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di Gloria Buccino
ANTONIO SQUIZZATO
@antoniosquizzatoatleta
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Intervista a cura di Gloria Buccino foto dall’archivio di Antonio Squizzato
Antonio Squizzato, velista friulano appena rientrato dalla Para World Sailing Championship che si è tenuta dal 25 al 29 settembre 2021 a Warnemunde in Germania, in cui ha gareggiato nella categoria 2.4mrR, con un secondo posto nella classifica paralimpica e un quarto posto nella classifica generale (ndr. paralimpici e normodotati), già vincitore di sei titoli italiani, un oro e due bronzi europei, un argento mondiale e con tre partecipazioni alle Paralimpiadi alle spalle, ci ha concesso un’intervista nella quale racconta la sua passione per il mondo della vela, come uomo prima che come atleta.
Antonio, raccontaci un po’ chi sei.
Mi chiamo Antonio Squizzato, ho 47 anni, sono nato in provincia di Udine, esattamente a Pocenia. Ho sposato una bellissima ragazza sarda di cui sono follemente innamorato e che mi ha dato l’altro amore della mia vita, mia figlia, che ha 5 anni. Che altro dire, lavoro come impiegato, sono lunatico, a volte estroverso, innamorato della vita sempre, anche se a volte non lo dimostro, e testardo. Ah, ecco, sono fortunato: ho avuto un incidente con un trattore all’età di 3 anni, ho perso una gamba ma mi è rimasto tutto il resto, compresa la vita. Alcune doti le ho ereditate dalla mia famiglia, sono agricoltori, da loro ho imparato cose come il sacrificio, la tenacia, a sopportare e a fare del tuo meglio, il rispetto, il fatto che per avere, devi dare, e tanto altro. Ho vissuto fuori regione per qualche anno, sono spesso in giro per il mondo ma sono tornato dove ho le radici, in Friuli.
Quando hai iniziato ad approcciare la vela e come hai capito che era quello che faceva per te?
Il mio approccio alla vela l’ho vissuto grazie ad un amico che ora non c’è più, il Gil, abitava a Codroipo ed era uno sportivo a 360° e frequentava da sempre Lignano. Sai, cresci in un paese piccolo, fai tutto come fosse normale, poi ad un certo punto di rendi conto che hai dei limiti, o meglio, che devi fare alcune cose in modo diverso e magari hai timore a fare delle cose nuove, anche di farti male. Lui mi ha convinto a provare, sono salito su una deriva con lui d’estate a Lignano dalla spiaggia di Sabbiadoro ed ho iniziato a capire alcuni rudimenti, ad essere affascinato da questo sport. Ma la vera differenza la fanno le emozioni: se chiudo gli occhi riesco a ricordare ancora cosa ho provato la prima volta che, con l’acqua a mezzo busto, il caldo, il sale, ho spinto la deriva e ci sono salito sopra, ho preso timone e scotte in mano ed ho iniziato a navigare, con il vento, io da solo… mi sembrava di essere arrivato chissà dove e quando mi sono girato avevo appena superato le boe ed è arrivata anche la paura di non riuscire a tornare a riva… bè, emozioni. Questo fa muovere le persone, quello che provano. Ed è questo che mi ha fatto andare avanti in questo sport che, come tutti gli sport praticati ad alto livello richiede sacrifici e fatiche enormi. Ed insieme alla gioia è arrivata anche la consapevolezza che potevo farlo, che era una cosa mia.
Come sei entrato nel mondo delle regate e dell’agonismo?
