse molto heavy metal già dall’inizio. Quando senti la parola ‘inferno’ sai che ti troverai di fronte ad un album così.
di Stefano Giorgianni
Però ho tentato anche di esser raffinato nel concetto. Basta guardare la copertina, dove ho scelto il fumo, invece delle fiamme e dei teschi.” Un album con molti ospiti presenti, che Marty confessa: “Alcuni sono miei amici, come Danko Jones o Keshav Dhar, altri invece li ho incontrati apposta, come Jørgen Munkeby degli Shining. La casa discografica mi ha poi informato che molta gente voleva collaborare con me e che molti avevano gran stima del mio lavoro, soprattutto per quanti riguarda i media occidentali, che non seguivo da tempo. È stata una grossa sorpresa scoprire che così tanta gente è stata influenzata da me e ho voluto incontrare alcuni di questi artisti per creare della buona musica assieme. Da questo ho scelto molti ospiti dell’album.” Una delle tracce più interessanti è sicuramente ‘Horrors’ con il mitico Jason Becker: “Ho lavorato con Jason in una maniera veramente speciale. Il suo docu-film ‘Not Dead Yet’ aveva una scena durante la quale si vedeva che stava lavorando su un pezzo e mi è piaciuto un sacco. Ho quindi chiamato Jason, gli ho parlato e ci
siamo messi d’accordo sullo scrivere un brano assieme per il mio nuovo album. Questa canzone si può ritenere la versione definitiva dei Cacophony.” Fino ad ora l’artista ha sviscerato alcune caratteristiche di ‘Inferno’, ma secondo lui è: “il mio miglior disco. Questa opinione viene da ciò che ho imparato in Giappone: più passi il tempo a lavorare su una cosa, più il risultato sarà superiore. Sedici mesi per lavorare ad un album sono molti, ho avuto un lungo periodo da passare assieme alla mia musica e sono soddisfatto del risultato.” Da anni Marty vive in Giappone, decisione di trasferirsi nel paese del Sol Levante che è venuta anche dalla musica: “Ho avuto l’opportunità di scoprire l’intera musica giapponese, dal rock al pop, venendo in tour con i Megadeth e coi Cacophony. I giapponesi passano molto tempo ad ascoltare la loro musica, quindi, ovunque tu vada, ti entra nelle orecchie melodia nipponica. L’ho trovato interessante e piacevole, fino al punto che ho voluto entrare nell’ambiente musicale giapponese ed è stata una scelta quasi automatica il venire qui in
Giappone.” Uno degli stili musicali nipponici preferiti del chitarrista è l’enka, del quale dichiara: “Enka è un tipo di musica giapponese, non pop o rock; si tratta più di folk. L’avevo già sentita alle Hawaii, quando vivevo là e l’ho trovata sin da subito interessante da includere nelle mie composizioni. Ciò che mi ha affascinato maggiormente sono state le voci enka, una bellissima interpretazione della melodia, e ho pensato che se avessi potuto adoperare quello stile, avrei potuto avere una nuova forma di linguaggio chitarristico. Già da ragazzino analizzavo le voci enka e le trascrivevo per chitarra, quindi l’influenza è stata abbastanza precoce.” Vista questa sua particolare passione per il paese orientale, gli chiediamo qual è secondo lui la differenza fra Oriente e Occidente: “Sono totalmente differenti nella visione, soprattutto per quella musicale. Tutto è diverso, dalla lingua all’approccio alla vita, è un mondo completamente diverso. Stare in Giappone mi ha consentito di cambiare e di crescere in maniera positiva. Sono ancora un musicista metal nel cuore, lo si capisce
da ‘Inferno’, ma qui sono diventato una persona ed un compositore più ricco, semplicemente un artista migliore.” Quindi, è più difficile imparare il linguaggio della chitarra o la lingua giapponese?: “Questo è un bellissimo quesito! Direi che è esattamente la stessa cosa, dipende da quanto bravo uno vuole diventare. Credo che, visto il tempo che ho passato a parlare i due linguaggi, sono un po’ più abile con la chitarra, ma anche col giapponese me la cavo bene. Il tutto è basato sull’esperienza che si ha in relazione a ciò che si vuole imparare.” Dopo tutta questa discussione sul Giappone, ci domandiamo se l’ultimo album, che sembra così distante per concezione dai precedenti, ne preservi qualche influenza: “Difficile trovare un’influenza giapponese diretta in ‘Inferno’. Se si guarda al video di ‘Undertow’ ci si accorge che qualcosa relativo al Giappone c’è ed anche per quello della canzone ‘Inferno’. Forse potrei dire che c’è più ispirazione nipponica nei video che nella musica.”
Marty Friedman visto da Il suo estro artistico-musicale lo precede; un senso melodico innato, una visione della musica a 360°, la capacità di immergersi in qualsiasi stile musicale senza alcun timore di essere etichettato, giudicato e la voglia costante di creare musica senza tempo. Tutto questo è Marty Friedman, che dal suo primo album solista “Dragon’s Kiss” al piú recente “Inferno” , passando attraverso band come Hawaii, Cacophony, Megadeth e molte altre collaborazioni è stato capace di farci sognare, aprire la mente a nuovi stili musicali portandoli sulla sei-corde con assoluta naturalezza, disinvoltura. La sua tecnica insolita della mano destra, l’utilizzo del plettro combinato alle dita, i suoi bending personalissimi sono ancora oggi per tutti i chitarristi oggetto di studio e proprio per questo Marty Friedman merita un posto nel grande Olimpo della Chitarra Moderna.
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l a t e M y v Hea w a L e h T Is
Ph. Giovanni Salerno
di Stefano Giorgianni
Mastermind degli Arthemis e responsabile nazionale chitarra del Modern music institute. Faccia a faccia con uno dei maggiori esponenti italici della sei corde! Dalla profonda provincia veronese Andrea Martongelli è arrivato a calcare i palchi più importanti di tutta Europa e del mondo, suonando con i maggiori esponenti della sei corde, incidendo otto album da studio ed un live con gli Arthemis, diventando il responsabile nazionale chitarra per una scuole musicali più di successo in Italia, il Modern Music Institute, rappresentando importantissimi marchi e plasmando una sua chitarra signature che rispecchia la sua personalità. Un ninja del Metal, una persona che lavora molto ed in silenzio al servizio dello strumento e della musica. Abbiamo parlato con Andrea dell’inizio della sua carriera, delle influenze e del futuro in una chiacchierata a tutto tondo. Si parte con la prima volta che ha incontrato quella che è professionalmente la compagna della sua vita, la chitarra: “Ho iniziato alle scuole medie, dopo aver visto un mio amico che già suonava da quando aveva sei anni” così esordisce l’artista “con una chitarra classica super economica per vedere
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se questa sarebbe diventata realmente la mia passione. Da quando l’ho avuta non l’ho abbandonata per un attimo, tutto il giorno era dedicato allo strumento, ignorando tutto il resto, suonando pezzi dei Metallica e di musica classica, formando gli Arthemis proprio in quel periodo. È diventata parte della mia vita e il processo è continuato in maniera naturale.” Nella vita di ciascun appassionato di musica c’è un album che si può considerare il passo fondamentale per l’evoluzione: “Ai tempi della prima media con ‘Kill ‘Em All’, il vero disco del cambiamento, una botta micidiale; quest’album era il regalo di un mio compagno di skateboard, altra mia passione in quel periodo che poi ho abbandonato per dedicarmi completamente alla musica.” Si passa quindi ai primi esercizi: “Durante i primi tempi mi esercitavo molto sui brani classici per chitarra, continuando parallelamente il discorso Metal. Sono andato a lezione da moltissimi insegnanti, non solo per ap-
prendere diverse tecniche, ma soprattutto per assorbire un’influenza globale sui vari metodi. Avevo le idee chiare su ciò che volevo.” Poi avviene l’entrata di un personaggio fondamentale: “Quando avevo 19 anni ho incontrato per sbaglio, veramente, Alex Stornello. Ero andato col batterista degli Arthemis dell’epoca che si voleva iscrivere ad una scuola di batteria e l’insegnante di chitarra era Alex. Quando l’ho visto insegnare ho pensato subito che ci fosse qualcosa di speciale. Io mi ero già presentato al primo incontro col debut album degli Arthemis, ‘Church of the Holy Ghost’, e lui rimase stupito per quello che avevo fatto; tra l’altro il registrare in analogico non ti permetteva errori. Ancora adesso, una volta l’anno, vado a lezione da lui per aggiornarmi su metodi di insegnamento e per rinfrescare certe cose.” Ogni musicista ha poi le sue ispirazioni, qui gruppi che ne influenzano inevitabilmente lo stile: “Agli inizi, tralasciando i Metallica, c’erano Megadeth, Sepultura, Anthrax, Morbid Angel, molte band che hanno dato quel tocco oscuro che amo. Il Metal poi è un genere talmente vario che è difficile
da esplorare interamente e nella maggior parte dei casi ogni gruppo porta qualcosa di diverso, di distinguibile” poi aggiunge “oltre al Metal, il pop anni ‘80, come Michael Jackson o i Level 42, parlando sempre di musica suonata, non creata a tavolino. Guardavo ad esempio Mark King e la sua tecnica di slap, le note che adoperava nei pezzi. Come poi non nominare la musica classica, il blues, Gary Moore, Stevie Ray Vaughan, ZZ Top. Tutti questi ascolti mi hanno portato a personalizzare il mio stile, mescolando talvolta blues e classica, non in maniera forzata, ma naturale.” L’incontro con Stornello ha portato Andrea a muoversi verso altri generi, precedentemente non presi in considerazione: “Prima di incontrare Alex non consideravo moltissimo il jazz, tranne musicisti come Django Reinhardt, il cui stile non parevo nemmeno jazzistico da quant’era particolare. Cercavo sempre di prendere il meglio da tutto ciò che ascoltavo. Con Alex il mio approccio si è ampliato in maniera incredibile, capivo quello che facevo, capivo dove applicare le mie conoscenze. Suonavo di notte, dormivo con la musica accesa. Mi stupisco ancora che i
miei genitori me l’abbiano lasciato fare, era una vita da disadattato.” Come lui, anche gli Arthemis hanno cambiato stile nel corso degli anni, se si pensa alla differenza tra ‘The Damned Ship’ e ‘Heroes’: “Certo, tutto dipende dalla macchina principale, cioè da me. La band ha seguito pari passo la mia evoluzione. Ad esempio in ‘Back From The Heat’ si sente moltissimo l’influenza dei Van Halen, perché in quel periodo ascoltavo quel gruppo in maniera ossessiva. Ogni disco è una fotografia dell’artista in quel periodo e questo accade anche negli Arthemis. Non rimpiango mai quello che è stato fatto, perché quell’album se è venuto così c’era un motivo, punto e basta. ‘Black Society’ è stato invece il punto di svolta del gruppo, dava inizio a una sterzata sonora. È anche un ritorno in realtà, un ritorno alle radici thrash. Una volta si ascoltavano prevalentemente gruppi thrash, da Sacred Reich a Metal Church, Forbidden, Testament.” Negli anni Andrea ha rappresentato diversi marchi relativi alla chitarra, ma la collaborazione con la Dean è probabilmente la più speciale, nata in maniera
quasi casuale: “Ero in tour con i Power Quest, di supporto agli Helloween, al Koko Club di Londra, tra il pubblico c’era l’artist manager della Dean Guitar UK e ci ha lasciato il biglietto da visita invitandoci a provare delle chitarre. Da lì la collaborazione è venuta spontanea. La forma del modello Cadillac è quella che ho adottato per la mia signature, la Screaming Ninja, e la sento ancora oggi come prolungamento del mio corpo. Dopo molti tour in Euro-
qualcosa di buono l’abbiamo fatto.” Ora è la volta della Doomsday, seconda nata nella collaborazione fra Martongelli e Dean: “La nuova signature cambia nel colore, da nero si è passati al bianco, il manico è leggermente più sottile. Qualche dettaglio che si sente quando si provano le due chitarre.” Andrea poi aggiunge: “Gli altri marchi che rappresento, Randall, EMG, Zoom, Elixir Strings sono, assieme a Dean, il mio sound, quello che esce sono proprio io.” A
Ph. Annalisa Russo
pa e Giappone, la Dean ha scelto di premiarmi come ambasciatore della Dean Cadillac, che esiste dagli anni 70 ma che non era mai stata portata così in visibilità. Sono venuto a sapere due settimane fa che Elliott Rubinson, CEO del marchio, ha, assieme a quella di Mustaine e di Dimebag, il nuovo modello della mia signature, la Doomsday Cadillac, nel suo studio. Abbiamo studiato per un anno con la Dean e la Gold Music le caratteristiche del prodotto, dalle specifiche tecniche al prezzo accessibile, dopo qualche prototipo siamo arrivati a ciò che vedete oggi. Il modello sta andando bene, il che significa che
un anno dall’uscita di ‘Spiral Motion’, il suo primo album solista, si tirano le somme: “È andato benissimo. Il disco è stato promosso in tour assieme a Marty Friedman, Guthrie Govan, Ola Englund, ho avuto la possibilità di promuoverlo come altri in Italia non avrebbero mai fatto. Sono talmente soddisfatto che sento di voler registrarne un altro.” E qui ci dà una succosa anticipazione: “Lo registrerò probabilmente durante il 2016 e potrebbe uscire verso fine anno. Le idee non mi mancano, ho già pronti due brani, che ho composto in un paio d’ore. Tutto anche grazie ai buoni stimoli che ho, dai miei allievi alla mia
band. Non mi fermo mai di comporre e preferisco scrivere continuamente e dover scegliere, piuttosto di perder tempo.” La vita del musicista, si sa, è piena di soddisfazioni, ma anche di sacrifici, per cui: “Prima di tutto non bisogna star lì ad aspettare che le cose accadano. Io non sto sul divano ad aspettare che mi chiamino. Poi molti abbandonano perché non è scontato che tutti siano disposti ad enormi sforzi, a stare mesi lontano dalle famiglie, sopportare tour estenuanti. Ho visto gente voler abbandonare i tour dopo una settimana. Ci vuole spirito d’avventura, io sono un animale da tour. Il mio carattere è così, non è detto che sia un bene, però aiuta.” E per finire un ciò che dà Andrea ai suoi allievi dell’istituto: “Quello che diamo loro è l’entusiasmo, la capacità di stupirsi della musica, di ascoltare dischi di un certo tipo. Dagli ascolti si capisce immediatamente da cosa l’allievo è affascinato. Non li creiamo con lo stampino, non li educhiamo a suonare metal, o solo quello, ma a suonare bene. La chitarra può suonarla a tutte le età. Dove trovi una figata simile?”
