Marzia Camarda - Maree

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Copyright Š 2017 Edizioni Milella - Lecce ISBN 978 - 88 - 7048 - 644 - 5

Edizioni Milella - Lecce

Viale M. De Pietro, 9 - 73100 Lecce Tel. e fax 0832/241131 Sito internet: www.milellalecce.it email: edizionimilellalecce@gmail.com Progetto grafico copertina a cura di Sabrina Mercaldi Impaginazione: Emanuele Augieri


MAREE A cura di Marzia Camarda



INDICE

Premessa pag. 7 Maria Luisa Toto

Presentazione

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Introduzione

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Vittoria Tola

Marzia Camarda

Lettere Bruna Anna Miriana Paola Giulia Gabriella Gloria Clara Serena Valeria Piera Irene Isabella Filomena Enrica


Antonietta Beatrice Elena Carmen

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PREMESSA

E voi come il volo delle farfalle ritornate libere, e noi tutte, volontarie di noi stesse. La vostra storia di violenza diventa la nostra storia in quanto donne. Prendersi per mano, andare lungo il percorso di ribellione e liberazione insieme, affinché la vita delle donne, segnata da un destino che altri hanno scelto, diventi consapevolezza che rende possibile il nuovo progetto di vita. Era il 1998 quando questi pensieri turbinavano nella mente di un gruppo di donne e che via via prendevano la forma dell’associazione Donne Insieme e della sua gemmazione Centro Antiviolenza Renata Fonte. Ci si pone l’obiettivo di promuovere sul territorio la cultura della legalità, la cultura della nonviolenza. Donne avvocate, psicologhe, educatrici, assistenti sociali, scelgono di impegnarsi nell’aiuto ad altre donne esprimendo le loro precipue competenze attraverso un modello professionale istruito alla cultura di genere. Su un territorio fortemente tradizionalista, ancorato a una visione patriarcale, si inizia a lavorare sulla percezione della violenza maschile contro le donne, sulla prevenzione e sulla sensibilizzazione; si inizia così ad affinare un modello d’intervento a più dimensioni per affrontare, contrastare e conoscere la violenza sulle donne. Nella relazione d’aiuto tra donne si individua il punto di forza: e la storia di Bruna, Anna, Miriana e le altre diventa narrazione comune, condivisione. Le parole, le emozioni si confrontano e il punto di vista giuridico, psicologico, sociale, s’interseca7


no e costruiscono saperi, competenze, visioni che sostengono e nutrono il processo di fuoriuscita dalla violenza di Bruna, Anna, Miriana e le altre. Cominciamo a liberarci dalle paure, dalle vergogne, dalle solitudini, da quel senso di colpa che ci attanaglia, ci inibisce, ci fa sentire piccole, impotenti, che ci soffoca e ci schiaccia. Insieme, ce la faremo a superare gli ostacoli che loro, gli uomini, frappongono tra noi e la nostra forza. Non più sole! Insieme, nella stanza del pronto soccorso per trasformare le ferite sul corpo in una forza per l’anima Insieme, nella sala asettica delle forze dell’ordine, per tramutare l’urlo di dolore della denuncia in un progetto di emancipazione dalla sopraffazione e dalla prevaricazione Insieme, in quell’aula grigia di tribunale per far sentire il coraggio delle proprie parole per riprendersi serenità e giustizia Insieme, in Gruppo, dove la condivisione diviene autodeterminazione, empatia tra donne, per guardare e guardarsi con gli occhi di un’altra e liberarsi dal vincolo del proprio limite Insieme per le strade, per le piazze, nelle case per rivendicare il diritto alla libertà Insieme, nelle stanze del Centro, per ricostruire un nuovo progetto di vita Insieme, tutte le operatrici, intorno ad un tavolo, per sciogliere a più mani i nodi che ingabbiano la storia della Donna Insieme, come la forza delle maree. Maria Luisa Toto