Ho iniziato a fare qualche regata nel nord Adriatico con una barca, il 2.4mr, nato per lo studio in galleria del vento delle barche di Coppa America degli anni 80. È una barca che ti permette di stare seduto ed avere il timone e tutte le manovre a portata di mano, quindi adatta anche a chi ha una disabilità e, circa 20 anni dopo, quando era già diffusa nel mondo come classe, è stata adottata per il debutto della vela come sport paralimpico. In realtà in quelle regate mi sono avvicinato senza velleità di risultato anche se lo spirito agonistico è emerso subito come anche l’amaro di arrivare in fondo classifica. Ho quindi iniziato a prepararmi al mio meglio assieme al Gil, ottenendo qualche buona performance nel tempo. Il grosso cambiamento è venuto dopo che il fato ha voluto che
un equipaggio di Jesolo, che aveva classificato una barca in equipaggio da tre per le paralimpiadi di Pechino, ha dovuto cambiare il prodiere a sei mesi dall’evento ed in quella occasione contava più la prestanza fisica che i miei rudimenti di vela ed ecco che… da qualche regata della domenica mi sono trovato a prendere schiaffi alle regate internazionali. Ho fatto quell’esperienza e mi sono rimboccato le maniche salendo su barche diverse, facendo cose diverse, studiando quanto potevo ed iniziando un percorso con i tecnici federali. Posso anche dirti che possiamo provarci, che tante montagne le possiamo affrontare un pezzo alla volta, che dobbiamo stare attenti a che limiti ci poniamo NOI, che dobbiamo essere sempre ORGOGLIOSI di quello che siamo e di quello che otteniamo. Se riuscissi a portare questo messaggio….sarebbe tanta roba, credo! C’è un messaggio che vorrei riuscire a trasmettere a mia figlia: che possiamo fare sempre del nostro meglio con quello che abbiamo e che non è un dovere, è una opportunità!
Cosa significa per te essere un atleta paralimpico? Quale messaggio porta con sè questa dicitura e che ruolo sociale pensi che abbia questa figura?
Essere un atleta paralimpico all’interno della società, che messaggio porta…posso dirti cosa ha portato a me vedere degli atleti paralimpici: vedere ragazzi che hanno difficoltà a fare quello che si dà per scontato, alzarsi dal letto, andare in bagno, muoversi, a volte mangiare, salire in barca e tirare magari le scotte con i denti, combattere con 25 kn di vento ma non mollare, e poi magari sentirli dire “WOW la vita è una figata”, bè è un messaggio forte.
In varie interviste hai detto che continuerai ad andare a vela fino a che questa sarà per te una gioia, pura passione...ecco, cosa provi quando sei in barca?
E’ difficile descriverlo, usiamo spesso parole come passione, metterci il cuore ma, proviamo a pensarci, cosa significano veramente? Cosa è una passione per cui sei disposto a fare sacrifici, a farli fare alla tua famiglia, a mettere davanti questa cosa alla tua vita sociale, al lavoro, all’aspetto economico, ecc..? Sono le emozioni, proprio quello che provo la mattina svegliandomi e pensando alla vela, quando mi avvicino ad un evento, quando arrivo davanti ad un avversario che non riu-
scivo a battere magari dopo un anno di preparazione, quando riesco in una cosa che non mi veniva, e poi l’adrenalina della regata, quando vado vicino ad una vittoria o quando vinco. Non so se riesco a descrivere quello che provo senza essere banale ma penso che sia uno dei momenti in cui mi sento vivo, forte, innamorato, in cui tutto è amplificato. Quando ho vinto l’europeo open nel 2019 in Austria ho tagliato la linea di arrivo ed ero felice, si è avvicinato il tecnico federale per appendere la bandiera italiana alle sartie ed ho sfilato con il tricolore fino al porto… oggi se ci ripenso mi emoziono. Quando poi sono andato a cambiarmi ed ho telefonato a mia moglie ho iniziato a piangere e non riuscivo più a parlare, bè lo faccio per questo, per le emozioni che mi dà.
Fai parte della Società Canottieri Garda Salò e spesso ti alleni sul lago. Preferisci allenarti lì o in mare? Quali sono le caratteristiche e le differenze di questi due ambienti?
