Idee SEMESTRALE DI FILOSOFIA SCIENZE SOCIALI ED ECONOMICHE
Nuova serie Anno IV - Nn. 7-8 2014
MILELLA
ISSN 0394-3054
Anno IV/Nuova Serie, nn. 7/8, Ottobre 2014 Direttore responsabile: Mario Signore Proprietà: Lecce Spazio Vivo S.r.l. Via M. De pietro, 9 • 73100 Lecce Tel. 0832.241131 Iscrizione Tribunale di Lecce: n. 666 del 14.10.2011 • Semestrale Direzione, redazione e amministrazione della rivista hanno sede presso il Monastero delle Benedettine Via delle Benedettine, 5 • 73100 Lecce Ogni corrispondenza concernente abbonamenti, fascicoli e/ o annate arretrate, ecc. deve essere inviata a: Editrice Milella Lecce Spazio Vivo s.r.l. Viale De Pietro, 9 73100 Lecce leccespaziovivo@tiscali.it È disponibile sia in versione cartacea sia in versione elettronica. Quest’ultima è pubblicata dalla Casa Editrice Milella di Lecce Spazio Vivo S.r.l. www.milellalecce.it Abbonamento annuale: euro 30,00 • Un fascicolo: euro 18,00 Abbonamento per l’estero: € 50,00
Idee SEMESTRALE DI FILOSOFIA E SCIENZE SOCIALI ED ECONOMICHE Nuova serie Nn. 7/8 2014
Direttore: Mario Signore Comitato scientifico: Stefano Adamo (Università del Salento), Luigi Alici (Università di Macerata), Carlo Alberto Augieri (Università del Salento), Emilio Baccarini (Università di Roma “Tor Vergata”), Ferdinando Boero (Università del Salento), Francesco Botturi (Università Cattolica di Milano), Cosimo Caputo (Università del Salento), Franco Cassano (Università di Bari), Virgilio Cesarone (Università di Chieti), Claudio Ciancio (Università del Piemonte Orientale), Ivo De Gennaro (Università di Bolzano), Pietro De Vitiis (Università di Roma “Tor Vergata”), Vito A. Gioia (Università del Salento), Maria Giordano (Università di Bari), Alberto Granese (Università di Cagliari), Piergiorgio Grassi (Università di Urbino), Klaus Held (Universität Wuppertal), Michele lndellicato (Università di Bari), Alberto Nave (Università di Cassino), Paolo T. Pellegrino (Università del Salento), Raffaele Persico (IBAM-CNR Lecce), Antonio Pieretti (Università di Perugia), Bernardo Razzotti (Università di Chieti-Pescara), Armando Rigobello (Università di Roma), Franco Rizzi (Università di Roma 3 - Unimed), Giorgio Rizzo (Università del Salento), Mario Signore (Università del Salento), Christian Smekal (Universität Innsbruck), David Woodruff Smith (University of California Irvine-USA) Rainer Thurnher (Universität Innsbruck), Franco Totaro (Università di Macerata), Lorenzo Vasanelli (Università del Salento), Wilhelm Vossenkuhl (Universität München),
Stefano Zamagni (Università di Bologna). Comitato di redazione: Antonio Aresta, Michele Bee, Lidia Caputo, Flora Colavito, Giuseppe D’Alessandro, Emanuela De Riccardis, Luca Cucurachi, Giulia D’Andrea, Maurizio Daggiano, Roberta Fasiello, Giacomo Fronzi, Francesca Imperiale, Luca Nolasco.
Segretario di redazione: Emanuele Augieri Copertina: Yukiko Tanaka
Semestrale di Filosofia, scienze sociali ed economiche aperto alla collaborazione di specialisti italiani e stranieri. Si raccomanda agli studiosi e agli appassionati di una cultura del confronto e della ricerca libera e propositiva. Accoglie contributi di orientamento multidisciplinare raccolti in miscellanee, anche se sono previsti fascicoli monotematici (vedere informazioni a fine fascicolo).
Sommario A. Rigobello Per Roberto Cotteri. In memoriam p. 11 Premessa » 13
Saggi Alberto Granese Il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Cost It.) Strategie politico-economiche della formazione
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Michele Nicoletti Ricerca della verità e sviluppo della democrazia
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Wolfang Schneider Phänomenologie personaler Grundakte und pädagogische Praxis
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Mario Signore Dall’uomo ‘ricco di bisogni’ alla formazione integrale della persona. Un’antropologia in prospettiva pedagogica »
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Bernhard Rathmayr Der Wandel der Wissensverhältnisse und seine Folgen für Bildung und Schule
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Ralf Lüfter Wider besseres Wissen. Ezra Pounds ABC des Lesens
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Antonio Pieretti Oltre il soggetto, nella prospettiva di un nuovo umanesimo
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Walter Lorenz Der Bildungsauftrag der Universität in Krisenzeiten
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Francesco Coniglione La società della conoscenza e il futuro dell’Europa
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Gian Maria Quinto Corpo e diritto. Agire comunicativo e multiculturalismo in Habermas » 135 Markus Fath Messbare Kompetenzen oder gelingendes Leben? Zum Zusammenhang von Bildungsverständnis/sen und Gewalt/losigkeit » 149 Michele Indellicato Conoscenza, ricerca e sviluppo: una sfida etica e formativa della persona nel contesto planetario del terzo millennio » 163 Donatella Pagliacci Gehlen, Scheler e Plessner sulla questione della educabilità dell’uomo
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Mario Gennari Agostino: l’uomo come imago Dei
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Tommaso Perrone Models, Theory Dislodgment and Epistemic Non Asymptotic Enrichment
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Miscellanea
Piergiorgio Della Pelle Cassirer e la prima “validazione filosofica” dell’autenticità della Settima Lettera platonica (1922-1925) » 233 Antonio Greco Una “nuova” businnes ethics? L’uomo come “risorsa” tra bisogni e capabilities
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Rosa Indellicato Educare ai diritti umani. Diritti umani e dignità della persona
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Andrea Mossa Sopravvivere alla morte di Dio? Zarathustra, l’Anticristo e Faust
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Note e recensioni Giorgio Rizzo Nota su M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, pp. 348
Flora Colavito Nota su M. Indellicato, Etica della persona e diritti umani. La prospettiva del personalismo polacco, Pensa Multimedia, Lecce 2013, pp. 152 » 315 Francesco Soldovieri Nota su R. Persico, Introduction on Ground Penetrating Radar: Inverse Scattering and Data Processing, IEEE, New Jersey-Canada 2014, pp. 365 » 323 Vincenzo Fasano Nota su V. F. Giglio, I licenziamenti collettivi. Soggetti, procedure, comunicazioni telematiche, Giuffrè, Milano 2014, pp. XII+246 »
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Achille Zarlenga Nota su P. De Vitiis, La teologia politica come problema ermeneutico, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 208
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Libri ricevuti
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Accademia di Studi Italo-Tedeschi - Merano Akademie Deutsch-Italienischer Studien - Meran In collaborazione con le Università di Innsbruck, Salisburgo, Trento, Bolzano e con l’Associazione culturale “Sumphilosophein” In Zusammenarbeit mit den Universitäten Innsbruck, Salzburg, Trient, Bozen und dem Kulturverein “Sumphilosophein” XLI Seminario internazionale di studi italo-tedeschi XLI Internationales Seminar deutsch-italienischer Studien
Scuola, conoscenza, formazione e ricerca come presupposti di democrazia, di sviluppo e di civiltà nel contesto europeo Schule, Wissen, Bildung und Forschung als Voraussetzungen für Demokratie, Entwicklung und Zivilisation im europäischen Kontext
27-29 ottobre - 27-29 Oktober 2013
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A. Rigobello Per Roberto Cotteri. In memoriam Ringrazio il prof. Mario Signore di avermi chiesto di illustrare la figura del compianto prof. Roberto Cotteri, che per tanti anni è stato Direttore dell’Accademia di Studi ItaloTedeschi di Merano. Non comincerò comunque con l’illustrare la sua attività di Direttore, ma ricordando aspetti personali che lo caratterizzavano. Conobbi la prima volta Roberto Cotteri il giorno in cui sosteneva gli esami di maturità all’Istituto Magistrale di Bolzano ed ebbi successivamente occasione di conoscerlo maggiormente. Roberto Cotteri continuò gli studi e vinse un concorso per lingua e letteratura italiana per gli istituti di cultura all’estero. Anche quando più tardi assunse la direzione dell’Istituto di Cultura a Merano (successivamente Accademia di Studi ItaloTedeschi) lo fece per venire incontro alla volontà del padre che dirigeva l’Istituto e che si trovava in una situazione di salute precaria. La direzione dell’Istituto comportava generalmente l’esenzione dall’esercizio dell’insegnamento e così accadde anche per Roberto Cotteri. Ma quando, per sopraggiunte difficoltà economiche da parte dello Stato, dovette contemporaneamente dirigere l’Istituto e tenere la cattedra di filosofia e pedagogia a Bolzano, che fu per lui un aggravio di lavoro, sviluppò la propria attività di docente con grande passione e seguito da parte degli studenti. Pochi sanno che il prof. Cotteri manteneva una viva amicizia con un suo compagno di scuola che era maestro di lingua italiana a Monte Santa Caterina in Val Senales, a cui Cotteri portava di volta in volta libri, in particolare di carattere pedagogico. Questo amico, quando andò in pensione, si impegnò come collaboratore laico nella chiesa, attività che continua tuttora. Io in quel tempo ero spesso chiamato a coadiuvare il prof. Valsecchi, che era il Presidente dell’Istituto, al quale sono poi succeduto per alcuni anni.
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Il prof. Cotteri possedeva una notevole capacità organizzativa e seppe organizzare parecchi convegni e “simposi” per studiosi italiani e stranieri in particolare della Comunità Europea. Quando le disponibilità economiche dell’Accademia andarono ulteriormente diminuendo, il Direttore mise a disposizione i soldi della sua liquidazione affinché le attività dell’Accademia potessero continuare. Anche il prof. Mario Signore e il prof. Alberto Granese offrirono un notevole contributo dalle loro rispettive dotazioni accademiche. L’impegno del prof. Cotteri in questi anni è stato gravoso e continuato, con pochi collaboratori, in particolare il prof. Ivo De Gennaro. La bella sede dell’Accademia divenne un punto di riferimento per gli studiosi di Merano data l’ampia biblioteca specialistica. Roberto Cotteri, che non avrebbe voluto seguire l’attività del padre finì per esserne l’appassionato continuatore, accanto al Presidente, da alcuni anni l’ambasciatore Luigi Vittorio Ferraris. Si noti che Roberto Cotteri nacque, come il fratello, in Bulgaria, dove il padre era direttore del Centro culturale italiano. Accanto all’amore per l’insegnamento era certamente presente in lui una sensibilità per la cultura europea. La figura del prof. Cotteri rimane un esempio di dedizione alla formazione culturale dei giovani ed insieme di costante impegno nel dialogo europeo.
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Premessa I contributi del seminario, che qui offriamo in stampa, affrontano da diverse prospettive i temi della scuola, della formazione, della ricerca e dello sviluppo coniugando le varie problematiche nella “logica” del breve e del medio-lungo periodo. Vi sono infatti aspetti che esigono di essere affrontati con puntuale riferimento a ciò che caratterizza il presente nella sua peculiare e drammatica immediatezza, e altri i quali presuppongono approfondimenti che, al di la della necessaria considerazione dell’immediatezza, non possono mancare di riferirsi a quanto il pensiero greco-europeo ha prodotto nell’approccio a problematiche di grande spessore concettuale come la conoscenza, la formazione, la ricerca e la democrazia. Di questo duplice approccio i testi che qui presentiamo, nella varietà organica delle loro scansioni e articolazioni, offrono una chiara testi monianza. E pressoché superfluo rilevare che essi consentono di sviluppare un discorso riferibile non solo alle questioni concernenti il sistema formativo italiano nella configurazione attuale, ma anche a quelle riguardanti le politiche formative della comunità europea, la quale non sembra ancora in grado di parlare “con una voce unica” dei problemi che il convegno ha posto sul tappeto. Vi sono due questioni che meritano già in questa sommaria prefigurazione, di essere segnalate. La prima riguarda l’opportunità di una considerazione qualitativa e non meramente quantitativa della crescita, posto che per crescita non devono intendersi il puro e semplice accresci mento, l’espansone, la moltiplicazione, la proliferazione. Altrettanto puo dirsi dello sviluppo, del quale sono stati messi in luce, già dai tempi del “Club di Roma” (anni ‘50 dello scorso secolo) i limiti, nel senso della sostenibilità. La vera formazione non può avere i caratteri della crescita qualitativa, alla quale le strutture ad essa preposte, e in particolare la scuola e l’università, debbono saper corrispondere non già nella forma di un puro e semplice adeguamento all’esistente, ma in quello di una trasformazione in positivo di ciò che l’esistente spesso implica e
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prospetta in termini di negatività. Le strutture preposte alla formazione possono e debbono, ad esempio, porre un argine al diffondersi di una “cultura dell’incultura” e far sì che i progressi tecnologici, i nuovi alfabeti, al di là di ogni forma di luddismo retrogrado, non pregiudichino la crescita qualitativa a cui già si è fatto cenno. Da questo punto di vista si puo dire che l’iniziativa del seminario ha voluto colmare le lacune di una politica della formazione poco lungimirante, e insieme quelle di una pedagogia divisa e combattuta fra l’esigenza di contribuire alla gestione del breve periodo e quella di affrontare, in una dimensione storicotematica, e quindi retrospettivamente e prospetticamente, i temi del lungo periodo, contribuendo a porre in essere politiche formative adeguate e di ampio orizzonte.
In dem Seminar sollen die Themenkreise Schule, Bildung und Entwicklung in Anbetracht der Problematiken behandelt werden, die ein kurzfristiger und ein mittel-bis langfristiger Ansatz aufwerfen. Zum einen gibt es Aspekte der Agenda, deren Untersuchung eine genaue Bezugnahme darauf erfordern, was die Gegenwart in ihrer besonderen und dramatischen Unmittelbarkeit kennzeichnet. Andere Aspekte wiedarum setzen tiefere Einsichten voraus, die über die erforderiiche Betrachtung der Unmittelbarkeit hinaus auch all das berücksichtigen müssen, was das griechisch-europäische Denken in Bezug auf Fragen von großer begrifflicher Tragweite wie Wissen, Bildung, Forschung und Demokratie hervorgebracht hat.
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Diese zwei Denkansätze sollen durch das Seminarprogramm in seiner reichhaltigen wie in sich geschlossenen Abfolge deutlich herausgearbeitet werden. Nahezu überflüssig ist wohin der Hinweis, dass dieses Programm den Anstoß zu Überlegungen gibt, die nicht nur Fragen des italienischen Bildungssystems in seiner gegenwärtigen Ausprägung betreffen, sondern auch Fragen der europäischen Bildungspolitik, die noch immer nicht im Stande zu sein scheint, “mit einer Stimme” über Probleme zu sprechen, die das Seminar aufgreifen wird. Auf zwei behandlungswerte Punkte sei bereits an dieser Stelle hingewiesen: der erste betrifft die Frage, ob es nicht angebracht wäre, Wachstum nicht nur unter einem quantitativen, sondern auch unter einem qualitativen Gesichtspunkt zu betrachten, da Wachstum ja nicht einfach mit Zunahme, Ausdehnung, Vermehrung und Verbreitung gleichgesetzt werden kann. Gleiches gilt für die Entwicklung, deren Grenzen in Bezug auf Nachhaltigkeit bereits in den 1950er-Jahren vom “Club of Rome” aufgezeigt wurden. Echte Bildung kann nur die Merkmale eines qualitativen Wachstums haben. Diesem Maßstab haben die zuständigen Einrichtungen, und insbesondere Schule und Universität, zu entsprechen, und zwar nicht einfach, indem sie dem Bestehenden gerecht werden, sondern indem sie das, was das Bestehende an Negativem impliziert oder ankündigt, ins Positive verkehren. So sollten Bildungseinrichtungen beispielsweise der Verbreitung einer “Kultur der NichtKultur” Einhalt gebieten und dafür sorgen, dass der technologische Fortschritt und neue Zeichensysteme jenseits aller rückstandigen luddistischen Bestrebungen das bereits erwahnte qualitative Wachstum nicht in Frage stellen. So gesehen kann man sagen, dass das Seminar das Ziel verfolgt, die Lücken in einer wenig weitsichtigen Bildungspolitik und einer in sich gespaltenen Pädagogik zu füllen, die hin und her gerissen ist zwischen der Notwendigkeit, kurzfristige Lösungen zu finden, und der Notwendigkeit, in einer historischthematischen Dimension und also sowohl rückblickend als auch vorausblickend Themen in Angriff zu nehmen, die uns auf lange Sicht beschäftigen. Damit soil ein Beitrag zur Entwicklung einer angemessenen Bildungspolitik geleistet werden, die einen weiten Horizont umfass.
Saggi
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Alberto Granese*1 Il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Cost It.) Strategie politico-economiche della formazione The full development of the human person. The problem of the economic relevance of educational processes may be dealt with under different points of view. One is when we take into account the mere economic profit and loss calculation, the other when we consider the humanistic aspect of education, regarded as an investment and evaluation of human beings as basic resources and at the same time as “subjects of rights”. It may be said that the worst kind of diseconomy is the dissipation of the possibilities of human beings when they are considered – against the Kantian recommendation – as a means not as an end. It may be regarded as naïve and contradictory to assume that there is a “good” or “right” economy and a “bad” or “unjust” one, in the same way in which it is not possible to affirm that there is a “good” and a “bad” science. However the consideration of the person-value may contribute to bridge the gap between a “technical” economy (morally agnostic) and an economy intended as administration and evaluation of humanity in order to achieve the”bonum publicum” in the ways and terms of what has been defined as “integral humanity”. Ad evitare banalità edificanti, ispirate a un generico umanitarismo, si deve osservare, già in premessa, che se per un verso una sana economia non può disattendere le esigenze, le istanze i diritti della persona qua talis per l’altro è lo sviluppo pieno e integrale della persona umana ad assumere il significato di un fattore essenziale allo sviluppo econoProf. Ord. em. di Pedagogia nell’Università di Cagliari. Vicepresidente dell’Accademia di Studi italo-tedeschi di Merano. *
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mico. Il diritto al pieno sviluppo della persona si traduce oggettivamente – quasi automaticamente – nella strategia della crescita collettiva. Il tema della formazione assume una valenza economica in termini di utilizzo delle risorse e di considerazione realistica del rapporto tra profitti e perdite. Uno degli aspetti importanti dell’umanismo marxista – ad esempio – è il modo in cui si pone, in quest’ambito, la questione del rapporto tra la necessità e la libertà, con specifico riferimento all’“agire produttivo” e al suo duplice carattere di servizio reso “transitivamente” e di vantaggio e beneficio acquisito in termini di realizzazione e di sviluppo della persona. Che vi siano aspetti in vari sensi “economici” dell’agire educativamente finalizzato è proposizione così ovvia che quasi non vale la pena di argomentarla. Si deve considerare, a questo proposito, la valenza inscindibilmente duplice: oblativa e retributiva dell’educare. Se un’educazione puramente oblativa è impensabile in concreto perché appartiene al precario dominio (anche se qui spesso si colloca imperativamente il quid iuris) dell’utopia, per motivi opposti e corrispondenti, un’educazione puramente economica (e vale a dire informata a criteri di pura economicità in senso tecnico) è anch’essa impensabile. Come diceva J.B.Say (economista “classico” francese) di principi e governanti l’educazione (precaria e debole legislatrice) deve obbedire alle leggi economiche, ma è anche vero che l’economia deve essere di continuo corretta (nelle sue declinazioni anti-umanistiche) dalla considerazione del quid iuris umanistico-pedagogico che emerge imperativamente in ogni riflessione coerente sui problemi ontologico-evolutivi, essenziali ed evenemenziali della forma hominis. Sul carattere negativamente anti-umanistico dell’economia si è spesso insistito sviluppando argomentazioni in parte parallele a quelle con le quali nella recente modernità si è cercato di disilludere circa le magnifiche sorti e progressive della razionalità scientifica e della società tecnologica. Ma si è anche insistito, in modo paradossalmente convergente, sul carattere di necessità delle leggi economiche e sul dovere (anche per chi elabora strategie altamente umanistiche di educazioneformazione) di farle oggetto di una considerazione realistica.
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Prendere atto, viceversa, che le questioni connesse alla formatività in senso pedagogico esigono di essere affrontate in chiave di economia realistica, sia che si parli del rapporto tra la costituzione liberale della persona e il suo offrirsi strumentale per il soddisfacimento di bisogni collettivi, sia che si abbia riguardo alla dialettica generazionale, all’esigenza di una cura educativa incondizionata ed estesa molto oltre i limiti della formazione tradizionale dei non adulti, o che ci si riferisca alle dialettiche demografiche locali o planetarie nel loro combinarsi con gli sviluppi dell’economia globale propiziata e complicata dalla universalità e dalla simultaneità delle tecnologie (con conseguenze rivoluzionarie quanto inquietanti per ciò che attiene al cosiddetto mercato del lavoro) significa assumere una posizione di controtendenza rispetto alla pretesa ingenua di realizzare l’umano-universale, in violazione delle leggi economiche. Dire che un’economia fondata sull’etica o troppo riguardosa dei valori etici è ingenua – e quindi non-scientifica – è un modo a sua volta ingenuo di trascurare i contesti più generalmente antropologici da cui i fenomeni economici ricevono il loro senso, ignorando le formazioni di pensiero economico che, al di là di un economicismo agnostico e apatico affrontano in tutta la loro complessità i problemi di una società planetaria globale, in contrasto con una economia tradizionalmente orientata all’analisi di situazioni parziali e alla considerazione di parziali (e cioè non generalmente umani) interessi: un’economia, per essere chiari, che parla di costo del lavoro e di mercato del lavoro senza aver riguardo agli aspetti generalmente antropologici del problema, e non riflette, o ostenta scientisticamente di non voler considerare, che solo in una situazione planetaria in cui la globalizzazione imperfetta e viziata assume i connotati di un nuovo e più perverso “colonialismo” si può parlare del lavoro come merce. Il contenuto di alcune recenti encicliche di argomento sociale ed economico, analizzato in modo critico, si lascia significativamente interpretare come indizio di una tale controtendenza. In documenti quali la Populorum progressio (1967), la Octogesima adveniens (1971), la Laborem exercens (1981), la Sollecitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991) ciò che emerge e impressiona non è tanto l’esortazione a una pratica economica fondata su leggi morali e di esse rispettose, quanto il sostanziale e sotteso riconoscimento del
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carattere irriducibilmente economico delle iniziative umane intraprese a realizzazione e tutela del bene personale e comune. A dire il vero la rilevanza di questo fatto per una considerazione equilibrata e rigorosa del rapporto fra economia e formatività pedagogica non è stata finora adeguatamente apprezzata, sicché non sarà fuor di luogo tentare in questa sede un qualche approfondimento. Ed è proprio tenendo conto del positivo della formatività pedagogica con le sue insopprimibili implicazioni di economicità che i documenti di cui abbiamo appena fatto menzione possono essere richiamati e interpretati. Soccorre del resto, nel fare ciò, la nozione stessa di economia politica, espressione entrata in circolo già nel famoso Traité de l’economie politique dédié au Roi et a la Reine Mère par Antoine de Montchrestiene sieur de Vadeville (1615), tale per un verso da far risaltare il carattere non meramente tecnico-scientifico (in quanto politico) dell’economia, e per l’altro da comportare per l’economia un distacco dalla morale analogo a quello che, dichiaratamente o praticamente, già allora si esigeva o si raccomandava per la politica. Si tratta, dunque – e in primo luogo – di documenti ispirati a un sostanziale realismo economico, strutturati e articolati in base a criteri di ricognizione e di descrizione oggettiva dei fatti. Essi non tratteggiano i contorni di un mondo ideale o idealizzato e fantastico, e bensì di un mondo reale, tendenzialmente “globale”, e per ciò stesso accessibile alla comprensione proprio in una considerazione totalizzante, volta all’integrazione di prospettive parziali. Il presupposto sembra essere che un’economia veramente generale (e quindi autenticamente politica e scientifica) non può che essere un’economia generalmente umanistica, inscindibilmente connessa a una dottrina e a una disciplina generale o “governo” della formatività umana. Ė proprio nel porre al centro della critica economica i concetti di diritto naturale, di persona e di bene comune che il discorso delle recenti encicliche assume una valenza realistica e si sottrae radicalmente all’alternativa economia (politica) scientifica o economia (impolitica) umanitaria. Affermazioni come quelle relative alla intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico” in quanto questo “subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo” (Sollecitudo
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rei socialis, par. 32, corsivi nel testo) hanno appunto una valenza di questo tipo. Al di là di ogni moralismo e di ogni astratto umanitarismo ci si cala concettualmente, con queste enunciazioni, nella concreta problematica dello sviluppo, assunta nella sua duplice, ma non dualistica, configurazione di incremento e potenziamento finalistico delle persone e di perfezionamento dei contesti in cui lo sviluppo stesso, in una trama di infiniti condizionamenti, si realizza. Le oscillazioni ricorrenti, ora vistose, ora poco più che percettibili, tra un atteggiamento scientifico-antiumanistico e il ricorso a considerazioni d’ordine generalmente umanistico e formativo, nonché a categorie che ben si possono definire di matrice e di natura psicologica, non dovrebbe passare inosservato. A questo specifico proposito deve dirsi che l’oggettivazione delle leggi economiche non è esente da ambiguità, che – nei casi più significativi e più importanti – si caratterizzano come figure dell’ambivalenza. Vi è infatti una rivendicazione dell’oggettività che sembra indurre a una sorta di autoassoggettamento alle ferree leggi economiche (all’insegna di una sorta di natura non nisi parendo vincitur), e un suo riconoscimento molto meno passivo, che si traduce in una consapevolezza di effetti alla cui correzione si può procedere umanisticamente proprio in virtù di quella oggettivazione. Da un punto di vista più generalmente strutturale e tematico si può ben dire che il passaggio dalle concezioni mercantilistiche e fisiocratiche alle tesi marginalistiche, del valore lavoro ecc. comporta una progressiva accentuazione degli aspetti puramente tecnico-formali dell’approccio alle problematiche economiche e al tempo stesso – e non separabilmente – una considerazione di aspetti non-riducibili a un’economia oggettivisticamente configurata. Proprio dal momento in cui l’economia si istituisce come scienza oggettiva e rigorosa (tendenzialmente e metodicamente “anti-umanistica”) il pensiero economico appare permeato, e in molti casi determinato, da categorie la cui appartenenza a una pedagogia latamente intesa del tipo qui proposto e teorizzato appare evidente. Fra il tentativo spersonalizzante e antiumanistico (come sembra debba essere una scienza di fatti, apatica e che per definizione non ha morale) di determinare le leggi economiche e le ricorrenti rilevazioni (da Rousseau in poi e per tutta la traiettoria
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della modernità post-illuministica) degli effetti di alienazione prodotti da uno sviluppo non-umanistico, si collocano le tematizzazioni relative alla produttività e alla realizzazione umana, ai bisogni, ai desideri, alle imputazioni e attribuzioni di significato, alle immagini e alle percezioni soggettive e collettive, alle abitudini, alle aspirazioni, alle prospettive, e quindi ai processi e ai modelli di formazione ecc.. L’economia scientifica nasce parallelamente alla pedagogia scientifica e con una motivazione analoga, che è quella di razionalizzare conoscitivamente ciò che si determina in primo luogo come presa d’atto di una razionalizzazione totale (che includa anche i valori). Se si considera – avendo presenti i problemi della recente modernità – che: “Nel processo sviluppato dalla propria intelligenza, l’uomo può facilmente diventare uno strumento del sistema delle cose, del sistema materiale, può anche diventare oggetto di una molteplice manipolazione sociale…” (K. Wojtyla, Perché l’uomo. Scritti inediti di Antropologia e filosofia, Milano 1995, p. 232),
ci si rende conto delle implicazioni di questo paradossale parallelismo. Come anche dimostrano le connessioni con la filosofia generale e politica, con il radicalismo ottocentesco, con il contrattualismo e con l’utilitarismo, e con una filosofia morale di cui la modernità matura e tarda ha fornito esempi di grande rilevanza, fino ai neo-utilitarismi, ai neo-contrattualismi ecc. nel momento in cui l’economia (politica) assume una configurazione marcatamente formale e tecnica, i problemi di uno sviluppo umano personale, comunitario e sociale incondizionato emergono a un livello di consapevolezza forse ancor maggiore (benché radicato nella pre-modernità) di quello testimoniato dalla scienza economica. A questo particolare proposito va sottolineata l’ambivalenza marxiana (del Marx già citato, che aveva messo a confronto i sistemi del determinista Democrito e del possibilista Epicuro) nell’associare all’oggettivazione scientifica (che aveva un irrinunciabile punto di forza nell’analisi economica) la preoccupazione umanistica (o “etica”) di sottrarre gli uomini al determinismo economico. L’interpretazione in alcune fasi e in alcuni contesti ricorrente e dominante del marxismo
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come una teoria che fa dipendere ogni sviluppo ed ogni realtà dalle condizioni economicamente determinate è significativa, sia nei contesti e nelle prospettive di apprezzamento che in quelle di rifiuto o di critica. Gli aspetti a un tempo umanistici e anti-umanistici (nel senso di quello che sarà chiamato l’anti-umanesimo teorico) del pensiero economico di Marx sono evidenti, già nella critica di Marx a Smith nei Grundrisse del 1859. Ma ancor prima, e già a partire dai fisiocratici, questa peculiare oscillazione si era manifestata. Il processo “senza soggetto” della produzione di ricchezza attraverso lo scambio in realtà presupponeva attività, scelte, e aspirazioni umane che solo complicati processi di formazione umana in senso non-economico rendevano possibile. Il passaggio alla teoria fisiocratica del surplus e del produit net, a prima vista più rigorosamente e anti-umanisticamente oggettivante, già nel Tableau oeconomique di Quesnay (1758) si sviluppava in forme tali – e questo si sarebbe manifestato con chiarezza ancor maggiore in Turgot – da far posto ampiamente ai fattori soggettivi. Ma è proprio su questa soggettività e sul suo rapporto con uno specifico principio e presupposto di oggettivazione che bisognerebbe far chiarezza. Ciò soprattutto ad evitare che il timore della reductio in aliud genus abbia come effetto pseudospeciazioni surrettizie e idiotismi specialistici tendenziosamente argomentati. Il carattere impersonale delle vicende economiche (ad es. quelle di cui ebbe ad occuparsi Keynes, evidenziando la grande complessità dei processi che riguardano la produzione, la distribuzione e il consumo e che quindi rendono problematica la coordinazione delle attività umane, le politiche finanziarie, monetarie e dell’occupazione) non pone problemi di rapporto con la soggettività più ardui e drammatici di quanti ne ponga l’oggettività impersonale dei fenomeni epidemici o dei fattori che in determinati contesti influiscono sulla salute fisica o sulla longevità media delle popolazioni. Solo una caricatura del rapporto tra oggettività epistemica e soggettività esistenziale può aver come contenuto e conseguenza perplessità teoriche del tipo enfaticamente esibito dalle filosofie di impianto strutturalistico. Ed è di poco significato il contrapporre a uno strutturalismo o a un oggettivismo spersonalizzante il rilievo che le leggi economiche sono in ultima istanza la risultante sovrastrutturale di opzioni radicate nella psicologia individuale o di
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gruppo. Meno che mai – e quasi in risposta a tentativi di espropriazione pur non infrequenti – si vorrebbe passare dalla reductio in aliud genus della pedagogia alla redintegratio in suum, da parte della pedagogia, degli ambiti di problematicità o delle discipline che abbiano, per così dire, la debolezza di fare spazio a categorie su cui il pedagogista può far valere una sorta di diritto di priorità, o di accesso e uso privilegiato, se non esclusivo. Considerazioni relative al concetto di forma varrebbero – e proprio trattando di un tema così agevolmente riconducibile al genus pedagogico come quello di – formatività – che la contrapposizione pseudo-metafisica fra l’interesse per gli atti puri di una soggettività configurata come suppositum humanum e la considerazione delle dimensioni in cui – del tutto evidentemente – la soggettività è trascesa (ma è appunto il carattere di tale trascendimento che dovrebbe essere chiarito) è manifestazione – se così è consentito esprimersi – di una sottigliezza o di una acutezza inautentiche, tali da far perdere il senso profondo delle connessioni da cui è costituito e attraverso le quali si manifesta nella sua integralità condizionata e creativa, l’“umano”. Di volta in volta la biologia o la storia, il diritto o la considerazione dei fatti sociali o delle vicende culturali stimolano a trovare un punto di equilibrio fra la pura datità (cosale, fattuale o evenemenziale) dell’umano e la specifica qualità dell’azione, ed anzi dell’atto, che è pensabile e concettualmente configurabile solo come creazione personale da una sorta di nulla-tutto che pur imperativamente condiziona e determina. Sotto questo profilo l’impersonalità logico-meccanica delle leggi che presiedono alla dinamiche di produzione, consumo, occupazione ecc.. non ha nulla di più sorprendente dell’impersonalità biologica, storica, giuridica, culturale, sociale, politica ecc… Né è motivo di sorpresa il ritrovare nel formalismo astraente della scienza economica le categorie-criteri della scelta, della determinazione individuale e altre simili. Quel che viceversa più appare meritevole di evidenziazione è il piano della formatività, con la sua ambivalenza, o plurivalenza, di aspetti impersonali e di momenti di consapevolezza intenzionale (nel duplice senso di rivolto ad un oggetto e di volto a un fine). Il continuo commutarsi dei motivi impersonali in quelli che non possono che configurarsi (pena una sorta di vanificazione) come personali è quanto di più prossimo possa imma-
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ginarsi a una pedagogia latamente intesa, e vale a dire rappresentata in termini critico-radicali. A questo livello non ci si deve più occupare di ciò che peraltro è di vitale importanza, come l’economicità dell’educazione o il valore pedagogico (umanamente formativo) dell’economia, e dell’organizzazione politico-economica, giacché è piuttosto il nucleo concettuale della formatività pedagogica nel suo rapporto con altre modalità di formazione che dovrà essere tenuto presente ed assunto quale chiave di volta dell’analisi. In quanto concerne dati di realtà come il lavoro, la produzione, i desideri, i bisogni, e correlativamente i diritti, le retribuzioni, le condizioni di vita e di esistenza, l’economia appare impossibilitata a sottrarsi a quelle stesse valutazioni d’ordine etico che la sua natura e i suoi sviluppi di disciplina scientifica tenderebbero a escludere, così come tendono a escluderle, più in generale, le altre discipline scientifiche. E tuttavia, paradossalmente, la considerazione rigorosamente e anti-umanisticamente scientifica dei fenomeni riferibili alle categorie sopra considerate, e quella dichiaratamente umanistica, incardinata sull’irrinunciabile presupposto-valore della cura hominis, non solo appaiono compatibili, ma hanno nella ricerca e nel riconoscimento della loro compatibilità la condizione necessaria a garantire e a preservare il senso delle due prospettive. La mistificazione di un’economia scientistica e tecnicistica può consistere nel fatto di non riconoscere il carattere latamente ma anche fondamentalmente economico di quelle categorie che l’economismo non-radicale può trovare più conforme alle proprie limitate strategie considerare non riconducibili alla dimensione economica. Non sarà fuor di luogo far rilevare come alcune delle più importanti questioni pedagogiche richiamino e sottendano problematiche d’ordine e di carattere strettamente economico. Il problema dell’educazione permanente, protratta per tutto l’arco dell’età adulta è in realtà – e in modo assolutamente contestuale – il problema della condizione esistenziale del soggetto umano in quanto portatore di istanze di umanità generale e indivisa in situazioni (mancanza di lavoro, sfruttamento da mercificazione del lavoro, sottrazione di tempo libero da destinare ad attività corrispondenti a personali esigenze di libera realizzazione e di autonoma fruizione di beni culturali) che ostacolano o rendono im-
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possibile la coltivazione dell’umanità universale in tutti e in ciascuno. Che la disoccupazione (o come sarebbe meglio dire la mancanza di opportunità e di possibilità di lavoro) o l’esposizione allo sfruttamento economico sia una condizione esistenziale non meno che economica è del tutto evidente; si tratta, congiuntamente e inseparabilmente, di una stessa realtà. Più in generale – e con riferimento a tutti i soggetti umani e non solo agli adulti – si dovrebbe verificare la compatibilità dei presupposti e dei principi economici (tecnico-scientifici e politici) col principio dell’educazione incondizionata, riproponendo l’analisi del dualismo pianomercato in una prospettiva di globalizzazione intesa come realizzazione coerente dell’umanità universale e non solo come sistema universale di interazioni, scambi, investimenti, acquisti e consumi. Qui la considerazione dell’economia in senso tecnico lascia il posto a una proiezione economica rispetto a cui l’approccio economico in senso tecnico e classico appare inadeguato e – se così può dirsi – “diseconomico”, come ha messo in evidenza anche Jean Piaget, naturalista, filosofo-epistemologo sensibile ai motivi di una pedagogia concreta (una “educazione-promozione – Befoerderung – del genere umano”, per usare un’espressione del teologo-filosofo, illuminista- romantico Herder). Questa connessione chiama in causa urgentemente le politiche di buon governo globale e quindi di un’economia intesa come amministrazione complessiva, secondo fini chiaramente determinati, su basi di ontologia normativa (la sola categoria che assicuri una qualche consistenza al concetto di diritto) delle risorse di un’umanità considerata essa stessa, nella sua generalità di consorzio di conspecifici e in ogni determinazione individuale, come un fine (è quel che intende l’economista-filosofo A. Sen in un suo importante saggio). La considerazione restrittivamente economicistica (modi di produzione, risparmi e riduzione delle spese, opportunità di acquisizione della forza lavoro a buon mercato) viene perversamente e pericolosamente combinandosi con la considerazione restrittivamente cognitivistica di quelle stesse prospettive e di quegli stessi fenomeni e linee di tendenza. A questo restrittivo e sconsiderato economicismo si associa quello che J. Piaget ebbe a chiamare “feticismo della crescita” (“growthmanship”, per
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usare l’espressione di Colin Clark): L’interesse sempre maggiore rivolto alla crescita, secondo Piaget, conduce in certi casi a una interpretazione esagerata degli indici di crescita, trattati come criteri decisivi dell’efficacia del sistema economico o di una politica economica data. Questioni quali l’effetto finale della conoscenza sul livello di vita e sul modo di vita della popolazione, sulla giustizia sociale, sulle diseconomie esterne ecc. sono frequentemente trascurate; non ci si può attendere una correlazione positiva semplice tra la crescita economica misurata in base all’aumento della produzione per ora supplementare individuale e i cambiamenti sociali favorevoli. L’occuparsene sembra particolarmente indicato per i paesi sottosviluppati senza esser per questo accessoria per i paesi più sviluppati. Sfortunatamente la teoria della crescita ha fin qui contribuito in misura troppo debole a confutare l’accusa secondo la quale la crescita è trattata come un fine in sé e non semplicemente come una base di sviluppo e di progresso in un senso molto più largo e molto più complesso. Pertanto è necessario abbordare i problemi economici nel loro aspetto dinamico, mettendo l’accento sulle dinamiche di lungo periodo… Per affrontare le realtà future gli economisti dovranno tener conto degli elementi socio-economici, nel senso più largo del termine, nella corrente principale della ricerca teorica. In quanto scienza della dinamica macroeconomica la scienza economica dovrà ridiventare una scienza sociale, il che non è altro che l’economia politica nel senso proprio di questa espressione. Si potrebbe altresì riflettere alla nascita stessa dell’economia “politica” e rilevare come l’aggettivo “politica” da un lato induca a respingere l’idea di un’economia “etica” e dall’altro comporti l’esatto contrario, considerato che la politica è una dimensione fondamentale, o addirittura culminante, dell’eticità. Se poi si pensa che per diventare “umanistica” l’economia dovrebbe comparire di fronte al tribunale della filosofia (che con la morale e con l’etica ha ed ha avuto costante rapporto, così come lo ha e lo ha avuto con la gnoseologia, con l’epistemologia e con la logica), ci si deve attendere una risposta in un certo senso ovvia, ma per altri versi non poi così scontata e condivisa a fronte di autoreferenzialità narcisistiche portare la filosofia davanti al tribunale dell’economia è utile e opportuno, non esattamente nel senso
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oggi improponibile nelle sue implicazioni di carattere strettamente e immediatamente “pratico” in cui lo aveva fatto Marx, ma nemmeno in modo troppo diverso. L’economia benintesa (di cui vi sono stati nel marxismo preannunci significativi, e alla quale hanno fatto seguito deviazioni economicistiche e perverse pratiche socio-politiche) può contribuire a un riscatto e a una riabilitazione della filosofia, a una sua conversione e alla rinuncia ai “vizi solitari”, spesso praticati con frivolo compiacimento, sia nel campo delle metafisiche di alto profilo che sul terreno delle “sobrie” e prudenti investigazioni analitiche (Marx aveva denunciato la miseria della filosofia ed enunciata una tesi – l’11^ “a Feuerbach” – che si può ancor oggi accogliere parafrasandola come segue: “I filosofi hanno rappresentato e interpretato il mondo in modi diversi, ma il problema è quello di governarlo universalmente, secondo libertà e giustizia”). In chiave assai diversa ma comparabile il teologo Rahner ha potuto distinguere tra il concetto della Trinità “immanente”, ossia di una figura della mistericità considerata in sé stessa, e la Trinità “economica”, interpretata e collocata nel contesto (da Rahner definito appunto “economico”) di un programma finalizzato alla “salvezza” del genere umano. Questa economia non può evidentemente prescindere dalla considerazione dell’unico fattore e dell’unico oggetto la cui amministrazione ha un senso autenticamente economico, vale a dire l’oggetto-soggetto per eccellenza: la persona. È la riflessione sulla persona, su ciò che vi è in essa di costitutivo e di permanente, come capacità, possibilità e diritti (cose fra loro strettamente connesse) a consentire un corretto approccio ai problemi della globalità e delle strutture impersonali, delle quali si preoccupano i teorici, variamente orientati e collocati, del processo senza soggetto: una volta di più la persona, che ancor oggi attende di realizzarsi nell’universalità della humanitas, e che quindi anticipa, fornendole imprescindibili idee regolative, ogni concreta economia futura, con una sorta di “sintesi a priori” etico-scientifica. Ciò rivela contraddizioni e insieme ne toglie: la contraddizione posta è che l’impersonalità dell’economia sembra indebolire la considerazione della persona e perfino far assumere un colore di velleità e di inutilità alle teorie personalistiche. La contraddizione tolta è che se l’economia deve considerarsi ordinata alla persona la critica dell’economia alla filosofia
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assume il senso di un richiamo a profonde investigazioni concettuali e a quelle determinazioni metafisiche che da sempre (o quantomeno da Aristotele in poi) costituiscono il “meglio” e comunque l’aspetto e l’apporto “cognitivo” sostanziale della filosofia. Per tornare al tema del laicismo: sembra che l’economia abbia talvolta bisogno del “politeismo” (o dell’indifferentismo) assiologico, e talvolta del suo contrario, vale a dire di presupposti etici invariabili e irrinunciabili.
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Michele Nicoletti*1 Ricerca della verità e sviluppo della democrazia Search of truth and development of democracy. The essay aims to investigate if and under which conditions democracy can be defined as a “truth-sensitive” regime (Habermas). In the first part the issue is that the search for truth has always played a meaningful role in societies as a critical instance against those authoritarian regimes, which tend to impose a particular ideology through violence. To this regard the author indicates the resistence of free consciences against totalitarianism in 20th Century as a fundamental chapter in the fight for freedom and in the democracy building process. In its second part the essay aims to demonstrate that democracies have to support the free search for truth not only in historiography, jurisdiction, science, but also in ethics, religion and philosophy. This support must follow a methodology of openness and dialogue based on reciprocal respect. La questione della «verità» è tornata ad intrigare la riflessione sulla società contemporanea. La sua ricomparsa sulla scena – dopo qualche tempo di messa tra parentesi – è stata legata negli ultimi tempi all’irruzione nell’orizzonte del politico di movimenti che nell’esprimere una loro posizione sui temi dell’agenda politica – con particolare riferimento alle questioni di bioetica – hanno rivendicato la necessità che le decisioni politiche fossero in qualche modo ancorate a delle verità di carattere religioso o filosofico o morale per evitare che l’individuazione del bene comune venga affidata alla semplice misurazione delle forze in campo e dunque alla ragione del più forte. Di fronte all’ergersi di questa pretesa – che si è tradotta talvolta in aperto e fattivo intervento di autorità religiose in materia non solo di principi, ma anche di concrete scelte legislative e politiche – si è rea*
Prof. Ord. di Filosofia politica all’Università di Trento.
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gito rivendicando alla politica, e in special modo alla politica liberale e democratica, il suo non essere legata a questa o a quella visione del mondo e dunque la necessità di neutralizzare nello spazio politico il riferimento alla verità come elemento di pericoloso integralismo, portatore di intolleranza e di alterazione della fondamentale laicità delle istituzioni pubbliche, almeno così come concepite nel nostro ordinamento costituzionale. Di fronte al ripresentarsi della questione della verità sulla scena politica, le preoccupazioni sono del tutto legittime e, ancor più, salutari per tutti. Il secolo scorso con i suoi regimi totalitari ci ha ben mostrato che cosa possa dire una stretta coniugazione dei due termini: ogni «regime della verità» ha ben presto prodotto un’ammorbante «verità di regime» che altro non era che costruzione ideologica e alla fine menzogna, come accade a ogni ideologia che sia disposta, per affermare se stessa e il potere dei propri sostenitori, a calpestare l’essere umano, la sua dignità e il suo concreto darsi nelle persone in carne ed ossa. Ma forse proprio la riflessione sul regime della menzogna può essere un buon punto di partenza per individuare qualche potenzialità positiva e liberatrice di una declinazione – certo non assolutista e autoritaria – del rapporto tra verità e politica. Al rischio della menzogna e di un suo regime sono esposti non solo i regimi totalitari, ma – come drammaticamente ci conferma anche la situazione italiana – quei regimi in cui la manipolazione dell’informazione è strumento quotidiano della lotta per la conservazione del potere.
