GenerAzioni di scritture anno IV, giugno 2018, n. 8

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generazioni di scritture

A questo numero hanno collaborato accadere culturale testi_Chiara Briganti Elettra Colazzo Serena Grande Mariachiara Longo Vittorio Petese

argomento in dialogo: Felicità in città_ Sergio Aversa Dario Marangio Elisa Giannaccari

accadere culturale musica_Francesco Colaci Luigi Lazzari accadere culturale sport_ Riccardo Ciccarese

rubriche: Riflessioni laterali_Paolo Leoncini La scrittura che gira intorno_Livio Romano Le parole_Marco Gaetani Nessuna (in)differenza_Silvia Cazzato LidoCultura_Marzia Pisanello

foto Vincent Paul Veri_pp. 9 GenerAzioni di Scritture. Rivista di cultura militante A cura delle Edizioni Milella - Lecce Anno IV - n. 8 - giugno 2018 REDAZIONE Direttore_Carlo A. Augieri Vicedirettore_Marco Gaetani Segretario di redazione_Riccardo Ciccarese Coordinamento recensioni_Elettra Colazzo Mariachiara Longo Progettazione grafica_Emanuele Augieri ABBONAMENTI annuale sostenitore_€ 50,00 annuale ordinario (cartaceo)_€ 16.00 annuale studenti (cartaceo)_€ 10.00 Contatti e info www.milellalecce.it www.generazionidiscritture.wordpress.com edizionimilellalecce@gmail.com tel./fax 0832.241131


anno IV ● aprile 2018 n. 8

editoriale “Felicità in città”

Intravedere… con lo sguardo che scruta Carlo A. Augieri

L

o sguardo appagante che più mi interessa e mi coinvolge, interessandomi profondamente, è quello che intravede il lievito intrinseco alla metamorfosi delle cose, delle vite, degli eventi: sguardo prospettico in senso soprattutto temporale, anzi in senso cronotopico; sguardo pure germinativo, che coglie il ‘sarà’ nell’‘è’ presente, come pure nell ‘è stato’ del passato… come pure nel ‘sarà’ stesso del prossimo futuro. Mi sono sempre scostato dallo sguardo della Gorgone: occhio che stabilizza e fissa, sguardo che pietrifica, vedendo solo la staticità estrinseca di ciò che guarda, rendendolo inerte nel non saper guardare senza il lievito dello scrutare: mi appaga, invece, ciò che manifesta il germe promissivo di quello che ‘premette’. Ad esempio, quando voglio sentirmi felice, vado all’ingresso di una scuola elementare prima della campanella di inizio delle lezioni: vedo i bambini che entrano di corsa con le cartelle nelle mani dei genitori; alcuni ritornano, perché vogliono riabbracciare, poi corrono verso l’aula a ritrovare i compagni. Mi regalano un’emozione indescrivibile i bambini di diverse etnie, in formazione con la cultura di ‘qui’, che colorano con le loro origini di ‘là’, e con le loro teste con sopra il cielo grande e comune, universale e particolare, solcato da fantasie che volano e da nuvole che passano, perché tutto viaggia nell’unico universale infinito in cui ogni essere diventa un plurale ‘siamo’ di comunità. Guardo con commozione le madri africane, cinesi, latine-americane, i loro volti calmi, sereni, felici per la scuola da offrire ai bambini, loro meta desiderata prima del viaggio… la scuola, il paradiso di ogni terra, nelle cui aule ‘accade’ il mondo, nelle cui biblioteche vibra il pensare del mondo, dalle cui finestre si illumina l’occhio del mondo e del cielo e delle nuvole che viaggiano e delle idee che migrano e tornano e della notte che viene, e noi tutti ‘simili’ nel dormire ad occhi chiusi, del sognare nel raggiungimento dell’alba che torna. Dopo questo guardare appagato, vado verso un altro agglomerato temporale, che appaga la mia nostalgia in cerca di idee che mi giungano dal passato. Arrivo fino all’Anfiteatro romano in Piazza Sant’Oronzo, un percorso sotto i portici, lungo le vetrine delle due gioielliere: da là guardo gli archi antichi romani e in corrispondenza la chiesa della Madonna delle Grazie. Nel creare una corrispondenza tra archi del teatro e nicchie della chiesa, il mio sguardo coglie un lievito appagante ‘dalla memoria’: una madre con il bambino guarda l’arena, il luogo ‘romano’ del vinto e del vincitore, dell’ucciso, del sopraffatto e del sopravvissuto, del pubblico che ride sullo sconfitto, nel mentre viene reso inerte e trafitto. La morte già accaduta, e si era nell’indifferenza; più spettacolare il morire nel dover avvenire, anche per volontà della gente e del potente. Trasformare il destino in scelta da destinare è stato da sempre lo spettacolo, che ha fatto chiudere lo sguardo alla sensibilità.

Poi, il tempo ha immesso sull’altezza della Chiesa, a guardare l’arena, una madre nell’eternità della Madonna delle Grazie: il suo sguardo ricompone l’infranto, riporta alla scaturigine dell’ ‘al di qua’ del vinto e del vincitore, cogliendo nella tenerezza l’inutilità di ogni vittoria, se causa la non vita di un uomo, ridotto a non essere più. Infine, con lo sguardo alla ricerca del benessere, che appaghi il mio animo nella diversità delle forme di vita, trovo per le strade un’altra realtà che mi fa lievitare il futuro già nell’ora in cui guardo: giovani che aprono spazi di lavoro e di incontro. Che, di fronte alla crisi che ci restringe e riduce, non vanno, né si lasciano andare, ma agiscono, si aprono, aprono possibilità, secondo il loro modo di gustare, creare, coltivare, far accadere, far emergere e succedere, far risultare traguardi, attraversando il loro mettersi in causa nel creare effetti e futuro. Nei giovani che intraprendono e che operano, costruendo il loro futuro da ‘qui’, comunicando con il più lontano di ‘là’, scorgo il lievito che cresce, la volontà che direziona, l’intelligenza che fa impresa, fa sorpresa. Il benessere non è una condizione passiva da ereditare, che viene donata alle generazioni giovanili; è, invece, la costruzione tensiva di ogni generazione, il fine generazionale dei giovani impegnati all’essere del bene, all’essere che sia un bene. Allo sguardo adulto il compito della non indifferenza, la vera cecità di ogni futuro: il ruolo, invece, di ‘ap-pagare’, più che di sentirsi appagati. Ossia, di contribuire con la propria esperienza di adulti al bene del ben’essere giovanile. Un contributo non un’eredità; un invito ad agire, non un far attendere il benessere che verrà regalato: il vero benessere è un dono tra bene ed essere, un invito a che ognuno sia nel bene a cui mira, contribuendo di sé, creando con gli altri nell’insieme colorato dopo la tempesta di ogni crisi. Di ogni meta, a cui guardare con sguardo appagato nel mentre il viaggio avvicina, pure da lontano.


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accadere culturale: TESTI

Il privilegio del ‘gusto’: spartiaque tra salvezza e condanna Le assaggiatrici di R. Postorino, pp. 288, Feltrinelli, Milano 2018 Serena Grande

R

osella Postorino torna sulla scena letteraria con un romanzo d’invenzione ambientato durante il periodo nazista, in un paese di campagna della Prussia orientale, nel quale la protagonista si trasferisce da Berlino, per sfuggire ai bombardamenti. A prima vista potrebbe sembrare il canovaccio di uno dei tanti racconti sulla memoria della Shoah, in realtà è molto di più. Ogni storia, infatti, comincia da un incontro; la pagina bianca è soltanto l’approdo di un “viaggio” intrapreso dall’autrice qualche anno fa, imbattendosi in un trafiletto di giornale che aveva raccolto la testimonianza di Margot Wölk,tedesca scelta, insieme ad altre donne, per “testare” la salubrità dei pasti di Hitler. L’idea del romanzo nasce per dare voce ad un aspetto inedito del nazismo, di cui Frau Wölk sceglie di liberarsi dopo novantasei anni di doloroso silenzio. Rosa Sauer, la ventiseienne protagonista del romanzo, è la trasfigurazione letteraria di Margot, nonché l’io narrante del racconto, che avviene da un tempo in cui tutto è ormai concluso. La storia di Rosa è un susseguirsi di ricordi, sensazioni ed interrogativi vividi e pressanti, che nemmeno la distanza data dalla memoria può attenuare. “Un gesto innocuo, mangiare, come può essere una colpa?” È la domanda più incalzante e ricorrente tra le pause del testo. Il leitmotiv della storia è, appunto, il cibo, confine sottile tra salvezza e trappola, vita e morte: “Alle undici del mattino eravamo già affamate […]. Quel buco nello stomaco era paura. Da anni avevamo fame e paura”. Questi ultimi rappresentano i poli opposti, la lente speciale con cui scandagliare l’universo interiore e psicologico dei personaggi e delle compagne assaggiatrici che lottano e stringono legami, nutrono sogni e speranze per cercare di restare vive in mezzo alle macerie del non-senso attraverso le cui storie Rosa, tra ricordi e sofferenze di gioventù, ricostruirà la propria, come un puzzle. Questi temi, molto cari all’autrice, scorrono tra le pagine con uno stile piano e limpido, ricco di sfumature per riflettere passioni e sentimenti proibiti che scuotono e coinvolgono il lettore, spingendolo a chiedersi. Fino a che punto il desiderio e la speranza possano vincere l’oblio e combattere i meccanismi spietati della Storia.

Come vi vorrei

La Casa sospesa nel tempo di G. Giampietro, pp. 245, Milella, Lecce 2016 Chiara Briganti

È

questo uno di quei libri la cui presentazione potrebbe, senza particolari vizi di forma, prescindere dalla trama, o quantomeno, tenerla da canto. Perché, che delle due parti in cui è tematicamente diviso, che una sia una breve parentesi formativa d’una quasi trentenne d’oggi, l’altra un resoconto memorialistico d’una pressoché trentenne dell’ultimo quarto dell’Ottocento, ed entrambe le storie, poi, risultino essere l’una decisiva per l’altra, anzi, l’una figura dell’altra, non è così importante render conto in questa sede. Non lo è quanto concentrarsi sull’occhio dell’autore e l’estensione del suo campo visivo. Come non rilevare che Giampietro i destinatari li ha selezionati in base ad un orizzonte d’attesa totalmente sovrapponibile al suo, che si compiace, con paterna bonomia, di guardare carezzevolmente dall’alto una gioventù un po’ irrequieta, ma profondamente buona, notevolmente istruita, educata al bello, la cui unica colpa sembra essere il tentennamento del cuore. Per il resto, il libro è autosufficiente; c’è tutto: un’enigmatica casa brindisina che raccorda i destini dell’eroina d’oggi e di quella di ieri (una giovane profuga russa vessata dalla sorte e da un aguzzino), un canone di locazione straordinariamente conveniente in quel di Verona con giardino dei misteri annesso, soprattutto, dei personaggi così ben ideati da assolvere ciascuno ad un compito finito. C’è la migliore amica che dissipa i dubbi e con cui dialogare citando Byron e Cicerone, il marpione peregrino con l’allure dell’artista, un inventario spettacolare di accessori moda. Sembrerebbe un Vademecum per ragazze (già) perbene, per imparare quel tanto di ginnastica del cuore necessaria a uscirne consapevoli, mature, ancora fresche, non certo corrotte, giammai pentite. È però una contemplazione serena, o forse un auspicio, che viene direttamente dal mondo dei padri buoni, che guardano con tenerezza stupita questi giovani che non sanno raccapezzarsi. Che però, alla fine (e forse qui l’auspicio conviene abbracciarlo tutti) riescono esattamente come li vorrebbero.


anno IV ● aprile 2018 n. 8

accadere culturale: TESTI

Ciò che conta è all’interno! Vénti sul quadrante di E. Carpegna, pp. 134, Milella, Lecce 2016 Anonimo

