DARTS “Creative Writing” 2015
Bekroonde verhalen Awarded stories
Inhoudsopgave
Inleiding 5 Winnende verhalen in de originele taal Mattia Colombo, Braci (Corvin Castle) 7
Andrea Memmo, Il Giardino dell’anima (Villa Rufolo)
19
Luca Vecellio, La Sacca (Alden Biesen) 33
Winnende verhalen in het Engels Mattia Colombo, Embers (Corvin Castle) 46
Andrea Memmo, The Garden of the Soul (Villa Rufolo)
58
Luca Vecellio, The bag (Alden Biesen) 71  
Inleiding De Landcommanderij Alden Biesen is partner in een Creative Europe project DARTS – Digital Art & Storytelling for Heritage Audience Development, dat tot doel heeft digitale kunst en creatief schrijven in te zetten om een breder en jonger publiek aan te trekken in historische sites. De projectpartners zijn: Centro Universitario Europeo per I beni culturali, Ravello (Italië - coördinator) Landcommanderij Alden Biesen, Bilzen (België) Muzeul Municipal Campulung, Campulung Muscel (Roemenië) Università Telematica Pegaso, Napoli (Italië) In het kader van dit internationaal project werden twee wedstrijden uitgeschreven voor deelnemers vanaf 18 jaar. Zij kregen als opdracht een digitaal kunstwerk of een verhaal te creëren, volledig gebaseerd op de geschiedenis/personages van één van de drie partnersites: Villa Rufolo (IT), de Landcommanderij Alden Biesen (BE) of Corvin Castle/kasteel van Hunedoara (RO). Na een preselectie en een definitieve selectie door een internationale jury werden voor elke wedstrijd drie deelnemers tot winnaars uitgeroepen, een per historische site. Voor de wedstrijd creatief schrijven, kregen we inzendingen in het Italiaans, het Engels en het Nederlands, waarvan wij u de drie winnende verhalen hierna voorstellen in de originele taal en in een Engelse vertaling. Mattia Colombo, Braci/Embers (Corvin Castle) Andrea Memmo, Il Giardino dell’anima/The Garden of the Soul (Villa Rufolo) Luca Vecellio, La Sacca/The Bag (Alden Biesen)
Wij willen hierbij ook onze dank betuigen aan de internationale jury voor de efficiëntie waarmee zij deze evaluatie tot een goed einde brachten. Juryleden: Raluca Bem Neamu (RO) Frank Degruyter (BE) Martino Gozzi (IT)
BRACI
di Mattia Colombo Caro lettore, permettimi di narrarti una storia, una storia accaduta tanto tempo fa, ma non per questo meno vera; una storia che la bocca dell’uomo ha volto in leggenda. Perché la vita è assai abile nel confondere le sue tracce, ma le esistenze degli uomini, per quanto semplici, restano impigliate nelle maglie della rete gettata dal tempo; di tanto in tanto, qualcuno inciampa in quelle maglie, sgrovigliando dei ricordi. Le leggende tengono al caldo, come un giaciglio fa con le spossate membra, e il loro compito è quello di narrare le vicende di uomini immortali a uomini mortali. La storia che ti racconto, caro lettore, è quella di uomini obbligati a vivere sotto un sole straniero, costretti ai lavori forzati in cambio d’una promessa di libertà. La materia in questa vicenda narra dell’ardore di Ceyden, Bayar e Nazif, Giannizzeri catturati dagli ungheresi durante l’assedio di Belgrado del 1456. Trascinati nel castello Hunyad, nella remota regione transilvana, ai tre sventurati venne promessa la libertà qualora fossero riusciti a cavare l’acqua dalla pietra. Permettimi di presentarmi, caro lettore: il mio nome è Leggenda. E questa è la loro storia. L’autunno s’adagiò sulle colline intorno, spruzzando di rame gli alberi e dando all’erba l’aspetto d’un riarso dipinto. Un boato lontano e solitario giunse al castello come il colpo sparato da una nave pirata. Il falco spiccò il balzo da una roccia, il piumaggio superbo, e come un dardo scagliato da un arco fendette l’aria fredda. I grandi e scuri occhi catturarono la scena che si svolgeva in un piccolo cortile del castello appollaiato sugli speroni rocciosi. Tre prigionieri, vestiti di stracci, picchiavano ritmicamente con delle mazze il pavimento breccioso del cortile esiguo come una lingua d’acqua tra due vaste terre. Lo sguardo sagace del falco si coricò sul carcerato che con più ferocia frantumava la pietra. Di fisico possente ma slanciato, sulle spalle larghe si posavano capelli come il piumaggio d’un uccello. I lineamenti scavati, le rughe che attraversavano la fronte come i solchi lasciati dai carri nei campi di grano, dicevano che quello non era uomo che s’intendeva di scherzi. Due segni agli angoli della bocca s’incidevano nella carne le rare volte in cui parlava, dandogli un’aura di sardonica freddezza. Negli occhi, la risoluzione si dibatteva nella melmosità della tristezza. La mano sinistra priva di anulare e medio disse al falco che, il giorno in cui davanti alla sgangherata porta della casa di suo padre si presentarono gli ottomani per strapparlo alla sua famiglia e addestrarlo e arruolarlo nel corpo dei Giannizzeri, suo padre, fiero contadino dalla schiena maciullata da anni di lavoro nei campi, che mai aveva versato lacrime nella sua vita, afferrò in preda allo scoramento delle cesoie e gli troncò di netto le due dita di quella mano. Ma gli ottomani afferrarono egualmente quel bambino strillante e stillante sangue, e fecero per caricalo sul carro che l’avrebbe allontanato per sempre dalla sua famiglia. Il padre corse verso i soldati con un forcone; non fece a tempo ad arrivare a più di venti passi. Si schiantò al suolo con tre frecce conficcate nel petto. Le grida della moglie non lo scerparono dalle dita del Paradiso, dove avrebbe mangiato dell’albero della vita. L’ultimo anelito di vita fu quello che spinse il carro dei turchi lontano. Il prigioniero percuoteva la pietra con forza insostenibile, e i due compagni di tanto in tanto si fermavano, catturando aria e demandandosi da quale fonte il suo corpo attingesse tutta quella energia. Il vitto era deprecabile, il letto era una manciata di fieno alla quale avevano attorcigliato degli stracci che puzzavano di sterco, e la cella era una nicchia ricavata nella nuda pietra, a malapena sufficiente a contenere un uomo. “Ceyden, akhi, rallenta, o ti scoppierà il cuore.” “Lascialo stare, Bayar.”
Il falco, incuriosito, si posò sulla cima d’un torrione con somma eleganza, quasi il suo corpo danzasse. Era la libertà che inoculava a Ceyden quella linfa che i suoi compagni ammiravano, e di cui erano intimoriti. Egli non cessava mai di pensare alla libertà, il suo pensiero vi si accoccolava dentro anche quando il suo corpo si rigenerava nelle scarse ore di sonno; era la promessa di libertà a pungolare la sua vita, ad impedire che si sdraiasse per mai più alzarsi. Quando il sole autunnale tingeva d’oro pallido le colline rugiadose, filtrando appena dalla finestrella sbarrata della sua cella, Ceyden si destava, e il suo corpo, fiaccato e vescicoso il giorno prima, pareva diverso, mutato, come quello d’un serpente che abbandoni il tegumento per una nuova, giovante corazza. Ciò che restava invariato era il suo sguardo, uno sguardo infoscato dall’odio, addensato d’atroci ombre. Avrebbe scavato, avrebbe fatto piangere la pietra; la vita valeva poco ed era incerta, ma quanto è vero Allah lui avrebbe strappato il cuore a tutti questi bastardi infedeli, fossero essi uomini, donne, vecchi o bambini. E così avrebbe visto se il loro Dio era così misericordioso e potente da bloccare il braccio che serrava la spada. Ceyden dimorava da anni in una tomba. Ma non era morto. Il falco riprese il volo, sparendo nella nebbia. La lucertola sgusciò inafferrabile tra i fili di legante che allacciavano le rocce del castello, in cerca d’uno spicchio di sole per scaldarsi. Aveva lo stomaco gonfio d’insetti e il collo scattava a destra e a manca. S’immobilizzò quando un’ombra le passò accanto, salvo poi scattare e ripararsi in una minuscola crepa. Nazif si sedette, poggiando la schiena contro la parete est del cortile. Anche lui aveva lo stomaco pieno, sempre che potesse definirsi pieno uno stomaco che aveva rinunciato da tempo immemore alle sollecitudini dell’appetito. Guardò il cielo nuvolo, fece zoppicare lo sguardo fino alle chiome di querce che cotonavano la collina e che, da quella distanza, gli parevano nulla più che dei gomitoli di ragnatele. La sua vista peggiorava svelta. La lucertola si sporse timidamente dalla fenditura, e la sua vicinanza con una di quelle giganti creature che così spesso vedeva aggirarsi fra quei gruppi di rocce la spaventava. Nazif era il più minuto e vecchio dei tre prigionieri; la mente rinfrancata dalla fede aveva conosciuto molti inverni, molti dei fiocchi di neve di quegli inverni erano rimasti imbrigliati tra i folti intrecci della chioma, senza più riuscire a fuggirne; le spalle spioventi come dirupi, le ginocchia spesse come i massi d’un fiume, gli occhi un tempo, quand’era giovane, smaltati d’un fascino rapace, ora smussati, come quelli di una raganella; la bocca dalle labbra sottili era un taglio tra i peli crespi della barba, e i denti appuntiti e limati come i rebbi di una forca erano difficili da intravedere. “Che caldo della malora” disse Bayar, lasciandosi cadere accanto al compagno. Nazif annuì. Bayar sentiva l’odore pungente sprigionato dai loro corpi, un odore di sudore e fatica e patimenti, al quale proprio non riusciva a fare l’abitudine. “Credi che questi giaour ci permetteranno mai di fare un bagno come si deve?” “Levatelo dalla testa.” Lo scrocchio del metallo contro la pietra calamitò i loro occhi. “Quel diavolo non s’arrende.” “E noi?.” “Non arriverà vivo al prossimo plenilunio.” “Da quanto siamo prigionieri?”chiese Nazif. “E come faccio a saperlo?.” “La sera, non intagli forse una tacca con una pietra nel muro della tua cella, segnando un altro giorno passato?.” “E tu come lo sai?.” “Allah il Misericordioso mi ha dotato di scarsa vista, ma di buon udito. Sento la pietra che sfrega.” Bayar lanciò uno sguardo al suo compagno “Quasi otto mesi.” “Otto mesi … Sono otto mesi che Ceyden scava senza requie, con la vitalità d’un leone, e sono otto mesi che tu dici che di questo passo non vedrà la prossima luna nuova.”
“Non si arrende.” “E tu, ti sei arreso?.” “Certo che no. Io confido in Allah il Compassionevole. Questa è una prova, akhi.” “Che prova?.” “La saggezza si conquista solo attraverso la sofferenza.” “ E credi che lui” indicò con un cenno del capo canuto il prigioniero che scavava forsennatamente “non stia soffrendo?.” “Io questo non posso saperlo. La lingua di Ceyden è come una pergamena conservata in un monastero, non si srotola quasi mai. Potrebbe avere una mente illuminata, ma qual senso può mai avere una coscienza eccelsa, un animo virtuoso, se si trova imprigionato in un corpo che non permette a quella grandezza di emergere? Qual senso può mai conferire alla vita l’esistenza di qualcuno che si isola in se stesso?.” “L’odio disperde nell’aria i sentimenti positivi, i ricordi degli anni felici, quelli spensierati dell’infanzia, dove ogni colore era più sfavillante, ogni emozione più genuina. L’odio disperde ciò, e il tuo animo si ritrova a stringere una manciata di fredda cenere.” Bayar chiamò alla gola la saliva con un gemito gutturale, poi la sputò “Non v’è odio nell’amore di Allah, nel sentiero che ha tracciato per noi. Solo prove.” Poi posò lo sguardo sulla chiesa dall’altra parte del cortile, con la sua croce che si incastonava nel cielo. Nazif guardò il suo compagno, e una sorda malinconia gli fece affiorare lacrime agli occhi. Quel ragazzo era instancabile come un innamorato, gioioso come un fringuello, facondo come la tempesta. Persino la sua picca, quando bussava sulla pietra, produceva un suono non dissimile da quello di cento risate. “Ti invidio, Bayar, invidio il tuo candore.” Bayar gli poggiò una mano sulla spalla “Non devi invidiare niente, akhi, devi solo aver fiducia.” Quella sera, nella sua misera cella, Nazif fissava la luna sbarrata, una stilla di latte sul pavimento oscuro del cielo. Un ragno grosso come il palmo d’una mano si calò dalla sua tela fin sul bordo della finestrella, stagliandosi prima contro la luna, poi mescolandosi come vino nel nero della notte. Nazif era tormentato da un pensiero che non poteva confidare a nessuno, nemmeno a se stesso. Aveva rinunciato alla libertà; lui non la custodiva gelosamente come Nazif, ne l’aggrediva brutalmente come Ceyden. Semplicemente, vi aveva rinunciato. Non era forse quello lo scopo della prigionia? L’annichilimento dell’uomo? Quanti prigionieri aveva visto, maltrattato, disprezzato, quando era nei Giannizzeri? Meditava in una notte eterna sul suo passato così breve; un uomo pressoché privo di istruzione che, per scacciare la disperazione, aveva cercato, nelle prime notti di prigionia, di riportare in vita il fasto delle epoche passate, l’ardore degli incorruttibili eroi, per trarre da essi giovamento, un esempio di condotta. Ma la sua mente sterile in materia di sogni aveva sciaguratamente fallito, sicché il suo pensiero aveva principiato a soffermarsi sull’idea del suicidio. Dannazione eterna a chi compia un atto del genere! Col trascorrere dei giorni sempre uguali, delle notti egualmente fredde, s’era reso conto che poi, dopotutto, la sua vita non era cambiata; ad essere mutati erano i termini di essa. Nazif s’era arruolato nei Giannizzeri volontariamente, lacerando nello scarno petto il cuore dell’amorevole madre, che già s’era vista strappare un figlio. Nazif non era mai stato, da bambino, espansivo e gioviale; prediligeva i giochi in solitudine – anche perché nessuno mai l’aveva invitato - giochi che la sua bollente mente popolava di personaggi fantasmagorici, di donzelle in pericolo, di draghi malvagi. Crescendo, la sua elusiva diversità apparve più evidente; lavorava nei campi, guadagnando quel tanto che bastava per provvedere al sostentamento proprio e della sua famiglia. Ma poi era capitato qualcosa, un contatto fortuito con una soave creatura gli aveva provocato un dolore pungente e sottile da qualche parte, vicino al cuore. Lei era bellissima, capelli come spighe di grano, labbra come fragoline di bosco, bella come i versi d’una poesia mai letta, o una preghiera mai pronunziata. Nazif l’aveva amata dal primo momento; e l’amò nei due tormentanti anni successivi. Non le aveva mai parlato, almeno non con la bocca. La sua fantasia d’adolescente, quando la mirava, galoppava come un puledro alla prima corsa nella prateria, i muscoli tesi allo spasimo, la foga incontenibile. Un giorno, un giorno in cui il sole morente era una pietra di rubino incastonata solo a mezzo nel semicerchio del cielo, si avvicinò a lei, e le affidò, senza guardarla, il suo amore. Lei non disse niente, si allontanò. Qualche tempo dopo Nazif la vide scambiarsi baci con un ragazzo, all’ombra di un riparo per gli animali. Fuggì di casa, e mentre correva, la gola
che ardeva, gli occhi che grondavano fuoco, implorò accoratamente il perdono della madre. Gli ottomani gli avevano dato una casa, una fede, la castità, una nuova vita: in cambio, chiedevano solo la sua sudditanza al sultano, padre di tutti loro. Lo sferragliare della porta della cella gli rammentò il suo stato; s’alzo a sedere sul pagliericcio, fissando l’oscurità rettangolare venir diradata dallo sghembo sorriso di Tibor; la sua claudicante sagoma entrò, come di consueto per quell’ora, con la ciotola del pasto. S’inginocchiò, posandola ai piedi del prigioniero. “Shukran.” “La shukra ala wagib.” Nazif sorrise: il ragazzo era sveglio. Lanciò un’occhiata che valicò la gobba di Tibor, a incontrare i contorni che la luce sprezzante della luna rasentava, e un’espressione di disgusto gl’incrinò i lineamenti. Lajos entrò nella cella, inveendo contro Tibor, colla sua voce sepolcrale: “Spicciati, mostro, non ho tutta la notte.” Tibor fece un breve cenno a Nazif, s’alzò e si diresse all’uscita. Lajos lo colpì alle spalle, facendolo cadere nel corridoio, poi fissò il recluso, gli disse qualcosa in quella sua lingua gutturale e gli sputò contro; poi inchiavò la porta della cella. Il topo squittì, appiattendosi contro il muro, i peli color polvere ritti sulla schiena, la lunga coda a scaglie anellate dritta come la lama d’uno stiletto. Nei suoi occhi tondi, neri e lampanti, si riflesse la scena. Tibor si rimise in piedi a tentoni, rimettendo rapido nelle ciotole il contenuto fuoriuscito. Lajos lo guardava repulso, appoggiato contro il muro. Quel mostro era spaventoso a vedersi, con quella gobba deforme, simile a una collina venuta su male, la testa incassata tra le scapole e le gambe tozze, una più corta dell’altra, tant’è che quando camminava ricordava una nave ancorata pietosamente in balia delle onde del mare; il volto sfigurato era difficile a scorgersi, poiché la sua mostruosa anomalia lo costringeva a tenere il capo mezzo reclino sul petto, ma purtroppo lui, Lajos, l’aveva visto più e più volte, quel viso orripilante, frutto dell’errore di Dio, o prova della sua spietata crudeltà: le guance incavate colorate come lo sono i cadaveri in putrefazione, i denti come sassi scheggiati, i pochi ciuffi di capelli che ricadevano, come i gracili rami d’un salice piangente, davanti a quegli occhi strabici, uno gonfio, l’altro semichiuso. “Muoviti, morte ambulante.” Tibor riprese a camminare, fiancheggiato dal topo, che correva lungo l’interstizio tra la parete e il pavimento in pietra. Quando arrivò alla seconda cella, Tibor venne spintonato via, e il carceriere pescò tra le tante la chiave arrugginita che gli serviva. Due mandate dopo la porta si schiuse, e Tibor entrò nella cella. Il prigioniero, quello giovane, dallo sguardo sognante, era impegnato in quella sua strana usanza di incidere nel muro una linea ogni volta che il sole si sdraiava oltre l’orizzonte. Meno di metà della parete era graffiata con tagli verticali, sottili e piuttosto regolari, a distanza quasi inesistente l’uno dall’altro. Che strano personaggio! Forse era un’usanza della sua terra natia. Tibor fece per posare la ciotola a terra, quando Bayar allungò la mano, prendendola. Tibor lo guardò fissare la solita, squallida cena, e quando rialzò gli occhi, pareva quasi contento. Era davvero uno strano uomo! Nel corridoio ragnateloso, Tibor sentì il giovane prigioniero parlare da solo. Non era la prima volta che ciò accadeva; Tibor pure usava disquisire ad alta voce tra sé: che anche lui lo facesse per apprezzare la compagnia della propria voce? Rifletté sulla disgraziata sorte dei prigionieri. Conosceva a malapena i loro nomi, sapeva produrre solo pochi suoni nella loro aspirata lingua, e non provava pietà per loro, perché provarne voleva dire nutrirne per se stesso. Anche essi, come lui, erano dileggiati, considerati alla stregua di cani randagi, ospiti indesiderati. Tibor lavorava come custode di quelle celle da tempo ormai dimentico, da così a lungo che i lembi di quello s’erano sfaldati, accartocciandosi e allungandosi in direzioni opposte, come stendardi sfilacciati nel vento. Anche lui era prigioniero di quel castello, ma era l’unico lavoro che potesse avere; all’ombra dei torrioni che si protrudevano verso il cielo, s’aggirava nelle muffose segrete, dove l’umidità rendeva scricchiolanti le ossa, chiuse le narici, e svolgeva i compiti che gli venivano assegnati. Aveva saputo, quell’anima rinnegata dai suoi stessi genitori, che ai prigionieri era stata promessa la libertà in cambio dell’acqua; ebbene, sperava che riuscissero a far lacrimare la pietra, e riguadagnassero la pace. La terza cella era più buia delle altre, perché si trovava nel fianco del castello che s’affacciava sul crinale non battuto dalla luna. Tibor entrò,
cauto, e vide il prigioniero steso sulla sua cuccia, le dita delle mani allacciate dietro il capo, gli occhi chiusi, il respiro che regolarmente alzava e abbassava il petto. Ne sentiva il ferale sguardo addosso, e appoggiò la ciotola del cibo e si allontanò più in fretta che poté. Si voltò sulla soglia della cella, e vide Lajos che pungolava il prigioniero col tacco degli stivali, provocandolo. Il custode s’augurò che quel gigantesco essere balzasse come una catapulta, spezzando la spina dorsale di quel bastardo, facendole emettere il suono che fanno le spade forgiate con lega scadente quando incontrano una lama ben più pura. Ma il detenuto non si mosse. Lajos tornò sui suoi passi, e Tibor, voltandosi per l’ultima volta, intercettò lo sguardo ustorio del prigioniero. “Hai assolto ai tuoi doveri, scherzo della natura?”gli domandò quando furono di nuovo nel corridoio. “Sì, signore.” Trovarsi faccia a faccia con quell’animale che puzzava perennemente di vino metteva Tibor a disagio. “Ne sei proprio sicuro?.” “Sicuro, signore.” “Sai” gli disse, appressandosi ancora, un’ombra malvagia nello sguardo “vorrei proprio che tu mi stessi mentendo. La mia verga saprebbe giustamente ricompensare questo tuo peccato.” Tibor non disse nulla. “Guardami negli occhi, quando ti parlo, mostro!.” Tibor, dalla distanza a cui si trovavano, non poteva eseguire l’ordine, poiché la sua deformità glielo impediva, era come una placca di metallo che gli teneva abbassata la testa. Ma lo fece egualmente, e il suo gemito di dolore mentre alzava il capo, inarcando la sua storpia schiena per quanto possibile, piegandosi di sghembo sulle gambe, deliziò Lajos, che eruppe in una sonora risata, battendogli la villosa mano sul petto. Il ticchettio delle monete fece gli fece dire : “Sai, so che frequenti quel sordido bordello. Ho saputo che ti piace quella puttana dai capelli rossi.” Tibor deglutì. “L’ho provata, la troia, gliel’ho ficcato nel culo, godendo delle sue grida disperate. Ogni tanto le vacche necessitano d’esser montate dal toro.” Lajos se ne andò, ridendo. Tibor restò fermo, chino nell’ombra. L’avvoltoio dal petto ramato volitava nel cielo innevato, gli occhi bianchi come i fiocchi di neve che si rincorrevano in cerchio, sbiancando le colline e ridisegnando la sagoma del castello. Aculei di ghiaccio s’allungavano dalle bertesche, e la Torre di Capestrano svettava solitaria su uno sfondo senza confini, dove la linea dell’orizzonte assente sigillava il cielo e la terra. Una folta nebbia s’alzava dal basso, slittando sugli speroni, ammantando l’altopiano roccioso sul quale sorge il castello Hunyad, come l’enorme mano d’un brumoso gigante che stringesse l’intera fortezza come una coppa. L’avvoltoio svolazzava nel cielo del quarto inverno di prigionia dei tre giannizzeri. Le membra intirizzite, anche quel giorno inclemente i tre scavavano, più lenti del solito, le punte delle picche respinte dalle rocce congelate. Il buco s’andava via via dilatando nel tempo, come un occhio spalancato nell’oscurità, e il suo contorno regolare testimoniava la tecnica con la quale i tre scavavano. Usavano un cilindro metallico infilato nella cavità, e con forza ne martellavano l’interno, affinché lo scavo si sviluppasse in profondità mantenendo un contorno delineato. Bayar si fermò, portandosi le mani bluastre alla bocca “Non mi sento più le dita.” “Metti le mani sotto le ascelle, si scalderanno” suggerì Nazif. Attuato il consiglio, Bayar guardò le guardie, demandando loro, per l’ennesima volta, in un balbuziente ungherese, se fosse possibile accendere dei fuochi. Quelli restarono immobili, al riparo com’erano dalla neve, beffandosi della richiesta. Il vino intepidiva loro le membra, i mantelli di pelo di lupo stretti intorno al corpo. “Animali.”
“Che t’aspettavi?” gli chiese Nazif. “Potrebbero almeno darci un mantello. Vestiamo gli stessi stracci, d’inverno e d’estate.” “Noi ai nostri prigionieri li diamo, i mantelli per ripararsi ?.” “Li ammazzerò tutti. Raderò al suolo questo dannato paese, e poi ci spargerò il sale, cosicché niente possa più piantare radici in questa terra diabolica.” Bayar guardò il cielo, le braccia che frizionavano il petto. “I pensieri non ti terranno al caldo.” Ceyden pizzicò le proprie corde vocali per la prima volta, quel giorno, e ne uscì un suono bronchitico, impastato. “La tua voce è fuori addestramento, akhi” disse Bayar con un mezzo sorriso. “La mia voce non mi librerà oltre queste mura.” “Sì, se è volta a supplicare Allah.” Ceyden smise per un attimo di scavare, il cappuccio che gli nascondeva il volto, da lui creato annodando dei lembi strappati dai cenci che indossava. Nazif pensava che l’avesse fatto, quel cappuccio, per celare il proprio viso allo sguardo accusatore di quella odiata terra. “Allah?” “Allah, il Misericordioso.” “Dimmi, è forse dalla sua Misericordia che scaturisce questa neve? È forse in merito alla sua Misericordia che i nostri corpi giacciono prigionieri da anni? È forse per volere della sua Misericordia che la libertà ci è preclusa, a noi, suoi servi, in favore dei nostri nemici, infedeli che null’altro sono? È per volere della sua Misericordia che siamo schiavi?.” “Schiavi nel corpo, liberi nel cuore. Il corpo, akhi, è solo il bozzolo della nostra anima. Tu persegui disperatamente la libertà colle tue membra, bramando di piegare l’esterno. Accetta ciò che è interno, solo così sarai libero.” “La tua mente disidratata non fa altro che trovare una becera spiegazione per giustificare la nostra condizione.” “Allah ha deciso il destino di tutti gli uomini. Il Paradiso si guadagna accettando la propria sorte.” “E allora smetti di scavare. Siediti nel tuo lurido buco e rispetta ignobilmente la condizione imposta da questi giaour, questi disonorati senza valore. Accetterò il destino tracciato da Allah, ma le mie ginocchia non toccheranno la terra.” Bayar scosse il capo. “Non litighiamo tra noi” consigliò Nazif “La nostra compagnia è tutto ciò che abbiamo.” “Non abbiamo più nulla, vecchio” sentenziò Ceyden “Nulla.” “Tranne la speranza. Altrimenti, perché scavare?”fece Bayar. “Perché non v’è nulla di peggio dell’attesa, l’attesa di ciò che vogliamo essere. E io voglio essere libero. Come voi lo volete. Se così non fosse, ci saremmo tutti gettati da tempo oltre le mura, sfracellandoci contro le rocce.” “Il suicidio …” cominciò Bayar. “Risparmia. Il suicidio è peccato, ma non è peccaminoso niente di ciò che pone fine al tormento.” Bayar sembrò meditare su quelle parole nella tetraggine di quella terra così invisa dal sole. “Le nostre sono … “ riprese dopo un poco “sono esistenze eccezionali.” “Giurami allora che non scambieresti la tua condizione con quella del più miserando tra gli uomini liberi.” Ceyden riprese a scavare con ancora più foga. I fiocchi di neve mulinavano nel vento, fendendo i loro volti come piccole frecce di fuoco, socchiudendo, coi riflessi sempre più abbacinanti, le loro palpebre cerchiate di viola. Ceyden disse, ansimante: “Non v’è necessità senza desiderio.” Bayar fissò il cielo, le lacrime agli occhi, forse per il freddo, le labbra spaccate. Nazir sospirò, scorgendo tra le volute di nebbia le colline frustate dalle raffiche. Un peso gli opprimeva il respiro. “Io scommetto sul vecchio, un fiorino.”