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PRESENTAZIONE

Le maree nella tradizione mediterranea sono strettamente legate alla forza delle acque e alla forza che la luna esercita su di loro. La luna è anche legata al ciclo mestruale e alla differenza delle donne. Alla loro potenza generativa e rigenerativa. Una potenza difficile da comprendere e disciplinare ma gli uomini ci provano da secoli in varia forma anche con la violenza. Anche nel mondo moderno così consapevole delle leggi scientifiche che spiegano i fenomeni naturali ma che non colgono più i collegamenti mitici e simbolici con le donne. Soprattutto se non hanno potere politico e divino. Ma solo la loro forza, la loro vita e i loro sogni. Che molti uomini cercano di distruggere. Ogni giorno in tutto il mondo e in ogni città d’Italia molte altre donne cercano di impedirlo o di aiutare a fermare questo disastro umano. A volte ci riescono. Un movimento che somiglia a una marea incessante e senza fine! In questa pubblicazione sono presentate 15 lettere di donne diverse tra di loro che raccontano la loro storia di fuoriuscita dalla violenza del loro marito o compagno o dallo stalking persecutorio di un amico inimmaginabile. Quindici lettere di ringraziamento scritte per testimoniare l’importanza che il Centro Renata Fonte e le sue operatrici hanno avuto nel contribuire a indicare una strada di liberazione credendo alle loro parole, accogliendo con serietà e partecipazione i loro racconti, le richieste esplicite e inespresse, aiutando queste donne a costruire una visione critica delle loro relazioni e di possibile autonomia a chi si aggirava da anni in un inferno matrimoniale o di convivenza con i loro figli. Quindici lettere che sono insieme la documentazione essenziale di come ognuna possa finire in un girone infernale di sevizie e maltrattamenti quotidiani di 9


tutti i generi delineando contemporaneamente il singolo ritratto di 15 uomini violenti. Diversi per età, per estrazione sociale, per scolarizzazione e professione, lavoratori o professionisti di varia natura, emarginati per droga o ludopatici, tutti apparentemente diversi e tutti portatori di una cultura comune (una mentalità, una credenza si direbbe) nei confronti della moglie, della loro compagna di vita e di come credono di avere il diritto di esercitare un potere senza limiti su di lei e sui loro figli. Incuranti di qualunque conseguenza e di qualunque responsabilità, convinti di essere onnipotenti e intoccabili. Sono 15 storie che, pur nella loro sintesi, raccontano anche di rapporti sociali e familiari più ampi e delle diverse reazioni di solidarietà che nelle cerchie familiari si creano o delle realtà che si nascondono davanti alla violenza di un loro congiunto. Sono racconti brevi di come queste storie esistono nell’entourage sociale in cui queste persone sono immerse e della relazione o mancata relazione con le istituzioni a partire dalla giustizia, del bisogno di una legge giusta desiderata e pensata dalle donne e non agita se non in pochi casi. Per mancanza di fiducia in sé ma anche nella polizia o magistratura, per vergogna, per disillusione di chi crede di non aver diritti oltre essere moglie di un uomo e sua proprietà, madre con dei doveri, figlia ferita o inadeguata ma non cittadina pur nell’incredulità profonda e inesprimibile di trovarsi loro, in questo tempo moderno di diritti e libertà, a vivere una simile condizione. Merita una sottolineatura la differenza di comportamento solidale di genitori e famiglie rispetto alle figlie anche quando pensavano a una loro scelta sbagliata e l’assenza, quando non la complicità, delle famiglie dei maltrattanti. Infine sono 15 storie di liberazione e riscatto di sé grazie a risorse profonde che hanno saputo recuperare per sé e per amore dei figli che queste stesse donne ritrovano a volte per un incontro o un’informazione casuale, a volte per un pensiero a lungo coltivato per il loro rapporto con le persone meno descritte nei loro testi ma determinanti come le operatrici del Centro 10


Renata Fonte. È straordinaria la poesia di Carmen che riassume questa situazione di violenza domestica come l’esistere dentro un rete arrugginita in cui a un certo punto si vede un buco e da quel buco si riesce a evadere da quel campo di prigionia interiore ed esteriore verso una nuova vita. Anche per chi come Gabriella pensa che la sua vita riassunta in due date sia stata una resistenza (1986-2016 trent’anni di sguardo chiuso alla realtà. E non mi sento vittima, ho solo pensato di poter resistere) da lei decisa con un’idea di orgoglio potente che basta a mettere in discussione qualunque idea di vittima senza scampo. Possibilità non semplice ma possibile e le operatrici sono presentate, lettera dopo lettera, come il tramite del passaggio traumatico e rigenerativo del loro riscatto, come qualcuna che ascolta, capisce e indica un percorso comune di solidarietà e di condivisione sociale dell’ingiustizia patita e del diritto alla libertà e alla serenità di una vita scelta e di diritti esigibili. Il riscatto diventa così possibile perché si rompe la cortina della paura e del silenzio, la paura della vergogna soprattutto di fronte ai figli, e dell’impossibilità di continuare nell’infelicità silenziosa che si manifesta con parole e grida che non trovano mai risposta nei violenti. Una situazione che loro infrangono quando capiscono di poter dover contare su se stesse e su altre e cominciano a scegliere le parole che raccontano la violenza subita oltre il grido e il silenzio che le circonda nei rapporti coniugali che, progressivamente e contro ogni tentativo, si sono rivelate relazioni impossibili per sé e per i propri figli con uomini, che pur apparentemente diversi, sembrano tutti vivere in una preistoria senza tempo o in una sorta di autismo anaffettivo compiaciuto anche quando il disastro di cui sono protagonisti è evidente. Uomini che dell’umano hanno tutte le miserie e nessuna capacità. Apparentemente normali nella loro maggioranza ma tutti orgogliosi narcisi egocentrici o falliti che pensano alle loro donne come un mezzo per ottenere con la forza del terrore quello che non sanno ottenere altrimenti: si tratti di sesso, soldi, cure 11