1. Il regime della menzogna e la ricerca liberatrice della verità La società può, sempre di nuovo, finire vittima di false rappresentazioni della realtà e queste false opinioni non sono solo il frutto di errori individuali casuali. Sono anche il frutto di relazioni sociali, di relazioni di potere. Nell’eterno gioco di aumentare il proprio potere, ogni individuo cerca di acquisire per sé il potere di un altro essere umano per usarlo come uno strumento al proprio servizio. Cerca di usare l’altro per il proprio piacere, per aumentare la propria potenza. Per fare questo
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si può naturalmente costringere l’altro con la violenza, cosa che sempre accade, ma per rendere stabile e duratura una relazione di dominio è necessario elaborare una visione del mondo che giustifichi la sottomissione dell’uno all’altro. Di qui l’elaborazione di rappresentazioni della realtà sociale che asseriscono la superiorità di alcuni individui su altri individui, degli uomini sulle donne, dei ricchi sui poveri, dei neri sui bianchi. Quando queste rappresentazioni si solidificano nella realtà sociale e si impongono attraverso i secoli – come è stato per la giustificazione della inferiorità «naturale» della donna rispetto all’uomo o dello schiavo rispetto al padrone – esse non si lasciano cancellare da una semplice discussione, dal semplice presentarsi di un’opinione diversa. Esse resistono con la forza, radicate nel potere e nelle coscienze dei dominatori e spesso anche dei dominati. La falsa rappresentazione divenuta opinione comune ha una straordinaria potenza inerziale e solo un faticoso lavoro della ragione, della speranza e della lotta può arrivare a scalfirle. In questo lavoro la ricerca della verità anche sul piano sociale e politico, ossia la messa in questione dell’esistente e la ricerca del vero bene comune e delle giuste relazioni tra gli individui, manifesta tutta la sua forza liberatrice. Per questo nella tradizione occidentale siamo soliti legare la nascita del politico e delle prime forme di democrazia nella Grecia antica alla nascita della «filosofia», ossia di quella ricerca razionale del vero di cui sono figlie e la filosofia e la scienza e la stessa teologia. E questa ricerca avveniva non solo nello spazio privato, ma anche nello spazio pubblico. È sulla piazza che Socrate conduce la sua incessante ricerca della verità, mettendo in questione le opinioni consolidate, la cultura dominante e i rapporti di potere esistenti. La sua critica si rivolge contro il falso sapere rappresentato dalle «opinioni» correnti e contro il falso potere che mira a conquistare il consenso attraverso il compiacimento dell’altro. È questo il cattivo servizio della «retorica», dell’arte del persuadere, di quest’arte «culinaria» – come si legge nel Gorgia – che mira a compiacere l’altro per renderlo schiavo. La ricerca della verità – che invece non compiace, ma irrita, perché mette in discussione le facili certezze e i privilegi esistenti – è liberatrice: non mira a fare dell’altro un servo, ma un signore, perché possa condurre da sé la propria vita. La
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ricerca della verità si mostra qui intimamente legata non solo a un modo di pensare e di essere individuale, ma anche a un modo di convivere. I cercatori della verità vogliono la libertà per sé e per gli altri e instaurano dunque forme di convivenza che noi oggi definiamo democratiche: individui che si vogliono liberi e si riconoscono uguali e che dunque accolgono come legittime solo le decisioni che sono da loro stessi assunte. L’autogoverno della ragione sulle passioni nella vita individuale diventa il modello sociale della comunità che si autogoverna dandosi leggi razionali. Questa ricerca della verità si esprime nell’antica Grecia non solo attraverso forme di sapere e di pratica comunicativa, ma anche attraverso istituti politici come la parresìa, il diritto di esprimersi con franchezza, di parlare liberamente, di dire la verità nella pubblica assemblea sulle questioni pubbliche, temi che non a caso godono oggi di rinnovata attenzione come attestano le riflessioni di Michel Foucault1. È chiaro: fin dall’inizio questo rapporto tra democrazia e verità non è affatto un rapporto di conciliazione, ma piuttosto di dialettica. Il caso Socrate è emblematico. La democrazia apre lo spazio pubblico alla libera discussione, ma poiché la logica della democrazia attribuisce la forza determinante alla decisione del maggior numero, la sua logica può essere interpretata come una logica della forza. In essa prevale la decisione dei più indipendentemente dal suo contenuto veritativo e tale decisione può giungere a schiacciare e mettere a tacere la ricerca della verità. Per questo lo stesso Socrate, proprio in regime democratico, può finire messo a morte perché non intende rinunciare alla ricerca della verità: anche il regime popolare può finire schiavo delle false opinioni e della logica del dominio. I regimi totalitari del Novecento sono un esempio formidabile di questo «incantamento» collettivo o – per dirla con Bonhoeffer – di questo «instupidimento», frutto di una società in cui il valore dominante è divenuto l’ostentazione della potenza:
Cfr. M. Foucault, Discourse and truth. The problematizations of Parrhesia, Evanston Ill. 1985 (trad. it. di A. Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996). 1
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Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane – ad esempio quelle intellettuali – ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre. Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore, fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido2.
Cfr. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, a cura di C. Gremmels - E. Bethge in collaborazione con I. Tödt, Kaiser, Gütersloh 1998 (trad. it. di A. Gallas, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 1996, p. 66). 2
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2. La coscienza che resiste e lo spazio della critica Tuttavia, nonostante la potenza inaudita che manifesta, il regime della menzogna non ha una potenza infinita. Per quanto tenti di imporre il suo dominio, esso non riesce, come vorrebbe, a dominare del tutto l’animo umano. Forse la sua imperfezione gli impedisce di realizzare il sogno di un controllo totale, forse un germe ineliminabile di libertà resta a covare sotto la cenere nel cuore umano, forse davvero un dio o un demone giunge a salvare sull’orlo dell’abisso e scuote dal torpore. Restano pur sempre vere le parole che Adam Michnik ha rivolto dalla sua prigione al generale Kiszczak, ministro degli interni del generale Jaruzelski: Nella vita di ogni uomo, generale, arriva un momento in cui per dire semplicemente “questo è nero e questo è bianco” bisogna pagare molto caro […]. In quel momento, il problema principale non è sapere quanto si deve pagare, ma se il bianco è bianco e il nero è nero. Per far ciò bisogna conservare una coscienza […]. Generale, si può essere un potente ministro degli interni, avere alle spalle un potente impero che domina dall’Elba a Vladivostok, sotto di sé tutta la polizia del paese, milioni di spie e milioni di slòti per comprare pistole, cannoni, sistemi d’ascolto e informatori o giornalisti rampanti, ma ecco uscire dall’ombra uno sconosciuto che vi dice: “Ciò non lo farai”. È questo la coscienza»3. Qualcuno insomma non si piega e dalla bassura della menzogna riesce ad alzare lo sguardo. Ma per fare questo ci vuole del coraggio: «Bisogna essere integri – ha scritto Nietzsche – fino alla durezza nelle cose dello spirito per poter sopportare la mia serietà e la mia passione; bisogna essere abituati a vivere nelle montagne, a vedere al di sotto di sé la meschina ciarlataneria attuale della politica e dell’egoismo dei popoli; è necessario, infine, esser diventati indifferenti, e non domandare mai se la verità sia utile, se per qualcuno sia fatale…»4. Citato in P. Valadier, Eloge de la conscience, Seuil, Paris 1994 (trad. it. di L. Bacchiarello, Elogio della coscienza, SEI, Torino 1995, p. 6). 4 F. Nietzsche, Der Antichrist, Vorwort, in Nietzsche Werke (KGA), VI, 3, p. 165 (trad. it. L’Anticristo, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, 3
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Dunque l’affermarsi della libera ricerca della verità nella società non è senza conflitti. Implica una lotta, una disponibilità al patire. E tuttavia anche la sofferenza patita dai cercatori del vero non è il segno di una sconfitta. La stessa morte di Socrate non è leggibile come la fine di una speranza in una politica diversa: in una dimensione più profonda, quella morte disvela anche la debolezza e la nullità di ogni potere dispotico, rivela il suo limite radicale, il suo non essere assoluto, il suo non potere dominare del tutto l’animo umano. Il Socrate che resiste – come tutti coloro che resistono al potere che si fa totalitario – dimostra con la propria vita che il potere non può tutto, che la coscienza disarmata è più forte di lui e pone così le basi per un diverso potere che di fronte alla coscienza si ferma, come davanti a un limite invalicabile e in fondo, come davanti alla propria fonte. Sì, perché da lì deriva la legittimità del potere dell’uomo sull’uomo: dal consentire della sua coscienza5. In questa prospettiva il riferimento alla verità non elimina lo spazio pubblico, ma anzi lo rende possibile nel senso che colloca principi e valori, miti e simboli, nonché forme e procedure, elementi costitutivi di una unità politica, su di un orizzonte in cui è possibile argomentare attorno ad essi, proprio a partire dalle loro pretese di verità: li sottopone cioè alla possibilità della critica.
3. La democrazia «sensibile alla verità» Per tutto questo mi pare si possa sostenere che la democrazia – nella sua forma moderna di ordinamento che prevede non solo l’esercizio del potere da parte del popolo, inteso come totalità dei cittadini, nel rispetto dei fondamentali principi di libertà ed uguaglianza, ma anche la formazione della volontà politica sulla base di un giudizio relativo alle cose Milano 1970, VI, 3, p. 167). 5 Sul tema si vedano le osservazioni di H. Arendt, Truth and Politics, in Id., Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 19682 (trad. it. Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995).
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comuni attraverso le procedure della ragione argomentativa – sia una forma di governo «sensibile alla verità» (Habermas), e una «post-truth democracy» non potrebbe essere a lungo una democrazia6. Perché una democrazia – giova ricordarlo – non è soltanto un meccanismo di elezione da parte del popolo dei propri capi, ma è prima di tutto il potere di darsi delle leggi attraverso una discussione in cui posizioni diverse si confrontano. La democrazia non è solo forma di governo in cui le decisioni vengono prese a maggioranza. In essa la decisione è il frutto di una procedura argomentativa in cui gli attori si esprimono liberamente e con pari dignità e che attraverso il confronto di posizioni diverse valutano i pro e i contro di ciascuna alternativa. È questa, fin dalle sue origini storiche, la forma tipica delle democrazia, ossia la decisione tramite discussione, come espresso chiaramente dal famoso «elogio della democrazia» pronunciato da Pericle: Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile. Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare7. Nel confronto le posizioni diverse vengono messe a confronto non solo nella loro capacità di esprimere interessi e passioni diverse, ma anche nel loro contenere o meno giudizi al cui preteso valore veritativo la discussione continua a fare riferimento. Con tutto ciò la democrazia può ben dirsi una forma di ordinamento «sensibile alla verità». È sensibile alla verità sul piano giudiziario. Ha bisogno di accertare la verità dei fatti, che cosa è realmente accaduto non solo laddove sorgano controversie tra i cittadini, ma anche a J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006. Tucidide, Storie, II, 40 (trad. it. La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano 1971, vol. I, pp. 124-125). 6 7
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proposito dell’agire dei pubblici poteri. L’esercizio corretto di questa funzione così fondamentale per la vita di una società è possibile solo sulla base di un forte riferimento alla verità, che nei nostri ordinamenti non è affidato solo alla onestà dei cittadini, ma è rafforzato anche da una serie di strumenti giuridici e politici che cercano di dare ad esso piena effettività: si pensi al dovere della verità ossia all’obbligo di «dire la verità» da parte dei testimoni nel corso di un processo (obbligo spesso accompagnato da una promessa solenne o da un giuramento e protetto da severe sanzioni in caso di trasgressione) oppure al diritto alla verità contenuto nel diritto all’informazione, che non si esprime solo nella possibilità di accedere alle informazioni fornite dai mezzi privati e pubblici di comunicazione, ma anche nel diritto di petizione, di interrogazione del governante, nella commissione d’inchiesta e nel relativo dovere di rispondere da parte dei governanti. Tutti noi sappiamo quanto lontani dalla democrazia sono invece i regimi dell’occultamento della verità nonché i regimi dell’indifferenza nei confronti dell’accertamento della verità dei fatti. Le riflessioni di Hannah Arendt in occasione della pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers (i documenti che rivelavano la manipolazione delle notizie sulla guerra del Vietnam da parte di agenzie governative USA)8 mi paiono ancora oggi molto significative. Non solo sul piano giudiziario, ma anche sul piano storico è difficile pensare che una democrazia possa essere indifferente alla verità. La cancellazione o l’alterazione del passato è un tratto tipico dei regimi totalitari e oggi difficilmente si potrebbe accettare che una democrazia possa essere indifferente nei confronti della verità storica, relativa ad esempio all’esistenza o meno dei campi di sterminio, e si esige piuttosto che una società sappia riconoscere pubblicamente verità ad essa scomode per potersi dire pienamente democratica, come accade, ad esempio, nei confronti della Turchia a proposito del trattamento subito dagli Armeni. Tale interesse per la verità storica si manifesta nelle democrazie non solo attraverso strategie di «non occultamento» della verità, ma anche attraverso investimenti di risorse pubbliche per sostenere e proCfr., H. Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers», a cura di O. Guaraldo, trad. it. di V. Santini, Marietti, Genova-Milano, 2006. 8
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muovere la ricerca storica anche quando ciò dovesse portare al riconoscimento di errori o colpe commessi dalle forze politiche al potere. In alcuni casi si giunge a perseguire e punire chi nega la verità di un dato accadimento storico, come accade con i «negazionisti» dello sterminio ebraico operato dai regimi totalitari del ventesimo secolo. Non si può convivere con la falsificazione di ciò che è avvenuto. La falsità alla lunga avvelena l’aria. L’esempio del Sud Africa che, pur in mezzo a mille difficoltà, ha intrapreso la via della ricostruzione basandosi sui principi dell’accertamento della verità dei fatti e della riconciliazione è un esempio importante. Non c’è riconciliazione autentica senza riconoscimento di ciò che è accaduto. Una democrazia non può tollerare di fondarsi su falsità storiche, per rispetto delle vittime ma anche di se stessa. La democrazia è sensibile alla ricerca della verità operata dalla scienza. Nessuno si sognerebbe oggi di basare una politica ambientale, sanitaria, economica, ignorando le evidenze scientifiche, pur nella consapevolezza che ogni acquisizione della scienza è sempre parziale e rivedibile, ma proprio questa natura di apertura a una più profonda verità rende le società interessate alla ricerca e spinge le democrazie a sostenerla anche economicamente in tutte le sue dimensioni. Inoltre, la democrazia è sensibile alla verità che si manifesta nella ricerca filosofica e in quella religiosa. È stato Jürgen Habermas a sottolineare l’importanza di questa forma di ascolto della sapienza contenuta nelle tradizioni religiose per un arricchimento della conoscenza dell’umano, in particolare di quella dimensione umana che ha a che fare con la vulnerabilità, il fallimento, la malattia, insomma il venir meno della vita e della sua pienezza. Secondo Habermas la sapienza religiosa sarebbe in grado di custodire sensi e significati di tale condizione umana che la mera ragione stenterebbe da sola ad acquisire. Di qui la necessità di un continuo confronto tra ragione secolare e sapienza religiosa per un lavoro di «apprendimento reciproco»9.
J. Habermas - J. Ratzinger, Etica, religione e Stato liberale, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2004. 9
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4. Verità provvisorie e aperture È chiaro che in tutti questi casi si parla di «ricerca della verità». Non solo nel caso della verità storica, giudiziaria e scientifica, ma anche nel caso delle verità filosofiche e morali. È banale, ma doveroso ricordare che la stessa verità in ambito filosofico si configura come oggetto di continua ricerca e non come oggetto di possesso esclusivo. L’etimologia del termine – «amore della sapienza» appunto e non «possesso», ché quest’ultimo è privilegio degli dei – dovrebbe chiarirne bene la natura di disciplina aperta. Se è vero che nel suo sviluppo storico la filosofia è stata concepita anche come «sapere assoluto», lo stesso si potrebbe dire della conoscenza storica o scientifica, che oggi si concepiscono invece come discipline costitutivamente aperte. Quando si dice dunque che la democrazia deve essere sensibile alla verità, si intende chiaramente riferirsi alla libera ricerca della verità e non alla imposizione di una verità di Stato, nonché a procedure di ricerca affidate a esperti del settore e a risultati comunque sottoposti al loro giudizio, alla discussione aperta. Tutto ciò, chiaramente, ha il carattere della rivedibilità. E tuttavia, a ben guardare, nei diversi settori questa ricerca è fatta non solo di perenne apertura, ma anche di momenti in cui la decisione politica deve pur assumere un punto di vista come proprio. È il caso del procedimento giudiziario che dopo una prassi aperta e rivedibile assume una serie di elementi come accertati e li pone a base di una decisione che si esprime in una sentenza. Ma anche sul piano storico, la ricerca, pur sempre soggetta a revisioni, finisce per produrre risultati che vengono fatti propri dalle istituzioni politiche e che vanno a formare la memoria storica collettiva ufficiale di un paese, con le sue date, i suoi luoghi emblematici, le sue interpretazioni ufficializzate dall’insegnamento e dai manuali scolastici. Gli stessi risultati della ricerca scientifica, il cui carattere sempre aperto e perennemente falsificabile è ormai ampiamente riconosciuto, vengono assunti dal decisore politico come dati sulla cui base assumere scelte in materia di politica sanitaria o di gestione del territorio. Dunque il potere politico non è solo sensibile alla ricerca della verità, ma assume anche come veri i risultati via via conseguiti da questa ricerca. E ciò riguarda non solo gli ambiti
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giudiziario, storico e scientifico, ma anche l’ambito morale. Si pensi, ad esempio, alle attività dei comitati di bioetica, volti non solo a promuovere la ricerca, ma anche a fornire pareri e supporti alle decisioni sulla base di giudizi aventi, almeno in parte, pretese veritative. Ma si pensi anche alle grandi Dichiarazioni dei Diritti, i cui principi si ritenevano poggiare su un solido fondamento veritativo. Così si apriva la Dichiarazione di Indipendenza del Congresso degli Stati Uniti d’America sancita il 4 luglio 1776: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità». Dunque la democrazia ha bisogno di una costante apertura alla ricerca della verità. Ma è certo vero che sul suo terreno ogni attore deve accettare che questa ricerca rimanga aperta e libera e che cioè in essa sia dato spazio alla diversità e al pluralismo, giacchè ogni avvicinamento umano alla verità è sempre parziale e frammentario e se pretendesse di essere definitivo e assoluto finirebbe non solo per negare i diritti degli altri ma la natura stessa della verità ultima, capace di darsi infinitamente. Se un qualche accostamento alla verità pretendesse per sé l’esclusiva e, ancor più, pretendesse di farsi valere sul piano politico con le ragioni della forza coercitiva, negherebbe la propria origine: quell’amore del vero rivendicato in faccia alla menzogna. Perciò il modello su cui poggia l’ordinamento democratico non può non essere un modello perennemente aperto, posto che, come si è detto, pone il potere sovrano nelle mani della volontà dei cittadini e dunque nella loro possibilità di determinare liberamente le forme e i modi della propria convivenza. Tale processo di autocorrezione trova – è vero – un suo limite evidente nel rispetto dei principi che mantengono in vita la democrazia stessa e cioè la possibilità di ulteriori espressioni della libe-
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ra autodeterminazione di un popolo. Sono esclusi perciò da processi di correzione e revisione quei principi di libertà e di uguaglianza di tutti i cittadini, che stanno alla base della democrazia. Rispetto a questi principi è evidente che la democrazia stessa non può essere indifferente, né relativistica. Negarli significherebbe negarsi. E non è un caso che gli stessi ordinamenti costituzionali contemporanei sottraggano alla decisione delle maggioranze, comunque qualificate, un nucleo essenziale di principi e di diritti fondamentali che costituiscono le condizioni di possibilità stesse del darsi della democrazia. Ma ciò non significa che questi principi non possano essere discussi e ricompresi in modo sempre più approfondito, come ha mostrato lo sviluppo storico della sensibilità nei confronti dei diritti dell’uomo e delle relative forme di tutela giuridica di tali diritti. E ciò non significa nemmeno che il modo concreto e storico, in cui tali diritti debbano trovare concrete garanzie e relativi bilanciamenti, non possa essere soggetto a valutazioni diverse e pluralistiche e non debba essere costantemente riveduto.
5. Il dialogo e la libertà Per questo, se è vero che vi è un nucleo comune sottratto alla decisione delle mutevoli maggioranze – perché costituisce il nocciolo di una più profonda ed esistenziale decisione politica di una intera comunità, venendo meno la quale la comunità stessa muterebbe radicalmente la sua forma politica –, è vero che questi principi divengono effettivi nella storia solo attraverso la mediazione di una volontà che li pone in essere, e tale volontà si esprime sempre attraverso incarnazioni particolari e contingenti, ordinamenti provvisori e discutibili. La deliberazione politica, dunque, pur non potendo e non dovendo ignorare i risultati cui perviene la libera ricerca della verità, non mette in discussione né sottopone a votazione assunti veritativi, ma assume decisioni di natura pratica in ordine alla tutela dei diritti in una particolare situazione storica. Su questo piano «pragmatico-politico» la democrazia si nutre
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certamente di un’attitudine relativistica10 e chi pretendesse di attribuire a determinate soluzioni pratiche un valore assoluto finirebbe per non cogliere la natura inevitabilmente contingente e particolare della decisione politica e di travolgere lo spazio democratico come spazio della libera discussione tra persone a cui va riconosciuto un pari diritto ad avanzare soluzioni pratiche ai problemi comuni. Sarebbe un’offesa alla verità negare la vera natura del politico, che è spazio mondano, che non può essere ricavato per deduzione da princìpi o modelli astratti, ma ha da essere costruito nella storia. Difendere le ragioni della verità impone anche di difendere le ragioni della realtà nella sua parzialità e della contingenza storica, del suo essere intreccio complesso non solo di attività razionali, ma anche di interessi materiali, di istinti, di passioni. Esige anche il rispetto dell’articolarsi della ragione in un suo uso pratico e non solo teoretico. Avere presente che il proprium dell’agire politico non è quello di essere atto applicativo di princìpi, ma atto creativo di condizioni storiche e sociali in cui sia possibile applicare dei princìpi, in cui sia possibile – per tutti – esercitare liberamente e pubblicamente la ricerca della verità. Così la ricerca della verità, quando si sposta sul terreno politico, non può non farsi carico anche della costruzione di condizioni storiche e sociali di possibilità per sé e per gli altri di ricerca della verità. Per questo la ricerca della verità in democrazia deve farsi carico non solo dell’espressione della propria posizione, ma anche del mantenimento dell’orizzonte comune in cui la propria e le altrui posizioni possano venir rappresentate. La difesa della propria concezione, pur fondamentale e irrinunciabile, non può comportare l’indifferenza nei confronti della conservazione di quell’ordine politico – giusto e pacifico – all’interno del quale è possibile ad altri esprimere liberamente la propria concezione e dunque concorrere alla mia come all’altrui ricerca della verità. Se il riferimento alla verità ha da essere preso sul serio sul piano politico esso non può essere risolto in un richiamo ideologico. Esso pone invece E.W. Böckenförde, La democrazia come principio costituzionale, in Id., Stato, Costituzione, Democrazia. Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, a cura di M. Nicoletti e O. Brino, Giuffré, Milano 2006, p. 449. 10
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con chiarezza il tema della «realizzazione», ossia della costruzione di condizioni storiche concrete all’interno delle quali possa effettivamente darsi la tutela di quel bene che è la ricerca della verità e il suo darsi. Senza un’attenta considerazione dell’importanza della costruzione e del mantenimento di questa «cornice» – così ben espressa nelle nostre società democratiche dalle «cornici» degli ordinamenti costituzionali – il riferimento a questa o quella verità diventa vuoto agitare parole e idee, spesso improduttivo, talvolta distruttivo. Ora, è chiaro, che la prima condizione del darsi di un’autentica ricerca della verità per sé e per tutti, è la libertà. Libertà che è condizione, ma anche prodotto della ricerca della verità. La stessa libertà radicale che la verità ha da riconoscere a ogni uomo per potersi accostare a lui, la deve riconoscere anche la democrazia: non vi è autentica democrazia senza un radicale rispetto della libertà di coscienza. Senza questo rispetto, la democrazia si trasforma in una tirannide della maggioranza che pretende di piegare i pochi alla volontà dei molti. Questa radicale libertà si spinge fino al punto di poter esprimere anche punti di vista diversi rispetto a quelli fondanti la stessa comunità politica. Anche nei confronti dei dissidenti, la democrazia rifiuta di ricorrere alle ragioni della forza. È precisamente nell’accordare alla coscienza del singolo questa garanzia che l’ordinamento democratico si realizza come ordinamento della libertà e dell’uguaglianza e non come mero ordinamento della forza del maggior numero. Questo metodo della libertà esige non solo una cultura della libertà sul piano teoretico come su quello pratico, ma anche un ordinamento istituzionale delle libertà. Libertà delle istituzioni politiche. Libertà delle istituzioni in cui si pratica la ricerca della verità: comunità religiose, scuole e università, organi di informazione, associazioni culturali e artistiche, organi giudiziari. La dialettica tra democrazia e verità ha bisogno anche di una dialettica costruttiva tra istituzioni libere, ciascuna forte della propria autonomia. Non è un caso che gli ordinamenti costituzionali siano anche ordinamenti che custodiscono queste diverse autonomie. Questa dialettica, per non essere distruttiva, ha bisogno non solo di armonizzazioni costituzionali, ma anche di un’etica della saggezza
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democratica che si nutra dei valori antichi e perenni della democrazia, quali il rispetto e il riconoscimento reciproco, il gusto per la comunicazione delle proprie ragioni e per l’ascolto delle ragioni altrui, l’impegno a non usare la forza per modificare le opinioni degli altri, né le regole comuni della vita collettiva. Senza questa saggezza la relazione tra la ricerca della verità e la ricerca di un governo democratico non potrebbe dispiegare quelle energie creative di cui il nostro oggi ha bisogno. Un’altra filosofia, «più civile» Vi è qui bisogno non di una declamatoria ricerca della verità o di un’astratta proclamazione di principi, ma – per dirla con Thomas More – di un’alia philosophia civilior11, ossia di una filosofia diversa, più civile, più appassionata alla vicenda collettiva degli uomini nella storia, più capace di convivere con le loro imperfezioni, con il male presente, e tuttavia intransigente nella lotta contro di esso. Questa diversa filosofia, più civile, deve tentare di coniugare politica, rispetto della verità e ricerca del giusto non attraverso il ricorso ad autorità o a strumenti coercitivi, ma attraverso il rispetto della coscienza. Lo stesso More, che pure da governante aveva usato lo strumento del potere coercitivo anche nei confronti dei dissidenti, da prigioniero nella Torre giunse a un pieno riconoscimento del dovere di rispettare sempre la coscienza. E seppe così coniugare il rispetto radicale della propria coscienza – così esigente da obbligarlo, per difendere quelle ragioni della verità che nessun principe o parlamento avrebbero potuto modificare, a disubbidire al suo re, fino all’ultimo riconosciuto come legittimo sovrano –, con il rispetto della coscienza altrui, rifiutando di brandire la verità come strumento di lotta e di condannare quanti avevano ritenuto, in coscienza, di seguire strade diverse12.
T. More, Utopia, a cura di E. Surtz - J. W. Hexter, in The Complete Works of St. Thomas More, Yale University Press, New Haven-London 1974, vol. IV, p. 98. 12 Cfr. T. More, Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, a cura di M. Nicoletti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 11
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Wolfang Schneider*1 Phänomenologie personaler Grundakte und pädagogische Praxis Phenomenology of the personal act and pedagogical praxis. The aim of this essay is in the first part, to suggest a phenomenology of personal basic acts - thinking, acting, playing, and believing - that are tied to the horizon of personal Dasein’s historicity (geschichtlichkeit). The second part is focused on the difference and compatibility between those foundamental acts and a pedagogical praxis.
1. Zur Problematik des Personenbegriffs in Philosophie und Pädagogik Würde man pädagogisch nichtprofessionell tätige Bürger fragen, was denn die Aufgabe von Bildung und Erziehung seien, erhielte man vermutlich – wenngleich vielfältig gefächert – die Antwort: die Bildung und Erziehung der menschlichen Person. Ich habe das in der Tat einmal nichtrepräsentativ in meinen Vorlesungen erfragt, und: Ich habe diese oder ähnliche Antworten bekommen. Ist dem aber tatsächlich so? Überprüft man nämlich diese Antwort wird man feststellen: Der Persongedanke spielt keine herausragend systematische Rolle in der Pädagogik. Der Pädagogik geht es nicht um die Person des Menschen, sondern um vieles Andere. In den Lexika wird er marginalisiert, in den Pädagogischen Anthropologien älterer und neuerer Art kaum erwähnt, zumindest systematisch wenig ausgefaltet. Die Gründe dafür sind vielfältig. Es mag vor allem an einer wenig einheitlichen Geschichte des Personbegriffs liegen. Neben dem Mainstream pädagogischer Forschung gibt es allerdings die Gegenströmung einer personalistischen Pädagogik. Ich hebe hier * Ord. Prof. für Bildungsphilosophie und Wissenschaftstheorie an der Universität zu Köln.
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nur zwei Autoren hervor: den deutschen Pädagogen Böhm und den italienischen d’Arcais. Bei beiden steht der Gedanke der Person und das Phänomen menschlicher Personalität im Mittelpunkt ihres Verständnisses von Bildung und Erziehung. An ihre Gedanken möchte ich mit meinem Vortrag anschließen.
1.1. Zum Begriff einer Phänomenologie der Person Methodisch habe ich mich für eine phänomenologische Vorgehensweise entschieden. Mein Ausgangspunkt ist die berühmte Definition von Heidegger, dass Phänomenologie besage, „das, was sich zeigt, so wie es sich von ihm selbst her zeigt, von ihm selbst her sehen zu lassen.“1 Für mein Vorhaben einer Phänomenologie der Person ist deswegen zu fragen: Wie zeigt sich die Person von ihr selbst her? Was sind Ausdrucksformen eines solchen Sichzeigens? Und was sind ihre Bedingungsmöglichkeiten? Meine Antwort darauf lautet: Die Person zeigt sich in wesentlichen analytisch zu trennenden und nicht von einander ableitbaren Grundakten. Grundakte sind, transzendental betrachtet, Ausdrucksformen menschlichen Seinsverständnisses, geschichtlich betrachtet, Weisen des Sichzeigens der Person in dem, wer sie ist, und durch die sie wird, wer sie ist. Grundakte sind nicht einfach Praxen in einem herkömmlichen Sinn, sondern bestimmte geschichtliche Formen eines menschlichen Verhältnisses zu seiner Wirklichkeit, zu seinen Relationen, zu seinem – aristotelisch – pros ti. Sie sind sowohl theoretisch als auch praktisch. Drei Relationen der Person müssen dabei systematisch getrennt werden. Sie sind zugleich die drei großen Themen der Metaphysik: der Mensch, die Welt, Gott oder das Heilige. Dieses sich wesentliche Sichzeigen der Person angesichts der ihr in vielfältiger Weise begegnenden Wirklichkeit hat eine elementare Bedeutung für Bildung und Erziehung. M. Heidegger, Sein und Zeit. AaO., 34. Die Umschriften in den Klammern sind vom Verf. Vgl. zum Phänomenologiebegriff Heideggers: W. Schneider, Phänomenologie und Pädagogik. AaO., 9 ff. sowie 213-263. 1
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Als solche Grundakte bezeichne ich das Denken, die Aisthesis oder die Sinnlichkeit, das Wollen und das es begleitende Handeln, das Spielen und das Glauben bzw. Hoffen mit den je eigenen Differenzierungen. Dazu gehören vor allem die Differenzierungen der Aisthesis und des Handelns. Weitere Differenzierungen wären notwendig.
2. Aspekte einer Phänomenologie der Person 2.1. Personale Grundakte Ein erster Grundakt ist das Denken. Doch was heißt Denken, so fragte schon Heidegger hintersinnig? Dazu zwei Hinweise: Das, was theoretisch ist, kann phänomenologisch Vielfältiges bedeuten. Schon griechisch meint theoreín: Zuschauer sein, betrachten, wahrnehmen, geistig anschauen. Das Theoretische ist nur vermeintlich nur theoretisch. Und auch der von Aristoteles genannte Infinitiv eidénai zu Beginn seiner „Metaphysik“ ist ohne Weiteres auch mit sehen und einsehen zu übersetzen und nicht nur mit wissen. Zur Systematisierung! Der Grundakt des Denkens ist theoretisch. In ihm geht es dem Menschen um das Wahre als das, was ist. Wahrheit kann sich jedoch in unterschiedlichen Weisen zeigen, in einer methodisch exakten Erkenntnis bzw. im Wissen, aber auch in vielfältigen Formen des Erkennens und Verstehens der Person. Seine personale Dignität bekommt dieses Denken dann, wenn es einsehend zum Selberdenken wird, wenn es sich in ein Verhältnis setzt zu der ihm begegnenden Wirklichkeit und so ein Ausdruck personaler Freiheit ist. Zu diesem personalen Denken gehört ein personales Sprechen. Denken muss sich als Sprache und in Sprache äußern, sonst wird es einsam. Selber denkend und sprechend zeigt sich die Person nicht nur als die, die sie ist, sondern wird sie auch die, die sie ist. Für Bildung und Erziehung aber bedeutet dies: Selber denkend und selber sprechend zeigt die Person ihre Bildung und Erziehung und gestaltet sie diese.
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Den zweiten Grundakt nenne ich Aisthesis oder den der sinnlichen Wahrnehmung mit seinen vielfältigen Möglichkeiten des Sehens und Hörens, des Riechens und Schmeckens, des Fühlens und Empfindens. Hier mag man Einspruch erheben, scheint das sinnliche Wahrnehmen doch wesentlich Passio zu sein. Dagegen stelle ich zwei Argumente: Erkenntnistheoretisch ist die sinnliche Wahrnehmung in Raum und Zeit für Kant eine wesentliche Bedingungsmöglichkeit unserer Erkenntnis. Das zweite, phänomenologische Argument ist mir noch wichtiger: Kein Sehen, Hören oder Fühlen ist nur Ausdruck von Empfängnis, sondern immer auch begleitet von Widerstand, Zustimmung, vor allem von Verhalten zu. Ich bin nicht ohnmächtig angesichts meines Sehens, Hörens und Fühlens. Insofern ist der Gesamtbereich des sinnlichen Wahrnehmens ebenfalls Ausdruck der menschlichen Person und ihrer Gestalt. Er umfasst eine ursprüngliche Wahrnehmung der Wirklichkeit, die immer auch eine personale Gestaltung impliziert. Die formale Qualität dieses Grundaktes ist sinnlich, das formale Objekt ist das vielfältig begegnende Sinnliche. Personale Dignität aber bekommt dieser Grundakt dann, wenn er von der der Tugend der Achtsamkeit begleitet wird. Achtsam sehend, hörend, empfindend und fühlend zeigt sich die Person als die, die sie ist, und wird sie auch die, die sie ist. Für Bildung und Erziehung bedeutet dies: Achtsamkeit gegenüber der eigenen sinnlichen Wahrnehmung ist nicht nur ein Ergebnis von Bildung und Erziehung, sondern auch deren Aufgabe. Ein dritter Grundakt des Menschen ist das Handeln. Dieses zeigt sich unterschiedlich, sowohl in seiner Struktur als auch inhaltlich. Aristoteles hat zwischen der poíesis als dem Herstellen und der práxis als dem eigentlich sozialem Handeln unterschieden. Kant unterscheidet in seinen Analysen der Imperative den kategorischen von den problematischen und assertorischen. In meiner Differenzierung unterscheide ich folgende Grundakte des Handelns:
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• das ökonomische Handeln: das Arbeiten und Herstellen. • das politische Handeln: das Aushandeln von Macht. • das sozialethische Handeln: das moralisch-zwischenmenschliche Handeln.
Für diese drei Handlungsformen gilt ebenfalls zweierlei: 1. Durch ihre unterschiedlichen Formen des Handelns zeigt die Person nicht nur, wer sie ist, sondern wird sie auch die, die sie ist. 2. Durch ihre unterschiedlichen Formen des Handelns zeigt die Person ihre Bildung und Erziehung und gestaltet sie zugleich ihre Bildung und Erziehung. Dies gilt für alle Formen des Handelns. Das ökonomische Handeln steht unter dem Apriori des rein Zweckrationalen, d.h. des Notwendigen und Nützlichen, d.h. die durch Arbeit zu erwirtschaftende Lebenserhaltung und die durch Herstellen Errichtung einer gemeinsamen Lebenswelt. Aber auch in ihm ist eine personale Dignität möglich, wenn nämlich Arbeit und Herstellen die Selbstgestaltung der Person ermöglichen und umgekehrt Arbeiten und Herstellen Ausdruck menschlicher Personalität sind. Das politische Handeln ist faktisch geprägt von dem Aushandeln von Machtinteressen, deren Verteidigung oder Vermehrung durch Herrschaft. Aber es steht seit Anbeginn philosophischen Fragens unter dem Apriori eines politischen Gerechtigkeitsdiskurses. Die Ironie: Kein einziges totalitäres Regime hat nicht pausenlos bekannt, im Dienste der Gerechtigkeit zu handeln. Dennoch kennt das politische Handeln nicht nur die Fratze der Macht, sondern besitzt eine personale Dimension. Die Herausforderung dazu hat Habermas mit seinem Plädoyer für ein kommunikatives Handeln gegeben. Personale Dignität bekommt politisches Handeln inhaltlich vor allem dann, wenn es sich unter das Apriori der Gerechtigkeit und der Friedenserhaltung stellt. Das ethische Handeln in seinen unterschiedlichen Normierungen besitzt eine eigene Gestalt, die sowohl Aristoteles als auch Kant ausdrücklich hervorheben. Unabhängig von unterschiedlichen Normie-
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rungstheorien geht es im ethischen Handeln um das, was sein soll oder das Gute, mag dieses Gute das Glück oder die Pflichterfüllung sein. Personale Dignität aber bekommt dieses Handeln, wenn dieses Gute das Resultat von in Freiheit entschiedenen Prinzipien oder einer Gewissensentscheidung ist. Auch das Spielen kennt vielfältige Gestaltungsformen. Mich interessiert hier das Spiel der Kunst. Ich deute diesen Grundakt als ein ausgezeichnetes Paradigma personalen Daseins. Im Spiel der Kunst geht es um das Schöne, mag dieses auch in der Gestalt des Hässlichen begegnen. Denn auch dieses gehört zu den vielfältigen Formen der menschlichen Aisthesis, die sich personal als Selbstwahrnehmung und Selbstgestaltung zeigen könnten, und zwar in allen Grundakten. Dieser Grundakt hat deswegen eine besondere Nähe zu dem zweiten Grundakt, wenngleich ich da auch noch Differenzen sehe. Damit eröffnet sich der Gedanke eines Daseins als Kunst. In ihm gewinnt personales Dasein im ästhetischen Wechselspiel mit allem, was ist, eine besondere Gestalt: Person als Kunst in ihrer Gestaltung der personalen Grundakte. So könnten dann alle Grundakte paradigmatisch als Spiel, Zuspiel, Rückspiel, Wechselspiel, aber auch verweigertes Spiel, Faulspiel und Falschspiel verstanden werden. Gleichermaßen scheint hier der Gedanke einer Bildung und Erziehung als Kunst auf: Bildung und Erziehung als Ausdruck des Spiels des Menschen mit sich und allem, was ist, und Bildung und Erziehung als Gestaltung eines solchen Spiels. Wenn ich jetzt den Grundakt des Glaubens und des Hoffens als wesentlichen Grundakt der Person ins Spiel bringe, dann nicht deswegen um ihn religiös zu verkürzen. Das Glauben und Hoffen des Menschen sind weiter als jede Religion diese Grundakte deuten kann. Denn in diesem Grundakt geht es dem Menschen um das, was ihm unbedingt und heilig ist. Es ist seit Anselm „das, über das Größeres nicht gedacht werden kann“. Ich nenne es das ihn „mit seinem Namen, selbst namenlos, Rufende“ und das die Person zu einer Antwort unbedingt herausfordert.
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Dieser Grundakt hat deswegen auch eine besondere Dignität, weil es in ihm um das Heil des Menschen geht. Und auch für diesen Grundakt gilt das schon oben Gesagte: Ihn ihm zeigt die Person, wer sie ist, und gestaltet sich die Person als die, die sie ist. Und in ihm gestaltet weiterhin sich Bildung und Erziehung und durch ihn werden Bildung und Erziehung gestaltet. Ein Resümee mit einem Strukturmodell: Diese vorgestellten personalen Grundakte sind Momente einer lebendigen Struktur des Sichzeigens und der Gestaltung der Person und zugleich Ausdruck und Gestaltungsmöglichkeiten von Bildung und Erziehung.
2.2. Personale Daseinsdimensionen Grundakte haben zwar ihren Grund in einem transzendentalen Seinsverständnis, aber als personale Grundakte haben sie ihre Wirklichkeit nur in ihrer geschichtlichen Konkretion. Wir sind es gewohnt, Geschichtlichkeit nur als Zeitlichkeit zu deuten. Wenn ich von der Geschichtlichkeit der Person und ihren personalen Grundakten spreche, meine ich Weiteres. Die Geschichtlichkeit einer Person in den genannten Grundakte zeigt sich in: • Zeitlichkeit • Räumlichkeit • Leiblichkeit • Sprachlichkeit. Bei der Zeitlichkeit bedarf es keiner Frage zur Geschichtlichkeit. Unsere Zeit ist eine andere Zeit als die unserer Großeltern. Personal besehen ist aber unsere Zeitlichkeit die Zeit zwischen Geburt und Tod mit ihren wesentlichen Erfahrungen und unser Selbstgestaltung, aber auch den Erfahrungen von Fremdgestaltung. Auch der Raum, die äußere Lebenswelt einer Person und damit auch die Gestaltungsmöglichkeiten ihrer Grundakte, ist geschichtlich verfasst. Wir leben in anderen Räumen als unsere Eltern, und wir leben als Akademiker in anderen Räumen als Hartz IV-Empfänger. Und die-
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ses Leben bestimmt uns als Personen in unseren Grundakten, und auch hier im Widerstreit von Möglichkeit und Wirklichkeit. Unsere Leiblichkeit steht unserer Räumlichkeit ganz nahe. Sie ist quodammodo unsere innere Räumlichkeit. In ihr leben wir, in ihr empfangen wir, in ihr äußern wir uns mit unseren Möglichkeiten und Grenzen. Zu dieser Leiblichkeit gehört Vieles: unsere Intelligenz, unser Aussehen, unsere Äußerungsmöglichkeiten, unsere Sexualität, unsere Gestimmtheiten, unsere Emotionalität, unsere Gebrechen, unsere Jugendlichkeit und unser Altern. Leib ist der Ort der Begegnung zwischen mir und Anderen und zugleich der Gestaltungsort dieser Begegnung zwischen Gelingen und Scheitern. Das gilt analog für unsere Sprachlichkeit. Auch sie ist ein wesentliches Merkmal des Sichzeigens der Person in ihrer Geschichte, und zwar sowohl räumlich-synchron als auch zeitlich-diachron. Wie wir sprechen, so sind wir. An unserer Sprache werden wir deswegen auch den Sprechenden erkennen. Sprachlichkeit, das bedeutet: Wie wir sprechen, so sind wird; wie wir sprechen, so werden wir. Dies sind geschichtliche Dimensionen, in denen die Person sich zeigt, wer sie ist, und sich gestaltet als die, die sie sein wird. Aber auch hier gilt ein Zweites: Diese Daseinsdimensionen sind zugleich der Grund von Bildung und Erziehung und ihrer Gestaltungsmöglichkeiten.
2.3. Personal-geschichtliche Daseinsmodi Ich habe von geschichtlichen Daseinsdimensionen angesichts von personalen Grundakten gesprochen. Dies ist zu differenzieren. Denn die menschliche Person ist nicht nur in ihren Grundakten geschichtlich bestimmt, sondern auch als Person selbst geschichtlich. Diese Bestimmtheit der Person nenne ich die personal-geschichtlichen Daseinsmodi. Es sind:
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• • • •
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das Gegebensein in der Geschichte. das Selbstsein in der Gegenwart das Mitsein in der Gegenwart das Anderssein oder Andersseinkönnen in der Zukunft.
Alle personalen Grundakte und alle personalen Daseinsdimensionen – je für sich und in ihrem Verhältnis zueinander – sind nochmals zu differenzieren angesichts der drei Zeitextasen. Dies bedeutet: Meine Person ist geprägt von ihrem Gegebensein in der Geschichte mit ihren Orten, Sprachformen und ihrer Lebenswelt. Meine Person ist als Person vor allem davon geprägt, wie ich mich gegenwärtig in meinem Selbstsein zu meiner Geschichte, Gegenwart und Zukunft verhalte, sei es in Freiheit oder Unfreiheit. Das Verhalten zu ist eine ausgezeichnete Weise des Selbstseins der Person. Zu dieser Gegenwart gehören wesentlich Weisen des Mitseins. Gegenwart ist deswegen ebenfalls der Zeitraum meines Verhaltens zu Anderen, sei dies in Freiheit oder Unfreiheit. Es kommt noch ein Viertes hinzu: die Dimension der Zukunft. Rilke hat am Ende seines Gedichtes „Der archaische Torso des Apoll“ bemerkt: „Du musst Dein Leben ändern“. Hier ist eine wesentliche Möglichkeit menschlicher Personalität in Zukunft herausgerufen: Anderssein oder Andersseinkönnen, wenngleich angesichts gelebter Geschichte und Gegenwart. Dies sind Zeitextasen, in denen die Person sich in unterschiedlicher Weise in ihren Grundakten und Daseinsdimensionen zeigt und lebt. Diese Daseinsmodi sind zugleich der Grund von Bildung und Erziehung und ihrer Gestaltung. Eine besondere Bedeutung bekommt dabei der Daseinsmodus des Andersseins.
2.4. Die Struktur von Grundakten, Dimensionen und Daseinsmodi Ich bin ausgegangen von der Frage, wie Person sich zeigt. Ich habe Grundakte, vorgestellt, dazu geschichtliche Daseinsdimensionen und geschichtliche Daseinsmodi und vor allem deren Relation betont.
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In ihnen zeigt sich die Person, wie sie ist, und gestaltet sie sich. Gleichermaßen habe ich diese phänomenologischen Aspekte von Personalität als Ausdruck und Gestaltung von Bildung und Erziehung interpretiert. Denn in der Mitte dieser Struktur steht nicht nur die Person, sondern die Person als Bildung und Erziehung.
3. Das Unterscheidende einer pädagogischen Praxis und ihre Aufgabe Wie aber steht dazu die pädagogische Praxis? Ist sie auch ein Grundakt des Menschen? Sie kennen das Diktum Kants, dass der Mensch nur Mensch werden kann durch Erziehung. Selbst wenn man diesen Satz in seiner Rigorosität abmildern wollte, bleibt die Grundaussage, dass Bildung und Erziehung eine wesentliche mitmenschliche Praxis um der Person des Menschen willen ist. Was also sind Bildung und Erziehung? Ich wäre vermessen, dies hier aufarbeiten zu wollen und bitte Sie, eine naive Begriffsbestimmung zu akzeptieren. Ich differenziere eine pädagogische Praxis phänomenologisch in Bildung und Erziehung. Zunächst zur Bildung: „Unter Bildung verstehe ich in einem passiven Sinn den theoretischen Schatz von erworbenen Kenntnissen, Wissen, Verstehensformen und rational formulierbaren Überzeugungen. Bildung ist die theoretische Gestalt des personalen Daseins. Unter Bildung in einem aktiven Sinne verstehe ich den lebendigen Prozess des zunehmend selbständigen Erwerbs und der Gestaltung eines solchen Schatzes im Dialog mit Anderen. Bildung zielt auf eigenes Verstehen.“ Sodann zum Erziehungsbegriff: „Unter Erziehung verstehe ich in einem aktiven Sinn die Geschichte der im Dialog mit Anderen und der Wirklichkeit zunehmend selbständigen Aneignung von praktischen Ideen und Werten, ästhetischen Überzeugungen, Grundsätzen und Letztorientierungen. Erziehung ist
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die praktische Gestalt und Gestaltung personalen Daseins. Erziehung zielt auf einen eigenen Habitus.“ Dass hier wesentliche Relationen bestehen, dürfte keine Frage sein. Wie aber ist diese so bestimmte Praxis den genannten Grundakten, Daseinsdimensionen und Daseinsmodi zuzuordnen? Ich schlage folgendes Modell vor. Zunächst: Pädagogische Praxis ist sui generis anders als die anderen personalen Grundakte, weil sie sich nicht einfügen lässt in deren Systematik. Sie ist eine Praxis mit dem Ziel von Bildung und Erziehung. Dennoch lässt diese Praxis sich der Person in ihrem Sichzeigen zuordnen und bekommt so ihre Aufgaben, nämlich die, personales Daseins durch Bildung und Erziehung in Grundakten, Daseinsdimensionen und Daseinsmodi zu ermöglichen. Dies umfasst drei Schritte. Zunächst hat die pädagogische Praxis die Aufgabe, personale Grundakte zu fördern, damit der Heranwachsende sie selbständig gestalten kann. Zum zweiten hat sie die Aufgabe, dem Heranwachsenden ein zunehmend eigenständiges Verhältnis zu seiner Zeitlichkeit, Räumlichkeit, Leiblichkeit und Sprachlichkeit zu ermöglichen, damit dieser in diesen Dimensionen leben kann. Drittens hat sie die Aufgabe, ihn mit seinem Gegebensein, Selbstsein, Mitsein und möglichen Anderssein zu konfrontieren, und zwar mit dem Ziel, diese geschichtlichen Daseinsmodi selbständig zu gestalten und zu leben. Denkt man hier den Gedanken einer strukturalen Bildung und Erziehung zu Ende, so hat diese Dynamik letztlich Auswirkungen auf den Gedanken von Bildung und Erziehung. D.h.: Der Gedanke von Bildung und Erziehung hat sich an der faktischen Phänomenalität des personalen Daseins zu orientieren. Eine Schlussbemerkung – zu einem vierten Punkt komme ich nicht mehr: Ich warne vor einer didaktischen Verrasterung dieser phänomenologischen Überlegungen. Sie würden zu einer unerträglichen Kasuistik führen. Als phänomenologisch-hermeneutischen Horizont habe ich sie vorgetragen. Dieser könnte zu einer phänomenologisch-heuristischen Didaktik im Hinblick auf Bildung und Erziehung führen.