Mare o lago sono due cose diverse, bisogna conoscere e saper andare in tutte le condizioni. Abbiamo, in Italia, dei laghi bellissimi, il lago di Garda è una palestra eccezionale per le regolarità delle termiche, il lago di Santa Croce offre delle situazioni di allenamento buone, il tipo di onda che hai, l’influenza della morfologia, bisogna allenarsi anche sui laghi… Ma l’odore del mare, il sapore del salso sulle labbra, i suoi colori, le condizioni delle termiche, l’orizzonte così lontano, a me il mare emoziona e lo amo sopra e sotto. Ho fatto delle immersioni stupende davanti alle nostre coste. Durante la pandemia mi ha ospitato per gli allenamenti con la barca Laser la Società Nautica Pietas Julia a Sistiana, condizioni uniche anche queste con in genere termiche leggere e a volte bora da non riuscire a gestire la barca. Sono felice di aver iniziato una collaborazione con il network Marine del Friuli Venezia Giulia, l’FVG Marinas. Abbiamo diverse idee per organizzare degli eventi lungo tutta la costa da Trieste a Lignano e non vedo l’ora.
Che tipo di impegno e preparazione atletica prevede questo sport?
La preparazione deve essere completa, non solo fisica; comunque io lavoro, quindi devo mettere la sveglia la mattina alle 5.30. L’allenamento prevede un percorso stabilito con il preparatore atletico del mio circolo, la Canottieri Garda Salò. Cambia a seconda che si sia vicino o lontano da un evento ma comunque prevede un rinforzo delle parti impegnate nelle manovre in barca, abituandole a fare il movimento nel modo più corretto possibile ma anche un lavoro sui muscoli antagonisti e sulle parti che compensano, per prevenire infortuni. Integro con un allenamento aerobico, con il nuoto e lo stretching. Certo, con la pandemia sono cambiate tante cose privilegiando la preparazione a casa, soprattutto a corpo libero. Il tutto va accompagnato dalle indicazioni del nutrizionista. Poi bisogna prepararsi sul regolamento, rivedere regate e allenamenti per studiare gli aspetti della tattica e della strategia e,
non certo ultimo, bisogna allenare la testa!! Bisogna fare un lavoro mentale con attenzione alla respirazione, sui gesti atletici, sui gesti tecnici, sull’approccio agli eventi ecc. Un professionista riempie la giornata senza andare in barca, io rubo a spizzichi e bocconi, magari mentre guido per andare al lavoro, in pausa pranzo, ecc...
Quale è la tua percezione di inclusività legata all’ambiente sportivo?
Inclusività penso sia tutto quello che ci siamo detti fino ad ora. Sono Antonio, sono un velista. Al mondiale del 2019 dove sono arrivato quarto a 4 punti dal podio con una squalifica tecnica costata 12 punti, eravamo quasi 100 barche e, disabili, saremo stati 15, non lo so, non li ho contati e a nessuno interessava sapere se nella barca davanti o in quella dietro c’era un disabile o un normodotato, era un avversario da battere e basta. Un atleta. È questa l’integrazione? Io penso di si. Ci perdiamo a volte sulle definizioni: disabile, portatore di handicap, handicappato…. Ma se parlassimo di persone e basta? Se ci fosse alla base il rispetto per le persone servirebbero tutte queste leggi per tutelare alcuni? Io, quando me lo chiedono, parlo volentieri ai ragazzi nelle scuole e faccio vedere la protesi che porto e racconto che vado in barca. Questo per far capire che sono semplicemente una persona, che non deve essere una carozzina o una protesi a mettere una distanza tra le persone e che anche se ho una protesi posso provarci e magari ci riesco.
Perchè spingere un bambino a praticare uno sport?
Qua ti devi prendere qualche giorno per ascoltare tutte le motivazioni! Scherzo, ma l’elenco è lungo! Posso dirti che sento spesso parlare delle nuove generazioni, della depressione in aumento tra i ragazzi, di mancanza di impegno e molto altro ma ti posso dire che nell’ambiente dello sport che frequento ho avuto modo di conoscere ragazzi meravigliosi, di cui i genitori devono sicuramente essere fieri. Ragazzi che fanno chilometri per andare ad allenarsi e magari capita la giornata di piatta o di troppo vento, si abituano a doversi accontentare in alcuni momenti, a desiderare in altri, si abituano a fare sacrifici allenandosi quattro o cinque volte alla settimana e studiando alla sera, a dover guadagnare con fatica il risultato in classifica ma la soddisfazione della conquista, del guadagno, di vedersi migliorare, di un risultato ottenuto con le proprie forze... quanto vale, quanto motiva, quanto valore aggiunto ha, quanto ti dà per affrontare poi le situazioni della vita? Poi nella vela sei all’aperto, sull’acqua con un mezzo e devi controllare un elemento, il vento, magari in barca da solo, devi decidere dove andare, come approcciare…. Credo che per un bimbo sia una occasione unica, fantastica.