La Screaming Ninja Costruita ad immagine di Andrea Martongelli la Screaming Ninja prende forma dal modello Dean Cadillac. La sei corde ha struttura set-neck, il corpo e il manico sono in mogano, mentre la tastiera è in palissandro. Scala 24,75’’, intarsi blocks in madreperla. Sul dodicesimo tasto si ha la stella che fa parte del logo degli Arthemis. I pickup, humbucker, sono formati dalla micidiale coppia EMG 81-85!
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di Stefano Giorgianni
Emblema della sei corde in Italia ed in Europa, Alex Stornello ha coniato nuovi metodi per creare ed insegnare la musica, quella ‘sana’! Ecco a voi le parole del Maestro sul JAZZ METAL! Alex Stornello è un personaggio leggendario per quanto concerne la sei corde. Fondatore e presidente del Modern Music Institute, la scuola di musica che sta producendo un’enorme quantità di talenti specialmente in relazione al Metal in Italia e nel mondo, ha insegnato in alcuni dei più importanti istituti mondiali e ha rivoluzionato l’approccio chitarristico plasmando quello che ad oggi si può identificare come jazz-metal. Metal Hammer l’ha incontrato al Winter Shred Camp, evento dedicato alla chitarra tenutosi presso la sede centrale MMI di Verona con ospite principale Francesco Artusato (All Shall Perish, Devil You Know, The Francesco Artusato Project)
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per parlare della sua storia, del suo rapporto col Metal e della sua idea di musica. Accogliendoci con la cordialità che contraddistingue il personaggio si parla immediatamente della manifestazione in svolgimento: “La giornata è una delle ennesime giornate che mi aiuta a ribadire cos’è l’MMI. L’istituto nasce per mia volontà, dalla mis trentennale carriera di insegnante, svolta sempre con enorme passione, durante la quale ho cresciuto tanti ragazzi dedicati al Metal, insegnando loro cose per nulla legate a questo genere, come il jazz-fusion. Queste giornate servono ad avvicinare gli studenti, avendo un esempio reale di quello che è MMI. Molte
scuole paventano la preparazione, malloppi di carte, ma nei fatti non mi risulta di vedere molti nomi noti cresciuti alla corte di quelle scuole. Alcune vivono ancora di rendita con i miei ex-allievi, uno di questi è Raffaello Indri (Frankenstein Rooster ed Elvenking, ndr.),” - sottolinea Alex - “questi eventi servono dunque a dimostrare con i fatti cosa si può diventare all’MMI, il passare da allievi ad insegnanti con impegno e dedizione. Motivo per il quale io in queste occasioni sfuggo dal suonare, per evitare quell’atteggiamento da padrino che non fa parte di me.” Il Modern Music Institute è spesso etichettato come scuola che produce
musicisti espressamente indirizzati alla nostra musica e Alex rimarca: “Non mi dispiace se qualcuno definisce l’MMI una ‘scuola di Metal’, ne sono orgoglioso. Quello che voglio far capire è che il Metal è una musica sana, uno dei generi più colti. È molto difficile trovare al giorno d’oggi un jazzista che sappia suonare metal, molto più facile è trovare un metallaro che sappia fare jazz.” Si passa dunque a parlare del rapporto col Metal del maestro: “Io, come tutti quelli della mia generazione, sono cresciuto folgorato da Van Halen. A 13 anni ero stato battezzato dalle prime opere di questo chitarrista. Da allora si è sviluppato un profondo amore
verso le tecniche, verso la forma espressiva; parallelamente studiavo comunque jazz e chitarra classica. Da quel momento in poi ho sempre ascoltato tutto, dai Venom a Charlie Parker, ora vado dai Meshuggah a Frank Gambale. Non ho vie di mezzo e non mi piacciono gli stili di fusione un po’ annacquati. Ad esempio quello che non consideravo un connubio estremo del Metal era Yngwie Malmsteen, quando uscì tutti imitavano quello stile; io trascrivevo Rossini e mi divertivo a fare il metallaro neoclassico. Poi i miei ascolti sono andati sempre più verso l’ibrido. Scoprii Allan Holdsworth, perché citato da Van Halen, e il contatto con la fusion divenne sempre più prepotente.” Poi si va un po’ più in profondità, con alcune delle band che anno influenzato lo stile: “Mi vergogno un po’ a dirlo, per lo sviluppo che ha avuto, ma devo dire che Vinnie Vincent in quel periodo aveva qualcosa di particolare. In quel periodo però ascoltavo di tutto, dai Mercyful Fate ai King Diamond, Warrant, Anvil, Tygers of Pan Tang, Tank, tutto il NWOBHM. Poi sono arrivati i Metallica. Ho visto la copertina col martello e il sangue sono impazzito. Anche i vari live degli Scorpions o quelli dei Black Sabbath con Dio. E come non annoverare ‘On Parole’ dei Motörhead e così via...” Da riconosciuto musicista jazz e da amante del genere, Alex analizza il rapporto che c’è fra questi generi: “Se dobbi-
amo andare a vedere la cultura che è dietro i generi, sicuramente si guardano in faccia, pur essendo diversi. Il jazz è legato all’improvvisazione, il metal è meno improvvisato” esordisce sull’argomento, continuando: “Ci sono tanti motivi per allontanare quanto per avvicinare i generi,
soprattutto perché il metal si presta a tradurre dei linguaggi facendoli propri. Quando ho iniziato a sperimentare il jazz metal, con i miei insegnamenti a Londra, ho preso gli assoli di Coltrane e li ho adattati alla chitarra distorta. Era un nuovo approccio, che non mi ha dato però alcuna difficoltà. Il Metal è quel genere che permette di tradurre tutto. Ci
sono alcune band oggi, fra cui i Meshuggah, che hanno una testa jazz e la applicano al metal. Questo perché il pensare da jazzista si indirizza verso l’esprimere un messaggio nuovo, vivo. Solo qui in Italia il jazz viene concepito come jazz classico, in realtà in jazz è novità e ricerca. Quindi è solo ignoranza il non rispettare
il Metal come genere colto, essendo probabilmente l’unico in grado di accogliere ed adottare altri generi, facendoli propri.” L’MMI ha oramai migliaia di allievi e ogni mese se ne presentano di nuovi. È importante far partire i ragazzi col piede giusto, raccomandandogli che: “Prima di tutto bisogna sapere fare musica. Il mio compito è
anche quello di fargli ascoltare cosa lui non conosce” sottolinea Alex “Ma talvolta accade anche il contrario, sono loro a portarmi dischi di band che non conoscevo. Didatticamente gli insegno ad essere un musicista. Poi c’è la specializzazione: rock-metal o jazz. È necessario quindi far capire ai ragazzi che bisogna esser prima di tutto musicisti preparati e poi concentrarsi in ciò che si vuol fare. Come presidente sicuramente io devo rispettare i generi e soprattutto non avere confini, perché porsi dei confini è avere dei limiti.” Alex è anche un compositore instancabile e alla base dei suoi pezzi stanno: “Il jazz ‘sano’ e il rock-metal ‘sano’. Per quello mi ritengo un chitarrista jazz-metal come impostazione. Gli altri generi hanno comunque dei canoni oltre i quali ogni forma di commistione, di fusione, può diventare pericolosa. Il funk ad esempio è difficile da mischiare con altri approcci, anche se ci sono stati dei buoni esperimenti. La parola ‘sano’ che ho usato prima significa ‘aver rispetto del talento’.” Molti hanno apprezzato l’esperimento degli Angels&Demons con Giorgio ‘JT’ Terenziani e Paolo Caridi, del quale Stornello anticipa: “Probabilmente tornerà, ma non sappiamo quali saranno le tempistiche. Ho comunque già molti brani pronti.” Una nuova fatica discografica all’orizzonte per il maestro, che per finire racconta: “Ho ripreso qualcosa che avevo già fatto e ho chiesto ad alcuni dei miei allievi di contribuire. È quindi un aggiornamento del lavoro che era già iniziato. Promozione dell’idea: ‘Metallari sì, ma con gli attributi’!”
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Ola Englund è attualmente uno dei chitarristi più importanti del panorama europeo. Ascia dei famigerati The Haunted, le cui gesta si narrano sin dalla metà degli anni Novanta, e dei Six Feet Under, è anche fondatore di un’altra band di tutto rispetto, i Feared. Qualche tempo fa abbiamo incontrato il biondo gigante svedese per scambiare due chiacchiere su questo suo gruppo e sulla sua carriera. Si inizia subito a parlare dei Feared e del loro particolare genere, difficilmente inquadrabile: “Descriverei i Feared come una band death metal che non suona la classica variante swedish. Credo anche che nel corso degli anni abbiamo sviluppato un sound più oscuro e sempre più verso il death, sicuramente grazie a Kevin Talley ed al suo drumming. Ma credo che ciò che rende i Feared speciali sia il fatto che concepiamo tutto all’interno del metal. Non guardo molto ai sottogeneri. Per me il metal è il metal.” Affermazione decisa quella di Englund che torna un po’ indietro nel tempo: “I Feared nacquero in un modo abbastanza bizzarro. Non mi sentivo bene ed ero stanco della band in cui ero in quel momento, stavamo sgobbando da un bel po’ senza che nulla accadesse. Sciogliemmo il gruppo ed io fondai questa mia band con l’intenzione di fare tutto da me stesso. Avevo completo
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controllo sulla musica, sul come dovesse esser presentata, ecc.. Basilarmente era uno sfogo per ciò che mi piace della musica in essere. Diventai amico di un ragazzo brasiliano a Stoccolma di nome Mario. Sentii Mario cantare in un progetto e rimasi di stucco, era il più brutale growler di sempre! Quindi decisi che dovevo portarlo nel mio progetto.” Nonostante Ola sia uno scandinavo puro, le sue influenze spaziano: “dal metal americano degli anni ‘90, come Pantera, Testament, Machine Head, ecc. Penso che si mostrino nei Feared tutte le influenze che abbiamo, ed è per questo che probabilmente non siamo la tipica Swedish Death Metal band.” A causa della mistura di generi proposta dalla sua band, spesso si sente l’accostamento al Modern Metal, ma: “Credo che i Feared siano molto più anni 90 con un sound modern” afferma Englund “Quindi personalmente non ci considero in questa maniera, m a questa è solo l a mia
opinione. Altri possono dire che siamo anche djent.” Però allo stesso tempo: “Il modern Metal sta crescendo, con esso sfortunatamente vediamo un sacco di ripetizioni di ciò che è già stato fatto prima. Con la facilità con cui si è giunti all’home-recording e alla produzione siamo arrivati a sentire tante band che suonano tutte alla stessa maniera. La scena è più che satura di band. Ma qua e là capita di trovare gruppi che sono semplicemente fantastici, ragazzini con ambizione e sentimento che appartengono ad un altro livello. Ho scoperto un sacco di nuova, splendida musica, con questo mercato saturo.” Rimanendo sul tema dell’autoproduzione, scelta sostenuta con coscienza dai Feared: “Prima di tutto credo che se l’etichetta giusta si facesse avanti, firmeremmo un contratto. Ma da quel che ho sentito sin da “Furor”, ho scelto di continuare come abbiamo sempre fatto. Pubblicare da soli ed avere lo spazio di fare ciò che vogliamo. Noi possediamo i master e ci teniamo la fetta più grande. Mi prendo cura di tutto
da solo: marketing, siti web, facebook, stampa, spedizione. È estremamente soddisfacente far parte di tutto il processo, dallo scrivere la musica fino allo spedire il disco all’acquirente. Il processo è lungo ma senza dubbio mi ripaga mentalmente. Abbiamo sicuramente i migliori fans e ci vogliono vedere continuare nella maniera in cui abbiamo sempre fatto.” Parlando di chitarra Ola Englund è ora visto come un guitar hero, viste anche le molte clinics che svolge in giro per il mond. Il termine però gli sta un po’ stretto: “Possono chiamarmi come vogliono, ma mi considero più come un songwriter/produttore rispetto a un chitarrista. Amo la chitarra, ma non aspiro a diventare il miglior chitarrista del mondo o il più tecnico. C’è molto di più nella musica che mostrare abilità tecnica. Usare più note al secondo è facile, usarne meno e far scaturire emozioni è difficile. Credo sia questione di maturità; quando avevo vent’anni e suonavo gli spartiti di John Petrucci lo facevo per com’erano imponenti. Ora rimango maggiormente colpito dalle emozioni. Da come si può far cantare una nota. Mi sono stancato dei pezzi impegnati.”