I

mpossibile non simpatizzare col commissario Piccinni, il protagonista di questi 15 racconti – che poi sono più che altro storie allacciate fra loro, quasi episodi di un unico vasto racconto, scritto con stile scorrevole, paratattico, eppure lessicalmente ricercato, impreziosito da termini desueti e filosofici. Impossibile non intenerirsi davanti alle sue effusioni di solidarietà verso i diseredati, alla sua contrizione per il dolore di una donna, tale da spingerla al suicidio, alle sue riflessioni malinconiche nell’osservare l’anziana cagnetta che, impotente in un mondo di umani, lo guarda con un’interrogazione dolce negli occhi acquosi. Eppure non si è nemmeno sicuri che il protagonista risponda effettivamente al titolo e nome di commissario Piccinni, dal momento che nel sesto episodio di questa piccola saga psicologica un flashback finale ce lo presenta come prof. M*** Il suo credersi un altro sarebbe dunque frutto di un delirio, di una comprensibile illusione da malato, o un gioco consapevole tra sé e gli immediati prossimi, l’infermiera, l’Artefice (come lui solennemente chiama il barbiere) e quelle poche altre figure che punteggiano la sua solitudine di allettato? In fin dei conti, come ammonisce l’autore stesso nell’Avvertenza iniziale, la risposta a questa domanda è irrilevante. Ciò che conta è all’interno, nell’intimo del nostro personaggio: il suo mondo interiore, coi suoi cunicoli e le sue ombre, come le definisce eloquentemente l’autore. Si delinea nel buio di queste ombre un’ampolla piena di sfumature, significati molteplici a cui le parole si aggrappano come grucce al filo del pensiero, non potendo percorrerlo direttamente. Si attivano corrispondenze costanti. Il contenitore rimanda al contenuto, i cui svariati elementi a loro volta si rimandano fra di loro: l’enigmaticità dei racconti trova riflesso nella passione del protagonista per la settimana enigmistica; la sua decadenza fisica diventa la decadenza eterna di Roma; il suo sentirsi vecchio diventa un tutt’uno con la vecchiaia del mondo. Una girandola metonimica abbraccia nel suo ruotare l’io del protagonista e gli elementi del cosmo. Si spazia dall’Io al Tutto, Tutto che si condensa in primis nella sfera del verbale. Le parole, i nomi – tanto importanti da dare il titolo a uno dei racconti – sono l’ossessione del commissario, la sua unica via d’uscita da un universo mentale così frastagliato da minacciare di esplodere in un turbinio di cocci informi. I pensieri sono gli aguzzini della sua tranquillità, che la ripetizione ossessiva dei nomi – specialmente dei nomi propri – può, se non annientare, quantomeno tenere a bada. E forse quell’aguzzino in cui si identifica uno dei doppi del protagonista, nel racconto a lui intitolato, non è altro che la parte pensante del suo io, quella che tenta spasmodicamente di annichilire con i trastulli delle parole crociate e l’accumulo indiscriminato di tassonomie, ma che, nonostante questi sforzi di indicizzazione e dunque organizzazione del reale, si ricava un suo spazio di illogicità non catalogabile, penetrando a viva forza nella dimensione incontrollabile del sogno. Un prodotto singolare degli sforzi catalogatori del protagonista è il pensometro, ovvero un misuratore dei pensieri: tale è la sua paura di precipitare nel caos delle idee da tentare di ordinarle in una tassonomia precisa. Questa paura, lungi dal risparmiare noi lettori, ci coinvolge anzi tutti, ci ghermisce fra le sue grinfie. Anche per questo viene spontaneo solidarizzare col protagonista, a dispetto della sua apparente imprendibilità, del suo essere scisso in diverse personalità, dei differenti nomi che gli vengono attribuiti in vari punti del libro. Insomma, nonostante la sfilacciatura caratteriale di questo personaggio bizzarro, è facile identificarvisi, poiché anche noi siamo fondamentalmente sfilacciati, personalità multiple accozzate forzatamente in un’identità univoca. Tutto, nel libro, è simbolico. Sulla questione se i simboli siano esercizi deliberati o vaneggiamenti partoriti da una mente delirante, il libro lascia la risposta sospesa. Pur essendovi per protagonista un (presunto) commissario di polizia, di giallistico in senso stretto vi è poco: mancano il vivo delle indagini, le risoluzioni dei casi e spesso i casi stessi. Ma il libro non intende profilarsi come un thriller, anzi sembra mirare all’assenza di azione, all’enucleazione del vivo pensiero per sottrazione. Non intende tenere il fiato sospeso, bensì, come già accennato, le risposte. È più un libro di domande aperte che di risposte concluse: trasporta l’incompiutezza di Pessoa nella confezione formale di Antonio Tabucchi, con l’iniezione incessante di un onirismo vivido e zigzagante, a metà fra le atmosfere kafkiane (di cui il racconto “Il Tribunale” evoca dichiaratamente “Il processo”) e allucinazioni che rimandano all’universo visivo di David Lynch.


RUBRICA

generazioni di scritture

Riflessioni laterali Segmenti visivi di Emilio Cecchi: Rubrica ◆

New York, Mexico City, Olimpia Paolo Leoncini

Queste riflessioni derivano dalla ri-lettura del mio libro Emilio Cecchi: l’etica del visivo e lo Stato liberale, edito da Milella nello scorso ottobre: un libro non è un fenomeno statico, compiuto, passato, per l’autore: deriva da un terreno di ricerca motivato da interrogativi e da ipotesi; è l’attestazione provvisoria di alcune possibili ‘risposte’ , di alcune possibili ‘verifiche’; è la versione di un processo di ricerca ,di scandagli, di confronti: processo che, mentre si compie, apre ad ulteriori interrogativi ed ipotesi, crea ulteriori aperture. «Ri-leggere» il proprio libro significa non già crogiolarsi negli esiti raggiunti,ma trovare i nuclei irrisolti, i rischi ermeneutici seguiti nel corso dell’indagine e vederne i risvolti nuovamente interrogativi, ri-propositivi. Il mio libro riguarda Emilio Cecchi (Firenze, 1884Roma 1966), autore mitizzato nel ‘900 letterario, ma sostanzialmente spesso incompreso (se si eccettuano i sondaggi critici di Contini, Bigongiari, Ferrata, Falqui, negli anni ’30; e, quindi di Geno Pampaloni, Pietro Citati, Alfonso Berardinelli, e di pochi altri studiosi recenti), in quanto facilmente codificato come ‘principe della prosa d’arte’, ‘esponente tipico del gusto rondista’: etichette lontanissime dai moventi dell’essay pluridimensionale di Emilio Cecchi: dalla critica alla prosa ai reportages di viaggio (in Messico, in Grecia, negli Stati Uniti, in Africa); dalla critica italiana alla critica angloamericana, francese, alla critica e alla storia dell’arte: nei confronti di questa pluridimensionalità, unica nel ‘900 italiano, è prevalsa l’attenzione formale all’‘impeccabile stilista’: ‘formula rilevata, da Gianfranco Contini, già nel ’41, come un sostanziale fraintendimento critico, per malafede o per superficialità interpretativa; adottata come espediente di copertura di tutta la ricerca critica dell’autore fiorentino sul terreno del nesso, tra la ‘visività assolutamente privilegiata’ e la ‘moralità essenziale’, di cui scriveva Contini nel ’32: che implica, per Contini, attraverso un’‘ascetica nuova’, una ‘nuova conoscenza’. Dal nesso tra visività ed eticità derivano, nella scrittura cecchiana, istanze alternative alla verbalità letteraria novecentesca (in Cecchi – scrive Enrico

Falqui – ‘ogni gravame letterario è messo da parte’). L’immagine visiva è intesa come limite dell’impatto sensibile-emozionale della percezione: gli ‘oggetti’ – come scrive Piero Bigongiari – costituiscono un limite visivo-plastico- tattile ad una percezione che tenderebbe all’ origine, al primordio, all’illimitato, all’infinito: l’immagine, la metafora visiva, si forma nello spazio tra la percezione e l’oggetto, il fenomeno, la figura. La percezione, sostenuta dall’istanza di svelare il mistero della Natura, si traduce nella metafora visiva: che costituisce l’evento epifanico del ‘vero’ della Natura, ma lasciandone intatto il mistero.La Natura è percepita nell’arte classica – i cui poli sono costituiti dalla Atene del IV-V secolo e dalla Firenze umanistica e rinascimentale, paradigmi fondanti, per Cecchi, autore sostanzialmente ‘anti-moderno’ – nelle rivelazioni mitico-creazionali; oppure nelle rivelazioni demoniache, sotterranee – che la tragedia greca esorcizza, rappresentandole – dove si annida il sottofondo irrazionale della Natura, sotto le apparenze della realtà: una Natura intesa in senso pre-cristiano e pagano, nettamente antirousseauiano. Contini rileva come la percezione del sottofondo demoniaco, irrazionale, della Natura, sia sempre presente in Cecchi, (quello che Contini chiama il ‘libro segerto’ di Cecchi), in concomitanza con la tensione ai «valori mensurali e limitativi promessi dalla forma». Si tratta di un autore antirealista, oltre che anti-letterario: non vede la realtà secondo le apparenze, ma secondo il movente di cogliere l’essenza misteriosa della Natura, dietro le apparenze. L’immagine visiva è la traduzione, nella coscienza dell’autore, del fenomeno percettivo, che tende a svelare il mistero della Natura, nei termini metaforico-plastici-visivi: secondo un processo che, in termini semiologici, potrebbe dirsi di transcodificazione. L’immaginativo precede l’intellettivo, lo rende secondario: ovvero, la «transcodificazione» del percettivo-sensibileemozionale nel metaforico-visivo-plastico, costituisce già una comprensione che oltrepassa i fattori riflessivo-concettuali del pensiero; infatti, come scrive Ferrata, in Cecchi «l’atto naturale del pensare è disperso tra le cose»: ovvero, le


RUBRICA

cose, i fenomeni, gli oggetti, costituiscono il limite di una percezione che tende a svelare il mistero soggiacente alle cose, agli oggetti , per cui il ‘pensiero’ si traduce dalla percezione in metafora, e in questa ‘traduzione’ si ‘disperde’, si innerva nelle immagini. Il mio libro è sotteso dall’interrogativo circa il rapporto tra Natura e arte, tra Natura e poesia: Cecchi concepisce l’arte, la poesia, come rivelazione del ‘vero’ della Natura …L’arte classica – i cui vertici sono costituiti dalla tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide; e dall’architettura del Partenone- è assunta quale «principio incancellabile»: è un evento di rivelazione che lascia intatto il mistero della Natura. L’immagine è ‘imitazione’ del ‘vero’: cerca, di volta in volta, il nucleo originario, mitologico, nonrealistico, della Natura: come dice il Leopardi, nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, le ‘immagini figurate’ di Dante sono ‘il cuore del poeta’, ‘la sensibilità in persona’; derivano dall’universalità dell’umano, non dalla contingenza individualistico-realistica del contingente, del patetico,dello psicologico, come volevano i romantici (il Di Breme, a cui si riferisce Leopardi). Sarà, per Leopardi, la ‘meraviglia’, non l’’evidenza’ ad animare l’imitazione. Cecchi intende a cogliere il manifestarsi del ‘vero’, traducendolo in metafore visive: considera la parola verbale, la parola letteraria, come il pensiero, inaderenti all’essenza veritiera della Natura , così come può essere percepibile, e traducibile, nell’impatto sensibile-emozionale.Il mio libro , allora, è sostenuto dalla perlustrazione dei modi attraverso cui il visivo si traduce metaforicamente nel verbale, nella prosa e nella critica di Cecchi. L’interrogativo circa la ‘traduzione’ metaforica del ‘visivo’ nel ‘verbale’, ci sembra il movente ermeneutico essenziale, rispetto alla prosa e alla critica di Cecchi. Ci riferiamo, dunque, qui, a tre esempi di trasformazione della percezione in immagine: il primo esempio riguarda il formarsi dell’immagine di New York (in America Amara, da Nuovo Continente, Firenze, Sansoni, 1958, p. 297), dove la soglia percettiva (l’‘aria’ ‘preziosa’ e ‘crudele’ ‘come un diamante’; ‘i colori di tutte le cose fanno un gran salto per venire più avanti che possono’) già rivela l’innaturalità dell’artificio che si traduce in una ‘succulenza visiva’, materica, viziata dall’artificio, e inimitabile in pittura, in quanto, in termini artificiali, radicalmente anti-classici,la realtà è gia ‘quadro’: ‘il quadro è già cosi’ vividamente dipinto’; ma riproducibile dagli ‘scrittori’, ‘i quali con pochissimi tocchi risentiti, spesso riescono a far rifiorire nella nostra memoria i segni che le cose vi avevano

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impressi’: l’inimitabilità pittorica è compensata dall’evocazione della scrittura: che, mentre non ha il compito di svelare ‘imitativamente’ il ‘vero’ della Natura (Natura che qui è sostituita dall’artificio), come la pittura, può avvalersi della mediazione di ‘secondo grado’ della metafora, richiamandosi alla ‘memoria’ del lettore: e qui Cecchi manifesta una concezione iconica dell’immagine, affine alla ‘icona verbale’ di Paul Ricoeur. Il secondo esempio riguarda ‘i teschi in cristallo di rocca del Museo di Mexico City’ (in Messico, in Nuovo Continente, cit., pp. 104-105), che sono tutt’uno con la naturalità arcaica del Messico, ‘con la sua orrenda religione’, con ‘il suo [dell’ignoto artista] modo nativo di sentire il mondo’: la percezione diviene intensamente corporea: ‘… si sente dentro alla carne la nostra macchina geologica che risponde col suo gelo a quell’algore soprannaturale’: le immagini plastiche sono ben lungi dagli ‘indovinelli letterari di Picasso e di De Chirico‘, i quali ‘Non videro che più l’arte aspira a suggestioni essenziali e ad una estrema rarefazione della materia, e più occorre che il terreno sia naturale e imperioso: un luogo comune del sentimento , da investire e saturare, senza possibili evasioni, la capacità emotiva dello spettatore’. Il terzo esempio riguarda Olimpia ‘in Et in Arcadia ego, da Saggi e vagabondaggi, Milano, Mondadori, 1962, p. 755), dove l’arte classica diventa tutt’uno con la Natura; dove si crea una permeazione tra Natura, arte e umanità; dove la percezione («quanto vedevo») è come ‘il prodotto di un’unica mente, d’un’ispirazione sola. Mi pareva di trovarmi dentro un’opera d’arte, tutta ordinata e consapevole ; e che anche la mia commozione vi fosse trasfusa e ne facesse parte; né più né meno dei chiaroscuri del cielo e delle severe sfumatire dei colori, delle membrature d’un ordine di pilastri e del disegno d’un meandro; o del lento muovere della pastora laggiù, che raccoglieva stecchi pel suo focolare, seguita passo passo da una capretta rossa» . Nei tre riferimenti testuali, il momento percettivo (a New York , l’aria-diamante; i colori di tutte le cose; a Mexico City, la macchina geologica che risponde all’‘algore soprannaturale’; a Olimpia, l’opera d’arte in cui si trasfonde ‘la mia commozione’) contiene già in sè l’immagine, è il crogiolo dell’immagine; rende in parole l’impatto sensibile-emozionale, esaustivo del senso: percepito nei vertici del ‘moderno’, artificiale; dell’arcaico, nativo, originario; del classico, dove vicendevolmente si permeano natura, arte, umanità.