Grazie Antonio e...buon vento!
NIVES E ROMANO: GIÙ LE MANI DALLE GIULIE
@mellun71
Una doppia intervista sul futuro delle nostre montagne
Testo a cura di Melania Lunazzi - foto di Alex d’Emilia e di Luca Della Savia
Sono la cordata - e la coppia - più alta del mondo, Nives Meroi e Romano Benet, scalatori dei quattordici Ottomila, fieri portavoce di un approccio by fair means alla montagna, paziente, costante, ostinato, pulito. E vivono la loro quotidianità, in tutte le stagioni, ai piedi delle Alpi Giulie, montagne di confine tra tre popoli. Qui Romano è nato, in una casa nella frazione di Fusine. Qui Nives è arrivata da bambina, assieme ai suoi genitori, dalla Lombardia. E qui si è formata la loro coscienza di montanari, la loro visione così speciale della vita, in un luogo dove l’orizzonte è delimitato dai boschi e da barriere imponenti di roccia. Barriere che però non hanno mai costituito un limite. Tutt’altro, le Giulie sono state un affaccio sul mondo, l’inizio di tutto, il trampolino di lancio per un grande sogno diventato realtà, in un viaggio avventuroso e senza confini durato, nella fase della scalata agli Ottomila, ben ventisette anni. Entrambi sono stati folgorati dalla bellezza delle montagne di casa. Fin da piccoli le hanno avvicinate come amiche, con naturalezza e senso di gratitudine, mai sopito nel tempo, per quanto di buono esse offrono, se accostate con rispetto e attenzione, alla natura umana. Una natura che ha sempre bisogno di essere risvegliata nell’originaria impronta più selvaggia e animale, troppo presto repressa o dimenticata. E le Giulie li han portati, per strade diverse, all’incontro reciproco fino alla scelta di condividere un’unica strada insieme. Gli abbiamo chiesto di raccontarcele e di raccontarci, attraverso la loro prospettiva di residenti, come vedono il futuro della montagna.
Come pensi alle Alpi Giulie quando ne sei lontano/ lontana?
Romano: Le Giulie per me sono importanti, mi ci trovo bene da sempre. Da lontano sono un luogo sicuro dove tornare, anche se in Himalaya è quasi come se fossi nelle Giulie. Seppure con molte differenze, in entrambe non c’è gente, non c’è affollamento. Le Giulie in più hanno su di me un forte impatto emotivo: ne ho bisogno, sempre. Le Dolomiti ad esempio sono bellissime, ma troppo tracciate da percorsi facili, troppo accessibili a tutti, ovunque. Nelle Giulie non hai le sicurezze delle addomesticate Dolomiti, per questo sono meno frequentate. Io ho iniziato da bambino, esploravo pian piano i dintorni di casa. Del resto ero abituato a camminare perché per andare all’asilo dovevo fare ogni giorno quattro chilometri a piedi, accompagnato dalla nonna lungo quella che oggi è la ciclabile. Odiavo quel tragitto, ma tutti quei chilometri sono serviti a formarmi sulle attività alpinistiche successive. Infatti non ho mai percepito la fatica e non ho paura di restare solo, anche se, ovviamente, mi piace molto stare in compagnia.
Nives: Da lontano vivo le Giulie come un luogo dove tornare: c’è con “loro” un legame affettivo e c’è il piacere di muoversi in un ambiente familiare rispetto a quello himalayano. Quando sono lontana provo sicuramente una sorta di senso di nostalgia, che non è mai assenza ma, al contrario, presenza: le hai sempre con te, anche quando non ci sono, come con una Vista del Mangart dal Lago Superiore di Fusine
persona cara. Anche quando si va sugli Ottomila rimangono dentro, sono una parte di me, di noi. In una parola, sono casa.