“Troppo facile.” “Che vuoi?.” “Io dico il più grosso.” “Sei pazzo? Quello è un animale, guarda come scava, diamine.” Le tre guardie se ne stavano raggomitolate nei loro mantelli, la parete del castello che li riparava dalle raffiche del vento che montava. Osservavano i prigionieri al lavoro. “No, il primo a crepare è il vecchio.” “Un fiorino?.” “Già.” “D’accordo, io ne punto uno e mezzo sul più grosso.” “Vuoi scherzare?.” “Non scherzo mai quando si parla di vino e soldi.” Il compagno rise “Bene, qualche giro in più al bordello per me.” “Uno e mezzo, allora. Io dico il ragazzino … resta solo lui.” Puntate le loro somme, Tibor giunse, portando in equilibrio su una specie di tavola in legno i ranci dei tre sorveglianti: zuppa di funghi e pane. “Era ora, gobbo, muoio di fame.” “Dove diavolo eri finito?.” Inveì uno, strappandogli di mano la tavola, e posandola con un tonfo. Del contenuto marroncino fuoriuscì dai bordi, colando, bollente e denso, lungo i fianchi panciuti delle ciotole. “Guarda che hai fatto, imbecille.” Due presero a mangiare, e quando Tibor si voltò per andarsene, l’altra guardia lo abbrancò, ordinando in malo modo di portare dell’altro vino. “Alla svelta, mostriciattolo” disse con tono querulo. “Prenditelo da solo, Lajos.” I quattro si voltarono, trovandosi davanti Ferenc, il capitano della piazzaforte, le dita infilate nel cinturone a riflettere la sua usuale, snervante placidezza. Un volto arcigno, membra erculee e un animo gentile. “È compito del gobbo.” “ “È compito del gobbo”, cosa?.” Lajos si morse la lingua : “È compito del gobbo, capitano.” “Sbagliato. È compito di chi ha la gola arsa.” Lajos s’alzò, e Tibor si fece da parte svelto, uscendo da sotto l’aggettante riparo e finendo per trovarsi in balìa della neve; Ferenc e Lajos si fissarono, l’uno di fronte all’altro. Il custode notò la mano di Lajos muoversi sotto il mantello, a stringere l’elsa della spada. Ferenc l’aveva notato?, si domandò spaventato. Il capitano era robusto e forte, ma la bestiale perfidia del suo sottoposto era ciò che rendeva quell’essere anodino temuto e rispettato. Il volto di Lajos era paonazzo, ne vedeva il sangue palpitare sotto la carne, arroventato dalla mancanza di deferenza ostentata dal capitano. “Farai bene” pronunciò Ferenc “A sperare che la lama non si sia congelata nel fodero, altrimenti la neve netterà il miserando sangue sgorgato dalla tua gola.” Tibor trattenne il respiro, temendo per la vita del capitano. Una parte di lui lo spingeva ad agire, a frapporsi tra i due contendenti prima che la situazione degenerasse. Ma lui era un gobbo, un’anomalia, neanche un uomo, senza coraggio, senza onore, cosa mai poteva fare una burla come lui? Lajos, di colpo, scoppiò a ridere, afferrando la caraffa di vino, e vuotando quel poco che ne restava nel suo bicchiere, che offrì a Ferenc. “Capitano, non penso sia il caso di accopparci per così poco! Beviamo e manteniamo il nostro onore intatto!.” Ferenc afferrò il bicchiere, solo dopo aver squadrato Lajos per qualche istante. Guardò il liquido vermiglio all’interno, caldo e corroborante, che le
cangianti tinte del manto nevoso rendevano ancora più seducente. Lo allungò a Tibor, che sulle prime non comprese. “Prego, Tibor, trangugia del vino. Ti riscalderà le vene.” Gli occhi di Lajos erano spalancati come i portoni d’un castello in un giorno di festa, la schiena indurita, le gambe divaricate un poco. Il riverbero torrido degli occhi spingeva via le tinte accecanti della neve, che finivano per rifugiarsi sul volto di Ferenc, incorniciato dai riflessi argentini dei peli del mantello di lupo. L’avvoltoio atterrò poco distante, confuso nell’accecante bianco, senza un suono. Il grido delle picche dei prigionieri – spettri che si dannavano nel ghiaccio - era ovattato da quel candore che s’infittiva momento dopo momento, sperdendosi lontano. “Prego, Tibor, bevi alla nostra salute.” Tibor s’avvicinò timido e afferrò il bicchiere, incoraggiato dallo sguardo suasivo del capitano. Si portò il bicchiere alle labbra, annusando un poco il vino, che poi buttò giù tutto d’un fiato. “Grazie, signore.” “Non è nulla.” “Io tornerei a svolgere le mie mansioni, se me lo concedete.” “Ma certo, Tibor.” Il custode se ne andò, evitando accuratamente di guardare Lajos. Avvertì, poco dopo, l’eco di passi che lo seguivano, ma il fatto che il suono prodotto dai tacchi degli stivali non fosse pesante e intimidatorio come quello di Lajos acquietò l’incedere del suo cuore, infervorato dalla scena poc’anzi svoltasi. Quel bastardo si sarebbe vendicato, ne era certo, ma assistere alla sua umiliazione era un pagamento anticipato per ciò che gli avrebbe fatto. “Tibor!.” Il custode sussultò, più per abitudine che per spavento, e quando si girò vide Ferenc che gli veniva in contro. “Capitano, grazie ancora per il vino.” “Tibor, lo sai che mi devi riferire quando Lajos ti tormenta.” “Dovrei guastarvi il giorno e destarvi la notte per obbedire a questo vostro ordine, signore.” “È mio dovere assicurarmi che la giustizia venga rispettata in questo castello, Tibor, e il fatto che tu ti faccia degli scrupoli rende più difficile il mio lavoro, capisci?.” “Mi dispiace, signore, se non ….” Ferenc gli posò una mano sulla spalla; era da tanto che non sentiva del calore umano. Per sentirlo, doveva forzare le persone, pagando le prostitute. Ma quel gesto era naturale, da pari a pari. “Sei un bravo ragazzo, Tibor, non lasciare che il loro scherno diventi per te motivo di vergogna. Gli uomini come te non sono venuti al mondo per essere sconfitti; sono stati creati da Dio per ricordarci dell’umiltà perduta. Non dimenticarlo.” “Allora vorrei che Dio avesse concesso questo privilegio a qualcun altro, signore.” Ferenc sorrise “Ma l’ha concesso a te, e non puoi farci niente. Lajos ti tortura in continuazione, e lasciare che le sue parole penetrino qui dentro” asserì, posandogli l’indice sul cuore “è come andare in battaglia con l’armatura guasta.” “Sì, capitano.” “Tutti noi abbiamo sofferto e soffriamo tribolazioni.” “Sì, capitano.” “Alcuni più di altri” sospirò. Tibor chinò ulteriormente il capo, il mento posato sul petto. “Ricorda, ragazzo mio, l’armatura di Lajos sarà sempre meno resistente della tua.” Tibor lo guardò, gli occhi lucidi.
“E dimmelo, la prossima volta che ti seccano, intesi?.” La neve cessò di cadere, e il gufo posato sul davanzale in pietra sbirciò dentro la cella. Nazif tremava, la coperta imbottita di paglia stretta contro il corpo madido di sudore freddo. Rivoli piovevano dalle tempie, ghiacciandosi una volta giunti al mento, come stalattiti. I brividi lo scuotevano, tendendo dolorosamente i suoi muscoli, che nel tentativo di produrre calore si torcevano sotto la pelle come dei serpenti morenti. La febbre salì oltremisura. Davanti a sé, nel buio lievemente dissipato dall’intreccio di luce lunare, vide i suoi compagni giannizzeri, uomini che avevano domato la morte, incavati dal gelo e ustionati dalla calura, le guance ispide e olivastre bagnate di lacrime; vide la ragazza per la quale aveva abbandonato la sua terra, tendergli disperatamente la mano, implorarlo di perdonarla, di congiungersi a lei per l’eternità; vide la sua amata madre, la vide come la vedeva da bambino, quando al tramonto d’estate rientrava a casa dopo una giornata di giochi, quando lei lo attendeva paziente seduta sul bordo della piccola fonte, intenta a intrecciare dei fili per creargli una coperta che custodisse i suoi sogni nell’algido inverno, la vide, bella come solo lei sapeva essere, coi capelli al vento tiepido e il profumo di giglio, la sentì supplicarlo di non vanificare la sua lunga attesa, di tornare da lei, di ricondurre a casa il suo bambino. E lui obbedì, “come vuoi, mamma”, e si alzò, ma le sue gambe lo tradirono e la nera nebbia lo inghiottì. Sentì tra i palmi le punte ruvide delle spighe di grano, il sapore delle olive che si sgretolavano nella bocca, i raggi del sole sulla faccia, il cullante canto degli uccellini, una sterminata distesa di fiori davanti a sé. E l’orizzonte che si coricava per la notte. E questa volta, per sempre. Tibor, all’alba, disse a Lajos che il prigioniero vecchio era morto. Tre anni dopo, lo spelacchiato cane che vagabondava per il castello andò ad acciambellarsi non distante dal pozzo che i due prigionieri rimasti scavavano giorno dopo giorno. Ormai l’acqua doveva essere prossima, pensava Ceyden, la sua mente che sempre più spesso indulgeva sulla libertà. I pensieri di odio, di sterminio e sangue rivolti ai nemici non erano scomparsi, ma si erano rarificati, sgualciti dall’opera che andava raggiungendo il suo obiettivo, la libertà e la vita che andavano rammendandosi davanti a lui. Bayar era divenuto lo spettro di sé stesso. Le sue preghiere erano cadute nel vuoto; il suo corpo era deperito, le ginocchia angolose, il volto puntuto; la picca gli stava incollata alla mano non per sua volontà, ma per abitudine, la schiena si fletteva e tendeva nell’atto dello scavo non per desio, ma per inerzia dettata dallo smarrimento della mente. Il suo calendario non era aggiornato da anni. Allah, il suo Dio, suo Padre, la sua Guida lo aveva abbandonato. Non aveva più nessuno con cui spartire il peso della prigionia. Quando quel custode gobbo, anni innumerabili addietro, gli disse che Nazif era morto, istantaneamente comprese che non sarebbe mai riuscito a uscire da quelle maledette mura. L’acqua non esisteva, non era mai esistita, era un miraggio, un disegno scompaginato della follia, della speranza, della perdita, del dolore, dell’infelicità, l’odore d’un succoso pezzo di carne cruda sventolato continuamente davanti a lui dagli ungheresi. Stavano giocando con la sua mente, quasi i suoi pensieri fossero dei dadi stretti nelle loro luride mani infedeli, dadi che a ogni capriccio venivano lanciati, assumendo numeri sempre diversi, prospettive mutevoli. Ma le pedine si posizionavano sulle caselle delle stesse, vili menzogne. Il pozzo era sprofondato parecchio nella terra, e i due erano costretti a lavorarci dentro, nel suo terroso ventre, al riparo dalla luce del sole, dalle nuvole che si saldavano nel cielo azzurro. La foga con cui Ceyden scavava lo mandava in bestia, e quel giorno non seppe ingoiare le parole. “Smettila, bastardo!.” Ceyden si fermò, la picca alta sopra la testa. “Piantala, non lo capisci che tutto è inutile?.” Lacrime gli rigavano le guance “Non lo capisci che siamo morti?.” Ceyden lo guardò: le frasi del suo compagno s’erano fatte rare, le parole, anni prima sgomitanti tra loro, ora uscivano pigre dalla bocca asciutta e sdentata; i suoi occhi s’erano fatti vacui, acquosi, come quelli d’un uomo perennemente ubriaco, colle venuzze rossastre intrecciate a formare un sanguinoso diadema che affogava nelle sclere. Riprese a picchiare, e Bayar, dopo pochi rimbombanti colpi, lanciò la sua picca, che si piantò nella roccia con un clangore metallico. Le guardie, semiaddormentate sui loro sgabelli al solito posto, vennero destate e colla bocca ancora bavosa s’alzarono, mettendo mano alla spada.
“Calmati” gli disse Ceyden. Bayar s’arrampicò faticosamente, ansimando come un lupo, fin sulla sommità del pozzo; non si curò delle domande delle guardie, piuttosto distanti da lui, sotto le mura del castello e si accucciò a terra, come un bimbo che si rannicchi sotto il letto per sfuggire alla punizione paterna. Mormorava tra sé, le mani premute sulle orecchie, il volto adombro. Ceyden uscì dal buco, gli si avvicinò “Alzati, forza.” “Siamo morti, siamo morti, non ci permetteranno mai di andarcene, non ci permetteranno mai ….” “Quando dalla pietra stillerà acqua, la libertà sarà nostra.” “L’acqua non esiste, l’acqua non esiste.” Ceyden gli mise le mani sotto le ascelle, e lo alzò di peso; gli prese il volto e lo fissò dritto negli occhi. “La libertà” gli sussurrò. Bayar guardò la chiesa, alla loro destra, poi guardò il suo compagno, disperato, gli occhi strabordanti lacrime “Noi non siamo mai stati liberi, akhi, dal primo giorno trascorso nei Giannizzeri. La libertà sarebbe potuta essere; la schiavitù è stata.” “Non smettere di combattere, akhi, e ti prometto che un giorno saremo liberi. Liberi.” “Combatti con così tanta tenacia, Ceyden, solo perché senti l’approssimarsi della fine ….” Ceyden vide i suoi occhi lucere per un breve istante, come se le rocce che generano il fuoco della vita tentassero per l’ultima volta di sfregarsi tra loro. “Addio, akhi, possa tu trovare la libertà che cerchi.” Poi aggiunse “Inshallah.” Si liberò dalla stretta di Ceyden, corse verso il basso parapetto di roccia che guardava nel dirupo, e spiccò il balzo. Le guardie diedero subito l’allarme, gettandosi a capofitto verso la balaustra. Un gran trambusto divampò, mentre il cane, spaventato, andava a nascondersi. Ceyden si inabissò nel buco. Dapprima fu solo una goccia, che la calura evaporò in un attimo. Poi una seconda uscì, non più spessa d’un unghia, inumidendo la pietra, e gli occhi di Ceyden si paralizzarono su quella. Un’altra goccia fu spinta in fuori da qualcosa di molto potente, qualcosa che agognava d’uscire dalle viscere dell’oscurità per erompere nel mondo, per portare gioia, nutrimento, vita, libertà! Quando la piccola fontanella sgorgò e l’acqua tersa arrivò a bagnare i piedi di Ceyden, quello s’inginocchiò, e ne raccolse un poco con le mani chiuse a coppa. Una cilindro di sole penetrò nell’ombrifero buco, incendiando il liquido che tratteneva nei palmi. Il suo fulgore gli ferì gli occhi, che subito guarirono, medicati dal potere salvifico di quell’acqua pura, immacolata. Dell’acqua altrettanto pura, da altrettanto tempo imprigionata in una fonte altrettanto inespugnabile, uscì dagli occhi di Ceyden, tracciando due solchi bianchi sulle guance annerite dalla polvere. “A … acqua.” Tibor si stava avvicinando al buco, claudicante, portando la ciotola col cibo. Quando, sporgendosi, vide quel gigante chino, le spalle sobbalzanti, pensò che stesse male. Ma quando il gigante guardò verso di lui, ridendo rocamente, sguaiatamente, selvaggiamente, felicemente, e gli occhi di Tibor si posarono sull’acqua, la ciotola gli cadde di mano, rotolando sul bordo e poi finendo nel pozzo con un tonfo echeggiante. “Ha trovato l’acqua! Ha trovato l’acqua! Ha trovato l’acqua!.” Le guardie, che stavano mangiando, alzarono solo il capo. “Che gli prende, al gobbo?.” “Non so ….” “Ha trovato l’acqua! Ha trovato l’acqua! Ha trovato l’acqua!.” “Ma che diavolo ….” I tre si alzarono e si diressero verso il buco, mentre Tibor corse, lento e traballante, scosso da un tumulto interiore, ad avvertire Fenec, il buon capitano! Quando i due tornarono, videro che Ceyden era riemerso dal buco, e che in ginocchio si guardava le mani ancora umide. “Che sta succedendo, qui?”domandò il capitano.
“Signore” rispose una guardia “Il prigioniero ha … ha trovato l’acqua.” Ferenc aggrottò le sopracciglia, afferrò la corda e si lasciò scivolare nel buco. Tibor era giubilante. Ceyden muto, singhiozzante. Ferenc ricomparì, trattenendo a stento un sorriso. “Bene” annunciò con tono piatto “Pare che il prigioniero sia riuscito a trovare l’acqua. Dopo … dopo così tanto tempo.” La bocca di Lajos era atteggiata al più sommo disprezzo. Ceyden respirava a malapena, non comprendeva più nulla. “Tibor, per favore, riferisci ciò che è successo al comandante, e digli di raggiungerci immediatamente, se possibile.” Tibor schizzò via, inciampando nei suoi stessi, brevi passi. Non aveva mai corso così. Il capitano ordinò a un paio di uomini di alzare il prigioniero, e gli fece dare dell’acqua per ripulirsi il volto sfigurato dallo stordimento. Quando il comandante comparve, un silenzio precipitò nel cortile. Il fruscio degli alberi si ammansì; il muggente bestiame in lontananza parve venir macellato senza un sospiro; lo sbatter d’ali degli uccelli s’azzittì, rispettoso del momento; ciò che si sentiva solo era la nota secca delle armature che s’alzavano e abbassavano sui petti a ogni respiro. “Cosa succede?” s’informò il comandante. “Signore, il prigioniero ha trovato l’acqua.” “Questo è ciò che mi è stato riferito. Come è possibile?.” Ferenc lo invitò con eloquente gesto della mano. Il comandante, quando si voltò, aveva i lineamenti increspati da quella che poteva esser incredulità. “Bene, bene ….” Tibor era raggiante. Ceyden affannato fissava la chiesa. “Capitano, ordini agli uomini di tenere ben stretto il prigioniero.” Ferenc non celò la sorpresa. “Signore?.” “Mi ha sentito, capitano: ordini agli uomini di tener fermo il prigioniero.” Il capitano liberò un cenno del capo, e Lajos e un altro soldato strinsero le braccia di Ceyden, uno per lato. Il comandante del castello, un uomo anziano e colto, ruvido e basso, rivelò un perfetto arabo “Turco, il tuo sforzo è degno d’ammirazione.” L’ espressione d’aspro sospetto s’era rimpadronita di Ceyden. “Sei sopravvissuto a tutti i tuoi compagni. Ed ora, dopo …” il comandante inclinò il capo “Dopo quindici anni sei riuscito a mantenere la tua promessa. Hai cavato l’acqua dalla pietra.” “È così.” Il comandante lo fissò negli occhi brucianti “Tu hai l’acqua, ma non hai un’anima. Finirai i tuoi giorni rinchiuso in questo castello.” Il corpo di Ceyden era ancora caldo quando Tibor entrò. Si inginocchiò accanto al cadavere poggiato con la schiena contro la parete, sotto la piccola finestra. Gli scostò i capelli stopposi dal volto reclino, intinse il panno nella bacinella ripiena di quell’acqua trasparente della fonte, lo strizzò e glielo passò sulla fronte corrugata, sulle palpebre, sul naso spellato, sulle guance pallide, sulla bocca esangue. Gli nettò quelle che una volta erano mani, ora monconi di sangue crepati come campi in periodi di siccità. Gli pettinò con le mani i capelli all’indietro, inumidendoli perché prendessero la piega. Guardò la scritta sulla parete della cella, accanto a lui. Le poche vermiglie parole che gli avevano insegnato non erano abbastanza per conferire a quei tremanti caratteri significato alcuno. Guardò l’ ultima volta quel volto, poi uscì a chiamare le guardie. L’avevano ingannato. Ceyden era abbandonato sull’ ammasso di paglia e stracci. Si sentiva affogare nel suo stesso petto; faticava a respirare, le pareti erano delle trappole che si stringevano sempre più intorno a lui. Era sopravvissuto per quindici anni come uno schiavo, smosso dentro da un obiettivo, da una promessa. Da una speranza. E ora che quella speranza si era sgretolata non … No! La speranza gliel’avevano sgretolata.
S’alzò di scatto e colpì il muro, lo colpì con tutto l’odio radicato in lui, l’avrebbe colpito fino a che non l’avesse spaccato, lo colpì come se le sue mani fossero d’acciaio, come se non sentisse dolore e non lo sentiva perché era insensibile, era morto e lui li avrebbe ammazzati tutti, quei luridi porci ungheresi, li avrebbe uccisi fino all’ultimo, avrebbe bevuto il loro sangue, giocato colle loro interiora, cucendosi degli abiti con la loro pelle sporca, le loro spade non l’avrebbero scalfito manco di striscio, la sua volontà era resistente, impossibile da incrinare, donatagli da Allah in persona, il Padre che avrebbe camminato al suo fianco nell’opera di distruzione più vasta e incontenibile che il mondo avesse mai visto, neanche le vacche si sarebbero salvate, vacche dentro cui scorrevano i mefitici semi di quella terra invisa dall’onore e il Sultano lo avrebbe premiato, investendolo dei conferimenti più sontuosi mai concessi a uomo alcuno e avrebbe goduto di tutte le donne del mondo, esse gli avrebbero schiuso i loro tepenti ventri e se non l’avessero fatto spontaneamente lui le avrebbe possedute con la forza, perché lui era un giannizzero e i giannizzeri erano una stirpe benedetta, gli unici, ultimi, validi difensori dell’impero minacciato da dove sorgeva il sole fino a dove tramontava. Cadde in ginocchio, il sangue fuoriusciva copioso dalle mani gonfie e pulsanti; le dita sbriciolate affondavano nei palmi squarciati e a terra giacevano le unghie, come conchiglie su una spiaggia; le ossa troncate anni orsono del medio e dell’anulare erano affondate nella carne, come se la natura avesse deciso di tornare sui propri passi. Ceyden, accucciato, sentì un gemito oltre la lastra d’acciaio della cella. “Vi ucciderò, sporchi animali! Vi ammazzerò tutti!” urlò a squarciagola in arabo. Poi gli parve che anche la gola sanguinasse. Alzò un poco il capo, mirando la luna sprangata aldilà della minuscola finestrella. Vide un gufo stagliarsi, per un battito di ciglia, contro il disco niveo, e pianse. Provò a staccare un pezzetto di pietra dalla parete, ma le mani non gli obbedivano. Vi si appese coi denti, ma quelli dondolavano nelle gengive, e la pietra non cedeva. Alzò allora il dito indice, coperto di sangue, e lo strisciò sul muro. Gridando, piangendo, bestemmiando, vergò la seguente scritta: Hasan, che visse schiavo dei giaour, scrisse questo nella fortezza vicino alla chiesa. Aveva abbandonato la ragione, perché un uomo di ragione è un uomo di peccato. Non era mai stato libero e mai aveva desiderato d’esserlo; le domande incontrano la libertà, i problemi si uniscono alla libertà, l’imprevedibile è pargolo della libertà. Era un soldato, obbediva agli ordini, come un cane che risponda al fischio del padrone per evitare la verga. L’amore fa solo soffrire; lui l’aveva eluso perché bramava serenità. Era quella, la serenità che aveva sognato? Adesso, avrebbe ucciso pur di poter sbagliare. In quegli ultimi momenti di afflato vitale lo accompagnava un sentimento che quei cani ungheresi non erano riusciti a strappare dal suo cuore martoriato. Immagini sfocate, lontane nella memoria quanto nel tempo, di un periodo allegro, felice. Una volta un suo fratello giannizzero, dopo una violenta battaglia gli s’era avvicinato e, colmo di rispetto, gli aveva detto: “Sei superbo.” Solo in quel momento comprese, non era mai stato superbo, era stato infelice, e l’infelicità aveva spento la sua vista molto più della superbia. Ceyden ritrovò il suo nome, il nome che aveva abbandonato quando era caduto prigioniero e che si era ripromesso di non utilizzare fino a che non fosse stato libero. Hasan. Hasan guardò la luna, bianca, confortevole, così vicina. Abbassò il capo sul petto, esalando l’ultimo respiro. Tibor si voltò per l’ultima volta, prima d’uscire dalla cella. Aveva assistito silente al martirio interiore di quell’uomo, e il suo acrimonioso conflitto l’aveva rabboccato di dolore e tristezza. Sperava che lui adesso, finalmente, avesse trovato un poco di requie. Hasan era morto, ma fino all’ultimo non furono le circostanze infauste della vita a scegliere per lui. Comprese che gli uomini sono braci e che la vita, soffiando, ne disperde i brandelli. Quei tre uomini, pieni di passioni contrastanti e brutali, colpevoli forse solo d’avere un animo troppo grande per questo mondo, erano morti senza mai ritornare sui propri passi. “Assalamu alaikum, akhi.” Tibor uscì zoppicante dalla cella.
lGiardino dell’Anima Di Andrea Memmo
Come si respira l’aria dei limoni lungo le viuzze della Costiera, così Cosima Wagner era in grado di fiutare il malumore di Richard ancora prima che si palesasse. Cominciava sempre allo stesso modo, scivolandole via dolcemente: prima perdeva il dono della parola, risparmiando soltanto qualche monosillabo, infine si abbandonava totalmente al silenzio melodico che il paesaggio gli offriva. Ma questa volta è diverso, rimuginò Cosima stringendo il proprio diario. L’espressione del marito era priva di fermezza, e lei l’aveva intuito da come aggrottava le sopracciglia, quasi imploranti. Era così da giorni, e forse adesso era arrivato al culmine del suo malumore. Ma come dargli torto... doveva sembrargli di essere diventato insensibile a ogni piacere umano. Da Napoli ad Amalfi avevano goduto delle bellezze che tanto ispiravano gli altri – sottolineava Richard, distanziandosene – artisti europei. Avevano visitato luoghi storici come la cattedrale di S. Andrea, e anche adesso, all’Albergo dei Cappuccini, il fascino della Storia sembrava non avere riposo, mentre erano alloggiati nella camera che in origine era una cella dei frati. Insomma, c’era abbastanza materiale da ispirare il più scarso dei poeti. Ed era questo che avviliva Richard. Seduto a braccia conserte sulla terrazza dell’albergo, mentre si stuzzicava un pelo incarnito sotto la barba, tentava di spogliare la Costiera Amalfitana di tutto quel bello superficiale disponibile a chiunque, ricercando qualcosa che solo lui potesse vedere, così come il corteggiamento di una donna porta a godere privilegi privati tra le lenzuola. Un luogo sospeso tra cielo e mare. Quella terra fatta quasi a strati, con i terrazzamenti coltivati ad agrumi e le case che si arrampicano l’una sopra l’altra fino a plasmare la cima di una montagna, con il verde della macchia mediterranea che immerge i piedi nel Tirreno, gli ricordava il Purgatorio dantesco. Un luogo di redenzione. Dalle sembianze paradisiache. Eppure nulla. Mente e Anima non volevano proprio abbracciarsi. Se c’era una non esisteva l’altra. Forse era davvero invecchiato. Tre giorni prima avevano festeggiato a Villa d’Angri, dove alloggiavano a Posillipo, il suo sessantasettesimo compleanno, e lui aveva scherzato assieme all’amico Joukowsky: se era scampato a una condanna a morte, allora non l’avrebbe certo fermato qualche capello bianco in più. Ma era vero? Senza Cosima forse sarebbe già morto da un pezzo. Da quando a Marienbad aveva studiato le leggende del Graal, la ricerca di quel Graal, il Parsifal, non l’aveva più lasciato, e dopo il Lohengrin aveva ancora studiato, e cercato, tanto che la sua salute ne aveva risentito. Cosima era così paziente... quando a tarda notte Richard vagava per i corridoi in preda ai pensieri, lei lo riportava al letto con dolcezza e ascoltava i suoi farneticamenti, il fumo scomposto delle idee, cogliendone anche il senso. Lo curava e placava le sue emozioni senza crudeltà, senza fargli pesare i suoi vent’anni in meno. Vent’anni che lui guardava spesso con orgoglio e poi, a volte, come ora, con invidia. Invidia per una Mente forte in un Corpo forte. Che cosa gli era successo? Dov’era finito quel combattente che se n’era fregato degli insuccessi, e che dalla tremenda esperienza di una tempesta aveva trovato l’ispirazione per L’Olandese Volante? Che non conosceva la paura ma anzi, come un novello Sigfrido, desiderava trovarla, così da assaporarne l’essenza? Ma la risposta era tutta lì, nella più banale delle verità. Un eroe non ha forse bisogno di un nemico da abbattere? E di problemi e dilemmi da superare? E adesso che Richard aveva l’appoggio del monarca bavarese, adesso che il teatro a Bayreuth era proprio come lo voleva, adesso che era famoso e benestante, dopo anni e anni di povertà e umiliazioni, per cosa ancora doveva combattere? Per il gusto di farlo, forse? No, è che mancava così poco.
È finito, continuava a ripetersi, il Parsifal è finito. Mancavano l’orchestrazione e la scenografia del secondo atto, sì, solo quelle! E così aveva detto anche a sua moglie e al Re Luigi. Parsifal che arriva nel giardino incantato; che viene soggiogato dalle gioie erotiche della trappola del negromante; che sfugge all’insidiosa Kundry e che infine riesce a fare crollare il castello di Klinsgor. «Allora, che ne dici?» Una voce, che lui ignorò del tutto. Che ne diceva? Che la vita lo stava lasciando, ecco cosa diceva! Non aveva mai riflettuto veramente sulla sua morte. O per meglio dire, sì, soprattutto dopo l’arresto del ‘48, ma ci aveva sempre riflettuto con fini vendicativi, goduriosi, fantasticando sul mondo che avrebbe scoperto il suo genio troppo tardi, pentendosene. E ora che l’avevano riconosciuto, invece, e che forse gli rimanevano soltanto uno, due, tre anni di vita? Cosa sarebbe successo? Che un tizio qualsiasi avrebbe finito l’opera per lui, infischiandosene della sua visione? No, quello era il suo testamento, tutto ciò per cui aveva lavorato e... «Papà, hai sentito?» domandò il piccolo Siegfried, balzandogli sulle ginocchia. Il padre, inebetito, gli sfiorò i capelli biondi, indeciso se accarezzargli la testa o spostarla perché copriva il paesaggio, e sussurrò: «Che cosa?» «Sordo come Beethoven» lo provocò Joukowsky. «Con meno gusto, forse.» «Che cosa?» vociò Richard, d’istinto, provando ad alzarsi col figlio addosso. Paul von Joukowsky era l’unico a potergli rispondere così; e la cosa strana era che Wagner lo trovava pure divertente. Spesso i due giocavano a scontrarsi in singolar tenzone, insultandosi letteralmente per le rime, come due giovani Cecco Angiolieri e Dante Alighieri, con Wagner che sosteneva sempre di voler interpretare l’Alighieri per “doveri artistici e, perché no, morali.” «Hai ascoltato almeno mezza parola?» «Come? Sì, certo...» «Bene, allora ti va o no di...» «Andiamo a Villa Rufolo, papà!» tagliò corto Siegfried. «A Villa... Cosa?» «Sì, papà! Lì ci sono i fantasmi!» A Richard scappò una risata, sorpreso da quell’affermazione ridicola. «Ma che state dicendo?» «I fantasmi, papà! Li voglio vedere!» «Chi ti ha detto queste cose?» lo rimproverò la madre, che sapeva bene come la sua passione per le storie dell’orrore si traducesse sempre in notti insonni. «Ma è vero! Me l’ha detto Joukowsky.» Cosima lanciò un’occhiataccia al pittore russo, il quale intervenne subito mettendo le mani avanti: «Ehi, ehi... non ho detto proprio così». «Sì, invece!» protestò Siegfried saltando giù dal padre. «Hai detto che ci sono i fantasmi che proteggono il tesoro!» Cosima incrociò le braccia, divertita, e cercò di apparire arrabbiata. «Un tesoro, davvero?» «No, no...» farfugliò Joukowsky. «Ho detto solo uno. Un fantasma. E comunque è solo una leggenda.» «Che spero tu non abbia raccontato a Fidi…» precisó chiamando il figlio col diminutivo che gli avevano dato quando era ancora in fasce. «Soltanto uno???» si lamentò Siegfried. «Sì! No!... No, nessun fantasma! È solo una stupida leggenda.» «Ma la voglio sapere, Jouko, dimmi che leggenda! E il tesoro, quello c’è, vero?» «Beh, il tesoro...» «Joukowsky!» lo sgridò Cosima. «Ma che c’è?! Neanche i tesori possono esistere?»