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tf h in o at W e D di Stefano Giorgianni
C’è stato un tempo in cui gli dei camminavano in mezzo agli uomini. Le loro effigi tappezzavano i muri delle stanze dei numerosi seguaci che, ispirati dalle loro opere di infinita bellezza, offrivano in sacrificio anni e anni di assidua pratica con l’unico scopo di acquisire le capacità che avrebbero permesso loro di camminare a testa alta accanto ai loro idoli. Ma quando i prodigi dei comuni mortali superano di gran lunga quelli degli dei questi ultimi si confondono tra la folla, scompaiono in silenzio o con grande clamore, annichiliti dal tempo e dal progresso. Siamo nel 2015 e il tempo degli dei della chitarra è finito: questo è il tempo degli uomini straordinari e solo pochi nostalgici sono rimasti morbosamente attaccati alle icone di un tempo che fu. Ma tra gli uomini straordinari figurano ancora pochi, inossidabili dèi che noncuranti del passare del tempo e del susseguirsi frenetico delle tendenze continuano imperterriti a diffondere il loro verbo e ispirare stuoli di fedeli proseliti: “Sentirsi chiamare con certi appellativi è gratificante ma non credo proprio di essere un dio della chitarra” - questo il parere che Axel Rudi Pell condivide con Metal Hammer - “Sono semplicemente diverso dalla maggior parte dei chitarristi di oggi. Non mi interessa sfoggiare chissà quale grande capacità tecnica, ci sono moltissimi musicisti che sotto questo aspetto sono di gran lunga più avan-
ti di me, io penso solo alla melodia. Voglio condividere le mie melodie con il mondo, mi importa solo questo”. Il 15 gennaio 2016 verrà pubblicato “Game Of Sins”, il suo diciassettesimo album. “Sarà fantastico, incredibile, ne vado molto orgoglioso. Segue lo stile tipico degli album degli ARP, non c’è molta sperimentazione ma non manca qualche elemento che si distanzia un tantino dal passato”. In diversi album di Axel Rudi Pell si possono trovare delle rivisitazioni di brani storici, “Game Of Sins” non farà eccezione; ‘All Along The Watchtower’ è il classico scelto come bonus track alla fine dell’album: “Ho scelto questo pezzo perché lo adoro, adoro Hendrix e non è un mistero per nessuno! Volevo farlo da molto tempo ma per un capolavoro simile serve un arrangiamento all’altezza, bisognava fare tutto come si deve. Ho fatto mia questa canzone, gli ho dato questa apertura in stile ballad che scivola fino ai primi due versi per poi esplodere in un climax. Sono molto soddisfatto del risultato finale”. ‘Sons In The Night’, la terza traccia di ‘Game Of Sins’, è un tributo alla serie tv americana “Sons Of Anarchy”: “Sono un grande fan di quello show, non poteva non ispirarmi una canzone. Tra l’altro credo che il riff di ‘Sons In The Night’ sia il più bello che abbia mai composto”. Ma già in “Into The Storm” possiamo trovare segnali dell’influenza dei
Sons: “Nell’album del 2014 avevo inserito una cover di un famosissimo pezzo di Neil Young, ‘Hey Hey, My My’. Ne avevo sentito una versione fantastica nel finale della terza stagione di ‘Sons Of Anarchy’ e ho pensato che anche io avrei potuto ricavarne qualcosa di bello, e così è stato”. A questo punto viene spontaneo chiedere se il signor Pell abbia mai considerato l’idea di comporre qualche traccia per una serie televisiva o per un film. La risposta è scontata: “Mi piacerebbe tantissimo e ci ho provato ma purtroppo quello è un business molto elitario. Ogni volta che il mio agente ha provato a prendere i contatti con la gente del mestiere si sentiva rispondere che non mi conoscevano, non si fidavano, non si poteva correre il rischio. Peggio per loro, dico io”. Si cambia argomento, passando alla prima data degli Axel Rudi Pell in Italia da dieci anni a questa parte: “Sono molto emozionato all’idea di tornare in Italia dopo tutto questo tempo, anche perché Johnny Gioeli e Bobby Rondinelli sono di origini italiane, una fermata nel Bel Paese è d’obbligo. Purtroppo in passato il mio agente sconsigliava di cercare ingaggi italiani perché secondo lui non ho abbastanza seguito qui e non sarebbe valsa la pena di smuovere montagne per suonare davanti a qualche decina di persone. Il 17 settembre 2016 riuscirò a tornare e non vedo l’ora”.
Il discorso si fa poi generico e probabilmente troviamo in questa dichiarazione il segreto dell’indistruttibilità di Axel Rudi Pell, ciò che gli ha permesso di sopravvivere per più di trenta primavere musicali senza cadere sotto i sempre nuovi dettami dei trend della scena musicale internazionale: “Non ho alcun interesse nelle novità di questo business, non ascolto molta musica perché non ho tempo. Di solito accendo la radio in macchina e ascolto qualunque cosa passi che abbia un motivo trascinante, non sono strettamente vincolato al metal, riesco a godermi qualunque cosa, anche le hit pop. Se una cosa mi piace è così e basta”. Ma non è abbastanza. Qual è il trucco che mantiene il signor Pell così ispirato, da dove prende le sue idee, come fa dopo tutti questi anni a non soccombere sotto la scure del blocco d’autore? “Non lo so” - ammette candidamente - “Ho dentro una specie di fuoco che si accende quando vuole. Non sono il tipo di chitarrista che compone solo in determinati periodi, ho idee di continuo, è così che passo il mio tempo, annotando tutto quello che mi passa per la testa. Non mi fermo mai, è una cosa che non controllo”. Il suo è un dono e vuole condividerlo con tutti, lo ha detto anche all’inizio di questa intervista. Gli (e ci ) auguriamo che possa continuare a donarci grande musica ancora per molto tempo.
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di Alessandra Mazzarella
di Roberto Alfieri Il 2015 è stato un anno un po’ transitorio per il thrash metal. Nessuno, o quasi, dei grandi nomi ha dato alla l u c e un nuovo album. In questo caso è proprio quel ‘quasi’ a fare la differenza, visto che tra i BIG gli unici ad aver pubblicato un nuovo, controverso, disco sono stati gli Slayer. ‘Repentless’ è nato in una situazione complicatissima, con i fans divisi dopo la morte di Hanneman e l’abbandono di Lombardo. Araya e King, incuranti, come sempre, del chiacchiericcio dei forum, hanno dato alla luce un album che spazza via ogni dubbio sullo stato di salute della band e soprattutto zittisce tutti quelli che li davano per spacciati dopo la scomparsa di Jeff, un lavoro complicato da assimilare ma nero come la pece. Altro grande nome ad essersi affacciato sul mercato (ma qui stiamo già su un lievemente minore) è quello degli Annihilator, che ci regalano ‘Suicide society’, un disco che convince a metà e lascia l’amaro in bocca per tutta quella potenzialità inespressa. E come dimenticare gli immensi Venom, che tornano finalmente a picchiare duro e pubblicano il loro migliore album dai tempi di ‘Resurrection’? Il loro nuovo ‘From the
very depths’ ci riconsegna finalmente la band di Newcastle nel pieno del suo splendore, grazie a brani come ‘The death of rock ‘n’ roll’ e ‘Long haired punks’. Soltanto un EP, invece e purtroppo, per i seminali Nuclear Assault. Se questo è quello che dobbiamo aspettarci dal nuovo full length, ci sarà veramente da divertirsi… Se però volete davvero rifarvi le orecchie basta scavare un po’ nell’underground e scoprirete una serie di ottime band che quest’anno sono riuscite a pubblicare dischi più che dignitosi, che di sicuro riescono ad ergersi al di sopra della media. Parliamo per esempio degli svizzeri Expenzer e del loro esordio ‘Kill the conductor’, in pieno stile Testament; peccato solo per l’orribile copertina. Oppure dei canadesi Warsenal, anche loro all’esordio con l’ottimo ‘Barn burner’, dallo stile decisamente più tedesco, nel
quale fanno eco i Destruction di Schmier. Sempre dal Canada arrivano gli Alcoholator, un nome un programma, che grazie al loro thrash debitore di Exodus e Tankard riescono a convincerci fino in fondo. I Bloodrocuter, invece, vengono dal Belgio, e con il loro secondo album ci regalano un disco un po’ più violento dei precedenti, dove fanno capolino Assassin e Morbid Saint. Se i finlandesi Speedtrap deludono con un disco ancora troppo immaturo e confusionario, i loro connazionali Bonehunter ci deliziano con ‘Evil triumphs again’, un esordio che mescola alla perfezione i primi Sodom e i vecchi Bathory, il tutto con una micidiale attitudine punk. Ci spostiamo poco più in là nella vicina Norvegia per ascoltare ‘Evil power’, il terzo album in studio dei cattivissimi Deathhammer, anche loro come i compagni di etichetta Bonhunter devoti a Venom e Bathory. Decisamente deludenti, invece, i connazionali Forgery, che con il loro ‘With this fists’ annoiano alla grande grazie ad un sound troppo debitore di Testament e Machine Head. Poteva mai man-
care all’appello la Germania? Assolutamente no, ed ecco quindi arrivare i Nuclear Warfare, che sulle orme dei Tankard riescono a comporre il loro piccolo inno, quella ‘Just fucking thrash’ che vi si ficcherà prepotentemente nella testa e non ne uscirà più. In ambito thrashcore, invece, è sicuramente da segnalare l’esordio degli americani Cross Examination, che sulle orme dei vari S.O.D., D.R.I., e compagnia picchiante confezionano un disco davvero niente male. E in casa nostra? Si fanno senz’altro notare gli Ultra-Violence, ormai una realtà consolidata, e i lucchesi Violentor, anche se il livello è leggermente inferiore. Chiudiamo con un nome più noto e una chicca: quinto album in studio per gli inglesi Gama Bomb, sinceramente niente di così eclatante, e il nuovo disco della cult band brasiliana Korzus, più di trent’anni di carriera nell’ombra, e ‘Legion’, un platter micidiale che picchia come i migliori Kreator.
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di Beppe ‘Dopecity’ Caldarone Cari lettori e care lettrici, bentornati nel vostro circolo privato di dannazione ed oscurità che con il primo numero di gennaio da il benvenuto al nuovo anno sperando che esso sia pieno di suggestioni maligne almeno come il suo predecessore. Ma bando ai convenevoli, apriamo i cancelli ed entriamo nella notte, quella più oscura di tutte. Molti di voi, visto il periodo, avranno alzato lo sguardo al cielo alla ricerca della stella cometa o per guardare gli spettacoli pirotecnici che hanno salutato il nuovo anno.Avete per caso notato l’immensità dello spazio che sta sopra le nostre teste? Soprattutto, avete fatto caso al buio interstellare che, quasi minaccioso, sembra avvolgerci? No? Beh, qualcuno lo ha fatto per voi ed ha poi traslato in musica le riflessioni che sono derivate da tale osservazione. I Darkspace, ai quali dedico Circle of Burden di Gennaio, sono la trasposizione in note della paura del vuoto interstellare, dell’oscurità del cosmo, dell’isolamento al quale sembra essere destinato il genere umano. Essi sono, riassumendo, la paura dell’ignoto. Certo, molte altre band si sono dedicate a quello che comunemente viene definito Space Black Metal, ma nessuna, secondo me, lo ha fatto in modo così convincente e così dannatamente pauroso come il terzetto svizzero il quale ha dedicato tutta la propria ispirazione ed il suo suono allo spazio. La musica, l’immagine, i colori, le parole, le sensazioni, tutto nel mondo dei Darkspace punta alle
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stelle ed al nero che le avvolge. Quattro album, “I” “II” “III” “III I” (i primi due usciti per Haunter of the Dark Records e gli altri per la nostrana Avantgarde Music), di inumano Black metal in cui Zorgh, Zhaaral eWroth (quest’ultimo responsabile anche dei meravigliosi Paysage D’Hiver) danno sfogo alle loro visioni apocalittiche attraverso velocità folli, partiture Dark/Ambient alienanti e distanti, scream e voci, alle quali contribuiscono, ognuno con una marcata personalità, tutti e tre i componenti del progetto, che provengono direttamente dagli abissi spaziali e, soprattutto, un’attitudine ed una p re p a ra z ione sulla materia che hanno pochi paragoni in giro per il mondo. Quella dei Darkspace non è semplice musica. Le loro composizioni, infinite nella stressante durata, sono esperienze che trascendono il concetto e la forma canzone. Esse diventano un rituale, che i tre officiano imperturbabili anche con devastanti performance live, ai quali l’ascoltatore prende parte restandone spaventato, ossessionato ma, orribilmente, affascinato proprio come se si fosse perso nel cosmo e li vagasse nudo e solo. Non uno spiraglio di luce. Solo
nero. L’evoluzione del suono dei Darkspace è stata costante nel corso degli anni, vi ricordo che i bernesi hanno esordito nel 2002 con lo splendido demo “Dark Space –I”, ed ha portato i nostri a perfezionare il loro Black metal che è diventato sempre più matematico, sempre più asettico, sempre meno umano. “III” e “III I”, gli ultimi due album, vivono e muoiono su suoni freddi, su trame di chitarra semplici ma lancinanti, su ritmi robotizzati che schizzano alla velocità della luce e su sample che des c r i v o no il terrore di chi ha perso ogni speranza. “I” e “II” sono l’irruenza primigenia del metallo nero che si perde nel vuoto e non lascia respiro. Forse più ingenui dei loro successori, ma certamente irresistibili nella loro sprezzante furia iconoclasta e nel loro essere “oltre”. Tutti album che, comunque, hanno un solo comune denominatore: quello che è sopra le nostre teste e ciò che dietro di esso si cela, in agguato, pronto a divorarci. I Darkspace, dunque, non provengono da questo pianeta. Probabilmente sono approdati sulla terra dopo aver a lungo vagabondato nell’universo alla
ricerca del suo punto di origine, ammesso che ce ne sia mai stato uno, e ci hanno portato in dono le loro esperienze e le loro fobie. Certamente quella contenuta nei quattro album non è musica per tutti. Se non si è in sintonia con un suono così estremo e così spiazzante è facile cadere nella noia ed è facile, soprattutto, non capire il significato di quello che si ascolta. Ma, lo sottolineo, se si stabilisce la sintonia, se ci si allinea con le frequenze disturbate e disturbanti degli 0 e 1 dei Darkspace, si sprofonderà nel loro mondo, si viaggerà sulle loro coordinate interstellari e ci si perderà definitivamente nel vuoto. Si lascerà, dunque, il proprio corpo per viaggiare fuori da esso e, forse, per non farvi più ritorno. Credo che valga davvero la pena, se si ama la musica estrema, scoprire una band meravigliosa e, orgogliosamente, underground come i Darkspace, scoprirne il fascino ed ammirarne le geometrie sonore, soprattutto perché, in un panorama sovraffollato come quello dell’Ambient Black metal, è sempre più difficile scoprire artisti che hanno realmente qualcosa di interessante da dire. Adesso, cari lettori, spero di aver stuzzicato la vostra curiosità ed ingolosito il palato di chi si ciba di materia inorganica ed aliena e quindi, malinconico, vi do appuntamento alla prossima puntata del vostro, lo spero, circolo preferito e, sicuramente, più oscuro che ci sia. Mi raccomando: non smarritevi nel vuoto infinito lassù…
di Stefano Giorgianni Il Metal e il cinema hanno sempre avuto un rapporto, strano, ma l’hanno sempre avuto. Da pellicole in cui la nostra musica è protagonista, si citino ad esempio ‘This Is Spinal Tap’ (1984) e ‘Rock Star’ (2001, dove parte della band, gli Steel Dragon, era composta da personaggi a noi noti: Zakk Wylde, Jeff Pilson e Jason Bonham), passando per docufilm o concertfilm interpretati dai gruppi stessi, come ‘Metallica: Through The Never’ (2013) e ‘Iron Maiden: Flight 666’ (2009), o lungometraggi in cui alcuni dei nostri beniamini interpretano ruoli (‘Morte a 33 Giri’, 1986, con Gene Simmons e Ozzy Osbourne), fino a persona g g i prestati dal Metal a d Hollywood, e qui ci stiamo ovviamente riferendo a Rob Zombie ed alle sue creature di celluloide. Quelli appena nominati sono solamente degli esempi di come questo genere si sia intrecciato con la settima arte e, nel corso di questo
e dei prossimi numeri, vogliamo esplorarne le diverse sfaccettature. Questa volta vi proponiamo un film di recente realizzazione e che siamo sicuri possa soddisfare la vostra sete di...sangue. Stiamo parlando di ‘Deathgasm’, opera prima di Jason Lei Howden con protagonista Milo Cawthorne. I nomi vi diranno poco, a prima vista, vi basti sapere però che il regista è uno di quei geni della Weta Digital che hanno realizzato gli effetti speciali di pellicole come ‘Lo Hobbit’ di Peter Jackson e da ciò potete intuire quanto sangue possa scorrere, ben reso, nel suo lungometraggio. La storia ricorda e ricalca a grandi linee quella di ‘Tenacious D e il Destino del Rock’, solo che qui non c’è un plettro l e g gendario da recuperare, ma uno spartito (scritto da un stella in declino, idolo dei personaggi principali) capace di evocare un demone. I cliché e gli stereotipi ci sono tutti: il metallaro sfigato ed
emarginato a cui piace la ragazza più bella della scuola, che immancabilmente è fidanzata col fighetto insopportabile di turno. Brodie, questo il nome del protagonista, sembra viv e re negli a n n i ‘80-’90 p i ù che nei giorni nostri, e gli elementi per quest’ambientazione ci sarebbero (quasi) tutti...se non fosse per diversi rifermenti ai Trivium. Per il resto ci sono i vinili (non i cd), le magliette dei Death del mitico Chuck, il trucco alla Immortal, gli scantinati per sala prove dove tentare di concretizzare i sogni da rockstar. I personaggi principali, oltre a Brodie, sono costruiti con dovizia di particolari. C’è il migliore amico, Zakk (nome scelto probabilmente apposta per richiamare il berseker per eccellenza, ma che ricorda più Tom Araya, visto il ruolo di cantante/ bassista) incontrato per caso in un negozio di dischi, che diventerà a suo modo leader della band ed avrà un ruolo
chiave nell’intera vicenda; Medina, la ragazza, bionda spezzacuori (somigliante a una giovane Doro Pesch) che subirà la conversione al Metal grazie ad un disco prestatole da Brodie; gli altri componenti del gruppo sono, se possibile, più sfigati del protagonista e per questo ulteriormente (auto)ironici. Il film ha il suo punto di svolta quando Brodie e Zakk recuperano il malefico pezzo e lo suonano in sala prove; da quel momento il sangue comincia a scorrere a fiumi incontrollati, la gente si trasforma in zombie famelici e un demone sarà evocato con conseguenze inevitabili se non verrà fermato dal nostro intrepido eroe. Nella seconda parte del film, quella horror/ splatter (fra colpi di motosega, ascia e...pene di gomma), l’approccio scelto da Jason Lei Howden ricorda le celeberrime pellicole di Sam Raimi, un misto di brutale violenza e autoironia, con la voglia di prendersi anche un po’ in giro, da buon metallaro che si rispetti. Buon orgasmo mortale a tutti!