Che cos’hanno di speciale rispetto ad altre montagne?
Romano: Direi la severità. A vederle da sotto fanno impressione: le pareti nord sono scure, tetre, non danno l’idea di pareti solari, ispirano repulsione. Il Mangart di Coritenza, che è la mia montagna di casa, ha spesso una luce bluastra. Però quando ci sei immerso, tra quelle rocce, le Giulie ti lasciano passare e ci stai bene. Per qualcuno rimangono sempre impegnative. Non c’è dubbio che per scalarle ci vuole il senso della ricerca della via: devi metterti sempre nei panni dei primi salitori. Io, oramai, sono integrato con le pareti nord, ci ho vissuto tutta la vita, all’ombra di quel versante.
Nives: Cos’hanno e cosa, con tutto il cuore, spero riescano ancora ad avere in futuro! Sicuramente un lato selvaggio, inteso nel senso di naturale. Che è poi quello che chi si avvicina alla montagna cerca - credo - per risvegliare un briciolo di memoria della propria appartenenza al regno “animale”. Un aspetto relativamente integro, non modificato dall’uomo. Ed è quanto si spera, io spero, continuino a mantenere, anche se i presupposti sembra che non ci siano. Purtroppo la mentalità attuale è quella di trasformare sempre più la montagna in un banalissimo parco giochi, pensando che questa sia la strada per incrementare il turismo.
Sella del Mangart
C’è un luogo, un punto, un itinerario che prediligi in particolare modo?
Romano: Sotto la parete dell’Alpe Vecchia, ad una quota di circa 1400 metri, c’è un passaggio, un punto dal quale nel giro di pochi secondi, mentre sali, si apre la parete all’improvviso, uscendo dal bosco fitto. Se ci vai verso sera poi, la luce illumina le rocce e le rende più dolci, più accoglienti. Io ci vado in qualsiasi stagione, almeno una volta alla settimana. Bisogna salire in senso antiorario lungo il sentiero 613 dall’Alpe Tamer verso l’Alpe Vecchia. È sempre una sorpresa arrivare lì: vieni quasi investito dalla parete. Situazioni simili ad esempio nelle Alpi Carniche non le trovi, perché c’è sempre una fascia intermedia di malghe o prateria e hai tempo di abituarti alla parete avvicinandola pian piano.
Nives: Anche per me è l’Alpe Vecchia (Romano mi ha copiato! ride scherzosamente). Il sentiero sale in mezzo al bosco e poi la vista si apre con l’effetto delle quinte di un teatro. Sembra che il Mangart di Coritenza ti caschi addosso da quanto incombe. Di colpo le fronde degli alberi scivolano via e ti viene sbattuta in faccia la parete.
Dove porteresti una persona che viene per la prima volta nelle Giulie?
Romano: Nelle Giulie slovene a Cima Sleme partendo da Passo Vršič: è un percorso di circa un’ora di cammino con un sentiero comodo che porta a questa cima ed è proprio nel centro delle Giulie: da lì le vedi tutte e in autunno è un itinerario magico, per chi ama il cosidetto foliage, parola oggi troppo di moda (ride). Non a caso il panorama è stampato su diverse cartoline della Slovenia.
Nives: Fin tanto che non sarà uno scempio, qui ai laghi di Fusine. Intorno al lago ci sono diversi sentieri che offrono varie prospettive sia sul lago, che verso i boschi e le pareti. Percorsi semplici, che permettono di osservare lo scenario che c’è intorno e di subirne la misteriosa fascinazione. Direi comunque che un pregio delle Giulie è quello di avere diversi percorsi di fondovalle che offrono un terreno adatto Vista della Sella del Mangart
anche a chi non è necessariamente tecnicamente preparato. È ottima anche la zona di Valbruna così come il versante a ridosso delle Alpi Carniche: là ci sono molti boschi e meno rocce ma in compenso panorami che possono addirittura ricordare il Canada.
Il più grande insegnamento che ti ha dato la montagna.