«Voglio vedere il tesoro!» gridò Siegfried. «E il fantasma! Papà...» Ma Richard si era alzato, e adesso sostava davanti alla balaustra. «Papà...» ripeté il piccolo, intimidito. “ domani possiamo andare a Villa Rufolo?» Ci fu un momento di silenzio, interrotto da un ferreo: «No. Domani torniamo a Villa D’Angri.” «Come, di già?» «Siegfried» disse Richard, e già il figlio aveva capito, perché lo chiamavano per nome soltanto per sgridarlo. «Non siamo qui per giocare.» «Richard... non essere cattivo» lo pregò Cosima, avvicinandosi. Cattivo? Lui cattivo? E loro, che non facevano altro che scherzare in barba alle sue angosce? Stava per risponderle a tono, quando vide fra le sue braccia il diario su cui era solita scrivere. Gli era sempre piaciuto pensare che se lui aveva trovato la sua arte nella musica, così come Joukowsky nella pittura, lei allora aveva capito che la sua espressione artistica si sarebbe dovuta focalizzare proprio su di lui: Wilhelm Richard. Wagner. E lui ne era così orgoglioso! E quanto diventava ansioso mentre lei scriveva davanti a lui. Si chiedeva come lo stesse ritraendo, e quando lei lo scopriva a sbirciare, gli lanciava un sorriso divertito per rassicurarlo. E ora che cosa avrebbe scritto? Che era cattivo? O forse, ancora peggio... che aveva fallito? Che il Giardino di Klingsor non era stato trovato e quindi aveva... … fallito. Fallitofallitofallito. «Ahi, ahi, ahi» s’intromise Joukowsky, grattandosi la testa. «Se hai tanta paura, caro amico, possiamo anche fare a meno di andarci.» «Prego?» «Beh,» si schiarì la voce: «Se parlare di fantasmi ti terrorizza, meglio non tirare troppo la lenza, possiamo procedere anche senza, così che ti possa passare la strizza». Richard non continuò. «Non ho voglia di giocare, Joukowsky.» «Ma davvero? Secondo me invece hai paura di incontrare il fantasma di Lorenzo Rufolo.» «Si chiama così?» gridò eccitato Siegfried. «Oh, certo. Lorenzo Rufolo. A Ravello lo conoscono tutti.» Si chinò davanti al bambino e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Vuoi davvero sapere cos’è successo?» «Sì, sì, dimmelo, dài!» «Beh…» tentennò lanciando un’occhiata a Richard. «No, Joukowsky, la prego» disse Cosima. «Che poi gli viene paura.» «Non ho paura! Quello è papà!» «Bravo, ragazzo!» rise Joukowsky. «Ah, sì? Allora poi vediamo se non vieni a...» «Cosima» intervenne Richard con tono di sfida. «Lascialo fare.» «Bene» sorrise il pittore. «È successo più o meno quarant’anni fa, quando un mago» disse enfatizzando la parola, «scoprì che il tesoro dei Rufolo veniva custodito proprio dal fantasma di un loro discendente: Lorenzo.» «E come ha fatto a scoprirlo?» domandò Siegfried. «Beh, era un mago, no?» Si grattò la guancia. «Aveva con sé un bastone magico o roba del genere... Ma fammi continuare. Dicevo: allora sette esponenti di famiglie nobiliari decisero di chiedere al mago come fare per trovare il tesoro, e il mago...» «Cos’ha detto il mago?»
Joukowsky lo guardò storto. «Lo fai apposta? Dammi un momento... Sì, e il mago disse», e indicò la luna «che per trovare il tesoro avrebbero dovuto aspettare la prima notte di luna piena – proprio come questa di oggi – e...», si passò il dito lungo la gola «... versare il sangue innocente di un bambino.» Nessuno parlò. Cosima si massaggio la fronte con la mano, prevedendo guai. «Un bambino come me?» «Oh, beh, quasi, ma non un bambino qualsiasi: un bambino biondo e...» si fermò, prestando attenzione all’aspetto di Siegfried. “ forse è meglio fermarsi qui.» «Ma non mi dire» intervenne Cosima. Strinse il figlio tra le braccia. «Siete proprio uno stupido, Joukowsky.» «Oh, ma dai, è solo una storia.» «Hanno ucciso un bambino?» lo incalzò Siegfried. «Come me?» «Oh, no, amore» lo rincuorò la madre con un bacio sulla fronte. «Non hai sentito? È solo una leggenda. Una storiella che si racconta per tenere a bada i bambini.» Siegfried si staccò da lei. Sentirsi chiamare “bambino” l’aveva infastidito. «Ma se è una storia qual è la morale?» «La morale?» «Sì, come in Cappuccetto Rosso. Alla fine Cappuccetto non impara ad ascoltare i consigli della mamma?» «La morale, eh. Vediamo...» «Che non si deve credere alle fandonie di un ciarlatano» subentrò Richard, guardando l’amico. «Ovviamente il tesoro non venne mai trovato. E gli assassini furono condannati. Fine della storia.» «Certo che, come crei la tensione tu, non la crea nessuno» concluse Joukowsky. Richard scompigliò i capelli del figlio. «E quel bambino era più piccolo di te. Si chiamava Onofrio Somma, e aveva solo 7 anni. Inoltre,» indicò il cielo «la luna piena c’è stata ieri. Vedi? Manca un pezzo. È quella che viene chiamata Gibbosa Calante. Ma non mi aspetto molto da uno pseudo-pittore che non sa distinguere le forme.» «Meglio fidarsi di un compositore sordo come Quasimodo?» «Prima non mi avevi paragonato a Beethoven?» «Confermo. E con meno gusto, anche.» «Ma il tesoro c’è, vero? E il fantasma?» ricominciò Siegfried, che non aveva tempo per curarsi dei loro bisticci. «Ti ho detto che sono fandonie.» «Non è vero. Hai detto che il mago era un ciarlatano che non sapeva trovare il tesoro. Ma non vuol dire che il tesoro e il fantasma non ci sono.» «Non fa una piega» commentò Joukowsky accennando a un applauso. «Voglio andarci, papà. Voglio vedere se c’è il fantasma!» «Oh, Fidi» disse Cosima. «I fantasmi non esistono.» «Ma come fai a saperlo se non li hai mai visti?» «Appunto perché non li ho mai visti non...» «Ma non è così anche col Signore?» azzardò. Joukowsky mise le mani avanti per restarne fuori; Cosima rispose: «Adesso esageri, Siegfried». «Papà, per favore! Voglio andarci-iii.» Richard rimase per un attimo incantato dalla sua espressione estasiata. Vide se stesso; la fame di conoscenza, l’eterna curiosità pronta ad affrontare qualsiasi pericolo. Ingenuità infantile, forse. Qualcosa che l’uomo non dovrebbe mai perdere nel tempo. Siegfried, pensò. Siegfried non ha paura. Anzi, vuole proprio scoprire cosa può fargli paura.
Non era un caso che l’avessero chiamato così. Quand’era nato, Richard stava lavorando al terzo atto del Sigfrido, e quel piccoletto era appena diventato il suo unico erede maschio. Colui che avrebbe portato avanti la stirpe dei Wagner. Ma mai come adesso gli sembrava che quel nome gli avesse anche trasferito i valori dell’eroe norreno, e che proprio come questi voleva conoscere ciò che poteva spaventarlo. Quasi commosso, ma ancora titubante, disse: «Non è che abbia tanta voglia di andare a Villa Rufolo...» «In realtà il nome esatto sarebbe Palazzo dei Rufolo» lo corresse Joukowsky. «O almeno, ai ravellesi di tutto rispetto piace chiamarlo così.» Richard digrignò i denti. Non gli piaceva essere corretto. «Allora, papà, ci andiamo?» Guardò il figlio, e poi la moglie, in cerca di supporto, ma lei gli sorrise alzando il mento per incitarlo. «E va bene» confermò infine. «Domani andiamo al... Palazzo dei Rufolo. Ma solo per poco. Non ho tempo da perdere.» «Sìììì!» urlò Siegfried; e iniziò a vagare sul terrazzo come farebbe un fantasma. «Perfetto» disse Joukowsky. «Ci stanno già aspettando.» Fece per ritirarsi, ma si girò un’ultima volta verso il compositore: «E poi dicono che lì ci sia uno dei giardini più belli del mondo.” *** «So’ le sorbe e le nespole amare, ma lo tiempo le fa maturare, e chi aspetta se l’adda magnà...» cantava Peppino, il servitore di Joukowksy. «Accussì so le femmene toste, che s’arraggiano quanno le accuoste, tiempo e purchie le fanno ammollà…» Richard adorava Napoli e la musica che la riempiva, soprattutto la cultura dei “posteggiatori”, musicisti vagabondi che suonavano al chiuso o lungo le vie della città. Proprio in quel periodo aveva scovato in un ristorante un certo De Francesco detto “‘O zingarello”, dalla voce splendida, e gli aveva proposto di seguirlo in Baviera. Insieme avrebbero fatto grandi cose, anche se le voci che lo definivano uno “sciupafemmine” lo preoccupavano abbastanza. Ma non poteva resistere a una bella voce napoletana. E doveva ammettere che Juokowsky aveva proprio fatto bene a portarsi dietro Peppino. Alla quinta canzone ancora non si era stancato. Da Te voglio bene assajie, all’Ariatella e adesso So’ le sorbe e le nespole amare. Richard si sentiva quasi riposato. La notte l’aveva passata sveglio, come era solito fare, tamburellandosi il ventre a ritmo di qualche canzone e lamentandosi mentalmente del viaggio che li aspettava. Da Amalfi a Ravello era una bella salita. E la famiglia aveva scelto di andarci a dorso di mulo, perché come aveva detto il pittore: «Un’avventura è meglio farla per bene.” Perciò Richard già bofonchiava prevedendo la fatica. Ma poi la vista dei vigneti, dei castagni, e del mare, che salendo si faceva sempre più vasto, lo avevano curato. E adesso non badava più nemmeno al tempo che passava e ai muscoli doloranti dell’interno coscia. La canzone di Peppino finì, e Richard si girò per chiederne un’altra. Vide però Joukowsky in preda alla nausea, la mano sulla bocca e il corpo in equilibrio instabile. «Ehi, Joukowsky» rise. «Dov’è finito il tuo spirito d’avventura?» «Ancora un po’ e sarà tutto sparpagliato per strada!» rispose il pittore. «Prepara la tavolozza, allora! È meglio raccogliere i propri colori.» Si scoprì che Juokowsky non era mai salito su un asino, soprattutto per fare una strada ripida, ma che non avrebbe mai creduto di poter soffrire tanto il “mal di mulo.” Richard allora ne approfittò per incalzarlo di «te l’avevo detto», infischiandosene di sembrare un bambino, e si fermò soltanto quando Cosima, seccata, lo rimproverò e si mise a consolare il pittore. Passò allora il tempo che restava ad accarezzare la scarsa criniera dell’asino, orgoglioso che il proprio corpo avvizzito reggesse più di quello dell’amico. Richard amava gli animali, anche quando non potevano definirsi propriamente belli. Ricordava ancora quando il morso alla mano del cane Leo
lo aveva costretto a interrompere la composizione dei Maestri Cantori per due mesi pieni. Non si era arrabbiato ed era insorto contro chi voleva punire la povera bestiola. Però quell’infermità temporanea era stata davvero una brutta esperienza, che ancora gli bruciava, perché non avrebbe mai recuperato quei due mesi di sosta forzata. E inoltre la sensazione d’impotenza era simile a ciò che stava provando ora, con la mente in subbuglio e il corpo inerte. Guardò Joukowsky, ancora nauseato. Aveva voluto preparare sul mulo tutto il materiale da disegno, sostenendo che un pittore doveva essere sempre pronto a immortalare il momento perfetto; e in un certo senso gli aveva suggerito di non disperare, che il Palazzo dei Rufolo lo avrebbe sorpreso. Ma Richard non ci credeva, ed era contento che per una volta l’arroganza dell’amico venisse punita. Perciò, ignorando i richiami di Cosima, continuò a prenderlo in giro per tutto il viaggio. *** «Richard, dammi una mano, per piacere.» Richard si avvicinò al mulo di Cosima e tese le braccia per aiutare Siegfried a scendere. Erano finalmente arrivati a Ravello, e avevano deciso di proseguire a piedi fino al Palazzo. «Non mi fido, mamma. Non può farlo Peppino?» «Peppino ha già il suo da fare» disse Cosima; il servitore si era allontanato verso un posteggiatore della via, e adesso stava partecipando a quella che sembrava una gara canora. «Sono abbastanza forte per farcela» insistette Richard. «Forza, buttati...» Siegfried, insicuro, si aggrappò al padre. «Visto? Non è stato...» Siete voi? Qualcosa, un sussurro, forse, flebile ma acuto, lo trascinò indietro come una mano impaziente. Siete voi? Richard barcollò, perse l’equilibrio e... «Piano, piano» disse Joukowsky, sostenendolo. «Tutto bene?» «Lo sapevo che non ce la faceva!» strillò Siegfried sciogliendosi dall’abbraccio. «Richard, ehi, stai bene?» Ma Richard era ancora inebetito; la voce, quella voce, Siete voi, gli echeggiava ancora nelle orecchie. «Stai bene?» «Come?» «Ti senti bene?» «Sì... No. Perché... perché mi hai tirato indietro?» «Io? Ma che dici?» «Sì, tu... Mi hai chiamato. No, hai chiesto. Hai chiesto...» «Calma, calma. Forse è meglio che ti riposi un po’. Mi sa che non sono poi l’unico a soffrire il “mal di mulo.”» «Ha ragione, Richard» sostenne Cosima. «Fermiamoci alla locanda Palumbo per...» «Sto bene!» vociò Richard. «Sto bene. Ho solo avuto un... Sto bene.» «Papà è vecchio, papà è vecchio!» canticchiò Siegfried. «Giramenti di testa» disse Cosima. «Forse un calo di pressione dovuto a...» «Sto bene, d’accordo? Sto bene. Dov’è Peppino? Mi serve solo un po’ di musica.» Il servitore, restio a interrompere il duetto con il collega, non arrivò immediatamente; ma improvvisò subito una nuova canzone, la Cannetella, e i cinque s’incamminarono trainando i muli.
Ravello, situato su una rupe, godeva di una grandiosa vista panoramica. I monti di Scala, la vegetazione mediterranea, le onde del mare quasi a sgorgare dalla gola di Pontone, i gabbiani e le rondini nel cielo turchese. L’aria ripuliva i polmoni, ma forse era stata proprio l’altitudine a provocare a Richard quel capogiro. Gli sembrava davvero di essere stato chiamato... Anzi, no: trascinato. Come se qualcuno avesse avuto fretta di parlargli. Decise di non farci caso, e per tutto il tragitto si evitò di parlare, probabilmente per non infastidirlo. Solo Peppino continuò a cantare, felice, con la gente che si girava a guardarlo come se fosse l’elemento più eminente del gruppo. E un po’ lo era, perché di certo era l’unico che stava donando qualcosa al suo passaggio. « È quello, papà?» disse Siegfried quando arrivarono alla Torre d’ingresso del Palazzo. «A quanto pare...» Un uomo sostava davanti al portone ogivale della struttura di pietra. Stava fumando la pipa, e quando vide i turisti avvicinarsi, agitò la mano per attirarli a sé. «La famiglia Wagner, immagino» salutò, in italiano. «Vi do il benvenuto a Villa Rufolo. Io sono il Custode.» L’uomo, un giovane intorno ai trent’anni, dalla barba fluente e il sorriso stampato in faccia, era vestito da contadino e aveva i pantaloni sporchi di terra. Perplesso, perché nessuno gli aveva risposto, disse: «Parlate italiano, vero?» «Sì» disse Richard, non sapendo più se usare la definizione Palazzo o Villa, e cercando di non cadere nell’accento tedesco. «Non ci ha detto il suo nome, però.» «Che sciocco! Il mio nome è Luigi Cicalese, scusate. È che sono così abituato a farmi chiamare custode che...», si pulì la mano sul giacchetto e la tese. “ Beh, piacere di conoscervi. Wagner, giusto?» ripeté. «Tranne uno» si inserì Joukowsky, stringendo la mano. «Sono Paul von Joukowsky, pittore. Ho avvisato io del nostro arrivo.» «Oh, certo, il signor Joukowsky.» Poi strinse la mano a Richard, a Cosima e addirittura a Peppino, il quale, forse perché non se l’aspettava, ricambiò goffamente. «E chi è questo ragazzo?» disse curvandosi verso Siegfried. «Lui è il nostro Fidi» rispose Cosima. «Ma non parla ancora bene l’italiano.» «Fidi, eh. Un nome tedesco?» «Sta per Siegfried.» «Siegfried, capisco. Come per il Sigfrido?» «Conosce il Sigfrido?» Richard era sorpreso. Il Sigfrido era ancora sconosciuto in Italia, dove erano stati messi in scena solo il Lohengrin, il Tannhäuser, il Rienzi e l’Olandese volante. «Solo di nome, purtroppo. È stato il signor Reid a parlarmene. È un suo grande ammiratore, il signor Reid. Dice che lei è il più grande compositore vivente.» Richard, mantenendo l’atteggiamento di chi non vuole scomporsi troppo, ringraziò. «Però io gli ho risposto che sì, sarà pure eccezionale, ma che nessuno può eguagliare il nostro Verdi.» Cosima abbassò il capo, sperando che il marito non reagisse. Joukowsky rise apertamente, prolungando il sorriso del custode, che non sapeva di avere appena offeso il compositore. Richard, però, cercò di mantenere un certo contegno. Si parlava fin troppo di Verdi, lì, e di lui ricordava soprattutto quando alla terza replica del Lohengrin a Bologna, il Monti aveva gridato: «Viva Verdi!» spostando tutti gli applausi sul compositore italiano.
«Però io non ne capisco tanto di musica.» Gli diede una pacca sulla spalla, e Richard, indispettito, se la pulì, ma il custode non se ne accorse. «Quindi questa è la vostra prima volta alla Villa? È molto popolare, sapete? Riceviamo spesso visite di artisti. Tutti in cerca d’ispirazione, a quanto dicono.» «E ha mai funzionato?» domandò Richard. Il custode sorrise, la pipa incastrata tra i denti. «Oh, caro signore. L’ispirazione arriva soltanto a chi se lo merita davvero.» Guardò oltre il portone, lungo il viale. «Ma diciamo che questo luogo è colmo di magia. Merito di 600 anni di storia.» Siegfried, riconosciuto il vocabolo magia, cominciò a tirare la veste della madre. «Che cosa dice?» chiese il custode. «Oh, niente» disse Cosima bloccando il figlio. «È tutto il giorno che fa così. Continua a chiedere di un certo Lorenzo Rufolo.» Il bambino prese a saltellare sul posto, credendo che glielo stessero per presentare. «Lorenzo Rufolo, davvero?» «Sì, colpa del nostro amico. A Fidi piacciono molto queste... storie. E adesso si è messo in testa di voler incontrare, beh,» sussurrò «il fantasma.» «E facciamoglielo incontrare allora!» «Come?» «Lorenzo Rufolo è il nostro ospite più importante. Anzi, possiamo dire che, genealogicamente parlando, sia lui il vero padrone della Villa. Ma non lo dica al signor Reid.» «Vuole dire che... Lorenzo...» Richard alzò gli occhi al cielo. «Cosima, ti prego.» «No, no, no. La signora dice il giusto. Lorenzo è qui tra noi. Sente?» Mise la mano a conchiglia accanto all’orecchio. «Sì, proprio come pensavo. Ai fantasmi non piace essere dimenticati.» «Non dica sciocchezze!» lo interruppe Richard. «Non ho tempo da perdere. Ci faccia vedere la Villa e basta!» «Richard, piano» disse Joukowsky. «Per favore, Cicalese, prima il mio amico si è sentito male, e ora non è dell’umore adatto per...» «Ho detto che sto bene!» Il custode riprese a fumare la pipa. «Fa male a non crederci, sa? Potrebbe prendersi un forte spavento. Anche i giardinieri della Villa non ci credevano. Ma poi l’hanno visto aggirarsi nella Sala dei Cavalieri e hanno detto: “È lui... è proprio lui!... il Secreto defunto!”» «Quello è L’Amleto di Shakespeare!» «Come non detto» disse, sbuffando fumo dalla pipa, e aiutò Peppino a legare gli asini all’esterno. *** La diffidenza iniziale fu subito sostituita dallo stupore. La Villa li trasportò in un mondo nuovo, segreto e fiabesco. L’ingresso riccamente ornato, il Chiostro Moresco decorato con intrecci fogliati, le rose nell’aiuola al centro del cortile, vasi di gerani e begonie sulle scale, e i viali costeggiati da mandarini. Odori dolci e variegati che fecero ammutolire gli ospiti. «È stato il signor Reid a rimettere in sesto la Villa» disse il custode. «Forse non ci crederete, ma quando l’acquistò per farci la sua residenza estiva, la trovò in uno stato deplorevole, completamente abbandonata a se stessa. Non c’erano né le porte né le finestre, e il cortile era sepolto dalle macerie. Sembra quasi blasfemo immaginarla così. Ma poi gli venne l’Illuminazione – come gli piace dire – di trasformare la Villa in un vero paradiso!
Piante locali accanto a piante esotiche, fiori rarissimi e coloratissimi, fontane e vasche coi giochi d’acqua. Ha fatto costruire addirittura un acquedotto per la fontana pubblica a Piazza Vescovado. Qui a Ravello gli sono tutti debitori.» «E non è possibile parlare con il signor... qual è il nome completo?» chiese Cosima. Stringeva la mano di Siegfried, che aveva perso la voglia di fare i capricci. «Francis Neville Reid» disse il custode. «Uno scozzese molto educato. Ma molto permaloso riguardo al suo Giardino. Quindi se volete esporgli delle critiche, beh, meglio di no.» «Oh, non oserei mai. Si trova qui nella Villa?» «No, no, il signor Reid viene a trovarci d’estate. Se vuole scrivergli posso darle l’indirizzo. Io e il signor Reid ci scriviamo regolarmente. Mi chiede sempre come vanno le cose al giardino, se le rose sono pronte per l’innesto a occhio, se si può dare una mano di verde ai cancelli e...» … Continuò con aneddoti ed elenchi di piante per tutto il tour. Spiegò che le piante rampicanti sui muri erano una vera rarità (Hedera helix forma poetarum) ed era per questo che i frutti apparivano gialli invece che neri; e che l’antica Torre Maggiore alta 30 metri era la testimonianza del potere dei Rufolo, e un luogo da cui scrutare tutto attorno, dalle montagne al mare. Passarono allora per la Sala dei Cavalieri, lasciando per ultimo il piano superiore, col Belvedere. Il custode stava per esporre le caratteristiche delle arcate ogivali, quando... Siete voi? Siete voi? Siete voi? «Haben Sie gehört?» urlò Richard. «Cosa gli è preso?» domandò sconcertato il custode. Assordato, Richard spiegò l’accaduto, dimenticandosi di parlare italiano, e Joukowsky tradusse: «Si sarà affaticato troppo. Anche prima gli è parso di sentire una voce.» «Una voce, eh?» Siete voi, la frase, ancora nelle orecchie, più forte e vicina. Stava impazzendo? «Forse si tratta davvero di Lorenzo» rise il custode. «Le ho detto di farla finita!» Richard si toccò l’orecchio. «Ho solo... non lo so, sì, sarò stanco.» «Le ripeto che fa male a non crederci. Ai fantasmi non piace essere dimenticati. E più fa resistenza, più loro insistono. Lorenzo Rufolo è una presenza autorevole qui. Me l’ha detto il signor Reid.» «E lei crede a tutto ciò che le dice il signor Reid, vero?» «Non è solo il signor Reid a dirlo. Ha presente Giovanni Boccaccio? Quarta novella della seconda giornata del Decamerone.» «Le piace citare gli scrittori, a quanto vedo.» «Chi è il Landolfo Rufolo della novella, se non il nostro Lorenzo? Boccaccio ha voluto ricordarlo così, con tanto di lieto fine. Uno di quelli che a noi ravellesi piace tanto leggere.» «Coincidenze.» I fantasmi non esistevano, lo sapeva. Erano solo storie, creazioni dell’uomo. È questo che fanno gli uomini, pensò Richard, creano e rimediano agli errori del passato. E questo giardino, oh... Si bloccò. Arrivati al giardino, quel giardino... Piante tropicali, roseti; la Gloire de Dijon, la bengalensis, la Bella di Napoli; contrasti tra il bianco del mughetto e il porpora della clintonia; la peonia, la verbena, il ranuncolo. Colori accattivanti, sensuali; arancione, viola, blu, rosso, giallo; si fondevano all’interno del verde degli arbusti e degli alberi.
E poi, poco più in là, un pozzo con accanto due Palme di San Pietro. Richard avanzò, timoroso, e udì una musica soave, provocante, crescere mentre si avvicinava. Le piante tropicali, all’improvviso, iniziarono a mutare. I colori dei petali arancioni, viola, rossi, si stirarono in vesti sottili e svolazzanti, che coprivano a malapena i corpi danzanti di fanciulle. Fanciulle che, ridendo e ballando attorno al pozzo, invitavano maliziosamente Richard a unirsi a loro. E lui, riconosciuta la scena e l’intensità della sua follia, provò a recitare: «Che dolci profumi... Siete voi fiori?» «Siam del giardino gli spiriti aulenti. Cresciamo nel sole d’estate. Sii il nostro tenero amico» risposero in coro le fanciulle floreali. Richard, in preda alla paura, chiese aiuto; le fanciulle e i fiori crebbero a dismisura lasciandolo al centro del ciclone cangiante e impedendogli di vedere i membri della compagnia. Cercò allora di fuggire da quell’incantesimo, districandosi dalle risate demoniache, ma una voce, quella voce, lo fermò. «Richard!» disse. «Wilhelm Richard Wagner.» Allora era vero. Era impazzito. Era caduto nella magia del Parsifal. «Richard? Così in sogno mi chiamò mia madre» rispose, ormai arreso. Sapeva con chi aveva a che fare. Era Kundry. La bellissima, sensuale Kundry. «Avete paura, Richard?» «Paura, Kundry?» disse calcando la pronuncia del nome. «Ho solo paura di essere pazzo.» «Non siete pazzo, Richard. Solo confuso.» «Siete stata voi a chiamarmi quando sono giunto a Ravello? Da quanto tempo sono malato? Mesi? Anni? Oppure da oggi?» «Non siete malato, Richard... O almeno, non di mente.» «Dove siete? Non riesco a vedervi. Fatevi vedere, Kundry!» «Vi ho chiamato solo per chiedervi un...» «Fatevi vedere!» «... Come desiderate...» Le fanciulle si dileguarono all’istante, e prima che Richard potesse allungare una mano, qualcosa, no, qualcuno apparve al loro posto. Un uomo. Sembrava indossare una vestaglia lercia, ma così non era. Le gambe, unite come il tronco di un albero, partivano sfocate da venti centimetri d’altezza, e il loro colore marrone proseguiva verso il busto per poi sfumare nel rosso sangue. Sangue che sgorgava dalla radice del collo. Il viso, pallido per contrasto, era però lieto, anche se imbarazzato. Richard non seppe cosa dire. Poi ruppe il silenzio: «Chi diavolo siete?» «Non gliene ha parlato abbastanza, Cicalese?» sorrise il fantasma. «Sono Lorenzo Rufolo.» «... Lorenzo?...» «Rufolo.» «Lorenzo...» «Richard, non ha nulla da temere...» «No, no, no» Si premette le mani sulle tempie. «Devo essere impazzito. È l’unica spiegazione.» «Richard...» «Non vi avvicinate!» urlò Richard, tentando invano di respingerlo. Ma il fantasma si fermò comunque. «Non siete pazzo, Richard.» «Non togliermi l’unica cosa di cui sono sicuro! Se non è pazzia, questa, allora che cos’è? Uno scherzo?!» «Semplicemente la realtà, Richard. La realtà ai suoi confini.» «No...» Si girò, per scappare, ma si bloccò spaventato davanti al proprio riflesso in uno specchio.