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Mario Signore*1 Dall’uomo ‘ricco di bisogni’ alla formazione integrale della persona. Un’antropologia in prospettiva pedagogica From man “rich in needs” to the integral formation of the person. Antropology in a pedagogic perspective. This essay aims to reconstruct the anthropological roots of education by digging through the pages that the founding fathers of German philosophical anthropology devoted to this theme. Three are the core themes in which the short thoughtful path articulates. First, the issue of education is defined in reference to the fundamental constitution of man. Secondly, we underline the limits, but also the real potential of the human being, which is always able to relate to the world in a creative and original way. Finally, it is discovered the particular contribution provided by philosophical anthropology on the definition of human nature and what makes possible its full achievement. La rivoluzione antropologica, che coinvolge inevitabilmente la razionalità e la scienza, diviene contestualmente rivoluzione educativa. In uno scambio virtuoso, è preconizzabile il rinnovato impegno, teorico e pratico, a “educare le scienze e la razionalità” liberandole dalle insostenibili pretese di fissità e immobilità, arricchendo però il processo educativo di quello spirito scientifico e razionale, il solo in grado di impedirgli di ridursi al ruolo condizionante di produttore di soggetti non più in grado di quell’esercizio di libertà, e capace, al contrario, di reinserire l’uomo, consapevolmente, nel progetto di formazione integrale del quale è destinatario e cooperatore.
Prof. Ord. di Filosofia morale - Docente di “Etica e Impresa” nell’Università degli Studi del Salento - Presidente Associazione Culturale “Sumphilosophein”. *
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Il dinamismo dell’educazione, che colto nella sua giusta dimensione costruisce un ponte tra il “già” e il “non ancora” della storia e del destino dell’uomo, è, più di altre espressioni dell’umano, in grado di rappresentare la vocazione dell’uomo a farsi carico della storia, nel suo fluire ininterrotto, rimanendo solidamente ancorato ad un progetto di “humanitas”, che lo porti a trascendere la propria storicità, inserendosi nell’orizzonte regolativo di un piano di salvezza che non è tutto nelle sue mani operose. Intrascendibilità e trascendenza dell’umano e dell’uomo, ai quali è affidata la responsabilità non solo della loro sopravvivenza, ma anche quella del pianeta e “di tutto ciò che contiene”. A tale obbiettivo sono chiamate a concorrere, in un unico progetto di formazione, l’economia, come la politica, la scienza come l’arte, la poesia come la religione. Mettere in circuito l’educazione e la scienza pedagogica, significa mettere in moto un non indifferente processo di revisione semantica che produce risultati virtuosi non solo per chi si pone il problema di interrogarsi, oggi, sul significato e la prassi dell’educazione in una situazione definita di emergenza, ma anche per il significato dell’antropologia e le sue declinazioni, oggi chiamate in causa e accomunate anch’esse da quel destino di crisi, che sembra aver irreversibilmente colpito la razionalità occidentale e le sue espressioni (scientifiche, economiche, tecniche). Non è più un segreto per nessuno che la post-modernità si è qualificata proprio per aver sottoposto ad analisi spregiudicata tanto la crisi della ragione, quanto quella, correlata, del concetto di uomo. Da Nietzsche in poi, questo esercizio di smascheramento dei punti di crisi della modernità, col suo concetto di razionalità e la traduzione, in particolare, sul piano della scienza dell’uomo, è divenuto oramai non prescindibile per chi voglia comprendere le dinamiche del nostro tempo, comprese quelle che riguardano più direttamente i processi educativi. Proprio a partire da questi ultimi, lo stato di emergenza che li qualifica a diversi livelli, se non si indugia in atteggiamenti fatalistici e giustificazionisti, che si accontentano, al massimo, di descrivere sociologisticamente i fenomeni socio-culturali nella loro manifestazione più evidente (e ovvia!), finisce col provocare quell’adeguato ripensamento, o esercizio di discernimento, che inesorabilmente coinvolge la realtà
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esistenziale e socio-culturale dell’uomo di oggi, che va colta, per ciò che riguarda i credenti, da una prospettiva antropologica capace di dare ragione dell’esperienza cristiana. Ma va detto che, anche analizzando il fenomeno educativo da una prospettiva, per così dire, “laica”, lo stato di emergenza costringe, con onestà intellettuale, a rivederne gli statuti e a riaprire la discussione oltre i ristretti confini delle questioni metodologico - didattiche e organizzative, fino ai fondamenti antropologici che finiscono col riaprire, come dicevamo, la questione della scienza e della razionalità. Proprio una non riduttiva considerazione dell’azione educativa richiede un ampliamento della prospettiva antropologica, in grado di prendere in adeguata e benevola considerazione il cammino che la natura umana, sul piano ontogenetico e filogenetico, ha compiuto lungo la strada accidentata della sua storia, in un’ottica di inclusività, in grado di non escludere nulla di ciò che ne ha costituito e continua a costituire il fondamentale carattere di “complessità”. Anche il progetto educativo deve prendere atto dei progressi di conoscenza prodigiosi sulla posizione dell’uomo nell’universo, tra due infiniti (cosmologia, microfisica); sulla nostra matrice terrestre (scienze della terra); sul nostro radicamento nella vita e nell’animalità (biologia); sull’origine e sulla formazione della specie umana e sul nostro radicamento nella biosfera (ecologia); sul nostro destino sociale e storico e, infine, sul nostro posto e ruolo responsabile nel progetto della creazione (teologia e metafisica). Bisogna, cioè, che le pedagogie e le prassi educative tengano conto del fatto che tutte le scienze, tutte le arti, tutti i saperi, ciascuno dalla propria prospettiva, illuminano il fatto umano, anche se spesso queste luci sono separate da profonde zone d’ombra, che ci fanno sfuggire l’unità complessa della nostra identità e il progetto relativo all’educazione dell’uomo. Non si realizza adeguatamente la necessaria convergenza delle scienze e dei saperi, necessaria per ricostruire la condizione umana. Questo provoca quella situazione di frammentarietà che ricadendo sul concetto e sulla pratica dell’educazione ne ha provocato la crisi e lo stato di vera e propria emergenza.
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Assente dalle scienze del mondo fisico (sebbene sia anche una macchina termica), separato dal mondo vivente (sebbene sia anche un animale), l’uomo nelle scienze è quasi sempre spezzettato in frammenti isolati. In effetti, il principio di riduzione e quello di disgiunzione, che hanno regnato nelle scienze, impediscono di pensare l’umano. L’era strutturalista ha fatto di questo ostacolo una virtù e Lévi-Strauss ha anche potuto dichiarare, tanto provocatoriamente quanto impropriamente, che lo scopo delle scienze umane non è di svelare l’uomo, ma di dissolverlo: non è stato questo, mutatis mutandis, l’obiettivo delle filosofie della fine o della morte del soggetto? È il modo in cui conosciamo che spesso inibisce la nostra possibilità di concepire il complesso umano e di progettare lo sviluppo educativo. L’apporto inestimabile delle scienze non dà i suoi frutti: “Nessuna epoca quanto la nostra ha accumulato sull’uomo conoscenze così numerose e diverse…; nessuna epoca è riuscita a rendere questo sapere così prontamente e così facilmente accessibile. Eppure nessuna epoca ha saputo meno che cosa è l’uomo” (Heidegger). L’uomo rimane “questo sconosciuto” oggi più per cattiva scienza che non per ignoranza. Da qui il paradosso: più conosciamo, meno comprendiamo l’essere umano. Disintegrando l’umano si eliminano lo stupore e l’interrogazione sull’identità umana, e sul suo valore creaturale non solo, ma si spegne anche l’interrogazione sulla natura toutcourt. Dobbiamo riapprendere a interrogarla. Improvvisamente, come ha affermato Heidegger, interrogare fa andare in frantumi l’isolamento delle scienze in discipline separate e la scissione che domina le scienze dell’uomo. Per compiere l’interrogazione, secondo l’indicazione di Descartes, non si deve scegliere una scienza particolare; le scienze sono tutte unite tra loro e dipendono le une dalle altre, ma si deve accrescere la luce naturale della propria ragione; bisogna evitare di pensare troppo poveramente l’umanità dell’uomo. Per esorcizzare il rischio dell’impoverimento dell’umanità dell’uomo, l’umano non va ridotto all’uomo, ma va colto tra l’altro nel suo legame indissolubile, con la prospettiva di trascendenza. Abbiamo perciò bisogno di un pensiero che cerchi di riunire e organizzare le componenti (biologiche, culturali, sociali, individuali e spirituali) della com-
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plessità umana e di iniettare tutti questi apporti nell’antropologia e nel processo educativo, liberato dall’attuale situazione di emergenza. Nello stesso tempo ciò significa riprendere la concezione dell’“uomo intero” complessificando e approfondendo questa nozione, integrandola con i necessari riferimenti all’essere corporale, alla psiche, alla nascita, alla morte, alla giovinezza, alla vecchiaia, alla donna, al sesso, all’aggressività, all’amore, alla trascendenza. Abbiamo bisogno, insomma, di un approccio esistenziale, che sappia riconoscere l’importanza dell’angoscia, del dolore, dell’estasi, dell’uomo “intero”, grazie a quell’apertura antropologica che di per sé è piena di indicazioni importanti per chi voglia porsi, oggi, in prospettiva educativa. Ma val la pena di soffermarci sul richiamo aristotelico all’uomo “intero”, che ci consente quell’apertura antropologica di per sé piena di indicazioni importanti per la direzione che stiamo privilegiando. Partendo, infatti, da una base filosofica fondata sul concetto aristotelico di essere umano “intero e ricco di bisogni” e su quello che possiamo definire liberalismo neo-aristotelico, in cui il fatto di essere un “animale con bisogni” è altrettanto importante del possesso della ragione, si può dire che ogni concezione dei diritti, della libertà, della stessa dignità umana, deve confrontarsi con i vincoli, la dipendenza e le interdipendenze create da questa condizione costitutiva. Per intenderci, conviene qui recuperare il valore esemplare del tema aristotelico della felicità1, esemplare perché serve a mettere in evidenza la non nascosta esigenza di approdare a una teoria che però non sacrifichi la diversità della vita e della prassi. E, infatti, quando lega la felicità al bene supremo dell’uomo, Aristotele pensa a quest’ultimo come quella condizione di vita in cui la natura umana giunge a realizzarsi in quanto poter-essere dell’uomo nella sua prassi e nella condotta di vita (bios). Ma, per evitare i rischi di una chiusura nella “natura umana”, e quindi in un concetto astratto di uomo, Aristotele rimanda alla società dell’ordinamento politico, fa irrompere la polis nella storia dell’uomo, perché la polis è in grado di mostrare a che punto sia possibile fare riferimento ad un concetto di natura umana, colto nella concretezza della sua manifesta1
Aristotele, Etica a Nicomaco, L. I, 2, 1095a.
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zione, in un contesto anch’esso concreto: «il concetto stesso dell’uomo come essere razionale che può essere trovato e sviluppato vive dove c’è la polis. La teoria non può produrre nessun concetto di natura, se questa non è in qualche modo attuata; la polis non può essere dedotta, ma dev’essere già data come ordinamento razionale, perché da essa si possa formare un concetto che diventa poi normativo per ogni società umana». È nella concretezza della polis che si costruisce l’indispensabile opzione per il singolo e per la singolarità, proprio perché coniugata con un’ipotesi di città (la polis) che si qualifica in tutto il suo significato umano in quanto si fa garante della libertà dei cittadini di essere se stessi. Qui si disegna una città che si sostanzia della ricchezza dei singoli, che si sostiene attraverso il pluralismo delle singolarità e si cimenta col sentimento dell’amicizia e non solo con quello della giustizia, e che quindi, non può che essere concepita come un «tutto composto», come un “intero”. D’altro canto, solo nella realtà della città l’uomo ha la possibilità di realizzarsi come uomo-intero, sottratto all’astrattezza della mera individualità, attraverso un itinerario, ben chiaro nella Politica di Aristotele, che dalla vita personale conduce all’uomo “intero”, passando per l’esperienza della polis. Un’esperienza, quella della città, che non distrugge le esperienze precedenti ma tutte le comprende, per presentarsi appunto come l’intero. Così ingloba, senza annullarla, l’esperienza della casa, in cui per la prima volta l’individuo esce dal suo isolamento, costituendo quelle relazioni di parentela e di amicizia che sostanziano la vita del singolo, «il quale vive come “compagno di tavola” (Caronda) e come “compagno di mensa” (Epimenide) nella “casa” che è la comunità della vita quotidiana»2. Alla ricerca dell’esperienza dell’intero, Hegel, da parte sua, si sposta dalla città alla “relazione religiosa”, che è per lui una cosa con l’amore e nella quale «l’amato non ci è contrapposto, ma è uno con la stessa essenza; vediamo solo noi stessi in lui, e tuttavia esso è pur sempre diverso da noi»3. Un miracolo che si riscontra soltanto nella natura, cioè nella totalità della vita, in cui va cercata la connessione tra sog2 3
J. Ritter, Metafisica e politica, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. XX. G.W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972, p. 528.
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getto e oggetto, io e l’altro, alienazione da Dio e riconciliazione con Lui. La riconciliazione è posta, infatti, nell’amore e nella pienezza della vita, che consente di non diffidare dell’altro, giacché soltanto una natura intera «penetra in un istante in un’altra, ne avverte l’armonia e la disarmonia»4. La natura intera è la vera ricchezza, che non tollera la tracotanza e l’arroganza della cattiva ricchezza di chi dà e di chi riceve, e respinge l’alienante “linguaggio della disgregatezza”, che si instaura tra chi ha e chi non ha, e che produce soltanto indignazione e rivolta5. Mettere in crisi la natura intera, che è come dire mettere in crisi l’unità dell’uomo (e degli uomini), significa ritornare alla divisione, riprodurre l’ostilità di una parte della vita costretta entro la logica della produzione e dello sfruttamento, in cui domina l’urgenza dell’avere, a totale danno dell’essere. Proponendo il termine “umano” in modo così ricco, contraddittorio, ambivalente, è evidente quanto questo diventi complesso per le menti formate nel culto delle idee chiare e distinte. Ciò apre ad un ulteriore compito, quello di impegnarsi in una integrazione riflessiva dei diversi saperi concernenti l’essere umano. Si tratta di non sommarli, ma di legarli, di articolarli e di interpretarli, senza limitare la conoscenza dell’umano alle sole scienze, considerando la letteratura, la poesia, l’arte non solo come mezzi di espressione estetica, ma anche come mezzi di conoscenza. Va integrata la riflessione filosofica sull’umano, nutrendola delle acquisizioni scientifiche, allo stesso modo in cui la reciproca integrazione della filosofia e della scienza deve comportare il loro (sia della filosofia che della scienza) ripensamento. La conoscenza dell’umano deve includere una parte introspettiva; se è vero, come ha sostenuto Montaigne, che ogni individuo singolare “porta in sé l’intera forma della condizione umana”. Allora ciascuno deve essere incoraggiato a creare in se stesso verità di valore universalmente umano. Ma tutte le verità acquisite, a partire da fonti oggettive e dalla fonte soggettiva, devono passare attraverso l’esame epistemoOp. cit., p. 403. Cfr., G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La nuova Italia, Firenze 1972, pp. 66-70. 4 5
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logico, che solo porta lo sguardo sui presupposti dei diversi modi di conoscenza, compreso il proprio, e che solo considera le possibilità e i limiti della conoscenza umana. La conoscenza dell’umano dovrebbe essere nel contempo molto più scientifica, molto più filosofica e, infine, molto più poetica di quanto non sia. Il campo d’osservazione e di riflessione dell’umano diventa così un laboratorio molto esteso. Da qui nasce la sfida della complessità che s’innerva nei processi della conoscenza, obbligandola ad un cambio epistemologico radicale in cui l’uomo viene considerato, ogni oltre arbitrario riduttivismo, non solo come sapiens, faber, oeconomicus, ma anche demens, ludens, consumans, orans. La “comprensione” della natura umana poggia, quindi, su una nuova sfida, che diventa anche una sfida per l’educazione e le scienze pedagogiche, sollecitate a una nuova apertura epistemologica. Parliamo, ancora, della “complessità”, alla quale dedichiamo qualche passaggio essenziale, procedendo dal pre-giudizio del semplice, all’intrascendibilità del complesso. “Il semplice è sempre il semplificato” ci rammenta Bachelard, quasi a metterci in guardia sui rischi della pretesa della ragione occidentale di avocare a sé tutto il senso del mondo. «La fisica occidentale non ha soltanto disincantato l’universo, lo ha desolato. Niente più geni, spiriti, anime, niente più anima. Niente dèi; al massimo un Dio, ma altrove, niente più esseri, niente più esistenti, a eccezione degli esseri viventi, che abitano certo nell’universo fisico, ma appartengono a un’altra sfera. La fisica di fatto può definirsi privativamente: ciò che non ha vita»6. Questo senso di “desolazione” viene svelato da Nietzsche con toni drammatici, forse mai registrati prima. Anche gli dei, il cui invocato diretto poteva arginare il corso rovinoso dell’azione umana sono da tempo scomparsi. Non abitano più tra noi! Come proclama Hölderlin. E Nietzsche nell’aforisma 125 della Gaia scienza: «Dove se ne è anE. Morin, La mèthode, 1. La nature de la nature, Editions du Seuil, 1977; tr. it., Il metodo. La natura della natura, Cortina Editore, Milano 1977, p. 425. 6
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dato Dio? Siamo stati noi ad ucciderlo. Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro eterno precipitare?»7. Più recentemente il teologofilosofo Joseph Ratzinger ha ribadito la desolazione che si coglie nella modernità, a seguito delle «patologie minacciose della religione e della ragione - patologie che necessariamente devono scoppiare quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più»8. Di fronte a questa denuncia che coinvolge tutta la post-modernità, va preso atto, anche in prospettiva pedagogica, che siamo di fronte a un grande mutamento di base. Non si ha più entità di partenza per la conoscenza: il reale, la materia, la mente, l’oggetto, l’ordine ecc. Si ha un gioco circolare che genera quelle entità che appaiono come altrettanti momenti di una produzione. Con ciò non ci sono più alternative inesorabili tra le entità antinomiche che si disputavano la sovranità ontologica: le grandi alternative classiche, Spirito/Materia, Libertà/Determinismo si assopiscono, si residualizzano, diventano obsolete. Scopriamo persino che il materialismo e il determinismo, che si reggevano a costo dell’esclusione dell’osservatore/soggetto e del disordine, sono altrettanto metafisici dello spiritualismo e dell’idealismo. Il vero dibattito, la vera alternativa si hanno ormai tra complessità e semplificazione9. Questi concetti sono sempre aperti su un aldilà, un meta da cui sono sempre meno dissociabili quando sono sempre più complessi. Vedremo sempre più che la dimensione ecologica deve essere presente in ogni osservazione e in ogni pensiero, che tutto deve essere ecologizzato, e che tutto deve essere visto in un meta-sistema e in una meta-prospettiva. La “prospettiva ecologica” che anima, tra l’altro, il paradigma della complessità, si pone come cifra di una modificazione culturale e, perché no, metodologica, che si è rivelata qui impegnata, almeno, a ridurre F. Nietzsche, La Gaia e Scienza, Einaudi, Torino 1979, p. 123. J. Ratzinger, Discorso di Regensburg (ex manuscriptum) 2006. 9 E. Morin, La natura della natura, cit., pp. 441-445. 7 8
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l’effetto di dispersione che si registra in alcune prospettive teoretiche e pratiche che hanno caratterizzato l’età moderna, forse poco attenta verso i richiami hegeliani all’unità, se non del tutto avversa ad essi, per l’evidente e legittima preoccupazione degli effetti, non solo speculativi, della sintesi definitiva. L’analisi chiama la sintesi che chiama l’analisi, all’infinito, in un processo produttore di conoscenza. Perciò il principio di complessità non è anti-analitico né anti-disgiuntivo. Solo non si disperde nella totalità-sintesi, pur non dissolvendo questa inevitabile istanza della coscienza e della scienza. Il paradigma di complessità è quindi di struttura differente rispetto a tutti i paradigmi di semplificazione concepiti o concepibili, fisici o metafisici. Crea un nuovo tipo di giuntura, l’anello. Crea un nuovo tipo di unità, che non è di riduzione, ma di circuito. «La complessità fuorvia e disarciona perché il paradigma regnante rende ciechi alle evidenze che non può rendere intelligibili. Così l’evidenza che noi siamo a un tempo esseri fisici, biologici, umani e spirituali è occultata dal paradigma di semplificazione, che ci comanda o di ridurre l’umano al biologico, o il biologico al fisico o di disgiungere questi tre caratteri come entità incomunicabili. Ora il principio di complessità ci permette di percepire questa evidenza rimossa, di meravigliarci e di cercare un’intelligibilità non riduttrice della persona umana. La complessità, in questo senso, esuma e rianima le domande innocenti che siamo stati abituati a dimenticare e disprezzare. Ciò significa che ci sono più affinità tra la complessità e l’innocenza, che tra l’innocenza e la semplificazione. La semplificazione è una razionalizzazione brutale, non un’idea innocente. La virtù del Discorso della montagna, dell’innocente rousseauiano, dell’idiota dostoeskiano, del semplice di spirito puskiniano che piange in Boris, sta nell’essere egli fuori del regno dell’idea astratta: questi innocenti esprimono la più ricca complessità comunicazionale che la vita abbia saputo far sorgere, quella dell’amore. Ci opponiamo al pensiero astratto che squalifica l’amore: l’amore è complessità emergente e vissuta, e la computazione più vertiginosa è meno complessa della minima
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carezza»10. La carezza “pedagogica” tiene conto e fa esplodere questa nuova e antica espressione di “innocenza”. Si tratta di un’impostazione che vuole consentirci di porre finalmente in termini di scienza pedagogica quel principio che avremmo potuto credere soltanto “filosofico”: non è eliminando il conoscente che si va verso la conoscenza complessa. La conoscenza diviene così necessariamente una comunicazione, costituendosi a fondamento di quella “società della comunicazione”, ovvero “società della conoscenza”, preconizzata negli ultimi tempi, e che richiede, come inevitabile, la costituzione di un anello tra conoscenza (di un fenomeno, di un oggetto) e la conoscenza di questa conoscenza. Proponendo il termine “umano” in modo così ricco, contraddittorio, ambivalente, è evidente quanto questo diventi complesso per le menti formate nel culto delle idee chiare e distinte, e che pretendano di rinchiudere l’umano entro la riduttiva definizione del determinismo biologistico e sociologico. Ciò apre ad un ulteriore compito, quello di impegnarsi in una integrazione riflessiva dei diversi saperi concernenti l’essere umano. Si tratta non di sommarli, ma di legarli, di articolarli e di interpretarli, senza limitare la conoscenza dell’umano alle sole scienze, considerando la letteratura, la poesia, l’arte, la fede non solo come mezzi di espressione estetica, ma anche come mezzi di conoscenza. Va integrata la riflessione filosofica sull’umano, nutrendola certo delle acquisizioni scientifiche e tecnologiche, ma anche spirituali, teologiche e pedagogiche. La rivoluzione antropologica, che coinvolge inevitabilmente la razionalità e la scienza, diviene contestualmente rivoluzione educativa. In uno scambio virtuoso, è preconizzabile il rinnovato impegno, teorico e pratico, a “educare le scienze e la razionalità” liberandole dalle insostenibili pretese di fissità e immobilità, arricchendo però il processo educativo di quello spirito scientifico e razionale, il solo in grado di impedirgli di ridursi al ruolo condizionante di produttore di soggetti non più in grado di quell’esercizio di libertà, e capace, al contrario, di reinserire l’uomo, consapevolmente, nel progetto di salvezza e di redenzione del quale è destinatario e cooperatore. 10
Op. cit. pp. 446-447.
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Bernhard Rathmayr*1 Der Wandel der Wissensverhältnisse und seine Folgen für Bildung und Schule The Change of the Knowledge conditions and their consequences for education and school. Due to social development the conditions of learning and education have fundamentally changed. As knowledge has been “nathanisiert” and action has been “hamletisiert” learning in schools and elsewhere has to provide for at least three kinds of knowledge: an existential know-how for day-to-day life; a general knowledge of civil and global problems; practical competences for professional and technical purposes. The challenge of learning and education is, to integrate those kinds of knowlegde into personally appropriated processes of “Bildung”. XLI. Internationales Seminar deutsch-italienischer Studien: Schule, Wissen, Bildung und Forschung als Voraussetzung für Demokratie, Entwicklung und Zivilisation im europäischen Kontext Bildung wird häufig als etwas verstanden, das dem Leben hinzugefügt werden muss, um es reicher, schöner, lohnender zu machen. Tatsächlich ist Bildung in der Gesellschaft der Moderne aber zur unerlässlichen Voraussetzung eines menschenwürdigen Lebens und des Überlebens der Menschen geworden. Wer sich allerdings daran wagt, den Begriff Bildung zu definieren, muss sich wappnen. Ebenso wie auf dem Begriff Erziehung1 ruht auf dem Bildungsbegriff das Erbe – oder auch die Last – der gesamten europäischen Geistesgeschichte von der Paideia der antiken Griechen über die Imago Dei des Mittelalters und die Emanzipation der Vernunft Em. Ao. Univ. Prof. für Erziehungswissenschaften an der Universität Innsbruck. 1 Vgl., B. Rathmayr, Erziehungs und Bildungswissenschaft, Beltz, Weinheim und Basel 2012. ∗
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in der bürgerlichen Aufklärung bis zu den pragmatischen Verständnissen der Moderne – ein Containerbegriff, wie Peter Faulstich2. Im Überblick über die zahlreichen Bildungsverständnisse, die hier nicht ausgebreitet werden können3 lassen sich zwei durchgängige miteinander verbundene Dynamiken feststellen. Die Aneignung von Welt, die ich hier mit einem umfassend gemeinten Begriff von Wissen bezeichnen will, der auch Erfahrung, Fähigkeiten, Kommunikation umfasst, und die Entwicklung der Persönlichkeit zu kognitiver Selbständigkeit und emotionaler Stabilität. Bildung, so die kürzest denkbare Begriffsbestimmung, wäre dann die Integration von Person und Wissen. Integration ist dabei das zentrale Wort: Wissen, bloß Gewusstes für sich ist nicht Bildung und eine psychisch abgerundete Person muss noch nicht gebildet sein. Erst das persönlich angeeignete, das in die eigene Persönlichkeit integrierte Wissen bildet. Es kommt, wie Wilhelm von Humboldt formuliert, darauf an, „so viel Welt wie möglich in die eigene Person zu verwandeln“.
1. Veränderungen und ihre Folgen Beide Instanzen, Person und Wissen haben sich in der Gegenwart westlicher Kulturen stark verändert. Person als überindividuelles Konzept zu beschreiben, ist nahezu unmöglich geworden. So gut wie alle traditionellen kulturellen Gemeinsamkeiten lösen sich zugunsten individualisierter Bewusstseine auf. Nicht die Anpassung an allgemeine Normen ist das gesellschaftliche Gebot der Stunde, sondern Selbstverwirklichung, ein Leben nach eigenen Vorstellungen und Wünschen. Gleichzeitig sollen die Bürger/innen moderner Wirtschaftsgesellschaften möglichst viel desselben konsumieren. Das Konzept der Persönlichkeit gerät damit in ein schwieriges Paradox: Moderne Individuen P. Faulstich, Beruflichkeit als Identitätschance und Bildungsanlass? in “Zeitschrift für Schule, Berufsbildung und Jugenderziehung”, 49/2001, pp. 422-437. 3 Vgl., B. Lederer (Hg.), “Bildung”: was sie war, ist, sein sollte, Schneider Verlag, Hohengehren 2013. 2
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begreifen sich als extrem einzigartig und werden gleichzeitig weltweit einander immer ähnlicher. Im Bereich des Wissens könnte man die Transformation im Anklang an Lessings Ringparabel als „Nathanisierung“ bezeichnen. Damit ist nicht die gigantische quantitative Steigerung des Wissens gemeint. Die entscheidende Änderung besteht vielmehr in der Struktur des Wissbaren: Binnen weniger Jahrzehnte haben ausnahmslos alle aus sich selbst richtigen Wahrheitssysteme ihren Absolutheitsanspruch verloren. Keine Wahrheit lässt sich mehr als allein richtig und bedeutsam behaupten. Das Denken ist wichtiger geworden als das Wissen, die Wahrheitssuche wichtiger als die Wahrheit, die Übermittlung von Neuigkeiten einflussreicher als die Tradition von Dogmen, der Austausch verschiedener Ansichten Erfolg versprechender als die Verteidigung der einzig richtigen. Der richtige Ring kann nicht gefunden werden. Die als kausal und eindimensional gedachte Ordnung der Welt weicht einer systemischen, vernetzten, chaotischen. Nach Jahrhunderten der Überformung durch die Dogmatiken der Religionen und jene der ihnen nachfolgenden säkularisierten Wissenschaften und der etablierten Schulweisheiten erhalten die Menschen ihre Denk- und Urteilsfähigkeit zurück: Wissen wird zum Medium des Arguments und der Einigung auf dem Markt der Meinungen. Das Internet, Zukunftsszenario dieser neuen Form von Wissen, erschließt seine Wahrheit nicht über die gehorsame, asketische Einfügung in vorgegebene Ordnungen, sondern über das intelligente Aufstöbern höchst unterschiedlicher Quellen des Wissens und deren autonome Vernetzung. In der Anerkennung der Pluralität der unterschiedlichen Wahrheitsansprüche liegt die Zukunft des Wissens. Der Nathanisierung des Wissens entspricht, um beim Theater zu bleiben, die „Hamletisierung“ des Handelns: die stets gegebene Möglichkeit mehrerer statt bloß einer Möglichkeit, sich zu entscheiden. Wissensbestände wie Handlungsmodelle erweisen sich als Kataloge aufeinander verweisender Einzelstücke, deren Zusammenhang nicht von sich aus festgelegt ist, sondern von den Lernenden und Handelnden erst hergestellt werden muss. In der Politik wie im Alltag können unter demokratischen und partnerschaftlichen Bedingungen Vorgangs-
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weisen erst in mühsamen Verhandlungen errungen werden, mit – wie man auf beiden Feldern zur Genüge erleben kann – einem hohen Risiko zu scheitern. Kaum jemals gibt es die Patentlösung, die auf Anhieb die Zustimmung der Mehrheit findet, der Normalfall ist die Konkurrenz mehrerer Alternativen. Alles handeln wird zum Probehandeln. Die Zukunft des Handelns besteht nicht weiter in der autoritären Durchsetzung eines Entwurfs, sondern in der Zusammenschau unterschiedlicher Praxisentwürfe,. Was aber kann, angesichts dieser Veränderung des Wissens, Bildung bedeuten? Der Versuch einer Antwort auf diese Frage lautet: Bildung bedarf einer Kooptierung der Wissensarten und einer Repersonalisierung der Inhalte.
2. Bildung als Kooptierung der Wissensarten Unsere modernen Gesellschaften erfordern zumindest drei Arten von Wissen. Ein existenzielles Lebenswissen, das von Gesundheit über Beziehungsfähigkeit bis zur Erziehung, zur Gestaltung der Wohn- und Freizeitwelt, der existenzfördernden Nutzung der Konsum- und Medienwelt reicht. Der Bedarf an solchem Wissen entsteht dadurch, dass sich die Lebenswelten den Menschen nicht mehr wie etwa im Mittelalter durch die bloße Teilnahme am gemeinsamen Leben und die alltägliche Erfahrung erschließen, sondern sich aufgrund ihrer Unübersichtlichkeit und Komplexität der beiläufigen Aneignung entziehen, diese in manchen Bereichen, wie z.B. in der Konsumwarenwerbung und in der Medienindustrie, sogar gezielt verhindern. Wer einmal versucht objektiv festzustellen, welche Nahrungsmittel schädlich, welche gesund sind oder welche Creme die Haut verjüngt, wird mit dem Hausverstand und der TV-Werbung nicht weit kommen. Befriedigende, gesunde, glückliche Lebensführung bedarf speziell auf sie bezogener Erkenntnis- und Lernmöglichkeiten. Zum zweiten erfordern heutige Gesellschaften ein allgemeines Weltund Bürger/innenwissen, das sich auf die größeren Einheiten der Existenz, das gesellschaftliche Zusammenleben, die Politik, die Ökonomie,
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die großen Zukunfts- und Weltprobleme bezieht. Auf dieser Ebene geht es den modernen Bürger/innen ebenso wie auf der Ebene des existenziellen Wissens: Die Gesellschaft überlässt es den Massenmedien, sie mit allen möglichen Froh- und Drohbotschaften zu beliefern, um sie vor ihren Leinwänden und Bildschirmen festzuhalten. Angesichts der enormen Bedeutung dieser Sorte von Wissen ist das Ausmaß der Unbekümmertheit unserer Bildungssysteme um dieses Lernen äußerst gefährlich. Sein Vorhandensein oder nicht entscheidet in demokratischen und mehrheitsabhängigen Gesellschaften heute darüber, ob eine Politik zur Erhaltung der Erde und des Lebens auf ihr verwirklicht werden kann, oder ob die Mehrheit der Menschen in der sorglosen Lethargie einer die absehbaren Katastrophen banalisierenden Konsumästhetik oder in der endzeitlichen Apokalyptik einer sie horrifizierenden Medieninszenierung verfangen bleiben4. Die dritte erforderliche Wissensart der Moderne ist ein kurzfristiger vermittelbares und adaptierbares beruflich-technisches Qualifikationswissen das der Hervorbringung technischer bzw. praktischer Fähigkeiten zur Aufrechterhaltung des gesellschaftlichen, wirtschaftlichen und sozialen Lebens sowie der beruflichen Existenz dient. Diese Wissensform repräsentiert ein rascher wechselndes und den gesellschaftlichen Gegebenheiten, Möglichkeiten und Notwendigkeiten anzupassendes Anwendungs- und Gebrauchswissen für einfache Alltagssituationen ebenso wie für komplexe gesellschaftliche Problem- und Praxisfelder. Der Zeitgeist tendiert dazu, diese unterschiedlichen Wissensorten von einander zu trennen, den Medien und der Werbung das existentielle Lebenswissen, der Religion, der Ideologie, der Philosophie, der Esoterik und dem Boulevard das allgemeine Welt- und Bürgerwissen und den technischen bzw. beruflichen Schul- und Kursangeboten das beruflich-technische Qualifikationswissen zuzuweisen. Bildung dagegen hat die Aufgabe, diese Wissensarten zu einander in Beziehung zu setzen und zu kooptieren. Keine dieser Wissensarten hat dabei den Vorrang vor den anderen, keine kann aber auch in einem humanen Sinn Vgl. D. Kamper, Tod des Körpers – Leben der Sprache, in Gebauer, Günther u.a., Historische Anthropologie, Reinbek, Rowohlt 1989, pp.49-81. 4
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ohne die anderen erfolgreich sein. Nicht das Ausspielen der einen gegen die anderen, die Integration dieser drei Wissensformen macht den Anspruch an Bildung heute und morgen aus. Die euroamerikanischen Industrie- und Konsumgesellschaften favorisieren und generieren derzeit besonders zwei der drei hier geforderten Wissenstypen: Ein funktionales Außenwissen für den schnelllebig sich wandelnden Bedarf des beruflich-technisch-ökonomisch Sektors und ein kulinarisches Innenwissen zur Selbstverwirklichung in vielfältigen Beziehungs- LebensFreizeit- und Konsum- und Medienwelten (Rathmayr 2011). Wenn es nicht gelingt, neben diesen erfolgsorientierten Lernarten ein drittes, der gemeinschaftlichen Verantwortung und zwischenmenschlichen Solidarität dienendes Lernen aufzubauen, wird man sich vor diesen Gebildeten fürchten müssen. lm Bereich des beruflich-technischen Wissens zeigt sich die Tendenz zur Desintegration der Wissensformen am deutlichsten. Der Anforderungscharakter der beruflichen Ausbildung scheint auf den ersten Blick so sehr für sich zu stehen, dass berufliches Qualifikationswissen die anderen Wissensarten entbehren kann. Die Berufsausbildung bzw. der Mangel an ihr schlägt schneller und unmittelbarer als die übrigen Wissensformen auf die Stabilität der Gesellschaft durch, ermöglicht oder beeinträchtigt ihr Bestehen in der Konkurrenz der Ökononnen und Märkte, finanziert oder überlastet ihre Sozialsysteme, erhält oder zerstört ihre Infrastrukturen und Institutionen. Gerade berufliche Bildung und Ausbildung können aber nicht getrennt von den beiden anderen Wissens- und Lernformen gesehen werden. Wer sein Fahrzeug sinnvoll benutzen will – oder wer ein sinnvolles Fahrzeug konstruieren und vermarkten will – braucht einen tüchtigen Ingenieur, ein funktionierendes Verkehrssystem, einen wenig aggressiven Charakter und, je früher desto besser, ein wachsendes Umweltbewusstsein. Auf allen diesen Ebenen ist persönliche und gesellschaftliche Bildung erforderlich, müssen geeignete Lernprozesse angeboten werden. Die Produkte und Prozesse, die durch technische Kompetenz hervorgebracht werden, darunter so gefährliche Dinge wie Atomkraftwerke, DNA-Analysen und Lebenssmittel haben Folgen und Auswir-
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kungen nicht nur für ihre Erzeuger/innen, sondern für alle in einer Gesellschaft lebenden Menschen. Für viele brennende Probleme unserer Zeit reichen technisch-praktische Lösungen nicht mehr aus. Selbst dort, wo sie verfügbar sind, scheitern sie vielfach am mangelnden Problemverständnis der politisch Verantwortlichen, am fehlenden Bewusstsein der Mehrheit der Bevölkerung, an bürokratischen Hemmnissen oder ökonomischer Konkurrenz. Einer wachsenden Angst der Menschen vor letztlich zerstörerischen Auswirkungen politischer, sozialer, zivilisatorischer und technischer Entwicklungen steht eine viel zu langsame, zu wenig umfassende Veränderungskapazität gegenüber. Nicht zuletzt bezieht sich die Kritik an der Zerstörung humaner Ressourcen auch auf die wissenschaftlichtechnische Entwicklung selbst, die in einem gewissen Maß bereits Teil der gefährlichen Tendenzen geworden ist, zu deren Überwindung sie angetreten ist. Die Zukunft der Bildung wird deshalb beides brauchen: einen neuen Josefinismus5 der raschen Anpassung des beruflichen Lernens an die Erfordernisse des Arbeitsmarktes und der wirtschaftlichen Entwicklung und eine neue Sokratik der persönlichen Verantwortung und der philosophisch-moralischen Reflexion. Eine solche Konzeption von Bildung würde die klassischen Schulfächer neu interpretieren: Geschichte z.B. als ein Wissen zum Verständnis einer widersprüchlichen, auf gefährliche Krisen aber auch aussichtsreiche Chancen zusteuernden Welterfahrung - wobei sich dann gleich die Frage stellt, wie viel Sinn es noch macht, zwischen Geschichte, Deutsch, Philosophie und Psychologie peinlich zu unterscheiden, statt deren Zugänge auf die drängenden unbeantworteten Fragen hin zu versammeln; Englisch, Französisch, Geographie oder Wirtschaftskunde als angewandte interkulturelle Bildung, in der gegen verbreitete Fremdenangst und -Ausländerhetze die Vielfalt der Menschen und Gesellschaften als Bereicherung statt als Belästigung erfahrbar wird (vgl. Rathmayr 2013); Mathematik, Biologie, Chemie oder Physik als Der Terminus nimmt Bezug auf die von dem Habsburger Kaiser Josef II propagierte Schulreform, durch die praktische Kompetenzen des alltäglichen und beruflichen Lebens in die Lehrpläne aufgenommen werden sollten. 5
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Methoden zur Entwicklung der lebensentscheidenden Versöhnung von Natur, Kultur und Technik; Fächer wie Sport, Musik oder Theaterspiel als Medien der Erfahrung des eigenen Körpers, einer sinnlichen Weltwahrnehmung und einer kreativen Weltgestaltung.Der Staat hat in der Vergangenheit Bildung als Privileg aufgefasst, das je höher umso mehr, nur den besonders Begabten und Erfolgreichen zukommen sollte. Die Fortsetzung einer solchen selektiven Bildungspolitik wäre für die moderne Gesellschaft tödlich. Bildung kann nicht mehr als durch den Staat zugeteilte Bevorzugung aufgefasst werden. Sie ist eine Investition in dessen eigennützigem Interesse. Wenn Bildung als Lebenshilfe und Überlebensstrategie verstanden wird, muss staatliche Bildungspolitik alles daran setzen, möglichst viele Menschen zu motivieren, an diesem lebens- und überlebenswichtigen Lernen teilzunehmen.
3. Bildung als persönliche Aneignung Zum zweiten bedarf nachhaltige Bildung der Repersonalisierung der Inhalte. Unsere Bildungseinrichtungen haben vor der Wissens- und Menschenfülle kapituliert, indem sie die Inhalte entpersonalisiert und als „Fächer“, „Lehrpläne“, „Stundenpläne“, etc. dem Lernen vorgegeben haben. Repersonalisierung würde bedeuten, dass (schein)systematische Ansprüche auf „Allgemeinbildung“ aufgegeben werden, persönliche Inhaltswahlen getroffen werden können, dass Wissensalternativen verglichen, existentiell bedeutsame Inhalte ausgewählt, Lösungen gegeneinander abgewogen werden. Während die Besorgung der Zugänglichkeit zu Wissen zunehmend Maschinen übernehmen, wäre die Herstellung persönlicher Wissensbezüge unter den gegebenen Bedingungen die bevorzugte Aufgabe der Lehrenden. Sie sind gehalten, die persönliche Auswahl des Wissens durch die Lernenden zu ermöglichen und zu begleiten, und das bedeutet, inmitten der Fülle des Wissbaren Bildung im Modus persönlicher Überzeugungen in sich selbst zu begründen und den Lernenden weiterzugeben. Ziel der Bildung ist die Errichtung einer ihres autoritären Habitus entkleideten Interaktionsform der persönlichen Übermittlung von endgültig relativ gewordenen
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Wahrheiten als vorläufig praktikable Überzeugungen, ein Modus der Wissensvermittlung, der den Prinzipien der Relativität gewandelter Wissensstrukturen und der personalen Bildung Rechnung trägt. Menschenfreundliche Bildung muss bei aller Schwierigkeit und Anfälligkeit dieser Anstrengung den Versuch der Humanisierung von Wissen und Bildung als Überzeugung von Personen und Austausch persönlicher Ansichten zwischen Menschen unterschiedlicher Auffassungen in Angriff nehmen. Wissen und Bildung können nicht mehr in Form von Kanones festgeschriebener Inhalte und Lehren konzipiert werden, sondern müssen als Prozess intellektueller und emotioneller Hervorbringungen von Personen verstanden werden. Damit untrennbar verbunden wird Lehren und Lernen zum interpersonellen Austausch von Erkenntnisweisen, Wissenskomplexen, Wahrheitsansprüchen und Handlungsalternativen. Nicht das Lehren, Lernen und Wiedergeben von Wissen ist die Didaktik der Zukunft, sondern das umsichtige Reden, das aufmerksame Zuhören und das einsichtige Besprechen. Nicht der Nürnberger Trichter ist das Bildungssymbol der Zukunft sondern der runde Tisch, an dem Wahrheiten ausgesprochen, begründet, bezweifelt und am Ende für eine begrenzte Zeit geteilt werden.