argomento in dialogo: FELICITÀ IN CITTÀ

Felicità in città ◆ Sergio Aversa

A

generazioni di scritture

Ottimismo o provocazione?

scolto in macchina le ultime notizie del giornale radio e, come spesso accade, non sono per niente buone. Un italiano su quattro è ormai da considerarsi povero, la disoccupazione giovanile è in aumento, cresce il divario tra il nord e il sud. Poi arrivo a casa, apro la posta elettronica e trovo la mail della nostra rivista contenente l’argomento che la Redazione vorrebbe trattare. Titolo: Sguardi diversamente appaganti. Viaggio nel Salento alla ricerca del benessere. Ottimismo esasperato o provocazione? È questa la domanda che mi sono posta subito. Senza voler impedire a nessuno di sognare o di volare alto cercando appagamenti vari, benessere e felicità, mi accontenterei, per il momento, di andare alla ricerca anche solo di una “condizione di normalità”. Infatti anche se è vero che la normalità viene spesso intesa come una sorta di benessere dei poveri, è pur vero che la stessa ti consente di vivere serenamente senza situazioni di disagio e di logorante ansietà. La domanda che allora per il momento mi porrei e, ripeto, sempre senza togliere a nessuno il diritto e la voglia di aspirare a traguardi sempre più alti, sarebbe quindi: può il nostro territorio con le sue peculiarità (nel bene e nel male), assicurare a chi ci vive (e soprattutto ai giovani) la costruzione programmata di un futuro fatto quantomeno di normalità? Un territorio, quello nostro, cui la geografia non da certamente una mano! E se il Salento è più vicino all’Africa e la Lombardia è più vicina alla Germania, è ovvio che la colpa non è di nessuno! Ma forse qualcuno qualche colpa ce l’ha, se una persona, che da qui voglia spostarsi per un motivo qualunque, dovrà necessariamente fare i conti con maggiori costi e con grandi disagi di frequenze, di orari e di qualità dei servizi. E tutto questo ovviamente non vale solo per le persone ma anche e soprattutto per le merci. Perché tutto ciò che noi produciamo o coltiviamo o costruiamo e riusciamo a piazzare su un qualsiasi mercato che non sia quello locale, nasce già con un handicap pesantissimo dovuto appunto alla maggiore incidenza del trasporto. Allora: cari tutti quelli che noi deleghiamo per garantire i nostri diritti, invece di fare false promesse che poi non sarete in grado di mantenere, non potreste fare in modo di avvicinare il sud al resto d’Italia (quante volte l’ho sentito dire!), facendo in modo che questi maggiori e non evitabili costi, possano essere abbattuti o, meglio ancora, annullati? I sistemi ci sono, sono semplici e voi li conoscete benissimo! Detto questo, e dando per scontato che le opportunità offerte da un territorio per costruire qualcosa di buono, non possono ovviamente essere il concorso per 5 posti e 10.000 concorrenti, la raccomandazione fatta dagli amici degli amici o le botte di culo delle start up che trovano uno sbocco pratico, è noto a tutti che le uniche vere risorse di questa terra sono

il turismo e l’agricoltura. Forse ci siamo stancati di sentirlo dire, ma è la sacrosanta verità. Ma dirlo e ridirlo, sentirlo e risentirlo dire è servito forse a qualcosa? Visti i risultati direi proprio di no! Campagne inflazionate dalla vite e dall’ulivo, migliaia di ettari lasciati a pascolo dove non pascola nessuno, latifondi imperiali e improduttivi a perdita d’occhio, le coste distrutte dall’abusivismo, dalla fatiscenza e dalla mancanza di manutenzione di strutture e infrastrutture, il caso Gallipoli che allontana il turismo vero, tanto per citare solo alcuni esempi. Parlare di turismo e agricoltura, non sembri allora scontato e riduttivo, perché dietro quelle due parole si aprono scenari di grande e complessa eterogeneità che, con i tempi che corrono rispondono alla più grossa fetta di mercato della domanda. Staccare la spina delle proprie occupazioni (magari riuscendo anche a divertirsi un po’) e nutrirsi (nella maniera più sana e gustosa possibile), sono infatti, insieme alla voglia di muoversi (comodamente) le tre cose di cui l’uomo non farà mai a meno. Allora queste peculiarità territoriali, non devono essere solo un modo di dire, ma una risorsa reale. Ma perché diventino tali, necessitano di grande riorganizzazione, di capillare informazione e di importante preparazione specifica. Politica e preparazione dovrebbero perciò giocare un ruolo fondamentale. Dico dovrebbero perché, a tutt’oggi, nell’Università di questo territorio, mancano proprio quelle facoltà che dovrebbero preparare gli addetti ai lavori: Scienze Agrarie e Scienze del Turismo. Dico dovrebbero, perché le politiche agrarie varate per questo territorio sono state in grado di partorire solo il latifondo incolto e la xilella. Dico dovrebbero perché il Salento (la terra dei due mari!) non si è ancora dotato di un piano delle coste! Ecco per portare un po’ di benessere (o di normalità) in questa terra che potrebbe essere “madre”, ma per il momento riesce ad essere solo “matrigna”, forse bisognerebbe cominciare proprio da quello che abbiamo appena detto. Una migliore politica di mobilità per le persone e per le merci, normative e opportuni finanziamenti per la diversificazione delle colture e per la coltivazione delle terre non utilizzate, l’istituzione di facoltà universitarie specifiche, la pianificazione programmata per il miglior utilizzo ai fini turistici, delle coste e dell’entroterra. E qui, anche per motivi di spazio, devo purtroppo chiudere. Ma non prima di aver fatto un appello che rivolgo prattutto ai giovani. Fatevi sentire! Gridate problemi e soluzioni! Perché se non lo farete, quando “qualcuno” cercherà di circuirvi facendo finta di interessarsi ai vostri problemi magari con la domanda: “Che fate di bello?” e voi giustamente risponderete: “Andiamo a cercare fortuna da qualche altra parte!”, c’è anche il rischio che vi sentiate rispondere: “Ah! come mai?”.


argomento in dialogo: FELICITÀ IN CITTÀ

anno IV ● aprile 2018 n. 8

Sguardi diversamente appaganti: viaggio nel Salento, alla ricerca del benessere Felicità in città ◆

Dario Marangio

U

n viaggio nel Salento alla ricerca del benessere è già , per molti che lo immaginano, un modo diverso di guardare, l'aspettativa, appunto, di uno sguardo "diversamente appagante". Per chi, invece, non ha questa preventiva immaginazione, quel viaggio può risultare ugualmente sorprendente: l'idea stereotipata di un "estremo sud" povero, arido, inospitale, contrasta con la sorpresa autentica di ciò che si dipana giorno per giorno davanti agli occhi, durante quel viaggio. Ma anche chi inizia il viaggio pensando di andare in un luogo come un qualsiasi altro, può sorprendersi nel trovarvi il senso di una diversità, il pregio di un'identità, anche se questo luogo non può soddisfare sempre aspettative di "divertimentificio", di massificante flusso di viaggiatori, di vacanzieri "mordi e fuggi" senza storia e senza curiosità. Perché il benessere di un viaggio nel Salento possa ancora in futuro costituire un'attrattiva e si voglia ancora definire "appagante" lo sguardo che tali luoghi possono donare, ovvero se l'aria, il mare e gli spazi si voglia salvaguardare da un utilizzo aggressivo, frettoloso, irrispettoso, allora è bene che si intervenga al più presto perché si vada subito a correggere la tendenza ad una turistica massificazione godereccia ed invadente, fracassona e fuorviante. Siamo i primi e più convinti a non voler definire "esclusivi" nell'accezione più materiale, questi nostri luoghi: il Salento può e deve essere "inclusivo" : per costi, offerta di servizi essenziali agevolati e proposte culturali. Ma "inclusivita'" non vuol dire svendita e neppure vendita di massa: non è né promiscuità e neppure illegalità; il Salento non va visto come la terra del divertimento estremo: vedasi Gallipoli dove, d'estate, orde di giovani, provenienti da ogni dove , sono attratti da una scomposta, falsa e itinerante libertà. E sono disposti a dormire per quattro soldi in 10 su un balcone ; "venite e ammirate" non significa "venite e fate quello che vi pare", perseguendo un 'idea balorda e falsa di libertà, di non rispetto e di inciviltà . Vedasi ancora l'abusivismo nella zona ionica, vedasi lo sbancamento del territorio nella zona del canale d'Otranto, vedasi l'abusivismo edilizio nel capo di Leuca. Pochi speculatori si sono spesso appropriati di intere fette di territorio salentino. Perché si mantenga il fascino della diversità e della convinta identità, si deve saper opporre agli stessi salentini il pericolo di una facile dilapidazione, proprio da parte loro, di questa ricchezza per cui essi stessi non sanno d'essere custodi, anche per i loro figli; una ricchezza che andrebbe coerentemente ridistribuita e condivisa, per cui più persone e tanti giovani potrebbero beneficiare, se non fosse spesso concentrata nelle mani di pochi, non sempre lungimiranti, ma pronti al guadagno veloce in tempi brevi. Non descrivo, in queste righe la bellezza architettonica e del paesaggio, l'inconfondibile fascino del mondo rurale, come anche il colto presidio in città e paesi, di un passato che non si fa fatica a leggere camminandoci dentro, ed è come sfogliare un libro di storia e di arte. Non cito, in queste righe, la gastronomia, la pasticceria, le tradizioni di famiglia e contadine; semmai di tutto ciò ricordo a me stesso la grande nostalgia vissuta nei lunghi anni di lontananza da questo "ben-essere"; ma l'amore per la mia terra mi chiede di spendere parole sui pericoli e sulle minacce incombenti sugli "sguardi diversamente appaganti"! Prendiamo a modello ciò che è avvenuto nella vicina Valle d'Itria, ove il rispetto del territorio, della quiete, del relax, del silenzio e della comodità ha orientato un flusso turistico munifico, di livello costante, attento e colto , mentre talvolta noi abbiamo voluto, con pregevoli eccezioni, si intende, meramente imitare ciò che altrove , in lontani territori di costa adriatica, manchevoli di mare limpido, è stata una precisa necessità coincidente con una scelta commerciale. Lasciamo che lo "sguardo diversamente appagante" conquisti noi per primi, per essere noi più convinti nel trasmettere la necessità di una salutare, costante salvaguardia di un viaggio nel Salento che sappia essere sempre piacevolmente sorprendente!


argomento in dialogo: FELICITÀ IN CITTÀ

generazioni di scritture

Partire dalla comunità e tornare alla comunità: il concetto di città resiliente Felicità in città ◆