quotidiane, gestione della famiglia. Uomini senza sogni a fronte di donne che li hanno scelti sulla base di un sogno affettivo, di un matrimonio felice per costruire una famiglia serena o con l’illusione di una relazione sentimentale gratificante dopo vuoti o fallimenti. Donne che poi fanno fatica a vederli nella loro realtà di uomini invecchiati senza mai crescere e incapaci di qualunque responsabilità anche verso i loro figli o di autoconsapevolezza di sé e, nel contempo, convinti di essere superiori e padroni di mogli, compagne e figli. Poi la presa di coscienza di non poter continuare in questa ordinaria infelicità, la consapevolezza di aver bisogno di aiuto e la decisione di rivolgersi alle operatrici del Centro Renata Fonte. Donne appassionate e non giudicanti con una competenza costruita con serietà partendo dal loro orgoglio di appartenenza al sesso femminile, con pochi mezzi ma capaci di un’immedesimazione che costruisce nel loro territorio reti e ponti con istituzioni a cui non permettono di essere sorde e lontane da questo dolore. Istituzioni in cui uomini e donne capiscono le loro parole di richiesta e il bisogno/diritto di rispondere a chi ha chiesto aiuto per riprendersi la sua vita e quella dei suoi figli. Attraverso il confronto e le parole che spendono tra di loro. Rompendo il silenzio e l’omertà prevalente. Perché ancora troppo è il silenzio che avvolge la violenza maschile. La domanda è perché? Nella sua opera “Dare forma al silenzio” Anna Rossi Doria ricorda che il silenzio delle donne, malgrado i secolari stereotipi sul loro troppo parlare, è antico, profondo, tenace. Il silenzio delle donne è stato particolarmente pesante nella sfera pubblica e nella sfera politica, che fu per secoli, insieme al diritto, il luogo della massima esclusione femminile perché luogo privilegiato della parola, pensiero e leggi maschili in cui troppo a lungo le donne furono escluse e anche quando, in età moderna, fu loro possibile entrare grazie alle loro battaglie, rivendicando parità e differenza e trovando così parole nuove per dare appunto forma alla loro 12


esistenza, ma scarse furono le parole sulla violenza. Non è un caso che di violenza maschile come problema politico si cominci a parlare solo dalla seconda metà del ‘900, cominciando nel dopoguerra con gli stupri di guerra e poi mettendo in discussione le norme del Codice Rocco che di fatto la legittimavano e la minimizzavano in ambito familiare e nei tribunali attribuendo alla donna tutte le responsabilità. Il luogo pubblico e privato in cui il potere maschile, nonostante tante parole di condanna, continua ad annidarsi e a trovare giustificazioni e minimizzazioni nasce da lontano e trova ancora complicità potenti. Oggi sappiamo come il silenzio delle donne nella politica, che poi è la sfera pubblica per eccellenza sia dovuto non a una mancanza di sensibilità dei singoli ma a una cultura politica e antropologica condivisa da secoli a cui la filosofia ha dato le basi fondamentali che ha marcato le nostre istituzioni e impregnato le idee collettive ancora oggi, pur in un mondo estremamente diverso da allora. Questo è dovuto al fatto che la politica, come ci ricorda con “Il femminile negato” Adriana Cavarero, che nasce nell’antica Grecia come un patto omosessuale tra uomini, è un patto fondato sulla morte e sulla violenza che, nel momento in cui sancisce la supremazia maschile e fonda la comunità secondo le sue leggi, esclude donne, schiavi e bambini sottoposti all’arbitrio maschile come diversi e di conseguenza inferiori. Nell’esercizio della forza e della violenza che della politica è fondamento, quindi dell’esercizio del potere che può dare la morte, questo potere “pietrifica” sia il violento che la vittima escludendo la capacità di un linguaggio comune e di un ascolto. Chi ha la forza non ha bisogno di parole se non per urlare e comandare anche in silenzio e chi è soggetto alla forza non ha parole capaci di dire la sua sofferenza e farsi ascoltare. Ce lo ha ricordato Simone Weil individuando l’Iliade come poema della forza e della violenza su cui è costruita la cultura dell’Occidente e come gli eroi dell’Iliade fatti di pietra trasformano in pietra le loro vittime, impossibilitate a resistere alla violenza e 13