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BRIAN MAY E LA RED SPECIAL di Stefano Giorgianni
Nell’accostare una chitarra al suo proprietario si usa solitamente l’espressione ‘estensione del corpo’. Ci sono però casi diversi, dove l’intimità del rapporto strumento-suonatore oltrepassa tutte le barriere del significato. Dissimili sono le occasioni dove si può riscontrare la veridicità dell’ultima affermazione: talvolta gli strumenti vengono creati su misura dell’artista, in talune circostanze il legame strumento-persona è talmente potente e inscindibile che il primo prende il nome del secondo, ma c’è una situazione ancor
più particolare, nella quale è l’uomo a dar vita al proprio congegno d’espressione artistica. Quest’ultima è la combinazione che contraddistingue la relazione fra Brian May e la Red Special. Si sa, dare vita a delle opere d’arte è difficile, estenuante e la maggior parte delle volte è lo straordinario a prender vita autonomamente, arbitrariamente. Ebbene ci sono molteplici variabili che influiscono nella creazione di un qualcosa di memorabile, due di queste sono il genio ed il bisogno. Per quanto riguarda Brian May erano presenti entrambe. Sul genio del chitarrista dei Queen v’è poco da discutere, l’ha di-
mostrato nel corso della sua carriera e non (laureato con lode in Fisica e dottorato nel 2007 in Astrofisica), più v’è da concentrarsi sul ‘bisogno’. Oltre al
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non trascurabile costo di una chitarra elettrica negli anni ‘60, per May il vero significato di ‘bisogno’ risiedeva nel forgiare qualcosa di proprio, che riflettesse se stesso e lo restituisse al mondo come un catarifrangente del’io uomo e musicista, senza distorcerlo più del necessario. Dal genio e dal ‘bisogno’ nasce dunque la Red Special, lo strumento homemade più popolare nell’ambiente rock. Grazie al lavoro dell’attenta Tsunami edizioni viene proposto in lingua italiana (traduzione di Raffaella Rolla) il libro, scritto a quattro mani da Brian May e Simon Bradley, ‘La Red Special di Brian May’ (titolo originale ‘Brian May’s Red Special’), nel quale si possono scoprire tutte le fasi del processo che ha por-
nonostante i fans sfegatati dell’artista e dei Queen si saranno già accaparrati sia l’edizione inglese (del 2014) che questa italiana, possiamo senza alcun dubbio dire che questo testo è una vera miniera d’oro non solo per gli appassionati del celeberrimo chitarrista inglese, o del gruppo in cui ha militato, ma per tutti coloro che amano la chitarra e la musica in tutte le loro sfumature. Il percorso in cui May e Bradley ci accompagnano è cronologico, dai primi incontri del futuro fenomeno chitarristico con la musica fino all’indimenticabile esibizione alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi del 2012 sul tetto di Buckingham Palace. Impressionante è la quantità di immagini presenti all’interno del volume, a partire
tato alla realizzazione della sei corde mayiana ed assaporare alcuni curiosi aneddoti della storia, a tutti gli effetti d’amore, fra il musicista e la sua creatura. Non volendo rivelare troppi dettagli sulla pubblicazione,
da quelle d’epoca (dove si possono ammirare il giovane Brian e il suo primo strumento), passando per alcuni scatti con i Queen, arrivando a qualche istantanea assieme a Paul Rodgers, Adam Lambert e Kerry Ellis. Ma la
vera protagonista, anche della sezione fotografica, è lei, la Red Special. Passo a passo, pezzo per pezzo, con descrizioni che si potrebbero definire positivamente e deliziosamente maniacali, si avvicendano fotografie dei progetti originali, del corpo, del colore, del binding, del battipenna, dei pickup, dello switching system, del ponte, dei controlli, del truss rod, del manico, della tastiera, della paletta ed anche del delicato restauro che la Old Lady (altro nome della chitarra) ha dovuto subire nel 1998 a scopo di conservazione. Proprio in quest’occasione si sono potuti ricavare alcuni degli scatti più sorprendenti del libro, ovvero quelli delle radiografie. Delle istantanee ‘rivelatrici’, com’è scritto nel volume, che esibiscono particolari sino a quel momento inediti, come la serie di viti che tengono unite le due metà del corpo in listellare. Alcuni dei procedimenti descritti in ‘La Red Special di Brian May’ sono irresistibilmente affascinanti. Basti nominare il metodo con cui Brian ha ottenuto il caratteristico colore dello strumento: “Ero certo del colore
che avremmo scelto. Volevo fosse una specie di mogano che sembrasse naturale - un marrone rossiccio - dove il rosse risultasse un po’ più di una semplice verniciatura a legno nudo”. Altro argomento estremamente intrigante è la creazione dei pickup, condito da descrizioni precise di carattere tecnico: “Pensavo ai pickup e capii che, in qualche modo, la corda di acciaio doveva perturbare il campo magnetico di questi magneti, che erano avvolti da una bobina, in modo da generare una corrente elettrica che variava a man mano che la corda si muoveva e produceva quel segnale specifico -cioè l’informazione che doveva essere amplificata.” Per non parlare dell’uso della moneta dai sei pence al posto del classico plettro (su cui potete trovare un box dedicato all’interno del paragrafo sulla tastiera della chitarra), una
delle peculiarità dello stile di Brian May. In calce a questa recensione desidero, in prima persona, parlando a nome mio e non della redazione, dedicare qualche riga alla traduzione. Sono venuto a conoscenza di aspre critiche nei confronti della traduttrice di questo volume e della casa editrice che “viene accusata di aver voluto andare al risp a r m io , evitando di contattare un professionista” (fra virgolette riporto frammenti da un post ufficiale di Tsunami pubblicato qualche tempo fa su Facebook). Dunque, avendo io stesso consultato l’originale, non trovo che il testo sia “farcito di errori, con troppi concetti snaturati nel significato e termine tecnico” e che la traduzione “sia gravemente deficitaria, probabilmente eseguita in maniera grossolana da una fan con l’ausilio di google translate”. Da
traduttore professionista (come Massimo Baroni, revisore dello scritto, il quale difficilmente credo si possa far sfuggire delle oscenità linguistiche) posso senz’altro affermare che il lavoro svolto da Raffaella Rolla sia piacevole alla lettura; magari i detrattori si stanno lamentando della struttura e della forma linguistica che non sono perfettamente coincidenti con la nostra lingua (prima falla che si scorgerebbe nella mente del criticante, dato che non mi risulta che l’inglese appartenga alle lingue romanze e ne abbia le caratteristiche), oppure della mancata alterazione del testo che danza agevolmente e libra leggiadro nelle traduzioni degli scaffali dei supermercati. Un grande traduttore, recentemente scomparso (che i nostri cari denigratori non conosceranno di certo), mi ha insegnato: “Nella traduzione mai cambiare per capriccio”. Questo è bene tenerlo a mente, perché il mestiere del traduttore è sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo, ammesso che non impariate tutte le lingue del mondo. Alla prossima!
Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: La Red Special di Brian May. La storia della chitarra home-made che ha caratterizzato i Queen e conquistato il mondo. Autore/i: Brian May, Simon Bradley Traduzione: Raffaella Rolla Revisione: Massimo Baroni Collana: Gli Alisei 1 Pagine: 144 Formato: 21x28 - Cartonato full color su carta patinata. Sovracoperta con poster interno ISBN 978-88-96131-82-4 Prezzo: 34,90 Euro Acquistalo qui!
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IL METAL E’ MORTO, LUNGA VITA AL MARIA DE FILIPPI METAL! C’era una volta una musica bellissima. Era una musica di nicchia ma non così tanto, bastava farsi un giretto su Videomusic (quelli che leggendo non sanno di cosa stia parlando sono parte del problema che questa analisi cerca di trattare) durante il pomeriggio per incappare in saltuari video, rigorosamente low cost, di Testament, Sacred Reich, Overkill, Pestilence o Bathory, senza andare a scomodare Metallica, Iron Maiden, Dream Theater o altre “divinità” varie, il tutto tra un Queen, Gianna Nannini, Take That o “Gimme Five” di Jovanotti. Erano tempi bellissimi. Se poi si voleva esagerare, come la pubblicità dell’aranciata Sanpellegrino del roscietto con la erre moscia, c’erano addirittura le serate dedicate, tipo il martedì dalle 18.30 alle 20.30 o il giovedì sera, con Power Hour della metallarissima e non bella Nikki Groocock direttamente dal broadcasting inglese, con decine e decine di video, interviste e curiosità di Skid Row, Suicidal Tendencies, Nuclear Assault, Def Leppard e chi più ne ha più ne metta. Immaginatevi tutto questo al tempo in cui non c’era internet a supportarci, e vedere un video metal in televisione equivaleva ad entrare in camera da letto e trovarvi Pamela Anderson in bikini pronta a soddisfarci alla faccia di quel cornutazzo di Tommy Lee: stesso dicasi
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per l’entusiasmo che ci suscitava vedere qualche poster metal nelle camerette dei giovani eroi dei film americani anni ’80 in cui l’hard rock o l’heavy metal facevano da sfondo alla storia, tipo Vice Versa, o ne erano addirittura protagonisti, come l’antesignano Morte a 33 giri, in cui si poteva esagerare ed assistere alle interpretazioni di Gene Simmons od Ozzy Osbourne, mentre il protagonista cattivo ammazzava tutti a suon di schitarrate malefiche. E come dimenticare Sotto Shock di Wes Craven, in cui tutti noi giovani metallari attendevano il momento in cui Pinker veniva fritto sulla sedia elettrica (chi ha in mente il video di “You Can’t Bring Me Down” dei Suicidal?) con il buon Mustaine che intonava l’altrui “No More, Mr. Nice Guy”. Che tempi, che momenti. Il metal era una bellissima filosofia, di nicchia ma non mortificata, che non era mai mainstream ma che faceva numeri da record, sia nelle vendite sia nelle arene, che appariva in Tv ma non negli show idioti, che vendeva tanto anche in italia, con numerose riviste di settore tutte in clamoroso attivo, e che vedeva un sacco di ragazzi con il chiodo o il giubbino jeans intriso di toppe, anfibi o Reebok pump ai piedi, a seconda del genere di preferenza, pronti
a salutarsi o scambiarsi un segno di ok quando ci si incrociava per strada. Addirittura il metal era trasmesso a livello nazionale dalla Rai, i più giovani di voi non ci crederanno: tutti i lunedì, su Radio Rai 1 alle 21, il buon Claudio Sorge trasmetteva “Rumore”, omonimo programma della rivista da lui fondata nel 1992, dopo la sua uscita da Rockerilla. E Dio solo sa quanti gruppi pazzeschi mandava o mi faceva conoscere, cito tra i più improbabili: Cynic, Shub Niggurath, Brujeria, Malevolent Creation, Death, Cannibal Corpse. Su Radio Rai UNO. Non so se mi sono spiegato. Al giorno d’oggi la roba più truculenta trasmessa dalla radio mamma sono gli incidenti di Onda Verde – Viaggiare Informati, con la collaborazione di anas aci aiscat abi anal asgard e la c o l l a b o ra z io ne dei gestori Agip. E poi ancora le mille mila realtà radiofoniche locali - ricordo la lista su Metal Shock che era infinita - e tra tutte le trasmissioni dedicate al metal ce n’era una chiamata Brutal Noise e principalmente dedita al death e black metal, trasmessa da Radio Antenna Romana e condotta da Cristiano Borchi, tramite la quale il sottoscritto, inizialmente come semplice ascoltatore, ha iniziato la sua “carriera giornalistica” all’interno della stampa specializzata. Ma questa è un’altra storia. Dopo l’apice di inizio anni ’90, con Headbanger’s Ball trasmesso su MTV e condotto dalla biondissima Vanessa Warwick (che vi invito a NON ricercare su google immagini oggi, pena un colpo al cuore) ed addirittura uno Sgrang tutto italiano, seppure impossessato dagli stessi identici video ogni volta, ecco che subentra un breve periodo di decadenza
rappresentato dal ridicolo Superock! - ribattezzato dopo pochi giorni “superOc(a)” - di una Julia Valet che presentava i video ruzzolando seminuda in un letto, tra citazioni di Baudelaire e Nietzsche che anticipavano tipo i Pantera (???). Roba triste, deprimente. D’altronde anche noi in Italia abbiamo avuto una Paola Maugeri che presentava Marylin Manson come signore del death metal, dimostrando che l’ignoranza non ha nazionalità. Dopo tutto ciò, il silenzio totale. L’abisso. Il metal è stato completamente estromesso da ogni canale informativo. Per poi riesplodere venti anni dopo, in tutta la sua pena e decadenza, nell’epoca del web, di internet, di youtube, di facebook e tutto il re s t o . Consegnandoci un metal che è totalmente agli antipodi, come ideologia, look, qualità e spirito, a quello che eravamo stati costretti a lasciare, ritrovandoci oggi a combattere tra slut metal e ragazzini idoli delle folle “metal” che assomigliano a Fedez invece che a Quorthon. Di questa piaga sociale però ne parleremo nel prossimo numero. Se mai ce ne sarà uno. Ad majora.
s k c i L r a t i u G
n o y l n o . . . n o o S a i l a t I r e m m a Metal H ‘Guitar Licks’ è la nuova rubrica di Metal Hammer dedicata ai chitarristi curata da Andrea Martongelli. Spiegazioni e filmati vi accompagneranno alla scoperta di trucchi per affinare la vostra tecnica chitarristica, entrando in rapporto simbiotico con lo strumento! Non dovete fare altro che restare sintonizzati su metalhammer.it ed aspettare il prossimo numero di Febbraio!