No, non era uno specchio. Era lui, il suo corpo. E dietro c’erano Luigi Cicalese, Joukowsky, Cosima, Siegfried e Peppino. Immobili, statue di carne. «Che cosa...» Scomparse le fanciulle, il respiro degli uomini, il fruscio degli alberi, il canto degli uccelli... tutto taceva. Un silenzio assordante, quello di uno dipinto sbalorditivo senza vita. «Non abbiate paura. È solo una pausa nel tempo.» «Ma io... Io...» «Lei è lì, come lo è anche qui. Questa è la sua essenza astrale.» «... Il mio spirito?» «Se così lo vuole chiamare.» «E come dovrei chiamarlo allora? Sono uno spirito? Un fantasma? Una creatura» guardò in basso, «senza gambe, santiddio!» «Non è importante» disse Lorenzo. «È solo temporaneo, per lei. È l’unico modo che ho per comunicare.» «Strapparmi dal mio guscio?!» Il fantasma annuì. «Mi dispiace, non ho saputo resistere. Ma non avrà ricordo di questo fastidio. È da tanto che aspetto l’arrivo di un uomo con le sue caratteristiche. I cui desideri si sposano bene con i miei fini.» «Di che desideri sta parlando?... E quali sono i suoi fini?» «Quello che ha visto, le dice qualcosa?» Richard cercò di replicare, ma dalla bocca non uscì nulla. Il pozzo, le fanciulle coi fiori, la musica... Era quello, sì, l’aveva riconosciuto subito e n’era rimasto stregato. «Il Giardino di...» «... Klingsor» terminò Lorenzo. «Lei... No, lei non può...» «Sì calmi, Richard. So che le può sembrare assurdo, ma se esaudirà la mia richiesta posso assicurarle che l’unica cosa che ricorderà sarà l’incanto del giardino, così come gliel’ho mostrato.» «E se rifiutassi...» disse, infuriato “ dimenticherò tutto?» «Sento dell’astio nella sua voce.» «Non mi piacciono i ricatti. Glielo chiedo di nuovo: dimenticherò tutto?» «Non la sto ricattando, Richard. Sappiamo entrambi che il Giardino di Klingsor era lì, nella sua mente. Ma a volte è necessaria l’Illuminazione.» «Il signor Reid...» capì Richard. «Neville è un genio della botanica. E non immagina la mia felicità nel vederlo acquistare la residenza. Ma voleva farne solo la sua dimora estiva. E io, conoscendolo, non potevo permetterlo.» «E quindi, l’Illuminazione.» «Gli ho mostrato cosa poteva essere il Palazzo dei Rufolo.» Allargò le braccia. «E questo che vede è ciò che è diventato.» «Ma a quale prezzo...» digrignò i denti. Il fantasma, prima stupito, si mise a sghignazzare. «Oh, Richard, mi sa proprio che ha sbagliato opera! Non siamo nel Faust, dimentichi il Demonio.» Richard, diffidente, non rispose. «Oh,» rise ancora Lorenzo. «Mi ricorda il buon, caro Giovanni. Anche lui era restio a fidarsi.» «... Boccaccio?» «E chi, se no? Cercava una novella per la seconda giornata, e quando venne a Palazzo gli diedi l’ispirazione per il Landolfo, chiedendogli però
di farmi un finale felice.» «... E quindi, cosa vuole da me?» «Quello che desidero... No, quello che desideriamo, è che il Giardino di Klingsor possa finalmente prendere vita. Non è forse questo ciò che sta cercando?» Sì, era questo, ma... «Non posso accettare... Non posso comprarmi l’ispirazione. Non è giusto... nei miei confronti. Se il Parsifal deve avere il suo Giardino, allora sarò io a darglielo. E se così non è...» «Richard» lo interruppe Lorenzo. «Il Parsifal è finito. E lei è troppo tormentato per cogliere l’attimo, per giocare d’istinto. Questo è il suo giardino. Lo guardi bene.» Anche senza l’illusione delle fanciulle, Richard riconobbe in quel giardino la scenografia del secondo atto del Parsifal. Vide la torre medievale sprofondare nel nulla e diventare un giardino incantato; le piante tropicali trasformarsi in fanciulle seducenti e, infine, il giardino stesso decomporsi in un deserto nell’attimo in cui Parsifal uccide il negromante Klingsor. Davvero avrebbe dimenticato quella visione? Davvero, una volta tornato nel corpo, avrebbe proseguito senza accorgersi che la soluzione alle sue angosce era lì, attorno a lui? Era diventato cieco? «Lo sta perdendo» disse Lorenzo. «Come sta perdendo questa giornata con la sua famiglia. A causa del suo malcontento.» Richard studiò da vicino il se stesso immobile. Un vecchio, reso ancora più logoro dal broncio che stirava verso il basso le rughe. «Perché... perché vuole che utilizzi il suo giardino?» «Perché...» esitò. Si toccò lo squarcio al collo, e il sangue fluì tra le dita senza sporcarle. “ perché questo è il mio único scopo.» Si voltò e prese a fluttuare per il giardino. Richard lo seguì, e notò lo sfondo attorno a loro mutare in base alle parole di Lorenzo. «I colori erano cambiati. Gli Angioini vinsero la battaglia di Benevento, e la Casata, per non perdere i propri poteri, giurò fedeltà ai conquistatori...» Sul pulpito del Duomo appena apparso, lo stemma dei Rufolo cambiò dal rosso al blu. «Diventammo banchieri della Corona. Volevamo esibire a tutti i costi le nostre ricchezze, che dovevano fare impallidire perfino Re Carlo II d’Angiò.» La scena si spostò in una sala da pranzo, con un banchetto degno di un sovrano. Il vino e il cibo si sprecavano, e Re Carlo guardava attonito Nicola Rufolo ordinare di buttare in mare le posate d’argento, appena utilizzate, mentre ridendo assicurava di potersene permettere di nuove a ogni pasto (per poi andarle a recuperare di nascosto assieme ai servi, grazie alle reti che avevano preparato in anticipo). «Attirammo l’odio di molte famiglie del Regno, di Ravello e della Corona... e dopo la guerra del Vespro, gli Angioini vollero recuperare tutto il denaro vendicandosi di noi.» Le scene divennero cruente. Richard le osservò come se si trovasse davanti a un dramma magniloquente: la guerra, il processo, le terre confiscate, la tortura di donne e bambini e Lorenzo Rufolo, quel Lorenzo Rufolo ancora in vita, che dopo aver tentato di lottare a fianco degli Aragonesi, tra le squadre di navi che attaccavano i convogli, veniva imprigionato in un castello della Calabria e infine… decapitato. Arrivarono sul Belvedere, dove il giardino si affacciava sul panorama del golfo. «Per tutta la vita non abbiamo fatto altro che ostentare ciò che possedevamo, e questo alla fine ci ha spezzato... Come ha spezzato la vita del piccolo Onofrio Somma, 38 anni fa.» «... Quindi, quel mago...» disse Richard, ricordando ciò che Joukowsky aveva raccontato il giorno prima. «Diceva la verità?» terminò Lorenzo. «Sì, in parte. Anch’io ne rimasi sorpreso, quando la sua verga d’ottone rilevò la mia presenza. Pensavo di aver trovato uno spirito affine, e invece mi ero imbattuto in un Klingsor privo di classe. Il mago capì che nascondevo qualcosa, un tesoro. Ma
poteva, lui, con la sua morale, scoprire quale? Niente deforma la verità come la cupidigia.» «... Perché non l’ha fermato? Avrebbe potuto impedire quella tragedia! Avrebbe potuto...» «Crede che non avrei voluto?!» tuonò il fantasma; ma si placò vedendo l’espressione sgomenta del compositore. «Mi perdoni, Richard. Caro, ingenuo Richard... Anche questo fa parte della mia attuale esistenza. Posso comunicare soltanto con chi, come lei, presenta le caratteristiche e la volontà di risollevare la Casata dei Rufolo. Ma non posso interferire con chi la vuole distruggere... Con chi è alla ricerca di ciò che ha decretato la nostra fine. Fa parte della mia Pena.» Richard rimase in silenzio. «Quelli che condividono il mio destino non possono interferire col mondo che li ha ospitati. Ci è già stata data la possibilità di fare la differenza. Tutto ciò che possiamo fare è sperare. Sperare, e aspettare...» Avanzarono lungo il giardino del Belvedere. Poi Lorenzo si fermò e socchiuse gli occhi, come se stesse cercando di vedere qualcosa. «Ma...» riprese, e la voce tornò a brillare. “ Se me lo permette, Richard... Se mi permette di essere la sua Ispirazione, come lo sono stato per Giovanni e Neville, se mi permette di far risplendere il Palazzo, e di espiare una parte delle mie colpe... allora forse anch’io...» Distese il braccio, e i fiori del giardino si tramutarono nuovamente; ma non erano più fanciulle: era un pubblico di tutte le età, dagli abiti variegati, che ascoltava estasiato una grande orchestra, fiati, violoncelli, contrabbassi, e un Direttore d’orchestra che dirigeva eccitato la musica, la sua musica, il Parsifal! «... forse anch’io potrò aspirare alla mia Redenzione.» *** «Te voglio bene assaje, e tu non pienze a me!» Giunti alla locanda Palumbo per riposare, Peppino, già brillo, prese a cantare su di un tavolo, forzando gli astanti a seguirlo mentre agitava un fiasco di Falanghina. «Ma non si stanca mai?» borbottò Cosima, smettendo di scrivere sul diario. «Lo porto con me apposta» rispose Joukowsky. Stava esaminando per l’ennesima volta gli schizzi del Giardino che aveva appena finito di disegnare, compiaciuto del fatto che gli sembrassero ogni volta più belli. Era strano; c’era qualcosa in quei disegni che lo rassicurava. Sentiva la buffa sensazione di aver fatto finalmente centro, e di aver trovato un posto nella Storia. Cosima scosse la testa, divertita, e tornò sulle sue pagine: … cavalcata a via S. Chiara fino al piccolo padiglione, con fermata e cantata di Peppino, il panorama da quel punto per me il più bello di tutti… «È tutto molto bello» disse scontroso Siegfried. «Però io volevo vedere il fantasma!» «Ancora con questa storia? Lo vuoi capire o no che i fantasmi non esistono?» «No!» «Esistono, non esistono» s’inserì Richard. «Che importanza ha, Fidi? Oggi è un giorno di festa!» «Per te, forse.» «Non ha tutti i torti» disse Joukowsky. Risero tutti, e alla fine anche Siegfried si riprese dalla delusione. Cosima non capiva che cosa fosse preso al marito. Era così felice. Stranamente, stupendamente felice! Di solito era in grado di fiutare i suoi cambiamenti d’umore... e invece, dopo aver attraversato il Giardino, eccolo che se la rideva tutto contento, come se le sue angosce fossero svanite nel nulla.
Che miracolo fosse capitato, non lo sapeva; se la Villa avesse davvero dei poteri magici, o se lo stracitato fantasma li avesse infine aiutati, non lo sapeva né le importava. Le bastava vedere Richard felice. «Dai, vieni.» Prese il marito per mano. «Che stai facendo?» «Hai detto che è un giorno di festa, no? E durante le feste si canta!» «No, Cosima, per favore, no...» Ma non seppe resisterle; Peppino lo accolse a braccia aperte e insieme cantarono, bevvero e risero infischiandosene di chi li voleva zittire. Poi, quando stavano per andarsene, il locandiere al bancone li fermò: «Scusate, signori, siete forse tedeschi?» «Ho cantato così male in napoletano?» rise Richard. Il locandiere sollevò un registro. «Vi va di firmare l’albo dei turisti?» Sulle prime fu restio; poi, sorridendo, ricordando qualcosa che gli era apparso in sogno, scrisse:
Klingsor Zaubergarten erst gefunden Il magico giardino di Klingsor è finalmente stato trovato Richard Wagner – 26 maggio 1880 –
La sacca
di Luca Vecellio Salto C’è un vecchio che corre sulla strada. Per avere quell’età, è piuttosto veloce. I corvi gli svolazzano attorno come per ricordargli la sua età, ma lui va avanti perché non ha paura della fine dei giorni. Le sue gambe funzionano bene; scricchiolano un po certo’ ma fanno il loro mestiere. Tiene una sacca sulle spalle e ogni volta che è costretto a fermarsi per riprender fiato la appoggia a terra, perché gli intralcia il respiro. Dietro di lui c’è anche la nipote, una ragazzina giovane e grassottella, che fatica a seguirlo. - Aspettami nonno. Aspettami ti prego.Ma il nonno continua a correre, perché ha fretta di sputare tutte quelle cose che ha visto. Gli serve davvero un modo per viaggiare più velocemente: se solo sapessero cos’ha da dire, lo verrebbero a prendere di persona. Le praterie che attraversa sono tutte identiche, erba putrida e un po’ paludosa. Si schizza di fango a ogni passo e la nebbia lo fa tossire forte. La ragazzina l’ha perso e si guarda intorno spaesata. - Nonno? Da che parte nonno?Le scarpe di cuoio sono rimaste slacciate tutto il tempo, svolazzando in aria come il destino: se solo pestasse uno dei lacci al momento sbagliato, a quella velocità, il vecchio si spezzerebbe tutte le ossa. Non ha tempo di fermarsi ad allacciarle: deve arrivare dove deve arrivare, presto, prima della notte. Si spinge con le mani aperte nell’aria, come per creare un varco, annaspando come un uomo senza arti in un oceano crudele. Entra nei boschi, scartando i tronchi come faceva da ragazzo mentre andava a caccia col padre, e ne esce pieno di aghi di pino e resina. La strada conduce a Tongeren, dove si dice che i gatti siano talmente tanti che la notte non è possibile uscire di casa o quelli ti sbranano. Le nuvole coprono l’orizzonte con uno schifoso bacio d’umidità, che fa vibrare la pelle e costringe a serrare gli occhi e i denti, in un ringhio idrofobo. Al vecchio pare buffo che Tongeren sia una felinocrazia. - È inaudito che un gatto governi il suo feudo.- disse, esaurito dallo sforzo. Viene aggredito da una risata isterica che, assieme al vento, gli scoppia i polmoni. Muore lì, con grande soddisfazione dei suoi compagni di viaggio, i corvi, che lo vedono cadere in mezzo alla prateria come colpito da una fucilata. *** - Com’è morto, secondo te?- Non lo so. È un vecchio, sarà morto di vecchiaia.- Qui in mezzo alla strada?- Non si sceglie dove morire, Artur. Lo sceglie lei.- Lei chi?- Lei. La Morte. Prendi la sacca Arthur.- Porta male saccheggiare un cadavere!- Prendila è basta.- È vuota.- Vuota?- C’è solo questo.- Dammelo.- Cristo santo!- Cosa?-
- Lascia stare, andiamocene Arthur.- Ma si può sapere cosa ti prende? Fammi vedere!.- Cristo santo!- Andiamo via.- Si andiamo via. Ma lui lo lasciamo qui?- E cosa dovremmo fare?- Non lo so, ma porta male lasciare un cadavere sulla strada.- Non importa, lascialo qui. E lascia anche quello.- Ma, perché? Potrebbe essere il nostro lasciapassare!- Forse per un nobile, Arthur, noi siamo dei pezzenti. Guardati, sei tutto sporco di terra.- Tu hai rubato quei vestiti alla città dei gatti, non sono tuoi, quindi non prendermi in giro.- La strada per Amsterdam è lunga, Arthur, non farmi perdere tempo.- Guarda! Lì c’è il ponte!- Dove?- Maledizione Arthur, ridammela e smettila di fare giochetti, o userò la cinghia.- Pff. Va bene, tieni.- E chiedi scusa.- Scusami padre, volevo solo scherzare un po’ con te.- Bene, ora andiamo. Cancelliamo le nostre impronte su questo sentiero.*** È il quindici novembre milleottocentosettantaquattro e sono circa le dieci del mattino, siamo nei pressi di Tongeren, a qualche miglio da quella baggianata che chiamano “città dei gatti.” Il tenente Hendriak Van Hyat, un ragazzone di un metro e novantacinque, marcia da ormai quattro ore assieme alla sua squadra. Fa parte della guardia privata di Madamè Dechappe e i suoi uomini sono disposti in quattro file da sei. Lui è senz’altro il primo a vedere quella macchia scura in mezzo alla strada, a circa sessantacinque metri dal primo cavallo. Si aggiusta l’uniforme e raggiunge l’avanguardia, superando con quattordici passi l’intera formazione. Si tratta di un vecchio basso e magro, morto per cause naturali proprio lì, in mezzo al nulla. Hendriak prende subito il controllo della situazione, mostrando cinque dita grassocce all’avanguardia che, quasi telepaticamente, si immobilizza. I cavalli, splendidi purosangue cecoslovacchi, si agitano un po’, perché sanno che quello che accade sempre in quelle occasioni, quando tutto si blocca così improvvisamente. Invece è solo un vecchio che è morto. Forse merita una sepoltura. - Wout e Ansel seppellite questo poveretto. Ci raggiungerete poi.- Si signore.Hendriak torna ai cavalli e bussa all’oblò del calesse: - Madamè, è tutto a posto. Si tratta solo di un intralcio.- Grazie Hendriak. Sono certa che da qui in poi il viaggio sarà più tranquillo.- Lo sarà senz’altro. Con permesso.Hendriak raggiunge la retroguardia e sussurra all’ultimo uomo che si allontana un minuto o due, per urinare. Così scende per una scarpata ed entra in un piccolo boschetto, dove gli alberi sono sottili come cespugli e si muovono assieme al respiro. Lì fruga nelle tasche dell’uniforme, fatta di uno splendido tessuto bordeaux e completata da alcune splendide medaglie d’argento brillanti anche nel buio e ne estrae una sacca. Ci mette
dentro le mani e vede qualcosa che gli ghiaccia la spina dorsale, gli sale lungo il collo, fino al cervello e quello gli manda l’impulso di lasciar cadere il tutto. La sacca cade al suolo, morbido di muschio e terra bagnata e lui si affretta a raccoglierla. Il suo soldato, vedendolo arrivare con una certa fretta, chiede: - Va tutto bene, tenente?- Va tutto bene, Marteen. Tu pensa a stare dritto, che sembri un crostaceo con quell’armatura.Non appena Wout e Ansel ritornano, seppellito il vecchio sul bordo della strada, la formazione riparte con una marcia regolare abbastanza sostenuta. Sono diventate le undici. *** Dannazione, che freddo. Se solo ci facesse correre un po’, mi scalderei. Mi odia. Io lo so che mi odia, quel bastardo. Mi dice delle spalle. Di stare dritto con le spalle, di tenere basse quelle spalle, che il nemico colpisce alle spalle. Lui sa che io sono veloce a correre, è l’unica cosa che sono bravo a fare. La reputa una cosa da codardi e non vuole concedermi che l’ho battuto, quella volta della staffetta. Strano, visto che lui, con quell’altezza, ha un’ apertura cosciale degna della migliore prostituta di Parigi. In ogni caso lo sopporto, ora e sempre: perché so bene che mi farebbe decapitare senza pensarci due volte. Mi ha concesso già una grazia, tempo fa, perché sono fuggito a una rissa in una taverna di Zutendaal. Ora che sono in viaggio con lui, potrei anche ammazzarlo e buttarlo nell’acqua di un pozzo, ma Madamè Dechappe mi farebbe impiccare una volta giunti ad Alden Biesen. Dicono che il nuovo Land Commander sia un giovane in gamba, che sappia come trattare coi criminali muniti di titolo, forse potrei parlargli una volta giunti al suo cospetto. Credo anche che, se sapesse che la sua amica Dechappe condivide le sue lenzuola di seta con quel bestione senza cervello, non ci penserebbe due volte a mandarlo a morte. So per certo che tutti gli uomini sarebbero molto grati al Land Commander per quella decisione. È strano. Da qualche ora si comporta diversamente: continua a tastarsi il petto, come se qualcosa gli prudesse o lo pungesse. Poi mi fissa e io distolgo lo sguardo, rapido come una vipera che scappa da uno scarpone. Cos’avrà sotto il cappotto? Cosa può mai bramare un uomo tanto potente? Lungo il cammino, circa ogni cento metri, infila una manaccia sotto al mantello e finge di sistemarsi le spalline. Di tanto in tanto fa alla truppa: - Che scomode queste uniformi! Se trovo quel bastardo che ce le ha fatte pagare tanto gli spezzo il collo! Eppure le uniformi sono comode e calde: nessuno lamenta lo stesso fastidio. Quando arriviamo a Tongeren, la città dei gatti, dove dicono che la gente non esce di casa per paura di quelle bestiacce (quant’è buffo questo fatto): c’è una coppia di poveracci francesi accanto a una fontana. - Spostati galletto.- dice Hendriak ad uno di quelli, pur sapendo di essere la guardia privata di una dama francese, abbeverandosi come un bue a quel piccolo getto d’acqua. Poi qualcosa gli cade e io, da buon soldato, lo raccolgo subito. *** - Pssh l’hai visto anche tu?- (sussurrando)
- Si. L’ho visto. Ma non farti sentire!- (sibilante) - Ma questo è furto!-(a gran voce) - Bah, lascia perdere, non è affar nostro cosa fanno quei mercenari.-Potrebbe darci un premio!-Poteva trattarci meglio prima, invece di far il cafone!- (alzando l’indice) - Si, poteva.- (pensieroso) - Dici che l’hanno capito?- Hanno capito cosa?- Da dove veniamo!- Ma certo che l’hanno capito, Lucienne! Siamo noi i galletti.- Ci faranno impiccare?- (rosicchiandosi le unghie) - No, non è detto. Siamo mercanti, mica invasori.- Ma se non abbiamo nemmeno merci da vendere!- Abbiamo del denaro!- (scuotendo la tracolla) - Nemmeno una moneta!- Ma lo so, non serve essere ricchi, basta parerlo.- (con gli occhi al cielo) - E se poi chiedono di dimostrarlo?- Lucienne, qui non interessa a nessuno cosa facciamo...- E poi ho una bella idea.- (dito indice in alto) - Quale idea? Odio le tue idee.- Spenniamo il pollo.- (mimando il gesto) - Quale pollo?- (sorpreso) - Quello spregevole ladro laggiù!- Non lo so, ci ammazzerà? - Noi siamo in due, lui è solo e ha qualcosa da nascondere.- Io qui a Tongeren non ci resto.- Diamine no! L’hai sentita quella storia dei gatti!- Bestie del demonio, quelle!- Lo faremo questa notte.- (sfregandosi le mani) - Perché non ora?- Perché, Lucienne, la notte è migliore quando si tratta di minacce e ricatti.- Anzi: la notte è migliore in ogni caso.- (sogghignante) *** Buio e pelli chiare si affacciano sul cortile Alden Biesen, mentre il vento spazza via gli ultimi residui del giorno. C’è un castello a Reekstraat, vicino a Bilzen, con quel nome. Ma non è proprio un castello, è una fortezza: da poche ore i suoi cancelli sono spalancati e diverse ombre hanno varcato la soglia ghiaiosa del vialetto. Molti uomini ed una sola donna. Una donna nata sotto il nome di Dechappe. Qualcuno sbraita, ubriaco d’ira, perché è quella il miglior liquore disponibile nelle stalle: non è possibile condividere il vino coi ricchi al piano di sopra, gli ha detto la padrona.
Il mondo della notte volteggia intorno ad Alden Biesen, come ombre danzanti intorno ad un fuoco: si cantano storie e si scacciano demoni con riti selvaggi, si seppelliscono corpi e si tagliano teste di gallina, si appendono croci e ci si arma di preghiere. È il momento in cui i gatti escono dalle buche e rendono schiavi gli uomini. C’è un lumino nei giardini ed una mano parlante che la sostiene, nient’altro è visibile in quell’oscurità. Sussurra questa mano, sussurra all’invisibile che vuole qualcosa in cambio del silenzio: vuole una sacca. Ma che sia piena, piena e mai svuotata del suo contenuto originale! Qualunque esso sia! Anche l’invisibile sa tremare, nel buio, e non gli basta non poter essere visto, egli vuole anche il silenzio. Un soffio del vento, un cigolio del cancello, lo sbadiglio di un francese, una mano che porge ed un equo scambio. Poi il lumino diventa passato e la mano notte. C’è chi cammina verso le stalle ed Alden Biesen che respira assieme a lui, sollevato e sconfitto come al termine di una vittoria; poi c’è chi sostiene il peso di una vittoria nella mano e della colpevolezza nell’altro. Il cancello resta aperto perché qualcuno ha dimenticato di chiuderlo e la notte ha voluto punire qualcun altro, facendo entrare figli di terre infelici e bruciacchiate, ora possessori di una sacca e del suo misterioso contenuto. Ma nemmeno il loro viaggio dura a lungo, perché il bosco li insegue come un predatore affamato. E questo è molto strano dal momento che il castello di Alden Biesen, sede del Land Commander, presidio dell’Ordine Teutonico, ambasciata dell’Impero, municipio del baliaggio, si trova in mezzo ad un’ampia radura. *** Al Land Commander di Liegi Franz Von Reischach, Ho l’onore di farVi sapere che ieri - in data ventun novembre - è stato rinvenuto nei pressi di Maastricht, in un terreno ormai non più sotto la giurisdizione del vostro baliaggio, un oggetto di essenziale importanza per Voi e per l’intero Ordine Teutonico, ma oserei dire per l’Impero stesso, se le mie ipotesi sono corrette. Rinvenuto presso il cadavere di due fuggiaschi, di probabile provenienza francofona, la sacca in questione è stata consegnata ad un corriere che in questo istante si sta dirigendo con la massima urgenza verso Alden Biesen. Ho ritenuto opportuno che il corriere stesso conoscesse l’importanza del suo incarico, in quanto un fallimento dello stesso sarebbe inaccettabile e punibile con la morte. Confido che, quando l’incaricato giungerà al Vostro cospetto, sarà ricompensato con la somma che considererete opportuna per un gesto di simile fedeltà e coraggio. Con questo pretesto e considerando questo fiorente rapporto d’amicizia tra il baliaggio di Liegi e quello di Maastricht, mi permetto di esortarVi a confermare la partecipazione già a lungo discussa alla compravendita delle fattorie orientali con un beneficio del venti per cento sulla rendita totale. Vi rendo inoltre partecipi del fatto che, in data primo ottobre, Monsieur Claes, ora ospite del vostro castello, ha offerto all’Ordine un’ingente somma di denaro per acquistare l’intero edificio, a cui pare essersi interessato in modo particolarmente acceso. Sappiamo entrambi che lo sviluppo di questi procedimenti è in genere molto lento, se non eterno, ma questo acquirente ha molte frecce al proprio arco ed è possibile che Vi troviate a dover riconsiderare la Vostra posizione prima del prossimo inverno. Seguo anche a domandarVi alcuni aggiornamenti sulle stranezze che infestano i dintorni della vostra residenza: in particolare mi interessa la questione inerente ad un villaggio chiamato, non so se per facezia o per iperbole, “la città dei gatti.” Trovo questa questione piuttosto divertente. AugurandoVi grandi fortune, Baron Klaus Lundeger Land Commander di Maastricht
*** E pensare che ci è arrivato, alla fine! Lì può cercare quel bastardo e infilzarlo col pugnale, con tutta l’autorizzazione dell’Imperatore e dei suoi funzionari: già rifletteva sulla frase d’effetto che avrebbe potuto urlare nei timpani del ladro una volta infilatagli la lama tra le scapole. Non è stato facile raggiungere Tongeren, città dei gatti: è stato difficile correre in quel modo per tanto tempo, prima superando strade impervie e prima ancora la fitta boscaglia piena di rovi e cespugli. Ha tutto il viso rovinato, strisciato e sanguinante per quello sforzo. Un’ ora prima è stato trattenuto da alcune guardie che insistevano nel controllare le sue tasche: proprio non lo volevano lasciar andare, quegli stolti. Aveva supplicato di aiutarlo a ritrovare quel ladro. Ma quelli non capivano, nemmeno guardando il mandato timbrato e firmato dal Land Commander di Maastricht, il perché di tutta quella riservatezza e si chiedevano il perché di tutto quel sangue sul mantello del corriere. In realtà quel sangue, ancora fresco e caldo, era dovuto ad un piccolo inconveniente lungo il cammino, ma niente che fosse collegato ad un omicidio o qualcosa di peggio. Il corriere, fermandosi a pranzare nei pressi di una fattoria, si era seduto con la schiena contro alla parete di una stalla dove, a quanto pare, stavano macellando un maiale. Il sangue lo aveva raggiunto passando sotto alle travi e gli aveva bagnato tutto il mantello e per questo ora, sembrava qualcuno di cui doversi preoccupare. Inoltre la sua espressione costante, stampata in faccia quasi fosse malato, era di preoccupazione e stordimento perché aveva perso quella sacca che, oltre a contenere un valore inestimabile per l’intero feudo, conteneva anche la sua futura ricchezza o dannazione. Era inciampato, ruzzolando in una pozza e perdendo ogni cosa in aria, e poi aveva realizzato, con tutta la faccia e le braccia nel fango, che quella resistente corda tesa da un albero all’altro sul sentiero non poteva essere un caso. La colpa non poteva essere che sua: a Maastricht non aveva dichiarato a tutti che partiva per quell’incarico ma l’aveva detto alla persona peggiore a cui potesse arrivare quella notizia, alla madre. La vecchia infatti non ci aveva pensato due volte a sussurrarlo nell’orecchio della sua compagna, seduta su una panca mentre cucivano assieme. La voce non si era sparsa poi molto, che già il nipote della seconda vecchia a cui era giunta l’informazione, un malvivente dei quartieri bassi, aveva trovato la cosa interessante e afferrato il cappello, era accorso alla porta di un compagno e poi si era lasciato alle spalle, con una certa fretta, i confini della sua città. *** Eccolo: si muove. Ora va verso il bordo della strada con la cima di una corda. No, aspetta, sta dando il segnale al compagno. Ha rubato la sacca ad un giovanotto che è inciampato nel bosco ed è finito in una pozza. I due ladri stanno correndo troppo veloce. Sono tre. Il giovanotto non li conosce. Si alza dalla pozza e corre anche lui. Sono troppo lontani per riuscire a prenderli. Si, troppo lontani. Vanno verso Tongeren, la città dei gatti. Uno di loro si ferma a riprendere fiato. Il compare lo ha chiamato Julius, esortandolo a muoversi con termini poco gentili. Dall’accento si direbbero di Maastricht. Julius indossa una pelliccia, non devono essere ladri professionisti. La sacca sembra esser tenuta con cura.
Il contenuto non è ipotizzabile. Sarebbe il caso di seguirli, per saperne di più. Il bosco è fitto, non li vedo più. Forse si sono fermati. No, eccoli, li vedo. Vanno verso un fienile. Nel fienile c’è un vecchio. Il vecchio colpisce un maiale con il bastone: credo voglia macellarlo. Il giovanotto si è perso, guarda in tutte le direzioni in cerca di un movimento. Arriva una pattuglia, arriva da Ovest, probabilmente da Alden Biesen. Confermo, l’avanguardia ha le croci teutoniche sugli stendardi. I due ladri stanno entrando nel fienile, minacciano il vecchio con un forcone. Anche il giovanotto va in quella direzione. I due ladri chiudono le imposte del fienile. Si sente urlare. Il giovanotto si avvicina al fienile. Zoppica. Davanti alle guardie c’è un tale di nome Hendriak. È molto alto e sembra pericoloso. Sento il suo nome ogni cinque minuti. La sacca è in quel fienile e sembra che tutti la stiano cercando. *** Oddio e adesso cosa facciamo? Abbiamo rubato, abbiamo fatto irruzione in questo fienile e ammazzato il proprietario! Non c’è scampo! Siamo fottuti! Moriremo impiccati! Oppure il Land Commander ci farà tagliere la testa sulla sua ghigliottina che dicono sia nuova di zecca, appena arrivata da Parigi. Lì, in Francia, vogliono abolire la pena di morte. Forse l’hanno già fatto, non so! E invece noi moriremo! Moriremo come porci per colpa di questa sacca maledetta! Quel corriere avrà già raggiunto i suoi amici! Quelli armati che abbiamo visto dalla collina! Dicono che il bestione che li comanda, Hendrik, Hendriak o come si chiama, abbia ucciso con le sue stesse mani quattro disertori di Parigi, giunti a Liegi per sola disperazione! E ora sta arrivando qui, nel fienile, dove troverà me, Julius e quel povero maiale in un’ orgia di paura e sangue! C’è il corriere qui fuori! È proprio qui fuori! Shh. Silenzio Julius. Non muovere un muscolo! Dio perdonaci! Dio perdonaci! Oh se solo fossimo rimasti a Maastricht, a rubare nelle fogne intorno al Mosa, ad avvelenare i cani prima dei combattimenti, a derubare giovani mercanti e corteggiare vecchie per le loro collane ! Se, invece di sentire i discorsi di quell’arpia di mia nonna...se solo...se solo avessimo potuto capire la pericolosità nascosta dietro ad un semplice furto! Sarebbe bastato un segno: un corvo nero di passaggio sopra alle nostre teste, uno di quei gatti di cui parlano sempre, quelli di Tongeren, che sono grossi come leoni e la notte ti riducono in brandelli ancora prima di poterli scorgere nella notte. Magari ci portano li, ci legano ad un albero e ci lasciano in pasto a loro, questi bastardi figli dell’Impero. Ora stanno discutendo col corriere, in mezzo alla strada. Forse non ci vedranno...forse.