Romano: Penso che le montagne, se le rispetti, non siano né buone né cattive, come a volte si sente dire. Se le rispetti ti senti accolto e protetto. La montagna ti dà strumenti per fronteggiare le difficoltà. Ti mette alla prova e ti ridimensiona le difficoltà della vita reale. La vita rustica fatta tra queste montagne da bambino mi ha allenato ad affrontare tutte le difficoltà della vita.
Nives: La pazienza, sicuramente. Per arrivare in cima devi fare un passo davanti l’altro ed è così, molto semplicemente, che la montagna ti mostra come impegnarti con costanza, determinazione, volontà. Quello che la montagna insegna è in qualche modo l’allenamento all’umiltà. E poi c’è un’altra cosa importante. La montagna ti insegna anche ad accettare i fallimenti, a considerarli semplicemente come tappe di un percorso, senza vederli in maniera assoluta e definitiva. Quando fai trascorrere un po’ di tempo e guardi indietro, ti rendi conto che i fallimenti sono tappe del tuo stesso cammino.
Ora una domanda provocatoria, ma neanche tanto. Secondo te i montanari salveranno il mondo?
Romano: Ma esistono ancora i montanari (sorride ironico)? Purtroppo qui, nel tarvisiano, c’è la tendenza a monetizzare tutto. Si stanno distruggendo paradisi naturali per costruire parcheggi e incassare pedaggi. Qui si pensa, ad esempio, alle auto ma purtroppo non si pensa ai ciclisti, al turismo su due ruote. Quindi a volte sono gli stessi “montanari” a immaginare che la montagna debba diventare un parco divertimenti: io non mi trovo d’accordo. Penso invece che dovremmo essere consapevoli che qui nelle
Panoramica delle vette verso est dalla Sella del Mangart
Giulie abbiamo una foresta millenaria da custodire e puntare a valorizzare un tipo di turismo più contemplativo. E al tempo stesso investire sulla messa in sicurezza di sentieri e ferrate. Quest’anno ad esempio non si è speso nemmeno un centesimo per fare manutenzione sulle ferrate, eppure per gli impianti di risalita i soldi si trovano sempre. In questo bisognerebbe guardare alle Dolomiti, dove i sentieri e le ferrate sono sempre in perfetta manutenzione. Oppure guardiamo ai parchi americani: come mai riescono a rendere milioni di dollari senza che vengano realizzati parcheggi e infrastrutture invasive?
Nives: Sì, se i montanari per primi si rendono conto di che cosa sono e cosa vogliono. Potrebbero salvarla, perché le montagne sono state sempre, in special modo le Giulie, luoghi di confine e proprio per questo luoghi aperti all’incontro e al confronto, al dialogo e alla condivisione culturale. Le montagne non sono mai state dei muri invalicabili, ma dei punti di incontro tra le varie vallate, tra diverse lingue e culture, e in questo senso la gente di qua è sempre stata aperta all’altro. Le montagne attraverso i valichi hanno permesso alla gente di andare al di qua e al di là degli stessi. Quello che non serve, a mio parere, alla montagna è l’apertura totale e incondizionata verso i modelli importati dalla città. Si pensa, a torto, a mio avviso, che per attirare il turismo cittadino si debba proporre ciò che il cittadino trova in città. Io credo invece che ci si debba sforzare di capire cosa offrire al cittadino che non sia una brutta copia di quello che trova a casa sua. Il turismo serve alla montagna perché se i residenti non hanno la possibilità di continuare a vivere in montagna per mancanza di risorse sono costretti a spostarsi. E l’abbandono della montagna comporta, lo sappiamo bene, una serie di problemi che dalle terre alte arrivano fino in città. In Slovenia, e quindi anche nelle Giulie slovene, c’è una cultura turistica diversa, pur essendoci grande afflusso il territorio viene preservato e vissuto in maniera naturale. Nelle Dolomiti sappiamo bene che c’è un eccesso di frequentazione, rumore e inquinamento sui passi troppo frequentati da automobili e motociclette: se pensiamo che questo sia il modello da seguire andiamo avanti così. Ma con che conseguenze sulle selvagge Giulie?