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71 Megadeth Dystopia (Tradecraft/Universal) La vita riserva sempre delle sorprese, si sa… Quello che non sapevo, però, quando mi è stata affidata la recensione del nuovo album dei Megadeth, è che ne avrei parlato in termini positivi. Inutile girarci intorno, la carriera di MegaDave non sta andando certo a gonfie vele negli ultimi anni, non tanto per quanto riguarda i live, dove i nostri si difendono ancora alla grande, ma in particolare per le sbiadite prove in studio. C’era poi l’incognita line up: che tipo di contributo avrebbero dato Chris Adler e Kiko Loureiro? Se il primo si limita in maniera alquanto incolore a svolgere il proprio compitino, supportando i brani con una prova quadrata ma senza picchi, di tutt’altra pasta dimostra di essere il carioca. Nessuno aveva ovviamente dubbi sulle sue doti chitarristiche, quello che bisognava verificare era quanto il suo stile riuscisse ad incastrarsi con quello del gruppo, e incredibilmente, ascoltando l’album, sembra che il brasileiro faccia parte dei Megadeth da una vita, tanto è riuscito ad intrecciare le proprie trame chitarristiche con quelle di ‘Rosso Malpelo’. Non a caso ho iniziato la disamina di questo disco partendo dal
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lavoro delle chitarre, perché in fin dei conti è proprio quest’aspetto quello che fa la vera differenza, in quanto i brani sono tornati finalmente ad essere pieni zeppi di riff taglienti, di assoli spettacolari dall’indiscutibile gusto armonico, e di ottimi arrangiamenti che arricchiscono ogni song. Sia chiaro, non stiamo parlando di un disco epocale, questo no, ma non ho paura di affermare che “Dystopia” riuscirà a risollevare le sorti di una band data ormai per spacciata da molti. Quello che non capisco, però, è come possa accadere, nel 2016, di pubblicare un album con un suono così piatto, tanto che anche quel che di buono c’è viene pesantemente penalizzato dalla imbarazzante mancanza di potenza. Sembra assurdo, viste le tecnologie a cui hanno ora accesso le band, ma a quanto pare succede… Tornando ai brani, fatta eccezione per la voce di Mustaine, ormai un lontano ricordo di ciò che era, ci sono diversi spunti interessanti. Dell’incredibile lavoro svolto in fase chitarristica ho già accennato, quello che mi preme sottolineare, ora, è un forte ritorno al thrash, e in particolare a sonorità care alla band negli anni ’90. Sem-
bra quasi che Dave abbia voluto cancellare con un colpo di spugna quanto fatto nei decenni successivi e tornare di prepotenza al sound che più gli appartiene, in particolare quello del periodo “Countdown to Extinction”/“Youthanasia”, dei quali questo disco sembra essere il degno successore. “Dystopia” è un album abbastanza vario, che alterna pezzi thrashosi (“Fatal illusion”, “Lying in State”) ad altri più cadenzati e melodici (“The Emperor”, “Death from within”, “Post American World”), e fanno capolino anche chitarra acustica e pianoforte, a dimostrazione che in fase compositiva i nostri non si sono dati limitazioni; probabilmente il pezzo più debole è proprio la titletrack, anche se ancora una volta a risollevare le sorti è la valanga di assoli. Insomma, promozione a pieni voti per Mustaine, che quando vuole riesce ancora a stupirci. Roberto ‘Dulnir’ Alfieri
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Avantasia Ghostlights (Nuclear Blast) Difficilmente mi capita di attendere l’uscita di un disco con la stessa intensità emotiva con cui si attende la venuta del Messia. Sarà un caso, ma il nuovo album degli Avantasia arriva proprio intorno a Natale, regalandomi esattamente la stessa sensazione che deve aver provato il buon Giuseppe di fronte alla moglie vergine in attesa del figlio di un altro: sgomento e rassegnazione. Posso affermare senza paura di essere smentito che, fino ad ora, ogni capitolo della saga Avantasia ci aveva offerto qualcosa di straordinario, con dischi che ancora oggi finiscono spesso e volentieri nello stereo. Questa volta, purtroppo, l’album rimane incastrato in una desolante normalità che nemmeno i numerosi ascolti riescono a scalfire. L’inizio trae in inganno con la bella ‘Mystery Of A Blood Red Rose’, già candidata a diventare uno dei classici della band: davvero nulla da eccepire per un brano sostanzialmente perfetto. La successiva ‘Let The Storm Descend Upon You’ comincia già a mostrare i primi segni di debolezza: melodie abbastanza banali e forzate, lunghezza eccessiva e riffing poco trascinante. ‘The Haunting’ vede
la partecipazione dell’immenso Dee Snider, in un brano pomposo e teatrale, fondamentalmente noioso. La comparsata di Geoff Tate, ‘Seduction Of Decay’, é uno degli episodi da dimenticare, mentre con la title-track fa finalmente capolino il caro vecchio power metal, col microfono affidato a Sua Maestà Michael Kiske: una ventata d’aria fresca, con l’alieno impegnato a scalare il pentagramma con la consueta, disarmante facilità. Si prosegue con ‘Draconian Love’, caratterizzata dalla vocalità cavernosa di Herbie Langhans e da una certa voglia di sperimentare in territori eighties, con risultati decisamente poco confortanti. Superata la facile ironia sul titolo, ‘Master Of The Pendulum’ ci propone un ottimo ritornello e la partecipazione di Marco Hietala dei Nightwish, ma a parte il refrain non si colgono aspetti particolarmente interessanti. Nulla a che spartire coi fasti del passato per il duetto con Sharon den Adel e l’inutilità totale di un brano elettro/pop/ambient come ‘Isle of Evermore’. Si torna a correre un pochetto con ‘Babylon Vampyres’, una delle poche cose da salvare, impreziosita dalla presenza di Robert Mason
dei Warrant e da un ottimo lavoro chitarristico confezionato dal trio delle meraviglie Kulick/Hartmann/Paeth. L’attesa per la ballad strappamutande muore definitivamente con Lucifer, una canzone che si salva solo grazie alla personalità di Jorn Lande. Molto carino il power scanzonato di ‘Unchain The Light’, mentre la suite finale ‘A Restless Heart And Obsidian Skies’ con Bob Catley, pur raggiungendo ampiamente la sufficienza, chiude il disco senza sussulti. Produzione di grande qualità, musicisti di livello altissimo, cantanti con caratteristiche uniche che collaborano tra loro: come al solito c’era tutto il necessario per fare un disco monumentale. È mancata “solo” la capacità di scrivere belle canzoni, con la magia che alberga nelle meningi del caro Tobias che ha fatto clamorosamente cilecca, producendo un album che non arriva nemmeno a sfiorare i capolavori precedenti. Spero vivamente sia solo un incidente di percorso e non l’inizio della fine, ma per quanto mi riguarda siamo molto lontani dalla sufficienza. Alex Quero
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metal, ma che contiene tantissimo di più. Un debutto da ascoltare con attenzione. Pippo ‘Sbranf’Marino
ABBATH ABBATH (SEASON OF MIST) 70 Phantasma Twwhe deviant hearts (Napalm)
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Può esistere Abbath senza gli Immortal? Possono esistere gli Immortal senza Abbath? Con queste domande che mi ronzavano nel cervello ho ascoltato, ripetutamente, l’esordio omonimo del signor Olve ‘Abbath’ Eikemo che solo tutti quelli che negli ultimi vent’anni hanno vissuto su Marte, o si sono arruolati nell’Isis, possono non sapere chi sia. Messe da parte le beghe legali per il possesso dello storico monicker Immortal, il nostro frontman guascone, dopo aver reclutato King al basso e Kevin Foley alla batteria (completando un terzetto ‘all star’ a tutti gli effetti), ha tirato fuori un album che è esattamente quello che tutti i suoi fan si aspettavano: un mix di Bathory, epicità ed un pizzico di Motorhead il tutto ‘congelato’ nei ghiacci eterni del nord e sferzato da quei gelidi venti ai quali Abbath, o gli Immortal se preferite, ha dedicato tutta la sua carriera musicale. Un album, dunque, ‘ruffiano’.Un album che non osa e non si avventura in territori nuovi o sconosciuti. Un album assolutamente ‘perfetto’. Il ghigno di Olve è sempre lo stesso: inconfondibile e malvagio. I musicisti suonano come macchine. E poi ci sono i brani. Basta l’attacco di ‘Ashes of the Damned’ per fare scendere la temperatura di qualche grado tutt’intorno e rievocare lo spettro del blashyrkh, sono sufficienti pochi accordi a ‘Root of the Mountains’ per farti indossare spade ed elmo ed uscire, al gelo, a combattere in canottiera nera... poi, quando esplode ‘Eternal’, vedrete davanti ai vostri occhi un manto nevoso e due tizi fieri che vi guardano biechi...e potrei andare avanti con immagini, metafore e rimandi al passato ancora a lungo. Insomma ‘Abbath’, rilasciato dalla Season of Mist. Non sarà ricordato come un capolavoro e non può toccare i sublimi vertici di gelida poesia di ‘Pure Holocaust’ o ‘At the Heart of Winter’, ma è, e resta, un prodotto coi fiocchi... di neve ovviamente! Abbath senza gli Immortal, dunque, esiste e gode di ottima salute.