Il corriere gli è sfuggito! Gli è scattato davanti ed un soldato ha provato a raggiungerlo. Ci dà il pretesto per scappare. Forse siamo salvi! Dio santo! Hendriak ha dato un ordine: il soldato che stava inseguendo il corriere si è fermato e sta lentamente tornando indietro. Due di loro si dirigono da questa parte. Hanno visto il sangue! C’è del sangue che scorre da sotto al pavimento! Uno dei soldati ha montato la baionetta sul suo Charleville e sento le sue schifose dita bruciacchiate dalla polvere da sparo sulle travi del portone! Oddio eccoli! Addio Julius! Addio maiale! *** Tongeren, 23 Novembre Il signor Meinkiren richiede un finanziamento supplementare per il suo progetto di disinfestazione e depurazione del pozzo della sua fattoria in quanto da poco infestato dai gatti di Tongeren, che hanno varcato i confini della sua residenza durante la notte. Bilzen, 23 Novembre Alle ore 14.00 il signor Van Hessen denunzia con la propria testimonianza visiva l’avvistamento di una truppa di cosacchi presso i confini del baliaggio, accampati nella sua postazione da caccia. Il testimone dichiara che gli invasori in questione fossero travestiti da truppe ordinarie ma sostiene di aver avuto prova della loro provenienza in quanto bevitori di vodka. Haag, 24 Novembre Alle ore 9.00 il Barone Kilmt denunzia l’omicidio della moglie, compiuto da sè medesimo per motivi che lui considera essere “più che degni”: sostiene, il colpevole, che la consorte intrattenesse rapporti intimi con il nipote, il quale nega con forza il suo coinvolgimento nella vicenda. Il Land Commander sceglie di posticipare il verdetto a causa di una questione urgente. Confini del baliaggio di Maastricht, 25 Novembre Alle ore 12.30 sono stati rinvenuti presso un fienile appartenente alla famiglia Moenstein due malviventi, colpevoli di furto, omicidio del sopracitato. I due sono stati immediatamente fucilati ma il bottino rubato non è mai stato trovato. Haag, 28 Novembre Alle ore 9.00 il Barone Kilmt denunzia l’omicidio dei suoceri, compiuto da sè medesimo per motivi che lui sostiene “più che degni”: sostiene, il colpevole, che i suoceri fossero a conoscenza della relazione intrattenuta tra il giovane nipote e la figlia. Il Land Commander ha provveduto a giustiziare il Barone, facendolo fucilare nel suo ufficio. Liegi, 8 Dicembre Madmoiselle Emma Latzeniek, di provenienza polacca, “cameriera” presso la taverna “Luppolus” di Hoeselt comunica di aver conosciuto un disertore, decorato di croce teutonica, che si sarebbe vantato di aver ottenuto con la furbizia un oggetto di inestimabile valore. Desidera ricevere una ricompensa per la sua cattura. *** << Io non so se quello che ho fatto può esser considerato giusto o sbagliato. Non so se è il caso di disperarsi oppure dovrei stare in pace con me stesso. Ebbene si, io ho tradito i miei compagni. Dal primo all’ultimo fessi come mai lo sono stati. Sono sempre stato il primo. Il primo nella corsa, il primo ad arruolarsi, il primo ad uccidere un uomo, il primo a ridere di qualcuno, il primo a rispettare un ordine amaro e il primo a disertare. Io non ci posso fare niente se i miei compagni sono lenti: ho preso il sacco per primo e per primo ho deciso di lasciare gli altri a morire nell’inferno dell’Inverno ad Alden Biesen, a dare la caccia a fantasmi e gatti che nella notte diventano pantere.
Io non ho intenzione di morire in questo orrore, per questi nobili che se ne stanno a bere vino al caldo, davanti alla stube: io voglio essere qualcuno, voglio essere come Monsieur Claes, un uomo furbo, che sa quando è il caso di lasciare la fedeltà ai cani e giocare per conto proprio. E voglio anche essere come il Land Commander che è giovane e pieno di buone volontà, ma sa anche esser saggio e crudele come bisogna essere in questo mondo che non regala nulla e che prende solo. Quando ho visto quella sacca, appesa al mantello di quel ladruncolo di Maastricht che piangeva e tremava come una fanciulla, non ho fatto altro che premere un grilletto. Così ho afferrato solidamente la mia fortuna. Così sono diventato quello che vorrebbero diventare tutti quei cani invidiosi che vivono nello scantinato del castello. Sono un ribelle che combatte per una causa importantissima, la mia. Sono un soldato che appartiene ad un esercito, il mio. Sono un cavaliere che ama sè stesso. E Dio mi fulmini, se me ne vergogno! Quell’Hendriak, bastardo senza cuore, bavoso golia, ingordo figlio del degrado e della nebbia, schifoso discepolo del Demonio, marito della falce mortale, che ora si starà disperando per aver perso di nuovo l’opportunità di essere qualcun altro, non appena scoprirà della mia fuga si prometterà una vendetta che non potrà mai avere. Quanto godo al pensiero! E quanto godrò una volta salpato per il Nuovo Continente! Mi bastano sei giorni di discreto cammino verso Ovest e vedrò il mare, assieme alle stupende donne di Amsterdam e ai canali che dicon esser tanto belli che par di esser a Venezia. Io che Venezia non l’ho mai vista... Eccole, le ragazze, finalmente un po’ di svago... Ma...ma questo cosa significa? No, non potete! Aspettate Emma...aspettate! Io...io vi pagherò! Vi renderò tutte ricchissime! No...vi prego aspettate, voglio mostrarvi qualcosa! Voi non capite...io...in questa sacca...in questa sacca! Datemi un attimo, maledizione...ora io...>> *** C’è un lume nella stanza. Una falena che volteggia e danza. Sulla faccia dell’uomo che respira a fatica l’aria tira, scorre il fiume rosso del dolore e lentamente si ferma il cuore. Perché nessuno vive senza impulsi, nemmeno con quelli brevi e convulsi. Donne intorno ha sempre avuto, mai però mentre legato, si trova intrappolato in un posto sconosciuto. A rider sono loro mentre lui si dimena, di certo con soddisfazione e molta poca pena! Tengono in mano un sacchetto, penzolante e piccoletto: voglion sapere a chi appartiene e il valore che contiene. L’uomo, così sgarbato, le insulta arrabbiato e, di risposta, avendo afferrato un bastone sgangherato, un’altra tosta gli si scaglia contro senza sosta. A questo punto, stufo della ressa, egli si confessa, dando alle donne nella stanza una nuova speranza. Dice con vergogna, quasi fosse sulla gogna, che il sacchetto posseduto era di gran valore ritenuto.
Pazzo il prezzo sarebbe stato: chieder si poteva ogni cosa che si voleva. Al Castello un messaggio han mandato, al Comandante del baliaggio indirizzato. *** Castello. Studio. Scrivania. Finestra. Desiderio. Sacca. Domanda. Mistero. Contenuto. Lettera. Lettura. Ricatto. Sorpresa. Rabbia. Offesa. Dubbio. Scelta. Prezzo. Accordo. Denaro. Mancanza. Richiesta. Prestito. Porta. Corridoi. Quadri. Visi. Vergogna. Giardini. Passeggio. Incontro. Gentilezza. Monsieur Claes. Favore. Denaro. Umiliazione. Ritorno. Ordini. Arrivo. Cantine. Soldati. Tenente. Chiamata. Studio. Istruzioni. Hoeselt. Locanda. “Luppolus.” Partenza. Scelta. Volontari. Partenza. Cortile. Cancelli. Cinque. Fucili. Sera. Strada. Marcia. Strada. Marcia. Notte. Strada. Marcia. Villaggio. Leggende. Terrore. Rumori. Gatti. Corsa. Truppa. Fucili. Tremore. Fuga. Coraggio. Avanti. Freddo. Arrivo. Locanda. Caldo. Ristoro. Accordo. Scale. Mansarda. Prostitute. Coltelli. Minacce. Clima. Paura. Distrazione. Accordo. Discorso. Disonestà. Ingiustizia. Irruzione. Prigioniero. Gola. Rosso. Tappeto. Sedia. Denaro. Insufficienza. Sangue. Grida. Dolore. Sangue. Grilletti. Fuoco! Vittoria. Morte. Corpi. Tenente. Sguardo. Sconvolti. Perquisizione. Niente. Stanza. Vuoto. Bauli. Travi. Soffitto. Pavimento. Imbottitura. Cuscini. Divano. Poltrone. Cappelli. Profumi. Tenente. Emma. Cadavere. Reggiseno. Furtivo. Sacca. Sguardo. Tasca. Giubba. Acqua. Denaro. Saccheggio. Razzia. Distruzione. Soldati. Disperazione. Imposte. Chiuso. Birra. Liquore. Brindisi. Furto. Uomini. Rissa. Risata. Pianto. Lacrime. Notte. Incubi. Occhi. Stomaco. Dolore. Malinconia. Fallimento. Ricompensa. Vittoria. Ricompensa. Sacca. Tasca. Tradimento. Tenente. Ritorno. Mattino. Viaggio. Strada. Tongeren. Sosta. Mercato. Regalo. Premio. Soldati. Sera. Partenza. Pioggia. Bagnati. Distanza. Stanchezza. Fango. Arrivo. Castello. Cancelli. Cortile. Ingresso. Land Commander. Attesa. Ansia. Tenente. Chiamata. Superiore. Sacca. Baule. Guardia. Migliore. Rapporto. Scale. Porta. Corridoi. Porta. Nocche. Risposta. Maniglia. Dentro. *** - Con permesso, Land Commander...- Prego Hendriak, entra pure...allora raccontami esattamnte cosa avete trovato e come: desidero conoscere i dettagli. Avete con voi la sacca?-Vogliate scusarmi se mi presento da voi in queste condizioni, Barone.- Sciocchezze! Siete un soldato, i soldati si sporcano di fango e sangue.- Si, signore. Dunque, quando avete dato l’ordine di partire durante la notte, gli uomini non erano affatto contenti...e siccome si parlava di tre ore di marcia nel buio, molti di loro si rifiutarono. Così siamo partiti soltanto in cinque. Io e Wout e...- Andate al sodo, Hendriak...- Si, signor comandante. Il viaggio fu tranquillo fino a Tongeren, lì gli uomini tremavano come bambini...sapete cosa dicono di quel posto... Così, raggiunto il luogo dello scambio, una taverna chiamata “Luppolus”, piuttosto famosa nel feudo, trovammo Marteen legato ad una sedia in compagnia...beh...di alcune donnacce straniere.- Ed erano loro ad aver proposto lo scambio?-
- Si, ma non appena ci avvicinammo a lui per chiedere della sacca hanno sfoderato i pugnali, come dannate vipere minacciavano di volerci uccidere. Queste donne devono essere impazzite, Land Commander, quando procunciavano la parola denaro le loro orbite diventavano bianche come uova! - Continui Hendriak...- Sembrava che il disertore, primo soldato ad entrare nel fienile dei Moestein l’avesse rubata dalla scena dell’omicidio e fosse scappato da Alden Biesen durante la notte.- E quindi com’è andata a finire, tenente? Non tenermi sulle spine.- Quando domandai al soldato dove si trovava la sacca, Madmoiselle Emma Latzniek stessa, padrona del bordello, improvvisamente gli tagliò la gola, come minacciarci. Così iniziò una lotta, devo dire piuttosto impari.- Le avete uccise tutte?- Non abbiamo avuto alternative, Land Commander: anche se era un disertore, quel soldato era il migliore della compagnia e non si poteva andare in guerra senza che lui fosse davanti a tutti. I suoi compagni soffrirono nel vedergli la gola tagliata tanto quanto nel suo tradimento.- E la sacca?- Abbiamo perquisito ogni singola stanza del bordello ma non lo abbiamo trovato. Il corriere è stato punito per la sua incompetenza, se posso domandare?- Grazie Hendriak, la sua testimonianza è stata utile. Ora esca dal mio ufficio.*** 29 Novembre, Comincia a fare freddo ed è dura stare fermi in un posto, siano pure le caserme sotterranee del castello di Alden Biesen (che oltretutto non è più noto come lo era un tempo). Il Land Commander è stato gentile a concederci di passeggiare in questi splendidi giardini: sono così verdi e profumati, nonostante i canaletti che ci passano attorno non siano poi così limpidi. Dicono che la signora Dechappe ci passa le giornate tra queste aiuole: da qualche tempo ha dei pensieri per la testa, dicono che taccia sempre e sia un poco esaurita, a causa della morte di un marito, o di un amante, non ho ben capito. In ogni caso, la vediamo passeggiare mesta ogni mattina ed ogni pomeriggio come se non avesse nient’altro da fare. Beh ma in effetti, una nobildonna con quel bell’aspetto... Dicono che alcuni dei nostri siano stati invitati da lei medesima a passare la notte assieme, ma non ho mai sentito nessuno che parlasse in prima persona quindi dubito. L’idea di passare una notte tra le cosce di una bella donna, caro futuro me, (se dovesse mai accadere) mi alletta alquanto, ma credo sarò fedele alle promesse fatte a Margareth prima di partire per Alden Biesen. Che poi tutti questi dicono e dicono...e alla fine non è vero niente: come quel villaggio dei gatti. Ah, che sciocchezze! A Hoeselt quattro maledette puttane volevano derubarci! Ce la siamo vista brutta e Poel ci ha quasi rimesso un occhio, ma alla fine le abbiamo ammazzate tutte. Un po’ mi dispiace per Marteen, quello che è morto, me lo ricordo, era in gamba...ma era anche un disertore e un ladro quindi se l’è cercata. Hendriak, sorridente come non l’avevamo mai visto, ci ha premiato con delle uniformi rivestite di pelliccia e una pistola francese ciascuno (dicono che non s’inceppi mai!). Stasera devo fare la guardia a questo baule mentre il tenente è di sopra, dal Land Commander ma a me va bene: non appena torna lui, io posso andarmene a dormire! Chissà cosa contiene...magari dopo ci dò una sbirciata...
30 Novembre, Ho dimenticato come si fa a dormire. Penso soltanto a quella cosa, dentro quel sacco. Debbo assolutamente denunziare quel bastardo. Assolutamente... *** È il trenta novembre quando, in qualità di Land Commander, Franz Von Reischach comanda di perquisire gli alloggi del tenente Hendriak Van Hyat, dopo esser stato avvisato da un soldato di nome Wout Eisson*. L’accusa è di furto e alto tradimento. Nell’accampamento militare della guardia teutonica, un gruppo di mercenari ingaggiati da Madamè Dechappe, ricca nobildonna di Parigi, e successivamente integrati nell’Ordine, il Land Commander e i suoi uomini non trovano nè il tenente nè la refurtiva. Nei documenti dell’epoca si trovano riferimenti sia ad una sacca, sia ad un baule: non è chiaro quale dei due oggetti (o entrambi) sia quello in questione: le leggende narrate in quel periodo storico pre-bellico hanno spesso molteplici versioni (vedi “La città dei gatti”) e non definiscono mai una realtà esatta su cui potersi basare con certezza. Madame Dechappe dichiara di aver visto il tenente Hendriak Van Hyat allontanarsi dal castello durante la notte ma, allo stesso tempo, Monsieur Claes, che ha passeggiato a lungo nei giardini anche durante la notte, a causa della sua insonnia, nega di averlo visto. Gli interessi di quest’ultimo mirano alla decadenza dell’influenza dell’Ordine in quel baliaggio, in modo da poter comprare definitivamente il castello di Alden Biesen ad un prezzo inferiore. E’ quasi certo, pur senza testimonianze dirette, che Guillaume Claes abbia contribuito in modo più che attivo nel mantenimento di una certa inquietudine nel feudo, riavvivando le antiche leggende e le paure della gente del posto. Franz Von Reischach, dall’altra parte, giovane e brillante, cerca in modo disperato di mantenere ordine nel baliaggio e durante gli ultimi due decenni del diciottesimo secolo ordina ed esegue ben quarantadue esecuzioni pubbliche. Una di esse riguarda per l’appunto il tenente Hendriak Van Hyat: dopo sei giorni di ricerche, il Land Commander manda la sua guardia a perquisire l’intero castello di Alden Biesen, insospettito dagli atteggiamenti di Guillaume Claes: l’atto sconvolge metà degli ospiti del castello ma Hendriak viene trovato. Il tenente viene però trovato nell’armadio di Madame Dechappe e non, come Von Reischach pensava, negli appartamenti di Claes. La signora confessa di aver avuto una relazione col tenente e di averlo nascosto nel proprio armadio ma di esser stata sempre inconsapevole del valore che aveva rubato. Il tenente Van Hyat, con chiari segni di pazzia, viene portato nelle celle sotterranee in attesa di un processo pubblico e Madame Dechappe viene scortata al confine francese, esiliata per sempre dal baliaggio e dall’intero Impero. Nel dicembre del 1784, con i contadini rivoltosi alle porte dei suoi alloggi, la Dechappe si toglie la vita. * Fonti ricavate dal diario dello stesso. *** “ Il compito di un Land Commander non è affatto semplice come tutti voi pensate: non è solo vino, nobildonne, penne, carta ed inchiostro, non è soltanto caccia e passeggiate nei giardini, non è soltanto qualche ordine e qualche scelta. Io sono qui di fronte a voi come un re, con questo infinito mantello e tutti questi distintivi luccicanti, ma in realtà non sono altro che un suddito! Un suddito di un Impero enorme che non ha tempo di badare ad un baliaggio minuscolo come il nostro, dove la gente non fa altro che rubare e raccontarmi storie assurde su...su città dominate dai gatti durante la notte o su magiche sacche che contengono cose importanti. Tutto questo baliaggio è contagiato da un’inquietudine che non gli appartiene! Tutta quest’ombra non viene da Sud o da Est o da Nord: è chiaro che quello che state subendo ora è l’influenza di un morbo orribile che si chiama Francia! E solo perché sta morendo, soffocata dalla sua stessa mole, non vuol dire che anche noi dobbiamo farci trascinare nell’oblio! Anarchia! Ribellione! Caos! E’ quello che desiderate per i vostri villaggi? E’ ciò che volete diventi questo baliaggio? Un covo di viscidi ladri tagliagole? La periferia di un Impero splendente come il nostro? Come rappresentante dell’Ordine mi chiedo quanti di voi dovrò uccidere per salvarvi da questo rischio: quante teste dovranno saltare? Quante volte il boia dovrà lucidare la lama di quella ghigliottina? Quanto tempo serve per farvi capire a che popolo appartenete? Rimarrete per sempre così,
popolo di Bilzen? A metà tra due nazioni? Oppure vi schiererete sul fronte assieme a noi, quando sarà il momento? Volete ottenere l’indipendenza, come i coloni con gli inglesi nelle Americhe? Bene! Ottimo! Prima però dovete scegliere chi avere come amico: se vi schierate con la Francia, noi vi invadiamo. Se vi schierate con noi e poi vi ribellate al nostro dominio, i francesi vi pugnaleranno alle spalle! Mr. Klausser, schneidet den kopf Lieutenant Hendriak! Mi hanno detto che in questo sacco c’è qualcosa che devo vedere ad ogni costo, che se ci guarderò dentro nessuno oserà mai più contrastare il mio potere. Ma io non ho bisogno di qualcosa del genere, io governerò per l’Ordine fino al mio ultimo respiro e giuro che chiunque si metterà in mezzo tra me e voi farà la fine del tenente Hendriak. Debbo le mie scuse a Monsieur Claes, ho dubitato di lui ingiustamente, nonostante la sua fedeltà ormai convalidata dal tempo, ed è stato proprio lui ad esortarmi a fare questo discorso, a prendere la posizione che finora non ho prima, intenerito dalla vostra povertà. La testa di Hendriak verrà esposta sulla strada per Alden Biesen per ribadire a voi scellerati questo concetto: d’ora in poi, chi non rispetterà le leggi imperiali morirà! “
E ora, che questa sacca bruci assieme alla vostra curiosità!
Embers
By Mattia Colombo Dear reader, Let me tell you a story occurred a long time ago, but not less real; a story that man has turned into legend. Life is very good at confusing its tracks, but the lives of men are entangled in the net cast by time. Occasionally, someone trips on those nets, unleashing memories. Legends keep warm, as a bed does with exhausted limbs, and their task is to narrate the events of immortal men to those of mortals. The story that I will narrate, dear reader, is that of men forced to live under a foreign sun in exchange of freedom. It is a story about the courage of Ceyden, Bayar and Nazif, three Janissaries captured by the Hungarians during the siege of Belgrade in 1456. Dragged into the Hunyad Castle, in the remote Transylvanian region, the three unfortunate men were promised freedom if they could get water from stone. Dear reader, let me introduce myself: my name is Legend. This is their story. Autumn laid down on the surrounding hills, spraying copper on the trees and giving grass the look of a parched landscape painting. A distant, solitary roar reached the castle as a shot fired by a pirate ship. The falcon, with superb plumage, leaped from a rock, and hurled like a dart from a bow through the cold air. The large, dark eyes caught the scene that was taking place in a small courtyard of the castle perched on the rocky cliffs. Three prisoners, dressed in rags, were rhythmically beating with clubs the gravel ground of the small courtyard like a strip of water between two vast lands. The Falcon’s shrewd look laid down on the prisoner that was shattering the stone with more ferocity. He had a powerful, slender body and his hair, like the bird’s plumage, fell on his broad shoulders. The marked features, wrinkles across his forehead like the ruts left by carts in the wheat fields, said that this was not a man who liked to be made fun of. Two signs at the corners of his mouth formed in the flesh on the rare occasions in which he spoke, giving him an aura of sardonic coldness. In his eyes, the resolution was struggling in muddy sadness. The middle and ring fingers on his left hand were angrily cut off by his father who did not want the Ottomans to take him away from his family and enlist him in the Janissaries corps. His father, a proud farmer with a broken back from years of working in the fields, had never shed tears in his life. But the Ottomans grabbed that child who was screaming and bleeding and put him on the cart that would have kept him away from his family forever. His father ran toward the soldiers with a pitchfork and not taking more than twenty steps, he fell to the ground with three arrows in his chest. The last gasp of life was what drove the Turkish cart far away. The prisoner stroke the stone with unbearable strength, and his two companions, occasionally stopped to catch breath asking each other how he had all that energy. The food was appalling, the bed was a handful of hay covered with rags that smelled of excrements, and the cell was a niche in the bare stone, hardly large enough to hold a man. “Ceyden, Akhi, slow down, or your heart will stop.” “Leave him alone, Bayar”. The falcon, curious, lied on top of a tower with elegance as if it were dancing. It was freedom that inoculated to Ceyden the lymph that his companions admired and they were frightened. He never stopped thinking of freedom and this thought was always on his mind even when his body was only regenerated by a few hours of sleep; it was the promise of freedom that challenged him not to lie down and never get up again. When the autumn sun tinged the dewy hills of pale gold, seeping through the barred
window of his cell, Ceyden woke up. His body, which was bruised and full of blisters from the day before, seemed like that of a snake that gets rid of the integument for the first time for a new, and strong armor. What remained unchanged was his look, the look of hatred with atrocious shadows. He would have dug and make the stone cry; life was worth nothing and it was uncertain. What is certain is that he would tear the heart of all these unfaithful bastards, whether they were men, women, children or elderly. And so he could see if their God was so merciful and powerful to stop his arm from holding the sword. Ceyden lived in a tomb for years; but he was not dead. The falcon started flying and disappeared in the fog. The lizard crawled between the binder threads that kept the stones of the castle together, in search of a ray of sunlight in order to keep warm. Its stomach was full of insects and moved its neck right, left and to the center. The lizard froze when a shadow passed by, but then moved to find shelter in a tiny crack. Nazif sat down, leaning his back against the east wall of the courtyard. He also had a full stomach, if it could be defined such even without appetite. He looked at the cloudy sky, and glimpsed at the oaks that outlined the hill which seemed nothing more than cobwebs. His eyesight was getting worse quickly. The lizard leaned shyly from the fissure, and being so near to one of those giant creatures that often wandered among rocks scared her. Nazif was the tiniest and oldest of the three captives; his mind strengthened by faith had known many winters and many of those winter snowflakes had remained entangled in his thick hair, without being able to escape. He had drooping shoulders, thick knees like stones in a river; his fascinating eyes that once were astonishingly attractive were blunted like those of a frog; the thin-lipped mouth was just a cut in the frizzy beard, and the sharp and filed teeth like those of a pitchfork were difficult to see. “It’s so damned hot” said Bayar, falling down next to his mate. Nazif nodded. Bayar smelt the pungent odor coming from their bodies; the smell of sweat, toil and sufferings, which he just could not get used to. “Do you think these giaour will ever allow us to take a bath?” “Don’t let any strange ideas come into your head”. The noise of metal against the stone magnetized their eyes. “That devil never gives up.” “And us?” “He will not be alive by the next full moon.” “How long have we been prisoners?” Nazif said. “And how would I know?” “In the evening, don’t you carve a sign in the wall of your cell with a stone marking another day that has passed by?” “And how do you know?” “Allah the Merciful has given me poor eyesight, but good hearing. I hear the rubbing of the stone “. Bayar looking at his companion said: “Nearly eight months.” “Eight months ... It’s eight months that Ceyden digs restlessly, with the vitality of a lion, and eight months that you say that at this rate he will not see the next new moon.” “He does not give up.” “And have you given up?” “Of course not. I believe in Allah, the Compassionate. This is a test, Akhi. “ “What test?” “Wisdom can only be achieved through suffering.” “And you think that the prisoner who was digging furiously “is not suffering?”.
“I do not know this. Ceyden’s tongue is like a parchment kept in a monastery, it hardly ever unrolls. He could have a bright mind, but what sense can an exalted conscious have, a virtuous soul, if it is trapped in a body that does not allow that greatness to emerge? What sense can the existence of someone who is isolated in himself give to life? “. “Hatred disperses in the air positive feelings; the happy memories, those of a carefree childhood, where each color was more flamboyant and each emotion was more genuine. Hatred disperses all this and your soul holds a handful of cold ashes. “There is no hatred in the love of Allah, in the path that he has traced for us. “Only tests”. Then he looked at the church across the courtyard, with its cross pointing to the sky. Nazif looked at his companion sadly with tears coming from his eyes. That guy was like a tireless lover, joyous as a lark, eloquent as a storm. Even his spear made a sound similar to that of a hundred laughs when he banged it on the stone. “I envy you, Bayar; I envy your candor.” Bayar laid a hand on his shoulder; “You do not have to envy anything, Akhi, you just have to have faith.” That night, in his miserable cell, Nazif stared at the moon, a drop of milk on the dark floor of the sky. A big spider like the palm of a hand fell from its web over the edge of the window, first silhouetted against the moon and then blended in like wine in the darkness of the night. Nazif was tormented by a problem that he could not tell anyone, not even himself. He had given up freedom nor brutally attacked it like Ceyden. He had simply given it up. Perhaps wasn’t this the reason for imprisonment? The annihilation of man? How many prisoners had he seen be mistreated and despised when he was in the Janissaries? On an endless night, he meditated about his past being so short; a more or less uneducated man who, in the first nights of captivity, tried to revive the splendor of past eras and the courage of incorruptible heroes in order to chase away despair. But his sterile mind regarding dreams had unfortunately failed, and his thoughts had begun to dwell on the idea of suicide. Eternal damnation to whoever thinks of doing so! With the passing of days always the same and the nights always cold, he realized that, after all, his life had not changed. Nazif had voluntarily enlisted in the Janissaries, breaking his loving mother’s heart, who had already seen another child be taken away. Nazif had never been an outgoing, happy child; he played in solitude- because no one had ever invited him - games that his boiling mind populated with phantasmagorical characters, damsels in danger and evil dragons. Growing up, his elusive diversity appeared more evident; he worked in the fields, earning just enough to support himself and his family. But then something happened, an intuitive contact with a gentle creature had caused a sharp and subtle pain somewhere near his heart. She was beautiful, hair like golden wheat, lips like wild strawberries, beautiful like the verses of a poem never read or a prayer never recited. Nazif loved her from the first moment and for the following two years. He never talked to her, at least not with his mouth. When he saw her, his fantasy of a teenager, galloped like a colt running across a prairie. One day, when the sun was set like a ruby in the middle of the semi-circle of heaven, he approached her and, without looking at her, entrusted his love. She said nothing and walked away. Sometime after, Nazif saw her exchanging kisses with a boy in the shade of a shelter for animals. He ran away from home, and as he was running, his throat burning, his eyes filled with fire, earnestly begged the forgiveness of his mother. The Ottomans gave him a house, faith, chastity and a new life: in exchange, they only demanded his allegiance to the Sultan, the father of all of them. The rattle of the cell door reminded him of his state; he sat up on his pallet, staring at the darkness thinned by Tibor’s twisted smile; his limping figure came in, at the usual time, bringing the bowl with the meal. He knelt down, placing it at the feet of the prisoner. “Shukran”. “La shukra ala wagib”. Nazif smiled: the boy was awake. He threw a glance overpassing Tibor’s hump, to meet the contours that bordered the contemptuous light of the moon, and a look of disgust spoiled his features. Lajos entered the cell, railing against Tibor, saying with his sepulchral voice: “Hurry up, monster, I do not have all night.” Tibor made a small gesture to Nazif, got up and walked to the exit. Lajos hit him in the back, knocking him into the hall, then stared at the prisoner,
said something in his guttural language and spat at him; then he locked the cell door. The mouse with the grey fur stiffened on its back, the long tail ringed straight as the blade of a dagger squeaked, flattening against the wall. The scene reflected in his round, black eyes. Tibor stood up groping, rapidly putting the spilled content back into the bowls. Lajos, leaning against the wall, watched him repelled. That monster was scary to look at, with that deformed hump, like a hill rising up crookedly, his head sunk between his shoulders and stocky legs, one shorter than another, that when he walked he seemed an anchored ship pitifully at the mercy of the waves; the disfigured face was hard to see, because his monstrous anomaly forced him to keep his head half reclining on his chest, but unfortunately, Lajos, had seen that horrifying face over and over again, the result of God’s error, or proof of his merciless cruelty: sunken cheeks having the same color as of rotting corpses, teeth like chipped stones, the few wisps of hair that fell like the slender branches of a weeping willow in front of those squinty eyes, one swollen and the other half closed. “Get moving, walking death.” Tibor started walking, flanked by the mouse, which ran along the gap between the wall and the stone floor. When he got to the second cell, Tibor was pushed away, and the jailer took the rusty key that he needed. When the door opened, Tibor entered into the cell. The prisoner, the young one with a dreamy gaze, was engaged in that strange habit of engraving in the wall a line whenever the sun would lie beyond the horizon. Less than half of the wall was scratched with vertical cuts, thin and rather regular, quite close to each other. What a strange man! Maybe it was a custom of his homeland. Tibor was putting the bowl on the ground and Bayar reached out to take it. Tibor watched him staring at the usual, dreary dinner and when he raised his eyes, he seemed almost happy. He was really a strange man! In the hallway full of spider webs, Tibor heard the young prisoner talking to himself. It was not the first time this had happened; Tibor also used to quibble aloud to himself: perhaps he also did it to enjoy the company of his own voice? He reflected on the unfortunate fate of the prisoners. He barely knew their names and he could produce only a few sounds in their own language. He felt no pity for them, because if he did, this would mean to nurture it for himself. Even they, like him, were ridiculed, treated as stray dogs, unwanted guests. Tibor, now long forgotten, worked as a custodian of those cells, for so long that his limbs had shattered, crumpling and stretching in opposite directions, like frayed banners in the wind. He was also a prisoner of that castle, but it was the only job he could get; in the shadow of the towers that pointed skyward, he was wandering in the moldy dungeons, where the humidity made his bones creak, his nostrils shut, and carried out the tasks he was assigned. That soul disowned by his parents, had heard that the prisoners had been promised freedom in change of water; well, he hoped they could to make the stone “cry”, so as to regain peace. The third cell was darker than the others, because it was on the side of the castle which was exposed on the ridge and not illuminated by the moon. Tibor came in cautiously, and saw the prisoner lying on his bed, his fingers clasped behind his head, eyes closed, and breathing heavily. He did not feel the feral look on him, put the food bowl down and walked away as fast as he could. He turned around on the doorway, and saw Lajos who was provoking the prisoner with the heel of his boot. The custodian hoped that the giant would leap like a catapult, breaking the bastard’s backbone, letting out the same sound of forged swords with poor alloy when they encounter pure blades. But the prisoner did not move. Lajos retraced his steps, and Tibor, turning around for the last time, intercepted the prisoner’s burning gaze. “Have you fulfilled your duties, freak?” He asked when they were back in the corridor. “Yes, sir”. To be face to face with the creature that always smelled of wine made Tibor feel uncomfortable. “Are you sure?” “Sure, sir.” “You know,” he said, with an evil shadow in his eyes, “I wish you would lie to me. . . My staff would surely know
how to reward your sin. “ Tibor said nothing. “Look me in the eyes when I talk to you, monster!” From that distance, Tibor could not carry out the order, because his deformity impeded him; it was like a metal plate that was keeping his head lowered. But he did it anyhow, and his moan of pain as he raised his head, arching his crippled back as far as possible, leaning sideways on his legs, delighted Lajos, who burst into laughter, clapping a hairy hand on his chest. The ticking of the coins made him say: “I know that you go to that sordid brothel. I heard that you like that redheaded prostitute. “ Tibor swallowed. “I tried the slut and shoved it in her ass, enjoying her desperate cries. Every so often cows need to be mounted by the bull “. Lajos went away, laughing. Tibor stood still, bowing in the shadow. The copper-breasted vulture was flying in the snowy sky with eyes white as the snowflakes that were running in circles, whitening the hills and redesigning the shape of the castle. Ice spikes extended from hoardings and the Tower of Capistrano soared lonely on a boundless background, where the horizon sealed heaven and earth. A thick fog was rising, sliding on the spurs, blanketing the rocky plateau on which the Hunyad Castle stands like the huge hand of a misty giant holding firmly the whole fortress like a cup. The vulture fluttered in the sky of the fourth winter of imprisonment of the three janissaries. With numb limbs, even with inclement weather that day, the three were digging, slower than usual and the tips of the pikes were rejected by the frozen rocks. The hole was gradually expanding over time, as an eye wide open in the darkness, and its regular outline testified the technique with which the three were digging. They used a metal cylinder inserted into the cavity and they were forcefully hammering the inside, so that the excavation could develop in depth maintaining a sketched outline. Bayar stopped, putting his bluish hands to his mouth “I cannot feel my fingers.” “Put your hands under your armpits, they will get warmer” Nazif suggested. Following the advice, Bayar looked at the guards, asking them for the umpteenth time stuttering in Hungarian, if it were possible to light fires. They stood still, as they were sheltered from the snow, mocking the request. The wine warmed their limbs, the cloaks made of wolves’ fur were wrapped tightly around their bodies. “Animals”. “What did you expect?” Nazif asked. “They could at least give us a cloak. We wear the same rags in winter and summer. “ “Do we give cloaks to our prisoners to keep warm?” “I’ll kill them all. I’ll raze this damn country down and then I’ll scatter salt, so that nothing else could ever grow in this unholy land. “ Bayar looked at the sky with his arms rubbing his chest. “Thoughts will not keep you warm.” Ceyden pinched his vocal chords for the first time, that day, and out came a bronchitic sound. “Your voice is out of training, Akhi” Bayar said with a half-smile. “My voice does not soar beyond these walls.” “Yes, it is time to plead Allah.” Ceyden stopped digging for a moment, with his face covered by a hood made of torn rags. Nazif thought that he had made that hood to hide his face from that hateful land. “Allah?” “Allah, the Merciful.”