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Ralf Lüfter*1 Wider besseres Wissen. Ezra Pounds ABC des Lesens1 No teacher has ever failed from ignorance. The inexperienced teacher, fearing his own ignorance, is afraid to admit it. Perhaps that courage only comes when one knows to what extent ignorance is almost universal. Ezra Pound Against a better Knowledge. Ezra Pound’s ABC of Reading. As the prologue announces, Ezra Pound‘s ABC of reading is addressed to those “who might like to learn”. It is not addressed to those “who have arrived at full knowledge of the subject” without knowing what has to be known, i.e. without knowing what we want to preserve and sustain it, Dr. Assistenzprofessor für Ethik an der Freien Universität Bozen. Vize-Präsident der Akademie deutsch-itallenischer Studien Meran 1 E. Pound, ABC of Reading, New York, 2010. Der Text erschien erstmals 1934 und ist, wie Ezra Pound selbst sagt, ein Lehrbuch für den Unterricht, das in der Hauptsache der Frage nachgeht, wie sich einer im Hinblick auf das Poetische zu bewegen hat. Ezra Pound spricht ausdrücklich von einer »poetischen Methode«, welche, wie er meint, die eigentlich »wissenschaftliche Methode« sei, wobei das Poetische heute von einer ganz bestimmten Form der Ignoranz bedroht sei – eine Form der Ignoranz, die sich wider besseres Wissen von vorn herein dem verschließt, was es zu wissen gibt. Der Text gliedert sich in drei unterschiedliche Teile. Der erste Teil, um den es hier vor allem gehen soll, beleuchtet die genannte Frage. Der zweite Teil, der Hauptteil, besteht aus einer Auswahl von Gedichten und Zitaten. Der dritte Teil schließlich enthält Bemerkungen zur Metrik. Mittlerweile gibt es sowohl eine italienische Übersetzung des Textes, die 2012 von Marzio Breda neu herausgegeben wurde, als auch eine deutsche Übersetzung von Eva Hesse, die 2013 neu erschienen ist. Die hier verwendeten Übersetzungen stammen, wo nicht anders vermerkt, vom Autor. ∗
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in order for it to become comprehensible. When the poet speaks about his own epoch – about teaching, about universities, about art and literature, about economy – he recognises ignorance as the dominant way of today’s knowledge. The aim of the talk is to outline Ezra Pound’s concept of ignorance that builds the basis of the ABC of reading, focusing on the difference between informed knowledge without understanding and essential knowledge with understanding. Im Jänner des Jahres 1941 schreibt Simone Weil in einem Brief an Déodat Roché von einer Möglichkeit des Wissens, welche durch eine bestimmte Art von Texten erschlossen wird, während sich eine andere Art von Texten dieser Möglichkeit des Wissens von vorn herein verschließt. In dem Brief geht es vor allem um die Klärung editorischer Fragen und im Zusammenhang damit um das Verhältnis des so genannten OriginalTextes zu den ihn begleitenden Studien und Kommentaren. Ich bin, was die Notwendigkeit der Herausgabe von Studien angeht, welche die Veröffentlichung von Texten vorbereiten soll, nicht ihrer Meinung. Sicher, es wird Studien zu dem in Frage stehenden Sachverhalt brauchen […] Aber ich glaube nicht, dass die Herausgabe solcher Studien der Veröffentlichung der Texte vorausgehen sollte. Ich meine, sie könnten parallel erscheinen, oder besser noch, die Texte erscheinen zuerst. Es gibt Geister, die so beschaffen sind wie ich. Die Original-Texte sind für mich, in jedem Fachgebiet, unersetzlich – die Original-Texte, so wie sie sind, ohne jeglichen Kommentar. Sie allein bringen mich in einen Bezug zu dem, was ich wissen mag. Dabei kümmert es mich wenig, ob ich sie nur teilweise verstehe. Erst dann greife ich auf Kommentare zurück, wenn es überhaupt welche gibt, die mir verlässlich erscheinen, schließlich kehre ich zu den OriginalTexten zurück.2
Simone Weil unterscheidet an dieser Stelle drei Arten von Texte, die sie im Hinblick auf das, was es zu wissen gibt und was einer dem„Cahiers Simone Weil“. Revue trimestrielle publiée par L’Association pour l’étude de la pensée de Simone Weil, I, 3, Paris 1978, S. 3. 2
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entsprechend wissen mag, ihrem Rang nach ordnet: den Original-Text; eine Art von Kommentar, die zuverlässig erscheint und der sie im Zuge ihrer Auseinandersetzung traut; eine Art von Kommentar, die im Unterschied zu dem Erstgenannten unzuverlässig ist und die folglich alles andere als vertrauenswürdig erscheint. Der Original-Text zeichnet sich laut Simone Weil dadurch aus, dass er den Leser in einen unmittelbaren Bezug zu dem bringt, was dieser wissen mag. Er mag indes immer nur das wissen, was es zu wissen gibt und was er, als der, der er ist, zu wissen vermag. Was der Leser aber zu wissen vermag, dessen Ahnung ist er längst ausgesetzt. Von woher sollte genanntes Mögen sonst auch kommen und für das jeweilige Wissen konstitutiv werden? Demnach vermag der Original-Text die genannte Möglichkeit des Wissens immer nur so weit zu erschließen, als er ihr selbst entspringt und seinerseits ein Vermögen zu wissen gründet. Zugleich sagen wir nun aber auch, dass das, was einer wissen mag, von ihm noch nicht gewusst sei. Er weiß davon nur insoweit, als es ihm im Aufmerken auf das eigene Unwissen gegenwärtig wird. Was einem aufgeht und auf diese Weise gegenwärtig wird, war nicht schon und ist auch nicht schon im Sinne eines irgendwie vorhandenen und feststellbaren Wissensgehaltes. Es ist vielmehr etwas, das sich im Kommen befindet und so gesehen den Charakter des Künftigen hat. Das, was es zu wissen gibt, erschließt sich im Zuge dieser Möglichkeit also als ein Künftiges, dessen Ahnung das Vermögen zu wissen je schon ausgesetzt ist. Die Ergründung des Künftigen tut dort Not, wo ein begründetes Wissen verlangt ist und das, was es zu wissen gibt, nicht bloß zur Kenntnis genommen werden soll, sondern von Grund auf verstanden werden möchte. Von dem, was wir von Grund auf verstehen, haben wir eine Ahnung. Jener Kommentar nun, der in den Augen von Simon Weil zuverlässig zu sein scheint, wendet sich dem Original-Text in der Weise zu, dass er das, was dort erschlossen ist, im Hinblick auf die angedeutete Möglichkeit des Wissens zur Auslegung bringt und auf diese Weise seinerseits ein Wissen bildet, das in Sorge um das bleibt, was es zu wissen gibt und was einer wissen mag. Im Gegensatz dazu steht der unzuverlässige Kommentar. Er richtet sich im Bereich des schon erschlossenen
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Wissens ein, ohne dieses von seinem eigentlichen Ermöglichungsgrund her zu verstehen. Diese Art des Kommentars trägt das, was es zu wissen gibt, nicht eigens mit und kann so gesehen auch nicht als wesentlicher Kommentar – als wesentliches Mit-denken bzw. Mit-wissen – gelten. Das »Mit« konstituiert sich allererst Dank der von Simone Weil angesprochenen Möglichkeit des Wissens, die jedes Mal in dem Vermögen zu verstehen gegründet werden muss. Fehlt das Verständnis für diese Möglichkeit des Wissens, wird wider besseres Wissen eine Wissenschaft ins Recht gesetzt, die ihrerseits, wie Simone Weil an andere Stelle sagt, […] alle möglichen Arten von Kriterien, Normen und Werten anerkennt, nicht jedoch <das, was es zu wissen gibt, d. h.> die Wahrheit.3
In einem analogen Sinne führt Ezra Pound in das ABC des Lesens ein, wenn er dem zweiten Hauptteil der Abhandlung die Bemerkung voranstellt: Idealerweise sollte man die Zitate <und Verse> im nächsten Teil des Büchleins ohne jeglichen Kommentar vorstellen. Ich befürchte, das wäre zu revolutionär. Eine lange und mühevoll erworbene Erfahrung hat mich indes gelehrt, dass der imperfekte Zustand der heutigen Welt einen dazu zwingt, den Leser bei der Hand zu nehmen.4
Und er fügt hinzu, dass ein solches »bei der Hand Nehmen« in der »idealen Republik« nicht von Nöten wäre, insofern jene, die wissen mögen, von sich her hinreichende Zuneigung mit sich bringen, um dem, was in den Texten zur Sprache kommt, angemessen zu begegnen. Dies, um zu sagen, dass die Anstrengungen des Lesens, wie Ezra Pound sagt, mithin die Anstrengungen des Ringens um die Erschließung der wesentlichen Möglichkeit des Wissens ihre Orientierung aus einer Notwendigkeit des Gemeinwesens gewinnt: der Notwendigkeit, dem DaS. Weil, La personne et le sacré. Collectivité - personne - impersonnel - droit - justice, in: Écrits de Londres et dernières lettres, Paris 1975. S. 16. 4 E. Pound, ABC of Reading, New York, 2010, S. 95. 3
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sein jedes Mal jenen Zeit-Raum für sein jeweiliges Sich-Einrichten und Wohnen zu erschließen, innerhalb welchem sich das Vertrauen auf einen gemeinsamen Austrag dessen konstituiert, was ist, und sich auf diese Weise allererst das Künftige weist. Heute, unter den vorherrschenden Umständen, auf die dafür gebrauchte Zuneigung zu vertrauen, wäre laut Ezra Pound »zu revolutionär«, weil es eine zu radikale Wandlung der vorherrschenden Verhältnisse verlangen würde, d. h. eine zu radikale Wandlung der Weise, wie sich die Dinge verhalten und wie die Dinge heute in ihr Was-Sein und Wie-Sein eingesetzt sind. So widmet Ezra Pound sein ABC des Lesens denjenigen, deren Ringen um das, was es zu wissen gibt, von eben dieser Zuneigung getragen und entschieden ist. ABC Oder: gradus ad Parnassum, für jene, die lernen mögen. Das Buch wendet sich nicht an jene, die längst zu einer umfassenden Kenntnis der Dinge gelangt sind, ohne indes zu wissen, was es zu wissen gibt.5 Wer aber sind jene, die lernen mögen, die wissen mögen und die dafür die notwendige Zuneigung mitbringen? Und wer sind im Unterschied dazu die anderen, die zwar zu einer umfassenden Kenntnis der Dinge gelangen können, ohne indes zu wissen, was es zu wissen gibt? Ausdrücklich meint Ezra Pound keine bestimmten Personen und keine bestimmten Gruppen von Personen. Ausdrücklich verweist er auf den unpersönlichen Charakter dessen, was hier gesagt sein möchte. Es geht nicht um etwas Persönliches, sondern im Gegenteil, um die gänzlich unpersönliche Möglichkeit des Wissens. Es geht nicht um Personen – auch dort nicht, wo Einzelne genannt sind. Es geht nicht um die Person des Malers Pisanello, den der Herzog von Bologna mit dem Einkauf von Pferden betraute, weil er in seinen Werken einen besonderen Sinn für Pferde gezeigt hat, es geht nicht um die Person des Bildhauers Henri Gaudier-Brzeska, der ob seines Auges für die Gestalt der Dinge eine erstaunliche Anzahl chinesischer Schriftzeichen lesen konnte, ohne sie je 5
Ebenda, S.10.
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gelernt zu haben, es geht nicht um die Person des Naturforschers Louis Agassiz, der einem Postdoktoranden das Prinzip der Wissenschaft lehrt, indem er ihn zu einem eigenständigen Verständnis des zu untersuchenden Gegenstandes gelangen lässt – es geht jedes Mal um die Zuneigung zu den Dingen: eine Zuneigung, dadurch sich die genannte Möglichkeit des Wissens allererst erschließt. Beispielgebend und mit Blick auf das noch zu gründende Wissen der Sprache, sagt Ezra Pound: Es ist überaus schwierig, Menschen einen Begriff des unpersönlichen Entsetzens zu vermitteln, den der Verfall der Sprache für jene Menschen mit sich bringt, die verstehen, um was es geht und wohin es führt. Es ist nahezu unmöglich, auch nur einen Bruchteil dieses <unpersönlichen> Entsetzens zur Sprache zu bringen, ohne verbittert zu wirken. Und dennoch: Der Staatsmann kann nicht regieren, der Wissenschaftler keine Entdeckungen mitteilen, die Menschen können sich nicht über kluge Handlungs-weisen einig werden, ohne Sprache – all ihr Tun und Lassen ebenso wie die Umstände, denen sie ausgesetzt sind, werden von den Stärken und Schwächen des Idioms bestimmt. Ein Volk, das sich an einen schlampigen Stil gewöhnt hat, ist ein Volk, das im Begriff ist, den Halt zu verlieren […].6
In Ezra Pounds ABC des Lesens geht es so gesehen vor allem um das, was es zu wissen gibt, und was dieses Geben jedes Mal verlangt – nämlich: Zuneigung; Zuneigung zu den Dingen. Zuneigung stiftet Nähe. Zuneigung gründet die Nähe der Dinge, auf dass ein begründetes Wissen der Dinge sein kann, auf dass eine Welt sei, für das gemeinsame Ausstehen des Eingelassen-Seins in die Auseinandersetzung mit dem, was ist und was es folglich zu wissen gibt. Wo es damit nichts auf sich hat, dort gibt es auch kein begründetes Wissen, dort herrscht eine fortgesetzte Unbegründetheit des Wissens selbst, dort herrscht Ignoranz. Der Feind ist die Ignoranz.7 Ebenda, S. 34. Übersetzung von Eva Hesse: Ezra Pound, ABC des Lesens, Zürich [u.a.] 2013, S. 36 f. 7 E. Pound, Gold and Work, in: E. Pound, Selected Prose. 1909-1965, New 6
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Ignoranz meint bei Ezra Pound nicht: Unwissenheit oder Nicht-Wissen im Sinne der Uninformiertheit. Vielmehr ist die von Ezra Pound genannte Ignoranz wider besseres Wissen, wo sie im Aufmerken auf das eigene Unwissen, auf das eigene Nicht-Wissen die aufgehende Möglichkeit des Wissens und mithin das Vermögen zu wissen nicht erschließt und sich Wissen und Unwissen, Wissen und Nicht-Wissen gegenseitig ausschließen müssen. Während die Ignoranz einerseits sehr wohl in den Bereich eines wesentlichen Wissens gehören kann, insofern sie dem Wissen das Unwissen vor Augen führt und damit eine ursprünglichere Möglichkeit des Wissens anzeigt, verschließt sie sich andererseits wider besseres Wissen eben dieser Möglichkeit von vorn herein. Wider besseres Wissen setzt sich die Ignoranz überall dort durch, wo den Dingen gerade nicht auf den Grund gegangen wird und sie gerade nicht im Hinblick auf die ursprünglichere Möglichkeit des Wissens in Frage gestellt werden, insofern sie nämlich ausschließlich im Hinblick auf ihre Einsetzbarkeit in einen operativen Zusammenhang gesehen sind. Kraft dieses »Wider«, das sich der Begründung der Dinge ebenso wie der In-Frage-Stellung derselben verweigert, setzt sich der Anspruch auf die zu verwirklichende operative Einsetzbarkeit derselben in optimierbare Wirkzusammenhänge durch. Ein Vierzeiler aus dem Gedichtband Personae mag uns helfen, genauer auf das zu achten, was Ezra Pound auch in seinem ABC des Lesens anspricht: This thing that hath a code and not a core, Hath set acquaintance where might be affections, and nothing now Disturbeth his reflections.8
Ein Ding ohne Herz. An Stelle des Herzens ein Code – ein Schlüssel, der eine ebenso ungestörte wie restlose Kenntnisnahme der Dinge York 1972, S. 344 f. 8 E. Pound, Personæ. Collected shorter Poems, London: Faber and Faber, 1952, S. 76.
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sicherstellt. Die Zuneigung, welche die Nähe der Dinge so zu gründen weiß, dass sich ein begründetes Wissen und mithin ein eigenständiges Verständnis einstellt, ist durch die über einen eindeutigen Code vermittelte Kenntnisnahme der Dinge ersetzt. Das jeweilige Ding bleibt davon nicht unberührt. »Nothing / now disturbeth his reflection«. Nichts stört mehr seine Reflexion. Genauer: »Kein-Ding« stört mehr seine Vorstellung, seine Darstellung, seine Wiedergabe. Kein-Ding heißt so viel wie: kein Ding als Ding, kein Ding als das, was es ist, stört jetzt das Wissen. Jedes Ding kann mittels Code gleich vorgestellt, gleich dargestellt, gleich wiedergegeben werden: sogleich, sofort, ohne störende Verzögerung. Aber auch gleichermaßen, auf die gleiche Weise, so dass nun jeder alles auf die gleiche Weise weiß und alles von jedem gleichermaßen gewusst wird und gerade kein eigenständiges Verstehen mehr nötig ist. Wider besseres Wissen verschließt sich der Code der ursprünglicheren Möglichkeit des Wissens, die in der Zuneigung gewahrt bleibt und uns in eine unmittelbare Nähe zu dem Ding – in seine Herzgegend – versetzt. »Ding« heißt seiner Wortherkunft nach »Versammlung zur Verhandlung und mithin zur Entscheidung von etwas«. Etwas, das verhandelt wird und also zur Entscheidung steht, ist seinerseits unentschieden und also noch offen. Es harrt der ausständigen Entscheidung im Zuge der Verhandlung. Was ausständig und so gesehen unentschieden ist, zugleich aber zur Entscheidung steht, ist seinem Wesen nach Mögliches, Offenes, Künftiges. Im Wissen um das, was es zu wissen gibt, bleibt die Möglichkeit des Wissens solange gegründet, solange die genannte Ausständigkeit und Unentschiedenheit, sprich, die genannte Offenheit des Künftigen, eigens geahnt ist und auf diese Weise zum Austrag kommt. Dagegen steht der »Code« für einen im voraus definierten Wissensgehalt, den er seinerseits möglichst eindeutig darstellen und wiedergeben soll. Der Grundzug der Ausständigkeit und Unentschiedenheit stört in diesem Zusammenhang, so dass er mittels der Vorwegnahme der Entscheidung umgangen wird und es mit der Offenheit des Künftigen nichts mehr ist. Offenheit und Künftigkeit sind indes konstitutive Grundzüge der Nähe des Dings. Wobei eine kleine Entfernung nicht die hier gemeinte Nähe trifft. Die Nähe der Dinge besteht nicht im geringen
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Maß der Entfernung, sondern im Nahen, im Kommen und Bevorstehen – in dem, was im Kommen ist und was bevorsteht und wodurch das Ding als Ding in der Möglichkeit seines Gewusst-Werdens bleibt. Die Ignoranz wider besseres Wissen wird hingegen nicht dadurch aufgehoben, dass wir mittels moderner Technik die Nähe des Dinges herzustellen versuchen, indem wir beispielsweise in die letzten Ecken desselben eindringen und die Zerlegung des Dings in seine kleinsten und allerkleinsten Bestandteile betreiben, um die ausständige Entscheidung über das, was das Ding ist, herbeizuführen und das Ding endlich als eindeutig definierten Wissensgehalt vorzustellen, darzustellen und wiederzugeben. Wir stoßen dabei nämlich vor zu und immer nur auf Dingliches, das wir als solches wieder nicht zu erschließen vermögen, solange wir nichts von dem wissen wollen, was es lange schon zu wissen gibt. Wenn man in Europa einen Menschen auffordert, etwas zu definieren, entfernt sich seine Definition immer mehr von den einfachen, ihm vertrauten Dingen; sie entweicht in eine unbekannte Region, in eine Region abgelegener und immer weiter abgelegener Abstraktion. Fragt man ihn also, was rot ist, so sagt er, es ist eine »Farbe«. Fragt man ihn, was eine Farbe ist, so erklärt er, es sei eine Schwingung oder eine Brechung des Lichts oder ein Teil eines Spektrums. Fragt man ihn, was eine Schwingung ist, so sagt er, es sei eine Erscheinungsform der Energie oder etwas Derartiges, bis man schließlich […] den Boden unter den Füßen verliert.9
Absehen vom Ding als Ding. Wider besseres Wissen bleibt ein solches Absehen von einer unmittelbareren Nähe zu dem Ding ausgeschlossen und »entweicht«, wie Ezra Pound in der zitierten Textstelle sagt, »in eine Region abgelegener und immer weiter abgelegener« Absichten, in die Region eines abstrakten Wissens, weit abgelegen von dem, was es zu wissen gibt.
E. Pound, ABC of Reading, New York, 2010, S. 19. Übersetzung von Eva Hesse: E. Pound, ABC des Lesens, Zürich [u.a.] 2013, S.18. 9
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Antonio Pieretti*1 Oltre il soggetto, nella prospettiva di un nuovo umanesimo Beyond the Subject. The Prospect of a new Humanism. With the “rehabilitation of practical philosophy” and the irruption of the “other” in the philosophical debate, the “postmodern condition” has proved to be the consequence of a gnoseologistic prejudice. Therefore, its claim concerning the “eclipses of the subject” has shown to be unsupported. At this regard, on the contrary, the “posthuman condition” has a greater impact, due to the extraordinary progresses achieved by genomics, robotics, information technologies and nanotechnologies. By reducing the differences between the biological and the artificial components, the interaction man-machine seems to be effective and irreversible. It is also seductive because it seems to make possible the indefinite extension of human life. Facing this perspective, which is nonetheless still only hypothetic, one cannot remain indifferent, but one has to search for intellectual and political strategies in order to safeguard human identity. If the desire of a longer life causes enormous sacrifices and pains, it is then difficult to accept this possibility and have a real interest in it. I. Nella seconda metà del secolo scorso, sotto la suggestione degli sviluppi più recenti della sociologia, si è imposto un nuovo paradigma culturale, denominato «condizione postmoderna». Si è caratterizzato per l’abbandono delle meta-narrazioni, cioè di quei dispositivi teorici che, mediante quadri generali, legittimano criteri di verità, istituzioni sociali, percorsi di vita, a beneficio di narrazioni più limitate e circoscritte che, come scrive Lyotard, si disperdono «in una nebulosa di elementi ognuno dei quali veicola delle valenze programmatiche sui generis»1. Prof. Ord. em. di Filosofia teoretica all’Università di Perugia. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981, p. 6. ∗ 1
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Su questa base, il passaggio dalla «condizione moderna» a quella «postmoderna» è stato declinato nel segno della discontinuità, della rottura e quindi dell’introduzione di apparati concettuali completamente diversi, e spesso antagonisti, rispetto a quelli del passato. Di questa svolta radicale ha risentito l’intera tradizione filosofica occidentale che è stata messa in questione e, in particolare, il modo di concepire l’uomo che questa ha espresso. Come è noto, il pensiero moderno, attraverso al riflessione cartesiana, ne ha individuato l’identità nello statuto che lo contraddistingue come soggetto. Come tale, gli è stata riconosciuta una consistenza ontologica, oltre che una posizione di preminenza sul piano conoscitivo. Ebbene, il pensiero postmoderno ha contestato questa peculiarità del soggetto, privandolo di qualsiasi autonomia. Jameson infatti, poiché la ritiene segnata dalla «mancanza di profondità», sostiene che la soggettività non può produrre altro che tonalità affettive derivate e mimetiche2. Poiché questa vicenda ha visto la sua gestazione e il suo sviluppo soprattutto nella riflessione filosofica contemporanea, è su questo terreno che possiamo rintracciare le forme e le modalità in cui si è espressa. Come è noto, Nietzsche è tra i primi ad averne fornito una significativa anticipazione. Concependo l’uomo come l’ente destinato a rotolare verso un’incognita, verso un punto che sfugge alla nostra conoscenza, ne sancisce la perdita del centro e ne preconizza lo spodestamento. Inoltre, poiché lo identifica con «l’ultimo uomo», caratterizzato da un disincanto completo nei confronti del mondo, lo apre a ogni forma di nichilismo. Così, «l’oltre-uomo» che ne costituisce il superamento, è incerto se ne rappresenta la definitiva perdita o la sua possibile trasvalutazione. Seppure da prospettiva diversa, la tematica dell’uomo come soggetto è ripresa e sviluppata anche da Husserl. Così il soggetto è riguardato sotto il profilo fenomenologico. In quanto tale, ha il suo elemento qualificante nel cogito; però non si contraddistingue per il carattere formale-universale delle sue funzioni, come avviene in Kant, ma per l’intenzionalità che lo sottrae alla sua auto-referenzialità e lo apre oltre Cfr., F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di F. Velotti, Fazi, Milano 1989. 2
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se stesso. «Ogni cogito, ogni vissuto coscienziale, afferma infatti Husserl, intende qualcosa e porta in se stesso il suo eventuale cogitatum, nel modo di ciò che è inteso in se stesso, e ogni cogito fa così nel modo che gli è proprio»3. In virtù della sua struttura intenzionale, la coscienza coglie nuovi nessi, stabilisce sintesi, unifica e distingue, in modo che così «possa “annunciarsi” in maniera concordante, lasciarsi “legittimare” e determinare razionalmente, l’unità oggettiva»4. Tuttavia, ogni vissuto intenzionale «include in sé qualcosa come un “senso”»5, per cui ciò che è percepito porta a manifestazione la cosa spaziale, ma «adombrativamente», cioè senza esaurirla, di modo che essa non può mai essere data effettivamente alla coscienza. Non per questo però la coscienza si propone come una sostanza autosufficiente: a causa della sua natura intenzionale, è inevitabilmente connessa con il suo cogitatum. L’«andare alle cose», perseguito da Husserl, quindi, sebbene non spodesti il singolo, tuttavia lo ridimensiona sotto il profilo ontologico e lo predispone a un ruolo non più centrale come avveniva nel passato. Questo decentramento è accolto da Heidegger, che lo sviluppa nella direzione imposta dall’orientamento metodologico che risponde al motto «la parola ai fatti stessi». Con la preminenza riservata alla «fatticità», il cogito, perde definitivamente la posizione di preminenza che gli era stata attribuita dal pensiero moderno. Heidegger afferma che «un’analisi approfondita della coscienza la rivela come una chiamata»6. Poiché quest’ultima ha le caratteristiche del richiamo, è il richiamato che in essa occupa il ruolo predominante. La chiamata, di per se stessa, non afferma nulla, non dà alcuna informazione, ma risveglia l’Esserci al suo più proprio poteressere, cioè lo restituisce alla natura che gli è propria, in quanto di per sé E. Husserl, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 2002, p. 64. 4 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 217. 5 Ivi, p. 284. 6 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, sez. II, § 54, p. 327. 3
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«è già sempre auto-comprensione quotidiana, media e prendente cura». Pertanto, è il «Sì-stesso del co-essere con gli altri, prendendo cura»7, che viene chiamato in causa dalla chiamata. Così, «nella coscienza l’Esserci chiama se stesso»8, ed essa, da parte sua, non ha nulla da dire. È significativo che, secondo Heidegger, «la chiamata non è mai né progettata, né preparata, né volutamente effettuata da noi stessi. “Qualcuno chiama, contro la nostra attesa e contro la nostra volontà”» che però non è un qualcuno che sia nel mondo insieme a noi: «La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me»9. In questa prospettiva, lo spodestamento del cogito si consuma in favore dell’Essere. Con la filosofia analitica, il decentramento operato in chiave esistenziale da Heidegger, si connota in senso linguistico. «Alle congetture turbolente e alle turbolente spiegazioni» dei filosofi tradizionali, infatti, Wittgenstein si ripromette di sostituire «la tranquilla ponderazione dei fatti linguistici»10. In questo ordine di idee, la preminenza è riservata al linguaggio non già però nella sua capacità rappresentativa, ma piuttosto nella sua funzione pratica. Il dubbio stesso, che con Cartesio ha reso possibile l’accesso al cogito, ha ora il proprio limite nel gioco linguistico in cui è espresso. E appunto, osserva Wittgenstein, «chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza»11. È escluso pertanto qualsiasi ricorso a un evento mentale. Poiché questo procedimento troverebbe la sua legittimazione nella pretesa di spiegare l’impiego del linguaggio, sarebbe riguardato come il riflesso della scelta metodologica di attenersi al modello delle scienze naturali. In queste infatti, avviene lo scambio dell’impiego dei concetti con lo stato psicologico di chi se ne serve. Viene così escluso il «linIvi, § 56, p. 330. Ivi, § 57, p. 333. 9 Ivi, pp. 333-334. 10 L. Wittgenstein, Zettel, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2007, § 447, pp. 97-98. 11 L. Wittgenstein, Della certezza, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 115, p. 22. 7 8
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guaggio privato» e l’io è qualificato come un’illusione di cui possiamo tranquillamente liberarci senza che ciò abbia alcuna incidenza sull’uso effettivo del linguaggio. Le critiche più radicali contro l’idea del soggetto comunque sono quelle che hanno visto la luce nella seconda metà del secolo scorso. Esse sono maturate per lo più nel solco di un ripensamento della natura del sapere. Emblematica è, a tale proposito, la via «archeologica» prescelta da Foucault. La ricostruzione del sapere, che ne scaturisce ne Le parole e le cose, si conclude con l’affermazione che la nozione di uomo «è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E anche la fine ultima». Le condizioni che ne hanno consentito l’insorgere si sono costituite molto tardi e, per di più, senza alcun vincolo di essenzialità; pertanto, così come sono nate, esse potrebbero scomparire con il sopraggiungere di qualche eventualità di cui ignoriamo i tratti, ma che è possibile e probabile. In tal caso, secondo Foucault, possiamo senz’altro prevedere che l’idea di uomo sarà cancellata12. Il soggetto cartesianamente inteso, perciò, per Foucault, non ha altro luogo dove possa stare, se non quello che è al di là della linea tracciata dal sapere. Sul suo conto pertanto siamo legittimati fin d’ora a tacere. In una direzione analoga sembra procedere la riflessione di Derrida. L’intento decostruttivo che egli persegue, infatti, pare orientato a distruggere la tesi che pone il soggetto in una posizione preminente. E tale, per certi aspetti, esso si rivela. Al tempo stesso però non va dimenticato che Derrida adotta la via della decostruzione in quanto ritiene che quella della distruzione completa non possa essere percorsa, poiché porterebbe inevitabilmente a una nuova costruzione e quindi a una nuova affermazione del presente e dell’ideale. «I movimenti di decostruzione, scrive infatti, non sollecitano le strutture dal di fuori, essi sono possibili ed efficaci, aggiustano il loro tiro, proprio abitando queste strutture. Abitandole in un certo modo, poiché si abita sempre e ancor più quando
Cfr., M. Foucault, Le parole e le cose, tr. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, p. 314. 12
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non lo si sospetta»13. Così la decostruzione non è solo la ripetizione della genealogia dei concetti, ma piuttosto un pensare quest’ultima dall’interno, nella sua articolazione intrinseca, senza però restare insensibili a ciò che resta al di fuori e quindi dislocandola. Con tale approccio, per il soggetto si stringe il nesso tra il privato della presenza e il pubblico della voce come mezzo espressivo della disponibilità dell’essere, per cui ne è sottolineata non solo la finitezza, ma anche la contingenza, la relatività. Così il cogito non è solo depotenziato ontologicamente, ma è anche privato della possibilità di essere identificato. Jonas, da parte sua, individua nel primato riconosciuto all’uomo la causa del momento drammatico che stiamo vivendo. Poiché tale preminenza lo ha differenziato dal resto della natura, introducendo tra loro una profonda discontinuità, essa ha prodotto «solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell’uomo stesso, atrofia del suo essere anche nel caso fortunato della conservazione biologica». Tutto ciò è avvenuto in aperta contraddizione con ciò che contraddistingue «il suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere»14. II. Ma quella che passa attraverso la critica del cogito e la ridefinizione del sapere, non è l’unica minaccia contro la centralità del soggetto che si è fatta strada nella cultura contemporanea; se ne è affacciata un’altra ben più radicale: quella rappresentata dal cosiddetto «pensiero postumano». In verità, per alcuni tale pensiero appartiene ancora alla fantascienza; per altri invece è già parte integrante della realtà attuale, anche se in forma embrionale e non ancora sviluppata in tutte le sue implicazioni. Quale che sia il suo statuto effettivo, tuttavia è impensabile non tenerne conto in relazione alle implicazioni che ne scaturiscono per il futuro dell’umanità.
J. Derrida, Della grammatologia, tr. it. di R. Balzaretti e altri, Jaca Book, Milano 1989, p. 28. 14 H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it. di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990, p. 175. 13
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Il pensare in senso «postumano» ha la sua origine nelle tecnologie più avanzate del nostro tempo: dalla genomica alla robotica, dall’informatica alle nanotecnologie. Indubbiamente l’approccio alla realtà che esso esprime non è una conseguenza inevitabile del progresso che queste hanno raggiunto; ma è connesso all’impiego che l’uomo potrebbe farne. Non va sottovalutato infatti che, per quanto consapevole e responsabile possa essere tale impiego, tuttavia risentirà inevitabilmente del fascino, della suggestione emotiva che tali tecnologie eserciteranno su di lui, quando ne potrà disporre a proprio piacimento. Come è noto, esse sono state concepite innanzitutto per finalità terapeutiche, in quanto consentono di recuperare in tutto o in parte facoltà compromesse o di rimediare a patologie più o meno gravi. Con il passare del tempo però, ci si è resi conto che possono rispondere anche a finalità migliorative, perché permettono di potenziare e accrescere facoltà naturali oppure di generare capacità inedite. Gli effetti che ne scaturiscono riguardano non solo l’individuo, ma si estendono all’intera specie. Quanto detto vale in particolare per gli scenari che si aprono con la manipolazione del genoma. Alla luce di queste considerazioni, che peraltro sono avvalorate dalle straordinarie innovazioni di cui già oggi usufruiamo, non è infondato ritenere che l’uomo in futuro guardi a queste tecnologie con particolare interesse. Peraltro vi è riposta la possibilità che, grazie al loro aiuto, egli veda coronato il sogno che ha coltivato fin dalla sua comparsa sulla terra: non solo dominare la natura, ma anche prendere in mano le redini della propria evoluzione. D’altra parte, se l’uomo costruisce gli strumenti tecnici, questi, a loro volta, retroagiscono su di lui entrando a far parte del suo stesso organismo e trasformandolo in una nuova realtà in cui la componente biologica e quella artificiale convivono più o meno felicemente. Ebbene, questo fa sì che, anche se il suo DNA restasse immutato – come è avvenuto finora, ma non è certo che avverrà anche in futuro –, egli si modifichi, definendosi e ridefinendosi continuamente. Del resto, sotto questo riguardo, già oggi l’uomo è frutto di un incessante e caotico processo autocreativo, di cui è non solo l’effetto, ma anche la causa, l’artefice. Non è pertanto da escludere che, vista la rapidità con cui le
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tecnologie progrediscono, questo fenomeno possa subire un’accelerazione ancora più consistente rispetto a quella attuale e possa produrre le trasformazioni preannunciate15. Naturalmente, la prospettiva richiamata coinvolge molti dei concetti che la tradizione ci ha tramandato. Così, sul piano teorico, possono sfumare alcune delle distinzioni che finora sembravano consolidate, come quella tra naturale e artificiale. In una certa misura, le interferenze tra loro, che già oggi sono molteplici, diventeranno così numerose che sarà impossibile separarli, tenerli distinti, e supporre che rispondano a principi diversi. La stessa sorte toccherà alla presunta sacralità della natura umana. L’uomo, potendo applicare a se stesso potenti tecnologie, cesserà di riprodursi secondo i meccanismi della lotteria cromosomica e cercherà di farlo in base a precise specifiche progettuali. In qualche modo cioè, egli sarà posto nelle condizioni di poter decidere non solo come vorrà vivere, ma anche per quanto tempo, insieme con quali persone, e con quale aspetto. Con il progredire della «condizione postumana» è facile presumere che la nozione stessa di soggetto pensante diventerà obsoleta. Di certo, le pratiche genomiche, robotiche, informatiche e nanotecniche incidono sul corpo, il quale pertanto subirà profonde trasformazioni: in una certa misura si cercherà di fare a meno della sua presenza, di ridurne l’incidenza sulle scelte e sui comportamenti umani. Ma tali pratiche hanno ricadute ancora più sensibili sui processi mentali. Per quanto l’uomo possa mantenere una sua autonomia decisionale, tuttavia ne risentirà profondamente nel suo modo di ragionare, di esprimersi. Diventerà allora problematico parlare di un’identità personale, riconducibile a un’unità psicofisica in evoluzione ma stabile nella sua essenza, e a un’indipendenza di giudizio, nonostante i condizionamenti esteriori. Si aprirà inoltre la questione se in lui esista un tratto caratterizzante, indisponibile alla manipolazione tecnologica, che autorizzi ancora a distinguerlo per la sua unicità e irripetibilità, per la sua identità di soggetto.
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Cfr. G.O. Longo, Il nuovo golem, Laterza, Bari 20034.
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III. Ma proprio mentre da più parti questo processo viene presentato come irreversibile e pertanto si preannuncia come imminente la «fine del soggetto umano», contemporaneamente si fa strada, soprattutto in ambito filosofico, un modo di pensare che procede nella direzione opposta. Un preciso segnale, per quanto ancora non molto significativo, si può individuare nella posizione assunta da Foucault negli scritti più recenti. Il soggetto, per quanto mobile e in continuo divenire, non gli appare più un fenomeno transitorio, destinato a scomparire, come aveva sostenuto in precedenza. Riguardandolo sotto l’ottica di particolari patologie psichiche, Foucault non lo considera più come «effetto di particolare disposizione del sapere», ma luogo di «inquietudini» per cui è al tempo stesso un dato di osservazione e un’esperienza fungente. Il soggetto così non è reintegrato nella posizione centrale che gli ha attribuito il pensiero moderno, tuttavia non è neppure cancellato o relegato nel silenzio; a causa della sua costitutiva fragilità, è esposto all’inquietudine, della quale però fa motivo di meditazione, perché è disposto ad assumersi il rischio della propria identità. Attraverso questo sforzo, egli non perviene all’autocoscienza, tuttavia rivendica la propria presenza di fronte agli altri. «Nella meditazione, scrive infatti Foucault, il soggetto è senza posa attivato dal proprio movimento; il suo discorso suscita effetti al cui interno è preso; lo espone al rischio, lo fa passare attraverso prove e tentazioni; produce in lui stati d’animo e gli conferisce uno statuto o una giustificazione di cui non era affatto al momento iniziale detentore. In breve la meditazione implica un soggetto mobile e modificabile dall’effetto stesso degli avvenimenti discorsivi che si producono»16. Per quanto si faccia interprete di un’istanza che sembra rivalutare il soggetto, di certo non si può dire che Foucault vi riesca completamente. In qualche modo, cioè, il suo tentativo fallisce perché non riesce a liberarsi del pregiudizio gnoseologistico che, paradossalmente, accomuna il pensiero postmoderno e postumano al pensiero moderno. E appunto, il proposito di restituirgli un’identità, passa attraverso la meditazione conM. Foucault, Storia della follia nell’età classica, tr. it. di F. Ferrucci, R. Renzi e V. Vezzoli, Rizzoli, Milano 1976, pp. 652-653. 16
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cepita come attività essenzialmente riflessiva. L’essenza dell’io così, oltre che instabile, è sempre da ricostruire e, nel caso in cui questo avvenga, è ottenuta attraverso l’astratta rappresentazione di sé da parte di sé. È con Levinas che viene alla luce l’effetto spersonalizzante che è implicito nel modo di guardare il soggetto dal punto di vista che ha contraddistinto il pensiero occidentale, sia moderno che contemporaneo. Egli osserva infatti che, se si opera «un’inversione dell’appercezione trascendentale», come suggerito dal pensiero postmoderno, il soggetto è grammaticalmente coniugato all’accusativo; pertanto è privato di qualsiasi identità personale. Ma poiché ritiene questo esito non sia per nulla confacente al suo statuto, Levinas individua la possibilità di una sua riabilitazione nell’esperienza etica. E appunto Totalità e infinito è presentata come una «difesa della soggettività»17. La relazione etica, su cui verte l’opera, non si riduce a una pura epifania dell’Altro di fronte a un Io annichilito dalla sua maestà, ma richiede necessariamente un termine che costituisca un punto di partenza, che serva da ingresso alla relazione non relativamente, ma assolutamente: tale termine può essere solo l’io. Inoltre, la relazione etica, nella quale questo si svela come il medesimo per eccellenza, «si produce come soggiorno nel mondo»18. Il mondo, a sua volta, non è un semplice contenitore dell’esistenza né qualcosa che la mia conoscenza possa produrre, ma «la terra che mi sostiene […] senza che io mi preoccupi di sapere cosa sostiene la terra»19, cioè dimora che mi ospita e mi protegge prima ancora che si dispieghi davanti a me come mondo oggettivo. Perciò l’appello-ingiunzione d’altri, anziché annullare il soggetto, ne riabilita la significazione: «Il volto che accolgo, scrive infatti Levinas, mi fa passare dal fenomeno all’essere […] mi genera alla mia responsabilità; in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima»20. E. Levinas, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 24. 18 Ivi, p. 35. 19 Ivi, p. 138. 20 Ivi, pp. 182-183. 17
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IV. È presumibile dunque che, negli anni a venire, saranno le tecnologie a dominare il mondo. Come pure è facile prevedere che, data la ricaduta economica che potranno assicurare a chi vi investe le risorse finanziarie, esse orienteranno le scelte politiche di gran parte dei paesi del mondo. Si imporrà allora una conoscenza globale, sempre meno legata alle specializzazioni che ancora oggi sono prevalenti. E poiché richiederà un approccio olistico, tale conoscenza si gioverà anche del contributo delle discipline umanistiche, oltre che di quelle scientifiche, secondo un’impostazione interdisciplinare, che valorizza la collaborazione, il confronto delle opinioni, la disponibilità a mettersi in discussione, ad ascoltare gli altri, con mente aperta e libera da preconcetti. Non per questo però l’uomo potrà ritenersi a riparo da qualsiasi rischio; anzi, in qualche modo, si esporrà alla possibilità di essere sopraffatto dai suoi stessi prodotti. Ebbene, di fronte a questo scenario, l’uomo non può limitarsi a guardare, quasi compiaciuto della prospettiva che si apre dinnanzi ai suoi occhi. Se infatti il prolungamento della durata della vita è un bene, tuttavia non è tale in assoluto: di gran lunga più importante è il modo in cui il desiderio di longevità è soddisfatto. Se comporta sacrifici e sofferenze indicibili, come quelle rappresentate dall’immobilità totale o dalla dipendenza da una macchina, è difficile sostenere che tale possibilità meriti l’interesse che, in generale, vi si ripone. Una considerazione analoga vale a proposito di una vita interamente dominata dalla virtualità. Come è noto la scienza informatica si ripromette di ridurre gli effetti del tempo e di offrire all’uomo un’altra possibilità, oltre a quella rappresentata dalla realtà. Persegue questo obiettivo aumentando le risorse dell’intelligenza umana, svincolandola dal suo rapporto con il corpo. Ma credere di poter fare a meno del corpo, oltre che pregiudizievole per la qualità stessa della vita, è anche illusorio. Il corpo infatti garantisce non solo le reazioni immediate e istintive, indispensabili per la sopravvivenza, ma anche l’acquisizione, la conoscenza e la rielaborazione dei significati che diamo agli enti, alle situazioni e allo scorrere del tempo. Anche la dimensione planetaria della rete, che pure consente rapporti e legami insospettati, di fatto produce soltanto
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un effetto di rumore perché offre una massa indistinta di messaggi a scapito di contenuti significativi e potenzialmente liberatori. Da quanto detto emerge che la vastità e la profondità delle implicazioni connesse alla condizione postumana sono tali da influire sul futuro prossimo e lontano dell’umanità. Pertanto, se non intendiamo divenirne schiavi, è opportuno, da parte nostra, che adottiamo nei loro confronti una disposizione diversa da quella con cui abitualmente le consideriamo, sottoponendole a continue e sistematiche riflessioni. Non va inoltre dimenticato che, siccome è impossibile prevedere quali esiti a lunga scadenza comporteranno le innovazioni, occorre prendere decisioni consapevoli e responsabili circa la direzione che esse devono assumere. C’è ancora un’altra considerazione che si impone. È ormai opinione largamente diffusa che, da qui a pochi anni, non saremo più solo prodotto dell’evoluzione, ma anche artefici di essa. Quindi, rientriamo a pieno titolo nella possibilità di intervenire sul suo sviluppo oltre che di conoscerla. Tuttavia, la possibilità di agire su noi stessi e sulla natura ci pone di fronte a imprevedibili rischi. Ci costringe pertanto a misurarci con la responsabilità. Non è dunque solo dal punto di vista conoscitivo che dobbiamo riguardare l’uomo e quindi considerarlo nella sua peculiarità di cogito, come presumono tanto il pensiero moderno, quanto quello postmoderno e quello postumano, ma anche dal punto di vista pratico. E la responsabilità appunto è il luogo in cui questa convergenza può attuarsi perché il piano della verità confluisce con quello dei valori che danno senso alla vita. Del resto, soltanto alla condizione di riguardarlo anche sotto il profilo etico, riusciamo a considerare l’uomo nell’interezza della sua condizione psicofisica. Ma, se la conoscenza, potenziata dalle tecnologie, ci porta a ritenere che il nostro orizzonte è illimitato, l’etica, legata alle nostre miserie, ci sollecita a ridimensionare le nostre aspettative. Del resto, in quanto siamo frutti dell’evoluzione, apparteniamo al tempo e quindi non possiamo ritenerci esenti da limiti, ma piuttosto dobbiamo esserne consapevoli e accettarli come tali. Presumere di poterli trascendere e di im-
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padronirci di ogni verità possibile su noi stessi e sull’universo, equivale a contraddire la nostra realtà umana. L’uomo dunque potrà realizzare la convergenza tra l’aspetto cognitivo e quello etico solo a condizione che sia formato a considerare se stesso nella sua integralità. Assumendo questa disposizione, egli scoprirà che la sua identità non passa attraverso la narcisistica rappresentazione di sé a se stesso o la velleitaria espansione illimitata del proprio sapere, ma attraverso il rapporto di sé con l’altro, la responsabilità del proprio destino e di quanti condividono con lui l’avventura umana. Come la storia ormai insegna, l’altro può rappresentare per ciascuno o il pericolo da esorcizzare oppure la sfida da accettare. La prima ipotesi si dà ogni volta che, come nella condizione postmoderna e postumana, il problema dell’altro è riguardato nella logica del disincanto del mondo e quindi della negazione dell’io; la seconda ipotesi invece si dà quando l’uomo sente il richiamo della propria interiorità ed è disposto ad ascoltarlo. In questo caso infatti egli si coglie come soggetto, vale a dire come diverso dall’altro ma, nello stesso tempo, percepisce quest’ultimo nella sua identità di altro da sé. Sotto questo profilo, l’interiorità si rivela come lo spazio dove si articola l’intimo intreccio che sussiste nell’essenza dell’uomo, perché più acuta è la coscienza della finitezza e più forte l’esigenza del trascendimento. È su di essa pertanto che si fonda la relazione imperniata sulla dialettica tra identità e differenza, che unisce l’uomo e l’altro uomo. E poiché non è il riflesso di un atto di buona volontà o di una semplice disposizione psicologica, tale relazione rivela che l’io è costitutivo per l’altro, così come l’altro è costitutivo per l’io. E su tale reciprocità si impernia l’identità dell’uomo restituito alla sua originaria unità psicofisica.
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Walter Lorenz*1 Der Bildungsauftrag der Universität in Krisenzeiten The educational policy of Universities in times of Crisis. The history of the university is characterised by a creative polarity between a position of detachment from ‘the concerns of the world’, permitting a dedication to the pursuit of its own study and research priorities, and the instrumental use of the university by institutions of power to further their social and political objectives. Humboldt’s ideal of academic liberty furthered institutions in which knowledge acquisition combined with the formation of personalities capable and willing to take responsibility in society and this synthesis is required today more than ever in view of the new tendencies to commit universities to knowledge production to pre-determined objectives. The major crises of today require interdisciplinary and lateral approaches in view of their global complexity. Die Diskussion um das Wesen der Universität und die zentralen Aspekte ihrer gesellschaftlichen Rolle bewegt sich grundsätzlich zwischen zwei Polen: Zum einen betont sie die beachtliche Kontinuität der „Projekts Universität“; seit ihren Ursprüngen vor fast 1000 Jahren ist die moderne Akademie gekennzeichnet durch eine gewisse Autarkie in der Gestaltung ihrer Methodik, ihrer Rolle und ihrer Struktur. Darauf gründet sich der Anspruch, der Gesellschaft durch eine besondere Art des Umgangs mit Wissen und seiner Erschließung zu dienen, die auf Distanz von deren unmittelbaren Belangen setzt. Die Universität sollte gewissermaßen eine Welt bilden, in der Wissen nach seinen inhärenten Regeln erzeugt und tradiert wird. Man orientiert sich an dem, was von angesehenen Autoritäten geschrieben wurde, bildet Schulen, innerhalb derer eine bestimmte Wissenstradition gepflegt wird, und beliefert die Ord. Prof. für Angewandte Sozialwissenschaften und Rektor der Freien Universität Bozen. ∗
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Welt und die Gesellschaft mit den Produktion dieser Methodik. Lehre besteht in dieser Tradition aus dem Kommentieren anerkannter klassischer Lehrbücher. Noch zu Beginn der Renaissance, im intellektuellen Klima der Scholastik zu Beginn des 12. Jahrhunderts, sah man sich dieser Methodik verpflichtet, wovon der berühmte Ausspruch Bernhards von Chartres zeugt, „wir sind Zwerge, die auf den Schultern von Riesen sitzen. Wir können mehr und weiter sehen als diese, nicht, weil wir einen schärferen Blick oder eine stattlichere Gestalt besitzen, sondern weil deren Größe bewirkt, dass wir gehoben und getragen werden“1. Für die Autoritäten der Umwelt hatte diese Autarkie der Wissensproduktion durchaus eine beunruhigende, wenn nicht gar bedrohliche Seite. So entwickelte sich etwa das Wissenschaftsverständnis der Scholastik aus einer Aufwertung der Philosophie gegenüber der Theologie heraus und aus der Ausdifferenzierung neuer Disziplinen und folglich aus dem Austausch zwischen diesen verschiedenen Wissensbereichen, die eben nicht gesellschaftlich vermittelt und organisiert wurden, etwa nach Kriterien ihrer Nützlichkeit, sondern die ihre Verschiedenheit eigengesetzlich definierten. Die klassischen septem artes liberales2, das Trivium von Grammatik (lateinische Sprachlehre), Rhetorik (Stillehre) und Dialektik bzw. Logik und das Quadrivium von Arithmetik, Geometrie, Musik und Astronomie, bildeten daher den Grundstock der propädeutischen Fächer, der als Studium Generale auf das Studium der eigentlichen Fächer von Theologie, Recht und Medizin vorbereitete3. Hiermit wurde ein bis auf Seneca zurückgehender akademischer Freiheitsgedanke aufgegriffen, der Wissenschaftlichkeit mit Freiheit verbindet, im Gegensatz zu der handwerklichen Tätigkeit (Quare liberalia studia dicta sunt vides: quia homine libero digna sunt („Du siehst, warum die freien Künste so genannt werden: weil sie eines freien Mannes würdig J. von Salisbury, Metalogicon 3,4,46-50, hrsg. John B. Hall (1991), Ioannis Saresberiensis metalogicon, Turnhout: Brepols, S. 116. 2 R. F. Glei, (Hrsg.) , Die Sieben Freien Künste in Antike und Gegenwart, Bochumer Alterumswissenschaftliches Colloquium, Trier 2006, p. 72, . 3 P. Classen, Studium und Gesellschaft im Mittelalter; Hrsg. J. Fried, Stuttgart: Hiersemann, 1983. 1
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sind“, Seneca 88. Brief), ein Gedanke, der Jahrhunderte später wieder auf Anregung Wilhelm von Humboldts die Ausrichtung der modernen Universitäten bestimmte. Nach diesem Prinzip blieben naturwissenschaftliche Betrachtungsweisen und deren Objekte für lange Zeit noch konsequent der Philosophie unterstellt, also der reinen Betrachtung und nicht dem Experimentieren. Autonomie im Sinne der Verpflichtung auf Wissenstraditionen ging einher mit einer entsprechenden organisatorischen Autonomie: als „universitas magistrorum et scholarium“ machte das Bologneser Modell der Universität Schule und brachte die folgenden Grundprinzipien zum Ausdruck: •
• • •
die Selbstverwaltung nach grundsätzlichen Prinzipien der Demokratie, sowohl was die Anstellung von Dozenten, als auch was die Verleihung von Studientiteln betraf. Einige universitäre Einrichtungen wie der akademische Senat hielten sich durch die ganze Geschichte der Universität hindurch; die Selbstverantwortung für die Legitimität, Qualität und Relevanz des Wissens; die auf einander bezogene Vielfalt der Disziplinen (die zweite Seite der universitas); die Mobilität der Lehrenden und der Studierenden, deren Tätigkeiten an den rasch sich vermehrenden Universitätsorten nicht von territorialen oder politischen Kriterien bestimmt waren, sondern die nach dem Prinzip bestimmter fachbezogener Lehrtraditionen ihre Standorte wechselten. Die licentia docendi war mit dem Recht verbunden, an jeder anderen Universität zu lehren, wie es in der päpstlichen Bulle Parens scientiarum für Paris 1231 und in der Gründungsurkunde Friedrichs II für Neapel 1224 zum Ausdruck kommt. 4
Die mit diesen Freiheiten verbundenen Privilegien stammten also bezeichnender Weise sowohl von den Päpsten, zumindest bis zum Ende 4
R.A. Müller, Geschichte der Universität, Callwey, München 1996.