Elisa Giannaccari

I

nterrogandoci sul presente e sul futuro, sui cambiamenti che noi, le nostre città e tutto ciò che ci circonda viviamo e vivono, spesso ci ritroviamo a sentir parlare del nostro potere di azione come cittadini su ciò che ci circonda. Cosa significa città resiliente? La nostra lo è? Alfredo Mela ed Ester Chicco ci dicono che vi sono molteplici modelli di resilienza, ovvero di forme di risposta che una comunità ha definito più o meno consapevolmente in base ad una stratificazione di esperienze precedenti, vissute in modo diretto o indiretto. Ciascuno di questi modelli si compone di svariati aspetti: modalità organizzative, atteggiamenti culturali in relazione al dolore e alla perdita, idealità etico-religiose e/o politiche di riferimento, capacità nel riconoscimento e uso appropriato delle risorse disponibili, orientamenti progettuali, capitale sociale e così via. Ogni modello di resilienza rappresenta, per così dire, la dotazione di fondo di una comunità che tuttavia, quand’anche si sia dimostrata efficace in circostanze precedenti, di fronte ad un nuovo evento negativo potrebbe richiedere una significativa rielaborazione. Negli studi sulle “comunità resilienti” si evidenzia, innanzitutto, una contrapposizione essenziale tra la tradizione di interventi orientati al cosiddetto “modello clinico” (che si fondano sull’assunzione prevalente che le comunità siano incapaci di gestire una crisi senza aiuti provenienti dall’esterno) e una visione opposta, quella della “comunità competente” (in base alla quale le persone vengono concettualizzate come capaci di catalizzare le risorse necessarie per affrontare le sfide). In particolare, riferendosi a questa seconda tradizione di studi sulla “comunità competente”, Kimhi e Shamai qualificano le comunità resilienti, distinguendole in relazione a tre diversi orientamenti possibili: “tendenza alla resistenza, che si riferisce alla capacità della comunità di assorbire l’impatto; tendenza al recupero, che si riferisce alla velocità e alle abilità di recuperare dallo stressor; tendenza alla creatività, che fa riferimento alle potenzialità creative dei sistemi sociali di migliorare il proprio funzionamento come conseguenza delle avversità”. Ma cosa significa nel quadro delle società contemporanee, essere comunità? Può essere utile rifarsi alla definizione del concetto di comunità proposta da Amitai Etzioni che afferma

che comunità è la combinazione di due elementi: il primo è rappresentato da una rete di relazioni con un contenuto affettivo entro un gruppo di soggetti; il secondo è la presenza di un impegno nei confronti di un quadro di valori, norme e significati condivisi. Negli ultimi vent’anni, l’evoluzione del paradigma della complessità ha assegnato centralità ad una lettura dinamica dei sistemi urbani (Batty, 2008), sempre più interpretati quali sistemi complessi, non lineari, capaci di auto-organizzazione, che si modificano costantemente per l’azione di fattori perturbativi, frutto di processi interni al sistema o di fattori esogeni. Una città sostenibile, e quindi resiliente, produce opportunità, opportunità di adattamento. Il tema della partecipazione comunitaria alle questioni urbane, la comunità che incontra la città, in realtà, si è diffuso in Italia già alla fine degli anni ‘60, ma solo con la legge del 4 dicembre 1993 n. 493, nascono i primi programmi di recupero urbano, una forma di programmazione concertata che consente ai privati di formulare proposte per gli interventi pubblici. L’importanza del coinvolgimento sociale è stata poi ribadita dagli interventi sperimentali nel settore dell’edilizia residenziale sovvenzionata, realizzati nell’ambito dei programmi di recupero urbano, e denominati “Contratti di Quartiere” (CdQ) per evidenziare il carattere partecipativo dell’iniziativa. Costruire risposte resilienti significa mettere le città nelle condizioni di dialogare con i cittadini, attivare una partecipazione più stretta. Città “resiliente” è dove la comunità (ri)costruisce il proprio futuro. Dalla riflessione a “più voci” proposta da Chiara Camponeschi emerge che “una città in buona salute e resiliente è una città dove infrastruttura, architettura e servizi sono sviluppati per rispondere ai bisogni di tutti, in particolare dei gruppi più vulnerabili, e dove le opportunità sono equamente distribuite secondo modalità rispettose dell’ambiente”. Principali elementi in gioco: sistemi e agenti sociali. Nei sistemi rientrano: l’ambiente naturale, l’infrastruttura fisica, le istituzioni sociali e la conoscenza dei luoghi. Gli agenti sono invece gli attori che danno forma ai sistemi: individui, famiglie, aziende private e organizzazioni della società civile. In questo contesto, una strategia completa di resilienza è una strategia che adotta un approccio collaborativo, adatto a guidare e sostenere le forze del sistema e degli agenti sociali. Partire dalla comunità e tornare alla comunità forse è la strada per rispondere alle nostre domande.


accadere culturale: MUSICA

anno IV ● aprile 2018 n. 8

Presi “per le rime”: un pomeriggio con Giousé Carducci Luigi Lazzari

V

enerdì 16 febbraio si è concluso il secondo dei quattro appuntamenti dedicati alla pubblica reading delle poesie del vate Giosuè Carducci presso la biblioteca Nicola Bernardini, meglio nota come Convitto Palmieri, nella città di Lecce. La rassegna, organizzata da Axa Cultura in collaborazione con Salentowebtv e Salento Info Tour, reca come titolo “Per le Rime” e ripercorre l’attività poetica del poeta la cui statua è posta davanti alla sede della biblioteca. La vasta sala lettura, spazio dedicato alla rappresentazione, ha fatto da parte del leone a questa singolare attività, unica nel suo genere, in cui si sono alternate recitazione, recensione e story telling con grande equilibrio e precisione. L’introduzione è stata affidata ad un architetto leccese che ha illustrato agli spettatori la storia dell’edificio dalle sue origini fino all’età postunitaria e soprattutto ha chiarito la presenza della statua dello “scudiero dei classici” nella piazzetta a lui dedicata, in una città così lontana dalle sue terre di provenienza. Il busto è stato posto lì esattamente 110 anni fa, nel 1908, dove prima si trovava una guglia recante in apice la statua della Santissima Vergine, ora collocata sul frontone del quadriportico antistante la piazzetta. In seguito si sono alternate le voci di Fabio Fabrizio e Katia Luzio, che hanno tracciato le fondamentali caratteristiche delle opere giovanili del Carducci, a cui era dedicata questa serata, e hanno recitato alcune poesie. Interessante l’espediente adottato nel descrivere la vita e i capolavori del poeta immedesimandosi in un suo allievo dell’Università di Bologna, in modo tale da avere una visione della Weltaschannung dell’autore da un punto di vista decisamente più personale che non nozionistico e accademico. Anche la recitazione dei versi ha avuto la sua notevole carica espressiva, rendendo giustizia agli ideali satirici, polemici e irredentisti che hanno caratterizzato il Carducci nel ventennio 1850-70 nelle opere Juvenilia, Levia gravia e Giambi ed Epodi. Particolarmente eloquente è stata anche la selezione delle poesie proposte: Variante cantata della Croce di Savoia tratto dalla raccolta Juvenilia, qualche frammento dall’Inno a Satana e infine il Canto dell’Italia che va in Campidoglio dai Giambi ed Epodi. Tralasciando il celeberrimo Inno, le altre due canzoni sono per lo più sconosciute ad un pubblico profano, ma sono altrettanto significative della stile carducciano ai suoi primordi: siamo di fronte ad un giovane poeta, intriso di quegli ideali libertini e socialisti di cui era piena la Bologna degli anni ’60 dell’Ottocento, deluso da una monarchia che risolve nel peggiore dei modi i problemi della neonata Italia e che, data la sua giovane età, naturalmente affronta con più slancio vitale le problematiche della patria e della vita di quanto non farà nelle composizioni più tarde. La declamazione delle poesie ha donato agli spettatori l’immagine di un poeta vivo, presente e ha lasciato una novella immagine dello scrittore, così troppo spesso abbandonato nelle pagine dei vecchi manuali scolastici. Un’immagine fresca, sincera, spontanea e l’idea che nella quotidiana rabbia verso le ingiustizie della nostra nazione ci sia un po’ di Carducci in tutti noi. Per questo, la eco della voce della sig.na Luzio sarà sicuramente uscita dalle sale della biblioteca, e percorrendo i corridoi, avrà raggiunto la statua del vate, prendendolo forse “per le rime” come lui ha fatto con noi.


RUBRICA

generazioni di scritture

La scrittura che gira intorno Un romanzo storico molto riuscito e il difficile mix di leggibilità e letterarietà Rubrica ◆

Livio Romano

Ho iniziato a leggere questo romanzo storico inedito senza preoccupazioni di carattere scientifico. Non conoscevo quasi nulla della storia di Matilde di Canossa, e tuttavia ho presto constatato che potessi prescindere da questa conoscenza. Ho pensato: mi concentro sul prosare, sulla lingua, sui personaggi. E invece già dopo poche pagine mi son dovuto bloccare. La curiosità cresceva, non potevo fare a meno di andarmi a informare un minimo su questo singolare personaggio storico. Non che sia andato in biblioteca a far ricerche. Ho solo smanettato per due o tre ore su internet, compulsando Wikipedia: da Enrico IV, celebre ma mai davvero studiato a fondo se non al liceo, a Enrico III, a Gregorio II, e agli altri papi e antipapi dell’epoca, e gli assetti politico-territoriali di quel periodo, e le ascendenze geografiche di questo e quel protagonista, e la sempre incredibile espansione e influenza che i Normanni hanno avuto nella storia del nostro Paese. Con queste conoscenze di base, ho potuto poi leggere con maggior attenzione e consapevolezza. Però, ecco, io credo che la lingua raffinatissima utilizzata, la cura lessicale, la propensione lirica e la tensione alla letterarietà trasformino questo lavoro in qualcosa d’altro. Se vuol essere un romanzo storico, il lettore comune come me, privo di una solida cultura storica medievale, è sballottolato fra nomi di re e reucci e feudatari e papi e monaci e antipapi e imperatori. Lo stesso chiamarsi Beatrice sia della mamma di Matilde che della figlia crea confusione somma in chi legge. Anche i due matrimoni “politici”. Prendiamo il diciannovenne Guelfo V che non riuscì a unirsi carnalmente con Matilde e fu dunque cacciato da corte. Io, solo dopo aver letto qua e là la storia di questa donna di stupefacente attualità e magnificenza, ho intuito fosse lui. Dunque era “pingue”? Mi chiedo anzitutto se sia vero che i due non ebbero mai alcun rapporto, e, se sì, perché non sia sembrato opportuno riportarlo, da parte dell’autore. Detto ciò, poi, tralasciando le parti più “informative” e prosaiche in cui stilisticamente si assiste a un efficace, riuscito innesto di un discorso in terza onnisciente all’interno di una narrazione sin lì condotta per monologhi interiori di questo o un altro personaggio, discorsi liberi indiretti, flussi di coscienza, prime persone narranti in un

pastiche di punti di vista davvero straordinario; o i passaggi dov’è detto dei “riformatori” senza però approfondire troppo verso quale direzione fossero dirette queste “riforme” e, soprattutto, senza che l’intreccio corale di voci narranti prenda una posizione rispetto alla giustezza della “riforma” (insomma: Matilde sta con Cesare o con il Papa? Con il Papa, naturalmente: lo si dice di continuo; ma non si dice perché è giusto che sia così, all’interno del perimetro di valori di Matilde stessa – valori peraltro difficilmente ricostruibili, se non a posteriori, dopo aver letto altro, e forse, azzardo, riconducibili a un generico attaccamento a potere e privilegi?). Insomma, dicevo, detto tutto ciò, constatata la difficoltà di costruire un mix di interiorità e Storia equilibrato (quel che il lettore comune si aspetta da un “romanzo storico”, perlomeno da un romanzo storico standard): mi son poi detto che è alla storiografia francese, alla nouvelle histoire degli Annales che dobbiamo qui fare riferimento. E tutto torna a quadrare. Torni a sentire l’aria pura di quei posti, degli Appennini, il freddo dell’inverno e, soprattutto, questa natura lussureggiante, raccontata con sguardo di un’attenzione chirurgica, mai lontanamente prevedibile -pericolo che corrono tutti gli scrittori dilettanti quando descrivono “tramonti indimenticabili” e “erbe imperlate di brina”, così: in maniera vaghissima, senza far vedere nulla, solo dicendo quando è chiaro che narrare è una faccenda di mostrare. Direi che è questo l’elemento che più apprezzo in questo manoscritto. Uno sfavillio, un messe di cose, di oggetti, anche piccoli, insignificanti, e costruzioni, attrezzi, carri, fiori, piante, alberi, ruscelli (sofisticatamente detti, spesso, rii) colori, sfumature, odori (tanti odori!) che, insieme, contribuiscono a precisare con esattezza i sentimenti dei personaggi, soprattutto della protagonista. Ho amato gli aggettivi platici, visivi, veri: ansimare schiumoso, voce ferruginosa. Se combini questa disposizione icastica a delle bellissime metafore che confinano con l’espressionismo (“la crusca sul naso”, per dire, o “si sente una vigna saccheggiata dalle volpi”, o “Il loro passaggio è ricotta fresca”, o “Gli alberelli erano zeppi di… lacrime rosse”, “profumava di rose e fontane”), ecco: il lettore si dimentica della Storia e si immerge nella favola, nella poesia, nell’incedere


anno ● gennaio 1 anno IIV ● aprile 2015 2018 n. 8

sezione RUBRICA

modernissimo e paratattico, spesso anche mimetico della lingua parlata (“Volevo andare dai canonici, là, in biblioteca”) come da tradizione meravigliosa dei conterranei emiliani dell’autore, eppure plasmato liricamente e dotato di intuito armonico e melodioso applicato alla prosa- dappertutto consonanze, assonanze, paronomasie, se non proprio rime. Esempi a caso: tasso barbasso, Giobatta mi fai una ciabatta?, la camiciola addosso i lunghi capelli rossi. La modernità di questa scrittura, la fuga dal sentimentalismo è ravvisabile anche nella punteggiatura, nell’utilizzo molto attuale dei corsivi,

o dei due punti, nonché di registri che a volte diventano perfino ironici. È ormai uno stanco refrain che la Letteratura interessa a poca gente, meno che mai agli editori, ma io immagino uno che legge Ramses o Valerio Massimo Manfredi. Abilità, puro mestiere nel tenere il lettore sulla graticola, avventure, inseguimenti, amori, tradimenti, morti, scrittura piana, diretta, altro che assonanze. Qualsiasi editor consiglierebbe a questo autore: ok, vediamo di movimentare un po’ questa storia. E, forse, di far dei dialoghi veri, di non inserirli nel flusso della narrazione, insomma di aiutare il lettore a seguire la storia fino alla fine.