“Tell me, is it from His mercy that all this snow originates? Is it perhaps due to his Mercy that our bodies lie prisoners for years? Is it perhaps at the behest of his Mercy that freedom is foreclosed to us, his servants, in favor of our unfaithful enemies? Is it at the behest of his mercy that we are slaves? “. “Slaves in the body, free in the heart. The body, Akhi, is only the cocoon of our soul. You desperately pursue freedom with your limbs, longing to lean outward. Accept what is inside, just so you’ll be free. “ “Your dehydrated mind does nothing but find a vulgar explanation for our situation.” “Allah has decided the fate of all men. Heaven is gained by accepting his fate. “ “Then stop digging. Sit in your filthy hole and meet the conditions under these ignoble giaour. I will accept the destiny traced by Allah, but my knees will not touch the ground. “ Bayar shook his head. “Let’s not fight among ourselves” recommends Nazif “Our company is all we have.” “We have nothing, old man “said Ceyden, “Nothing.” “Except hope. Otherwise, why dig? “said Bayar. “Because there is nothing worse than waiting; waiting for what we want to be; and I want to be free just like you. If not, we’d all jumped over the walls, crashing against the rocks. “ “Suicide ...” began Bayar. “Don’t say it. Suicide is a sin, but nothing that puts an end to torment is sinful. “ Bayar seemed to meditate on those words in the gloom of that land so disliked by the sun. “Ours are ...” he continued after a while “are exceptional lives.” “Promise me then that you wouldn’t change your condition with that of the most wretched among free men.” Ceyden began to dig with even more enthusiasm; the swirling snowflakes in the wind, cutting their faces like small arrows of fire, squinting their purple eyelids. Ceyden said, panting: “There is no necessity without desire.” Bayar stared at the sky with tears in his eyes and cracked lips perhaps because of the cold. Nazir sighed, looking at the hills among the swirls of mist. Something was oppressing his breathing. “I bet a florin on the old man.” “Too easy”. “What do you want?” “I’d say the bigger one”. “Are you crazy? He is an animal, look at how he is digging, hell “. The three guards stood huddled in their cloaks; the wall of the castle sheltered them from the gusts of wind. They watched the prisoners working. “No, the first to die is the old man”. “A florin?” “Already”. “All right, I bet one and a half on the bigger one”. “Are you kidding?” “I never joke when it comes to wine and money.” His companion laughed, “Well, a few more times to the brothel for me.” “One and a half, then. I say the kid ... He’s the only one left”. After betting their money, Tibor arrived, bringing on a kind of wooden board the meals for the three watchmen: mushroom soup and bread. “It’s about time, hunchback, I’m starving.”
“Where the hell have you been?” One of them said, grabbing the board out of his hand. Brownish, hot, thick contents dripped along the sides of the pot-bellied bowls. “Look at what you’ve done, you idiot.” Two of them began to eat, and when Tibor was about to leave, the other guard grabbed him and ordered to bring more wine. “Quick, little monster,” he said with a querulous tone. “Get it yourself, Lajos”. The four turned around and found themselves in front of Ferenc, the captain of the fortress, with his fingers stuck in his belt revealing his wearying calmness; a grim face, Herculean limbs and a gentle soul. “It is the hunchback’s duty.” “What is the hunchback’s duty?” Lajos bit his tongue: “It is the hunchback’s duty, Captain.” “Wrong. It is the duty of those who have a parched throat. “ Lajos stood up, and Tibor stepped aside quickly, coming out from under the overhanging shelter and eventually finding himself at the mercy of the snow; Lajos and Ferenc stared at each other. The watchman noticed Lajos’ hand moving under the cloak, grasping the hilt of the sword. Had Ferenc noticed? He wondered frightened. The captain was robust and strong, but the brutal perfidy of his subordinate was what made him be feared and respected. Lajos’ face was purple, he could see the throbbing blood in the flesh, scorched by the lack of ostentatious deference by the captain. “You’d better”, pronounced Ferenc, “hope that the blade in the sheath is not frozen, otherwise your wretched blood gushing from your throat will drip to the snow”. Tibor held his breath, fearing for the life of the captain. A part of him urged him to stand between the two contenders before the situation would degenerate. But he was a hunchback, an anomaly, not even a man, without courage, without honour; what could someone like him do? Lajos, suddenly laughed, grabbing the carafe of wine emptying in his glass what was left and offered it to Ferenc. “Captain, I do not think it is appropriate to kill each other for so little! Let’s drink and maintain our honour”. Ferenc grabbed the glass, only after scrutinizing Lajos for a few moments. He looked at the warm and invigorating crimson liquid inside, which the changing colours of the snow made it even more alluring. He reached out to Tibor, who at first did not understand. “Please, Tibor, drink the wine. It will warm your veins”. Lajos’ eyes were wide open, like the gates of a castle on a day of celebration, a hard back and his legs spread apart. The hot glare of his eyes pushed away the blinding colors of the snow, which ended up taking refuge on Ferenc’s face, framed by the silver reflections of the cloak made with wolves’ fur. The vulture landed nearby, confused in the blinding white, without a sound. The sound of the prisoners’ spades - spirits tormenting in the ice - was muffled by the white snow that grew thicker moment by moment and slowly disappearing. “Please, Tibor, drink to our health.” Tibor got closer shyly and grabbed the glass, encouraged by the captain’s persuasive gaze. He brought the glass to his lips, sniffing the wine a little, and drinking it all at once. “Thank you sir”. “It’s nothing”. “I would go back to my job, if you allow me.” “Of course, Tibor”. The watchman went away, carefully avoiding looking at Lajos. Soon after, he heard the echo of footsteps following him, but the fact that the sound from boot heels was not heavy and intimidating like that of Lajos quieted his heartbeat, smitten by the scene that had taken place earlier. That bastard would take revenge, he was sure, but witness his
humiliation was an advance payment for what he had done to him. “Tibor!” The watchman gasped, more out of habit than fear and when he turned around, he saw that Ferenc was walking towards him. “Captain, thank you again for the wine.” “Tibor, you know you have to tell me when Lajos torments you.” “Should I spoil your day and night to obey your order, sir?” “It is my duty to make sure that justice is respected in this castle, Tibor, and the fact that you do have scruples makes it more difficult to do my job, you know?” “I’m sorry, sir, if you do not ...” Ferenc put a hand on his shoulder; it was such a long time since he felt the warmth of a person. To feel it, he had to pay prostitutes. But that gesture was natural. “You’re a good boy, Tibor, do not let their derision become cause for shame. Men like you have not come to the world to be defeated; they were created by God to remind us of the humility we have lost. Do not forget”. “Then I wish God had granted this privilege to someone else, sir.” Ferenc smiled “But he has given it to you, and you cannot help it. Lajos will always torture you, and letting his words penetrate in here, “he asserted, putting his index finger on his heart “is like going to battle with faulty armor. “ “Yes, Captain.” “We all have suffered and are suffering tribulations.” “Yes, Captain.” “Some more than others,” he sighed. Tibor bowed his head, his chin resting on his chest. “Remember, my boy, Lajos’ armor will be less resistant than yours.” Tibor looked at him with shiny eyes. “And tell me, the next time they become dry; understand?” The snow stopped falling, and the owl resting on the stone ledge peered into the cell. Nazif was shaking; the straw quilt wrapped around his body in a cold perspiration. Rivulets were dripping from his temples, freezing while they reached his chin. He was shivering, painfully straining his muscles which, in an attempt to keep warm, writhed under the skin like dying snakes. The temperature went up beyond measure. In front of him, in the darkness slightly dissipated by the intertwining moonlight, he saw his fellow Janissaries, men who had tamed death, sunken by the ice and burnt from the heat, dark bristly cheeks wet with tears; he saw the girl for whom he had abandoned his land, desperately holding out her hand, begging him to forgive her, to join her for eternity; he saw his beloved mother as he saw her when he was a child, when at summer sunset he returned home from playing while she was waiting patiently sitting on the edge of the small fountain, weaving the threads to make a blanket that would custody his dreams in the freezing winter; he saw her as beautiful as ever with her hair in the warm breeze and the scent of lily; he heard her begging him to return to her, to bring home her baby. He obeyed, “as you want, Mom,” and stood up, but his legs betrayed him and the black fog swallowed him. He felt in his hands the rough tips of the ears of corn, the taste of the olives that crumbled in his mouth, the sun’s rays on his face, the lulling sound of birds and a vast wildflower meadow in front of him; and the horizon that went to bed for the night, this time, forever. At dawn, Tibor told Lajos that the old prisoner had died. Three years later, the mangy dog that roamed around the castle went to curl up not far from the well that the two prisoners were digging day after
day. By now the water should have been near, thought Ceyden, his mind always more indulging freedom. Thoughts of hatred, death and blood toward the enemies had not disappeared, but had ratified, crumpled by the work that was reaching his goal, the freedom and the life that was mending before him. Bayar became the specter of himself. His prayers had fallen in nothingness; his body was emaciated with his bony knees and pointed face; the pike was glued to his hand not by his will, but out of habit; his back flexed and stretched from digging not by desire, but by inertia dictated from the loss of mind. His calendar was not updated for years. Allah, his God, his Father, his guide had abandoned him. He had no one with whom to share the burden of captivity. Some years ago, when the hunchback watchman said that Nazif was dead, he immediately realized that he could never get out of those damn walls. The water did not exist, had never existed, was a mirage, a disrupted pattern of madness, hope, loss, pain, unhappiness; the smell of a juicy piece of raw meat waved constantly before him by the Hungarians. They were playing with his mind, as if his thoughts were like dice in their unfaithful filthy hands, dice that were thrown at every whim, becoming different numbers, changing perspectives. But the pieces are positioned on the same boxes, cowardly lies. The well was quite deep, and the two were forced to work through it, protected from sunlight and clouds that were welded in the blue sky. The ardor with which Ceyden dug made him feel rage, and that day he could not swallow the words. “Stop, you bastard!” Ceyden stopped, the pike high above his head. “Stop it, don’t you understand that it is all useless?” Tears streamed down his cheeks “Don’t you understand that we are dead?” Ceyden looked at him: his companion’s phrases were becoming rare, while the words, that many years before were jostling among each other, now came out sluggish from a toothless, dry mouth; his eyes were vacant, watery, like those of a perpetually drunken man, with reddish veins intertwined to form a bloody diadem drowning in the sclera. He began to beat, and after a few thundering strikes, Bayar threw his pick, which stuck into the rock with a metallic clang. The guards, almost asleep on their stools at the usual place, were aroused and with their mouth still drooling got up, drawing their sword. “Calm down,” said Ceyden. Bayar climbed laboriously, panting like a wolf, right to the top of the well; he did not care of the guards’ questions who were rather distant from him, under the walls of the castle and crouched on the ground, like a child who huddled under the bed to escape the paternal punishment. He muttered to himself with his hands pressed on his ears. Ceyden came out of the hole, went up to him, “Get up, come on.” “We’re dead, we’re dead, they will never let us go, the will never allow ...” “When the stone distils water, freedom will be ours”. “The water does not exist, the water does not exist.” Ceyden put his hands under his armpits, and lifted him up; he took his face and looked at him straight in the eye. “Freedom,” he whispered. Bayar looked at the church, to their right, then looked at his companion, desperate with eyes overflowing tears “We have never been free, Akhi, from the first day spent in the Janissaries. Freedom could have been; but actually slavery was. “ “Do not stop fighting, Akhi, and I promise you that one day we will be free. Free. “ “You fight with so much tenacity, Ceyden, just because you feel the approach of the end ...” Ceyden saw his eyes shining for a brief moment, as if the rocks that generate the fire of life tried to rub together for the last time. “Farewell, Akhi, may you find the freedom you are looking for.” Then he added, “Inshallah”. He broke free from Ceyden’s grasp, ran to the parapet of the rock that looked down into the ravine, and leaped. The guards immediately gave the alarm, running towards the balustrade. A commotion broke out, while the dog, frightened, disappeared. Ceyden sank into the hole.
At first it was just a drop that the heat had evaporated in an instant. Then came a second, not thicker than a fingernail, moistening the stone, and Ceyden’s eyes froze on that. Another drop was driven out by something very powerful, something that longed to come out from the subsoil of darkness into the world, to bring joy, nourishment, life, freedom! When the small fountain gushed and clear water came out to wet Ceyden’s feet, he knelt, and gathered a little with his hands. A sunbeam penetrated into the dark hole, igniting the liquid that he held in his hands. Its radiance injured his eyes, which immediately healed, medicated by the saving power of pure, immaculate water. Water just as pure as that imprisoned in an impregnable spring for so much time, came from Ceyden’s eyes, tracing two white furrows on dust-darkened cheeks. “W ... water.” Tibor was approaching the hole, limping, carrying the bowl with food. When, leaning over, he saw the giant bowing, shoulders jerking, he thought he wasn’t feeling well. But when the giant looked at him, laughing huskily, loudly, wildly, happily, and Tibor’s eyes looked at the water, the bowl fell from his hand, rolling on the board and then ending up in the well with a resounding thud. “He found water! He found water! He found water! “. The guards, who were eating, just raised their heads. “What’s wrong with the hunchback?” “I do not know …” “He found water! He found water! He found water! “. “What the hell …” The three stood up and headed toward the hole, while Tibor ran slowly, shaken by inner turmoil, to warn Ferenc, the good captain! When the two returned, they saw that Ceyden had re-emerged from the hole, and still kneeling looked at his wet hands. “What’s going on here?” The captain asked. “Sir,” a guard answered, “The prisoner ... has found water.” Ferenc frowned, grabbed the rope and slid into the hole. Tibor was jubilant. Ceyden mute, sobbing. Ferenc reappeared, barely holding back a smile. “Well,” he announced flatly, “It seems that the prisoner was able to find water. After ... after so long. “ Lajos ‘mouth was posed in supreme contempt. Ceyden barely breathing, did not understand anything. “Tibor, please report to the commander what happened, and tell him to join us immediately, if possible.” Tibor darted away, tripping over his own, short steps. He had never run so. The captain ordered a couple of men to lift the prisoner, and give him water to cleanse his face disfigured by dizziness. When the commander appeared, there was complete silence in the courtyard. The rustle of the trees tamed; the cattle bellowing in the distance seemed to be slaughtered without a sigh; the flapping of bird wings became silent; what was heard was only the sound of armors which were lifted and lowered on the chests with each breath. “What is happening?” The commander asked. “Sir, the prisoner has found water.” “This is what I was told. How is it possible?” Ferenc invited him with an eloquent gesture of his hand. As the commander was turning around, he had ruffled features of what might be disbelief. “Very well …” Tibor was beaming. Ceyden was breathlessly staring at the church. “Captain, order the men to hold tight the prisoner.”
Ferenc did not hide being surprised. “Sir?” “You heard me, Captain: order the men to hold tight the prisoner.” The Captain nodded his head, and Lajos and another soldier grasped Ceyden’s arms, one on each side. The commander of the castle, a short, old cultured man, spoke perfect Arabic “Turkish, your effort is worthy of admiration.” The expression of bitter suspicion had taken possession of Ceyden. “You have survived all your mates. And now, after ... “the captain lowered his head” After fifteen years you managed to keep your promise. You dug the water from the stone “. “So it is”. The commander stared into his burning eyes, “You have water, but you do not have a soul. You’ll spend the rest of your days locked up in this castle. “ Ceyden’s body was still warm when Tibor walked in. He knelt beside the corpse leaning with his back against the wall, under the small window. He removed his hair from his face, he dipped the cloth into the bowl filled with clear spring water, he squeezed it and passed it on his forehead, eyelids, skinned nose, pale cheeks and bloodless lips. He cleansed what once were his hands, now cracked blood stumps like fields in times of drought. He combed his hair back with his hands, moistening it so that it would stay in place. He looked at the writing on the wall of the cell, next to him. The few vermilion words that he had been taught were not enough to give meaning to those trembling letters. He looked at that face for the last time, then went out to call the guards. He had been deceived. Ceyden was abandoned on the heap of straw and rags. He felt drowning in his own chest; was struggling to breathe, the walls were traps that surrounded him always more. He had survived for fifteen years as a slave, moved within by a goal, by a promise, hope. And now that hope had broken no ... No! They had crumbled his hope. He rose abruptly and hit the wall with all the hatred inside him; he struck it as if his hands were made of steel, as if he did not feel pain because he was numb, dead. He would kill those filthy swine Hungarians; he would kill them all, drink their blood, play with their guts and sew clothes with their filthy skin. Their swords would not have even scratched him because his will was strong, impossible to break, given to him by God himself; the Father who would walk beside him in the most extensive and overwhelming destruction that the world had ever seen. Not even the cows would have been saved; cows in which flowed the pestilential seeds of that land. The Sultan would reward him, bestowing the most sumptuous conferment ever granted to any man. He would have enjoyed all the women of the world giving themselves to him. If they didn’t, he would spontaneously force them, because he was a Janissary and the Janissaries were a blessed race, the only, the last, valid defenders of the empire threatened from where the sun rose up to where it set. He fell to his knees with blood flowing copiously from swollen hands; his fingers sunk into the torn hands and his nails laying on the ground, like shells on a beach; the bones of the middle and ring fingers severed years ago, were sunk into the flesh, as if nature had decided to retrace its steps. Ceyden, crouched, heard a groan beyond the steel sheet of the cell. “I’ll kill you, dirty animals! Will kill you all! “He shouted loudly in Arabic. Then it seemed that even his throat was bleeding. He raised his head a little, gazing at the moon beyond the tiny barred window. With a blink of an eye he saw an owl against the snow-white disk, and wept. He tried to pull off a piece of stone from the wall, but his hands did not obey him. He was hanging with his teeth which were swinging in the gums, but the stone would not yield. Then he raised his index finger, covered in blood, and rubbed on the wall. Screaming, crying and cursing, he penned the following inscription: Hasan, who lived as a slave of giaour, wrote this in the fortress near the church.
He had abandoned reason, because a reasonable man is sinful. He had never been free and had never wanted to be so; questions met freedom, problems join with freedom, the unpredictable is child of freedom. He was a soldier, obeyed the orders, like a dog that responds to the master’s whistle to avoid the rod. Love only makes suffer; he had eluded it because he craved serenity. That was the peacefulness he had dreamed of? Now, he would kill just to be wrong. In those last moments of vital inspiration a feeling that those Hungarian dogs were not able to tear from his battered heart battered accompanied him; blurred images, distant in memory as distant in time, a cheerful period. Once after a violent struggle, one of his janissary brothers, approached him and, full of respect, told him: “You are haughty”. Only at that moment, he realized that he had never been proud, but unhappy; and unhappiness had faded his eyesight much more than pride. Ceyden found his name; the name that he had abandoned when he was taken prisoner and he had promised himself not to use it until he was free again. Hasan. Hasan looked at the white, comfortable moon which was so close. He lowered his head on his chest and took his last breath. Tibor turned around for the last time, before going out of the cell. He had witnessed in silence, the man’s interior martyrdom, and his acrimonious conflict had lavished him with pain and sadness. He hoped that, at last, he found some rest. Hasan was dead, but until the end the dire circumstances of life did not choose for him. He understood that men are embers and that life blows away and scatters the shreds. Those three men, full of conflicting and brutal passions, perhaps only guilty of having a soul too great for this world, had died without ever retracing their steps. “Assalamu alaikum, Akhi”. Tibor went out of the cell limping.
The Garden of the Soul By Andrea Memmo
As you can breathe the flavour of lemons along the narrow lanes of the Amalfi Coast, so Cosima Wagner was able to smell Richard’s bad mood even before it emerged. It started always in the same way, slipping away softly: at first he lost the gift of speech, only saving some monosyllables, at last he completely indulged into the melodic silence that the landscape offered him. But this time is different, Cosima mused, keeping her diary tight. The expression of her husband lacked firmness, and she had guessed it, just from the way he frowned his eyelashes, which were almost pleading. It had been so for days, and perhaps now he had reached the apex of his bad mood. But how to blame him... it seemed to him to have become indifferent to any human pleasure. From Naples to Amalfi they had enjoyed the beauties that inspired the other - Richard underlined, distancing himself – European artists so much. They had visited historical places such as St.Andrew’s Cathedral, and also now, the Cappuccini Hotel, the charm of History seemed to be restless, while they were staying in the room which originally had been a cell of friars. In short there was enough material to inspire the scarcest of poets.And this disheartened Richard. Sitting with his arms folded on the terrace of the hotel, while he was teasing an ingrown hair in his beard, he tried to strip away all that superficial beautyof the Amalfi Cost, available to anyone, looking for something that he was the only one to be able to see, such as the courtship of a woman gets to enjoy private privileges between the bedsheets. A place suspended between the sky and the sea. That land made almost in layers, with terracements planted with citrus and the houses that climb one above the other up to shape the top of a mountain, with the green of the Mediterranean maquis immersing its feet into the Thyrrhenian Sea, reminded him Dante’s Purgatory. A redemption place. Which looked heavenly. And yet nothing. Mind and Soul absolutely did not want to hug each other. If one existed the other one did not. Perhaps he had really got old. Three days before they had celebrated at Villa d’Angri, where they stayed in Posillipo, his sixty-seventh birthday, and he had joked together with his friend Joukowsky: if he had escaped a death sentence, then another white hair would certainly not stop him. But was it true? Without Cosima he would be dead years ago. Since when in Marienbad he had studied the legend of Graal, the search of the Graal, the Parsifal, had not left him anymore, and after Lohengrin he had continued to study and make researches, so that his health had been affected by so much work. Cosima was so patient... when late at night Richard wandered around the corridors in the grip of thoughts, she took him back to bed with sweetness and listened to his deliriums, the decomposed smoke of his ideas, also catching their sense. She cured him and calmed his emotions without cruelty, without making him feel guilty that he was twenty years older than her. Tweny years that he often looked at with pride and then, sometimes, with envy. Envy for a strong Mind in a strong Body. What had happened to him? Where was that fighter that had not cared about failures, and from the tremendous experience of a storm had found inspiration for the Flying Dutchman? He did not know what fear was, but rather, like a new Siegfried, wished to find it, so that to savor its essence. But the answer was there all, in the most banal truth. Does a hero not need, perhaps, an enemy to defeat? And problems and dilemmas to overcome? And now that Richard was supported by the Bavarian monarch, now that the theatre in Bayreuth was just like he wanted it to be, now that he was famous and wealthy, after years and years of poverty and humiliations, what did he have still to fight for? Maybe, for the sake of it? No, but only a little piece lacked. It is finished, he continued to repeat to himself, the Parsifal is finished. The orchestration and the set design of the second act lacked, yes, only they lacked! And this he had also told his wife and King Louis. Parsifal arriving at the enchanted garden; who is subjugated by the erotic pleasures of the necromancer’s trap; who escapes the insidious Kundry
and who manages to make Klingsor castle collapse. «What do you think, then?» A voice that he completely ignored. What did it say? That life was going to leave him, here what it said! He had never really reflected upon his death. Or rather, yes, above all after the arrest of ’48, but he had always thought about it with revenge, luxurious intentions, daydreaming about the world that would discover his genius too late, regretting about it. And now that hey had recognized him, instead, and that perhaps only one, two, three years of life still remained to him for living?What would happen? Would any guy finish the work for him, caring nothing about his vision? No, that was his will, all that he had worked for and... «Daddy, have you heard?» the little Siegfried asked, jumping on his lap. His father, dazed, touched his blond hair, undecided whether to stroke his head or to move it, because it covered the landscape, and whispered: «What?» «Deaf like Beethoven» Joukowsky provoked him. «With less taste, perhaps.» «What?» Richard shouted, istinctively, trying to stand up with his son on him. Paul von Joukowsky was the only one who could answer to him this way; and the strange thing was that Wagner found it even funny. They both often played to clash in single combat, literally insulting each other by rhymes, like the two young poets, Cecco Angiolieri and Dante Alighieri, with Wagner who always sustained that he wanted to play the part of Alighieri for “art duties and why not, also moral duties.” «Have you heard at least half a word?» «Pardon? Yes, sure...» «Well, would you like or not...» «Let’s go to Villa Rufolo, dad!» Siegfried cut short. «To Villa... What?» «Yes, dad! There are ghosts there!» A laugh escaped Richard’s lip, surprised by that ridiculous affirmation. «But what are you saying?» «The ghosts, dad! I want to see them!» «Who has told you these things?» his mother reproached him, who well knew how his passion for horror stories always meant sleepless nights. «But it is true! Joukowsky told me that.» Cosima gave a nasty look at the Russian painter, who soon intervened putting his hands forward: «Ehi, ehi... I have not told this.” «Yes, instead!» Siegfried complained jumping off his father. «You have said that there are the ghosts that protect the treasure!» Cosima crossed her arms, amused, and tried to look angry. «A treasure, really?» «No, no...» Joukowsky sputtered. «I have said only one. A ghost.And however it is only a legend.» «That I hope you have not told Fidi…» she specified, calling her son by the nickname they had given him when he was still in diapers. «Only one???» Siegfried complained. «Yes! No!... No, no ghost! It is only a stupid legend.» «But I want to know it, Jouko, tell me what legend! And the treasure exists, doesn’it?» «Beh, the treasure...» «Joukowsky!» Cosima scolded him. «What’s the matter?! Cannot even treasures exist?» «I want to see the treasure!» Siegfried shouted. «And the ghost! Daddy...» But Richard had stood up, and now he was before the balustrade. «Daddy...» the little child repeated frightened “ can we go to Villa Rufolo tomorrow?» There was a moment of silence, interrupted by a tough: «No. Tomorrow we will come back to Villa D’Angri.”