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des Mittelalters, da die Kurie zunächst etwa Paris und Bologna als Musteranstalten akzeptierte und das Papsttum sich von diesen Wissenszentren eine gleichsam unabhängige Bestätigung der Autorität seiner Lehre erwartete, als auch von den Monarchen in Spanien, England und Frankreich, wobei im deutschen Kaiserreich diese Privilegien mit denen des Papstes für die unter kaiserlichem Schutz stehenden Universitäten konkurrierten. Universitäten sollten also gewissermaßen nicht nur den Goldstandard für den internationalen Austausch an Wissen darstellen, sondern gleichzeitig auch das Depot an gültigen Werten, auf das man in Zeiten politischer und sozialer Ungewissheit zurückgreifen und das immer wieder als überparteiliche Legitimationsquelle der Macht fungieren konnte. Andererseits kann man aber auch die Geschichte der Universität als Geschichte der Abhängigkeit von politischen und kirchlichen Interessen lesen, was Anlass zu einer erheblichen Diskontinuität dieser Geschichte gab und eine entsprechende Krisenanfälligkeit im jeweiligen zeitgenössischen Kontext. Im Zuge der Ausdifferenzierung der Machtbereiche von Kirche und Staat und der einzelnen europäischen Staaten von einander wurde die Universitätsgründung selbst zu einem Statussymbol der jeweiligen Herrscher, mit dem sich aber bestimmte Gegenleistungen verbanden gegenüber dem betreffenden Stifter und seinen territorialen Interessen, auch wenn der internationale Charakter des Studentenkörpers, der sich gerade aus den unterschiedlichen „nationes“ zusammensetzte, größtenteils erhalten blieb. Die sogenannte 2. Gründungswelle europäischer Universitäten zwischen 1450 und 1550 steht im Zeichen der Territorialisierung und der Disziplinierung und Einvernahme der Hochschule in den frühmodernen Verwaltungsstaat. „Als mit neuen Zielvorstellungen und Zweckbestimmungen versehene Ausbildungsstätten für ‚Staats- und Kirchenbeamten’ hatten sie Loyalität gegenüber ihrem Patron zu wahren“ (Müller, p.45). Dieses landesherrliche Kalkül bewirkte insgesamt eine Stagnation besonders an den deutschen Universitäten. Diese Tendenz wurde noch durch die Auswirkungen der Reformation bestärkt, indem die jeweiligen Landesfürsten ihren Universitäten auch die konfessionelle Ausrichtung aufdrückten, so dass viele Universitäten
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zu „Provinzhochschulen“ degenerierten. Aber trotz der anfänglichen Abneigung des Protestantismus gegenüber den Universitäten erholte sich das Universitätswesen in reformierten Ländern langsam wieder durch die Anlehnung an den Humanismus und dies führte auch zu zahlreichen Neugründungen von Universitäten, allen Voran Marburg, Königsberg, Jena, Gießen und Straßburg. Gleichzeitig nahm sich die Gegenreformation hauptsächlich unter der Regie des Jesuitenordens des Universitäts- und Bildungswesens an und bestimmte dieses entscheidend im gesamten katholischen Einflussbereich, entweder durch die Besetzung führender Professuren durch Jesuiten oder durch völlige Neugründungen, wie etwa in Paderborn, Bamberg, Innsbruck und Breslau5. Die staatliche Überprüfung der Universitäten lief darauf hinaus, einheitliche Standards für die Prüfungen einzufordern, was vor allem angesichts der wachsenden Bedeutung des Beamtenwesens angemessen schien, wodurch auch eine vermehrte Präferenz für das Studium der Rechtswissenschaften und der Theologie entstand, Fächer, die die aussichtsreichsten Karrierechancen versprachen. Universitäten nahmen somit stärker an gesellschaftlichen Transformationsprozessen teil bzw. verstärkten diese sogar noch, indem sie dem aufstrebenden Bürgertum die Chance boten, sich in Konkurrenz mit dem Adel für entsprechende Professionen auszubilden, um dabei auch gleichzeitig im Studium Gewohnheiten der gehobenen Adligen zu übernehmen, wie etwa Fechten und Tanzen. Erst durch diese Einflüsse wurden die Universitäten Träger des Gedankenguts der Aufklärung, indem sie allmählich das Gehabe einer mönchischen Weltabgeschiedenheit ablegten und sich stattdessen bewusst „der Welt“ zuwandten, sowohl in ihren Gehaben als auch in ihren Studienobjekten, die sie zunehmend durch Experimente und Forschung im modernen Sinne bestimmten und aufarbeiteten. Diese historischen Details weisen auf ein grundlegendes dialektisches Grundmuster der Entwicklung des Universitätswesens und seiner Beziehung zu zeitgenössischen Ereignissen hin: Wenn immer die E. Meuthen, Die alte Universität, Kölner Universitätsgeschichte, Bd. 1, Böhlau, Köln 1988. 5
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Universität sich zu sehr aus der Welt in eine „außerweltliche“ Selbstgenügsamkeit zurückzog, erfüllte sie einerseits einen gesellschaftlichen Auftrag, nämlich diesen Raum als Freiraum des Denkens und somit als Stätte der gesellschaftlichen Erneuerung zu gestalten, andererseits entzog sie sich damit die Möglichkeiten, auf das politische Geschehen direkten Einfluss zu nehmen. Der wissenschaftliche Habitus der Askese war nie stark genug, dieses Element der Verantwortung für die eigenen Geschäfte und gleichzeitig für das gesellschaftliche Umfeld zur Wirkung zu bringen, und so machten sich die Universitäten anfällig für obrigkeitliche Bevormundung oder für Gefälligkeit ihren Stiftern gegenüber. Die angestrebte Zweckorientierung der universitären Bildung erweckte immer wieder Widerstände gegen Außensteuerungsversuche und entfesselte stattdessen neue Bemühungen um die Selbständigkeit des Denkens und letztlich der Forschung. So wurden Universitäten gegen den Willen ihrer Schirmherren – und unter Mitwirkung des bildungsinteressierten Adels – zumindest im deutschsprachigen europäischen Raum, auf den nun Bezug genommen wird, - in der 2. Hälfte des 18. und im 19. Jahrhundert zu Motoren der sozialen Reformen und erlaubten es dem bildungsbeflissenen aufstrebenden Bürgertum, sich Wissen und Legitimierung für anstehende Innovationen und soziale Transformationen anzueignen6. Gerade wenn der Autonomie der Universitäten durch Leistungskriterien und Prüfungsregelungen Grenzen gesetzt wurden, führte dies nun dazu, dass durch die Objektivierung von Leistungskriterien soziale Umschichtungen in der Zusammensetzung der Studentenschaft eingeleitet wurden, die entsprechende Transformationen in der Gesellschaft vorantrieben, denn somit erwiesene Leistung korrelierte nicht mit sozialer Herkunft. In diesem Umfeld entwickelte sich zu jener Zeit auch die säkulare Bedeutung des Begriffs „Beruf“ als einer sinnerfüllenden, bildungsbasierten Tätigkeit, die dem Träger Ansehen aufgrund seiner Leistungen und nicht aufgrund seiner Abstammung verleiht. N. Hammerstein, Zur Geschichte der deutschen Universitäten im Zeitalter der Aufklärung. in H. Rössler, G. Franz (Hrsg.), Universität und Gelehrtenstand 1400-1800. C. A. Starke, Limburg 1970. 6
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Das studentische Zusammenleben entwickelt ebenfalls zu dieser Zeit eine gewisse Eigendynamik, die nicht mehr von Herkunftsmerkmalen wie eben der Nation oder der Landsmannschaft geprägt ist, sondern von intellektuellen Ideen und Neigungen, so dass die Studentenschaft Trägerin neuer kultureller oder auch politischer Ideen wird, die wiederum den die Universitäten sponsorisierenden Obrigkeiten als äußerst gefährlich und nicht wünschenswert vorkommen. Vor allem nach der Französischen Revolution zeichnet sich ein Prozess ab, in dem die Studentengruppen aufgrund ihrer politischen Tätigkeiten als Promotoren des Zerfalls der Moral und der Stabilität der Gesellschaft portraitiert werden, woraus sich an den Universitäten entsprechende stärkere Kontrollmaßnahmen durch die Obrigkeit legitimieren. Aber indem sich das Universitätsstudium durch den diversifizierten Zugang mehr auf „Charakterbildung“ ausrichtet, stärkt es genau diese Fähigkeiten der kritischen Stellungnahme zu aktuellen politischen Ereignissen. Die Universität bietet, trotz aller Restriktionen, die Möglichkeit für die Studenten, sich ihrer persönlichen und gesellschaftlich-kulturellen Bedürfnisse stärker bewusst zu werden und entsprechende Forderungen nach gesellschaftlicher Veränderung zu artikulieren. So wurden die Universitäten in der Zeit nach der Französischen Revolution und der Napoleonischen Wirren zu Motoren der nachhaltigen bürgerlichen Transformation, nicht aufgrund ihrer institutionellen Festigung – nach einer Phase der Proliferation von Provinzuniversitäten konnte in dieser Periode eher ein „Massensterben“ von Universitäten festgestellt werden – noch auf der Basis der entsprechenden kritischen Lehrinhalte oder Forschungsprogramme, sondern durch eine erste moderne Studentenbewegung, die gesellschaftliche und politische Veränderungen nicht nur forderte, sondern in ihrem Zusammenleben auch gewissermaßen antizipierte. Das Bild der Universität wurde in diesem Zusammenhang mit dem Anspruch auf „Fortschritt“ und Zukunftshoffnung identifiziert7.
Ch. Mc Clelland, State, Society and University in Germany, 1700-1914. Cambridge University Press, Cambridge 1980. 7
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Diese positive Anerkennung des Beitrags der Universität zur Lösung der tiefen gesellschaftlichen und politischen Krise der Zeit ging von den institutionellen Reformen in Preußen aus, die mit dem Namen Wilhelm von Humboldt verbunden sind. Sein Konzept prägte den Charakter der modernen Universität: Universitäten sollten der Wissenschaft verpflichtet sein, die sie in Freiheit und (wie Humboldt es ausdrückt) „Einsamkeit“ betreiben und diese Wissenschaftlichkeit erweist sich vor allem in der engen Verbindung zwischen Forschung und Lehre. „Ihr Wesen (das der Universität) besteht daher darin, innerlich die objektive Wissenschaft mit der subjektiven Bildung, äußerlich den vollendeten Schulunterricht mit dem beginnenden Studium unter eigener Leitung zu verknüpfen, oder vielmehr den Übergang von dem einen zum anderen zu bewirken… Da diese (universitären) Anstalten ihren Zweck indes nur erreichen können, wenn jede, soviel als immer möglich, der reinen Idee der Wissenschaft gegenübersteht, so sind Einsamkeit und Freiheit die in ihrem Kreise vorwaltenden Prinzipien“ (Humboldt, zitiert in Müller8, S. 70). Und er fährt fort: „Der Staat muss seine Universitäten weder als Gymnasien noch als Spezialschulen behandeln… und von ihnen nichts fordern, was sich unmittelbar und geradezu auf ihn bezieht, sondern die innere Überzeugung hegen, dass, wenn sie ihren Endzweck erreichen, sie auch seine Zwecke und zwar von einem viel höheren Gesichtspunkt aus erfüllen“ (ebd.). Diese Humboldtsche Grundeinstellung zur Universität kann noch immer als Formel dienen, mit der die im Titel dieses Beitrags gestellte Frage zu beantworten ist: Die Rolle der Universität in Zeiten gesellschaftlicher Krisen besteht darin, sich immer neu auf das Wesen der Wissenschaftlichkeit zu besinnen und ihr zu dienen. Dies erfordert aber unmittelbar eine Problematisierung des Begriffs der Wissenschaftlichkeit auf dem Hintergrund einiger Indikatoren für die gegenwärtige Krise. Das Bewusstsein einer tiefgreifenden Krise ist gegenwärtig vorwiegend geprägt von der weltweiten Finanzkrise, die erhebliche Auswirkungen auf alle Bereiche des Lebens hat, nicht zuletzt durch die Lösun8
R.A. Müller, Geschichte der Universität, Callwey, München 1996.
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gen, die auf politischer Ebene zu ihrer Überwindung versucht werden und die auf teilweise drastische Einsparungen in öffentlichen Dienstleistungen hinauslaufen, häufig auch in der Finanzierung der Universitäten. Damit wird eine sich seit Jahrzehnten andeutende Spaltung in der Gesellschaft weiter vertieft, nämlich die Spaltung zwischen den Teilen der Bevölkerung, die sich Dienste privat erkaufen können und sich dadurch bessere Lebenschancen und immer größeren Reichtum aneignen können, und denen, die keinen Zugang zu einer genügenden Absicherung ihrer Bedürfnisse mehr haben und damit auch das Recht auf eine ihren Fähigkeiten angemessenen Bildung abgesprochen bekommen9. Eine der Ursachen für die Finanzkrise war die gesteigerte Geschwindigkeit, mit der Entscheidungen im Finanzbereich getroffen werden, verbunden mit einer Abhängigkeit von Experten und Expertensystemen, deren Verlässlichkeit aufgrund der wachsenden Komplexität von Entscheidungsfaktoren nicht mehr nachvollziehbar ist, und dies weder für die Konsumenten noch für die Politik. Seitdem Geld selbst zu einer Handelsware geworden ist und der Handel in virtuellen Objekten wie „Risiken“ ein unermessliches Volumen angenommen hat, das nicht mehr mit realen Werten und Produkten eingelöst werden kann, dominieren „Modelle“ das wirtschaftliche Geschehen und Verhalten, die eine wissenschaftliche Basis zu haben den Anspruch erheben, die aber als Modelle ständig aufs Neue auf ihren Bezug zu einer Wirklichkeit hin überprüft werden müssten10. Gleichzeitig müsste aber bei der Bestimmung der Kriterien, nach denen die Wirksamkeit eines Modells bewertet wird („what works“), diskutiert werden, unter welchen Prämissen diese Kriterien ausgewählt und priorisiert wurden, ein Prozess, der möglicherweise die Grenzen einer einzigen Disziplin übersteigt und in den Bereich der Politik hineinspielt. Hat also die Wissenschaft der Ökonomie den Experten der Wirtschaft die falschen Modelle geliefert oder ist der Bezug von Wissenschaft zum Praxisumfeld probleC. Butterwegge, Krise und Zukunft des Sozialstaates, VS, Wiesbaden 2006. 10 A. Pfingsten, (Hrsg.), Ursachen und Konsequenzen der Finanzkrise, Gabler, Wiesbaden 2011. 9
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matisch geworden? Es geht hier nicht um eine Kritik bestimmter in der Wirtschaftswissenschaft vorherrschenden wissenschaftlichen Modelle oder gar deren Exponenten, sondern paradigmatisch um das Aufzeigen der Grenzen eines Verständnisses von Wissenschaftlichkeit, das einerseits das Erbe des Humboldtschen Freiheitsideals ist, andererseits aber gerade deshalb anfällig geworden ist für Fehlentwicklungen und zudem für die ideologisierte Anwendung daraus resultierender Ergebnisse und Modelle. Wissenschaftlichkeit kann sich leicht darin erschöpfen, einen Spezialbereich der entsprechenden Disziplin in immer abstraktere Details zurückzuverfolgen, in deren kritische Diskussion nur noch ein enger Kreis von Experten einbezogen werden kann. Probleme und Fehlentwicklungen werden aber an den Schnittstellen mit anderen Disziplinen und mit breiteren Interessen außerhalb dieses Horizonts sichtbar, und sie entwickeln sich durch die Vermeidung einer Thematisierung und Problematisierung durch andere Betrachtungsweisen, die als Einfallstore für wissenschaftsfremde Interessen abgewertet werden können. Denn Wissenschaft, und gerade die positivistische Wissenschaft der Moderne, die als die Grundlage der modernen technischen und auch medizinischen Errungenschaften zu gelten hat, kann eben ihrem Kernanspruch der Interessenslosigkeit nie entsprechen und war immer gerade dann anfällig für die Ausbeutung ihrer Resultate für Machtinteressen, wenn sie sich auf die Position der Neutralität zurückzog11. Die Fehlentwicklungen in wirtschaftlichen Expertensystemen kann man auch in anderen Systemen beobachten, etwa der Gentechnik, der Embryonalforschung oder der Geologie– überall besteht die Gefahr, dass die Ergebnisse von Forschung auf diesen Gebieten nicht mehr von Menschen außerhalb eines begrenzten Zirkels von Experten nachvollzogen und kritisch diskutiert werden können, woraus sich dann möglicherweise irreversible negative Konsequenzen in der Anwendung ergeben können. Was sich an der globalen Finanzkrise verdeutlicht, spielt sich auf parallele Weise im Bereich der Ökologie ab: die Krise des globalen Klimas erfordert nicht so sehr immer noch spezialisiertere 11
J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt 1994.
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Forschungsbereiche, sondern eine interdisziplinäre Herangehensweise an die dringlichen Fragen. Wissenschaft kann sich angesichts dieser ungeheuer gesteigerten Komplexität und ihrer Verwicklung in gesellschaftliche und politische Prozesse nicht mehr auf eine Position der Neutralität und der Eigenverantwortung zurückziehen. Vielmehr ist die Frage der Steuerbarkeit von Prozessen bzw. der Verbindung von wissenschaftlicher mit gesellschaftlicher Verantwortung unvermeidbar geworden und erfordert eine Neubesinnung auf die Organisation dieser Verbindung zum Zwecke der verantwortungsvollen Steuerbarkeit von „knowledge transfer“. In dieser Hinsicht hat die Universität tatsächlich eine zentrale Rolle zu spielen, die allerdings nur unter bestimmten Bedingungen erfüllt werden kann. Und die gegenwärtigen Bedingungen des Universitätsbetriebs sind dafür ziemlich ungünstig. Unter die ungünstigen Rahmenbedingungen zählen die folgenden: •
•
Der Bologna Prozess hat die Entfaltung eines Studentenlebens während der Studienzeit deutlich erschwert. Gefordert werden ständige Prüfungen zur Erlangung der notwendigen Kreditpunktezahl möglichst innerhalb der Regelstudienzeit, was für Aspekte der Persönlichkeitsentwicklung sehr wenig Zeit übriglässt, und dies auf allen Ebenen des Studiums. Das bedeutet, dass auch die Reflexion auf die gesellschaftlichen Fragen, die das Studium kontextspezifisch gestalten könnten, nicht mehr ausgiebig stattfinden kann, was die Übertragung des Wissens auf das gesellschaftliche Umfeld erschwert. Damit verbunden ist eine größere Abschottung der Studiendisziplinen gegen einander. Die Studieninhalte sind vermehrt auf bestimmte Berufsfelder hin orientiert und erlauben es kaum mehr, Haupt- und Nebenfächer frei zu wählen und zu kombinieren. Das bedeutet aber, dass die Studierenden sich auf vorgegebene Berufsmuster vorbereiten, statt sich selbst neue Kombinationen verschiedener Wissens- und Kompetenzfelder auswählen und gestalten zu können.
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Akademische Leistungen werden nach vorgegebenen Kriterien gemessen und in ein lineares ranking umgesetzt. Für die Forschung bedeutet das oft, dass die zu erforschenden Themen zumindest als Horizont vorgegeben sind und die Erschließung neuer Bereiche weniger Beachtung und Finanzmittel findet. In den Publikationen setzt sich dieser Trend fort und führt dazu, dass erfolgversprechende Bereiche vermehrt erforscht werden, während marginale Themen weniger in Erscheinung treten.
Diesen Tendenzen zeigen, dass die Universität eher in die Zusammenhänge eingebunden ist, die die gegenwärtige Krise hervorgebracht haben, als dass sie diesen eigenständig gegenübertreten könnte. Für eine solche Auseinandersetzung wäre eine grundlegende Reflexion über die geschichtlichen Erfahrungen mit der Beziehung der Universitäten zu ihrem gesellschaftlichen und politischen Umfeld notwendig mit dem Ziel einer Überwindung der sich darin immer wieder abzeichnenden Polaritäten. Distanz zu den zeitgeschichtlichen Prozessen und Autonomie in der Gestaltung von Lehre und Forschung brauchen nicht zu bedeuten, dass man sich nicht mit diesen externen Prozessen auseinandersetzt. Die Universität müsste aber ihrerseits um ein besseres Verständnis ihrer eigentlichen Rolle in der Bevölkerung und unter den politischen Verantwortlichen werben, einer Rolle, die Wissenschaftlichkeit auf Zusammenhänge bezieht, Zusammenhänge zwischen Grundlagenforschung und Anwendung, zwischen Humanwissenschaften und naturwissenschaftlich-technischen Disziplinen, und vor allem zwischen wissenschaftlicher Neutralität und ethischer Verantwortung. Um dies zu erreichen, müsste viel mehr Raum geschaffen werden, damit diese Zusammenhänge während der Studienzeit und im Rahmen von Forschungsprojekten diskutiert und reflektiert werden können. Die Praxisorientierung, die heutzutage zurecht eingefordert wird, braucht nicht zu bedeuten, dass die Universität nur Spezialisten für die jeweiligen beruflichen Erfordernisse der Arbeitswelt ausbildet, sondern dass sie ihren Absolventinnen gleichzeitig Kompetenzen im Antizipieren von
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Entwicklungen und damit in der durchaus unternehmerisch zu nennenden Innovation mit auf den Weg gibt, und dies in allen Disziplinen. An diesen Prinzipien orientiert sich das Entwicklungsprogramm der Freien Universität Bozen. Es sieht vor, dass sich die Forschungsschwerpunkte zunehmend auf disziplinübergreifende Themen ausrichten, dass Studierende unterschiedlicher Fakultäten gemeinsam die Möglichkeit geboten bekommen, sich in interdisziplinären Arbeitsgruppen um die Erschließung innovativer Ideen zu bemühen, und dass Zusammenarbeit auf der Ebene postgradualer Studiengänge erwünscht ist. Innovation im Verständnis dieser Universität setzt grundsätzlich einen Bezug zu jeder der fünf Fakultäten voraus, denn es geht jeweils um die Untersuchung der informationstechnischen und konstruktionstechnischen Machbarkeit (Fakultäten für Informatik und für Ingenieurwesen), um die Entwicklung ästhetischer Dimensionen durch Kompetenzen des Design, um Fragen der umweltverträglichen und sozialen Nachhaltigkeit und der Wirtschaftlichkeit (Fakultäten für Naturwissenschaften, Wirtschaftswissenschaften, der Pädagogik und des Sozialen). Gleichzeitig wurde an dieser Universität ein „Studium Generale“ eingeführt, das Studierenden und Interessierten aus allen Kreisen der Bevölkerung die Gelegenheit gibt, die Grundlagen der universitären Wissenschaftlichkeit an auserwählten Themenbeispielen kennenzulernen. Dies eröffnet nicht nur „bildungsfernen“ Bürgerinnen und Bürgern die Möglichkeit, sich auch in späteren Lebensphasen weiterzubilden und Kreditpunkte zu erwerben, die sie möglicherweise bei einem Vollstudium anerkannt bekommen. Die Vorlesungen geben auch den Vollzeitstudierenden die Gelegenheit, sich mit den Verständnisfragen zu konfrontieren, die von Menschen gestellt werden, die in der Praxis verankert sind. Demnächst soll das Programm um Angebote erweitert werden, die sich speziell an Arbeitslose Jugendliche oder Akademiker und Akademikerinnen wenden. Mit dieser Initiative tritt die Universität nicht in Konkurrenz mit anderen Weiterbildungseinrichtungen, sondern sie muss sich bemühen, Verständnis für ihren spezifischen Umgang mit Wissen und Wissensvermittlung in einem Territorium zu schaffen, das bisher nicht unmittelbar mit einer Universität in Kontakt gekommen war.
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Wissenschaftlerinnen und Wissenschaftler sind nicht automatisch und stillschweigend der Wahrheit an sich verpflichtet, wie man so leicht formulieren kann, sondern sie müssen über diese Verpflichtung auch Rechenschaft abgeben können, d.h. in Dialog treten mit einer Vielzahl von Diskurspartnern, müssen Begegnungen über Grenzen hinweg schaffen, sich einmischen, sich kritisieren lassen nicht nur von Ihresgleichen, sondern von allen Teilen der Gesellschaft, die aber ihrerseits Mitverantwortung für eigenständig erworbenes und kritisch eingebrachtes Wissen tragen müssen. Universitäten in modernen Gesellschaften liefern einen entscheidenden Beitrag zur Gestaltung von informierter Öffentlichkeit, auch wenn sie teilweise privat finanziert sind. Die lineare Erwartung, dass sie das liefern, wofür sie beauftragt und bezahlt werden, führt allen Erfahrungen aus dieser langen Geschichte der Universitäten nach unweigerlich zu einer Fehlinvestition, wie umgekehrt der Rückzug auf eine vermeintlich unabhängige Wissenschaftlichkeit leicht zur gesellschaftlichen Verantwortungslosigkeit führt. In dieser Spannung und ihrer konstruktiven Bewältigung lässt sich eine zeitgemäße Rolle der Universität finden und gestalten, und dies besonders in Krisenzeiten wie den unseren.
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Francesco Coniglione*1 La società della conoscenza e il futuro dell’Europa1 Knowledge society in the new perspective. Knowledge society is the new perspective toward which seems to be addressed the economic and cultural development of our time. The knowledge-based society is constantly evoked as the new horizon of investments, commitments and research, and has been recently at the heart of European politics, which – though largely unsuccessful – has tried to this end to mobilise, starting from the Lisbon strategy, the resources of the member Nations. What do we exactly mean by that term, what are its dimensions, its origins and prospects? According to our opinion Europe can’t be only mean a wider market where knowledge and culture are only intended for economic development. So doing the EU is running the risk of conceiving culture on the basis only of economic productivity.
Prof. Ord. di Storia della filosofia all’Università di Catania. Questo articolo è basato in parte sui risultati conseguito dalla ricerca MIRRORS – Monitoring Ideas Regarding Research Organizations and Reasons in Science, finanziata dalla Commissione Europea e conclusa nel 2011, nonché sulla vasta messe di materiali e pubblicazioni da essa conseguite, come: Nello specchio della scienza. Ricerca scientifica e politiche nella societòà della conoscenza, a cura di F. Coniglione, Bruno Mondadori, Milano 2009; numero monografico della rivista Axiomathes, dal titolo Mirrors: Science and Knowledge Society (vol. 19, n. 4, December 2009 - Springer Publisher); F. Coniglione (ed.), Through The Mirrors of Science, New Challenges for Knowledge-based Societies, Ontos Verlag, Heusenstamm 2010; F. Coniglione & Mirrors Research Group, Scienza e società nell’Europa della conoscenza. Nuovi saperi, epistemologia e politica della scienza per il terzo millennio, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2010; E. Viola (ed.), Epistemologies and the Knowledge Society, Nemesis Publisher, Acireale-Roma 2012; S. Vasta (a cura di), Epistemologia e società della conoscenza, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2012. ∗ 1
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1. Dall’età dei “post” alla società della conoscenza A partire dalla fine degli anni ’60 le società dell’occidente civilizzato sembrano aver fatto ingresso in una nuova fase della loro storia, caratterizzata per un uso vario e assai diffuso del prefisso “post”. Per caratterizzare tale fase non basta parlare di “società industriale avanzata” o di meccanizzazione e automatizzazione del lavoro, così come faceva ancora Marcuse nel suo pur profetico libro One-Dimensional Man (cfr. Marcuse 1964); sembra piuttosto necessario evidenziare una vera e propria cesura col passato, uno spartiacque che indichi concretamente, e anche nell’immaginario, l’avvento di un nuovo modello di società, di una nuova era della storia umana in netta discontinuità con la precedente. Si ha così un proliferare di definizioni inizianti con “post” che investono fenomeni sociali, culturali e artistici: postindustriale, post-moderno, post-positivismo, post-strutturalismo, post-fordismo, post-marxismo, post- o transumanesimo e così via, per non parlare delle loro varianti linguistiche (“pre-post-modernismo”, “post-post-modernismo”, “post-scientific society”) o delle diverse denominazioni (“società o età dell’informazione”, “specializzazione flessibile”, “società liquida”, “modernità alternativa”, “ipermodernità”, “guerre postmoderne” ecc.) che in qualche misura modificano o sfumano i significati già consolidati per dare origine a nuove aggregazioni culturali, a classificazioni più rispondenti alla sensibilità o ai caratteri di una certa configurazione intellettuale o sociale. E non v’è dubbio che il sistema nervoso di tale nuova realtà risiede nella rivoluzione avvenuta nell’Information and Communication Technology (ICT), nella nascita del “global network” e della “network society” – la cui più lucida analisi è stata fornita da Manuel Castells (2000, 2000b, 2004) – ovvero di «una società la cui struttura sociale è fatta di networks alimentati dall’informazione basata sulla microelettronica e dalle tecnologie della comunicazione» (Castells 2004b, p. 3). Nel contesto di un così vasto processo di interconnessione globale – più avanzato nel dominio della cultura e dell’immaginario che in quello dell’economia e ancor più della politica (Nederveen Pieterse 2009) –, sembra proprio che, al di là delle varie denominazioni, il carattere mini-
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mo da tutti oggi riconosciuto alla nostra epoca sia appunto l’importanza dell’informazione, indipendentemente dal fatto di vedere in essa un carattere totalmente nuovo che plasma un tipo di società in rottura con il passato – come fa Toffler 1981 – o piuttosto una ulteriore modulazione di pratiche e forme organizzative di più lunga continuità (Roszak 1986). E il cuore pulsante di questa nuova “età dell’informazione” è unanimemente riconosciuto nelle nuove tecnologie legate all’informatica e nella diffusione su base mondiale di internet, con tutte le conseguenze ben note che una vasta letteratura ha ormai ampiamente illustrato e in tutti i modi esaltato (Masuda 1981) o demonizzato (Ellul 1990; Postman 1992). Da esse derivano tutta una serie di conseguenze che investono il campo economico (per cui si parla di “economia basata sull’informazione” – Machlup 1962, 1980, 1984; Porat 1977, 1977b), quello dell’occupazione, della qualità del lavoro e del capitale umano, perché il benessere economico ormai deriva non tanto dallo sforzo fisico degli operai tradizionali, bensì da «idee, conoscenza, abilità, talento e creatività» (Leadbeater 1999, p. 18). Conseguenze che investono anche le dimensioni spaziali all’interno delle quali la nuova società si organizza, non più legate alla distanza e alla localizzazione, ormai minimizzate dalle “autostrade elettroniche”. Conseguenze tutte che consentono, infine, la possibilità di disporre di informazioni e prodotti culturali in misura prima impensata, sicché si può ben dire che viviamo ormai in una “media-laden society”. Il primo ingresso nel dominio del “post” deve farsi risalire all’idea di società “post-industriale” proposto da Alain Touraine (1969) e ancor più da Daniel Bell (1973), i quali caratterizzano la società postindustriale appunto per l’essere caratterizzata dal pervasivo sviluppo di una tecnologia basata sull’informazione, sicché avviene la transizione da una economia basata sulla manifattura (che concerne la produzione di prodotti vendibili) a una economia basata sui servizi (che riguarda la produzione di beni concernenti trasporto, distribuzione, promozione, e vendita dei prodotti del settore manifatturiero) contraddistinta dalla diffusione del capitalismo su scala globale e da una conseguente privatizzazione di massa. Inoltre Bell sottolinea i cambiamenti dell’industria e dell’economia in termini di un sempre crescente ruolo della scienza
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intesa come merce di scambio e quindi, come un indicatore del benessere economico delle nazioni e delle aziende. A suo avviso sono due le dimensioni fondamentali che decidono o meno dell’ingresso di una società in tale fase: la centralità della conoscenza teorica e quindi l’importanza della scienza come strumento fondamentale di cambiamento economico (per cui egli usa anche la locuzione di “società della conoscenza”); l’espansione del settore “quinario”, formato dalle industrie del benessere e della salute, dell’educazione, della ricerca, della pubblica amministrazione e dell’intrattenimento. Sono gettate le basi affinché da un certo momento in poi gli studiosi hanno preferito parlare di “economia della conoscenza” (Mokyr 2002, pp. 28-9) e quindi, ancora più in generale, di “società della conoscenza”. Lo spostamento di attenzione sulla società della conoscenza non solo ha il vantaggio di fuoriuscire dall’utilizzo di concetti “per differenza”, che trovano la loro ragion d’essere nella negazione di qualcosa d’altro, ma evita anche di schiacciare la conoscenza sull’informazione, pericolo in cui incorrono tutti i teorici della “era dell’informazione” e del “nuovo paradigma dell’informazionalismo” (Castells 2004b), che così non mettono adeguatamente in luce l’aspetto più caratterizzante e specifico della società contemporanea, che la distingue in modo radicale da tutte quelle che l’hanno preceduta. Inoltre, tale indistinzione corre il rischio di sottovalutare i tradizionali centri di produzione della conoscenza come le università e gli ambienti accademici (Lyon 1988, pp. 107-108), che invece a nostro avviso continuano a rivestire una grande importanza, e a sminuire la rilevanza che la conoscenza di base (codificata e implicita) ha per una partecipazione democratica alle scelte scientifiche, altrimenti consegnate ad una ristretta élite tecnocratica. Nella sua odierna accezione, il termine “società della conoscenza” (knowledge society, knowledge-based society) è stato usato per la prima volta da Robert Lane (1966) (che parlava più esattamente di “knowledgeable society”) e quindi da Peter Drucker (1969), per esser poi ripreso, anche se subordinatamente al concetto di società post-industriale, da Bell (1973); ma a dargli dignità autonoma e la rilevanza che esso ha oggi assunto è stato Nico Stehr (1994). Secondo lui, «la società odierna può essere descritta come una società della conoscenza a causa della
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penetrazione in tutte le sue sfere della conoscenza tecnica e scientifica» e dichiara di preferire tale locuzione alle tante altre utilizzate per descrivere i caratteri della società contemporanea (come ad es. quelle di società post-industriale e società dell’informazione); e ciò perché la trasformazione delle strutture dell’economia moderna sulla base della conoscenza come forza produttiva costituisce la base “materiale” e la giustificazione per designare le società moderne come società della conoscenza. A caratterizzare la società della conoscenza è lo spostamento dall’importanza che gli input di carattere materiale hanno nei processi produttivi a quella assunta dagli input simbolici o fondati sulla conoscenza. E ciò in un duplice senso: (a) come economia che incorpora sempre più conoscenza nei prodotti che essa mette sul mercato, sicché può esser affermato che oggi noi compriamo “sapere congelato” (è stato calcolato che il contenuto di conoscenza scientifica e ingegneristica dei prodotti industriali era di circa il 5% nel 1945, del 16% nel 2004, per arrivare a circa il 20% nel 2020 – cfr. MHLG 2004, p. 13); oppure (b) come economia in cui la conoscenza diventa sempre più una merce, per cui l’attività economica è rappresentata sempre maggiormente dalla produzione e dal consumo di informazioni, ovvero da una produzione di informazione in forma di merce. La smaterializzazione dell’universo delle merci ha mutato profondamente il processo produttivo, facendo diminuire la necessità di impiegare lavoratori e materie prime: anche laddove persiste la produzione di beni materiali, essa impegna percentuali sempre più ridotte di popolazione umana (ad esempio in agricoltura) e cresce sempre più la tendenza a sostituire il lavoro umano con robot e computer: diventerà sempre più preponderante la componente di nuova conoscenza, che è potenzialmente illimitata, perché senza limiti è la nuova informazione che la mente umana può creare. Un’altra caratteristica tipica dell’economia della conoscenza consiste nell’accelerazione con la quale la conoscenza viene creata. Ciò è possibile grazie alla formazione di un nuovo tipo di organizzazione, ovvero di comunità basate sulla conoscenza costituite da network di individui che «si sforzano, innanzitutto e in primo luogo, a produrre e far circolare nuova conoscenza lavorando per organizzazioni differenti
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e spesso anche rivali» (OECD 2004, p. 14). Ciò fa sì che, accanto agli ambienti tradizionali di ricerca, sempre più vengono crescendo sistemi di produzione della conoscenza distribuiti attraverso un insieme di nuovi luoghi e attori: vi sono sempre più innovatori che emergono in settori inaspettati, come ad esempio gli utilizzatori e la gente normale, coinvolti nella produzione della conoscenza in settori come la salute o l’ambiente (cfr. OECD 2004, p. 24). La maggior parte delle comunità di conoscenza attraversano i confini delle organizzazioni convenzionali (centri di ricerca, di affari, agenzie pubbliche governative, ecc.) e i membri di quelle sono al tempo stesso impiegati di queste ultime. Così lo sviluppo dell’economia della conoscenza ha visto, inter alia, la infiltrazione nelle organizzazioni convenzionali di individui il cui persistente attaccamento a una comunità di conoscenza esterna li rende ancor più preziosi per le organizzazioni che li ospitano come impiegati regolari. (OECD 2004, p. 24). Per cui in sintesi possiamo affermare che a) La società della conoscenza è il tipo di società che scaturisce dalla progressiva incorporazione della scienza e della tecnologia non solo nel processo economico, ma anche in ogni altro aspetto della vita associata. Si è vista in essa la terza fase dello sviluppo umano: società agricola – società industriale – società della conoscenza. b) Si è così sempre più affermata l’idea che una società sviluppata abbia al proprio centro la produzione della conoscenza, in quanto è questa a farle occupare un posto di avanguardia nella produzione dei beni di consumo e nell’incremento del benessere collettivo. La novità della nostra era consiste appunto nel fatto che la produzione della conoscenza è diventato il fattore primario della crescita economica. c) Ne segue che nelle economie avanzate assumono crescente importanza le industrie knowledge-intensive rispetto a quelle labor-intensive o anche energy-intensive. I prodotti più richiesti dal mercato sono sempre meno caratterizzati da un’alta intensità di lavoro e sempre più da un’alta intensità di conoscenza. Per quanto riguarda luoghi e tempi d’origine dell’economia della conoscenza (anche se il processo della sua genesi è graduale e non segna grosse cesure) si riconosce comunemente che
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• il luogo debba essere individuato negli Stati Uniti; • il tempo varia tra la fine del primo conflitto mondiale (che ha visto per la prima volta il massiccio uso della tecnologia scientifica sui campi di battaglia) e l’immediato secondo dopoguerra, a seguito del profondo impatto della rivoluzione scientifica e tecnologica degli anni ’50. In ogni caso un decisivo impulso in tale direzione è dato dal grande sforzo effettuato dagli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale e durante la guerra fredda. È specialmente a seguito della prima guerra mondiale e della competizione tecnologica tra USA e Unione Sovietica durante la guerra fredda che i governi hanno compreso l’importanza di ricerca e sviluppo (R&S) per la sicurezza nazionale, o più esattamente per il primato economico e militare sulle altre nazioni. Il primato tecnologico è stato decisivo per porre fine alla seconda guerra mondiale e sono state le armi “fredde” impiegate apertamente da USA e Unione Sovietica, insieme alla diplomazia, a determinare la crescita del loro controllo e della loro influenza sulle altre nazioni. In questo contesto si inserisce l’azione di Vannevar Bush: il suo storico rapporto del 1945 Science The Endless Frontier – commissionatogli dal presidente Roosevelt– costituisce un’ampia ed attentamente ragionata giustificazione del ruolo chiave rivestito dalla scienza di base e quindi della ricerca effettuata in college, università ed istituti di ricerca, ritenuta fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e democratico del paese. Si annunciava una vera e propria “nuova frontiera” per il popolo americano, dopo quella del “West”. Il rapporto è importante soprattutto perché evidenzia i limiti del finanziamento privato alla ricerca e quindi sollecita un forte impegno federale, in quanto le agenzie operative – che ricercano solo le soluzioni applicative buone per l’immediato sfruttamento industriale – non sono idonee a finanziare la ricerca di base, l’unica che può dar luogo a quel progresso scientifico che poi ha ricadute positive anche sulla crescita economica. Infatti, la «costante pressione di dover produrre risultati tangibili» non pone le condizioni favorevoli per la ricerca di base, in quanto «La ricerca è l’esplorazione dell’ignoto ed è necessariamente. Essa è inibita dagli approcci convenzionali, dalle tradizioni, e dagli standard. Essa non può essere condotta in modo soddisfacente in un’atmosfera in cui è misurata e controllata da standard operativi
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o produttivi. La ricerca scientifica di base non dovrebbe perciò essere posta sotto il controllo di una agenzia operativa la cui preoccupazione complessiva è tutt’altro che la ricerca. La ricerca sempre soffrirà quando è posta in competizione l’operatività» (Bush 2013, p. 132-3 – trad. modificata). E in questa luce si comprende come, nella misura in cui sostiene la necessità di sviluppare la scienza di base, al tempo stesso si sottolinea la necessità di non privilegiare solo quella rivolta alle scienze naturali. In modo inequivoco e straordinariamente attuale, si sostiene che «sarebbe avventato [folly] formulare un programma che favorisca la ricerca nelle scienze naturali e mediche a discapito di quelle sociali e umane e di altre discipline così essenziali al benessere della nazione» (Bush 2013, p. 117). Alla base di tale convincimento v’è l’idea della scienza come impresa unitaria e che pertanto si debba ridurre al minimo il numero di agenzia indipendenti in modo da favorire l’interdisciplinarietà: «La separazione delle scienze in compartimenti ristretti […] finirebbe per rallentare la complessiva produzione di sapere scientifico» (Bush 2013, p. 133). Questo rapporto e la successiva competizione tecnologica col Giappone spinse l’amministrazione americana a porre in atto una serie di provvedimenti che incoraggiarono l’integrazione tra ricerca universitaria e industria. Tra questi il più famoso è il cosiddetto Bayh-Dole Act del 12 dicembre 1980: allo scopo di portare i frutti delle invenzioni universitarie all’intera società, il Congresso permette alle università e agli enti di ricerca (pubblici o privati) di sfruttare a fini commerciali il risultato delle ricerche condotte dai loro scienziati con l’utilizzo di fondi federali o pubblici. In tal modo il Congresso e la National Science Foundation (l’ente nato sulla base del rapporto Bush) incoraggiarono la cooperazione dell’università con l’industria, dandole la possibilità di gestire in modo autonomo il frutto delle proprie ricerche e di creare anche numerosi centri misti universitario-industriali, allo scopo di sfruttare le innovazioni, specie nel campo delle biotecnologie e in quello farmaceutico, i più suscettibili di un ritorno economico assai remunerativo (cfr. Kenney & Patton 2009, pp. 1408-9)
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2. L’Europa sta a guardare? È da tempo diffusa in Europa la consapevolezza dell’importanza della ricerca scientifica per lo sviluppo economico, sino ad ingenerare dal 25% al 50% della crescita e ad essere decisiva per un aumento in quantità e qualità dei posti di lavoro. La Commissione Europea (EC) è stata sempre consapevole della tradizione di eccellenza vantata in questo campo dall’Europa (nel 2000, un terzo delle conoscenze scientifiche sviluppate nel mondo proveniva dai suoi ricercatori) ed è tuttavia preoccupata della condizione in cui versa la ricerca e del rischio di veder aumentare lo scarto con gli altri paesi tecnologicamente avanzati, così ritardando la transizione verso un’economia della conoscenza. In questo quadro, all’inizio del XXI secolo la EC ha pensato che gli strumenti sinora adottati per sostenere la ricerca scientifica fossero insufficienti: i cosiddetti “programmi quadro” avevano sino ad allora mobilitato solo il 5,5% del totale dei finanziamenti per la ricerca non militare, in quanto sono stati per lo più gli stati nazionali a provvedere singolarmente e in maniera disorganica a finanziare la ricerca al proprio interno, sicché «l’attività di ricerca europea non è per il momento che la semplice somma delle attività degli […] Stati membri e di quella dell’Unione» (EC 2000, § 5). Ne risultano una inevitabile frammentazione, isolamento e segregazione dei vari sistemi di ricerca, scoraggiati dall’interagire anche a causa delle divergenze che interessano i sistemi amministrativi e regolativi dei diversi Stati membri. Tali preoccupazioni hanno portato l’Unione Europea (nel Consiglio Europeo tenutosi a Lisbona nel 2000) a porsi l’obiettivo di diventare, entro il 2010, «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» (EC 2000b, § 5). Nel 2002 Il Consiglio Europeo riunitosi a Barcellona, dopo aver passato in rassegna gli alquanto deludenti progressi fatti per conseguire questo obiettivo, ha stabilito che gli investimenti dell’UE per le attività di ricerca e di sviluppo tecnologico (R&S) sarebbero dovuti aumentare fino a raggiungere il 3% del PIL entro il 2010, rispetto all’1,9% del 2000. Tale decisione è supportata da numerose
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analisi statistiche che dimostrano come la spesa europea in R&S stia percentualmente diminuendo rispetto a quelle di paesi come la Cina, oltre ad essere costantemente al di sotto degli standard degli altri paesi industrialmente più avanzati, come gli USA, il Giappone o la Corea del Sud (cfr. NSB 2012, p. O-5). Un declino ancora più accentuato quando si vada a considerare l’export di alta tecnologia, drasticamente declinato negli ultimi vent’anni a favore della Cina e dell’Asia (comprendente gli 8 paesi più sviluppati tecnologicamente) (cfr. NSB 2012, p. O-18).