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accadere culturale: TESTI

generazioni di scritture

L’eco della storia al confine tra cielo e mare La Sirena di Gallipoli di A. Pignataro, pp. 191, Minigraf, Novoli 2016 Mariachiara Longo

F

orse, la scrittura è fra tutte le forme d’arte la più “superba”: ama fare da sé la cernita dei suoi artisti e rendere un’opportunità offerta a tutti, quella di poter scrivere, il talento di pochi: quello di saper scrivere. Un talento, un privilegio, ma anche una missione ed una responsabilità, perché a quei “pochi” che riescono a dare voce al pensiero dei tanti che condividono il loro stesso cielo è affidato un compito di estrema importanza: tramandare ai posteri il legame indissolubile con la propria terra. Proprio questa parola, “terra”, compare più e più volte nel corso della lettura del romanzo di Annibale Pignataro “La Sirena di Gallipoli”, tanto che le sue stesse pagine sembrano profumare dell’odore dei campi verdeggianti infestati dai raggi di Sole che infondono una gioia calda, fervente e febbrile nei cuori di chi ama il Salento, lasciando delineare agli occhi del lettore il suo profilo nitido che emerge prepotentemente dalle acque del mare e si colora di un amore viscerale che è sinonimo, per un salentino, di “casa” e di “vita”. Non è un caso se i primi capitoli del libro si intitolano “Il pescatore” e “I contadini” e costituiscono un fotogramma del nostro passato che ci viene fedelmente tramandato attraverso le descrizioni dapprima della dura vita in mare, poi della quotidianità faticosa dell’agricoltore e ancora con il ricordo dell’occupazione dell’Arneo, pagina non solo fondamentale nell’economia del romanzo ma soprattutto nella storia del Salento: pietra miliare del patrimonio storico-culturale del nostro Paese, come afferma lo stesso autore. Dunque, alle storie romanzate e colorate dei personaggi del libro si intreccia quella di tutti i noi, dei nostri nonni e dei nostri figli, facendo sì che questo libro incarni una perfetta ed integrale concretizzazione di “noi”. Ecco, allora, l’importanza della storia di Cosimino, Rosetta, Tetta, Giacomino. I loro nomi, che possono forse far sorridere, ci ricordano i nostri avi, i nostri vicini di casa più anziani, il nostro passato che continua a vivere nel presente come uno sprone e un monito a riflettere su chi siamo stati, su chi siamo e su chi potremo essere. A proposito dei personaggi del romanzo, è interessante riflettere su come i loro destini si intrecciano. Al rapporto di ciascuno di essi con il proprio territorio si intersecano, infatti, i legami che intercorrono tra le loro storie personali: legami familiari, d’amicizia, d’amore, così come ad una realtà verosimile si intrecciano riferimenti fantastici, epici, surreali. I temi principali sono proprio il mare e la terra. Due realtà distinte, contrapposte, ma che allo stesso tempo si incontrano, si accarezzano, si appartengono e serbano nella loro immensità la straordinaria capacità di unire tutto ciò che dividono, come avverrà per quanto concerne la storia di Paolo e Cristina, due giovani protagonisti del romanzo. Il mare raccontato dall’autore, talvolta calmo e silenzioso, talvolta buio e tempestoso, è proprio a qualche passo da noi. Quando il grigiore della frenesia urbana sembra intorpidirci l’anima, ricordiamoci di scrutare l’orizzonte, di sguinzagliare i nostri sguardi più audaci perché si smarriscano tra le onde e ci aiutino a ritrovare noi stessi, al confine impercettibile ma invalicabile tra la terra e il cielo. Proprio lì, al cospetto di quella linea su cui ci sentiamo funamboli, equilibristi squilibrati tra le contraddizioni della vita, la Sirena di Gallipoli continua a celare nel blu intenso di un cielo capovolto i suoi capelli morbidi e tutto l’amore che ha illuminato la sua vita come un raggio di Sole che bacia la terra e le conferisce bellezza e forza. Se proviamo a chiudere gli occhi potremo ascoltare l’eco della sua voce. Se proviamo ad aprire il cuore potremo ascoltare il richiamo della nostra anima.


anno IV ● aprile 2018 n. 8

accadere culturale: TESTI

Dialogo tra Impeto e Saggezza I due di Pinocchio di M.R. Bozzetti, pp. 211, Milella, Lecce 2016 Vittorio Petese

U

n uomo famoso una volta disse che “per riconoscere l’annata e la qualità di un vino non occorre bere tutta la botte”, così non v’è bisogno di giungere alla conclusione di questo poemetto per apprezzarne il verso leggero ed evocativo, la brillante guisa bifronte che gli ha voluto dare la scrittrice e la chiara vena morale di cui sono imperniate le pagine. “I due Pinocchio”, come si può facilmente evincere dal titolo, si dipana in un gioco di contrappunti; alla prima voce ‘zuzzurellante’, superficiale e ardita, nella quale subito si possono riconoscere i toni della marionetta figlia di Collodi, se ne armonizza un’altra più greve, savia e petulante, quella dell’esperienza dell’autrice. L’antecedente ha il vezzo di riportarci all’infanzia, al tempo in cui si evadeva la realtà per piantare monete d’oro nel Campo dei Miracoli in compagnia del nostro amatissimo bugiardo, mentre la susseguente getta una luce engagée sulle avventure di Pinocchio, l’anteriore racconta al passato mentre la posteriore pontifica al presente, l’una scorre su fogli bianchi mentre l’altra imperla una carta di sfumature improbabili che vanno dall’avio smunto, al tè verde annacquato, passando per un tenue pesca e un giallo principio di pancreatite. Un libro che fa vibrare le corde della memoria ed è in grado di far riaffiorare le emozioni fanciullesche, ricordando anche i dettagli della storia originale sopiti dentro al lettore, come la commozione espressa a suon di starnuti da Mangiafuoco, la falsa invalidità del Gatto e della Volpe o il vero nome di Mastro Ciliegia. Ma la rilettura offerta al fruitore da Maria Rita Bozzetti riesce anche nella non facile impresa di attualizzare un testo eterno come quello del Lorenzini, creando un credibile e concreto ponte fra le fiabesche vicissitudini del “burattino” e i problemi, le tentazioni, le ingenuità e gli intrighi con i quali ogni giorno l’uomo si trova a fare i conti, estrinsecando con armonia la morale del romanzo. Non nascondo che di primo acchito verrebbe voglia di ignorare la vocina che ci catechizza sul bene e sul male, di tagliar via le pagine colorate sulla quale è stampata e di sminuzzarle per reinventarsi Tano Festa, di lanciare un Martello all’alterego assennato e di seguire solo il flauto dell’originale, prima di accorgersi che è una reazione frutto della rabbia di Calibano, un’innata antipatia verso uno specchio che ci mostra le brutture della società e dell’anima, e quindi quasi volentieri si presta orecchio ai commenti, alle meditazioni e alle riflessioni dell’artista. Opera assolutamente edificante toccata da eleganza, che ha la deprecabile virtù di insegnare che esser buoni è esser buoni ed essere cattivi è essere malvagi.

Oltre il limite, la passione Riccardo Ciccarese

S

i è da poco conclusa la conferenza stampa del 2° Meeting Nazionale “Salento Swim Cup” tenutasi nella piscina di Melendugno. A presenziare come ospite d’onore c’è stata la campionessa olimpionica e pluricampionessa europea e mondiale Federica Pellegrini. Prima delle domande dei giornalisti, hanno parlato per i doverosi ringraziamenti i sindaci di Calimera (Francesca De Vito) e di Melendugno (Marco Marcello Niceta Potì). Il primo cittadino di Calimera ha donato una stella alla campionessa ed ha dichiarato in anteprima che presto le verrà dedicato un lampione. Presenti anche l’A.D. e titolare de “Aquapool” di Calimera e Melendugno (Luigi Marullo), il Presidente della Provincia di Lecce (Antonio Maria Gabellone) e l’organizzatore dell’evento (Daniele La Gioia). La Pellegrini si è mostrata molto decisa nel voler proseguire la preparazione per le gare veloci (la cui prima gara si è tenuta il 4 febbraio in vasca corta), accantonando per il momento i “suoi” 200 stile. Si è discusso anche dei consigli da dare ai più giovani dichiarando che per risollevarsi dalle delusioni è necessario avere una grande passione. Per lei, infatti, è stato molto importante prendersi un periodo di pausa, trascorso in Salento, dopo l’insoddisfacente 4°posto ai giochi di RIO per riflettere sul suo futuro. Alla domanda specifica su quale fosse la differenza fra uno sport più popolare come il calcio e il nuoto, ha confessato che per vivere praticando solo quest’ultimo bisogna essere estremamente competitivi oppure appartenere ai servizi militari, prendendo come esempio la vittoria della medaglia d’oro di un’olimpiade che frutta 120 mila euro da tassare. In ultimo ha manifestato grande stima per la sua compagna di squadra Elena affermando che non ha ancora espresso tutto il suo potenziale.


generazioni RUBRICA di scritture

sezione generazioni di scritture

LidoCultura Salento: una terra da (s)valutare Rubrica ◆ Marzia Pisanello

Nel Salento il turismo è ormai diventato il perno centrale dell’economia, tanto che la provincia di Lecce è stata definita dal Governo «capitale turistica d’Italia». Significativo è stato il caso degli ultimi anni, in cui abbiamo assistito ad una standardizzazione del turismo: le località balneari sono sempre più frequentate da giovani visitatori, ed è un dato ormai certo e documentato che le città d’arte vengano preferite in misura sempre minore dalla popolazione, sia italiana che straniera. Questo cambiamento non può che giovare a cittadine come Otranto e Gallipoli, conosciute come posti ideali dove trascorrere la giornata al mare in totale relax grazie alle splendide spiagge, ma che la notte si trasformano in luoghi di divertimento e di movida, con le numerose discoteche e lounge bar che offrono musica fino all’alba. Dall’altra parte, però, i paesi dell’entroterra risentono di questa differenza, soprattutto durante la stagione estiva. Le politiche degli anni precedenti, mirate ad una più netta destagionalizzazione turistica, non hanno sortito i loro effetti, anzi non hanno fatto altro che allargare la forbice tra l’intenso turismo estivo-primaverile e lo scarso flusso nella stagione invernale. Il progressivo abbandono della città e la preferenza di località balneari dipende da diversi fattori: innanzitutto bisogna considerare le condizioni climatiche, infatti le temperature elevatissime tipiche dell’estate spingono i turisti a godersi la vacanza lontano dal tepore cittadino. Questo provoca un pregiudizio sulla nostra terra, riconosciuta con il celebre motto “Lu sule, lu mare e lu jentu” e non tanto valutata grazie agli splendidi borghi e alle antiche masserie dei nostri paesini, ai musei, alle chiese e cattedrali ornate da preziosissima arte barocca; si è radicata così quella convinzione che associa il Salento ad un posto dove trascorrere le ferie di agosto, dove stare in villeggiatura, e sono sempre meno i turisti che partono con l’intenzione di visitare il capoluogo leccese. Inoltre, la legge Bersani che ha permesso ai negozi di vendere qualsiasi cosa ha reso il turismo un’esperienza indifferenziata, piuttosto che un punto di forza sul quale i mercati possano investire per lungo periodo, o un modo per far conoscere le tradizioni locali. Se, da un lato, il turismo estivo permette una rapida crescita grazie all’acquisto da parte dei visitatori stranieri di prodotti alimentari tipici della terra – fatto che giova l’economia non solo di industrie salentine – dall’altro bisogna

considerare i servizi e con quali modalità vengono offerti e in che modo vengono offerti; mentre il paesaggio naturale resta l’attrattiva predominante per i turisti, l’oscillazione instabile della domanda durante il periodo estivo verte sul prezzo, piuttosto che sulla qualità dei servizi offerti. Il nodo cruciale rimane quello dei trasporti, con collegamenti inadeguati e difficoltosi per chi si muove su gomma, l’assenza di un Frecciarossa che arrivi direttamente a Lecce, con la conseguente demoralizzazione che si prova nel raggiungere Lecce, due ore dopo dall’atterraggio a Brindisi, considerando gli eventuali disagi legati al traffico. A cosa serve allora avere strutture pronte in tutte le stagioni, se poi il turista non ha la possibilità di visitare completamente il Salento a causa della mancanza dei servizi fondamentali? In tal caso, sarebbe necessario un maggior supporto da parte della Regione e delle autorità al fine di migliorare i collegamenti viari e prolungare i servizi oltre l’estate. La presa d’assalto delle località marine mette a nudo l’incapacità delle amministrazioni di fronteggiare una simile situazione e di cercare soluzioni definitive. Un primo passo da compiere verso la valorizzazione del territorio salentino sarebbe possibile attraverso l’eliminazione del sovraffollamento dato dal fenomeno degli affitti in nero, che non solo incide gravemente sull’economia, ma non contempla l’idea del Salento come terra da proteggere e salvaguardare. Attraverso una forma di turismo sostenibile e sociale potremmo favorire la crescita culturale e la permanenza delle persone nel tempo. L’obiettivo che il Salento dovrebbe porsi sarebbe quello di riuscire a raccontare la propria storia e suscitare certe emozioni che ogni anno migliaia di turisti si aspettano di provare, diffondere l’idea che il Salento non è una terra solo da visitare per poi scappare, ma dove rimanere, studiare, lavorare, investire nel futuro, per non essere considerato solo un posto alla moda, ma legato alle tradizioni e alla voglia di crescere e progredire al pari di tante altre città italiane. Bisognerebbe puntare sugli aspetti culturali e di fama nazionale per far emergere la provincia, ricordandoci che Lecce è una città storica, artistica, universitaria e culturale, abitata da giovani carichi di speranze e di progetti per il futuro, che non vogliono sentirsi costretti a trasferirsi all’estero per vivere, ma desiderano usufruire delle opportunità che il territorio offre non solo per tre mesi all’anno.