«Already?» «Siegfried» Richard said, and his son had already understood, because they called him by his whole name only to reproach him. «We are not here to play.» «Richard... don’t be naughty» Cosima pleaded him, getting closer to him. Naughty? Was he naughty? And what were they doing, they who did nothing but joking in spite of his fears? He was going to answer her back, when he saw the diary in which she used to write, in her arms. He had always liked to think that if he had found his art in music, as well as Joukowsky in painting, she had then realized that her art expression would have to find its focus just on him: Wilhelm Richard Wagner. And he was so proud of this! And how anxious he became while she was writing before him. She wondered how she was portraying him, and when she found him peeking, she launched him an amused smile to reassure him. And now, what would she write? That he was naughty? Or perhaps, even something worse... that he had failed? That the Garden of Klingsor had not been found and then he had... … failed. Failedfailedfailed. «Ahi, ahi, ahi» Joukowsky intervened, scratching his head. «If you are so frightened, dear friend, we can also help but go there.» «Pardon?» «Beh,» he cleared his throat: «If to speak about ghosts scares you, it is better not to pull the line too much, we can also do without, so that the yips can pass along.” Richard did not continue. «I don’t wish to play, Joukowsky.» «Really? According to me, you are afraid of meeting the ghost of Lorenzo Rufolo.» «Is he called so?» Siegfried shouted excited. «Oh, sure. Lorenzo Rufolo. Everyone knows him in Ravello.» He bent over the child and put his hand on his shoulder. «Do you want really know what happened to him?» «Yes, yes, tell me, come on!» «Beh…» he hesitated glancing at Richard. «No, Joukowsky, please» Cosima said. «Because he gets scared.» «I am not afraid! That is daddy!» «Good boy!» Joukowsky laughed. «Ah, so? Then we will see if you don’t come to...» «Cosima» Richard intervened defiantly. «Let him do.» «Well» the painter smiled. «It happened more or less forty years ago, when a magician» he said, emphasizing the word, «found out that the Rufolos’ treasure was kept just by the ghost of one of their ancestors: Lorenzo.» «And how did he find it out?» Siegfried asked. «Beh, he was a magician, wasn’t he?» He scratched his cheek. «He had a magic stick with him or something like that... But let me continue. Then seven members of a noble family decided to ask the magician what to do to find the treasure, and the magician...» «What did the magician say?» Joukowsky looked him awry. «Are you doing it on purpose? Give me a while... Yes, and the magician said», and he pointed at the moon «that in order to find the treasure they would have to wait for the first full moon night to come – just like the one we can see today – and...», he passed his finger along his throat « to shed the innocent blood of a child.» No one spoke. Cosima rubbed her forehand with her hand, foreseeing troubles. «A child like me?» «Oh, beh, almost, but not any child: a blond child and...» he stopped talking, paying attention to Siegfried’s appearance. «perhaps it is better not
to continue.» «But do not say that» Cosima intervened. She clasped her son in her arms. «You are really stupid, Joukowsky.» «Oh, come on, it is only a story.» «Have they killed a child?» Siegfried urged. «Like me?» «Oh, no, darling» his mother consoled him kissing him on his forehead. «Didn’t you hear that it is only a legend? A little story that is told to keep children at bay.» Siegfried went away from her. To be called “child” had annoyed him. «But if it is a story what is its morals?» «Its morals?» «Yes, like in Little Red Riding Hood. At the end does Little Red Riding Hood not learn to listen to her mother’s advices?» «The morals, eh. Let’s see...» «That you should not believe the stories of a quack» intervened Richard, looking at his friend. «Obviously the treasure was never found. And the assassins were condemned. End of the story.» «It is sure that no one creates suspense as you do» Joukowsky concluded. Richard ruffled his son’s hair. «And that child was younger than you. His name was Onofrio Somma, and he was only 7 years old. Moreover,» he pointed at the sky «there was full moon yesterday. Can you see it? It lacks a part. It is called Gibbous moon. But I do not expect so much from a pseudo-painter who cannot distinguish shapes.» «Is it better to trust on a deaf composer like Quasimodo?» «Have you not compared me with Beethoven before?» «Yes, I confirm it. And with less taste too.» «But the treasure exists, doesn’it? And the ghost?» Siegfried started again, he had not time to bother about their bickering each other. «I have told you that they are only stories.» «It is not true. You have told me that the magician was a quack who could not find the treasure. But it does not mean that the treasure and the ghost do not exist.» «It is flawless» Joukowsky commented, making as of to clap hands. «I want to go there, daddy. I want to see if there is the ghost!» «Oh, Fidi» Cosima said. «Ghosts do not exist.» «But how do you know it if you have never seen them?» «Just because I have never seen them I do not...» «But is it not so as regards God?» she ventured. Joukowsky put his hands forward in order to remain at a distance; Cosima answered: «Now you are exaggerating, Siegfried.” «Daddy,please! I want to go there.» Richard remained for a while enchanted by his ecstatic expression. He saw himself; his hunger for knowledge, his eternal curiosity, ready to face any danger. Childish ingenuity, perhaps. Something that man should never lose over time. Siegfried, she thought. Siegfried is not afraid. He rather wants to find out what can frighten him. It is not by chance that they had called him so. When he was born Richard was working at the third act of Siegfrid, and that little baby had just become his only male heir. The one who would continue Wagner lineage. But now more than ever it seemed to him that that name had also transferred to him the values of the Norse hero, and that just like him, he wanted to know what could frighten him. Almost moved but still hesitant, he said: «He doesn’t really want to go to Villa Rufolo...» «The exact name is Rufolo Palace» Joukowsky corrected him. «Or at least respectable Ravello people like calling it so.» Richard ground his teeth. He did not like to be corrected.
«So, daddy, shall we go there?» He looked at his son, then his wife, looking for her support, but she smiled at him, raising her chin to encourage him. «Well» he confirmed at last. «Tomorrow we will go to... Rufolo Palace. But only for a short time. I can’t waste time.» «Yeees!» Siegfried shouted; and started to wander around the terrace as a ghost would do. «Perfect» Joukowsky said. «They are just waiting for us.» He motioned to go away but he turned once again to the composer: «And then they say that there there is one of the most beautiful gardens in the world». *** «So’ le sorbe e le nespole amare, ma lo tiempo le fa maturare, e chi aspetta se l’adda magnà...» (N.d.T.: They are the bitter rowanberries and loquats, but time makes them ripen) Peppino, Joukowksy’s servant, sang. «Accussì so le femmene toste, che s’arraggiano quanno le accuoste, tiempo e purchie le fanno ammollà…» (N.d.T.: So tough women are, who get angry when you approach them, time and straw make them soften). Richard loved Naples and the music that filled it, above all the culture of car-park attendants, wandering musicians who played indoors or in the streets of the city. Just in that period he had discovered a certain De Francesco called “‘O zingarello (the Little Gipsy)”, in a restaurant, who had a splendid voice, and he had suggested him to follow him to Bavaria. They would do great things together, even if the rumours who characterized him as “womanizer”, worried him quite a lot. But he could not resist a beautifil voice. And he had to admit that Juokowsky had done very well to bring Peppino along. After the fifth song he was still not tired. From Te voglio bene assajie,(N.d.T: I love you so much) to Ariatella (N.d.T.:: Little aria) and now So’ le sorbe e le nespole amare. (N.d.T.: They are bitter rowanberries and loquats). Richard felt to be refreshed. He had spent the night awake, as he was used to do, drumming his belly at the rhythm of a song, and mentally complaining about the trip that they were going to make. From Amalfi to Ravello it was a steep climb. And the family had chosen to go there by mule, because, as the painter had said: «An adventure is worth while doing it well». Therefore Richard was already muttering, foreseeing how hard it would be. But then the view of vineyards, chestnut groves and of the sea, which while climbing became larger, had cured him. And now he did not even mind of the time that was passing by and of his painful inner thigh muscles. Peppino’s song ended, and Richard turned round to ask for another one. But he saw Joukowsky feeling sick, his hand on his mouth and his body being in unstable balance. «Ehi, Joukowsky» he laughed. «Where is your spirit of adventure?» «A little bit more and everything will be littered on the road!» the painter answered. «Prepare the palette, then! It is better to pick up one’s own colours.» Juokowsky was found out to have never ridden a donkey, above all for the purpose of climbing a steep road, and he would have never believed to suffer from “mule sickness” so much. Richard then took the opportunity to urge with «I had told it to you», not caring about seeming a child, and he stopped only when Cosima, annoyed, reproached him and started to console the painter. Then he spent the remaining time caressing the poor mane of the donkey, and he was proud that his own withered body held up more than that of his friend. Richard loved animals, even when they could not be defined properly beautiful. He also remembered when a bite given to his hand by the dog Leo had forced him to give up the composition of the Master Singers for two whole months. He had not got angry and he had risen against who wanted to punish the poor animal. But that temporary infirmity had really been a bad experience, which still burnt, because he would never be able to recover those two months of forced pause. And moreover the feeling of helplessness was similar to what was feeling now, with his mind racing and his motionless body. He looked at Joukowsky, who still felt sickness. He had prepared all the drawing instruments on the mule, because he sustained that a painter must be always ready to immortalize the perfect moment; and in a sense he had suggested him not to despair, Rufolo Palace would surprise him.
But Richard did not believe that, and he was happy that for once the arrogance of his friend was punished. Therefore, not bothering about Cosima’s rebukes, continued to tease him all trip long. *** «Richard, give me a hand, please.» Richard got closer to Cosima’s mule and stretched his arms to help Siegfried to get off. They had arrived at Ravello at last, and had decided to walk up to the Palace. «I don’t trust, Mum. Cannot Peppino do it?» «Peppino has already got so much to do» Cosima said; the servant had moved away towards the car-park attendant in the street, and now he was taking part into what seemed to be a singing competition. «I am quite strong to get through it» Richard insisted. «Come on, go for it!...» Siegfried, insecure, clung to his father. «Have you seen? It has not been...» Is it you? Something, a whisper, perhaps, a weak but sharp whisper, dragged him back like an impatient hand. Is it you? Richard staggered, lost his balance and... «Slowly» Joukowsky said, supporting him. «Is that ok?» «I knew that he could not get through it!» Siegfried screamed, freeing himself. «Richard, ehi, are you well?» But Richard was still dazed; the voice, that voice, Is it you, still echoed in his ears. «Are you well?» «What?» «Are you well?» « Yes... No. Why... why have you pulled me back?» « Me? But what are you saying?» « Yes, you... You have called me. No, you have asked. You have asked...» «Be quiet, be quiet. Perhaps it is better you rest for a while I think that I am not the only one to suffer from “mule sickness.”» «Richard is right» Cosima sustained. «Let us stop at Palumbo inn and...» «I’m well!» Richard shouted. «I’m well. I have only had…I’m well.» «Daddy is old, daddy is old!» Siegfried hummed. «Dizziness» Cosima said. «Perhaps a drop in blood pressure due to...» «I’m well, ok? I’m well. Where is Peppino? I only need some music.» The servant, reluctant to interrupt the duet with his colleague, did not arrive immediately; but soon improvised a new song, the Cannetella, and the five travellers started to walk again, pulling the mules. Ravello, situated on a cliff, enjoyed an amazing panoramic view. Scala mountains, the Mediterranean maquis, the waves of the sea almost flowed from Pontone gorge, the seagulls and the swallows in the turquoise sky. The air cleared the lungs, but perhaps just the altitude had caused Richard that dizziness. It seemed to him as if he had been really called. Nay: dragged. As if someone had been in a hurry to talk to him. He decided not to pay any mind, and all the way long no one spoke, probably not to annoy him. Only Peppino continued to sing, happy, and the people turned round and looked at him, as if he was the most important person in the group. And perhaps a little he was, because he was certainly the only one who was giving something while passing by. «Is that the Palace, daddy?» Siegfried said when they arrived at the entrance Tower of the Palace.
«It seems so...» A man was standing before the arched doorway of the stone building. He was smoking his pipe, and when he saw the tourists come closer, he waived his hand, to attract them towards him. «The Wagner family, I imagine» greeted, in Italian. «I welcome you at Villa Rufolo. I am the Guardian.» The man, a young man being about thirty years old, had got a full beard and a smile on his face, he was dressed in farmers’ garments and his trousers were dirty with earth. Puzzled because no one had answered to him, he said: «You speak Italian, don’t you?» «Yes,we do» Richard said, since he did not know whether to use the definition Palace or Villa, and trying not to show a German accent. «But you have not told us your name.» «How silly of me! My name is Luigi Cicalese, excuse me. I am so used to making me call guardian that...», he cleaned his hand on his jacket and reached out his hand. “ Beh, nice to meet you. Wagner, is it right?» he repeated. «The whole group but one person» Joukowsky intervened, shaking hands. «I am Paul von Joukowsky, painter. I have informed you about our arrival.» «Oh, certainly, Mr. Joukowsky.» Then he shook Richard’s and then Cosima’s hands and even Peppino’s hands, who, perhaps because he did not expect that, reciprocated awkwardly. «And who is this boy?» he said leaning on Siegfried. «He is our Fidi» Cosima answered. «But he still does not speak Italian.» «Fidi, eh. A German name?» «It stands for Siegfried.» «Siegfried, I understand. Like the Siegfrid?» «Do you know the Siegfrid?» Richard was surprised. The Siegfrid was still unknown in Italy, where only the Lohengrin, the Tannhäuser, the Rienzi and the Flyng Dutchman had been staged. «Only by name, unfortunately. Mr.Reid has told me about it. He is your big admirer. He says that you are the greatest composer living nowadays.» Richard, keeping the attitude of whom does not want to get upset too much, thanked him. «But I have answered to him that he is an exceptional composer, but no one can rival our Verdi.» Cosima lowered her head, hoping her husband would not react. Joukowsky laughed openly, prolonging the smile of the guardian, who did not know to have just offended the composer. But Richard tried to maintain a certain demeanor. Too much they spoke about Verdi, and about him he remembered above all when at the third encore performance of the Lohengrin in Bologna, Monti had shouted: «Viva Verdi! (Verdi alive!)» shifting all the applauses to the Italian composer. «But I do not understand much about music.» He patted him on the shoulder, and Richard, angry, cleaned it, but the guardian did not notice it. «Then, is it your first time at the Villa? It is very popular, do you know it? We often receive visits of artists. All of them are in search of inspiration, as they sustain.» «And has it ever worked?» Richard asked. The guardian smiled, with his pipe between the teeth. «Oh, my dear sir, inspiration comes only to whom really deserves it.» He looked beyond the doorway, along the path. «But let us say that this place is full of magic. Thanks to 600 years of history.» Siegfried, having recognized the word magic, started to pull his mother’s dress. «What is he saying?» the guardian asked.
«Oh, nothing» Cosima said, stopping her son. «He has been doing this all day. He is continuously asking about a certain Lorenzo Rufolo.» The child started bouncing on site, thinking he was going to be introduced to him. «Lorenzo Rufolo, really?» «Yes, it is our friend’s fault. Fidi likes these ... stories a lot. And now he’s got into his head that he wants to meet, beh,» he whispered «the ghost.» «And let us make him meet the ghost, then!» «How?» «Lorenzo Rufolo is our most important host. We can even say that, genealogically speaking, he is the true owner of the Villa. But don’t tell that to Mr. Reid.» «You mean that…Lorenzo...» Richard raised his eyes to the sky «Cosima, please.» «No, no, no. Madam tells the truth. Lorenzo is here among us. Can you hear? He put his hand clamshell next to his ear. «Yes, just as I thought. Ghosts don’t like to be forgotten». «Don’t say nonsense!» Richard interrupted him. «I have not got time to waste. Let us see the Villa and that’s enough!» «Richard, slowly» Joukowsky said. «Please, Cicalese, my friend didn’t feel well before, and now he is not in the right mood for...» «I have told you that I’m well!» The guardian started to smoke the pipe again. «You do it wrong if you don’t believe it, do you know? You may really get a huge fright. The gardeners of the Villa did not believe that too. But then they have seen him wandering in the Cavaliers’ Room and have said: “It is him... it is just him!... the Secret Dead!”» «That is Hamlet by Shakespeare!» «Forget it» he said, puffing from his pipe, and helped Peppino to tie the donkeys outside. *** The initial diffidence was soon replaced by astonishment. The Villa carried them to a new, secret and fable like world. The entrance was richly decorated, the Moresque Cloister was ornated with leafy twines, the roses in the flowerbed in the middle of the courtyard, geranium and begonia vases on the staircases, and the paths lined by mandarine trees. Sweet and varied smells which made guests struck dumb. «Mr.Reid got back the Villa in shape» the guardian said. «Perhaps you don’t believe it, but when he bought it to make it his summer residence, he found it was in a deplorable state, completely neglected. There were neither doors nor windows, and the courtyard was buried under rubble. It is almost blasphemous to imagine it this way. But then he had a flash of inspiration – as he likes saying – to transform the Villa into a real Paradise! Local plants beside exotic plants, really rare and much coloured flowers, fountains and pools with water features. He even had an aqueduct built for the public mountain at Vescovado Square. Here in Ravello people are really grateful to him.» «And is it not possible to speak with Mr.... what is his complete name?» Cosima asked. She held onto Siegfried’s hand, he had lost the will to throw a tantrum. «Francis Neville Reid» the guardian said. «A very polite Scottish man. But he was really touchy as regards his Garden. Then if you want to expose criticism to him, beh, it is better not.» «Oh, I woud never dare. Is he here in the Villa?» «No, no, Mr.Reid comes here in summer. If you want to write to him I can give you his address. Mr.Reid and I write each other regularly. He always asks about the garden, if the roses are ready for the eye graft, if we can give a coat of green to the gates, and…» … He continued with anecdotes and lists of plants while guiding us around the Villa. He explained that the creeping plants on the walls were really rare (Hedera helix forma poetarum) and for this reason the fruits were yellow instead of being black; and the old Major Tower 30 metres high was
a testimony of Rufolos’ power, and a place from which to watch around, from the mountains to the sea. Then they passed by the Cavaliers’ Room, leaving the upper floor as the last floor to visit, together with the Belvedere. The guardian was going to explain the characteristics of the pointed arches, when... Is it you? Is it you? Is it you? «Haben Sie gehört?» Richard shouted. «What’s the matter with him?» the guardian asked, bewildered. Deafened, Richard explained what was happening, foregetting to speak Italian, and Joukowsky translated: «He may be probably too tired. Even before it seemed to him to hear a voice.» «A voice, eh?» Is it you?, The sentence, still in his ears, louder and nearer. Was he going to get mad? «Perhaps it is really Lorenzo» the guardian laughed. «I have told you to get it over with it!» Richard touched his ear. «I am only... I don’t know, yes, I must be tired.» «I repeat you that you do wrong not to believe it. Ghosts do not like to be forgotten. And the more you rest the more they insist. Lorenzo Rufolo is an authoritative presence here. Mr.Reid told me that.» «And do you believe in everything Mr.Reid says, don’t you?» «It is not only Mr.Reid to say this.Do you know Giovanni Boccaccio? Fourth tale of the second day of his Decameron.» «You like to quote writers, as I can see.» «Who is Landolfo Rufolo of the tale, if not our Lorenzo? Boccaccio wanted to remember him this way, with a happy end. Ravello people like to read one of them so much.» «Coincidences.» Ghosts did not exist. He knew that. They were only stories, man’s creations. It is what mend do, Richard thought, they create and right the wrongs of the past. And this garden, oh... He stopped. They had arrived at the garden, that garden... Tropical plants, rose bushes; the Gloire de Dijon, the bengalensis, the Bella di Napoli; contrasts between the white of the lily of the valley and the purple of the clintonia; the peonia, the verbena, the ranunculus. Attractive, sensual colours; orange, violet, blue, red, yellow; they mixed within the green of the shrubs and of the trees. And after, a little farther, a well with two Saint’ Peter’s palms nearby. Richard advanced, timorous, and heard a sweet, provocative music, which became louder as he got closer. The tropical plants suddenly started to change. The colours of orange, violet, red petals stretched into thin and fluttering dresses, which hardly covered the dancing bodies of maidens. Maidens who, laughing and dancing around the well, artfully invited Richard to join them. And he, after having recognized the scene and the intensity of his folly, tried to recite: «What sweet perfumes... Are you flowers?» «Siam del giardino gli spiriti aulenti. Cresciamo nel sole d’estate. Sii il nostro tenero amico» (N.d.T. We are the fragrant spirits of the garden. We grow up in the summer sun. Be our tender friend) the flower maidens answered in a chorus. Richard, caught by fear, asked for help; the maidens and the flowers grew out of control, leaving him in the middle of the changing cyclone and hindering him from seeing the members of the company. Then he tried to escape from that charm, extricating himself from those demonic laughters, but a voice, that voice, stopped him. «Richard!» said. «Wilhelm Richard Wagner.» Then it was true. He had got mad. He had fallen into the magic of Parsifal. «Richard? So my mother called me while dreaming» he answered, by now surrendered.
He knew who he was dealing with. It was Kundry. The very beautiful, sensual Kundry. «Are you afraid, Richard?» «Am I afraid, Kundry?» he said emphasizing the pronunciation of the name. «I am only afraid of being mad.» «You are not mad, Richard. You are only confused.» «Was it you to have called me when I came to Ravello? How long have I been ill? Months? Years? Or since today?» «You are not ill, Richard... Or at least,not mentally.» «Where are you? I cannot see you. Let me see you, Kundry!» «I have called you only to ask you a...» «Let me see you!» «... As you like...» The maidens immediately faded away, and before Richard could stretch out his hand, something, no, someone appeared in their place. A man. He seemed to wear a filthy night-gown, but it was not so. His legs, united like a tree trunk, were fuzzy and started from a height of twenty centimetres, and their brown colour continued towards the chest, in order to fade into blood red. Blood flowing from the root of the neck. The face, being pale by contrast, was happy, even if it was embarassed. Richard did not know what to say. Then he broke the silence. «Who the hell are you?» «Have you not spoken about it with him enough, Cicalese?» the ghost smiled. «I am Lorenzo Rufolo.» «... Lorenzo?...» «Rufolo.» «Lorenzo...» «Richard, you must not be afraid...» «No, no, no» He pressed his hands on his temples. «I must be gone mad. It is the only explanation.» «Richard...» «Do not get closer!» Richard shouted, trying in vain to drive him back. But the ghost stopped there anyway. «You are not mad, Richard.» «Do not take me off the only thing I am sure of! If this is not madness, what is it? A trick?!» «Simply reality, Richard. Extreme reality.» «No...» He turned trying to run, but got stuck, scared before his own reflection in a mirror. No, it was not a mirror. It was him, his body. And behind him there were Luigi Cicalese, Joukowsky, Cosima, Siegfried and Peppino. Motionless, statues of flesh. «What...» The maidens had faded away, as well as the breath of men, the rustle of trees, the singing of birds…everything was silent. Deafening silence, an astonishing painting which was lifeless. «Do not be afraid. It is only a pause within time.» «But I... I...» «You are there, as you are here.This is your astral essence.» «... My spirit?» «If you want to call it so» «And how should I call it then? Am I a spirit? A ghost? A creature» he looked downwards, «without legs, for God’s sake!» «It is not important» Lorenzo said. «It is only temporary, for you.It is the only I have to communicate.»
«Taking me out of my shell?!» The ghost nodded. «I am sorry, I could not resist. But I will not remember this nuisance. I have waited for the arrival of a man having your characteristics, for a long time.His wishes well match my purposes.» «Which wishes are you speaking about?...And what are your purposes?» «What you have seen, does it mean anything for you?» Richard tried to reply, but nothing came out from his mouth.The well, the maidens with flowers, the music... It was that, yes, he had recognized it and he had remained bewitched by it «The Garden of...» «... Klingsor» Lorenzo completed. «You... No, you cannot...» «Calm down, Richard. I know it may seem absurd to you, but if you fulfil my request, I can guarantee you that the only thing you will remember is the charm of the garden, just like I have shown it to you.» «And if I refuse...» he said, angry “ will I forget it all?» «I hear grudge in your voice.» «I do not like blackmails. I ask you it again: will I forget it all?» «I am not blackmailing you, Richard. We both know that the Garden of Klingsor was there, in your mind. But sometimes Inspiration is necessary.» «Mr.Reid...» Richard understood. «Neville is a genius of botany. And you can’t imagine how happy I was when he bought the residence. But he only wanted it to be his summer residence. And I, because I knew him, could not allow it.» «And then, Inspiration came.» «I showed him what Rufolo Palace could be.» He spread his arms. «And what you see is what it has become.» «But at what price...» he ground his teeth. The ghost, at first surprised, began to giggle. «Oh, Richard, I think you have mistaken opera! We are not in the Faust, forget the Devil.» Richard, suspicious, did not answer. «Oh,» Lorenzo laughed again. «You remember me my good dear John. He also was unwilling to trust.» «... Boccaccio?» «And who, if not him? He was in search of a tale for the second day, and when he came to the Palace, I gave inspiration for Landolfo, asking him to write for me a happy end.» «... And then, what do you want from me?» «What I wish….. No, rather what we wish, that may the Garden of Klingsor revive at last. Isn’it what you are looking for?» Yes, it was, but... «I cannot accept... I cannot buy my inspiration. It is not right... to myself. If Parsifal must have its garden, then I will give it to it.And if it is not so..» «Richard» Lorenzo interrupted him. « Parsifal has been finished. And you are too tormented to seize the day, to play by instinct.This is your garden. Take a good look at it.» Also without the illusion of the maidens, in that garden Richard recognized the scenography of the second act of Parsifal. He saw the Medieval tower sink into nothingness and become an enchanted garden; the tropical plants transform themselves into enticing maidens and, at last, the garden decompose itself into a desert at the moment when Parsifal kills the necromancer Klingsor. Would he really forget that vision? Would he really continue, once he had come back into his body, without realizing that the solution to its anxities, was there, around him? Had he become blind? «You are losing it» Lorenzo said. «As you are wasting your day with your family. Because of your discontent.» Richard closely studied himself motionless. An old man, made even more worn-out by sulkiness which smoothed wrinkles down.
«Why... why do you want me to use your garden?» «Because...» he hesitated. He touched the gash on his neck, and blood flowed between his fingers, without dirtying them. “ because this is my only purpose.» He turned and began to float around the garden. Richard followed him and saw the background around them change according to Lorenzo’s words. «Colours had changed. The Angevins won the battle of Benevento, and the Dynasty, in order not to lose its powers, swore to be faithful to the conquerors...» On the pulpit of the Cathedral that had just appeared, the Rufolos’ coat of arms changed from red to blue. «We became bankers of the Crown. We wanted to show our riches at all costs, because they had to outshine even King Charles II d’Anjou.» Then the scene was moved to a dining room, with a banquet fit for a king. Wine and food abounded, and King Charles was looking at Nicola Rufolo ordering to throw the silver cutlery being just used, into the sea, while laughing and assuring to be able to afford them at each meal (and later he would go and fetch them secretly, together with his servants, thanks to the nets they had prepared in advance). «We attracted the hatred of many families of the Reign, of Ravello and the Crown... and after the war of the Vespers, the Angevins wanted to recover all the money, taking revenge of us.» The scenes became bloody. Richard watched them as if he were standing before a grandiloquent drama: the war, the trial, the confiscated lands, the torture of women and children, and Lorenzo Rufolo, that Lorenzo Rufolo who was still alive, who after having to fight alongside the Aragonese, among the teams of ships that attacked convoys, was imprisoned into a castle in Calabria and finally… beheaded. They got to the Belvedere, where the garden onlooked the panorama of the Gulf. «All our life long we did nothing but to show off what we had, and this broke us…as it broke the life of the poor child Onofrio Somma, 38 years ago.» «... Then, that magician...» Richard said, remembering what Joukowsky had told the day before. «Did he tell the truth?» Lorenzo concluded. «Yes, partly. I was also surprised, when his brass rod showed my presence.I thought to have found a kindred spirit, and instead I had come across a Klingsor without class. The magician understood that I was hiding something, a treasure. But could he, with his morality, discover it? Nothing distorts the truth as greed.» «... Why have you not stopped him? You could have prevented that tragedy! You could have...» «Do you think that I would have not liked it?!» the ghost bellowed; but it calmed down, looking at the dismayed expression of the composer. «Forgive me, Richard. Dear, ingenuous Richard... This also belongs to my present existence.I can communicate only with whom, like you, shows the characteristics and the will of reviving the dynasty of Rufolos. But I cannot interfere with whom wants to destroy it... with whom is in search of what has caused our ruin. It pertains to my penalty.» Richard remained silent. «Those who share my destiny cannot interfere in the world that hosted them.We have already been given the opportunity of making the difference. All that we can do is to hope. To hope, and wait...» They advanced along the garden of the Belvedere. Then Lorenzo stopped and closed his eyes, as if were looking for something. «But...» he started to speak again and his voice came back to shine. “ If you allow me that, Richard... If you allow me to be your Inspiration, as I have been for John and Neville, if you allow me to make the Palace shine, and to expiate some of my faults….perhaps also I...» He stretched his arm, and the flowers of the garden changed again: but they were not maidens anymore: it was a public of any age, wearing a variety of different clothes, who was ecstatically listening to a big orchestra, wind insruments, cellos, double basses, and a conductor, who excited conducted a music his music, Parsifal! «... perhaps also I will be able to aspire to my Redemption.» *** «I love you so much, and you do not think of me!» Once they get to Palumbo inn to rest, Peppino, already tipsy, startedto sing on a table, forcing the bystanders to follow him while he was shaking
a bottle of Falanghina. «But does he never get tired?» Cosima muttered, stopping writing in her diary. «I bring it with me on purpose» Joukowsky answered. He was examining the sketches of the Garden which he had just finished drawing, pleased to find them each time even more beautiful.It was strange; there was something in those drawings that reassured him. He had the funny feeling to have got it right, and to have found a place in History. Cosima shook her head, amused, and came back to her pages: …riding to via S. Chiara up to the little pavilion, a stop and a song by Peppino, the panorama from that point, for me, is the most beautiful one… «Everything is really beautiful» Siegfried said grumpy. «But I wanted to see the ghost!» «Once again this story? Don’t you understand that ghosts don’t exist?» «No I don’t!» «They exist, they don’t exist» Richard intervened. «What does it matter, Fidi? Today it is a day to celebrate!» «For you, perhaps.» «You are right» Joukowsky said. All of them laughed and at theend Siegfried recovered from his disappointment. Cosima did not understand what was happening to her husband. He was so happy. He was strangely, wonderfully happy! She was usually able to guess his mood swings... but then, after having crossed the Garden, here he was laughing happy, as if his anxieties had vanished. What miracle had happened to him, he did not know; whether the Villa really had magical powers, or the so much mentioned ghost had helped them at the end, she neither knew it nor she was interested in knowing it. She just needed to see Richard happy. «Come on.» She took her husband’s hand. «What are you doing?» «You said it is a day to celebrate, didn’t you? And during parties people sing!» «No, Cosima, please, no...» But he could not resist her; Peppino embraced him with open arms and they sang together, they drank and laughed, not caring at all, about whom wanted to hush them. Then, when they were going to go away, the inn keeper at the counter stopped them: «Excuse me sirs, are you German? » «Have I sung so badly in the Neapolitan language?» Richard laughed. The inn keeper raised a register. «Woukd you like to sign the register of tourists, please?» At the beginning he was reluctant: then, smiling, remembering something that had appeared to him while he was dreaming, he wrote:
Klingsor Zaubergarten erst gefunden The magic garden of Klingsor has been found at last Richard Wagner – May 26th 1880 –
The bag
by Luca Vecellio Salto There is an old man running along the road. He’s quite fast for his age. The crows flutter around as if to remind him of his age, but he goes ahead because he is not afraid of the end of his days. His legs work well; they creak a little but they do their job. He holds a bag on his shoulders and whenever he needs to stop to take a breath, he puts it on the ground because he has difficulty breathing. His niece is also behind him, a young, chubby girl, who is struggling to follow him. - Wait for me grandfather. Wait, please. But her grandfather continues to run, because he is anxious ‘to spit out’ all those things that he has seen. He really needs a way to travel faster: if they only knew what he has to say, they would come to pick him up in person. The prairies that he goes through are all identical with putrid grass and a little swampy. He splashes mud at every step and the fog makes him cough strongly. The girl has lost him and looks around bewildered. - Grandfather? Which way Grandpa? He was fluttering in the air like destiny and the leather shoes had been untied all the time: if they only stepped on one of the laces at the wrong moment, at that speed, the old man would break every bone. He has no time to stop and tie the laces: he must arrive before night. He throws his open hands in the air as if to create a gap, struggling like a man without limbs in a cruel ocean. He enters the woods, avoiding the trunks as he did as a boy when he went hunting with his father, and comes out full of pine needles and resin. The road leads to Tongeren, where legend says that it is dangerous to go out at night because there are so many cats that will tear you to pieces. The clouds cover the horizon with a lousy kiss of moisture, which makes the skin vibrate and forces to shut one’s eyes and teeth in a hydrophobic snarl. The old man considers funny that Tongeren is a “felinecracy.” - It is unbelievable that a cat rules its domain. - he said, exhaustedly. He breaks into a hysterical laughter which, together with the wind, bursts his lungs. He dies there, to the great satisfaction of his fellow travellers, the crows, that see him falling in the middle of the prairie as if struck by a gunshot… - How do you think he died? - I do not know. He is an old man, he must have died of old age. - Here in the road? - You do not choose where to die, Arthur. “She” chooses - She, who? - “She.” “Death.” Take the bag Arthur. - Bad luck to loot a corpse! - Just take it. - It’s empty. - Empty? - There is only this. - Give me. - Jesus Christ!