Una situazione che è graficamente resa dalla figura prodotta dalla Battelle and R&D Magazine (2013, p. 6): Questa figura sintetizza graficamente il posto occupato dai paesi più sviluppati al mondo e include, oltre alle nazioni dell’OECD, anche India e Cina. I parametri di riferimento sono il rapporto tra scienziati/ ingegneri per milione di persone (asse delle ordinate), la spesa in Re-
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search & Development (R&D) sul prodotto interno lordo (asse delle ascisse). La dimensione della sfera indica il valore assoluto dell’ammontare speso in R&D. È importante notare le posizioni di India, Cina, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Giappone (in giallo), che indicano come l’“asse della ricerca” si stia progressivamente spostando dall’Atlantico al Pacifico. Ma la cosiddetta “strategia di Lisbona” è stato nella sostanza un clamoroso fiasco, in quanto nel 2011 la percentuale del PIL investito in R&S era ben lungi da quello prefissato: circa il 2% rispetto all’obiettivo del 3% (fonte Eurostat). Ed evitiamo di parlare di tutti gli altri obiettivi, in termini di coesione sociale, aumento dell’occupazione, maggiore eguaglianza e solidarietà sociale, per evitare di ridere. Ovviamente in tutto ciò spicca in negativo l’Italia, che è andata in direzione opposta a quella indicata da Lisbona: non solo ha diminuito sempre più i propri investimenti in R&S, non solo sta facendo morire il proprio sistema di istruzione superiore, come l’università – riducendone via via i finanziamenti per ricerca, per strutture e per personale e al tempo stesso sommergendola con una valanga di adempimenti burocratici in nome della “valutazione” – ma ha conosciuto una progressiva perdita di terreno nell’economia della conoscenza, così come attesta il Knowledge Economy Index (KEI), elaborato dalla World Bank: nel 2012 l’Italia occupa il 30° posto, perdendo 3 posizioni rispetto al 2000 e venendo preceduta da paesi come l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovenia, la Spagna, la Francia e così via. Ne è conseguita la necessità di ripensare la strategia di Lisbona e di ulteriormente rilanciarla. La comunicazione dell’EC dal titolo Consultazione sulla futura Strategia “UE 2020” sposta in avanti gli obiettivi fissati dalla Strategia di Lisbona, così rinviati al 2020. In essa, inoltre, la EC ritiene che le seguenti tre priorità siano fondamentali per la Strategia UE 2020, detta Europa 2020: una crescita intelligente, grazie a investimenti sulla conoscenza; una crescita sostenibile, con la scelta di una economia a bassa emissione di CO2 e della competitività dell’industria; una crescita solidale, ossia focalizzata sulla creazione di posti di lavoro e la riduzione della povertà.
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Ancora una volta la conoscenza è indicata come il fattore chiave: «La conoscenza è il motore della crescita sostenibile. L’istruzione e la ricerca, l’innovazione e la creatività sono le parole d’ordine di un mondo soggetto a veloci trasformazioni. Uno dei modi più efficaci per lottare contro la disuguaglianza e la povertà consiste nel potenziare i sistemi d’istruzione. Dobbiamo porre urgentemente rimedio alle carenze ancora molto diffuse in termini di conoscenze di base (lettura, matematica, scienze) se vogliamo dare ai giovani maggiori possibilità di trovare un impiego e permettere loro di inserirsi nel mondo del lavoro una volta terminati gli studi» (EC 2009, p. 5). Concetti che vengono sempre ribaditi nei documenti successivi, insieme a una più stringente articolazione degli obiettivi da raggiungere, che sono in sostanza cinque: Occupazione: innalzamento al 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni) R&S: aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del PIL dell’UE Cambiamenti climatici e sostenibilità energetica: riduzione delle emissioni di gas serra del 20% (o persino del 30%, se le condizioni lo permettono) rispetto al 1990; 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili; aumento del 20% dell’efficienza energetica Istruzione: riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce al di sotto del 10%; aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione universitaria Lotta alla povertà e all’emarginazione: almeno 20 milioni di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione in meno. Nello specifico, per accelerare l’innovazione la EC ha lanciato il programma Horizon 2020 (uno sviluppo del 7° programma quadro), che copre gli anni 2014-2020 e stanzia un budget di 70 miliardi di euro. Ancora una volta si punta a un programma di ricerca e innovazione come motore fondamentale per creare una nuova crescita e maggiori posti di lavoro in Europa. Suo scopo è quello di rafforzare il ruolo europeo nel campo scientifico attraverso il sostegno alla ricerca di punta e lo sviluppo dell’European Research Council (budget di 24.341 mln di euro); il rafforzamento della leadership industriale europea nell’innovazione, investendo nelle tecnologie chiave (budget 17.015 mln); infine,
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l’affrontare le preoccupazioni europee in fatto di clima, sviluppo sostenibile, trasporto e mobilità, sviluppando le energie rinnovabili, assicurando cibo sano e affrontando l’invecchiamento della popolazione (budget 30.956 mln). Insomma, ci si muove sempre nell’ottica della società della conoscenza, in quanto si vuole ravvicinare sempre più ricerca innovativa e mercato, aiutando le imprese nella innovazione e nella loro capacità di immettere sul mercato prodotti sempre più tecnologicamente sviluppati. Inoltre, si prevede che l’arrivare ad investire il 3% del PIL dell’Unione Europea in R&S per il 2020 creerà 3,7 milioni di posti di lavoro e farà crescere il PIL di 795 miliardi di euro per il 2025 (cfr. EC 2013, p. 13). Saranno questa volta i nostri eroi più fortunati? In sostanza, viene riproposto il vecchio obiettivo della Strategia di Lisbona. L’idea di fondo è sempre quella, cioè fare dell’Unione Europea un’economia «smart, sustainable and inclusive»: sono queste le tre priorità fondamentali già a suo tempo indicate. A tale scopo ecco vengono fissati i compiti degli stati membri, e cioè l’aumento dei bilanci pubblici destinati a istruzione, R&S e innovazione; l’istituzione di strategie nazionali per promuovere la formazione e attrarre i talenti; il miglioramento nell’uso dei fondi strutturali per sostenere ricerca e innovazione; lo sviluppo di approcci comuni sulla cooperazione scientifica e tecnologica; nonché, infine, la valutazione dei risultati conseguiti dai sistemi di ricerca e innovazione in modo da stabilire le riforme necessarie. Di tutti questi obiettivi, a quanto pare, in Italia ci si è messi al lavoro solo sull’ultimo, quello della valutazione, dimenticando tutti gli altri, in particolare quello concernente l’aumento di finanziamento per R&S. È un modo di far parte dell’UE alquanto singolare, si direbbe ad intermittenza: “lo dice l’Europa” e prontamente si esegue quando fa comodo, si sottoscrivono protocolli, accordi, convenzioni e impegni senza mai realizzarli, quando invece non fa comodo. Ma è importante rilevare, in sede di valutazione conclusiva, come al fondo di questo modo di intendere la R&S vi sia una concezione della conoscenza che ne privilegia la sua funzione di spin-off della crescita economica e produttiva della società, di strumento al servizio della competizione economica internazionale. Sono pertanto importanti gli “skills”, le capacità che risultano essere quanto più possibile immedia-
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tamente funzionali alla crescita produttiva. In questo modo non solo vengono dimenticate la sagge raccomandazioni di Vannevar Bush – privilegiando la ricerca applicata e definanziando quella di base, per non parlare delle scienze umane, ormai languenti – ma viene di fatto risolta nei fatti la tradizionale contrapposizione tra “educazione” e “istruzione”: l’orizzonte della “ricerca della verità” è scomparso e il valore formativo della cultura passa in secondo piano e non ha più alcun ruolo. Non si parla ormai di ricerca scientifica, ma solo di “Ricerca e sviluppo” (R&S), in una distorsione in senso produttivistico che è duplicemente suicida: perché recide la basi stesse sui cui si edifica l’innovazione e perché fa scomparire il senso autentico di formazione che è stato un tipico portato della civiltà europea e della sua cultura illuminista, sulla cui base soltanto può essere edificata una società democratica e partecipata. Niente potrebbe essere più “inutile” di questa supposta e malintesa ricerca dell’utile produttivo, in una corsa senza senso verso un benessere materiale e un incremento nella disponibilità di gadget tecnologici che, al di là della sua reale capacità di ottenere gli stessi obiettivi che tale concetto di conoscenza si prefigge, non risponde alle esigenze che stavano alla base di quanto fu affermato già nel 1968 da Robert Kennedy: «Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta» (Kennedy 1968).
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Gian Maria Quinto*1 Corpo e diritto. Agire comunicativo e multiculturalismo in Habermas Body and right. Comunicative action and multiculturalism in Habermas. The focus of this work is an analysis of the reflections on the theme of multiculturalism and, more specifically, on the theme of the contrast between “collective rights” and “individual rights”, to which Jürgen Habermas has devoted the past years. Reconstructing a summary of the main epistemological-sociological elements of the discursive and pragmatic philosophy of Habermas, we intend to focus on how the Frankfurt philosopher confronted repeatedly and critically with the paradoxes of the “strong multiculturalism”, namely with ethical positions that allow the coexistence of cultures, traditions, practices and symbols. Analysing these issues, Habermas discusses the ultimate defence of self-validating requirements for the modern rule of law, both in terms of bulwark against the relentless critics of modernity, and either against the dangers inherent in recent deconstructivist positions. The prospects of a generalized inclusion, ethically neutral, according to Habermas, conceal potential complainants of “oppression within the group”, especially between religions non-sensitive to processes of self-reflection. Habermas’s argument is that cultures cannot function as “legal entities”. In fact, the conditions of their survival presuppose always a strict requirement: a subject – or rather, a body marked symbolically – that can decide individually, through a process of autoreflexion, to belong to the tradition, to immerse himself in the ethos in which he was born, or to subtract himself from it, if that ethos appears as oppressively imposed.
Docente di Filosofia e Scienze Umane, C.d.m. in Filosofia pratica all’Università “La Sapienza” di Roma. ∗
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1. Liberalismo classico, repubblicanesimo moderno, terze vie. Analisi e problematiche Scopo di questo lavoro è duplice: da un lato, assumendo le linee chiave della produzione teorico-politica e di analisi sociale dello Habermas dell’ultimo decennio, comprendere come il complesso rapporto che lega l’eredità della teoria critica, di cui egli è l’ultimo testimone, alle innovazioni e all’aggiornamento epistemico cui tale eredità è stata incessantemente sottoposta da Habermas stesso – nell’ottica di una teoria dell’agire comunicativo estesa alle problematiche della filosofia del diritto, della sfera etico-politica e della sociologia dei processi culturali – appaia al momento insuperabile in termini di ricostruzione concettuale della genesi e dei limiti dei diritti individuali nelle contemporanee società multiculturali; dall’altro, intendo mostrare come, nell’analisi delle posizioni di derivazione post-moderna e decostruttiva, sulla questione stessa della legittimità dei diritti individuali si giochino alcune delle più radicali questioni a livello di politica generale delle differenze, specie in relazione alle problematiche dell’“inclusione dell’altro” nonché, infine, alla questione stessa del concetto di una giustizia universale. Il testo-chiave, che condensa le problematiche appena indicate e che rappresenta, anche nelle sue difficoltà e talora persino nelle sue aporie, il punto, a mio avviso, di più alta torsione teorica della produzione dello Habermas recente è La parità culturale di trattamento e i limiti del liberalismo post-moderno1. Il nucleo di partenza è costituito da una articolata ricapitolazione delle posizioni e delle potenziali contraddizioni del liberalismo classico, cioè della tradizione che, molto sommariamente, possiamo estendere da Locke a Kant. In quel contesto, il medium della concettualità del diritto viene usato per “addomesticare il potere politico e servirsene per uno scopo prioritario: proteggere la libertà, antecedente ad ogni politica, dell’individuo membro della società civile” (SF: 171). Ci troviamo qui di fronte a quello che Habermas stesso definisce un “elegante intreccio In J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 171. D’ora in poi le citazioni da questo testo saranno incluse nella sigla SF. 1
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di due intuizioni normative forti” (ivi): il criterio morale di un universalismo egualitario (secondo il principio del “pari rispetto per ciascuno”); il criterio etico di un individualismo per il quale ciascuno ha invece il diritto di “modellare”, definire, codificare, la propria vita secondo autonomi sistemi di riferimento simbolico-ideologici. Nell’universalità delle leggi si esprimerebbe l’uguaglianza di tutti i cittadini. A questo livello, l’“individualismo etico” conterrebbe il significato autentico dell’“universalismo egualitario” che il diritto moderno è stato in grado di mutuare, in un secolare processo storico, dalla morale tradizionale (ivi). Tuttavia, la distinzione tra “progetti di vita” individuali (costruzione della propria identità psicosociale, definizione di specifici orientamenti di senso, analisi esistenziale, proiezioni ideologiche e così via) e idea della “giustizia universale” va incontro, nel milieu di un pensiero postmetafisico “in disarmo”, alla necessità di un riesame. Le difficoltà del pensiero attuale sono infatti dovute essenzialmente alla crisi dei grandi récits di cui parlava Lyotard2 (e su cui Habermas si è soffermato più volte) e, soprattutto, all’impossibilità, da parte del pensiero filosofico, di fare “concorrenza” alle Weltanschauungen religiose da quanto l’interpretazione razionale del mondo, il processo di Entzauberung, di disincantamento, di smagamento, per così dire, di cui parlava Weber, non possiede più motivazioni onto-teologiche o cosmologiche in grado di imporre modelli esistenziali vincolanti. La morale cessa in altri termini di presentarsi come universale facendosi esclusivamente formale (secondo il principio di un ideale “pari rispetto” per ciascuno). Siamo di fatto in presenza di una sorta di kénosis della morale, che si è tradotta, e fortemente indebolita, in termini di diritto positivo, sia nelle insufficienti legislazioni sul “pari trattamento”, sia, soprattutto, in una eccessivamente generica nozione di “dignità dell’uomo” – sulla cui necessità di una forte rivalutazione etico-concettuale e logico-storica insiste invece Habermas ancora in un testo recente, in cui la dignitas umana, nell’attuale linguaggio politico dei diritti civili, non andrebbe intesa come vaga “espressione classificatoria giunta in ritardo”, bensì Il riferimento è ovviamente a J.-F. Lyotard La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1999. 2
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come l’autorevole “fonte morale” stessa da cui derivano i diritti fondamentali in genere3. Ora, questo liberalismo di Locke e Kant è stato naturalmente più volte sottoposto a critica: la tradizione che Habermas raccoglie sotto il termine di “repubblicanesimo classico” rivaluta ad esempio la “libertà degli antichi” (a partire dalle classiche teorizzazioni aristoteliche sull’essere umano come animal rationale e politico) contro la “libertà dei moderni”: il rischio della posizione liberale classica sarebbe infatti in una lettura eccessivamente possessivo-individualistica di diritti soggettivi strumentalisticamente fraintesi e dunque incapace di cogliere un concetto produttivo di “solidarietà” che legherebbe non solo individui segnati da legami parentali ma anche i cittadini dello stato come membri autocoscienti di una comunità politica che oltrepassa i puri rapporti giuridici. È stato ampiamente contestato, in altre parole, il legame storico che l’ordinamento liberale mostra, riguardo al concetto di libertà, con la dimensione del libero scambio di beni commerciali, cioè, potremmo dire per semplificare, la sua genesi strettamente liberistica. Non a caso Habermas si richiama alla polemica del giovane Marx contro i residui “egoistico-borghesi” presenti nelle rivoluzioni francese e americana. Al contrario, la libertà, secondo la tradizione repubblicana classica, non è riducibile a mero “pursuit of happiness”: essa costituisce piuttosto l’espressione pragmatica del sentimento di appartenenza ad una comunità ideale regolata da istanze di giustizia distributiva, non solo in senso economico, in cui la cessione di parte del proprio potenziale arbitrio diventa la condizione effettuale dello statuirsi di una volontà generale (nel senso di Rousseau) democraticamente orientata. Definite le tradizionali forze in campo, occorre comunque chiarire come rispetto a questa versione classica della lotta liberalismo-repubblicanesimo qualsiasi moderno ritorno al repubblicanesimo (“etico” di matrice kantiana lo definisce più volte Habermas, dichiarandosene personalmente vicino) dovrebbe sviluppare, aggiornandone i presupposti, una nozione intersoggettivamente più allargata di libertà e tipicamenCfr. J. Habermas, Il concetto di dignità umana e l’utopia realistica dei diritti dell’uomo, in Questa Europa è in crisi, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 6-7. 3
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te connessa al ruolo specifico che il cittadino dello Stato democratico di società complesse come le attuali può ricoprire. Ciò significa che alcuni dei media fondamentali delle società contemporanee, come la comunicazione e la partecipazione, non debbono servire solo alla tutela dei diritti privati soggettivi, ma dovrebbero anche rendere possibile una particolare prassi in comune e fine a se stessa: solo infatti l’insieme delle procedure di auto-legislazione democratica appare in grado di fondare, nelle attuali strutture sociali funzionalmente differenziate, un ethos solidaristico. Schierarsi sempre, sia pur in astratto, per difendere la libertà d’un altro cittadino: questo significherebbe rinnovare il senso autentico della comunità di appartenenza, garantendo libertà etica non solo ai singoli, ma anche – in termini nazionali e sovra-nazionali – ad una potenziata comunità di solidali cittadini dello Stato. L’ammodernamento del concetto, tuttavia, non è esente da rischi. In particolare, sembra impotente dinanzi ad alcune indebite estensioni del concetto di “bene comune”, che imporrebbero il prezzo di una potenziale limitazione dell’universalismo egualitario: la fusione tra cittadinanza dello Stato e cultura nazionale – leggiamo in un passo molto significativo – ha come conseguenza un’interpretazione dei diritti di cittadinanza “monocolore” e insensibile alle differenze culturali. La preminenza di un bene comune eticamente impregnata sull’effettiva garanzia di pari libertà etiche non può non portare, all’interno delle società pluralistiche, alla discriminazione di modi di vita devianti, e, sul piano internazionale, all’impotenza di fronte a una “guerra di culture”. È come, in altri termini, se l’appiattimento etico generato da una irriflessa fiducia nella fusione tra cittadinanza e cultura nazionale rischiasse di generare il mostro della repressione delle differenze sul piano interno legittimando, allo stesso tempo, torbidamente, il concetto di una guerra di civiltà alimentata da decisionismi cari alla tradizione schmittiana. All’altezza di questa impasse, la via d’uscita sarebbe solo in un tertium concettualmente innovativo: un’inedita mediazione, cioè, tra liberalismo classico e repubblicanesimo forte in cui l’ethos politico andrebbe
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inteso come esito volontaristico della formazione della volontà democratica di una popolazione “strutturalmente” avvezza alla libertà politica. I destinatari del diritto, in questa prospettiva, dovrebbero poter sempre anche essere i loro autori. Vanno approvate, con ciò, solo leggi che possono, almeno in linea teorica, essere liberamente dibattute da tutti. In questo senso, fare e disfare ad arbitrio le leggi appare tipico dell’autonomia privata, ma non di quella civica. Solo l’universalismo dello stato di diritto rende possibile, al contrario, l’individualismo etico dei cittadini: i processi di interiorizzazione di questo universalismo da parte dagli stessi cittadini potrà quindi positivamente tradursi nell’attivazione di procedure democratiche orientate alla formazione generalizzata della volontà politica. Sono i temi, come noto, su cui Habermas ha costituito la sua grande summa filosofico-giuridica sulla tensione di fattualità e validità4.
2. Funzioni, decostruzioni e genealogie del potere Naturalmente, anche questo tertium rappresentato da una versione più accorta e sofisticata del repubblicanesimo etico che sfocia in una “lettura” democratica del liberalismo politico classico è stato oggetto di critiche dissolventi. Nella tradizione di Hegel, Marx e Foucault si accentua infatti, secondo Habermas, l’attacco violento all’“impotenza del dovere” (SF: 176), cioè al fallimento di qualsiasi processo di democratizzazione che provenga da un sistema intrinsecamente asimmetrico. I progetti normativi, anche i più idealizzanti, falliscono nella misura in cui appartengono essi stessi alla “schiacciante totalità di una forma di vita ‘estraniata’”. Secondo la ricostruzione di Habermas, l’omologante effetto di uniformazione deriva, in tutta la tradizione del pensiero critico e smascherante, dalla potenza quasi destinale che hanno assunto i meccanismi di mercato e dalla soverchiante imposizione che affiora dall’estendersi illimitato del potere burocratico-amministrativo di weberiana memoria: in altre parole da capillari meccanismi di integrazione sociale che diventano “forza rei4
Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, Laterza, Roma-Bari 2013.
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ficante” rispetto a qualsiasi ipotesi di un mondo della vita intersoggettivamente costituito e idealmente ravvivato da impulsi positivamente comunicativi, cioè orientati all’intesa. Siamo ad uno dei punti-chiave della ricostruzione di Habermas e della sua instancabile difesa del modello di liberalismo democratico contro le critiche più paralizzanti. Dal suo punto di vista, infatti, queste critiche (esemplificate, in forme diverse, dagli studi sulle aporie del nesso sapere-potere di Foucault e dalla dissacrante interpretazione iperfunzionalistica di Luhmann), sia pur legittime, non toccano la sfera concettuale profonda della normatività democratica: i meccanismi alienanti, la pervasività del biopotere, per usare un’altra espressione cara all’ultimo Foucault, la polverizzazione delle classi sociali antagoniste, la sparizione – o meglio: l’impossibilità – di un pensiero critico-negativo, tutto ciò può essere inteso infatti realisticamente più come espressione di una patologia e di una deformazione dei rapporti comunicativi5 che come esito naturale di una modernità fallimentare e violenta. È forse il caso infatti di ricordare come nella prospettiva di Foucault, soprattutto nelle sue opere tarde, la struttura del potere – le pratiche di possesso, l’intervento sull’altro, i dispositivi di controllo e di imposizione – della tarda modernità tendono a disciogliere il secolare carattere di dominio autocosciente, decisionale o centrale, di “unità globale di una dominazione” (Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1999, p. 82) e ad assumere piuttosto la forma di una “molteplicità di rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione” (ivi, p. 82). In Foucault il potere si fa infatti pervasivo, “periferico”, “onnipresente” (ivi, p. 82). Esiste una capillarità invasiva, una tessitura illimitata degli strumenti di dominio che in quanto tale esprime con estrema lucidità uno degli esiti più disperanti della modernità: il nesso inscindibile tra potere, decisione di azione e apparati di sapere. Nel caso di Luhmann invece ci troviamo di fronte ad un tentativo forse ancora più avanzato di estendere la prospettiva funzionalistica all’analisi dei progressivi processi di differenziazione interna tipici di sistemi sociali sempre più complessi e “autopoietici”. Secondo Habermas, siamo infatti con Luhmann di fronte ad una teoresi estrema, in cui viene travolto anche il medium del diritto, l’unico in grado di permettere una via d’uscita contemporaneamente pragmatica e cognitiva alle paralisi della società contemporanea. Non a caso egli legge nelle posizioni luhmanniane la “cancellazione delle ultime tracce di autocomprensione normativa che il diritto aveva ereditato dalle teorie classiche della società” (J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 61). 5
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Un esito che, ad esempio nelle prospettive di derivazione dialetticonegativa, a partire da Adorno, tocca addirittura, secondo Habermas, livelli ancora più radicali di nichilismo storico. Si tratta dell’aperta teorizzazione di un punto di non ritorno nell’equivalenza tra processi economici di scambio e forme di potere organizzato, che sembrano funzionare sempre più come meccanismi sistemici dell’integrazione sociale generale oltre che come espressione di una razionalità strumentale che contraddice internamente la “forma liberamente individuante delle relazioni solidali” (p.177). Siamo, in altri termini, ad una sorta di compimento perverso della razionalizzazione weberiana, al concretizzarsi in incubo di un mondo “totalmente amministrato” in cui dilegua per sempre l’adorniana, disperata, speranza nell’apparizione utopica del non-identico. Qualcosa di simile accade anche nell’impulso dissolvente di Derrida (nella cui opera non a torto Habermas ha rilevato da subito forti affinità con le più affascinanti tematiche adorniane6), in cui si procede ad una decostruzione sistematica dei concetti di base della teoria politica occidentale, anche se all’interno di una prospettiva, non priva di possibili sfumature messianiche. Un utopismo che scompare drammaticamente negli esiti estremi della decostruzione del concetto di giustizia in autori come Christoph Menke: smontare l’impianto concettuale della tradizione dell’egualitarismo occidentale significa infatti, negli epigoni di Derrida, mostrare la contraddizione performativa stessa tra idealità e fattualità, tra dire e fare, sino al livello estremo per cui le condizioni di possibilità di una prassi riuscita (ad esempio la produzione normativa) diventano anche, allo stesso tempo, le condizioni concettuali dell’im“Adorno e Derrida sono egualmente sensibilizzati contro modelli conclusivi, totalizzanti, onni-inglobanti, in modo speciale contro l’organico nell’opera d’arte. Entrambi sottolineano perciò il primato dell’allegorico sul simbolico, della metonimia sulla metafora, del romantico sul classico. Entrambi utilizzano come forma dell’esposizione il frammento e sospettano di ogni sistema. […] Ad una diffidenza verso tutto ciò che è immediato e sostanziale corrisponde l’implacabile ricerca di mediazioni, presupposizioni e dipendenze nascoste. Alla critica delle origini, degli originali, delle primalità corrisponde un certo fanatismo di dimostrare in tutto ciò il puramente prodotto, imitato, secondario” (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, op. cit., p. 190-191). 6
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possibilità del suo riuscire. Una eguaglianza giuridicamente istituzionalizzata implica, infatti, dal punto di vista decostruttivo, sempre un orizzonte di inevitabile sofferenza inflitta a qualche gruppo sociale minoritario, in ragione dell’applicazione forzosa di leggi generali imposte a scapito di singole istanze individuali. Nel programma liberale sarebbe infatti l’idea stessa di una pari libertà etica a cadere in contraddizione con se stessa: la “neutralità dei fini” appare impossibile nella misura in cui implica quella totale e paritaria inclusione di tutti i cittadini dello Stato che viene invece sistematicamente smentita dai concreti processi storici. E gli esempi di questa impossibilità abbondano, ricorda Habermas, proprio nei luoghi in cui dovrebbero essere superati – ad esempio nella storia costituzionale americana. Ma dal fallimento storico di un processo di inclusione totalizzante non discende tanto, secondo la prospettiva habermasiana, il venir in luce di un fondamento aporetico della normatività liberale stessa, quanto piuttosto l’emergere, positivo, di un faticoso movimento di tentativi, errori e processi di apprendimento che si auto-correggono. I falliti tentativi passati, in altri termini, non depongono a sfavore di una incoerenza del e nel principio: non esistono, in ultima analisi, condizioni di impossibilità “concettuali”. È quanto Habermas si sforza di dimostrare nell’ultima parte del saggio che andiamo ad esaminare.
3. Corpo, volontà, diritto Come si risponde dunque, a livello più profondo, ai tentativi di decostruzione dell’egualitarismo repubblicano universale kantiano? Sulla scia di Rawls7, occorre anzitutto ridefinire il concetto di “neutralità” dei fini e della giustizia in senso più generale: tale neutralità non investe gli effetti delle singole norme giuridiche. Esiste certo una sorta di asimmetria di fondo, che però non va confusa con una impossibilità strutturale di produrre meccanismi procedurali di eguaglianza potenzialmente Cfr., J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982 e Id., Liberalismo politico, Il Mulino, Bologna 1994. 7
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estensibili alla totalità dei partecipanti al processo democratico: la produzione di diritti può infatti implicare, talora, oneri diseguali (si pensi, per fare l’esempio più evidente, al difforme carico cognitivo che in tema di interruzione volontaria di gravidanza debbono poter sopportare cittadini laici e cittadini cattolici) ma senza autocontraddirsi decostruttivamente. La possibilità di uno scambio “paritario” sul piano cognitivo delle diverse prospettive di interpretazione della vita o dei singoli codici simbolici di socializzazione non significa, infatti, secondo Habermas, una necessaria “corrispondenza simmetrica sul piano del diritto” (p. 188). Poiché infatti la procedura democratica fa tecnicamente discendere la “legittimità” delle singole decisioni dalle forme discorsive dei processi di inclusione dell’opinione e della volontà, le norme stesse intese a garantire la parità di diritti possono propriamente venir definite solo successivamente al riconoscimento e alla valutazione degli oneri differenziali per ciascun individuo, cioè, di nuovo, degli effetti “non neutrali” da esse imposte. Non occorre, in altri termini, procedere ad una dissoluzione dell’idea di eguaglianza per provare a produrre norme giuridicamente vincolanti sia pur non simmetriche negli effetti: le limitazioni asimmetriche, il cui possibile verificarsi – e questo è l’elemento decisivo – deve poter essere accolto sempre per ragioni interne, di pura proceduralità giuridica, per così dire, possono essere considerate espressione, non meno delle norme stesse, del principio di eguaglianza tra cittadini dello stato. Siamo ad un punto chiave. Questa deroga all’asimmetria degli effetti del diritto universalistico non deve riguardare le condizioni di asimmetria derivanti dagli effetti deformanti del potere, nel senso più esteso possibile, di dominio, violenza e produzione di diseguaglianza. Spesso, ricorda Habermas con accenti marxiani, gli ordinamenti formali di eguaglianza liberale hanno celato le più drammatiche esperienze di ingiustizia sociale. La stessa pregnanza – anche solo idealmente regolativa, almeno a livello delle contemporanee ideologie socialdemocratiche – del moderno concetto di “stato sociale”, cioè del corpus legislativo volto a limitare gli effetti dello squilibrio sistemico e a ripristinare un potenziale uso “fattuale” dei diritti equamente ripartiti, deve la propria sostanzialità alla perdurante percezione dell’incolmato scarto tra diritti
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formali e bisogni reali. Ma la traduzione “normativa” della percezione del dolore, la risposta in qualche modo “politica” al sentimento della sofferenza, nelle attuali società differenziate, vive una dialettica paradossale, celando un ulteriore pericolo: l’utilizzo di sistemi compensativi, efficace sul piano della riduzione degli squilibri sociali, tradisce un residuo problematico nel momento in cui si estende, fuoriuscendo dal campo economico, all’aperta pratica di difesa dei cosiddetti diritti “culturali”. A questo livello, infatti, la potenza compensatoria può condurre persino ad una drammatica, hegeliana, “conversione dialettica dell’eguaglianza in oppressione”. Il problema è infatti di quale natura sia la correzione degli effetti asimmetrici. Habermas cita diversi esempi significativi di deroga a norme generali finalizzata alla tutela di elementi più o meno difformi rispetto all’ordinamento giuridico in atto (a mero titolo di elenco: la possibilità di indossare il turbante in moto per i sikh o di conservare il loro coltello rituale in pubblico; la concessione del velo, nelle istituzioni scolastiche, per le studentesse musulmane; la liceità del metodo kosher per la macellazione del bestiame nella cultura ebraica; il riconoscimento della parità ai Testimoni di Geova; la tutela della lingua francese nel Québec; la celebre, e discussa, decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti in favore della comunità Amish contro l’autorità educativa dello Stato del Wisconsin, che ha concesso una dispensa collettiva dall’obbligo scolastico decennale per i ragazzi). Esempi che ci conducono al cuore del dibattito sul “multiculturalismo forte”. La tesi è che dietro l’iper-compensazione si possa sempre nascondere un potenziale di negazione della libertà. Recuperando in chiave di teoria discorsiva l’articolata tradizione socio-antropologica che va da Mead a Parsons, a Gehlen a Lorenzer, Habermas ribadisce la sua fiducia nell’idea che l’identità dei singoli non possa non configurarsi come l’esito di una complessa operazione di sviluppo, riproduzione ma anche perfezionamento della propria genesi imperfetta, cioè di auspicata potenzialità di retroazione, da parte del singolo, sulle condizioni della propria genesi. Da questo punto di vista, la compiuta teoresi circa un soggetto-corpo internamente socializzato potrebbe spingere ad una dilatazione decisiva del concetto di “personalità giuridica”, inserendo in esso la sfera
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dei “diritti soggettivi”: i diritti culturali debbono poter sempre derivare dall’inviolabilità di una dignitas umana concettualmente recuperata come matrice “etica” (cioè intersoggettiva, dialogica, comunicativa) del politico. Ciò scioglierebbe la contraddizione interna tra concessione di elementi dispensativi, correttivi e compensativi e rischio ricorrente di oppressione interna al gruppo. I diritti collettivi, invocati come collante dell’identità culturale del gruppo di appartenenza, non sono sospetti in sé: diventano tuttavia aporetici e disfunzionali nella misura in cui collidono con i diritti fondamentali dei singoli membri del gruppo. La loro legittimità, conclude Habermas, è essenzialmente derivativa. Le culture non possono rivendicare, in sé, la titolarità di soggetti di diritto. Esse, in senso generale, traggono alimento da una sorta di “costituzione ontologica degli oggetti simbolici”, cioè dell’implacabile cogenza attraverso cui le strutture dialogico-comunicative, semantiche, della Lebenswelt fanno presa sul percorso di soggettivazione di ciascun individuo. Le culture non possono dunque essere considerate “soggetti giuridici” in quanto incapaci di rispondere con le proprie forze alle potenze soverchianti della storia. Tradizioni, singole pratiche, contingenti codici culturali sono obbligati ad affidare agli individui la scelta se accettare o meno le immagini del mondo e/o i sistemi di senso che esse stesse definiscono. Le condizioni “ermeneutiche” della sopravvivenza di una cultura sembrano sempre presupporre un limite invalicabile: quello di un soggetto, o meglio, di un corpo intersoggettivamente costituito, intimamente solcato da pratiche culturali e tuttavia originariamente provvisto, e sempre auspicabilmente dotabile, di un orizzonte di libera azione che va tradotto come spazio realistico in cui poter decidere riflessivamente tra “appropriazione”, “revisione” o “rifiuto” di quella cultura. Tutto ciò sancisce, come senso stesso della cultura, il porre gli esseri umani, normativamente, sempre in condizione – pena lo scadimento del loro mondo della vita in una ricorrente espressione della barbarie – di decidere, attraverso processi biografici di auto-chiarimento riflessivo, sulla tenuta e l’efficacia della tradizione di appartenenza e in ultima analisi di optare tra l’immergersi irriflesso nell’ethos in cui si nasce o il sottrarvisi, qualora si percepisse quello stesso ethos come autoritariamente imposto.
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4. Conclusioni. Linee per una dialettica della laicizzazione L’originale fondazione pragmatico-linguistica habermasiana del nesso tra corpo e diritto, innestata sul recupero delle più radicali epistemologie socio-antropologiche del Novecento; l’instancabile concettualizzazione del rapporto speciale che lega il percorso “intersoggettivo” della soggettivazione e l’intangibilità della dignità umana; la pervicace riaffermazione di un nucleo di resistenza corporea (interessante è anche la ripresa del vecchio motivo adorniano di una sorta di primato dell’oggetto materiale) posta ad argine contri i più insidiosi modelli decostruttivi, tutto questo sembra mettere capo ad una critica del cosiddetto “multiculturalismo forte” in grado, nello stesso tempo, di evitare gli inversi, speculari, pericoli dell’etnocentrismo laicistico. Nella parte finale del saggio, infatti, pur ribadendo gli effetti asimmetrici cui storicamente hanno dovuto soggiacere le visioni del mondo totalizzanti come quelle religiose e pur non negando la parzialità di fatto che l’invito alla tolleranza universale produce, ad esempio, tra credenti e non credenti, Habermas ribadisce gli effetti benefici di un processo di universalizzazione dei diritti che sappia sfuggire ad indebite estensioni politiche. Si profila pertanto, al culmine dell’attuale cultura post-metafisica, la riapparizione di una sorta di “dialettica” della laicizzazione culturale, che può contemplare anche, realisticamente, degli stabili effetti di squilibrio cognitivo nel mondo della vita di ciascun individuo, ma che assicura, al tempo stesso, le condizioni istituzionali di “sopravvivenza” di quello specifico mondo della vita: la modernizzazione deve essere intesa, in questa prospettiva, come un processo che avvolge tutte le sfere sociali, una sorta di macro-apprendimento che investe laici e religiosi spingendoli a riflettere sui reciproci limiti ermeneutici. Gli stessi cittadini laicizzati sono così tenuti ad un perdurante compito circolare: rivalutare il potenziale semantico delle esperienze religiose (o, per estensione, di qualsiasi rilevante contenuto cognitivo proveniente da culture altre), effettuando un’operazione di infinita “traduzione” di questo stesso potenziale in un linguaggio epistemologicamente criticabile. Solo così l’antica aspirazione kantiana alla pace perpetua potrà
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ritradursi post-metafisicamente come radice dellâ&#x20AC;&#x2122;impulso dialogico o come sintesi tra la percezione di un corpo inviolabile e lâ&#x20AC;&#x2122;utopia di un discorso universale.
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Markus Fath* Messbare Kompetenzen oder gelingendes Leben? Zum Zusammenhang von Bildungsverständnis/sen und Gewalt/losigkeit Quantifiable Expertises or Successfull Life? On the Relation between Educational Understanding/s and Non/Violence. This contribution deals with the connection of different concepts of Education (Bildung) and the phenomena of violence and non-violence/peace. A structural comparison points out that modern concepts of Bildung are a matrix for violence and the original concept of Bildung is a matrix for non-violence/peace. This leads to an inevitable reframing of the priority of topics in modern sciences. Im Fokus dieses Artikels soll der Zusammenhang von unterschiedlichen Bildungsverständnissen und den Phänomenen der Gewalt und Gewaltlosigkeit stehen. Dies mag zunächst als völlig ausuferndes Vorhaben erscheinen. Deshalb sei gleich zu Beginn deutlich darauf hingewiesen, dass hier nicht der Anspruch erhoben wird, eine umfassende Analyse der Bildungs- und/oder Gewaltdebatte darzulegen. Vielmehr geht es darum grundlegende Strukturen bzw. übergeordnete Tendenzen aufzuzeigen und auf deren Verflechtungen aufmerksam zu machen. Zentral ist dabei nicht nur die Frage ob es überhaupt einen Zusammenhang zwischen unterschiedlichen Bildungsverständnissen und Gewalt bzw. Gewaltlosigkeit gibt, sondern auch wie dieser sich genauer gestaltet? Um dieser zentralen Frage näher kommen zu können wird zunächst ein Überblick über Tendenzen der Bildungsdebatte gegeben. Darauf aufbauend wird ein Überblick über das nicht weniger weite Feld der Gewaltdebatte gegeben. In beiden Fällen sollen grundlegende StruktuDr. phil., Wissenschaftlicher Mitarbeiter am Institut für Pädagogik der Ludwing-Maximiliand-Universität München. ∗
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ren sichtbar gemacht werden, die dann im abschließenden Schritt zueinander in Beziehung gesetzt werden sollen.
1. Was ist Bildung? Es gibt nur sehr wenige Begriffe, die so viele unterschiedliche Definitionen und Interpretationen aufzuweisen haben wie der Bildungsbegriff. Zugleich ist dieser aus dem deutschen Sprachraum stammende Begriff wiederum so speziell, dass er sich in kaum eine andere Sprache übersetzen lässt. Die unterschiedlichen Bildungsverständnisse lassen sich dabei weniger als eine Ansammlung von Definitionen, an denen einzelne Verständnisse sich klar voneinander abgrenzen ließen, verstehen. Vielmehr könnte man es als Spektrum bezeichnen, in denen unterschiedlichste Definitionen in bestimmten Teilen mit anderen übereinstimmen und in anderen Aspekten wiederum voneinander abweichen. Die Enden dieses Spektrums kann man so charakterisieren, dass sich zwei nur schwer miteinander vereinbare Auffassungen gegenüber stehen. Die eine lässt sich durchaus als das moderne Bildungsverständnis bezeichnen und fasst Bildung als eine Ansammlung von spezifischen Wissensinhalten und/oder bestimmten Kompetenzen auf. Die entgegen gesetzte Auffassung lässt sich durchaus als das ursprüngliche Bildungsverständnis bezeichnen und fasst Bildung im weitesten Sinne als Gesamtentwicklung einer einmaligen Persönlichkeit auf. Dabei wird rasch ersichtlich, dass Definitionen des Bildungsbegriffes (und nicht nur dieses Begriffes) generell mit der Problematik zu kämpfen haben, dass ein zu erklärender Begriff erklärt wird indem man weitere Begriffe zusammenfügt, die wiederum zu erklären wären. Bei den beiden genannten Verständnisses könnten sich wiederum teilweise hochgradig unterschiedliche Interpretationen ergeben, je nachdem wie man Wissensinhalte, Kompetenzen, Entwicklung und Persönlichkeit definiert. Fasst man z.B. Entwicklung als Ansammlung von Wissen und Kompetenzen auf und die Persönlichkeit gleichsam als eine (durchaus auch einmalige) Kombination aus angesammelten Wissensinhalten und Kompetenzen, dann wären die beiden Bildungsverständnisse
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keineswegs entgegengesetzt bzw. unvereinbar. Man könnte sie sogar als identisch betrachten, in dem Sinne, dass es sich um dasselbe Bildungsverständnis handelt, das nur in zwei unterschiedlichen Sprachen zum Ausdruck kommt. Es ist also durchaus möglich, dass man eine bestimmte Definition kategorisch ablehnt, obwohl es tatsächlich sogar der eigenen Definition entspricht und man lediglich die zur Definition verwendete Wortwahl selbst anders als die definierende Person interpretiert hat. Kurz: Da das Verständnis eines Begriffes an eine Sprache gebunden ist, ist es nicht möglich ein Verständnis so zum Ausdruck zu bringen, dass es nicht missinterpretiert werden kann. Wenig überraschend und vermutlich jedem aus dem Alltag bekannt, können solche Missinterpretationen die Wurzel für Konflikte und Antipathien sein, wo Kooperationen und Sympathien genauso denkbar und realisierbar wären. Die erste wichtige Frage, die sich ergibt, lautet: Wie geht man mit dieser Möglichkeit der Missinterpretation aufgrund notwendiger sprachlich bedingter Ungenauigkeiten um? Dies wird vor allem davon abhängen, welche Bedeutung man den dabei wesentlichen Aspekten der Sprache und der Genauigkeit (bzw. Exaktheit) zuschreibt. Hier gäbe es zwei naheliegende und sehr extreme Positionen: 1. Man macht es zur Voraussetzung, dass man alle, oder zumindest möglich viele, Sprachen lernen müsste um die Fehler, die bei Interpretationen (auch Übersetzungen sind eine bestimmte Form der Interpretation!) entstehen, möglichst gering zu halten. 2. Man sucht nach der Sprache mit der geringsten Ungenauigkeit bzw. höchsten Exaktheit und versucht alles in diese Sprache zu übersetzen. Vereinfacht gesprochen würde die erste Position in groben Zügen einem eher philosophischen und die zweite Position einem eher empirischen Zugang entsprechen. Philosophische Positionen betonen oft die Notwendigkeit Texte in der Originalsprache zu bearbeiten in der sie verfasst wurden. Übersetzungen wären folglich abzulehnen, da sie eben nicht die originalen Gedanken des Verfassers widerspiegeln, sondern die Interpretation des Übersetzers. Wenn aber eine Person eine Sprache lernt, die nicht ihre Muttersprache ist, und dann einen Text in dieser Sprache bearbeitet, fertigt dann diese Person keine Überset-
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zung im eigenen Verstand an? Verschließt sich eine solche Person nicht kategorisch allen Gedankengängen, die im Original in einer Sprache verfasst wurden, die sie selbst nicht beherrscht? Empirische Positionen betonen oft die Notwendigkeit Ergebnisse in exakten Zahlen und/ oder Grafiken abzubilden. Salopp formuliert soll also die Wirklichkeit in die als besonders exakt erachtete Sprache der Mathematik übersetzt werden. Ergebnisse, die nicht diesem Muster folgen, wären folglich weniger exakt und damit weniger aussagekräftig. Das menschliche Leben in mathematischen Formeln auszudrücken, kommt aber letztlich dem Versuch gleich „eine Beethoven-Symphonie als Luftdruckkurve“ darstellen zu wollen. Nun kann der Verfasser nahezu hören, wie sich viele Vertreter unterschiedlicher Disziplinen und Methodiken hier eventuell angesprochenen fühlen und empören: Philosophische und empirische Zugängen würden hier völlig verkürzt dargestellt. Die Darstellung der Problematiken von Sprache und Übersetzung, sowie die Auffassung von Mathematik als Sprache seien viel zu sehr vereinfacht, usw. Dazu sei gesagt: Selbstverständlich trifft das zu. Der Verfasser beabsichtigt hier auch keine Huldigung einzelner Disziplinen und methodischer Zugänge zu schreiben. Er nimmt sich an dieser Stelle lediglich heraus mit diesen Disziplinen und Methodiken zu machen, was sich Vertreter dieser Disziplinen und Methodiken herausnehmen, wenn sie mit ihren Zugängen das menschliche Leben analysieren wollen: - Das ist einer drastische Verkürzung und Vereinfachung. Ein Unterschied besteht allerdings darin, dass der Verfasser sich dies nur gegenüber nicht-menschlichen Akteuren, quasi gedanklichen Werkzeugen, herausnimmt und nicht gegenüber lebenden Menschen. Wohl gemerkt wird auch nicht der Anspruch einer umfassenden Darstellung bzw. Analyse erhoben. Es soll aber gezeigt werden, wie rasch unterschiedliche Verständnisse zur Entstehung und Eskalation von Konflikten beitragen können. Jedem Leser, der sich von der hier verkürzten Darstellung einer von ihm bevorzugten Disziplin oder Methode angegriffen und/oder provoziert gefühlt hat, sei kurz und knapp gesagt: Quod erat demonstrandum. Aber auch alle anderen Leser können vielleicht hier schon erahnen, dass ein wesentlicher Aspekt für den Unterschied zwischen Gewalt und
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Gewaltlosigkeit darin liegt, wie stark die Komplexität der menschlichen Wirklichkeit vereinfacht wird und das dies nicht minder ein wesentlicher Aspekt ist, in dem sich diverse Bildungsverständnisse voneinander unterscheiden. In aller Kürze deshalb die Position des Verfassers zu allen Fragen methodischen Herangehens und damit eventuell verbundener Probleme: Alle Methoden sind wichtig und haben ihren Stellenwert, denn sie stellen jeweils spezifische und unterschiedliche Perspektiven auf ein und dieselbe Wirklichkeit dar. Abgelehnt wird hingegen eine dieser Methoden zu verabsolutieren. Denn selbst eine in allen Feinheiten beherrschte Muttersprache ist eine Verkürzung der menschlichen Wirklichkeit und eine Übersetzung des Wesens eines gesamten Menschen in ein grammatikalisch korrekt arrangiertes Vokabular. Ob man nun mathematisches Herangehen als Sprache betrachten möchte oder nicht, ändert nicht das geringste daran, dass es sich dabei nicht minder um eine solche Verkürzung und Übersetzung handelt. Salopp: Sprache und Mathematik sind wichtig. Sie sind aber längst nicht das Wichtigste oder Entscheidende und noch viel weniger sind sie das, worauf es im menschlichen Leben ankommt. Dies kann letztendlich nur jeder einzelne Mensch für sich selbst entscheiden. Wie bereits angedeutet handelt es sich hier bei dem Grad an Komplexität der beim Blick auf den Menschen angewendet wird um einen wesentlichen Aspekt in dem sich Bildungsverständnisse voneinander unterscheiden. Dabei kann und muss man deutlich sagen, dass der aktuelle Trend Bildung verstärkt als eine starke Ausprägung quantitativ empirisch messbarer Fähigkeiten auffasst. Ein einfaches Beispiel hierfür sind die immer wiederkehrenden PISA-Studien, die von vielen Forschern zur Beweisführung ins Feld geführt werden. Dies bedeutet nichts anderes als bestimmte Fähigkeiten bzw. einen bestimmten Wissensbestand eines Menschen für wesentlich zu erklären und damit aber den Menschen letztlich in Bildungsfragen auch auf diese Aspekte zu reduzieren. Dies ist ein direkter Widerspruch zu dem Bildungsverständnis das normalerweise in besonderer Weise mit Humboldt verbunden wird und Bildung als Ausdruck eines geistigen Vorgangs betrachtet, der
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den Menschen als Ganzes umfasst und betrifft. Hier sei angemerkt, dass Humboldt dieses Verständnis gewiss nicht als erster herausgearbeitet hat. Vielmehr geht es unter dem Begriff bildung(e) zurück auf die Mystik des 13. Jahrhunderts, vor allem auf Tauler, Seuse und Meister Eckhart. Es handelt sich dabei um einen terminus technicus der imago-Dei-Lehre. Diese Anmerkung dient dabei aber nicht nur historischer Vollständigkeit bzw. Korrektheit, sondern bewegt sich auf einer sehr viel tiefer gehenden Bedeutungsebene. Der Begriff der Bildung entstammt nämlich einer Auffassung in der Gottebenbildlichkeit nicht nur ein anthropologisches Kriterium darstellt, sondern untrennbar mit einem ethischen Handlungsauftrag verbunden ist. Kurz: Der Begriff der Bildung entstammt einem Weltverständnis in dem das verantwortliche Handeln gegenüber der Schöpfung, und damit selbstverständlich eingeschlossen auch gegenüber allen Mitmenschen, als untrennbar von diesem Begriff betrachtet werden muss. Wichtig zu betonen ist dabei, dass damit eben nicht gesagt ist, dass das eher moderne Bildungsverständnis und das eher ursprüngliche Bildungsverständnis absolut unvereinbar wären. Denn dieses ursprüngliche Verständnis lehnt keineswegs jene Prozesse ab, die man im heutigen Zeitgeist als Wissens- und Kompetenzerwerb bezeichnen würde. Analog zur vorherigen Aussage über die Schwerpunktsetzungen wissenschaftlicher Methoden kann man sagen, dass das ursprüngliche Bildungsverständnis diese Aspekte nicht verneint, sondern nur betont, dass sie nicht das entscheidende Kriterium sind und schon gar nicht alles, worauf es ankäme. Man könnte auch sagen, dass das moderne Verständnis ein Teilbereich des ursprünglichen Verständnisses darstellt und dieses auf jene nun betonten Aspekte reduziert. Die mit einer solchen Reduktion verbundenen Probleme zeigt unter anderem auch Adorno in seiner Theorie der Halbbildung auf. Er übt dabei wesentliche Kritik an der Spezialisierung von Wissenserwerb und bezieht dieses Phänomen in besondere Weise auf die Wissenschaften, die er damit auch in die Verantwortung nimmt. Damit dass nur noch in einem speziellen Bereich Wissen erworben wird (z.B. in bestimmten Disziplinen mit bestimmten Methoden), dafür dort aber sehr viel und sehr spezielles Wissen, wird der Prozess der Bildung jedoch nicht
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vorbereitet. Im Gegenteil: Diese Spezialisierung führt dazu, dass der Eindruck entstehen kann, man wüsste schon worauf es ankommt, wenn man sich in seinem eigenen Feld besonders gut auskennt und sich genau aus dieser Haltung heraus der Auseinandersetzung mit für einen selbst wenig bekannten Feldern verwehrt. Salopp: Wenn man sich im eigenen Gebiet gut auskennt ist die Gefahr sehr groß, dass man das eigene Gebiet für den besten Zugang zur Wirklichkeit hält und sich genau deshalb mit anderen Gebieten nicht genauer befasst. Man betrachtet einen Menschen mit einer anderen Sichtweise als der eigenen nicht als interessante und wertvolle Bereicherung, sondern als jemanden der nicht verstanden hat, worauf es ankommt: Nämlich das eigene Gebiet und sich darin auszukennen. Adornos kritische Theorie der Halbbildung ist dabei natürlich längst nicht die einzige Kritik an Engführungen und Verkürzungen des ursprünglichen Bildungsverständnisses. Es soll an dieser Stelle aber als prototypischer Vertreter genügen. Zusammenfassend lässt sich also festhalten, dass Bildung ursprünglich ein Begriff ist, der Ausdruck eines geistigen Vorgangs und untrennbar mit einem ethischen Handlungsauftrag verbunden ist und der sich an den Menschen als Ganzen richtet. Modernere Bildungsverständnisse zeigen den Trend auf das ursprüngliche Verständnis auf die Aspekte des Wissens- und Kompetenzerwerbs zu reduzieren. Dabei wäre es falsch zu behaupten, dass strukturelle Unterschiede zwischen den Bildungsverständnissen bestehen würden. Vielmehr neigen moderne Bildungsverständnisse dazu das ursprüngliche Bildungsverständnis auf eine darin enthaltene Struktur zu verkürzen und andere ebenso darin enthaltene Strukturen auszublenden. Damit einher geht die Gefahr auch den Menschen an sich in einer sehr reduktionistischen Art und Weise zu betrachten, was wiederum zu einem Eskalationsfaktor für Konflikte werden kann. Mit diesem letzten bislang nur angedeuteten Aspekt, und warum dieser so wichtig für den Unterschied zwischen Gewalt und Gewaltlosigkeit ist, soll sich nun im Folgenden genauer beschäftigt werden.