anno IV ● aprile 2018 n. 8

accadere culturale: TESTI

Il disagio taciuto

Gli anni della leggerezza di E.J. Howard, trad. it. M. Francescon, pp. 606, Fazi editore, Roma 2015 Elettra Colazzo

E

lizabeth Jane Howard, autrice britannica scomparsa nel 2014, ci racconta la storia dei Cazalet, una tipica famiglia benestante inglese nel periodo tra il 1937 e il 1938. Il romanzo è una saga familiare, composto da cinque volumi, pubblicati per la prima volta nel 1990. L’autrice è stata spesso trascurata dalla critica, definita discriminatamente una scrittrice per donne. Oggi il suo nome viene accostato ai grandi scrittori della letteratura contemporanea come Thomas Mann e Virginia Woolf. Nei successivi numeri della rivista “Generazioni di scritture” svilupperò volta per volta questi romanzi che hanno da subito affascinato il mio animo. Questo primo romanzo copre i due anni che precedono la seconda guerra mondiale. La famiglia Cazalet è costituita dai capostipiti William Cazalet e Kitty Barlow, chiamata da tutti la Duchessa, i due figli maschi che lavorano nell’azienda del padre, proprietario di un’industria di legnami con le loro rispettive mogli, il terzo figlio, un pittore, Rachel, la figlia nubile, la servitù, sempre rispettosa e pronta agli ordini e una schiera vivace di nipoti, ripresi, con la loro ingenuità, nei loro giochi e nei loro sguardi sognatori sul mondo da cui si evince un nostalgico pensiero, intriso di autobiografismo, rivolto al mondo dell’infanzia, troppo distante dalle preoccupazioni degli adulti. Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima parte, l’autrice presenta i personaggi descrivendoli in maniera analitica, accurata, attenta,

semplice, con grazia ed eleganza, mai in maniera scontata, facendo ricorso ad una miriade di particolari importanti per delineare meglio il loro carattere dal punto di vista psicologico. La famiglia, come ogni anno, si trasferisce per il periodo estivo nel Sussex, presso la residenza dei genitori. Già in questa prima parte, la famiglia sembra connotata da un ostacolo: l’incomunicabilità tra tutti i componenti che appaiono rigidi, convenzionali, abitudinari, esempi sono i tabù sessuali tra donne e tra coniugi, caratteristici delle contraddizioni di una società post-vittoriana, quella formata da un divario impressionante tra ricchezza e povertà. Ognuna delle loro esistenze procede ignara dei desideri dell’altra fingendo a se stesse di conoscersi. Avvertiamo delle analogie tra i sentimenti descritti nel libro e quelli espressi da ogni lettore quotidianamente; compaiono gelosie, tradimenti, ipocrisie. Infatti, man mano che si procede nella lettura, lo sguardo dell’autrice si fa più acuto e la sua ironia più tagliente quando indaga le dinamiche di coppia rivelando gli aspetti più problematici. Nella seconda parte del romanzo subentra la paura di una nuova guerra. Le notizie arrivano loro tramite la radio o le loro conoscenze. I rapporti tra i membri della famiglia cambiano molto e la storia si conclude con la notizia che il primo ministro inglese, Chamberlain, ha comunicato che l’Inghilterra non sta per entrare in guerra. L’autrice ha la forza di rapirci nel mondo intricato di ogni singolo personaggio di questo romanzo corale e noi lì a sorridere, provare tenerezza, a volte disprezzo per la matrigna di Clary e allo stesso tempo comprensione, poi di nuovo odio per Edward e si ride, ci si commuove, si riflette, perché non è un racconto superficiale. La sua prosa scorre lenta tra le nostre mani mentre voltiamo pagina, tra i nostri occhi mentre seguiamo le parole scritte e le pronunciamo con voce bassa accoccolati sul divano, mantenendo una tensione narrativa, tenendo legato il lettore alla storia, infine lo lascia in sospeso con quel desiderio incalzante di continuare a leggere il seguito.


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RUBRICA

Le parole Ricordo di Sandro Penna Rubrica ◆ Marco Gaetani

1. «Il 21 gennaio 1977 morì a Roma Sandro Penna». Dopo quarant’anni esatti, la sua figura e la sua opera restano l’unico vero hàpax della poesia italiana contemporanea. Un poeta, Penna, radicalmente diverso da tutti gli altri del nostro Novecento, e ciò a prescindere dalla vita ‘irregolare’ e dalle considerazioni critiche che, prendendo atto di un’evidenza, ne escludono il profilo dall’orizzonte in senso stretto modernista. Perché non è poi agevole far rientrare Penna neppure nella linea poetica alternativa – quella che, almeno in certi non proprio aggiornatissimi manuali scolastici, si è soliti intitolare al primo mentore del poeta perugino, Umberto Saba. La poesia di Penna resta un unicum irriducibile alle scuole, alle correnti, alle tendenze. Non a caso quando – all’altezza degli anni ’30 – i suoi versi cominciarono a circolare in rivista e a essere conosciuti, la ristretta società letteraria di allora mentre non tardò a riconoscerne, da una parte, l’eccezionale valore, dall’altra volentieri evocò, per spiegarseli, esperienze dal punto di vista storico e culturale tanto remote da potersi considerare esterne, in realtà, alle coordinate spazio-temporali. Paradigmaticamente – e anche per l’esclusività della tematica omoerotica, e segnatamente pederastica – alla lirica greca antica. Ma un simile richiamo più che avere una valenza realmente cogente in senso descrittivo, o addirittura storico-critico, serviva (ed eventualmente ancora serve) a indicare in modo più o meno consapevole un mito, un luogo immaginario della coscienza letteraria occidentale; prestandosi a segnalare quel senso di assolutezza, di quintessenziale epifania del Poetico, che i brevi componimenti di Penna non mancano mai di suscitare nel lettore. A distanza di così tanti decenni da quella prima rivelazione, quando ormai il lavoro critico su Penna ha condotto a liberarsi da molti dei cliché cresciuti attorno alla sua poesia – primo tra tutti, a dire il vero quasi immediatamente, proprio quello che fa del nostro autore una specie di epigrammista greco redivivo – rimane la meraviglia di fronte a una poesia tanto compiuta, tanto in senso etimologico ‘perfetta’ e appunto ab-soluta, da provocare nello stesso interprete di professione una specie d’interdetta afasia. Va osservato intanto che quando, per la poesia di Penna, si parla di ‘assolutezza’ non ci si riferisce tanto a una qualità della rappresentazione; che infatti non mostra quasi mai – eccetto forse che in talune nitide figurazioni da pittura metafisica – l’estenuata, sospesa astrazione propria (per riferirsi a un genere di poesia per breve tratto coevo a quella penniana) di certo Ermetismo. Non è mancato anzi chi (si pensi, tra i

primi, a un altro tra i non pochi estimatori eccellenti dell’autore perugino, Pasolini) ha rimarcato, a ragione, il ‘realismo’ di Penna: una fedeltà al reale quotidiano che si estrinseca tanto nella scelta dei referenti quanto – al netto dell’eufemismo, che nei suoi versi è molto più che una maniera del pudore – in quella dei relativi indicatori linguistici, e particolarmente lessicali (per esempio, gli scandalosi orinatoi). Anche se effettivamente la poesia di Penna, forse soprattutto nel suo periodo maturo ed estremo, pone il lettore odierno dinnanzi a un mondo, a un’intera nazione (intesa come sintesi di paesaggio fisico e culturale, geografico e morale) ormai da tempo scomparsa, facendogli conoscere al vivo e dall’interno un paese estinto, questa rappresentazione pur tanto storicamente e antropologicamente pregnante rimane sempre ben ancorata al di qua, o al di là, del reale fattuale. Sospesa in bilico tra fisico e metafisico, la poesia di Penna del reale storico entro cui vive l’individuale esperienza che la nutre è al contempo trascendimento senza sublimazione e inveramento per paradosso. Essa introduce a un mondo più vero e meno vero del vero. È infatti, questo mondo onirico e insieme concreto, quello del desiderio e di un amore per la vita che non si può soffocare: un universo per definizione intrinseco alla realtà sensibile ma pure da essa enigmaticamente separato. 2. Nella poesia di Penna l’assolutezza è una qualità dell’ispirazione. Tutto, in tale poesia, è semplice, in piena luce. Il discorso critico incontra, confrontandovisi, qualcosa di molto simile alle sue colonne d’Ercole; fronteggia una superficie non intaccabile e specchiata, che gli rimanda l’immagine della propria impotenza. Ha un bel riferirsi, lo studioso, alla sapienza costruttiva, al trattamento retorico, al palinsesto intertestuale – tutti aspetti che, negli stessi testi in apparenza più ‘innocenti’, sembrano smentire la leggenda originaria di un Penna poeta di natura; può ben rimarcare, sempre il critico (e fu in particolare Garboli ad attirare tra i primi l’attenzione sul lato in ombra di questo poeta solare quanto altri mai), la costitutiva ambivalenza di un desiderio («Non è forse l’amore un nodo stretto | fra l’angoscia e il diletto?») ossimoricamente contesto di felicità e di tristezza («era felice e triste, ecco tutto», si dice del protagonista di una tra le più significative prose di Un po’ di febbre). Si possono altresì sapientemente rintracciare le ascendenze culturali (certo côté nietzschiano, per esempio) di un autore pure così poco libresco. Ma poi, dopo tutto ciò (ed eventualmente


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molto altro ancora), restano i versi: oggetto di senso elementare, mai scalfiti da tanto elucubrare, indifferenti alle indagini più dotte, refrattari all’acume delle glosse. Il lettore di professione, lo studioso bene avvezzo a sdipanare le sottigliezze di una poesia – quella ‘maggiore’ novecentesca – tutta pieghe e allusioni, alla fine della sua fatica si ritrova continuamente di fronte a un disarmante «ecco tutto». Ricacciandolo al suo statuto di lettore ‘assoluto’, la poesia penniana parifica il critico a quello ‘comune’: ne mortifica la perizia filologico-ermeneutica, costringendolo semplicemente a constatare ed ammirare (si veda La lezione di estetica). Con Penna, in effetti, non c’è di meglio che tornare continuamente a leggere i suoi versi. L’essenziale rimane lì: non se ne fa estrarre, non ve ne è la necessità. Per ri-dirlo, per riaffermarlo, per ritrovarlo – questo essenziale che è la poesia stessa – non si deve far altro che ri-leggere: quello che c’è da dire, da sapere, da sentire, è a vista, disponibile per tutti. Un simile discorso, potrebbe obiettarsi, s’attaglia a qualunque autore nel rango dell’autentico poeta, inclusi dunque i campioni di certo nostro più ispido Novecento. Resta però il fatto che Penna realizza l’immanenza del senso (poetico) al suo significante con un’economia di mezzi che induce sovente a parlare di miracolo. Egli distilla una specie di essenza dell’idea lirica occidentale dalla feccia di una lingua che è pressappoco quella di tutti (valgono ancora, su ciò, le osservazioni di Garboli). Di fronte alla purezza di una voce individuale tanto diretta, di assoluta trasparenza, anche lo specialista più agguerrito deve disarmare. E dichiarare una resa densa di implicazioni pericolose per il mestiere, per i suoi dubbi privilegi; non senza «una tal quale vergogna» (Mengaldo) per un’ammissione ritenuta forse imbarazzante – come chi confessi di amare Puccini, oltre che Schönberg. 3. Per quanto una conoscenza più precisa della biografia di Sandro Penna, particolarmente in rapporto alla sua formazione culturale (si veda il volume di Elio Pecora), l’emergere di significative scritture giovanili, come pure una perlustrazione più attenta dell’officina penniana (esemplarmente per opera di Roberto Deidier, dal quale si attende pure, imminente, quel «Meridiano» che certo offrirà l’occasione di tornare a riflettere su questo poeta capitale del nostro Novecento), abbiano indotto a correggere sensibilmente certa mitologia sul nostro autore, si può dire che di lui resista sostanzialmente inalterata, e vitale, proprio l’immagine più consueta: quella, oggi più che mai preziosa, di un poeta che prese sul serio la propria vocazione, fondando coerentemente la poesia sulla vita, o se si vuole (ma è lo stesso) sull’organica relazione tra questa e quella, tra scrittura poetica ed esperienza. «Esperienza» nel senso più ampio; e prioritariamente, però, come fatto sensibile sempre accompagnato da un’acuta coscienza. Penna è poeta sapiente – più che sapienziale, come voleva Garboli – senza essere intellettualistico.