- What? - Forget it, let’s go Arthur. - But what’s the matter? Let me see! - Jesus Christ! - Let’s go away. - Yes let’s go. But do we leave him here? - And what should we do? - I do not know, but it’s bad luck to leave a corpse in the street. - It does not matter, let’s leave it here. And leave that too. - But why? It might be our passport! - Maybe for a noble, Arthur, but we are beggars. You are so dirty. Look at you! - You stole those clothes from the city of cats, they are not yours, so do not make fun of me. - The road to Amsterdam is long, Arthur, I do not want to waste my time. - Look! There is no bridge! - Where? - Damn it, Arthur. Give it back and stop playing tricks, or I will use my belt. - Pff. Okay, here it is. - And say you’re sorry. - Forgive me father, I just wanted to joke a bit with you. - Well, now let’s go. Let’s remove our footprints on this path. It’s November 15th, 1864 and it’s about ten in the morning, we are close to Tongeren, a few miles from the nonsense they call “city of cats.” Lt. Van Hendriak Hyat, a six and a half foot tall man, has been marching for the past four hours with his troops. He is part of the personal guards of Madame Dechappe and his men are arranged in four rows of six. He is certainly the first to see the dark spot in the road, about sixty-five meters from the first horse. He adjusts his uniform and reaches the vanguard, overtaking his troops with fourteen steps. He is an old man, short and thin, who died of natural causes right there in the middle of nowhere. Hendriak immediately takes control of the situation, showing five pudgy fingers to the vanguard, who almost telepathically freezes. The horses, beautiful Czechoslovakian purebreds, move restlessly, because they know what always happens on these occasions, when everything stops so suddenly. Instead, it’s just an old man who died. Maybe worth burying. - Wout and Ansel, bury this poor man. You will reach us later. - Yes, sir. Hendriak goes back to the horses and knocks on the porthole of the cart: - Madame, everything is fine. It is just an impediment. - Thanks Hendriak. I am sure that from here on the journey will be more peaceful. - It will certainly be. Excuse me. Hendriak reaches the rear guard and whispers to the last man who goes away for a minute or two, to urinate. So, he goes down a cliff and steps into a small grove, where the trees are as thin as bushes and move along with his breath. There, he rummages in his uniform’s pockets made of a beautiful burgundy fabric and adorned with some wonderful bright silver medals which shine even in the darkness and pulls out a bag. He puts his hands inside and sees something that freezes his backbone going up to his neck and then to his brain which sends the impulse to drop the
whole thing. The bag, which is soft with musk and wet soil, falls to the ground and he quickly picks it up. Seeing him arrive with some haste, his soldiers ask: - Is everything all right, Lieutenant? - Everything’s okay, Marteen. Just stand straight, you look like a crustacean with that armour. As soon as Wout and Ansel are back, after burying the old man on the roadside, the troops start with a regular but sustained march. It’s already eleven o’clock … Damn, it’s cold. If only he could let us run a bit, I would warm up. He hates me. I know he hates me, the bastard. He reminds me of my shoulders all the time: to stand up straight with my shoulders, keep those shoulders low, that the enemy strikes behind the shoulders. He knows I run fast, it is the only thing I’m good at. He considers it a cowardly thing and does not admit that I beat him in the relay race in that occasion. Strange, since he, with that height, has an opening of the thighs worthy of the best prostitute in Paris. In any case, I put up with him, now and forever, because I know that he would order to execute me without thinking twice. He already granted me grace, long ago, because I fled from a riot in a tavern in Zutendaal. Now that I’m on the road with him, I might as well kill him and throw him in the water of a well, but Madame Dechappe would order to hang me once I arrive at Alden Biesen. They say the new Land Commander is a capable young man, who knows how to deal with the criminals holding a title, maybe I could talk to him once I arrive. I also believe that, if he knew that his friend Dechappe has a love affair with that brainless beast, he would not think twice about sending him to death. I know that all men would be very grateful to the Land Commander for that decision. It’s strange. He is behaving differently for some time: patting his chest, as if something itches or stings. Then he stares at me and I look away, quick as a snake that escapes from a boot. What could he have under his cloak? What could such a powerful man yearn for? Along the way, about every hundred meters, he puts a hand under the cloak and pretends to adjust the epaulettes. Occasionally, He says to the troops: - These uniforms are so uncomfortable! If I find the bastard who made us pay so much for them, I’ll break his neck! Yet the uniforms are comfortable and warm: no one complains about the same discomfort. When we arrived in Tongeren, the city of cats, where they say that people do not leave their house because they fear those ugly creatures (this is so funny): there was a poor French couple standing next to a fountain. - Move young cock. - says Hendriak to one of them, drinking as an ox from that small spurt of water even though he knew he was the personal guard of a French lady. Then something fell and I, as a good soldier, picked it up immediately…
- Pssh, have you seen it too? (Whispering) - Yes I’ve seen it. But do not make noise! (Wheezing) - But this is theft! (Aloud) - Bah, forget it. It is none of our business what those mercenaries do. - He could give us a prize! He could treat us better before, instead of acting as a peasant! (Raising the index) - Yes, he could. (thoughtfully) - Do you think they have understood? - Understood what? - Where we come from! - Of course they have understood this, Lucienne! We are the young cocks. - Will we be hanged? – Nibbling on his fingernails. - No, not necessarily. We are merchants, not invaders. - But we do not even have goods to sell! - We have money! (Shaking his shoulder bag) - Not even a coin! - But I know, we do not need to be rich, just pretend. (With his eyes towards the sky) - And if they ask to prove it? - Lucienne, here nobody cares about what we do ... - And I have a good idea. (pointing his index finger upwards) - Which idea? I hate your ideas. - We can pluck the chicken. (mimicking the gesture) - What chicken? (Surprised) - That despicable thief down there! - I do not know, will he kill us? - We are in two, he is alone and has something to hide. - I don’t want to stay here in Tongeren. - Hell no! You heard the story of cats! - Beasts of the devil, those! - We will do it tonight. (rubbing his hands) - Why not now? - Because, Lucienne, the night is better when it comes to threats and blackmails. - On the contrary: the night is better in any case. (grinning) Darkness and light skin overlook the Alden Biesen courtyard, while the wind is blowing away the last residues of the day. There is a castle with that name in Reekstraat, near Bilzen. But it is not really a castle, it is a fortress: its gates have been wide open for a few hours and several shadows have crossed the pebbly walkway of the garden path. Many men and only one woman. A woman who was born under the name of Dechappe. Someone yells, full of rage, because “she” is the best liquor available in the stables: you cannot share the wine with the rich upstairs, the mistress
told him. The night world hovers around Alden Biesen, like dancing shadows around a fire: stories are sung and demons are chased away with savage rites, bodies are buried and chicken heads are cut, crosses are hung and prayers are recited. It is the time when cats come out of their holes and make men slaves. There is a talking hand in the gardens that holds a candle, nothing else is visible in that darkness. This hand whispers to the invisible that wants something in exchange of silence: it wants a bag. But it must be full, and never emptied of its original content! Whatever it is! Even the invisible can shake, in the dark, and it is not enough that he can’t be seen, he also wants the silence. A gust of wind, a creak of the gate, the yawn of a Frenchman, a hand that he holds out and a fair exchange. Then the tea light becomes past and the hand night. Someone is walking towards the stables and Alden Biesen breathes with him, as if defeated after a victory; then there is someone who supports the burden of victory in one hand and guilt in the other. The gate remains open because someone forgot to close it and the night wants to punish someone else, letting in children of unhappy and scorched lands, now owners of a bag and its mysterious contents. But not even their journey lasts long, because the forest chases them like a hungry predator. And this is very strange since the castle of Alden Biesen, the seat of the Land Commander, garrison of the Teutonic Order, the Empire embassy, town hall of the bailiwick, is located in the middle of a large clearing… To the Land Commander of Liege Franz von Reischach, I am honoured to inform you that yesterday - 21st November- an object of primary importance for you and for the whole Teutonic Order was found, but I dare say for the Empire itself, if my assumptions are correct in a land which is no longer under your bailiff’s jurisdiction, near Maastricht. Found near the corpse of two fugitives, probably of French-speaking origin, the bag in question is delivered to a courier who at this moment is heading with the utmost urgency to Alden Biesen. I thought it opportune that this courier knew the importance of his role, since such a failure would be unacceptable and punishable by death. I trust that when this individual is in your presence, he will be rewarded with the sum that you will consider appropriate for a similar gesture of loyalty and courage. With this opportunity, and considering the friendship between the bailiwick of Liege and Maastricht, I would like to urge you to confirm the participation, previously discussed, in the purchase and sale of the Eastern farms with a total income of twenty per cent. I would also like to inform you of the fact that, on October 1st, Monsieur Claes, now a guest of your castle, who seems to be particularly interested, has offered the Order a large sum of money to buy the entire building. We both know that the development of these procedures is usually very slow, if not eternal, but this buyer has many arrows to his bow, and you may have to reconsider your position before next winter. I also want to ask you about the strangeness that surrounds your residence: in particular, what interests me is the matter inherent to a village called, I do not know if by witticism or hyperbole, “the city of cats.” I find this matter quite amusing. Wishing you great fortunes, Baron Klaus Lundeger Land Commander of Maastricht… And to think that he has understood, at the end!
There, with the Emperor’s authorization and all his officers, he can look for the bastard and stab him: he was already thinking of the phrase he would scream in the thief’s ear once stabbing him. It was not easy to reach Tongeren, city of cats: it was hard to run that way for so long, overcoming impassable roads and thick woods full of thorns and bushes. His whole face was bruised and bleeding from that effort. An hour before, he was detained by guards who insisted on checking his pockets: they just did not want to let him go, those fools. He had begged them to help him find the thief. But they did not understand, not even looking at the mandate signed and sealed by the Land Commander of Maastricht, why all that discretion and they wondered why all that blood on the courier’s cloak. In fact, the blood still fresh and warm, was due to a minor inconvenience along the way, but nothing that was connected with a murder or something worse. The courier, stopped for lunch near a farm, and was sitting with his back leaning against the wall of a barn where, apparently, they were slaughtering a pig. The blood had reached him because he was passing under the beams and had dirtied the whole cloak and this is why he seemed someone to worry about. Besides, the expression on his face as if he were ill, was of concern because he had lost the bag that, in addition to containing a priceless value for the entire feud, it also contained his future wealth or damnation. He tripped, tumbling into a puddle and losing everything, and with his face and arms in the mud, he realized that the strong rope stretching from one tree to another on the path, could not be just a coincidence. The fault could only be his: in Maastricht he had not told everyone that he was leaving for that role, but he had told the worst person, his mother. The old woman sitting on a bench, did not hesitate to whisper it to her friend, who was sewing with her. The news did not spread much, when the second old woman’s grandson, a criminal of the slums, who had heard the information, found it interesting and grabbed his hat, ran to the door of a mate and quickly left behind the boundaries of his city. *** Here he is: he is moving. Now he goes to the edge of the road with the top of a rope. No, wait, he’s giving the signal to his companion. He stole the bag from a young man who stumbled in the woods and ended up in a puddle. The two thieves are running too fast. They are three. The young man does not know them. He gets up from the puddle and runs too. They are too far away to be able to catch them. Yes, too far away. They go towards Tongeren, the city of cats. One of them stops to catch his breath. His friend called him Julius, urging him to move with unkind terms. By the accent, you would say it is Maastricht. Julius wearing a fur coat, says they are not professional thieves. The bag seems to be carefully kept. The content is not presumable. Maybe we should follow them to learn more. The forest is thick, I do not see them anymore.
Maybe they stopped. No, here they are, I see them. They are going into a barn. In the barn there is an old man. The old man is striking a pig with a stick: supposedly, he wants to slaughter it. The young man is lost, he looks in all directions to see if anything moves there’s a police patrol coming from the West, probably from Alden Biesen. I confirm, the avant-garde has the Teutonic crosses on their banners. The two thieves are entering the barn, threatening the old man with a pitchfork. The young man also goes in that direction. The two thieves close the barn doors. Screams are heard. The young man approaches the barn limping. In front of the guards there is a man named Hendriak. He is very tall and looks dangerous. I hear his name every five minutes. The bag is in that barn and it seems that everyone is looking for it. *** Oh God, and now what do we do? We have stolen, we broke into a barn and killed the owner! There is no escape! We are in danger! We will be hanged! Or the Land Commander will put our heads under his guillotine, which is brand new, just arrived from Paris. There, in France, they want to abolish the death penalty. Perhaps they already have, I don’t know! But we’ll die! Die like pigs because of this damn bag! The courier has already reached his friends! The armed ones that we saw from the hill! They say the beast who commands them, Hendrik, or whatever his name is, killed with his own hands four deserters who desperately arrived from Paris! And now he’s coming here in the barn, where he will find me, Julius and that poor pig in an orgy of blood and fear! There is the courier out here! He’s right outside! Shh. Julius silence. Do not move a muscle! God forgive us! God forgive us! Oh if only we’d stayed in Maastricht, to steal in the sewers around the Meuse, to poison the dogs before the fighting, to rob young merchants and to flatter old women for their necklaces! If, instead of hearing the talks of my unpleasant grandmother ... if only ... if only we could understand the dangers behind a simple theft! If there could have been just a sign: a black raven passing over our heads, one of those cats that are always spoken about, those of Tongeren, which are as big as lions and during the night will tear you to pieces even before recognizing them in the dark. Maybe they’ll take us there, tie us to a tree so that they could tear us apart, these bastard sons of the Empire. They are now arguing with the courier, in the street. Maybe we will not be seen ... maybe. The courier has escaped! He flashed by and a soldier tried to reach him. This allows us to get away. Perhaps we are safe! Holy God! Hendriak gave an order: the soldier who was chasing the courier has stopped and is slowly coming back. Two of them are coming this way. They have seen the blood! There’s blood coming from under the floor! One of the soldiers mounted the bayonet
on his Charleville and I could see his filthy fingers burned from the gun powder trying to knock down the door beams! Oh my God here they are! Farewell Julius! Goodbye Pig... Tongeren, November 23rd Mr Meinkiren requires additional funding for his project of disinfestation and purification of the well on his farm because the cats of Tongeren, who have crossed the borders of his residence during the night have recently infested it. Bilzen, November 23rd At 14.00 Mr Van Hessen reports to have seen Cossack troops at the borders of the bailiwick, camped at the hunting post. He states that the invaders were disguised as ordinary troops, but he claims to have proof of their origin because they were drinking vodka. Haag, November 24th At 9:00 a.m. Baron Kilmt reports that he has murdered his wife, for the reasons that he considers to be “more than worthy”: he claims that his wife had a love affair with his nephew, who strongly denies his involvement in the affair. The Land Commander chooses to postpone the verdict because of an urgent matter. Boundaries of the bailiwick of Maastricht, November 25th At 12:30 two criminals, guilty of theft and of the aforementioned murder, were found in a barn belonging to the Moenstein family. The two were immediately shot but the stolen loot was never found. Haag, November 28th At 9:00 a.m. Baron Kilmt reports that he has murdered his parent’s in-law, for the reasons that he considers to be “more than worthy”: he claims that the in-laws were aware of the relationship between the young grandson and daughter. The Land Commander gave order to shoot the Baron in his office. Liège, December 8th Madmoiselle Emma Latzniek, a Polish “waitress” at the “Luppolus” tavern of Hoeselt, announces that she has met a deserter adorned with a Teutonic cross, proudly boasting that he has obtained an object of inestimable value. He wishes to receive a reward for this capture… << I do not know if what I’ve done can be considered right or wrong. I do not know if I should be desperate, or if I should be at peace with myself. Yes, I betrayed my comrades. From the first to the last, fools as they have never been. I was always the first. The first in the race, the first to enlist, the first to kill a man, the first to laugh at someone, the first to observe a bitter order and the first to defect. I cannot do anything if my comrades are slow: I took the bag first, and I first decided to let others die in the winter hell at Alden Biesen, to hunt ghosts and cats that become panthers at night. I’m not going to die in this horror, for these nobles who are drinking wine in a warm place, I want to be someone, I want to be like Monsieur Claes, a clever man, who knows when it is appropriate to leave loyalty to the dogs and play on their own. And I also want to be like the Land Commander who is young and full of good will, but also knows how to be wise and cruel as you have to be in
this world that does not give anything but just takes. When I saw that bag, hanging on that thief’s cloak, from Maastricht, who was crying and shaking like a girl, I did nothing but pull the trigger. So I firmly grabbed my luck. I became what all those envious dogs who live in the castle basement would like to become. I’m a rebel who fights for a very important cause, mine. I am a soldier who belongs to an army, mine. I am a rider who loves himself. And should God strike me dead if I’m ashamed! That Hendriak, heartless bastard, slobbery goliath, greedy son of degradation and fog, lousy disciple of the devil, husband of the deadly scythe, who is now desperate for having lost the opportunity again to be someone else, as soon as he discovers my escape he will be revengeful but without success. How do I enjoy this thought! And how happy I will be once I sail for the New World! I only need six days to go westward and will see the sea, along with the wonderful women and the beautiful canals in Amsterdam. Everyone says that it looks like Venice. Venice that I have never seen ... Here they are, the girls, finally a little entertainment ... But ... but what does this mean? No, you can’t! Emma Wait ... wait! I ... I will I’ll pay you! I will make you all rich! No ... please wait, I want to show you something! You do not understand ... I ... in this bag ... in this bag! Give me a moment, damn ... now I ... >> There is a light in the room. A moth spinning and dancing. The wind is blowing on the man’s face who is breathing with difficulty and the red river of pain is flowing and the heart beat stops slowly. Because nobody lives without impulse, not even if they are short and convulsive. Women have always been around him but he has never found himself trapped in an unknown place. They laugh while he is squirming, certainly pleased and very little pity! They are holding a little bag: They want to know who it belongs to and the value it contains. The rude man insults them angrily and a tough woman lashes him with a rickety cane without stopping. At this point, tired of the crowds he confesses and gives new hope to the women in the room. He says shamefully, as if he were on the pillory, that the bag was considered of great value. Foolish the price would be: Anything could be asked for.
A message had been sent to the Castle, to the attention of the Commander of the bailiwick… Castle. Office. Desk. Window. Wish. Bag. Question. Mystery. Content. Letter. Reading. Blackmail. Surprise. Anger. Offense. Doubt. Choice. Price. Agreement. Money. Lack. Request. Loan. Door. Corridors. Paintings. Faces. Shame. Gardens. Walking. Meeting. Kindness. Monsieur Claes. Favour. Money. Humiliation. Return. Orders. Arrival. Cellars. Soldiers. Lt. Call. Office. Instructions. Hoeselt. Inn. “Luppolus.” Departure. Choice. Volunteers. Departure. Courtyard. Gates. Five. Rifles. Evening. Street. March. Street. March. Night. Street. March. Village. Legends. Terror. Noises. Cats. Race. Troops. Rifles. Tremor. Escape. Courage. Next. Cold. Arrival. Inn. Hot. Refreshments. Agreement. Stairs. Attic. Prostitutes. Knives. Threats. Climate. Fear. Distraction. Agreement. Speech. Dishonesty. Injustice. Irruption. Prisoner. Throat. Red. Carpet. Chair. Money. Insufficiency. Screams. Pain. Blood. Triggers. Fire! Victory. Death. Bodies. Lt. Look. Upset. Search. Nothing. Room. Empty. Trunks. Beams. Ceiling. Floor. Padding. Pillows. Sofa. Armchairs. Hats. Perfumes. Lt. Emma. Corpse. Bra. Stealthy. Bag. Look. Pocket. Jacket. Water. Money. Looting. Raid. Destruction. Soldiers. Despair. Taxes. Closed. Beer. Liquor. Toast. Theft. Men. Brawl. Laugh. Cry. Tears. Night. Nightmares. Eyes. Stomach. Pain. Melancholy. Failure. Reward. Victory. Reward. Bag. Pocket. Betrayal. Lt. Return. Morning. Journey. Street. Tongeren. Break. Market. Gift. Prize. Soldiers. Evening. Departure. Rain. Wet. Distance. Fatigue. Mud. Arrival. Castle. Gates. Courtyard. Entrance. Land Commander. Waiting. Anxiety. Lt. Call. Superior. Bag. Trunk. Guard. Best. Relationship. Stairs. Door. Corridors. Door. Knuckles. Answer. Handle. In... - Excuse me, Land Commander ... - Hendriak please, come in ... and tell me what you’ve found and how exactly you’ve found it: I want to know all the details. Have you got the sack with you? - Excuse me if I come to you in these conditions, Baron. - Nonsense! You are a soldier, soldiers get dirty with mud and blood. - Yes, sir. When you gave the order to leave during the night, the men were not at all happy ... and since there were three hours of walking in the dark, many of them refused. So we are only five. Me and Wout and ... - Well, Hendriak ... - Yes, Mr Commander. The trip was peaceful up to Tongeren, there were men trembling like children ... you know what they say about this place ... So, reaching the place of exchange, a tavern called “Luppolus” rather famous in the feud, we found Marteen tied to a chair in the company ... well ... of some bad foreign women. - And they were the ones who proposed the exchange? - Yes, but as soon as we approached him to ask for the bag they unsheathed the daggers, and like vipers they threatened to kill us. These women must be mad, Land Commander, when the word money was pronounced their eyes popped out of their sockets!
- Continue Hendriak ... - It seemed that the deserter, the first soldier to enter the barn of Moenstein had stolen it from the scene of the crime and escaped from Alden Biesen during the night. - And then what happened, Lieutenant? Do not keep me hanging. - When I asked the soldier where the bag was, Madmoiselle Emma Latzniek, mistress of the brothel, suddenly cut his throat, in order to threaten us. Thus began a struggle, I must say quite unequal. - Have you killed all of them? - We had no alternative, Land Commander: even though he was a deserter, that soldier was the best of the group and we could not go to war without him leading everyone. His companions suffered at the sight of his throat being cut as much as his betrayal. - And the bag? - We searched every room of the brothel but did not find it. Was the courier punished for his incompetence, if I may ask? - Thanks Hendriak, your testimony has been helpful. Now go out of my office… November 29th, it is starting to get cold and it’s hard to stay still in one place, even if they are the underground barracks of the castle of Alden Biesen (which is no longer known as it once was). The Land Commander was kind enough to allow us to walk in these beautiful gardens which are so green and fragrant, although the canals that pass around it are not so clear. They say that Mrs Dechappe passes her days among these flowerbeds: for some time now she is worried about something, they say she is always silent and a little depressed, due to the death of her husband, or a lover, I did not understand. In any case, we see her walking every morning and every afternoon, as if she had nothing else to do. Well, in fact, a noblewoman with that beautiful appearance ... They say that she invited some men to spend the night with her, but I never heard anyone talk about this, so I have my doubts. The idea of spending a night with a beautiful woman, (if it should ever happen) somewhat entices me, but I think I will be faithful to the promises made to Margareth before going to Alden Biesen. Then they all talk and talk ... and at the end nothing is true: just like the village cats. Ah, what nonsense! At Hoeselt four damned prostitutes wanted to rob us! We were quite frightened and Poel almost lost an eye, but in the end we killed them all. I’m sorry for Marteen, who died. I remember he was brilliant ... but he was a deserter. Hendriak, smiling as we had never seen, rewarded us with uniforms adorned with fur and a French pistol. Tonight I have to guard this trunk while the lieutenant is upstairs with the Land Commander but it is fine with me: as soon as he comes back, I can go to sleep! Who knows what’s in it ... maybe after I’ll take a look… November 30th, I have forgotten how to sleep. I only think about what’s inside that bag. I must absolutely denounce this bastard. Absolutely... *** It is November 30th when, Land Commander, Franz von Reischach orders to search the lodgings of Lt. Van Hendriak Hyat, after being warned by a soldier named Wout Eisson. He is accused of theft and high treason. In the army camp of the Teutonic guards, a group of mercenaries were hired by Madame Dechappe, a rich noblewoman of Paris, and subsequently
integrated into the Order, and the Land Commander and his men did not find neither the lieutenant nor the stolen goods. In the documents there is references to both a bag and a trunk: it is not clear which of the two objects (or both) the one in question is: the legends narrate during the pre-war era that there are several versions (see “The city of cats”) and never define an exact reality. Madame Dechappe claims to have seen lieutenant Hendriak Van Hyat walk away from the castle at night, but at the same time, Monsieur Claes, who also walked for a long time in the gardens because of his insomnia, denies having seen him. The latter was hoping in the decline of the Order’s influence in that bailiwick, so that he could definitely buy the castle of Alden Biesen at a lower price. It ‘almost certain, even without direct evidence that Guillaume Claes has contributed to certain restlessness in the feud, reviving the ancient legends and fears of the local people. Franz von Reischach, on the other hand, young and brilliant, was so desperate to maintain order in the bailiwick, and during the last two decades of the eighteenth century he orders and carries out forty-two public executions. One of them regards precisely Lt. Van Hendriak Hyat: after six days of searching, the Land Commander sends his guard to search inside the whole castle of Alden Biesen becoming suspicious by Guillaume Claes’ attitude: this disrupts half of the guests of the castle but then Hendriak is found. The lieutenant, however, is found in Madame Dechappe’s closet and not in Claes’ apartments, as Von Reischach thought. The woman confesses that she had an affair with the Lieutenant and let him in her closet, but was unaware of the value that he had stolen. Lt. Van Hyat, with clear signs of insanity, is brought to the underground cells waiting for a public trial and Madame Dechappe is escorted to the French border, being exiled forever from the bailiwick and the entire Empire. In December of 1784, with the farmers rebelling at the gates of her housing, Dechappe commits suicide. Sources coming from the diary of such. *** << The task of a Land Commander is not easy as you all think; it is not just wine, noblewomen, pens, paper and ink, hunting and walks in the gardens; it is not just an order or a choice. I’m here in front of you like a king, with this endless cloak and all these shiny badges, but in reality I am nothing more than just a subject! A subject of a huge Empire that has no time to look after our tiny bailiwick, where people do nothing but steal and tell strange stories of ... of the city dominated by the cats at night or on magic bags containing important things. All this bailiwick is plagued by a restlessness to which it does not belong! All this shadow does not come from the South or from the East or the North: it is clear that what you are experiencing now is the influence of a horrible disease called France! And just because it is dying, choked by its own size, it does not mean that we ought to be drawn into oblivion! Anarchy! Rebellion! Chaos! Is this what you want for your villages? And is this what you want the bailiwick to become? A den of thieves, slimy cutthroats? The suburbs of a resplendent Empire like ours? As a representative of the Order I wonder how many of you I have to kill to save you from this risk: how many heads will be cut? How often will the Executioner polish that guillotine blade? How long does it take for you to realize which people you belong to? You will be forever this way, people of Bilzen? Halfway between two nations? Or will you line up on the front with us, when the time comes? Do you want to gain independence, like the settlers did with the English in the Americas? Good! Great! But first you have to choose who to have as a friend: if you line up with France, we will invade. If you line up with us and then rebel against our domain, the French will stab you in the back! Mr Klausser, schneidet den Kopf Lieutenant Hendriak! They told me that in this bag there is something that I must see, and if I look inside no one will dare ever again oppose my power. But I do not need something like that; I will rule for the Order until the end of my days and swear that if anyone gets between me and you he will end up like Lieutenant Hendriak. I must apologize to Monsieur Claes because I unfairly doubted him despite his loyalty validated by time, and he was the one to urge me to make this speech, to take the position that I have not taken so far, touched by your poverty.
The head of Hendriak will be exhibited on the way to Alden Biesen to reiterate this concept toyou wicked people: from now on, those who do not comply with the imperial laws will die!
And now, this bag can burn with your curiosity!
More info on: www.e-darts.eu
Disclaimer: This project has been funded with support from the European Commission. This publication reflects the views only of the InHerit consortium, and the Commission cannot be held responsible for any use which may be made of the information therein.