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2. Was ist Gewalt? Der Begriff der Gewalt ist gewiss in keinem geringeren Masse diskutiert, als der der Bildung. Auch hier würde es wenig Sinn machen an dieser Stelle sämtliche Facetten darstellen zu wollen. Davon wäre aber auch keinerlei Erkenntnisgewinn zu erwarten. Vielmehr sollen zwei wesentliche Aspekte der Gewaltforschung hervorgehoben werden um letztlich den Zusammenhang mit den Grundaussagen über unterschiedliche Bildungsverständnisse herzustellen. Dabei handelt es sich zum einen um die bislang beschreibbaren Formen von Gewalt und zum anderen um den vom Verfasser in seiner Theorie eingeführten Begriff des Nur-Noch-Prinzips. Bislang gibt es fünf beschreibbare Phänomene, die gleichsam als Ausdrucksformen verstanden werden in denen Gewalt Wirkung entfaltet. Zunächst wäre da die psychische Gewalt. Dabei handelt es sich um alle absichtsvollen Verletzungen des menschlichen Körpers. Der Aspekt der Absicht ist dabei insofern von Bedeutung, da man damit die Abgrenzung von Unfällen aufzeigen kann. Die Verletzung bzw. Schädigung des Körpers eines Menschen kann dabei auf direkte aber auch auf indirekte (mit Waffen, Gegenständen, aber auch durch die Vernachlässigung von versorgungsbedürftigen Menschen) Weise geschehen. Diese Gewaltform ist vor allem für die juristische Perspektive von besonderer Relevanz. Psychische Gewalt bezeichnet alle Formen von Gewalt, die keine offensichtliche Verletzung bzw. Schädigung des menschlichen Körpers zur Folge haben. Vielmehr handelt es sich um Verletzung des Selbst bzw. Selbstbewusstsein eines Menschen. Prototypisch dafür sind die Phänomene Mobbing und Bullying. Dabei ist es jedoch wichtig zu betonen, dass auf psychosomatischem Wege diese psychischen Verletzungen sehr wohl auch zu lebensbedrohlichen Schädigungen bzw. Erkrankungen des menschlichen Körpers führen können. Sehr nahe an dieser Form, dennoch nicht völlig identisch mit ihr, ist die subtile Gewalt. Prototypisch dafür ist das Phänomen der Emotionalen Erpressung. Dieses Phänomen findet man vor allem in Paar- und Familienbeziehungen, also menschlichen Beziehungen, die sich durch
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eine starke emotionale Bindung auszeichnen. Emotionale Erpressung benutzt nun genau diese starken Gefühle um einen Menschen zu einem gewünschten Verhalten zu bewegen. Schwache Formen kommen zum Ausdruck in Sätzen wie: Wenn du mich wirklich lieben würdest, dann würdest du dein Verhalten ändern. Schwerwiegende Formen sind Drohungen wie: Wenn du mich verlässt, fackle ich das Haus ab. Wichtig zu betonen sind dabei vor allem zwei Dinge: Zum einen, geschieht dieses Ausüben von emotionalem Druck und die damit verbundenen Verletzungen nur selten in schädigender, sondern meistens in bester Absicht. Zum anderen sind die Folgen für die davon Betroffenen nicht minder gravierend, als jene die bei psychischer Gewalt auftreten. Besonders prekär dabei ist, dass häufig das Opfer bei dieser Gewalt sogar die Sichtweise des Erpressers teilt bzw. von dieser überzeugt wird und sich tatsächlich als hauptverantwortlich für das Verhalten des anderen wahrnimmt. Dies ändert jedoch nicht das Geringste an den schwerwiegenden Folgen. Man kann sehr wohl sagen, dass es sich bei dieser Gewaltform um die wahrscheinlich alltäglichste und durchaus auch gefährlichste Form von Gewalt handelt. Besonders gefährlich ist sie unter anderem deshalb, da sie meist nicht als Gewalt erkannt wird, sondern vielmehr als normal betrachtet wird und letztlich die daraus entstehenden Folgen (z.B. auftretende Erkrankungen) auf andere Aspekte zurückgeführt werden. Strukturelle Gewalt ist im Gegensatz zu den anderen Formen von Gewalt, die einzige Form deren begriffliche Prägung auf eine konkrete Person zurückgeht, nämlich auf Johan Galtung. Unter struktureller Gewalt werden alle Arten gesellschaftlicher Zustände verstanden, die eine gewaltsame Wirkung entfalten können. Dazu zählen z.B. schlechte Arbeitsverhältnisse wie befristete Verträge mit niedriger Entlohnung, starke Umwelt- und Lärmbelastungen in beengten Wohnverhältnissen, usw. Diese Form der Gewalt weist dabei die Besonderheit auf, dass sich kein konkreter Täter identifizieren lässt bzw. handelt es sich bei identifizierbaren Tätern nicht um einzelne Personen, sondern um Institutionen, Konzerne, usw. Legitime/nicht-sanktionierte Gewalt ist die letzte beschreibbare Gewaltform. Diese zeichnet sich entgegengesetzt zur strukturellen Gewalt
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dadurch aus, dass sie unterschiedlichste Erscheinungsformen annehmen kann, jedoch immer ein und denselben Täter aufweist: Das Abstraktum des Staates. Es handelt sich dabei also um alle Gewaltformen, die unter dem staatlichen Gewaltmonopol durch Polizei, Justiz, Militär, usw. verübt werden und genau deshalb selbst nicht sanktioniert werden und somit als legitim erklärt werden. Betrachtet man diese Gewaltformen, so ist relativ schnell ersichtlich, dass diese sich zwar durchaus unterscheiden, aber eben nicht wirklich voneinander trennen lassen. So ist es nur allzu offensichtlich, dass jede Form physischer Gewalt auch immer mit psychischen Verletzungen einhergeht oder auch dass erlebte psychische und/oder strukturelle Gewalt zum Quell physischer Gewalt werden kann, die von dem dann gewalttätig Handelnden quasi als Vergeltung für die Gewalt gesehen wird, die ihm selbst – z.B. durch verbale Demütigungen – widerfahren ist. Dennoch gibt es durchaus das Plädoyer innerhalb der Gewaltforschung für den so genannten engen Gewaltbegriff, der gleichbedeutend damit ist, nur die physische Gewaltform als Gewalt zu betrachten. Diese Forderung könnte bestenfalls zu analytischen Vereinfachungen führen, sie ist jedoch angesichts der Verflechtungen der Gewaltformen und der damit verbundenen Untrennbarkeit zurück zu weisen. Etwas überspitzt, aber keineswegs wirklichkeitsfremd und in Anlehnung an die obige Diskussion, käme dies dem Versuch gleich zu erklären, dass Menschen nur dann sprechen, wenn sie sich einer bestimmten Sprache bedienen. Ob man dies nun für die Originalsprache oder die exakteste Sprache erklärt, sei dahingestellt und ist letztlich auch irrelevant im Hinblick auf die unvermeidliche Zurückweisung dieser Auffassung. Sehr viel wichtiger als die letztlich auf begriffliche und damit sprachliche Feinheiten abzielende Diskussion über unterschiedliche Bezeichnungen vermeintlich unterschiedlicher Gewaltformen ist die Frage, was diese Gewaltformen gemeinsam haben und somit was die gemeinsame Charakteristik ist. Alle Gewaltformen sind stets gekoppelt an eine extreme Reduzierung der Komplexität sozialer Realität und der Gesamtheit eines oder mehrerer Menschen. Einmal mehr begegnet einem auch in diesem Forschungsfeld die besondere Bedeutung von Engführungen und Reduktionen. Hier macht jedoch genau dieses Phä-
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nomen den entscheidenden Unterschied aus. Der Verfasser hat im Rahmen seiner entwickelten Theorie dafür den Begriff Nur-Noch-Prinzip eingeführt. Einfach ausgedrückt: Je mehr von der Gesamtheit der menschlichen Wirklichkeit nur noch ein einzelner Aspekt wahrgenommen wird (z.B. die eigene Muttersprache) und je mehr ein anderer Mensch nur noch auf einen einzigen Aspekt reduziert wird (z.B. dass er diese Sprache nicht beherrscht) umso stärker ist das Zusammenleben von der Gefahr gewaltsamer Handlungen geprägt (z.B. die Ausgrenzung und Herabwürdigung dieses Menschen). Dieses Nur-Noch-Prinzip, das sich als ultimative Reduktion von Komplexität verstehen lässt, ist mit allen Arten von Gewalt verbunden. Einige wenige Beispiele seien hier kurz angeführt. So sind z.B. extrem traumatische Erfahrungen damit verbunden, dass das traumatisierende Ereignis immer und immer wieder in so genannten Flashbacks durchlebt wird. Gewissermaßen dreht sich das eigene Leben und Erleben mehr und mehr nur noch um ein spezielles Ereignis und dies führt nicht selten zu Rachephantasien bezogen auf diese Person, die für dieses Ereignis als verantwortlich angesehen wird. Bei allen Phänomenen der Kindesmisshandlung sind diese immer damit verbunden, dass die Gesamtheit des Kindes nur noch auf einen Objektstatus reduziert wird. Insbesondere bei sexueller Kindesmisshandlung wird das Kind nur noch auf seine körperlichen Merkmale, die beim Täter Erregung verursachen, reduziert und das Leben und Erleben des Täters kreist mehr und mehr nur noch um die Phantasie der Tat bis diese umgesetzt wird. Bei so genannten Familientragödien handelt es sich um Phänomene bei denen es dazu kommt, dass ein Ehepartner den anderen ermordet und sich danach selbst das Leben nimmt. Dies basiert nur allzu häufig darauf, dass ein Partner die Trennung wollte. Auch diese Phänomene sind nicht denkbar ohne dass der ausübende Täter mehr und mehr den Partner und die Partnerschaft nur noch unter der drohenden Trennung wahrnimmt. Bei den so genannten Amokläufen bzw. school shootings lässt sich in allen gut dokumentierten Fällen aufzeigen, dass die Täter nur noch diese eine Alternative gesehen haben und diese Taten in direktem Zusammenhang (eine weitere untrennbare Verflechtung!) mit erlebten Demütigung bzw. traumatischen Erfahrun-
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gen betrachtet werden müssen. Besonders deutlich wird dies auch bei der Betrachtung gängiger Feindbildmetaphern. Interpretationsmuster und Propaganda, die darauf abzielen eine bestimmte Menschengruppe zum bösartigen Feind zu erklären basieren alle darauf, dass diese Menschengruppe nur noch auf einen einzigen Aspekt (z.B. die Hautfarbe) reduziert werden, der wiederum nur noch auf eine einzige Art und Weise interpretiert wird (z.B. als bedrohlich). Bei Kriegsmassakern sind die konkreten Anordnungen und Durchführungen der Taten ebenso ohne diese ultimative Reduktion von Komplexität nicht denkbar. So wurden z.B. die handelnden Soldaten der Erschießungskommandos im Dritten Reich explizit darauf getrimmt sich nur noch als ausführender Teil einer Befehlskette zu betrachten und von den Opfern nur noch den Teil des Nackens wahrzunehmen auf den sie zielen sollten. Es ließen sich noch viele weitere Beispiele anführen, diese sollen aber genügen um zum einen aufzuzeigen, wie der Begriff des Nur-Noch-Prinzips zu verstehen ist und warum dieser tatsächlich als wesentliches Charakteristikum an vermeintlich sehr unterschiedliche Ausübungen von Gewalt gekoppelt ist. Zusammenfassend lässt sich hier festhalten, dass ebenso wie bei der wissenschaftlichen Auseinandersetzung mit dem Phänomen der Bildung auch bei der wissenschaftlichen Auseinandersetzung mit dem Phänomen der Gewalt Tendenzen festzustellen sind, das komplexe Gesamtphänomen in der begrifflichen Analyse auf eine bestimmte darin enthaltene Struktur zu reduzieren - und andere nicht minder relevante auszublenden. Zudem ist genau dieses spezielle Phänomen der Reduktion auf eine einzige Struktur bzw. ein einzelnes Element bzw. einen einzelnen Aspekt das wesentliche Charakteristikum, das stets an das Phänomen der Gewalt in all seinen Erscheinungsformen gekoppelt ist. Im Folgenden soll nun abschließend noch einmal der konkrete Zusammenhang zwischen Bildungsverständnis/sen und Gewalt/losigkeit dargestellt werden.
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3. Woran misst man ein gelingendes Leben? Die am Beginn aufgeworfene Doppelfrage lässt sich nun recht kurz und prägnant beantworten. Gibt es einen Zusammenhang zwischen Bildugnsverständnis/en und Gewalt/losigkeit? Ja, definitiv. Wie genau gestaltet sich dieser? Er bewegt sich auf einer Metaebene, präziser in der Charakteristik der zugrundeliegenden Wahrnehmungs- und Interpretationsmuster. Der Zusammenhang ist in der Art und Weise zu lokalisieren, wie ein bestimmtes Weltbild entsteht. Das ursprüngliche Bildungsverständnis repräsentiert eine sehr komplexe Art und Weise sich ein Bild vom menschlichen Leben zu machen. Der Mensch sollte als Ganzes betrachtet werden. Dies bedeutet sowohl in der Gesamtheit seines Wesens, als auch in der Veränderung dieses Wesens und damit über die Lebensspanne hinweg. Eine solche komplexe Sichtweise kann im Hinblick auf den Unterschied zwischen Gewalt und Gewaltlosigkeit sehr deutlich in einen Zusammenhang mit Gewaltlosigkeit gebracht werden. Modernere Bildungsverständnisse sind vor allem durch eine Verkürzung des komplexen Verständnisses auf eine bestimmte Struktur gekennzeichnet. Genau diese Charakteristik der Verkürzung und letztlich die damit verbundene Gefahr der Verabsolutierung repräsentieren die wesentliche Charakteristik an die Gewalt an sich gekoppelt ist. Daraus kann man zwar nicht zwingend ableiten, dass moderne Bildungsverständnisse gewaltaffin wären. Sie sind aber auch definitiv nicht als Widerspruch zu gewaltsamen Tendenzen deutbar. Komplexere Bildungsverständnisse – wobei es sich natürlich nicht zwingend um das ursprüngliche Verständnis halten muss – können wiederum sehr wohl als aktive Gegenwirkung zu gewaltsamen Tendenzen betrachtet werden, weil sie einen Blickwinkel auf das menschliche Leben anlegen, der sich nicht mit der zentralen Charakteristik von Gewalt in Einklang bringen lässt. In aller Kürze zusammengefasst: Komplexe Bildungsverständnisse (wie z.B. das ursprüngliche) fördern eine Wahrnehmung und Interpretation der Welt, die eher als Nährboden für Gewaltlosigkeit fungiert. Verkürzende Bildungsverständnisse fördern eine Wahrnehmung und Interpretation der Welt, die eher als Nährboden für Gewalt fungiert.
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Komplexe Bildungsverständnisse orientieren sich eher am Leitbild eines gelingenden Lebens, während modernere Bildungsverständnisse sich eher am Leitbild der Messbarkeit orientieren. Dass es sich hier um zwei unterschiedliche Facetten eines großen Gesamtbildes handelt, sowie dass diese keineswegs unvereinbar sind, lässt sich an einer einzigen Frage abschließend demonstrieren, die für jeden einzelnen Menschen Relevanz besitzt: Woran misst man ein gelingendes Leben? Die deutliche Antwort: Dies kann nur jeder einzelne Mensch selbst und zwar in den letzten bewussten Momenten, wenn der Tod kommt. Jeder Mensch selbst ist einzig und alleine dazu in der Lage, im Moment des Todes auf sein Leben zurückzublicken und zu beurteilen ob es gelungen ist. Daraus ergibt sich eine deutliche Forderung an die Wissenschaften. Wenn Wissenschaften dazu fähig sein wollen einzelne Menschen auf die Zukunft vorzubereiten, dann ist es unvermeidbar, dass sie sich mit der einzigen echten Gewissheit des menschlichen Lebens vertieft auseinander setzen: dem Tod. Der Tod und die durch seine alltägliche Gegenwart gestellte Frage, ob man Frieden mit sich und seinen Mitmenschen schließen kann wenn es soweit ist, ist ein Thema dem sich kein Mensch sein ganzes Leben lang entziehen kann. Dies mag sogar durchaus das einzige Thema mit diesem Potential sein: Tatsächlich jeden einzelnen Menschen anzusprechen und somit ein wahrhaft gemeinsames Thema aller Menschen zu sein. Zudem könnte es ein wertvoller Beitrag zu einer friedlicheren Gesellschaft sein, wenn sich Menschen bewusst wären, dass die Art und Weise wie sie mit ihrem Gegenüber umgehen sehr wohl das letzte sein könnte was dieser Mensch in seinem Leben erlebt bzw. was sie selbst in ihrem Leben tun. Der Tod und seine elementare Bedeutung für das menschliche Leben im Hier und Jetzt übersteigen bei weitem alle Grenzen des Versprachlichbaren, inklusive des darin enthaltenen Konfliktpotentials.
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Michele Indellicato* Conoscenza, ricerca e sviluppo: una sfida etica e formativa della persona nel contesto planetario del terzo millennio Knowledge research and development: an ethical and educational challenge of the person in the planetary context of the thìrd millennium. Knowledge, research and development cannot be separated from the ethical contributions towards an educational process that respects the dignity of the person and his foremost values, especially in a time such as our own when there is an increasing educational emergency. Focusing on the idea of the person as a reality to shape and to educate, as a project to develop with freedom, courage and responsibility, is the actual challenge for the complex society of the third millennium as it moves towards the processes of cultural globalisation. If ethically oriented and directed towards today’s knowledge society and if capable of being a true existential and cultural challenge, the educational process can become an existential regulator and, therefore, defend the subject-person and his inalienable rights. Thus, ethics and education alike ought to avoid the looming threat of an helplessly objectified, standardised and depersonalised mankind, in order to foster the development of critical and creative intellectual faculties capable of constituting a precious resource for the knowledge and promoting actual abilities of the younger generations and their social lives. La conoscenza, la ricerca e lo sviluppo non possono prescindere dal contributo dell’etica per un processo formativo che rispetti la dignità della persona e i valori che la costituiscono, in un tempo, come il nostro, di grande emergenza educativa1. Prof. di Filosofia Morale nell’Università degli Studi di Baris. Per un approfondimento del dibattito sulle urgenze ed emergenze educative, cfr. CEI, La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari 2009. Il libro è interessante perché fornisce, oltre che un rapporto, anche una proposta di linee orientatrici ∗ 1
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L’accumulo delle conoscenze è certamente positivo se queste ultime sono a servizio dell’umanità e dell’uomo stesso nell’espressione di tutte le sue potenzialità, un uomo che rimane pur sempre un mistero nonostante le svariate conoscenze del nostro tempo. Heidegger ha affermato che nessuna epoca, quanto la nostra ha accumulato sull’uomo conoscenze così numerose e diverse, tuttavia nessuna epoca è riuscita a rendere questo sapere così prontamente e socialmente accessibile e ha saputo meno che cos’è l’uomo2. È innegabile infatti che l’umanità attuale, destituita di basi culturali solide, e più specificamente educative e morali valide, navighi nell’abisso del “nichilismo”. La “società del benessere”, consumistica, edonistica e dello sviluppo ad ogni costo, sotto lo splendore apparente e seducente, analizzata a fondo, non può nascondere la situazione dell’uomo del nostro tempo, che è quella di un “naufrago sperduto in un oceano sconfinato, privo della bussola di orientamento, sotto un cielo senza stelle”. Quest’amara diagnosi di Heidegger, che parla del nostro tempo come la “mezzanotte del mondo” è documentata criticamente dal poderoso lavoro che, partendo da Platone, attraverso Descartes, Kant, Hegel, Nietzsche, giunge ai nostri giorni con il trionfo e l’assolutizzazione della tecnica, eretta a unico criterio di verità, di valori, di giudizio teoretico e pratico. Ritorna in modo prepotente la domanda che già Kant si era posto nella Critica della Ragion Pura: Was ist der Mensch? L’interrogazione sull’uomo ha sempre impegnato l’intelligenza umana in tutte le sue espressioni: dall’arte alla religione, alla filosofia; dalla politica alla scienza, alla psicologia, alla pedagogia, al diritto.
1. Conoscenza e ricerca. La sfida etica e formativa Anche Pascal s’interroga sul mistero dell’uomo e dell’umano esprimendo tutto l’infinito stupore dell’uomo di fronte all’uomo. La stessa e anche di correzioni di rotta sull’educazione, riflettendo al tempo stesso su alcune fondamentali questioni antropologiche del nostro tempo. 2 Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 2009.
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scienza moderna è un sapere che ci dice come è fatto il mondo, del fine e del senso della vita non ci dice nulla. «Noi sentiamo, scrive Wittgenstein, che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure toccati»3. La verità scientifica, afferma Husserl, è esclusivamente una «constatazione di ciò che il mondo, sia il mondo psichico sia il mondo spirituale, di fatto è»4. Il risultato è che «le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto»5, ossia uomini inconsapevoli del telos della loro esistenza. Recentemente il noto scienziato Zichichi ha affermato che «della nostra esistenza immanentistica, studiata in modo rigoroso dalla scienza, sappiamo molto. Moltissimo. Siamo però lungi dall’aver capito tutto. Un’immensa vastità di problemi sfugge totalmente alla nostra comprensione»6. L. Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus, tr. it., Torino 1974, prop. 6.52. 4 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1961/2002, p. 36. 5 Ivi, p. 35. Si può dire che già Weber, nella sua nota conferenza dal titolo La scienza come professione, tenuta all’Università di Monaco nel 1919, presenta una concezione della cultura suscetttibile di essere riattualizzata. La figura weberiana del professionista intellettuale anticipa di un decennio circa l’idea husserliana del “filosofo”, inteso come “funzionario dell’umanità europea” quale è destinato ad apparire nel ciclo di conferenze tenute da E. Husserl a Vienna e a Praga, dal titolo La crisi delle scienze europee del 1935. Weber si sofferma sulla figura dell’intellettuale che viene a rappportarsi con l’idea di scienza che prevale nel suo tempo. A tal proposito scrive: «Al giorno d’oggi ciò che determina l’atteggiamento interiore di chi esercita la scienza come professione è soprattutto la considerazione che la scienza ha ormai raggiunto un livello di specializzazione sconosciuto in precedenza, insieme alla convinzione che questo stato di cose in futuro non cambierà» (M. Weber, La scienza come professione, cit., p. 75). Weber pensa l’intellettuale come una figura leader che è chiamata a essere il vertice della cultura di un popolo e di una nazione; il filosofo-sociologo si interroga sulle questioni di senso a cui la scienza non potrà mai rispondere. La preoccupazione di Weber è quella di trovare un accordo tra la scienza e la vita e quindi di evitare che l’intellettuale sia al di fuori del contesto storico-sociale dell’esistenza umana. 6 A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo. Tra Fede e Scien3
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L’uomo, insomma, rimane questo sconosciuto nonostante l’accumulo delle conoscenze in ogni campo del sapere e, unitamente a tale consapevolezza, vi è anche lo stupore per le grandezze del pensiero umano. Di fronte a ciò, i saperi si interrogano e cercano risposte, assumendo quasi come presupposto che «ogni uomo porta in sé l’intera forma della condizione umana»7. Si impone oggi la necessità di non isolare la conoscenza scientifico in una forma di chiusa autonomia e di sterile esclusività, ma di collocare tale sapere rigoroso entro un contesto più ampio, accogliendo la sfida della complessità (da cum plexus = tessere insieme), capace di leggere le complesse ragioni esistenziali e spirituali tendenti al trascendente, e così meglio comprendere la conoscenza dell’uomo e dell’umano. Le conseguenze dell’assolutizzazione della scienza e della tecnica sono la resa incondizionata al concetto ridotto della vita proprio della scienza, un concetto senz’altro senso né significato se non quello riduttivo di un’ottica puramente funzionale. Le nuove teorie scientifiche, rispetto alle teorie unilaterali che hanno avvilito la dignità umana, e che per secoli hanno dominato il campo del sapere (basti pensare al meccanicismo, al determinismo, al positivismo e neopositivismo), limitando le pretese monopolizzanti e assolutizzanti del dogma scientista, hanno prospettato la scienza come sapere limitato, fallibilista, per dirla con Popper, progressivo e aperto. Si può affermare che le conquiste più rilevanti della scienza hanno messo in evidenza la sua natura “umanistica” e non di mero “dato oggettivo”. La grandezza delle conquiste scientifiche è indice della grandezza dell’uomo, del soggetto umano che fa scienza, obliato e “ignorato”, dalla scienza positivistica, che valorizzava solo l’“oggetto” e il dato. È venuta così alla luce una nuova dimensione della scienza: “la scienza è per l’uomo”, sotto tutti i suoi aspetti e soprattutto per i tanti benefici che essa apporta all’umanità. Ed è l’uomo che dà valore alla Terra, la utilizza, la spiritualizza, sicché egli sulla “Natura” instaura una za, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 133. 7 M. Montaigne, “Del pentirsi”, in Saggi, vol. 2, Adelphi, Milano 2007, p. 1068.
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“seconda Natura”: la civiltà, il progresso, il “regnum hominis”, che ne costituisce lo splendore e l’orgoglio. L’educazione e la morale devono svolgere un ruolo di richiamo alla responsabilità sia nei riguardi della Natura che dell’uomo stesso, supportando un codice deontologico che sia spendibile per il bene della persona, della comunità e dell’umanità tutta, affinché vengano riconosciuti dignità e valore all’uomo, in ragione del suo essere autocosciente, libero, responsabile e spiritualmente incommensurabile perché partecipa del divino. La sfida della globalità è oggi una sfida della complessità, è una sfida culturale perché gli sviluppi di questo inizio del terzo millennio ci mettono di fronte sempre più ad una sfida planetaria che è innanzitutto di natura etica ed educativa. Siamo convinti, scrive Frabboni, che l’educazione – se diffusa sull’odierna società della conoscenza […] e se fatta valere come una “sfida” esistenziale e culturale – possa fungere da regolatore esistenziale […]. In quanto “sfida” verso gli attuali processi di globalizzazione culturale, l’educazione (a patto che indossi abiti “copernicani”) può fungere da dispositivo del soggetto-persona»8. Il nostro sistema formativo, purtroppo, invece di connettere i saperi e integrarli nei loro insiemi, obbedisce a logiche riduzionistiche, certamente non favorendo la formazione dei giovani a saper contestualizzare i saperi, non fortificando di conseguenza le possibilità di una conoscenza pertinente e non favorendo l’espressione piena delle potenzialità di ciascuno. La specializzazione è importante ma non può essere conseguita a costo di perdere una visione unitaria e olistica della cultura e della conoscenza. «La nostra attuale università forma in tutto il mondo una proporzione troppo grande di specializzati in discipline predeterminate, dunque artificialmente circoscritte, mentre una gran parte delle attività sociali, come lo sviluppo della scienza, richiede uomini capaci di un angolo visuale molto più largo e nello stesso tempo di una messa F. Frabboni, Emergenza educazione. L’incubo del pensiero unico, in Atti del XXVI Convegno Internazionale di Studi Italo-Tedeschi, Die Erzichung in dritten Jahrtausend im Blick auf Europa: Komplexität, Werte, Wissenschaft, Hauger Druckrei, Meran 2004, p. 59. 8
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a fuoco in profondità dei problemi, e richiede nuovi progressi che superino i confini storici delle discipline»9. La stessa ricerca deve rendersi conto delle condizioni storiche della cultura al cui progresso intende dedicarsi. C’è bisogno per un significativo progresso della ricerca, che questa sia supportata da passione e da idee geniali. Scrive Weber: «Per l’uomo in quanto tale non ha nessun valore ciò che egli non è capace di fare con passione. Di fatto, però, per quanto grande sia questa passione, per quanto genuina e profonda essa sia, il risultato non può essere estorto con la forza. La passione è solo una condizione preliminare del fattore decisivo, che è invece l’“idea geniale”»10. Weber interpreta l’idea geniale in un contesto che non appartiene né alla psicologia dello scienziato né alla storia delle scoperte scientifiche, ma soprattutto deriva da un approccio etico-filosofico al sapere scientifico stesso.
2. Il pensiero pluralistico e la complessità della condizione umana Non possiamo affidarci solamente al sapere scientifico, di per sé insufficiente per la comprensione dei problemi della vita e dell’Universo, che non può essere certamente considerato solo nella sua immanente complessità, ma anche nel suo valore “ontologico” e, diciamo pure, teologico, perché la mente umana non si limita all’immediatezza, ma risale al Principio adeguato che unicamente può giustificare l’universo che ci è dinanzi e nel quale viviamo. Si ha bisogno oggi di una riforma del pensare che tenga conto della complessità e della globalizzazione, «una riforma del pensiero più che fondarsi sul patrocinio gratuito di un solo sapere: tecnico, scientifico, biologico delle scienze umane, ha bisogno di un punto di raccordo che abbiamo definito condizione umana»11. La nostra intelligenza non è asettica né neutrale: è intelligenza di uomini, E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, R. Cortina, Milano 2000, p. 5. 10 M. Weber, La scienza come professione, cit., p. 77. 11 M. Signore, La riforma del pensiero fra complessità e globalizzazione, in Atti del XXVI Convegno Internazionale di Studi Italo-Tedeschi, cit., p. 19. 9
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di persone viventi nella condizione umana. La neutralità dell’esistenza è insostenibile, perché essa non è specchio in cui si riflette lo spettacolo del mondo, ma è strettamente legata al vissuto della totale esperienza umana, ad un corpo, ad una storia, in un tempo. La persona è impegnata in un’esistenza concreta con tutti i suoi atti, quindi anche con gli atti conoscitivi. Emerge così il bisogno di un recupero della centralità dell’esistenza della persona, un recupero fenomenologico della stessa dall’esperienza, come realtà che balza dal vissuto, come realtà complessa e non riducibile ai soli schemi della ragione. L’esperienza va concepita come slancio, come Ursprung, per dirla con Jaspers, come originarietà inogettivabile. Si tratta di liberare e rimeditare, con una intelligenza operativa e creativa, le effettive possibilità di conoscenza e di orientamento sensato degli uomini come singoli e come comunità, nelle complesse vicende dell’esistenza, senza cedere a tentazioni riduzionistiche. Vi è necessità, inoltre, di un pensiero aperto e in tensione immanente verso la fede che a sua volta ha qualcosa da annunciare al pensiero umano. L’oggi è la fonte del problema, il vissuto umano cui aderire per interpretarlo correttamente; ed è in esso che risuona la necessità di una ripetizione del problema dell’essere, costitutivo dell’oggi stesso, secondo modalità inedite che costringono pensatori, credenti e non, in nome dell’umano, a considerare, con spirito critico e libero da pregiudizi, il progressivo sviluppo della conoscenza e della ricerca. Solo un pensiero non unico, ma dinamico e plurale, “un pensiero ecumenico”, come direbbe Gadamer, aperto al dialogo e al confronto, può rendere un servizio all’umanità per una comprensione non unilaterale della complessità dell’esistere umano e per una filosofia che sia sapienza di vita. Il pensiero è “mediazione”, “rivelazione”, “ingaggiamento” dell’Essere stesso. «Denken, scrive Heidegger, ist l’engagement par l’Être pour l’ Être»12. M. Heidegger, Brief über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt 1949, p. 5. L’essenza originale del pensiero dell’Essere è creazione dell’Essere per manifestarsi; l’uomo ne è semplicemente il “depositario”, il “custode”. Il par e il pour l’Être non vanno separati, ma tenuti distinti per indicare la complessità e ricchezza del “rapporto”, in quanto l’Essere che “ingaggia il pensiero” è 12
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L’esistenza non è riducibile entro un sistema, perché non è e non può divenire solo oggetto di definizione, simile agli oggetti delle scienze empirico-matematiche. Si può evocarla come “atto libero”, come “surgissement spirituel”, direbbe Mounier, ossia come uno scaturire o zampillare sempre nuovo a partire dal quale “io penso e agisco”13. In tale contesto, crisi del senso e nichilismo attuale non sono i termini di una valutazione o svalutazione sterile dell’oggi; sono le modalità attuali dell’emergenza del problema del senso dell’esistenza umana e della persona, nel quadro del progresso tecnico scientifico moderno, consapevole delle sue elevate potenzialità, ma anche dei suoi limiti. La scienza moderna, infatti, non considera l’ipotesi che il pensiero umano sia attratto da qualche verità oggettivamente prestabilita su cui stabilmente appoggiare. Parte da convinzioni rivedibili e mentre con i suoi progetti, peraltro utili, da un lato esercita una logica puramente funzionalistica e di dominio del mondo e sul mondo, dall’altro provoca gli ineludibili interrogativi circa il senso delle nostre vite umane, che tuttavia non può risolvere. Anche le scienze umane non possono più essere considerate in modo frammentato e separato, e devono spingere verso un ripensamento della stessa visione antropologica, considerata in un’ottica olistica e di unità. «Occorre oggi, per il nostro progetto formativo, una scienza antropo-sociale aperta alla trascendenza, ricoml’agente e il termine finale nello stesso tempo. In sintesi, il pensiero è dall’Essere, dell’Essere, per l’Essere. Il pensiero è mediazione, rivelazione, messaggio dell’Essere, per venire alla “coscienza” dell’uomo. Il pensiero (Denken) dice altrove Heidegger è “dono”, “grazia” dell’Essere stesso per “venire al linguaggio”. Il linguaggio è la casa dell’Essere, l’uomo ne è il custode ed è pastore dell’Essere. 13 Cfr. E. Mounier, Qu’est-c’è que le personnalisme?, in Œuvres, t. III, Paris 1962, pp. 208-209. Mounier scrive: «L’uomo che conosce non è una coscienza pura e apersonale trincerata (retranchée) dell’uomo che agisce e vive. Egli pensa con il suo corpo, con le sue mani, con suo tempo, benché tutto lo sforzo del suo pensiero sia di compenetrare d’eternità, senza mai poterla abbandonare, la sua situazione concreta» (E. Mounier, Feu la chrétienté, in Œuvres III, cit., p. 592). Cfr. anche K. Wojtyła, Persona e atto, tr. it., Bompiani, Milano 2005.
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posta, e che consideri l’umanità nella sua unità antropologica e nelle sue diversità individuali e culturali»14. È necessario, oggi, nella ricerca, allargare gli orizzonti della razionalità, che non può essere più autoreferenziale e non può chiudersi in uno sterile solipsismo, riducendosi a ragione puramente “tecnica”. È doveroso portare nella ricerca l’interrelazione dei saperi e tutte le facoltà umane, principalmente, quella ratio15 che, suprema facoltà dell’uomo, non si ferma all’immediatezza dei fenomeni, ma si eleva all’altezza dei principi che quelli condizionano e sorreggono, e da questi risale alla “Causa ultima”, che dei principi è la mente ideatrice, e con la sua misteriosa e onnipotente azione ha realizzati, dando origine a questo mirabile Universo, che è un poema vivente di leggi rigorose e di sapienza scientifica16. M. Signore, La riforma del pensiero tra complessità e globalizzazione, cit., p. 18. 15 Un’intelligenza incapace di considerare il contesto planetario rende irresponsabili e non consente una visione olistica dei problemi, perché separa il complesso frazionando i problemi stessi. Bisogna tornare all’idea originaria di filosofia «intesa come ragione che si realizza pienamente, quando nel riconoscimento del bene comune, si lascia guidare da un atteggiamento etico (cfr. op cit., pp. 14-15). 16 Cfr. N. Dalla Porta, Scienza, metascienza, metafisica, Cedam, Padova 1994. L’interpretazione monca e unilaterale dell’Universo, che ha oscurato la scienza moderna ha la sua origine nel “meccanicismo” di Descartes che esclude dall’indagine sulla Natura “le cause formali e finali”, non essendo sottoponibili al “calcolo matematico”: unico criterio di oggettività scientifica. Il meccanicismo successivo, per tre secoli, si è nutrito di questo “pregiudizio” sino alla fine del secolo scorso, quando la “crisi dei fondamenti” indusse a rivedere tutte le categorie e metodologie delle scienze, e gli studi di H. Driesch e di W. M. Elsasser e di M. Polanyi, rilevarono l’innegabile funzione del finalismo; sicché oggi, come rileva Ilya Prigogine, il “finalismo” ha acquistato diritto di cittadinanza nella scienza ed è accettata da qualificati ricercatori. Lo stesso Dalla Porta, quasi a titolo di analisi critica della scienza moderna, nel 1990 scriveva che a suo parere nell’intelletto umano operano due categorie di pari importanza: causalità e finalismo. Al tempo stesso si chiedeva come mai la scienza, nel suo sviluppo, si sia basata unicamente sulla causalità, rifiutando il 14
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3. La centralità della persona nel processo di sviluppo Lo sviluppo oggi obbedisce essenzialmente ad una logica di mercato e su questa linea, anche l’educazione, l’istruzione e la formazione, nonché la ricerca, rispondono a questa logica dimenticando la centralità del valore-persona. La stessa didattica, originariamente orientata dalla ricerca e dalla sistematica delle diverse scienze, si lascia sempre più guidare dalle esigenze di qualificazione del mercato. La globalizzazione dei mercati e delle menti sta evidenziando emergenze epocali: dalle povertà economiche e culturali con il forte divario tra Nord e Sud del mondo a quelle educative che in modo trasversale attraversano la Scuola e l’Università. L’Università, un tempo luogo di cultura per eccellenza e deputata ai processi di alta formazione, deve oggi sempre più confrontarsi con un pensiero economico secondo lo schema inputoutput, e l’insegnamento che in essa si svolge è sempre più diviso e frammentato, nella pluralità e diversità dei saperi, e ciò riguarda soprattutto le humanities, ossia le discipline che, più in passato, sostenevano in modo preminente la formazione universitaria. I professori che in esso operano più che prestare attenzione alla formazione vista nell’interezza dell’esperienza umana, divengono sempre più settoriali a discapito di una visione olistica del sapere e sempre più esperti nella gestione degli ultimi ritrovati tecnici: le LIM, le presentazioni tramite diapositive, computer e simulazioni di “realtà virtuali”. Sono così dimenticati, come afferma Ferrarotti, i due classici modelli di Università: quello di Wilhelm von Humboldt, che si fondava sull’unità di ricerca e finalismo, compromettendo a priori, con questa mossa, metà delle sue possibilità conoscitive (cfr. ivi, pp. 48-54). Sul finalismo nella scienza cfr. Aa. Vv., La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985; Aa. Vv., La concezione della natura nella scienza attuale, nella poesia, nella filosofia, Loffredo, Napoli 1994. Utile per comprendere la categoria del finalismo cosmico è l’opera scientifico-filosofica di Teilhard de Chardin e anche l’opera del fisico matematico L. Fantappiè che, contro l’uniteralità meccanicistica scientista, sin dal 1942 pose in campo la categoria del finalismo in un’opera ristampata di recente (cfr. L. Fantappiè, Principi di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, Di Renzo Editore, Roma 1993).
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di insegnamento e quello di John H. Newman, che vedeva l’istituzione universitaria come campus e vita in comune, animata da un bisogno di educazione che mirava allo sviluppo e alla maturazione di una mentalità aperta e di uno spirito critico come criterio di eccellenza17. Le emergenze del nostro pianeta riguardano il lavoro, la casa, il cibo, l’ambiente sostenibile, i diritti fondamentali dell’uomo, ma riguardano pure un’emergenza ormai improcrastinabile: quella educativa. Se lo sviluppo e il progresso terranno in considerazione solo la logica economica per rispondere unicamente agli imperativi del mercato, il processo educativo-formativo diventerà sempre più debole e rinuncerà al ruolo di difesa della persona nelle prerogative più peculiari della inviolabilità e irripetibilità, mentre prenderà il sopravvento l’uomo-massa sempre più omologabile e manipolabile e quindi soggetto a un processo di reificazione. L’inizio del XXI secolo, se da un lato ha visto una crescita della ricchezza complessiva, dall’altro ha generato nuove disparità che hanno inciso in modo rilevante sul livello di coesione sociale. È necessario oggi un cambiamento culturale che faccia emergere lo sviluppo di forti capacità progettuali e una “buona finanza”18, e faccia di conseguenza ripensare il tema dello sviluppo alla luce dell’esperienza della “finanza cattiva” e del richiamo allo “sviluppo come vocazione”, come “appello Cfr. F. Ferrarotti, I criteri di eccellenza nella società industriale di massa, con particolare riguardo all’Università, in Atti del XXVI Convegno Internazionale di Studi Italo-Tedeschi, cit., pp. 172-176. 18 Cfr. F. Angelini, Un’economia civile tra Stato e mercato, Quaderni del Centro Studi Tocqueville-Akton, n. 1, Milano-Roma 2009; L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004 e P. L. Sacco, S. Zamagni (a cura di), Teoria economica e relazioni interpersonali, Il Mulino, Bologna 2006. Cfr. anche le analisi di A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano 2001 e di S. Latouche, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia mondializzata, Bollati-Boringhieri, Torino 2003. L’economia sociale di mercato, inoltre, pone il principio di sussidiarietà come cardine dell’idea di sviluppo. Su questo argomento, cfr. W. Röpke, Democrazia ed economia. L’umanesimo liberale nella civitas humana, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 124-125. 17
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rivolto da uomini liberi a uomini liberi” per una comune condivisione e assunzione di responsabilità etica, riconoscendo che, da una parte, esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo, nella convinzione che solo uno sviluppo inteso in tal senso può aprirsi verso un umanesimo vero e solidale, portatore di valori come la cooperazione, l’uguaglianza, la giustizia capaci di dare così senso e significato a una vita degna di essere vissuta19. Nessuno sviluppo integrale è possibile prescindendo dal principio di responsabilità, sia essa individuale, collettiva, politica e istituzionale. L’etica personalistica non parte da sistemi ideologici e religiosi, non è deduttiva, non nasce da una teoria del sistema morale, ma è la risposta responsabile all’appello che viene dalle situazioni, dal prossimo, dal bisogno dell’uomo intero20. Impegnarsi vuol dire non rimanere neutrali, rischiare e, in molti casi, pagare di persona ed esige da un lato la disponibilità a sacrificare se stessi in vista del raggiungimento di un obiettivo e, dall’altra, la disposizione alla lotta, proprio come ci ricorda San Paolo: “vita militia est”. Il progetto di sviluppo deve vedere coinvolte le singole persone, le comunità, le istituzioni e la stessa società civile che vi opera. Nel processo di sviluppo va fatto salvo «il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dono dello sviluppo»21. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persona in carne ed ossa, per salvaguardarne la dignità e assicurare il minimo vitale e così assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare22. Cfr., Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 16. «È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle» (ivi, n. 35). 20 Sull’etica personalistica ci permettiamo rinviare a M. Indellicato, Etica della persona e diritti umani. La prospettiva del personalismo polacco, Pensa Multimedia, Lecce 2013. 21 Ivi, n. 47. 22 Cfr., Ibidem. «La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. 19
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I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione» (ibidem). Sui temi della centralità della persona e della difesa della sua dignità ci permettiamo rinviare a M. Indellicato, La centralità della persona nel pensiero di Jacques Maritain, Pensa Multimedia, Lecce 2009.