Beppe ‘Dopecity’ Caldarone
Phantasma è il nuovo progetto di Charlotte Wessels (Delain), Georg Neuhauser (Serenity) e Oliver Phillips (Everon). Tutti e tre insieme per dar vita a questo progetto che fondamentalmente si basa su una novella breve scritta dalla stessa Charlotte, una storia struggente di amore tra fratelli e mondi alternativi, di strane malattie e curiosi esseri al di là del lago… Musicalmente parlando, non aspettatevi quello che le band ‘madre’ del dinamico trio potrebbero suggerirvi: ‘The Deviant Hearts’ è un album molto più orchestrato, spesso sussurrato , carico di pathos e perfetta colonna sonora di una storia che è decisamente al centro dell’attenzione. Certo, non mancano i momenti più canonicamente power, come la struggente ‘Let it Die’ o ‘Enter Dreamscape’, ma sono più i brani in cui le due voci (bellissime) dei protagonisti si piegano ad interpretazioni diversissime, liriche, nostalgiche, il tutto condito da un’ottima produzione. Aggiungi la sezione ritmica della Neal Morse Band, ed avrai un disco davvero interessante, peraltro pieno di guest (dagli Evergrey ai Van Canto ed altri). Un piccolo film in musica insomma, interessante e inaspettato, con una base tipicamente
Trans Siberian orchestra Letters from the Labyrinth (Lava Atlantic) 65 Ben 6 anni sono passati da quando la Trans-Siberian Orchestra ci ha donato un album in studio. Paul O’Neill e soci, con il natale alle porte, hanno quindi pensato fosse ora di tirar fuori questo nuovo “Letters from the Labyrinth”. Ora, mettiamo subito in chiaro una cosa: io NON sono tra quelli che idolatrano qualsiasi cosa abbia a che fare in qualche modo con i Savatage; e per molti la TSO è solo un’incarnazione dell’immortale band dei fratelli Oliva. Invece l’orchestra nasce con intenti diversi, molto spesso fondendo elementi della musica classica con il metal moderno, e non basta la partecipazione di Jon Oliva o chi per lui per rendere automaticamente un prodotto degno di acquisto. Fatta la doverosa premessa, ‘Letters from the Labyrinth’ è un godibilissimo album in pure stile TSO, con molti brani strumentali (spesso una rielaborazione di famosi pezzi classici, da Beethoven a Musorgskij a Rimskij-Korsakov) ed alcuni cantati, con un roster da far invidia a chiunque. Appena
discretuccie le prove più muscolose, come ad esempio ‘Not Dead Yet’, o ‘Stay’ che saccheggia l’arpeggio iniziale di ‘Sanitarium’ dei Metallica; interessante la versione’ moon’ della song ‘Forget about the Blame’ cantata dalla bravissima Lzzy Hale; ma ho trovato molto più ispirati i pezzi strumentali, con riarrangiamenti intelligenti e bilanciati. Il classico album natalizio, insomma? Sì. Ma onestamente, ‘Letters from the Labyrith’ è un album carino, che si ascolta con piacere, soprattutto per chi come il sottoscritto ama la musica classica, oltre al metallo. Pippo ‘Sbranf’Marino
Messenger Starwolf pt2 novastorm (Massacre)
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A 2 anni esatti dalla Part I, esce il secondo capitolo della saga ‘Starwolf’ dei Messenger. Il combo tedesco ci presenta con la forza di un tuono 10 canzoni che sottolineano lo stato di grazia in cui si trova la scena classic teutonica. Impreziositi da cori, voci tenorili, grandi orchestrazioni e supportati da una produzione pressoché perfetta, i Messenger ci trasportano nel mondo fatato dei grandi chorus, delle melodie epiche, del virtuosismo chitarristico mai fine a se stesso ma sempre funzionale alla forma canzone. La sezione
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ritmica è precisa, i solos sono velocissimi con le chitarre che si inseguono, la voce del singer Francis Blake spinge oltre le quattro - ottave ed è il punto di forza con la sua interpretazione ricca di tecnica e pathos. I riff di chitarra a volte ricordano i migliori Maiden (‘Pleasure Synth’), a volte gli Halloween (‘Novastorm’ col suo riffama iniziale veloce, l’opener ‘Sword Of The Stars’ che dopo un intro esplode con una ritmica galoppante). In alcune soluzioni vocali, come nella bonus track ‘Keep Your Dreams Alive’, c’è un rimando al miglior Eric Adams, non mancano gli episodi più catchy (‘Fortress Of Freedom’) con chorus da stadio ma anche in questi casi i brani risultano mai banali e nell’ultima ‘In Morgan We Trust’ il cantante fa pure il verso a Dio del periodo ‘Holy Diver’. Non ci sono momenti di stanca, certo se cercate novità non fa per voi, ma se cercate del power metal di classe, l’ascolto è obbligato. Marco Pezza
Varg Das Ende Aller Lugen (Napalm)
82 I promotori del Wolfskult ritornano sulle scene con un’uscita di tutto rispetto: ‘Das Ende Aller Lügen’ reitera l’immagine che la band ha costruito in dieci anni di attività ma non manca
di qualche deviazione di percorso. La parola chiave è libertà: a fare da ouverture troviamo il celeberrimo discorso de ‘Il Grande Dittatore’ che, a più di settant’anni dall’uscita del film, parla dritto al cuore degli ascoltatori per forza e attualità; altrettanto forti e decisamente più dirette nei contenuti sono la titletrack ‘Das Ende Aller Lügen’ e la successiva ‘Revolution’, un invito non esattamente formale a cambiare le sorti dell’umanità con qualunque mezzo disponibile, proposto in una chiave metal più moderna e meno folk rispetto agli standard della band. La curva verso l’impegno civile è abbastanza breve, il ritorno alle ben note sonorità dei Varg è quasi immediato: il resto dell’album ci canta le storie di guerrieri e lupi nelle tenebre, elementi molto cari all’immaginario dei Varg e dei loro ascoltatori. ‘Das Ende Aller Lügen’ vede anche il ritorno di un’ospite d’eccezione: si tratta di Anna Murphy (Eluveitie), che già in passato aveva collaborato con la band in veste di musicista e in questa occasione presta la sua voce in ‘Totentanz’. Sarà inoltre possibile ascoltare tutte le tracce in lingua inglese grazie ad un CD bonus. ‘Das Ende Aller Lügen’ inaugura il 2016 con stile, è un lavoro imperdibile per gli amanti del genere. Assolutamente consigliato. Alessandra Mazzarella
Primal Fear Rulebreaker (FRONTIERS) 86 Witchcraft Nucleus (Nuclear Blast)
71 A quattro anni esatti da ‘Legend’, ecco il nuovo ‘Nucleus’. Il disco necessita di più ascolti per essere apprezzato, nei suoi settanta minuti troviamo un condensato di mood diversi, di sperimentazione, il tutto fortemente debitore verso il metal settantiano. La line up è totalmente cambiata e, ad eccezione del fondatore Magnus Pelander, troviamo i nuovi Rage Widerberg alla batteria e Tobias Anger al basso. Il trio ci propone un sound hard rock, con un susseguirsi di parti acustiche ed elettriche, spesso le canzoni iniziano con arpeggi per poi sfociare in riff tipicamente doom (è il caso di’Malstroem’, una power ballad d’effetto o della lunghissima ‘Nucleus’ una summa di tutto ciò che i Witchcraft del 2016 possono esprimere, bellissima e sofferente impreziosita da cori femminili e con un suggestivo hammond a sfumare) o ancora è l’impronta psichedelica ad emergere (la conclusiva “Breakdown”). Rintocchi di Black Sabbath si odono nella dura ‘An Exorcism Of Doubts’, mentre un flauto sorregge la melodia portante del primo singolo estratto, “The Outcast”, il pezzo sicuramente piu’ easy. Gli Witchcraft sono, insieme a Orchid e Graveyard, le realtà di punta del doom-metal settantiano, ma mentre
Ogniqualvolta si apprende la notizia dell’arrivo di un disco dei Primal Fear, parte della redazione si scalda. La band, capitanata dal massiccio ed inarrivabile Ralf Scheepers, fino ad ora non ha sbagliato un colpo, nonostante la poca fiducia che veniva riposta in loro ai tempi della formazione. ‘Un progetto con le ore contate’, ‘una band poco originale’, ‘una brutta copia dei mostri sacri’; queste sono state alcune delle principali critiche rivolte al gruppo teutonico, che in realtà ha macinato un successo dietro l’altro, con album di caratura finissima e di potenza inaudita. Questo ‘Rulebreaker’, che vede luce ancora una volta sotto l’attenta Frontiers Records, non fa eccezione. Degno seguito del pregevole ‘Delivering the Black’, la nuova fatica discografica alterna momenti martellanti, come l’opener ‘Angel of Mercy’, ad altri più melodici, si vedano ad esempio ‘Bullets&Tears’ e la title-track. Proprio il pezzo ‘Rulebreaker’ ha causato nel sottoscritto un déjà-vu, avendo nei primi istanti la cadenza e la melodia di ‘Diary of Evil’, brano contenuto nell’album ‘Mask of Sanity’ dei Sinner; qui deve senz’altro esserci lo zampino del biondo bassista tedesco. Chi conosce i Primal Fear sa già ovviamente cosa aspettarsi, non ci sono parole da sprecare per descrivere lo stile del combo teutonico. Anche stavolta non mancano inni al Metal, come la prepotente ‘In Metal We Trust’ con un Ralf Scheepers arrogantissimo dietro al microfono e una bella sequenza di assoli da parte degli axeman. Buona, per l’intera durata del disco, pure la prova dell’ex U.D.O. Francesco Jovino che sostituisce il dimissionario Randy Black. In ‘Rulebreaker’ c’è spazio anche per un pezzo lunghissimo, ‘We Walk Without Fear’, più di undici giri d’orologio che non annoiano affatto; un buon misto di melodia e aggressività che conferma, se ce ne fosse il bisogno, un assoluto affiatamento fra i membri della band e inserisce anche degli sprazzi di orchestrazione. Nessun brano da scartare, nessun calo di tensione, nessun fronzolo inutile. Sì signori, questi sono i Primal Fear. Stefano Giorgianni
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RHapsody of Fire Into the legend (AFM) 65
questi ultimi sono più fedeli ai dettami classici del genere, i Nostri rappresentano “l’avantgard” del filone ed a noi piacciono proprio per questo loro osare in territori che sono al confine con l’hard rock e l’ambient music. Marco Pezza
serenity codex atlanticus (Napalm) TRUE. Il succo della faccenda è tutto in quella parola. I Rhapsody of Fire ci credono, e c’è poco da fare. Il nuovo “Into the Legend” è, innanzitutto, un album Power Metal Sinfonico. Qui ci sono i riffoni, una batteria a seimila all’ora, ritornelli epici da urlare a squarciagola, e tutto quello che un fan del genere si aspetterebbe. Poi, parliamoci chiaro, in questo disco molte canzoni non mi hanno convinto soprattutto nei ritornelli, molti dei quali rimangono poco in testa; abbiamo perso il concetto di “concept” ed il lentone in italiano (eccezion fatta per alcune parti nella lunga suite “The Kiss of Light”), ma ci abbiamo guadagnato una band onesta con se stessa. Forse molte canzoni non avranno il mordente o il guizzo del fuoriclasse di tanta produzione passata; penso alla drammatica “Winter’s Rain”, o alla successiva “A Voice in the Cold Wind”, alla lenta “Shining Star” che non riesce a reggere il confronto coi lentoni del passato. Ma, dall’altra parte, sono qui anche a parlarvi di una sberla in faccia come “Distant Sky”, e per favore ascoltate i riff di Roberto De Micheli e osannatelo/i. Sono qui a raccontarvi di una “Valley of the Shadows” che è forse il brano più bello del lotto, o della title track che tira come se non ci fosse un domani. Sono qui a parlarvi di un Fabio Lione oggi maturo e più consapevole, che sa interpretare, dosare, senza mai perdere le redini del pezzo. Album in sé altalenante, insomma, con composizioni più riuscite ed altre che vanno un pò troppo per la tangente, inseguendo l’arrangiamento e meno la struttura-canzone; ma, e a questo punto dovrebbe esservi chiaro il mio pensiero: il tanto temuto cinematic virus c’è, ma qui è imbrigliato, fatto esplodere solo se e quando serve. Scordatevi i fasti del passato, i Rhapsody di “Emerald Sword” non esistono più. Non esiste più la triade Turilli-Staropoli-Lione, e perderne uno NON E’ averne ancora i due terzi, ma significa avere una squadra compositiva radicalmente diversa. Eppure, “Into the Legend” è e rimane UN ALBUM POWER METAL. Un album, insomma, TRUE. Pippo ‘Sbranf’ Marino
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Qualche mese fa, recensendo l’esordio degli austriaci Crossing Edge, buttai giù elenco delle cose che l’Austria aveva donato al mondo. Pensavo di cavarmela con Polster e Graz e invece ho fatto il terribile errore di dimenticare i Serenity. Mea culpa. Ci pensano quindi loro a ricordarmi della loro meravigliosa esistenza sfornando il quinto album della carriera, ‘Codex Atlanticus’, un disco che ci tocca particolarmente essendo basato sulla vita e sulle opere di Leonardo da Vinci. Un disco BELLISSIMO. E’ quasi innaturale che nell’anno di grazia 2015 ci siano ancora band power che riescano a partorire un disco di tale bellezza qual’è quest’ultimo lavoro degli austriaci, pur con cambi di line-up importanti quali l’abbandono dello storico chitarrista Thomas Buchberger e quello di Clementine Delauney, sintomo di un cambio di rotta che ha portato alla creazione di un progetto parallelo dedicato. ‘Codex Atlanticus’ ha tutto quello a cui i Se-
renity ci hanno abituato nel corso degli ultimi 8 anni, ovvero un connubio di talento e classe sopraffina che solo pochi riescono a mantenere intatto nel corso degli anni. Al ‘solito’, aggiungete un paio di soluzioni alternative che non potranno che far piacere ai fan, quali l’aggressività quasi thrash di ‘Sprouts of Terror’ o la bellissima ‘The Perfect Woman’, che azzarderei a definire à-la-Queen. ‘Codex Atlanticus’ si candida quindi, pur in uscita a Gennaio, ad essere uno degli album di punta del 2016. Serenity promossi a pieni voti, per l’ennesima volta. Che (piacevole) noia. Andrea ‘Gandy’ Perlini
Vorna Ei Valo Minua Seuraa (Inverse)
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Ci sono album che sebbene siano in una lingua a te estranea, riescono ad andare al di là delle parole. Raramente, ma succede, la musica riesce a esprimere significato, atmosfera ed emozioni senza parole. Pensate per un attimo di perdere uno dei vostri sensi, cosa succede? Mettiamo che perdiate la vista, automaticamente potenzierete l`udito o il tatto. Non tutti parlano finlandese, ma non per questo dovete privarvi della parola dei Vorna, i quali superano la barriera linguistica e la adoperano come uno strumento musicale. ‘Ei Valo Minua Seuraa’
è l`album della crescita dei Vorna, ottima band di Tampere che unisce melodic black a un emozionante folk metal. La storia riguarda un viaggio verso un anelato equilibrio interiore. ‘Harmaudesta’ (lontano dal grigio) introduce un uomo che è diventato l`ombra di se stesso, essendosi estraniato dalla sua vera natura. Questo pezzo introduce anche un uso maggiore dell’elemento melodico, filo conduttore del brano. Altra caratteristica che salta subito all`orecchio è il mixaggio. Sia la band che Kokko hanno voluto mettere in primo piano le chitarre, mentre le voci sono fuse con gli altri strumenti, e per nulla accentratrici. ‘Ei Valo Minua Seuraa’ è un album profondo, che vi porterà a confrontarvi con una intima malinconia, i Vorna stanno crescendo e si dimostrato degli artisti di gran talento, capaci di farvi perdere in un grigio bosco finlandese con una grande potenza evocativa. Paky Orrasi
Hell in the club Shadow of the monster (Scarlet)
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Gli Hell In The Club sono una grande band. Una di quelle che non si “accontenta” di riproporre una formula stilistica molto nota e, ormai giunta al terzo disco, cerca altresì di andare oltre “se stessa”, intridendo di nuove sfumature la sua istintiva