anno IV ● aprile 2018 n. 8

L’opzione cosciente a favore di Eros implica in lui l’abolizione del senso di colpa, e il collocarsi dell’esperienza individuale – come è stato correttamente osservato – in una dimensione a- o premorale; che però (circostanza non altrettanto spesso rilevata) risulta anche assiologicamente fondativa. Ecco allora, per noi, un poeta rimasto sempre giovane («Forse la giovinezza è solo questo | perenne amare i sensi e non pentirsi») e che viene spontaneo confrontare, se non proprio contrapporre, all’invece sempre-vecchio Montale (sul rapporto di attrazione / repulsione tra i due è molto istruttivo il relativo carteggio, con il corredo critico di Deidier; e, ancora di Garboli, il saggio su Penna, Montale e il desiderio). Penna fu un uomo, un poeta, cui parve a un certo punto di aver trovato, e una volta per tutte, la formula della saggezza: il modo di tenere in scacco il male del secolo (suo e nostro) – il senso dell’assurdo. Sfuggendo così al nichilismo e alla disperazione di tanti suoi contemporanei (e posteri). Quella formula non prevedeva certo l’obliterazione del negativo, che anzi il poeta scorse sempre in sinolo con lo splendore delle sue feriali epifanie. Ma Penna seppe guardare, con speranza, alla forza affermativa di un’umanità ancora naturale, e confidare perciò nella recursività del futuro («Ma non saremo che noi stessi ancora»). Non fu però, la sua, una forma di vitalismo irrazionalistico, la riedizione di regressivi o nefasti miti primonovecenteschi, para- o cripto- dannunziani. La primazia che egli volle accordare alla «vita» sull’«ortografia» e il suo indulgere, come un fanciullo irresponsabile, al piacere delibato «entro le colonne | della legge» definiscono l’unico vero «no» radicalmente proferito dai nostri letterati del XX secolo nei riguardi di una storia e di una civiltà avvertite come mortifere. Un diniego energico e senza compromessi, pronunciato da una posizione opposta e con un timbro completamente difforme rispetto al rifiuto scettico e ipo-vitale di stampo montaliano. Un poeta «della vita tanto innamorato», Sandro Penna, da perseguire le proprie beatitudini contro ogni facile moralismo, scandalosamente persuaso che nei piaceri e nelle tenerezze dell’esistere, nelle «dolci immagini della vita», «non è disonore»: «non offendono mica». Chi ha scritto che «Vivere è per amare qualche cosa» non teme il giudizio dell’eterno conformismo, e trova l’audacia d’indirizzare ai Moralisti un distico dal senso come sempre inequivocabile, cristallino: «Il mondo che vi pare di catene | tutto è tessuto d’armonìe profonde». È un poeta, costui, che intende sottrarsi all’eterno lutto della Modernità, affrancarsi dal funesto regime di Thanatos per riaffermare i diritti della «fitta | rete d’amore» che sostiene il reale; un poeta che osa – magari mentre, «felice straniero in ogni luogo», fa «conti per l’ingegnere» – guardare a un mondo di valori completamente altri rispetto a quelli, perversi, intensivamente dominanti in una storia ove proliferano «i divieti | alla felicità». Ricordati di lui, dio dell’amore.


accadere culturale: MUSICA

generAzioni di scritture

I Colla e il ritorno del punk nella scena musicale Francesco Colaci

Si chiamano “Colla” e il loro progetto nasce già nel 2016, quando tre esponenti della scena underground vicentina, Simone Pass dei Polar For the Massss, Mauro Poli dei Soyuz e Davide Prebianca degli Oltrevenere decidono di iniziare, senza impegno, un percorso musicale a suon di chitarre potenti che rievoca un punkrock trascinante. Inizialmente, i componenti della band non prevedevano di avere un nome, tant'è che il tutto si limitava a delle semplici session in un paesino collinare del vicentino. Successivamente, però, tra un divertimento e l'altro, il progetto inizia a diventare più serio, con la creazione di un vero e proprio album dal titolo “Proteggimi”. A quel punto, i rocker di Vicenza tentano un esperimento, ovvero registrano le tracce del disco presso la crew Produzioni Fantasma con Andrea Rigoni dei Derozer per le riprese e i mix, mentre il Master è stato realizzato da Luca Sammartin. Nel mese di giugno dello stesso anno, il prodotto artistico viene alla luce e la band non aveva ancora pensato a un nome. A questo punto, i tre si fanno chiamare “Ok social rogo”, per poi cambiare nome in “Colla” (un nome rappresentativo della forte unione e complicità artistica dei tre musicisti). E' a questo punto che il gruppo lancia il proprio lavoro nel mondo discografico. Le altre novità ve le faremo raccontare dai rockers in persona. Vi chiamate “Colla”, un nome che in qualche modo sancisce la vostra unione artistica. Nella vostra biografia musicale parlate di una “notte di scazzottate”, che vi avrebbe portato a cambiar nome in quello attuale. Una roba molto punk. Siamo curiosi di sapere cosa sia successo quella notte. In realtà noi avevamo un altro nome prima. Quando ci siamo formati, non c'era proprio l'intenzione di fare una band, eravamo tre amici che suonavano per puro divertimento. Nel momento in cui abbiamo capito che avevamo un pugno di canzoni in mano, siamo andati in studio e abbiamo registrato un album. Finita la registrazione, non avevamo ancora un nome, così abbiamo optato per un nome improvvisato, ovvero “Ok social rogo”. Quando abbiamo iniziato a mandare i brani a varie etichette, case discografiche come Marte Label, Costello Records (che abbiamo scelto per il nostro album) hanno iniziato a risponderci e ci siamo resi conto che dovevamo cambiare nome. Inizialmente è stato difficile perché ci eravamo affezionati all'identità iniziale. Non è stato facile trovare da subito un nuovo nome, abbiamo anche litigato per riuscire a trovarlo. Poi siamo veneti, andiamo su di alcool, e quella fatidica sera, un po' ubriachi, abbiamo deciso di chiamarci “Colla”, litigando non poco, ma riuscendo a stabilire questo bellissimo legame tra noi.


accadere culturale: MUSICA

anno IV ● aprile 2018 n. 8

Il vostro album si intitola “Proteggimi”, da voi definito come un acquerello, un'osservazione, un insieme di sconfitte o rinascite. Da che cosa volete proteggervi o proteggere? Tutto parte dal fatto che viviamo in un posto in cui, per dodici ore al giorno, bisogna essere chini sul fatturato, nel senso che c'è una vita abbastanza frenetica e le nostre vite e quelle dei nostri amici sono completamente sconvolte da questo. Dunque, quando abbiamo capito che i nostri testi parlavano di tutt'altro, abbiamo voluto in realtà dare il titolo “proteggimi” per proteggerci da questa follia sociale che esiste dalle nostre parti. Traffico, inquinamento, lavoro. Abbiamo anche un pezzo che si intitola “proteggimi” che non è stato inserito nell'album. Vicenza, una città che è raccontata in maniera molto ironica dalle vostre canzoni. “Vicenza parlami che ti offro da bere”, “Vicenza svegliati che facciamo l'amore”, questo amore e odio si sente anche in “qualcosa accadrà”. Sembra quasi che viviate una specie di rapporto catulliano con una realtà da voi descritta come provinciale. Raccontateci un po' se esiste questo “odi et amo” vicentino. Sì esiste, perché, come dicevamo prima, la realtà dalle nostre parti è un po' caotica. Noi abbiamo scelto di parlare di Vicenza come se fosse una donna. Una donna va corteggiata, e noi vogliamo in qualche modo corteggiare la nostra città, far sì che Vicenza si svegli, che l'Italia si svegli, soprattutto dal punto di vista artistico, oltre che per un cambiamento sociale. “Chiedilo ai Ramones”, “Balordo” sono i titoli delle vostre canzoni che rievocano, insieme alle vostre sonorità, uno stile molto punk. Voi, come altri gruppi della scena underground, state dimostrando in qualche modo che “il punk non è morto”, come cita il noto detto inglese. Credete che il punk possa continuare a vivere nelle storie, nel vissuto quotidiano di ognuno di noi? Sicuramente sì, forse meno nelle sonorità, ma sicuramente l'approccio alla vita di questo stile continua a sopravvivere. Una realtà dura come la nostra esprime sempre sentimenti molto rock. Veniamo tutti dalla scena punk, abbiamo mischiato i nostri stili, ma l'attitudine resta. Questo rinnovamento parte dalla nostra intenzione di compiere una rivoluzione, prima di tutto con noi stessi, per far emergere ciò che siamo. Il titolo di un'altra canzone desta non poca curiosità, “Non siamo indie”. Suona quasi come un manifesto. L'indie era una filosofia musicale basata sull'adesione a etichette “indipendenti”, cioè non legate alla dimensione commerciale delle multinazionali della musica. Adesso l'indie è quasi diventato una moda. La vostra è una presa di posizione ideologica in quanto punk, oppure è una critica, cioè pensate che si possa far musica indipendente senza essere “indie”. Diciamo che vogliamo prendere per il culo quelli che si spacciano per “indie”, ma in realtà non lo sono, perchè alle spalle hanno talmente tanto budget da spendere grazie a etichette molto gettonate, con uffici stampa altrettanto in vista. Dunque il termine “indie” non funziona più. Ci fanno molto sorridere artisti come Calcutta, che sinceramente apprezziamo musicalmente, ma non riteniamo appartenenti alla scena indipendente. Cosa sia questo nuovo genere emergente magari lo scopriremo tra vent'anni, ma l'indie è un'altra cosa, proviene dagli elementi culturali e musicali degli anni '90. L'ultimo brano del vostro disco, “Terra”, rivela un legame viscerale con il vostro luogo d'origine. Ritenete giusto, in un contesto ormai globalizzato, riscoprire le radici del proprio territorio? Speriamo che in futuro le prossime generazioni abbiano la capacità di riscoprire la terra. Terra significa vivere con poco e anche diventare dei piccoli agricoltori, perché è il bene più prezioso che abbiamo. Da noi le città sono composte da capannoni e piccole cittadine, ed è molto fortunato chi possiede un terreno in campagna. Si guadagna molto meno, ma la qualità della vita è decisamente migliore. Altri progetti per il futuro? Sicuramente faremo uscire un altro disco. Intanto saremo impegnati con il tour, ma di certo non lasceremo troppo a lungo il pubblico con il fiato sospeso. La band di Vicenza avrà probabilmente in serbo nuovi lavori discografici. Nel frattempo, godiamoci il nuovo album dei Colla e... Buon ascolto!


generazioni di scritture

Ab-bracciata collettiva: insieme per l’autismo Riccardo CIccarese

I

l 24e25 Marzo, giornata mondiale dell’autismo, si è tenuta la manifestazione sociale “Ab-bracciata collettiva” della TMA (Terapia Multisistemica in Acqua) Metodo Caputo-Ippolito, una maratona di 30 ore in cui è stato possibile riscontrare, alla base di tutto, l’uguaglianza tra coloro che erano i diversamente abili e/o persone con difficoltà di neuro sviluppo e lo staff della TMA. L’intento degli organizzatori non era quello di insegnare a nuotare, ma quello di sviluppare le capacità cognitive e sociali da parte del mondo autistico. Grande solidarietà è arrivata da parte del centro sportivo “Feelgood” a Cellino San Marco, che ha messo a disposizione l’intera struttura per far si che la manifestazione avesse luogo, per la prima volta, anche nel Salento. La giornata è iniziata sabato 24 marzo alle ore 07:30, con Luciano Vetri che ha dato il via alla maratona di 30km in 30ore in quella che era la 1°tappa di questa manifestazione. Poche ore dopo, è avvenuto il taglio del nastro per l’inizio delle attività anche da parte dei ragazzi. Durante la mattinata, grazie alla “Fimco Sport” di Brindisi, si sono esibite in uno bellissimo spettacolo le ragazze di nuoto sincronizzato. Nel pomeriggio invece, le società “Maresca Nuoto”, “Feelgood” e “Fimco Sport” si sono sfidate in un bellissimo triangolare di pallanuoto. Al termine del triangolare, si sono riprese le attività che consistevano in giochi, divertimento e tanti abbracci, per coloro i quali è stata organizzato questa meravigliosa manifestazione. In serata, c’è stato spazio anche per i nuotatori Master di molte società che hanno voluto fortemente partecipare, dando il loro contributo con delle gare, fino all’ultima bracciata. Ovviamente, non c’è stato alcun vincitore né nessun vinto. La prima giornata si è conclusa all’insegna dell’allegria e del buon umore dove grandi e bambini, indistintamente, si sono uniti per giocare ed abbracciarsi in acqua. La seconda giornata è cominciata subito alla grande, grazie alle sirenette che hanno fatto la loro apparizione, suscitando lo scalpore di tutti i presenti grazie alle loro strabilianti esibizioni ed alla loro disponibilità nel far sognare i bambini ad essere, anche loro, delle sirene. La giornata è proseguita con grande spirito di festa, giochi, tuffi e scivoli acquatici per i bambini. Prima della chiusura della manifestazione, c’è stato spazio per i Master “Impero” di Fasano, che hanno voluto dare il loro contributo alla manifestazione, nuotando. Partito il countdown, per la fine dell’evento, tutti i membri dello staff di “Feelgood” e della TMA, si sono cambiati per festeggiare in acqua con cori, abbracci e tuffi. Si è chiuso in bellezza il grandissimo successo che ha ottenuto questa meravigliosa manifestazione che ancora una volta grazie allo sport, ha dato una dimostrazione di uguaglianza, affetto e condivisione.