a pagarne prezzi spaventosi come vedrà Cassandra senza essere mai creduta. I danni della violenza, della supremazia e del valore eroico maschile oggi demistificato è un rovesciamento di prospettiva che arriva dopo una lunga storia in cui le donne hanno dovuto tessere una tela infinita di oppressioni, sofferenze, saperi nascosti prima di mettere in discussione i principi fondamentali della cultura umana che nel potere maschile ha costruito i principi del suo pre-dominio fino all’età moderna. Neanche la moderna democrazia e la dichiarazione dei diritti delle donne come diritti umani hanno modificato quanto era necessario questo stato di cose perché la cultura millenaria maschile che ha modellato di sé leggi, costumi, tradizioni, credenze comunitarie e religiose, senso collettivo, abitudini e senso comune della vita, non può trovare in un secolo una modifica strutturale del vivere umano e decodificare come la violenza maschile sia parte costitutiva di ogni ambito della nostra cultura, ne scandisca modalità e idee, e non possa cambiare se non è inserita in un grande processo di cambiamento antropologico consapevole che non sia più maschiocentrico e accetti il valore della differenza e delle differenze. Situazione che vediamo quotidianamente quanto sia difficile e contrastata di fatto anche quando è apparentemente condivisa a parole. La Convenzione di Istanbul, votata nel Parlamento italiano all’unanimità nel 2013, non riesce, in Italia, come in altri paesi firmatari, a segnare lo spartiacque legislativo, culturale e politico su come concepire, vedere e affrontare la violenza maschile. Non riesce a costruire politiche e prassi capaci di affrontare la violenza maschile come una priorità strategica e culturale per cambiare l’ordine delle cose e dei poteri che la sostengono in pace come in guerra. Nonostante la mattanza quotidiana oltre le altre violenze strutturali. Per questo la violenza maschile considerata grave a parole continua a non essere contrastata nei tribunali, nelle leggi, nelle comunità, nei programmi scolastici, in tutti i saperi, continua 14


ad innervarsi nei comportamenti personali e nelle dimensioni matrimoniali pur modificate dalle leggi, nella famiglia, nella convivenza collettiva, nella comunicazione, nei social media e nell’immaginario collettivo costruendo anche nelle nuove generazioni comportamenti violenti come il bullismo e cyberbullismo, facendo si che di fatto rimaniamo esseri umani agiti da una cultura di cui continuiamo a conoscere poco e di cui sottovalutiamo il potere dentro il nostro immaginario e nella nostra mente. Le donne da decenni indicano in Italia, come nel resto del mondo, altre strade possibili e dimostrano nei fatti cosa sia possibile fare nei rapporti individuali e nei rapporti istituzionali cambiando la struttura di una cultura violenta. Che questo succeda in terra di Salento, nel nome di una straordinaria donna come Renata Fonte che ha pagato con la vita la sua libertà e la sua coerenza, e grazie a donne come le operatrici del Centro, anche per la passione indomabile di una Presidente come Maria Luisa Toto, che con una volontà immensa e mezzi scarsi non si danno per vinte di fronte a tutte le sfide che le donne pongono loro per uscire dalla violenza maschile, dimostra che le battaglie per la libertà delle donne sono ancora possibili e in atto. Nonostante tutti gli innumerevoli ostacoli che ogni giorno vengono imposti anche da chi dovrebbe essere in prima linea con le donne per una nuova civiltà nelle relazioni umane. Vittoria Tola