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solerzia espressiva. La miscela musicale ideata per questo ‘Shadow of the monster’ dimostra che anche nei territori più frequentati del R n’R ci si può districare con enorme disinvoltura, recapitando all’ascoltatore energia, colore melodico e un brillante songwriting, ispirato dalla “storia” del genere e non per questo remissivo. Fin dalla pulsante apertura di ‘DANCE!’ l’albo brucia di un’intensità non comune, ‘... Enjoy the ride’ evoca i Poison di “Flesh & blood”, ‘Hell sweet hell’ ha la vitalità dei Tesla, la title-track farà fremere i fans dei G n’ R e ‘The life & death of Mr. Nobody’ quelli dei Bon Jovi, da tempo digiuni di tanta sapidità. ‘Appetite’ ha un refrain viscoso e un grazioso break Queen-esco, ‘Naked’ è una virile pausa romantica di discreta efficacia e ‘Le cirque des horreurs’ sfida sul loro terreno preferito i migliori Crashdiet. Finale inaugurato da ‘Try me, hate me’, irresistibile anthem Crue-iano, in antitesi con ‘Money changes everything’ suggestiva cover dei The Brains (celebre per la versione di Cyndi Lauper) e splendida palestra per le preziose doti interpretative di Davide Moras. Dimenticate lo sleaze più manierato e affidatevi alla freschezza di chi sa dare la scossa a questi suoni ancora così coinvolgenti. Marco Aimasso
Infernal Tenebra As nations fall (Massacre)
75 Gli Infernal Tenebra sono una band croata dell’Istria attivi dal 1999 con già due demo e tre album alle spalle. Partiti suonando black metal, mutano genere dopo il primo album passando a un death metal con qualche venatura thrash. Questo nuovo quarto album, ‘As Nations Fall’, edito per la Massacre Records, mostra subito un netto progresso rispetto agli album precedenti, che si traduce in idee vincenti e uno sforzo compositivo maggiore. In particolare il death metal tecnico dei croati si è potenziato con l’innesto alla batteria di Sebastian Stell con più cambi di tempo e bravura nei passaggi tra tempi lenti e tempi veloci, tra parti melodiche e parti estreme. Il vocalist Darko Etinger adatta la sua voce all’andamento della musica e all’interpretazione del brano passando agevolmente dal growl alle clean vocals. Alle chitarre ritmiche è dovuto in alcuni casi quel suono thrash che di tanto in tanto permea la musica degli Infernal Tenebra. Ma a decretare l’originalità della proposta musicale della band sono sicuramente le chitarre soliste che intrecciando trame complesse e generando continuamente veri e propri assoli conferiscono quel tocco di modernità al death old school che è
il genere fondante della musica degli Infernal Tenebra. La musica presente nel disco si mantiene sempre a livelli alti con pochi punti di debolezza e pertanto il mio giudizio è più che positivo, però su pochi brani si raggiunge l’eccellenza. Enrico Mazziotta
Monster Truck Sittin' Heavy (Mascot)
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Quando arriva sulla scrivania un disco come quello dei Monster Truck si sa già cosa aspettarsi: grinta da vendere, musica scatenata e...fiumi di birra. In effetti quello che si trova in “Sittin’ Heavy”, opera seconda degli spavaldi quattro, è tutto questo. Per chi non conosce la band, siamo di fronte ad un gruppo giovane, canadese (non statunitense, come si sarebbe portati a pensare dall’attitudine e dal genere) e già premiato tre anni fa col prestigioso Juno Award come Breakthrough Group of the Year, oltre ad aver accompagnato in tour i celebri Alice in Chains e ad aver prestato i pezzi per famose serie tv e videogiochi. Insomma, un gruppo oramai affermato che, forte di una maggior esperienza, getta sul mercato un disco divertente ma non banale, con echi di southern, blues e hard rock classico. Fra i pezzi di maggior rilievo in questo “Sittin’ Heavy” vi sono sicuramente l’opener “Why Are
Axel Rudi Pell Game Of Sins (SPV) 74
La classe non è acqua. Ecco tornare Axel Rudi Pell, dopo ‘Into the Storm’ del 2014, con un album nuovo di zecca intitolato ‘Game of Sins’. Il biondo chitarrista tedesco non delude nemmeno stavolta, plasmando un lavoro di classe, che certo non si discosta molto dai precedenti, senza osare e mantenendo la propria personalità. Niente sperimentazioni assurde dunque in questa nuova fatica discografica, si parla sempre di buono e sano heavy metal classico, con l’estro chitarristico di Pell a condire il tutto e la voce del raffinatissimo Johnny Gioeli a contribuire alla riuscita dell’opera. Anche a livello di line-up non si riscontrano novità, la formazione è la stessa del precedente album e l’entrata di Bobby Rondinelli è stata oramai assorbita. Il disco si apre con una curiosa intro dalle sonorità circensi che pian piano apre il sipario all’energica ‘Fire’, tipica opening-track alla Axel Rudi Pell. Riff graffianti e studiati (spesso echi di band dal fastoso passato) sono alla base di tutte le composizioni, con chorus orecchiabili, che raramente deludono, ad infarcire una proposta musicale già di per sé notevole. La seguente ‘Sons In the Night’ prosegue il copione scritto in precedenza, con un Gioeli in gran forma; differente invece risulta la title-track, lunga, quasi nove minuti, cadenzata e assolutamente melodica. ‘Falling Star’ movimenta un po’ l’atmosfera, mentre ‘Lost In Love’ è una semi-ballad che punta tutto sulle doti vocali dell’inossidabile vocalist. Questa volta Axel Rudi Pell ha però deciso di puntare su pezzi di lunga durata, dopo ‘King Of Fools’ ecco infatti arrivare l’oscura ‘Till The World Says Goodbye’ di ben sette minuti e quarantadue secondi. Anche in questi casi la classe del musicista tedesco è d’aiuto per evitare di far cadere nella noia l’ascoltatore. La struttura di ‘Game of Sins’ viene rispettata e dopo una canzone più breve, ‘Breaking the Rules’, arriva la conclusiva ‘Forever Free’ che passa gli otto minuti. In conclusione si può senza dubbio affermare che quest’ultima fatica di Axel Rudi Pell sia l’ennesima buona prova di un musicista che conosce il proprio mestiere e che sa soddisfare i fans senza stravolgere il sound dei suoi dischi. Stefano Giorgianni
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Raskasta Joulua Tulkoon Joulu (SPINEFARM) 65
You Not Rocking?” e la seconda “Don’t Tell Me How To Live” e “For The People”, manifesti di ciò che i Monster Truck vogliono mostrare. Niente fronzoli moderni, niente cincischiamenti inutili, solo sano e duro rock. Stefano Giorgianni
Nordic Union Nordic Union (Frontiers) A cantare il Natale in Finlandia, da oltre dieci anni, non sono artistetti pop vari ma bensì il meglio del mondo Metal Finlandese. Dopo aver preso le canzoni tradizionali finlandesi per renderle infuocate grazie a chitarre robuste e voci power tra le quali Marco Hietala e Tony Kakko, i nostri eroi hanno deciso di entrare in pieno nello spirito delle feste invernali con una versione acustica delle più belle canzoni di natale. Il risultato è un grandioso album che se da un lato non presenta grossissime novità, dato che le stesse canzoni erano già presenti negli album precedenti, dall’altro non manca di catturare lo spirito del Natale, che nella terra dei laghi è malinconico e introspettivo. ‘Tulkoon Joulu’ (Lascia che sia Natale) è un album magnifico per chi vuole sperimentare la dolcezza del Natale senza cadere nel patetico. Un album per noi insomma, che, nascosti dai parenti e amici, ci ritroveremo a commuoverci. L’album apre con la famosissima Heinillä Härkien Kaukalon cantata da Marco Hietala, Jarkko Ahola, JP Leppäluoto, Tony Kakko. Il pezzo è uno dei più conosciuti per quanto riguarda il repertorio natalizio in originale Entre le bœuf et l’âne gris e in questa versione si tinge di un particolare folk finlandese e riesce a trasportarvi in vari stati d’animo grazie alla diversità delle vocalità in esse contenuto. Essendo interamente in lingua finlandese, ancora una volta potete scoprire la bellezza di voci che sebbene siano da noi conosciute si tingono di una verità particolare nella propria lingua madre. La voce di Tony Kakko, ad esempio, è molto più graffiante e bassa, in quanto la lingua finlandese ha fonemi totalmente diversi dalla lingua inglese. Un esempio è la divertentissima Pieni Rumpali (il piccolo batterista) dove la voce di Kakko rinvigorisce queste balata acustica con la sua vocalità di chi sa come raccontare favole, iniziando come cantore per poi liberare la sua voce che graffia attraverso le armonie create dai suoi colleghi. In Tulkoon Joulu vi sono molte canzoni che sono importantissime per questa terra quale Sylvian Joululaulu, un pezzo struggente, nell`album cantata da Ari Koivunen, con la sua particolarissima voce spettacolare riesce a rinfrescare un testa nato nel 1853. speriamo in qualche novità per il prossimo Natale. Paky Orrasi
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Nuovo progetto della Frontiers Music, che unisce Erik Martensson (cantante degli Eclipse e chitarrista dei W.E.T.) e Ronnie Atkins (Pretty Maids) i quali ci regalano un altro gioiellino di hard rock melodico. Pur privo del booklet riesco a riconoscere la “mano” di Erik in tante delle undici canzoni. Per chi scrive, questo è un punto a favore, tanto che, in molte canzoni sostituendo Erik a Ronnie si potrebbe parlare del nuovo degli Eclipse. Suoni di guerra introducono “The War Has Begun”, seguiti da un intro musicale imponente dove si innesca la voce riconoscibile, dolce e graffiante allo stesso tempo, di Ronnie Atkins. Il coro del brano ha un qualcosa di già sentito che si fa cantare sin da subito. “Every Heartbeat” è la prima ballad, semplice, bella, ma che ricorda nel chorus un po’ troppo la splendida “Comes Down The Rain” dei W.E.T. “When Death Is Calling” è talmente Eclipse da piacere sin dal primissimo ascolto anche per merito dei
cori da stadio, stesso accostamento che si ripete in “Hypocrisy” o “Falling”. Chi si domandava lumi sulla vasta vena compositiva di Martensson la risposta arriva da questo album, che di per sé non è certo un brutto lavoro, ma ricorda un po’ troppo la band madre. Anche nei W.E.T. si sentono gli echi degli Eclipse, però in maniera minore, forse anche per merito degli altri artisti coinvolti. Qui l’impronta di Erik si sente eccome. Ripeto non è un male, ma avrei preferito più varietà. Viva i progetti solisti dove però vengano fuori altre sfumature. Andrea Lami
Brainstorm Scary Creatures (AFM)
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E’ praticamente impossibile non scorgere la mano dei Brainstorm ascoltando questo ‘Scary Creatures’, sempre che non si finisca per sperare in un ritorno in attività dei Symphorce, con i quali hanno condiviso l’inconfondibile voce di Andy B. Franck. Tuttavia, proseguendo nell’ascolto dell’album risulta evidente come sia progenie di stupende uscite quali ‘Metus Mortis’, ‘On the Spur of the Moment’ o lo stesso ‘Firesoul’ di soli due anni fa, ma allo stesso tempo ci si rende conto di come non sia in grado di reggerne il confronto, mancando di quell’estro che ho sempre riconosciuto loro e quasi in
balia di soluzioni fin troppo studiate e allo stesso tempo prevedibili, sottolineate anche dal video davvero ben poco ispirato girato per accompagnare ‘The World to See’, opener che comunque svolge in maniera onesta il proprio compito. Oltremodo scontata la seguente ‘How Much Can You Take’, dal passo marcato e dai cori insistiti, che scorre via anonima e senza anima, quella che poi recupera, pur in un contesto più hardeggiante del solito, la seguente ‘We Are…’. Per ritrovare i veri Brainstorm tocca così aspettare di incrociare la strada con ‘Where Angels Dream’ oppure con la conclusiva ‘Sky among the Clouds’, visto che spesso gli altri pezzi, come nel caso di ‘Twisted Ways’ o ‘Scars in Your Eyes’, soffrono in maniera eccessiva del complesso del ‘già sentito’. Non si possono realizzare solo capolavori, ma per i Brainstorm questo è un passo falso, per quanto meno clamoroso di quello occorso in occasione di ‘Memorial Roots’. Sergio ‘Ermo’ Rapetti
Emil Bulls XX (AFM)
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Oh il tempo passa per tutti eh! Anche per un gruppo di sbarbatelli della Baviera, che ormai hanno 20 anni di carriera sulle spalle e quasi una quarantina sul
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passaporto. Ed è così che anche gli Emil Bulls arrivano al disco del ventennale. ‘XX’ è un doppio disco di successi, che pesca a piene mani dai 9 dischi della band, privilegiando decisamente le ultime uscite. Il disco è proposto in due versioni: quella denominata ‘Candlelight’ è una rivisitazione in chiave semi-acustica (o “da camera”) dei brani presenti sulla versione ‘Hellfire’, nella quale i pezzi sono presentati nella loro versione classica, aggressiva e incazzosa, presente solo come bonus cd nella versione digipak. La versione ‘Candlelight’ è quindi quella principale, risultando curiosa nella sua particolarità, perchè a fronte di brani che già erano ballad (‘Gone Baby Gone’ ad esempio), gli altri rivisti in chiave soft perdono decisamente in appeal, pur risultando sicuramente piacevoli. E’ un po’ come ascoltare i Coldplay, con la differenza che si sta ascoltando un gruppo nu-metal che suona come i Coldplay. Questione di gusti insomma. “XX” è un disco sicuramente sufficiente, un esperimento curioso per festeggiare i 20 anni di attività. Solo per i fan più sfegatati, senza dubbio, mentre per quelli di primo pelo è decisamente consigliabile la versione ‘Hellfire’. Andrea Perlini
Bury Tomorrow Earthbound (Nuclear Blast)
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Alla fine il passo falso è dunque giunto e stavolta gli inglesini hanno mostrato il fiato corto, dando alle stampe un disco molto al di sotto dei loro standard abituali, dopo due monumenti al metalcore più dotato di classe e gusto per la melodia di tutto il panorama attuale, a titolo ‘The Union of Crowns’ e ‘Runes’. Stavolta ‘Earthbound’ non riesce a colpire anche se la formula è rimasta la medesima: produzione stellare, growl durante la strofa, pur senza esagerare con la pesantezza, e la voce pulita di James Cameron a tirare fuori il meglio dalle possenti linee vocali dei Bury Tomorrow, disegnate con classe unica dalla coppia di fratellini d’oro Winter-Bates. Ci sta, non sempre è Natale e non ogni volta si è al massimo della forma: se trattasi di passo falso a metà (d’altronde il disco nonostante l’abisso con i suoi predecessori rimane più che dignitoso) o dell’inizio della fine per gli inglesini, magari giunti al termine della loro linfa artistica, ancora non è dato saperlo. Certo, Cameron alla voce fa sempre emozionare, un paio di brani a metà disco riescono ancora a farci smuovere dalla sedia ma in generale non è possibile proporre un minimo paragone tra questi brani e quelli
“vecchi”. Nel finale la qualità si alza un po’ ma non ci sono episodi da far accapponare la pelle e le linee vocali non sono così ispirate come in passato. La speranza è che questo episodio rappresenti solamente un rifiatare per il gruppo di Southampton e che dal prossimo si possa ripartire alla grande. Gianluca ‘Graz’ Grazioli
Shakra High Noon (AFM)