RUBRICA

anno IV ● aprile 2018 n. 8

Nessuna (in)differenza Anche un’invasione aliena non risolve RUBRICA◆

Silvia Cazzato

Si è appena chiusa questa anomala campagna elettorale italiana, fondata sul rimarcare le differenze tra gli uomini, trasformandole in pretesti per fomentare rabbia, odio, separazione, distanza. Si strumentalizza facilmente quando si attraversano periodi storici difficili, nei quali aleggiano sentimenti di esasperazione generale: spuntano fuori, in questi frangenti, dei veri maestri della manipolazione, capaci di indirizzare il malessere verso un punto ben preciso, il diverso da noi, contro il quale è consigliato vuotare il caricatore. Si avvia quasi automaticamente un massiccio processo di “nemicalizzazione” dell’altro. Questo racconta la storia. È tipico dell’uomo, da sempre, ricercare un colpevole fuori da sé, sempre e comunque. È sempre più facile eleggere dei capri espiatori, anziché assumersi la responsabilità della propria situazione e trovare nei propri comportamenti la chiave del cambiamento, in un’ottica di mediazione tra le diversità. Spesso modificare se stessi richiede uno sforzo troppo grande. E poi perché mai farlo, noi siamo già così perfetti, civili, meritiamo il terreno che è sotto i nostri piedi, abbiamo diritto al cibo che produciamo con sforzo e fatica. Degli altri non serve curarsi, è già tanto che li si lasci esistere. Si adoperino per sopravvivere per fatti loro, in barba ai principi espressi da molte tradizioni spirituali, dal concetto di fratellanza cristiana a quello di interconnessione buddista. Persino nella tribù degli indiani d’America Pawnee, i veggenti giunsero alla consapevolezza che l’idea di fratellanza tra gli uomini fosse il più nobile dei concetti a cui l’umanità potesse giungere. Per tutta risposta, comunque, vennero gli europei a sterminarli. In alcuni casi le religioni stesse sembrano suggerire l’importanza del differenziare. Ma bisogna guardare alle intenzioni. Gli ebrei parlano di “popolo eletto”, ma tale status non implicherebbe alcuna superiorità del popolo di Israele: l’elezione sarebbe semplicemente un mandato, una missione da compiere affidata a quel popolo. Le autorità rabbiniche, d’altronde, precisano che anche i Goym, cioè le altre nazioni non ebree, possono vivere secondo giustizia ed avere una relazione con il Creatore. Possiamo, ci dicono. L’Islam ci dice che si è fratelli solo se lo si è nella fede, altrimenti una differenza ci sarebbe, e non di poco conto. E questo atteggiamento interiore, al di là degli estremismi, contribuisce a sbarrare le porte all’altro che, a sua volta, sbarra le proprie. I Testimoni di Geova, per fare un altro esempio,

argomentano che malgrado una folla innumerabile sopravviverà al Giorno di Dio, solo 144000 saranno scelti per governare con Gesù Cristo in cielo. Gli eletti. Come a dire, siamo tutti fratelli, ma alcuni sono fratelli “più speciali” degli altri. C’è sempre bisogno di distinguere e gerarchizzare, insomma. L’uomo spesso fatica a coltivare una semantica dell’uguaglianza e della fraternità, reagisce in maniera aggressiva verso il diverso, e sembra farlo d’istinto. Come è possibile, dopo tante parole spese, dopo tanti errori fatti su questa terra? Quando non c’è una dimensione culturale forte connessa alla sfera “emotiva” di ciascuno, la paura vince. L’amigdala lasciata libera di agire senza filtri culturali ci induce ad agire secondo logiche primordiali, da branco. Ci dicotomizziamo, novelli Caino e Abele, con l’attenzione concentrata sull’erba del vicino che non deve essere più verde della nostra (e comunque, se proprio deve avere un’erba anche lui, purché non si mischi con la nostra). La paura ci convince che non sopravviveremo, che bisogna mandare avanti il mors tua vita mea, pena l’estizione. E non afferriamo che è proprio seguendo questa logica, invece, che noi ci estingueremo. La paura acceca e non ci fa capire che quell’uomo cerca di sbarcare il lunario per offrire alla sua famiglia ciò che anche io vorrei offrire alla mia; la paura ci fa pensare sia giusto innalzare un muro tra noi e il Messico, ci fa credere che il diverso non sia solo chi non è della nostra “razza”, ma anche chi non è semplicemente del nostro quartiere, o chi non appartiene al nostro status sociale, o chi non gira con il Rolex. Davvero disdicevole, senza Rolex. Forse, dico forse, andrebbe accolto il suggerimento implicito di Bertie Wells, per ricompattarci un po’ tutti: una bella invasione aliena che ci costringerebbe ad allearci contro un nemico nuovamente “esterno”, esterno a tutta l’umanità. Ma anche così non avremmo capito bene. Staremmo solo spostando il confine, allargandolo all’intero pianeta. Come ha fatto qualcuno, che appena ieri parlava della gente del sud Italia come ora parla degli africani. Per la cronaca, molta gente del sud Italia ha votato quel qualcuno. Concluderei, per bandire l’amarezza, con Giorgio Gaber, che sulle differenze ci invita a riflettere attraverso la sua sublime ironia. Dal dialogo del bambino ricco con quello povero, in “Storie del signor G”: - Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: «Guarda, tutto quello che vedi un giorno sarà tuo!». - Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: «Guarda!».


Carlo Alberto Augieri insegna Critica letteraria ed ermeneutica del testo all’Università del Salento. È autore di contributi riguardanti la “semiosi” del silenzio, la forma del senso simbolico nella scrittura letteraria, la filosofia della narratività e l’interpretazione delle immagini poetiche e narrative della letteratura del Novecento. Dirige la rivista Symbolon e fa parte del comitato direttivo di Ermeneutica letteraria. È vicedirettore del Centro interuniversitario di Studi su “Simbolo-conoscenza-società” e co-fondatore, con Michele Rak, dell’Osservatorio permanente europeo della lettura (Università di Siena e del Salento), che attualmente presiede.

e in disturbi dell’apprendimento e dell’età evolutiva. Oltre all’attività clinica e terapeutica con minori, adulti e coppie, svolge anche attività di promozione del benessere e della cultura psicologica con l’a.p.s. “Libere associazioni”. Recentemente ha pubblicato alcuni contributi come esperta per la Gazzetta del Mezzogiorno.

Sergio Aversa è stato dirigente alla Mobilità del Comune di Lecce, oggi in pensione. Nel tempo libero scrive, dipinge, canta e cucina.

Serena Grande, Nata a Manduria (Taranto). Ha conseguito la laurea in Lettere presso l’Università del Salento, dove si è specializzata in Critica letteraria, con una tesi interdisciplinare sulla linguistica enunciativa nella poesia di Girolamo Comi. Coltiva da sempre la passione per la scrittura, prevalentemente poetica, e porta avanti un percorso di studi personali nell’ambito delle Scienze religiose. Nel 2005 ha pubblicato la raccolta poetica “Il Cielo dell’anima” per Filo editore.

Chiara Briganti, (1993) studia Lettere, è partita dal principio e, dopo aver sudato lungamente sui dizionari di Greco, ora tenta di decifrare la Letteratura moderna con tutto il furore del convertito. Ne avrà ancora pr molto. Nel frattempo conduce vita da provinciale e dedica le restanti energie allo studio di Pier Paolo Pasolini. Quantomeno, ci prova.

Luigi Lazzari nato classe ‘98, diplomato col massimo dei voti al liceo classico “Giovanni Paolo II”, diplomato al conservatorio di Lecce “Tito Schipa” in pianoforte classico, frequenta attualmente il II anno di Lettere antiche all’Università del Salento e il I anno del Biennio in pianoforte solistico al Conservatorio di Lecce.

Riccardo Ciccarese nasce a Lecce il 20 Luglio del 1991. Nel 2016 lavora presso “L’Arca del Blues” come speaker radiofonico. Da maggio 2017 collabora con ACSI PUGLIA come giornalista. Da settembre 2017 collabora con “Leccenews24”. Nel 2017 è in giuria alle selezioni del premio “Mia Martini”. Il 3 febbraio del 2018 intervista e scrive per “Leccenews24” la conferenza stampa del 2° Meeting Nazionale “Salento Swim Cup” nel quale presenzia Federica Pellegrini. Il 4 febbraio scrive per Leccenews24 la gara della Pellegrini.

Paolo Leoncini, già docente di Letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia, codirige «Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale». Si è occupato di letteratura veneta del Novecento e dei rapporti tra letteratura e critica, in riferimento, in particolare, a Emilio Cecchi e Gianfranco Contini.

Francesco Colaci, nato a Lecce, consegue il diploma presso il Liceo Classico Giuseppe Palmieri e la laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università del Salento con 110 e lode. Fondatore del Circolo Culturale Socrate, organizza eventi culturali con diverse associazioni. Collabora con diverse testate giornalistiche fra le quali il «Superuovo» e l’«Intellettuale Dissidente». Elettra Colazzo è laureata in lettere moderne con una tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni: comicità mista a malinconia. Attualmente sta continuando gli studi presso l’Università del Salento. Ama ogni aspetto della cultura: le arti visive, il teatro, il cinema, la musica, la letteratura e la scrittura, fermamente convinta che la parola sia l’unico mezzo per smuovere la coscienza degli uomini e cambiare positivamente la realtà. Silvia Cazzato, giornalista, counsellor, esperta di comunicazione, funzionario dell’Università del Salento. È attiva come volontaria in molteplici contesti (sostegno a persone con disabilità fisiche, psichiche e cognitive, dipendenze da sostanze o gioco d’azzardo, persone ristrette in carcere, malati terminali), in associazioni per la salvaguardia ambientale e di sostegno alle differenze di genere. Marco Gaetani lavora presso il Centro per il Simbolo dell’Università di Siena. Ha pubblicato saggi su Calvino, Fenoglio, Gadda. Docente a contratto di etica alla facoltà di Medicina, è membro del Consiglio direttivo del Centro studi Fabrizio De Andrè. Elisa Giannaccari, psicologa, specializzanda in psicoterapia psicodinamica socio-costruttivista. Esperta in psicodiagnosi

Mariachiara Longo, Vive a Squinzano, frequenta il Liceo Scientifico “Virgilio-Redi”. Ha scritto per giornali quali «Totem», «La Gazzetta del Mezzogiorno», «Paese Nuovo» e «Il Superuovo» ed ha partecipato a stage formativi presso Sky TG24 e il «Corriere della Sera». Si è distinta in ambito locale e nazionale conseguendo premi artistici e letterari per poesie, articoli e cortometraggi. Dario Marangio è funzionario di banca, tra i promotori della maratona Talathon a Lecce. Interessto a varie forme di comunicazione, al confronto e all’interlocuzione di diverse maniere espressive tra generazioni. Vittorio Petese, dottore in legge, inizia a seguire la sua chimera giornalistica scrivendo per la testata online dell’Università del Salento – Unireport, di cui in seguito diviene caporedattore, e collaborando con l’ufficio stampa di radio WAU. Da sempre cultore di letteratura, si avvicina al mondo della critica ispirato dall’estetica illuminista, retaggio di Diderot. Marzia Pisanello, si diploma al Liceo Classico Q. Ennio e consegue la Laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università del Salento. La sua passione per la letteratura e la vocazione per la scrittura giornalistica si intrecciano con uno spiccato interesse per il mondo del turismo, nato grazie al lavoro estivo al Grand Hotel Costa Brada di Gallipoli. Livio Romano è scrittore e giornalista, attualmente impegnato in un dottorato di ricerca su Pier Vittorio Tondelli. Suoi, tra gli altri, Mistandivò (Einaudi 2001) e Niente da ridere (Marsilio 2007). In questa rubrica racconta le avventure della sua attività di editor.

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