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INTRODUZIONE

Le donne vittime di violenza, sia essa fisica, psicologica, sessuale, economica o stalking, si trovano a dover affrontare vissuti di angoscia, vuoto, perdita di autostima dati dal protrarsi della situazione di violenza nel tempo e dalle conseguenze che essa porta inevitabilmente nelle loro vite. In genere, le donne che decidono di chiedere aiuto al Centro Antiviolenza “Renata Fonte” lo fanno dopo una lunga storia di maltrattamenti; ciò comporta che arrivino con un carico tale di vissuti, racconti ed emozioni che condiziona il loro percorso verso la libertà e l’autodeterminazione, percorso che prevede in parallelo un iter di supporto sul piano legale, psicologico e sociale. Sono diversi gli scopi per cui le donne vittime di violenza si rapportano con la scrittura. Uno di questi è legato al percorso legale: scrivono per chiarire i fatti, per riordinare cronologicamente tutti gli episodi, al fine di ricostruire anni di sofferenze e soprusi. Inevitabilmente ciò comporta una connotazione emotiva. A tal fine è fondamentale un parallelo percorso di sostegno psicologico. Il supporto psicologico ha l’obiettivo di individuare e valorizzare le risorse presenti nelle donne, ma che a causa della violenza subita e delle conseguenze che la stessa ha portato nelle loro vite, sono momentaneamente offuscate. Al contempo occorre imparare a riconoscere, accogliere e gestire le emozioni che accompagnano i vissuti. La scrittura diviene dunque un prezioso strumento, in quanto favorisce l’espressione e la narrazione della propria esperienza. Mettere nero su bianco la propria storia aiuta a mettere ordine ai pensieri e ad elaborare il proprio vissuto; favorisce un distanziamento emotivo che aiuta la donna a ricono17


scere se stessa come persona che ha subito e non come persona condannata a subire. Oltre le indicazioni che ci fornisce la pratica clinica, numerosi autori si sono occupati di indagare il ruolo della scrittura in situazioni di sofferenza, come mezzo di auto-aiuto. Tra questi un ruolo rilevante è da attribuire a Duccio Demetrio, che parla di “scrittura autobiografica”, una tecnica di scrittura (grapho) di una vita (bios) affidata al solo autore (autos). È una guida quindi per conoscere se stessi attraverso la narrazione di sé. Demetrio sostiene che “si scrive innanzitutto per darsi coraggio, per lenire il dolore, per sopportare l’angoscia, per addomesticare la sofferenza, se possibile, per dare senso e significato al vuoto esistenziale, per reagire a stati depressivi e alla solitudine, in definitiva si scrive per prendersi cura di sé”. Nell’ottica di Demetrio non si scrive per guarire; la scrittura non aiuta a dimenticare, ma al contrario fa emergere aspetti di sé mai esplorati e stimola un lavoro cognitivo ed emozionale al tempo stesso. (Demetrio, D. La scrittura clinica: consulenza autobiografica e fragilità esistenziali. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008). Nella nostra pratica, alle donne seguite in un percorso più ampio di sostegno psicologico, dopo una valutazione individuale al fine di individuare coloro che possano trarne beneficio, viene chiesto di scrivere la propria storia, sotto forma di lettera o di racconto. Non vengono date indicazioni o istruzioni precise. A volte, come riferiscono le donne che seguiamo, la pratica della scrittura è vissuta come occasione di sfogo e il racconto viene scritto di getto; altre volte come impegno, per favorire la ricostruzione della propria storia e l’espressione di emozioni e pensieri di cui non sempre vi è consapevolezza. La creazione di questo opuscolo ha dunque un duplice obiettivo: oltre l’utilità clinica della scrittura, per il percorso di sostegno

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rivolto alle donne stesse di cui abbiamo parlato finora, un ulteriore proposito è quello di sensibilizzare chi legge. Le lettere di seguito riportate sono state scritte da donne utenti dal Centro Antiviolenza “Renata Fonte”. In un’ottica di sensibilizzazione, l’utilizzo degli scritti delle donne vittime di violenza ha un forte impatto su chi li legge e li ascolta. Le storie di chi ha vissuto una situazione di violenza sono costellate di emozioni, che le donne ci trasmettono tramite le loro parole. Entrare in contatto con le loro emozioni favorisce l’immedesimazione e, quindi, l’ascolto empatico che è alla base della sensibilizzazione. Alcune sono state scritte da donne all’inizio del loro percorso, altre da donne ad un livello più maturo di elaborazione del proprio vissuto. Questo con l’obiettivo di raggiungere un più ampio numero di persone che possano, leggendo queste storie, comprenderle, riconoscere la storia e le caratteristiche umane di chi ogni giorno si trova ad affrontare e a lottare contro chi nega il diritto ad una vita serena e libera di essere vissuta. Recepire il messaggio vuol dire trasmetterlo, diffondere conoscenza e sensibilizzare gli animi delle persone con cui entriamo in contatto. Marzia Camarda

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