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Boom! Centro pieno. Dopo tanti anni di duro lavoro, tanti bei dischi (e qualcuno meno riuscito) alle spalle, gli svizzeri Shakra beccano il jolly e ci servono un discone con i controfiocchi. Il decimo capitolo della storia degli Shakra vede il ritorno dietro al microfono di Mark Fox, presente nel periodo d’oro della band e capace di graffiare e colpire con la sua voce ruvida ed espressiva. Alle sue spalle si muove una band mai così quadrata, in grado di sciorinare una sequela di riffs convincenti, con il baricentro degli arrangiamenti un filo spostato sul lato più duro e quadrato, tanto che alcuni pezzi (mi viene in mente ‘Raise your Hands’) potrebbero addirittura essere presi dal repertorio degli Hammerfall! ‘High Noon’ si apre con ‘Hello’, ed è subito adrenalina: in palla dal
Borknagar Winter Thrace (CENTURY MEDIA) 86
Il segreto dei Borknagar è sempre stato quello di fare un passo avanti ogni album senza, tuttavia, mai dimenticare le proprie radici. Progresso nel solco della tradizione. Semplicemente. ‘Winter Thrice’, il cui titolo si riferisce ai tre inverni consecutivi che segnano la fine del mondo secondo la mitologia norrena e che viene rilasciato dalla Century Media, è un album speciale per diversi motivi. Celebra il ventennale del gruppo, è il decimo lavoro dei Nostri, vede il ritorno, come guest vocalist su due brani, di Kristoffer “Garm” Rygg, voce dei primi due, indimenticabili, lavori, e segna, ancora una volta, una nuova evoluzione. Un’evoluzione che, ovviamente, getta il suo sguardo al passato, se è vero che lo spettro di “The Olden Domain”, osannato capolavoro dei Borknagar, aleggia sulle composizioni, soprattutto a livello delle soluzioni armoniche delle chitarre, una evoluzione che, al contempo, ci offre un distacco sempre maggiore dall’originario black metal degli esordi e si tuffa, magistralmente, in un mix di progressive, folk, pagan, rock anni 70 e spirito avantgarde che ha davvero pochissimi paragoni nella scena mondiale. Le spettacolari soluzioni vocali frutto degli incroci tra le voci di Vintersorg, ICS Vortex, Lazare e Garm, le eteree melodie anche violente e ghiacciate, le intuizioni compositive del genio del mastermind Brun, gli arrangiamenti di tastiera eleganti e tuttavia sorprendenti, il drumming millimetrico del giovanissimo Baard Kolstad, sono gli ingredienti che danno vita a veri e propri capolavori come ‘Cold Runs The River’, assolutamente mozzafiato, ‘Noctilucent’, così delicata da mettere i brivi o l’opener ‘The Rhymes Of The Mountains’, che rappresenta in qualche modo la tradizione, e ‘Panorama’ che invece rappresenta il futuro con il suo alone avantgarde lontanissimo da tutto e tutti. Un album sul quale è inutile spendere troppe parole, consci del fatto che esse, per quanto ricercate, non potrebbero mai renderne efficacemente la splendida bellezza, o riportarcene la maestosa arte. E la parola arte, in questo caso, non è di certo usata a caso, ma delimita lo spettro esecutivo entro il quale si muove un gruppo fieramente unico e, di certo, inimitabile. Chiudete gli occhi e sognate abbracciati dal ghiaccio dell’inverno. Beppe ‘Dopecity’ Caldarone
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primo secondo, la band abbasserà le difese solo alla traccia 7, con la lenta ma carica “Life’s what you Need”. Per il resto del platter, andremo da mid tempos pesanti e anthemici (la title track su tutti) a brani più veloci, e sempre con dei riff sorprendentemente freschi e piacevoli (“Into your heart”, la cazzutissima song finale “Wild and hungry”). Non c’è un brano che puzzi di filler in questo disco, e certe cose non riescono di certo al primo colpo. Ci sono voluti anni, abnegazione e amore incondizionato per la propria musica per forgiare un album così coerente e coinvolgente. Complimenti a loro, e a voi se farete vostro questo gioiellino. Rock on! Pippo ‘Sbranf’ Marino
Chronos Zero Hollow Lands (Scarlet)
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Era la fine del 2013 quando, in piena consegna poll, rimasi folgorato dal disco d’esordio di una giovane band cesenate. Ora è l’inizio del 2016 (quante volte scriverò 2015!) ma il concetto non cambia: i Chronos Zero sono mostruosi. E in questi 2 anni i Chronos Zero sono cresciuti, sia di numero (acquisiscono la voce growl di Manuel Guerrieri e quella femminile di Margherita Leardini) sia di importanza, passando da Bakerteam alla
portabandiera Scarlet Records. Partoriscono così “Hollowlands - The Tears Path: Chapter One”, secondo (ma terzo, è previsto un prequel) capitolo di un concept enorme, formato da almeno 5 capitoli. Un lavoro mastodontico e forse presuntuoso, ma che viene supportato magistralmente da un lavoro certosino sotto ogni punto di vista, a partire dal solito, enorme lavoro di produzione a cura di Simone Mularoni. L’aggiunta poi di due voci così diverse da quella principale del bravissimo Jan Manenti è un tocco di classe non indifferente, contribuendo a variegare i brani e a non stancare troppo l’ascoltatore, che pur avrà a che fare con più di un’ora di musica. Suoni “grossi”, pieni, un prog moderno e aggressivo che sfora quasi nel thrash in alcuni momenti..come già detto, immaginatevi i Symphony X shakerati con i Nevermore. Vi piace? A me da morire. Chronos Zero decisamente padroni di questo Gennaio, almeno per il sottoscritto, e molto probabilmente presenti in una poll di fine anno che già si prospetta ricca. Classe, gioventù, innovazione, tecnica, rabbia, talento: serve altro? Andrea ‘Gandy’ Perlini
Brimstone Coven Black Magic (Metal Blade) 68 Ogni scuderia ha i propri cavalli su cui puntare e finché il momento di popolarità del retro-rock/doom/ stoner rimane alto, la Metal Blade apre nuovamente i cancelli dei suoi Brimstone Coven, combo della Virginia che a primavera del 2014 aveva stupito con un ottimo debutto autotitolato. Malgrado la copertina “stregonesca” ed un titolo come ‘Black Magic’, il nuovo capitolo discografico dei Nostri risulta molto meno esoterico del precedente, mettendo invece in mostra l’animo più da “jam session” del gruppo. Se non si fosse ancora capito, qui di metal non v’è traccia. La sensazione è infatti quella di assistere ad un lungo turno di improvvisazione di quattro fricchettoni con cannone all’angolo della bocca che, in jeans e torso nudo, si lasciano guidare dalle emozioni e dalle paranoie del momento per comporre la propria musica. L’album rimane molto godibile ma risulta meno energico del suo predecessore, più malinconico, con alcune parti eccessivamente ripetute, sfiorando in taluni momenti il rischio di annoiare. Di buoni episodi ce ne sono, non fraintendetemi, le canzoni hanno un cuore blues fatto di un basso pulsante in prima fila, una chitarra lievemente
distorta che viaggia perennemente sulla pentatonica, una batteria secca e la voce magnetica di Big John sugli scudi; questi elementi sono solo mischiati in modo un pochino meno coinvolgente del lavoro precedente. Menzione particolare per la conclusiva ‘The Eldest Tree’ che con il suo cantato a più voci, le atmosfere azzeccate ed il vero sentore di zolfo, risulta la traccia più riuscita. Tra nuovi Graveyard ed Orchid, e vecchi Led Zeppelin e Pentagram. Francesco ‘Frank’ Gozzi
Exumer The Raging Tides (Metal Blade) 71 ‘Fire & Damnation’ fu la vera e propria sorpresa thrash del 2012. Un disco fottutamente violento che ci riconsegnò una delle band seminali della prima ondata thrash teutonica, rappresentata in questa reunion solo da Mem Von Stein e Ray Mensh, singer e chitarrista originali, pur se accompagnati da ottimi comprimari. Un fulmine a ciel sereno che pochi si aspettavano dopo 25 anni e che ha contribuito a rilanciare la carriera musicale degli Exumer, che oggi tornano sul mercato con questo nuovo ‘The Raging Tides’. La formula è la stessa del disco precedente, e cioè un thrash metal senza compromessi, un tuffo nel passato che non vuole avere niente a che spartire
con le nuove influenze e le nuove tendenze del metal, e lo mette in chiaro fin dalle prime note. Ancora una volta prodotto magistralmente dal guru Waldemar Sorychta a Dortmund, nei suoi Waldstreet Sound (e non penso sia un caso che una delle due bonus track presenti, l’altra è ‘Forever My Queen’ dei Pentagram, sia proprio ‘Hostage to Heaven’ dei Grip Inc.), l’album è un bel calcio sui denti, dieci brani senza compromessi, che spazzano via tutto quello che si trovano davanti. Schegge impazzite come ‘Brand of evil’, ‘Sacred Defense’ o ‘Sinister Souls’ vi traghetteranno nell’inferno thrash degli anni ’80, facendovi assaporare il vero sapore del sottogenere più genuino della nostra amata musica. Un disco ovviamente rivolto ai nostalgici e in particolare ai thrash maniacs, che troveranno senz’altro pane per i loro denti. Roberto ‘Dulnir’ Alfieri
COP UK NO Place For Heaven (UDR)
73 Volete passare una serata melodica in compagnia di una band che vi faccia trascorrere del tempo piacevole con un po’ di sana energia? I C.O.P. UK sono ciò che fa per voi. La band di Sheffield (sappiamo che il nome di questa città porta subito alla mente degli appassionati i mitologici Def Leppard, annoverati inevitabil-
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mente fra le influenze del presente gruppo) è una commistione di diversi elementi che, ben mescolati, producono un hard rock adatto alle orecchie di qualsivoglia ascoltatore. I sei (già, ben sei componenti) scatenati rockers forgiano in questo 2016 il loro terzo album da studio composto da undici pezzi di buona qualità e con la varietà giusta per non annoiare. È così che questo ‘No Place For Heaven’ ci offre quarantasette minuti di melodia e vitalità, a partire dalla notevole ‘The Core’, dove l’intreccio di chitarre iniziale, il ritmo saltellante, il chorus orecchiabile (che strizza l’occhio all’approccio ottantiano) stupiscono per accuratezza e capacità di trascinare. Caratteristiche pressoché identiche si riscontrano nei successivi pezzi, seppur con alcune sfumature diverse; tra ‘My Blood’ e ‘Kiss Of An Angel’ si scorgono dei C.O.P. UK bravi a mantenere la medesima linea stilistica pur mostrando molte sfaccettature. Insomma, un disco di carattere questo ‘No Place For Heaven’, che gli amanti del melodic hard rock apprezzeranno di sicuro e magari anche voialtri, metallari defenders, potrete trovare qualcosa di vostro gusto. Stefano Giorgianni
Can't Swim Death Deserves a Name (Pure Noise)
Far. ‘Death Deserves A Name’, questo il titolo dell’EP, è un bell’incrocio rabbioso delle peculiarità del punk/post-hardcore e delle band summenzionate che farà felici gli appassionati di questi altri, nobili generi. Stefano Giorgianni
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Quando ho fatto partire il disco dei Can’t Swim il fantasma del Natale passato ha suonato alla mia porta. Prima di spiegare il motivo per cui si è iniziata la recensione con quest’affermazione è necessario dire una cosa: la band in questione non suona metal e, se non ad anni luce, non ha a che fare con il nostro genere. Qui si parla di punk (leggermente contaminato con il post-hardcore), un tipo di musica con basi solide, che negli ultimi anni (o forse decenni) ha subito diverse trasformazioni e contaminazioni, ma che, per la maggior parte, non ha visto intaccate le proprie radici. I Can’t Swim hanno portato il sottoscritto indietro nel tempo, quando aveva cominciato a scoprire la cosiddetta ‘musica alternativa’, quando tutto ciò che non era commerciale poteva essere ascoltato ed esser immagazzinato nella sua intima libreria musicale. Ciò che il quartetto del New Jersey propone è quindi una sorta di ritorno al futuro, un riproporre, almeno per quanto mi riguarda, qualcosa che non si ascoltava da molto tempo. Per delineare lo stile dei Can’t Swim si potrebbero nominare band come i Glassjaw (punk contaminato un po’ col thrash old-style, simil-Anthrax), oppure il post-hardcore dei
Rage My Way (Nuclear Blast)
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A nessuno di noi è sfuggita la notizia del terremoto in casa Rage dello scorso anno. La band di Peavy Wagner ha subito una totale rivoluzione che ha dapprima scosso il mondo del Metal (nelle prime ore era circolata la voce di uno scioglimento del gruppo), per poi scatenare una curiosità immensa nell’attesa della rivelazione della nuova line-up. Separatosi dai membri “storici” Victor Smolski (chitarra) e André Hilgers (batteria), il leader del gruppo ha portato a bordo il venezuelano e belga d’adozione Marcos Rodriguez alla sei corde e Vassilios “Lucky” Maniatopoulos dietro le pelli. Il risultato di questa nuova unione professionale è questo EP denominato ‘My Way’, titolo che con tutta probabilità veicola il significato dell’approccio che lo stesso Peavy vuole (ri)dare alla propria musica. L’opener e title-track del disco mostra tutta la potenza dei Rage ed esibisce le capacità dei nuovi entrati. Un riff monolitico
apre il pezzo, supportato da una batteria schiacciasassi, poi la musica si districa nella roca voce di Peavy con il sottofondo di un’acustica. Il brano si dimostra dinamico, colmo di cambi, con un chorus pronto per le prossime date live del gruppo. Dopo la title-track i Rage scelgono di ripresentare alcuni pezzi storici, ‘Black In Mind’ e ‘Sent By The Devil’ (entrambi estratti da ‘Black In Mind’, 1995), con un buon risultato. Ultima traccia contenuta nell’EP è la title-track cantata in spagnolo (omaggio al nuovo axeman?). In conclusione possiamo dire che la line-up si presenta al meglio, attendiamo ovviamente il full-length per un giudizio definitivo. Stefano Giorgianni
The Fading Till Life Do Us Apart (Autoprodotto)
81 Eccoci arrivati alla sorpresa del mese. Come spesso capita Metal Hammer vi propone dei gruppi e delle uscite che raramente arrivano nel nostro mercato e che, per vostra sfortuna, non riuscireste a scoprire autonomamente. Allora, prendete carte e penna e scrivete The Fading. La band israeliana propone un death metal melodico, di chiaro stampo ed ispirazione scandinava, e lo fa con coscienza e gran preparazione. Il sound di ‘Till Life Do Us
Part’ è compatto, oscuro, di qualità veramente alta, rievocando echi di capisaldi del genere come Dark Tranquillity e In Flames. Il melodic death è, come sapete, una tipologia di Metal abusata, talvolta bistrattata e di rado si riescono a trovare gruppi che sono in grado di presentare degli album degni di tal nome. Eppure i The Fading ci sono riusciti con questo loro secondo full-length. Già a partire dall’intro ‘The Last Of Us’ si intuisce che c’è qualcosa di speciale. Un melodia tenebrosa accompagna l’ascoltatore fino a quella che è la vera traccia d’apertura del disco, ‘A Moment Of Insight’. In questo secondo brano si può apprezzare appieno la proposta dei The Fading; tutti i dettami del melodic death sono rispettati, dai riff aggressivi alle linee melodiche, dai contrasti di stili vocali ai ritmi alternati, insomma un pezzo di death melodico come si deve. E nelle successive canzoni il quintetto di Tel-Aviv non delude assolutamente, da ‘Artificial Future’ alla suggestiva title-track, passando per ‘Where Last Hopes Dares’, sino ad arrivare alla monolitica ‘The Art Of Suffering’. Date una chance ai The Fading e non ve ne pentirete! Stefano Giorgianni
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