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Donatella Pagliacci*1 Gehlen, Scheler e Plessner sulla questione della educabilità dell’uomo Gehlen, Scheler and Plessner on the educability of man. The task of this article is to reconstruct the anthropological roots of education, reporting, with regard to this issue, some contributions of the founders of the German philosophical anthropology: Gehlen, Scheler and Plessener.
Premessa «Siamo in una foresta vergine nella quale l’unità dell’educazione [Bildung] nazionale è quasi andata perduta. Io sono e non sono nemmeno ritenuto un uomo che sostiene con decisione l’atteggiamento «illuministico» e ancora di meno uno che il pensiero positivista chiama «progresso». Non trovo però altre parole che queste: si è presi da una grande paura a causa della mancanza di libertà e del grigiore che crescono di giorno in giorno; in tale grigio e informe crepuscolo non solo questa e quella terra ma piuttosto quasi tutto il mondo culturale [Kulturwelt] è in serio pericolo di sprofondare e di annegare in modo lento e quasi impercettibile»1. La costatazione con la quale Max Scheler fotografa la condizione culturale a lui contemporanea ci è di aiuto per precisare l’intento di fondo del nostro contributo, nel quale si vorrebbero ricostruire le radici antropologiche dell’educazione, scavando tra le pagine che i padri fondatori dell’antropologia filosofica tedesca dedicano a questo tema. * Ricercatrice - Docente di Antropologia filosofica. Università di Macerata. 1 M. Scheler, Le forme del sapere e la Bildung, Conferenza tenuta alla Scuola superiore Lessing di Berlino, il 17 gennaio 1925, ora in La Bildung ebraicotedesca del Novecento, a cura di Anna Kaiser, Bompiani, Milano 2006 (nuova edizione), p. 178.
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Tre dunque i nuclei tematici nei quali intendo articolare questo breve percorso riflessivo. In primo luogo, si vorrebbe definire la questione educativa con riferimento alla costituzione fondamentale dell’uomo; in secondo luogo occorre misurarsi con i limiti, ma anche le effettive potenzialità dell’essere umano, che è sempre in grado di relazionarsi al mondo in modo creativo e originale; infine, è possibile scoprire il contributo particolare offerto dall’antropologia filosofica in ordine alla definizione di natura umana e a ciò che ne rende possibile la piena realizzazione. Per articolare il primo punto è necessario muovere dal riconoscimento operato da Arnold Gehlen, secondo il quale l’uomo è un essere carente che, grazie alla sua capacità di distanziazione e dal suo ruolo peculiare nell’ordine della natura, può essere definito come un essere da disciplinare (Zuchtwesen). È questa «una caratterizzazione che abbraccia tutto ciò che si può intendere con il termine di morale sotto l’aspetto antropologico: il bisogno di un’educazione, la necessità di una “formazione” in cui versa un “animale non definito”, e della quale l’educazione e l’autodisciplina, e anche l’essere improntati dalle istituzioni entro cui sono padroneggiati i compiti della vita, non sono che gli stadi più appariscenti»2. Inoltre, muovendo dalla questione della educabilità dell’uomo, Gehlen cerca anche di definire i rapporti tra mission educativa e istituzioni. Ma se è vero che l’uomo è questo essere carente, ovvero un progetto incompiuto della natura sia nella sua posizionalità che nella sua eccentricità, è altresì vero che egli manifesta una ineliminabile apertura al mondo, che si rivela come qualcosa di non casuale e indifferenziato, ma orientato, canalizzato verso un principio di autorealizzazione. Ed è proprio su questo punto che riusciamo, grazie alla riflessione antropologica di Scheler, a compiere un altro passo in avanti, dal momento che egli si occupa espressamente del tema della Bildung. È, infatti, in un saggio anteriore alla genesi dell’antropologia filosofica che afferma come, propriamente, «non è lo studio che prepara a qualcosa, al lavoro, A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, trad. di C. Mainoldi, Feltrinelli Editore, Milano 1983, p. 88. 2
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a una materia, a una prestazione di ogni tipo, e la formazione non esiste per questo studio, ma ogni studio che prepara a qualcosa esiste per la formazione, la quale manca di ogni fine esteriore in quanto esiste per l’uomo in sé ben-formato»3. Qui, Scheler sembrerebbe intenzionato ad affermare che solo l’educazione «aduna l’energia necessaria a dirigere se stessi»4, educazione che abbraccia tutta la vita di questa «bestia cupidissima rerum novarum, - come la definisce Scheler - incapace di trovare appagamento nella realtà effettuale circostante, e sempre desiderosa di infrangere quei limiti spazio-temporalmente determinati entro cui gli è data l’essenza e l’“ambiente-proprio”, e che rappresentano anche i limiti della propria autorealizzazione»5. Già da questi brevi cenni preliminari risulta evidente come rispetto al problema educativo, ma più in generale per ciò che concerne la definizione della piena realizzazione dell’umanità dell’uomo, l’antropologia filosofica ha forse ancora qualcosa da dire, come afferma lo stesso Plessner nel suo Die Aufgabe der philosophischen Antrhropologie (1937), in cui dichiara che compito precipuo dell’antropologia filosofica è «portare l’uomo di fronte a se stesso in tutte le sue dimensioni per togliergli la possibilità, sfruttata dal vecchio idealismo della libertà e della coscienza, ma anche dalla filosofia dell’esistenza, di sottrarsi di soppiatto alle responsabilità di un’esistenza mondana estremamente terrena, consegnata totalmente e senza privilegi esistenziali alle imprevedibilità dell’esperienza, e di nascondersi in “sé” e dietro il suo possibile essere se stesso»6.
Le forme del sapere e la Bildung, in A. Kaiser (ed.), La Bildung ebraicotedesca del novecento, Bompiani, Milano 2006, p. 197. 4 Ibidem. 5 M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 20044, p. 141. 6 H. Plessner, L’uomo: una questione aperta, trad. di M. Boccignone, Armando Editore, Roma 2007, pp. 55-56. 3
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1. Carenza ed educabilità Il compito dell’antropologia filosofica è, per dirlo con le parole di Arnold Gehlen, fare chiarezza sulla realtà umana, provando a proporre una via alternativa rispetto ai presupposti religiosi e metafisici, ma anche differenziando l’indagine sulla natura dell’uomo da quella strettamente biologica. Questo, dunque l’intento di fondo, pianificato e perseguito da Arnold Gehlen nel suo L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, nel quale vuole riportare l’attenzione sull’uomo, muovendo non da categorie extra umane, ma dall’uomo stesso che egli definisce come «un essere che, necessariamente, per tutta una serie di motivi umani peraltro particolarissimi, prende posizione, bensì anche un essere in certo modo “incompiuto”, un essere cioè che sarebbe posto, di per se stesso o nei rapporti con i propri simili, dinanzi a dei compiti, i quali, con la mera esistenza, sarebbero dati, non però risolti»7. Se, per un verso, gli preme ribadire che l’uomo è un essere incompiuto ma capace di prendere posizione, per l’altro si perita di considerare che «la natura ha destinato all’uomo una posizione particolare o, detto in altri termini, ha avviato in lui una direzione evolutiva che non preesisteva, che non era ancora stata tentata; ha voluto creare un principio di organizzazione nuovo. Proprio di questo principio è che l’uomo, nella sua mera esistenza, trovi dinanzi a sé un compito, che la sua esistenza diventi il suo proprio compito e la sua impresa (…). L’uomo non è costituito una volta per tutte significa: egli dispone delle sue proprie predisposizioni e doti per esistere, egli assume un comportamento nei suoi propri confronti, per necessità vitale, come nessun altro animale fa; egli non tanto vive, quanto, come è mia abitudine dire, dirige, la propria vita»8. Questo riconoscimento diviene essenziale per comprendere quale sia effettivamente la differenza radicale tra l’essere vivente animale e l’uomo. L’uomo possiede la peculiare capacità di prendere distanza, di esonerarsi; ovvero, è in grado di non sottomettersi agli stimoli, alle 7 8
A. Gehlen, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 36. Ivi, p. 43.
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pulsioni istintive, ma di organizzare una risposta sempre diversa e originale. Si tratta di una conquista rispetto alle interpretazioni del passato, soprattutto se si tiene conto che per Gehlen, questa capacità non dipende unicamente dall’intelligenza, ma dalla struttura morfologica e complessiva dell’umano9. Da queste prime definizioni dell’impianto antropologico di Gehlen, emerge come il tema educativo sia connesso all’incompiutezza dell’uomo e alla sua capacità di esonerarsi e dunque di agire. Non essendo un che di definito e di compiuto, l’essere umano dovrebbe continuamente riprogettarsi, ovvero disciplinarsi e autodisciplinarsi. Dice esplicitamente Gehlen: «L’uomo è un essere cui inerisce la disciplina (Zucht): autodisciplina, educazione, ‘disciplinamento’ (Züchtung) nel duplice senso di acquisizione e di mantenimento di una forma, sono tra le condizioni di esistenza di un essere non definito»10, dunque, la disciplina è per l’uomo un progetto che lo riguarda nel senso della ricerca del proprio disciplinamento, affinché il profluvio di stimoli che provengono dall’esterno, dal suo essere aperto al mondo, sia trasformato in chances concrete per la sua vita. Va anche detto che il progetto dell’antropologia elementare di Gehlen, che ha come suo punto di forza la dimensione inclusiva dell’essere umano, si arricchisce della riflessione svolta intorno all’ascesi – che come vedremo è stata introdotta su questo terreno proprio da Scheler – e che Geheln concepisce come un’alternativa rispetto al sovraccarico intellettuale del nostro tempo e al pericolo dell’esonero negativo. Infatti, dinanzi all’eccesso d’indigenza che ancora caratterizza le nostre società e il doloroso lavoro con il quale mettiamo un freno alla sregolatezza delle nostre pulsioni, la via dell’ascesi, intesa nel senso di disciplina e non di sacrificio, sembra costituire una possibilità mediante la quale l’uomo è in grado di riscattarsi e di risollevarsi dalle carenze costitutive della sua natura. Cfr. Ivi, p. 56 «Sarebbe un errore l’attribuire unilateralmente all’intelligenza questa sorprendente capacità umana, giacché essa poggia su una struttura (Unterbau) assai profonda». 10 Ivi, p. 58. 9
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Rispetto all’animale, l’uomo possiede quelle che Gehlen definisce plasticità e ampiezza mediante le quali è in grado di «strappare alla natura ciò che gli manca quanto alla sicurezza innata nell’adattamento alla realtà»11. In effetti, il cucciolo d’uomo, è fin dal suo sorgere, nonostante sua immaturità, dotato di una sorprendente docilità all’apprendimento che mantiene anche nella fase adulta e che costituisce il punto di ancoraggio di una naturalità modellata ed elaborata, che nel linguaggio di Gehlen prende il nome di cultura12. L’uomo organizza e sistema tutto ciò che lo circonda in maniera creativa, inventa e stabilisce in modo da sottrarsi al pericolo, sempre incombente, della sua degenerazione13. In questo processo di stabilizzazione, in cui l’uomo cerca di riodinare ciò che gli proviene dall’esterno e di renderlo funzionale alla sua dimensione interiore, giocano un ruolo determinante le istituzioni che divengono essenziali per potenziare e rendere più efficace lo sforzo di auto-disciplinamento. Per dirlo con Gehlen: «Le istituzioni agiscono come contrafforte e come sostegno esterno; è vero che la storia umana e la storia della cultura mostrano la loro mutabilità, ma di grandissima importanza è là un postulato di gradualità. Se si fanno a pezzi le istituzioni di un popolo, viene liberata
A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, p. 200. 12 La cultura del resto «è lo specifico dell’uomo. Ed anche nei suoi stadi più primitivi la cultura non conteneva semplicemente i mezzi e le tecniche per campare, cominciando dal fuoco delle armi. Del tutto cooriginarie sono anche le costruzioni intellettuali, nelle quali si collegava il tutto del mondo con il proprio e ruolo in esso, per quanto ciò fosse di volta in volta alla portata del miscuglio di fantasia, esperienza e riflessione così come esso emerge nei miti» (Ivi, p. 213). 13 «Riguardo a ciò si è però vista innanzitutto che le istituzioni di una società, i suoi ordinamenti, leggi e stili di comportamento, che le forme in vigore della cooperazione, così come si presentano negli ordinamenti economici, politici, sociali e religiosi, che queste istituzioni funzionano come appoggi esterni, come anelli di raccordo tra gli uomini che forniscono un appiglio, che sono proprio loro a rendere affidabile l’aspetto interiore della morale» (Ivi, p. 204). 11
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l’insicurezza elementare, la tendenza alla degradazione e il caos presenti nell’uomo»14. Il livello culturale raggiunto dall’umanità non lascia ben sperare, nella misura in cui ci presenta il permanere dell’instabilità, accentuato dall’eccessiva specializzazione. In questa situazione Gehlen propone di distanziarsi interiormente da tutto ciò che ci tiene legati all’esterno e di mantenersi spiritualmente liberi in modo da «cercare negli ambiti culturali della vita quella fresca vivezza dello spirito che si è dileguata dalle abitudini di tutti i giorni»15. In questo modo di intendere la disciplina e l’autodisciplinamento si osserva un procedere in modo coerente rispetto al progetto dell’essere umano che, ininterrottamente, orienta se stesso in vista di una progressiva crescita e maturazione spirituale e materiale. Questo, che corrisponde al progetto educativo-formativo dell’uomo, si realizza pienamente solo grazie alle istituzioni che mediano e favoriscono il distanziarsi dell’uomo da se stesso. Affidare il compito educativo alle istituzioni vuol dire pianificare il percorso formativo del vivente uomo, favorirne la piena e completa liberazione, promuoverne la crescita sana e coerente con il proprio progetto culturale16. Nonostante l’apparente pessimismo antropologico, Gehlen nutre nei confronti dell’essere umano un’invincibile fiducia, perché è convinto che questi sia sempre e comunque in grado di organizzare e gestire la propria crescita nel modo coerente e funzionale alla sua piena e totale autorealizzazione. Ne sono una conferma la creazione di istituzioni capaci di istituirsi, resistendo alle spinte degenerative del soggettivismo, come delle roccaforti per arginare e difendere le idee degli uomini. Per definire come e cosa e dove realizzare il progetto educativo occorre approfondire la riflessione di Max Scheler, che dedica una certa attenzione proprio alla questione della formazione in occasione di una conferenza tenuta alla Scuola superiore Lessing di Berlino il 17 gennaio 1925. Ivi, pp. 204-205. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando ed., Roma 2003, p. 141. 16 Cfr., Ivi, p. 147. 14 15
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2. Forme del sapere È qui che in primo luogo Scheler sente la necessità di lanciare un grido d’allarme nei riguardi di una società allo sbando, non solo quella tedesca, ma l’intero mondo sta vivendo quello che egli definisce un «tempo lacerato da masse che non sono quasi più guidabili»17. Uno sguardo a tutto campo sullo scenario mondiale offre la cornice di riferimento entro la quale collocare una matura riflessione che si concentra in modo particolare sulla condizione della Germania. Qui il tema della formazione viene affrontato a partire da quella che viene riconosciuta come una situazione sociale e politica delicata in cui «la spaventosa massificazione della vita [Vermassung des Lebens], la lenta trasformazione di una democrazia liberale del pensiero in una languida democrazia delle masse, degli interessi e del sentimento, alimentata dall’estensione del diritto di voto alle donne e agli adolescenti, per la quale i capi sono gli esponenti voluti dai gruppi dominanti, talvolta popolari, talvolta ecclesiastici, talvolta comunisti – questo è un motivo molto importante che rende la formazione [Bildung] così difficile e al contempo così assolutamente necessaria come forte intervento di nuove élites capaci di autentica formazione contro queste correnti»18. In definitiva, Scheler intende affermare che la democrazia non basta da sola a garantire un processo di crescita e quindi a formare; se può diventare un punto di riferimento essenziale per la formazione, questo lo può fare solo nella misura in cui si mette al servizio dello spirito [Geist]. La riflessione di Scheler diviene più feconda nel momento in cui, per un verso, si richiama ai tratti teoretico-scientifici e ai relativi movimenti che nuocciono alla società tedesca dell’epoca sui quali si era concentrata la sua sociologia del sapere19 e, per l’altro, sottolinea come M. Scheler, Le forme del sapere e la Bildung, in A. Kaiser (ed.), La Bildung ebraico-tedesca del novecento, Bompiani, Milano 2006, p. 177. 18 Ivi, pp. 180-181. 19 Scheler riprende la già citata la struttura della società attuale che vede improntata anzitutto al modello alessandrino-ellenistico in cui «circoli e sette 17
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siamo in presenza di quello che definisce l’avvento dell’uomo nuovo in cui proprio «il problema della formazione dell’uomo [Bildung des Menschen] è al centro dell’interesse»20. È qui, infatti, che ci avverte che non possiamo esimerci dal mettere in questione alcuni nuclei portanti della formazione che fa ruotare attorno a tre quesiti radicali: «Il primo: qual è l’essenza [Wesen] della formazione? Il secondo: come si realizza la formazione? Il terzo: quali tipi e forme del sapere e del conoscere condizionano e determinano il processo mediante il quale l’uomo diventa un essere “formato” [gebildetes Wesen]?»21. Se dunque la riflessione di Gehlen ci offre il supporto antropologico che ci permette di cogliere l’orizzonte di senso della educabilità dell’uomo, Scheler ci consente di compiere un passo in avanti nella direzione del cosa e del come debba, e di fatto possa realizzarsi l’educazione-formazione dell’uomo. Il primo sguardo viene quindi gettato su come dobbiamo propriamente intendere la cultura, dal momento che, dice Scheler, questa si rivela come una forma particolare per ogni individuo e contribuisce a di tipo mistico e superstizioso, dubbi salvatori che si accordano con la suggestione delle masse, e in più, come contraltare, un positivismo specializzato privo di idee (alessandrinismo) soppiantano sempre più l’unità e la nobile coesione della cultura [Bildung] greca e romana» (Ivi, p. 181). Da questo punto di vista prende in considerazione quelli che considera i movimenti che stanno danneggiando la società tedesca e sono: l’elevazione dell’ideologia marxista delle classi a scienza particolare, proletaria in contrapposizione con la scienza borghese; le false forme di romanticismo gnostico «che vuol far assorbire la nostra imponente cultura specializzata in una pretenziosa e inautentica filosofia dell’apparenza e la filosofia in mistica e povera intuizione» (Ivi, p. 182); le scolastiche ecclesiastiche che sono eccessivamente ancorate al passato che pretendono far valere anche oggi; la forma ‘antroposofica’, anti-filosofica e antiscientifica dei movimenti occulti; le ideologie dei movimenti popolari di massa che non comprendono la necessità della solidarietà dei popoli europei; «in sesto luogo, le presunzioni di stregoni egoisti e ridicolmente boriosi che nel loro dilettantismo pietoso diventano tanto più acritici quanto più cresce il seguito delle persone che amano la sottomissione» (Ivi, p. 182). 20 Ivi, p. 182. 21 Ivi, p. 183.
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fare chiarezza circa il primo elemento della formazione che non attiene propriamente al sapere, ma all’essere. Si tratta, in altre parole, di riconoscere che vi è una piena corrispondenza tra l’essere umano, qui inteso come un microcosmo, aperto a un mondo fuori di lui, al quale l’uomo partecipa mediante la formazione e il mondo. In altre parole, l’uomo tende, partecipa al mondo per mezzo dell’amore, un amore singolare «che è sete ardente e insieme suprema obiettività [Objektivität] orientata al valore reale: radice di ogni comportamento obiettivo»22. Se quella dell’essenzialità costituisce la prima caratterizzazione della formazione, la seconda è l’umanizzazione che Scheler definisce anche come auto-deificazione, a seconda che si consideri la formazione dal versante della natura sub o sovra-umana. L’incertezza nel pervenire ad una definizione unitaria di uomo che metta d’accordo le istanze della metafisica classica con quelle della ricerca biologica apre un altro versante dell’indagine, in cui Scheler si preoccupa di precisare, muovendo dalle caratteristiche anatomiche dell’essere umano, la funzione esercitata dal cervello anche in riferimento a quelle riproduttive. In questa analisi sull’essenza dell’uomo, Scheler si pone in maniera provocatoria nei confronti della pretesa autonomia della scienza naturale, la quale, spesso, non manifesta nessun interesse a confrontarsi con la dimensione spirituale, che pure ha costituito e costituisce un punto insuperabile per tutto l’orientamento riflessivo di carattere antropologico. «L’uomo, come essere vitale [Vitalwesen], è certamente un vicolo cieco della natura, la sua fine e la sua suprema concentrazione, ma, come possibile essenza spirituale [Geistwesen], come possibile automanifestazione dello spirito divino, che, nel compiere l’atto spirituale del fondamento del mondo, può deificare [deifizieren] se stessa, non è affatto un vicolo cieco: è, anzi, la via d’uscita luminosa ed eccellente da questo vicolo cieco. È l’essenza in cui l’essente originario inizia a conoscere e a cogliere, a comprendere se stesso e a salvarsi. L’uomo è quindi insieme due cose: un vicolo cieco [Sackgasse] e una via d’uscita [Ausweg]!»23. 22 23
Ivi, p. 185. Ivi, p. 190.
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L’avvertimento essenziale riposa, dunque, nel cogliere nell’uomo una differenza rispetto all’animale che non è di tipo quantitativo, ovvero non consiste nel possedere una forma di intelligenza o di razionalità. La novità dell’essere umano, rispetto agli altri animali, è costituita, avverte Scheler, dal «possesso di atti di una legalità autonoma rispetto a ogni causalità vitale psichica (inclusa l’intelligenza pratica diretta dagli impulsi) (…). Tale legalità non procede più in modo analogo e parallelo ai processi funzionali nel sistema nervoso, ma alla struttura cosale oggettiva e alla struttura di valore del mondo stesso»24. È questo enigma dell’uomo a divenire, ora, il fulcro della riflessione antropologica di Scheler, che si sviluppa articolando quelle che definisce le determinazioni fondamentali a cui si possono ricondurre le autentiche funzioni spirituali e razionali dell’uomo, ovvero: la determinabilità del soggetto solo mediante il contenuto di una cosa25, l’amore disinteressato ed entusiasta che apre al mondo e la capacità di distinguere l’essenza dall’esistenza26. Sono queste le funzioni che Scheler definisce proprie dell’ascesi, utilizzando questo termine in un’accezione che, come abbiamo visto, verrà successivamente abbandonato dalla ricerca antropologica. Oltre a descrivere quelli che ritiene i tratti e le funzioni principali che fanno di uomo un uomo27, Scheler precisa come nella sua progettualità l’uomo ha bisogno della formazione non semplicemente per accrescere o migliorare il proprio livello culturale, quanto piuttosto unicamente perché nella formazione riposa «il senso della terra e del mondo stesso»28. È qui che si coglie il contributo più originale della riflessione di Scheler, che invita a fare del processo di formazione qualcosa di non intenzionale, per sottrarsi a quel pericolo sempre sotteso del narcisismo che sta avvelenando anche la nostra epoca. Afferma Scheler: «La formazione non è un “voler fare di sé un’opera d’arte”, non è un Ivi, p. 193. Ivi, p. 194. 26 Ibidem. 27 Cfr. ivi, p. 195. 28 Ivi, p. 197. 24 25
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mirare a se stessi innamorato di sé, della propria bellezza, della propria virtù, della propria forma del proprio sapere. È esattamente il contrario di questo auto-compiacimento voluto il cui culmine è il “dandysmo”. L’uomo non è un’opera d’arte e non deve essere un’opera d’arte»29. Scheler, dopo aver ribadito quanto detto in precedenza circa il rapporto tra conoscenza e formazione, nel senso che non è lo studio ad essere in funzione della formazione, ma la formazione in funzione dello studio, riconosce che non può esservi un vero modello di formazione valido per tutti, ma che a ciascuno spetta, per così dire, di scoprire il proprio essere per coltivare le qualità che possediamo e metterle al servizio della comunità in cui viviamo. Le personalità esemplari di una determinata epoca storica possono costituire dei modelli solo nella misura in cui servono per renderci liberi «e ci rendono liberi: loro stessi sono liberi, non sono schiavi e ci rendono liberi per la nostra vocazione e per la completa espressione della nostra forza»30. Per precisare meglio cosa intende quando ribadisce l’opportunità di approfondire il processo di formazione dello spirito e le forme del sapere, Scheler si sofferma proprio su quel «processo nascosto nel quale il sapere specificatamente spettante all’uomo funzionalizza il sapere primariamente oggettivo dell’essere, potremmo dire anche categorizza tale sapere»31. Con ciò intende, in primo luogo, distinguere il sapere in generale dal sapere culturale vero e proprio, che rappresenta quel tipo di sapere che non si sa da dove provenga; è insomma il sapere digerito «la cui provenienza e origine non si può più indicare»32. Questo genere di sapere che è disponibile e pronto ad essere utilizzato, non ha nulla a che fare con lo specialismo, ma è «un possesso [Haben] e una contemplazione immediata delle cose in una forma e in una relazionalità significativa «come se» questa applicazione si realizzasse in un numero non
Ivi, p. 198. Ivi, p. 200. 31 Ivi,, p. 202. 32 Ivi, p. 203. 29 30
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misurabile di regole e concetti contemporaneamente: è più una presa di misura che un’applicazione»33. Si tratta di un modo di approcciare il sapere e la conoscenza che ha a cuore non solo l’essenziale, ma che si qualifica anche come un sapere dell’essenza, che non coinvolge solo la dimensione intellettuale come si potrebbe pensare, ma investe anche il cuore, la volontà, il carattere. Oltre a voler definire la differenza tra sapere e conoscere, Scheler si preoccupa di precisare il carattere relazionale del sapere nel senso che lo qualifica come «una relazione all’essere che presuppone le forme dell’essere tutto e parte»34. Ed è qui che la dimensione astratta di questo lungo discorso dedicato alla formazione diviene più concreta, tangibile, umana. Infatti, accanto al come del sapere, che è l’essenza, a Scheler interessa cogliere il dove del sapere, ovvero la coscienza che «può arrivare alla datità solo tramite un atto riflessivo che si orienta agli atti che danno il sapere»35. Ogni sapere nasce da una disposizione originaria, ossia un originario tendere dell’uomo verso qualcosa che è posto fuori di lui. Questa tendenza è definita da Scheler in senso proprio amore36. Il sapere, dunque, possiede un oggetto verso cui tende: l’essenza; una struttura che realizza questo tendere: la coscienza; e una forza mediante la quale il sapere stesso si realizza: l’amore. Mancherebbe a questo punto solo da definire il fine vero il quale il sapere acquista il suo senso più proprio. Ed è proprio questa preoccupazione di carattere teleologico a portare Scheler a definire «tre fini supremi divenienti ai quali il sapere può e deve servire»37, che sono il sapere culturale, il sapere salvifico e il sapere del dominio e della produzione. Oltre a essere ordinati secondo un preciso ordine gerarchico i diversi tipi di sapere conoscono la loro ragion d’essere con riferimento alla totalità del mondo personale e, in ultima istanza, alla sua apertura al mondo, ad altri e alla trascendenza. Ivi, p. 203. Ivi, p. 207. 35 Ivi, p. 208. 36 Cfr. Ibidem. 37 Ivi, p. 209. 33 34
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Proprio questa virata sulla dimensione antropologica ci offre nuovamente l’occasione per confrontarci con la riflessione antropologica grazie al contributo di Helmuth Plessner, il quale ci rimanda a quella che definirei una prospettiva radicale che investe non solo e non tanto la definizione dell’uomo, quanto piuttosto la responsabilità che sempre dobbiamo assumerci dinanzi alla difesa della sua dignità.
3. Educare all’eccentricità e alla distanza Parlare di educazione vuol dire anche educare un’epoca, un popolo o molti popoli che vivono in quest’epoca, a prendere sul serio la domanda sulla natura e dignità dell’essere personale, compito che qui svolgiamo grazie alle riflessioni sui compiti dell’antropologia filosofica di Helmuth Plessner. Infatti quello che Plessner definisce come il compito fondamentale «cosa significa e come è possibile essere uomo»38, può essere riscritto nel senso che occorre scoprire e definire come poter educare l’uomo ad essere uomo oggi, in un momento così difficile e denso di contraddizioni. Plessner, infatti, sembra assegnare a questo nuovo indirizzo della filosofia, che è l’antropologia filosofica, una precisa responsabilità, un preciso dovere: tornare all’uomo. In questo ambito, l’antropologia filosofica sembra svolgere un vero e proprio compito educativo, nella misura in cui è in grado di smascherare ciò che allontana l’uomo da un’autentica visione di se stesso e «respingere la falsa autorità e, attraverso il suo sconvolgimento, aprire la strada verso l’autentica sicurezza»39. Rimettere in discussione l’idea di autorità dell’uomo e condurre l’uomo verso la sua autonomia sono due traguardi della mission educativa dello stesso Plessner, che dedica tre lezioni per delineare i compiti e le funzioni propri dell’antropologia filosofica. Questo indirizzo del pensiero sembra, infatti, riuscire nell’intento di arginare gli eccessi del tecnicismo scientifico e nel riporre al centro 38 39
H. Plessner, L’uomo una questione aperta, Armando Ed., Roma, p. 51. Ivi, p. 56.
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l’uomo, che è qui inteso nella sua originaria e insuperabile unitarietà. In questa prospettiva non è il sapere in quanto tale a rappresentare l’oggetto principale dell’interesse filosofico-antropologico, quanto piuttosto l’uomo nella sua indeducibilità e irriducibilità. In più di un intervento, Plessner sembra utilizzare l’antropologia filosofica nel senso che dobbiamo e possiamo riguadagnare un altro sguardo sull’uomo, nel senso di coglierne tutte le potenzialità, sia quelle relative alla sua capacità di prendere posizione, sia quelle relative alla sua eccentricità, ovvero al suo non essere mai lì dove lo vediamo, ma sempre prima e sempre dopo. È proprio nel cercare di definire che cosa sia l’antropologia filosofica che Plessner avverte che in fondo «C’è sempre stata una filosofia dell’uomo, se con “uomo” non si intende solo una formazione particolare nel cosmo (e con antropologia solo una teoria di questa immagine in riferimento al suo ‘essere’, alla sua posizione), bensì l’orizzonte a noi assegnato di compiti che – nelle svariate culture e al di là di grandi distanze storiche – sono stati considerati come propri dell’uomo: compiti di un essere che desidera e spera, pensa e vuole, sente e crede, si preoccupa della propria vita e in ogni cosa deve esperire la distanza tra la perfezione e le sue possibilità»40. Eppure, proprio oggi avvertiamo che grazie alla riflessione condotta dall’antropologia filosofica abbiamo qualche strumento in più per tornare all’uomo. Siamo dinanzi ad un compito educativo che l’antropologia filosofica sembra assolvere implicitamente, nel senso che educa l’uomo – e ci educa proprio in quanto uomini – a ripensare la natura umana nella sua ricchezza e complessità. In questa prospettiva, dice esplicitamente Plessner: «Dato che oggi, attraverso le esperienze della storiografia, la critica dell’idea di sviluppo, la contraddittorietà ideologica e politica dell’humanitas, conosciamo l’arrischiatezza e l’avventatezza dell’idea di uomo, dobbiamo considerare l’essere uomo nella massima ricchezza di possibilità che si riesca ad immaginare, nella sua ingovernabile plurivocità e nel suo reale essere minacciato, in modo
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H. Plessner, Antropologia filosofica, Armando Ed., Roma 2007, pp. 45-46.
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che l’arrischiatezza di un simile concetto sia intesa come assunzione di una particolare responsabilità dinanzi alla storia»41. Plessner sembra volerci anzitutto mettere in guardia rispetto al pericolo della perdita dello sguardo sull’uomo, poiché stiamo disabituandoci a considerare l’uomo come centro della riflessione filosofica, ma anche come centro dell’azione educativa. La specializzazione e il tecnicismo legato alle procedure ci stanno facendo perdere di vista l’essenziale, che non è l’oggetto ma il soggetto dell’educazione e della riflessione filosofica e antropologica. Ecco perché il contributo dell’antropologia filosofica sembra così decisivo; perché, dice Plessner, «essa vuole condurre l’uomo, in tutte le sue dimensioni dinanzi a se stesso, per liberarlo dalla possibilità – sfruttata dall’antico idealismo della libertà e della coscienza, ma anche dalla filosofia dell’esistenza – di allontanarsi furtivamente dalle responsabilità di un’esistenza mondana fortemente legata alla terra, consegnata interamente e senza riserve all’imprevedibilità dell’esperienza, e di nascondersi in ”sé” e dietro il suo possibile essere se stesso»42. La trasversalità degli interessi coinvolti nella ricerca antropologica sembra permettere a questo indirizzo del pensiero di offrire un contributo in termini di umanizzazione anche al disorientamento mostrato dalle odierne società multiculturali. Infatti, di fronte alle continue minacce e alle trappole nelle quali l’uomo rischia di cadere per la sua stessa incoscienza, la ricerca in ambito antropologico ci riconduce al senso, ovvero svela il suo fine più autentico che è quello, dice Plessner, di «limitare il potere dell’uomo ampliando al massimo la consapevolezza della sua insondabilità e incertezza riguardo all’origine del suo futuro, per fare di nuovo spazio alla fede nell’uomo»43. Questa fiducia sull’uomo, sulle sue potenzialità e sulla sua irriducibilità, che Plessner declina variamente anche attraverso un’interessante indagine sul riso nella quale mette in risalto la potenzialità attiva
Ivi, p. 52. Ivi, p. 57. 43 Ivi, p. 76. 41 42
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dell’uomo che sa ridere e non solo che fa ridere, è essenziale per ripensare oggi il tema dell’educazione. In definitiva, il brevissimo percorso appena richiamato ci ha mostrato, anche se in maniera molto concisa e ancora progettuale, che vi è nella ricerca antropologia una potenzialità speculativa ancora tutta da esplorare. L’attenzione all’educabilità dell’uomo e alla formazione propria di ciascun essere umano sembra essere al centro di un percorso riflessivo ricco di sfumature che ha ancora molto da offrire sul terreno della ricerca, inclusa quella educativa. Se vogliamo ripensare l’educazione oggi, forse dobbiamo e possiamo prendere sul serio l’appello dell’antropologia filosofica, che ci invita a riconquistare e riconfermare la nostra fiducia nell’uomo così com’è, ad apprezzarlo nel luogo e nei modi del suo manifestarsi, senza pretendere di indicare strade difficilmente percorribili; che ci esorta anche a riconoscere l’originaria apertura e i limiti del suo stesso essere, senza imporre vette e mete irraggiungibili; che ci chiede di valorizzare la ricchezza e la creatività che vi è in ogni essere umano, senza dimenticarne la fragilità e la vulnerabilità, e che soprattutto ci chiede di non ledere, in nome del progresso educativo e dell’educazione, la dignità inalienabile di ogni essere umano.
Miscellanea
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Mario Gennari*1 Agostino: l’uomo come imago Dei Augustine: man as imago Dei. This article reconstructs the problems of theology and metaphysics of Augustine. The issue at stake is the concept of “man” as “imago Dei”. The idea of lumen verum becomes a transfiguration: Augustine speaks about an inner life and a way to truth. So, in interiore homine habitat veritas; but this distinguished citation includes a profound educational significance. The pedagogy of Augustine is a pedagogy of perfectio, in the meaning that this word has in the medieval culture. The study is concerned with the inheritance of Augustine in the Middle Ages in many respects. First of all theological, but also philosophical and pedagogical aspects.
1. La teologia metafisica del lumen verum Aurelio Agostino nasce a Tagaste, nell’odierna Algeria nord-orientale, il 13 novembre 354. La città della Numidia è municipio dell’Impero Romano quando nel 312 Costantino il Grande sconfigge Massenzio al Ponte Milvio sul Tevere, dove questi muore annegato. L’anno seguente, Costantino emana l’editto di Milano riconoscendo ai cristiani il diritto di culto al pari dei culti pagani. Trascorre poco più di un decennio e Costantino è unico imperatore. La religione cristiana inizia ad affermare il proprio primato: è il 324. L’anno dopo, il concilio di Nicea condanna per eresia l’arianesimo. Nel 330 Costantino consacra Costantinopoli quale capitale dell’Impero. Il sacro palazzo del potere, dove si riunisce la corte con il suo inquadramento gerarchico (premessa originaria dell’ordinamento societario medievale), è enormemente distante da Tagaste e anche da Roma ‒ dove per la prima volta il 25 dicembre di * Ordinario di Pedagogia - Università di Genova.
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quell’anno la festa pagana del Sole entra nella liturgia e nel calendario cristiani, quale giorno della nascita di Gesù. Tanto a Oriente quanto a Occidente l’Impero è scosso da guerre territoriali e conflitti per la supremazia al trono, mentre nella Chiesa si combatte a colpi di scomuniche e anatemi. La forte crisi politica e sociale in cui versano l’Impero Romano e la Chiesa cattolica pone ogni uomo in una condizione di marcata indeterminatezza esistenziale, che si riflette nelle condotte, nelle abitudini, nella mentalità e nei costumi, così corrotti, del tempo. E forse se ne riscontra una sia pur pallida eco persino nella biografia del giovane Agostino (cfr. Brown, 1967; Geerlings, 2002) quando ‒ lo scrive nel primo Libro delle Confessiones (1, 18, 30) ‒ si rimprovera d’aver detto «innumerevoli menzogne», commesso «qualche furto» e barato al «gioco». Dunque, rivolgendosi al proprio Dio, ammette: «Non scorgevo la voragine d’ignominia in cui mi ero proiettato lontano dai tuoi occhi» (ibid.: l.c.). Questo costume, che Agostino stigmatizza e condanna a partire da se stesso, «(…) È sempre la stessa cosa, che dai pedagoghi e dai maestri (…) si trasferisce ai governatori e ai re, all’oro, ai poderi, agli schiavi, assolutamente la stessa cosa (…)» (ibid.: l.c.). Agostino frequenta la scuola a Tagaste; quindi è a Madura; in Cartagine segue i corsi di retorica; legge l’Hortensius di Cicerone, che lo guida nelle sue prime esperienze di insegnamento. Nel 383 lascia l’Africa e parte per Roma, dove avvia una schola. Raggiunge poi Milano e diventa magister eloquentiae alla corte imperiale. Conosce Ambrogio e i cenacoli neoplatonici. Dopo un presenza nei circoli manichei, aderisce pienamente al cristianesimo sotto l’impulso dell’educazione ricevuta dalla madre Monica, degli insegnamenti tratti dalle Scritture, della responsabilità pedagogica avvertita verso il figlio Adeodato. Così, nel 387 è battezzato dal vescovo Ambrogio nel nome del Signore qui manet in aeternum (cfr. ibid.: 9, 10, 25). Il ritorno in Africa viene segnato dalla morte del figlio. È dunque ordinato sacerdote e consacrato vescovo di Ippona. Sono gli anni che lo vedono impegnato contro le tendenze ereticali e scismatiche nella Chiesa: dai manichei (con la loro visione fatalisticamente dicotomica del bene e del male) ai donatisti (che vorrebbero accogliere nel corpo ecclesiale solo i perfetti cristiani), dai pelagiani
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(secondo cui il peccato originale è proprio soltanto di Adamo, sicché gli uomini possono accedere alla perfezione attraverso la fede e il battesimo) agli ariani (che negano la natura divina di Cristo). In un clima di pesanti tensioni politiche ‒ culminate nel 410 con il saccheggio visigoto di Roma ‒ e teologiche ‒ volte anzitutto a confutare il perdurante paganesimo ‒, Agostino porta a conclusione la propria opera pastorale nonché l’articolato ed esteso corpus dei suoi scritti, prima di morire a Ippona nel 430 mentre la città è assediata dai Vandali. La profonda cultura classica, la costante pratica dell’insegnamento, lo spiritualismo filosofico che anima tutta la sua produzione intellettuale, la conversione insieme alla condanna dei propri errori giovanili, la declinazione in senso neoplatonico della teologia cristiana dove la vera filosofia e la vera religione vengono a coincidere: sono questi alcuni dei presupposti generali del pensiero agostiniano e dell’agostinismo, che perdureranno dalla Patristica fino al Basso-Medioevo. Dio e l’uomo vengono posti al centro della speculazione di Agostino: Dio nella sua assoluta perfezione; l’uomo bilanciato fra il peccato e la grazia. Dio nell’uomo, poiché ‒ secondo Agostino ‒ è nell’interiorità umana che abita la verità divina. L’umano nel divino, perché l’uomo trova se stesso dove riluce la presenza di Dio. Dunque, Dio è verità e immutabilità, saggezza e conoscenza, bontà e bellezza, essenza ed esistenza, eternità e immensità. Egli contiene lo spazio e il tempo nella propria assoluta onnipotenza, che è amore, gioia, creazione, provvidenza misericordiosa. L’uomo è «ad imaginem Dei» (ibid.: 3, 7, 13): composto di corpo e anima, appare come il mistero profondo a cui parla la sapienza divina ‒ che è luce delle menti. Nell’accostarsi alla verità, l’uomo la scopre con il proprio cuore e mai attraverso la carne. Infatti, Agostino rinnega gli amori profani vissuti in gioventù. Soltanto la purezza dell’orecchio interiore può udire la verità eterna che parla nell’intimo affinché la vita si renda perfetta, felice, illuminata e straordinariamente ricca di amore umano e amore divino, entrambi dono dello Spirito. Le regole della fede e i precetti del vivere cristianamente innervano l’insieme della ricerca teologica agostiniana, che si esprime a più riprese sul significato cristiano della vita, sulle umane inquietudini, sugli obblighi della fides catholica còlti nella triplice dimensione religiosa, meta-
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fisica e pedagogica. I testi sacri, la tradizione classica greco-romana e il pensiero patristico, insieme alle espressioni del magistero ecclesiastico agiscono da sfondo su cui si muovono le tre figure della veritas, della caritas e della perfectio. Per Agostino, Dio è fondamento trascendente della verità. Nel mondo si dà la testimonianza immanente dell’amore caritatevole. La conoscenza viene costituendosi con l’elevazione spirituale dell’uomo, che nell’interiorità di se stesso costruisce la propria formazione entro l’ordine di un progressivo perfezionarsi gnoseologico e metafisico. Spiritus, animus e mens, e in quest’ultima la ratio, l’intellectus e la voluntas sono ciò che agostinianamente forma l’uomo nella propria interiorità alla sola luce del lumen verum. Questa metafisica dell’illuminazione distingue sempre l’uomo da Dio. Al primo spetta il lume della ragione, dell’intelligenza e della grazia. Al Creatore la luce soprannaturale della verità, che viene infusa nella creatura. La sapientia divina entra nell’uomo come scientia umana. «Il Verbo di Dio è il lume vero ‒ si legge nelle Confessiones (7, 9, 13) ‒, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo». Ma Verbum Deus est lumen verum poiché l’uomo può platonicamente vedere Dio rispecchiato nell’immagine dell’idea di verità che giunge nella sua anima attraverso la soprannaturale illuminazione. Per Agostino questa diviene la via teologico-pedagogica della formazione umana: porsi costantemente alla ricerca di se stessi in Dio e di Dio in se stessi (cfr. Eggersdorfer, 1907).
2. Agostino: in interiore homine habitat veritas La ricerca nella fede, a cui corrisponde la fede dell’uomo nella ricerca di Dio, struttura la dialettica evangelica tra verità e vita, la cui sintesi traccia il cammino ‒ la via ‒ verso il mistero divino come viene riflettendosi nell’umano. Tale strada richiama uno slancio mistico-religioso per riscattarsi dall’«inquietudine» del peccato percepita e vissuta nell’essenza dello spirito. Per riconoscersi pienamente occorre ‒ secondo Agostino ‒ permanere in se stessi, farvi costante ritorno, abitare la verità che Dio ha disseminato nell’interiorità umana e, qualora la fuggevole mute-
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volezza della natura tenti di prevalere sullo spirito, l’uomo dovrà saper trascendere anche se stesso. In ciò consiste la suprema armonia: «non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore (in interiore homine habitat veritas)» (De vera religione, 39, 73). Questo riconoscimento di sé predispone tutta l’antropologia cristiana di Agostino, mentre l’idea di Dio come Verità assoluta fonda la sua teologia. Al centro del legame che unisce l’uomo a Dio c’è il mondo. Questo non è più il mondo della storia personale rappresentato nelle Confessiones, bensì il mondo di una storia collettiva ‒ che il vescovo di Ippona affronta e discute nel De civitate Dei, redatto lungo i tredici anni che separano il 413 dal 426. Si tratta della storia dell’umanità, divisa tra il male e il bene, l’empietà e la giustizia, la città terrena e la città celeste: «Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé (amor sui) fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore di Dio (amor Dei) fino all’indifferenza per sé» (De civitate Dei, 14, 28). Nella città di Dio (o città celeste), «l’unica filosofia dell’uomo è la religione con cui si adora Dio convenientemente, perché essa attende il premio nella società degli eletti, non solo uomini ma anche angeli, affinché Dio sia tutto in tutti (omnia in omnibus)» (ibid.: l.c.). Le due città coesistono sia nell’intimo degli uomini sia nella loro storia sociale. Il conflitto separa la Gerusalemme celeste dalla Roma imperiale e dall’Atene greca ‒ entrambe considerate da Agostino alla stregua di Babilonia ‒. «Il Dio degli Ebrei (…) diede la Legge al suo popolo ebraico (Hebraeo populo suo), scritta in ebraico, non oscura o ignota, ma già divulgata presso tutti i popoli» (ibid.: 19, 23, 5). E come «dice la Sacra Scrittura del Vecchio Testamento (sacrae litterae Hebraeorum): Felice il popolo, di cui Dio è il Signore» (ibid.: 19, 26). A questo popolo ‒ che per Agostino è ormai anche, se non soprattutto, quello cristiano ‒ viene indicata la via della pace: «la pace degli uomini è l’ordinata concordia» (ibid.: 19, 13, 1); «la pace dell’anima ragionevole è l’accordo ordinato del pensare e dell’agire» (ibid.: l.c.); «la pace dell’universo è la tranquillità dell’ordine» (ibid.: l.c.); «la pace della città celeste è l’unione sommamente ordinata e concorde di essere felici in Dio» (ibid.: l.c.). Tutto ciò può in parte già compiersi nella città terrena, ma si adempirà nella civitas Dei quando alla fine del tempo e
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della storia l’escatologia cristiana traguarderà il Giudizio universale, la Redenzione e la Resurrezione. Increduli, ostinati e beffardi, i pagani con il loro politeismo restano ostili al cristianesimo poiché ‒ dice Agostino ‒ non sanno accettare né lo spirito di pace né la divina autorità del Creatore: sommo e sommamente buono, ineffabile e trascendente, eterno e caritatevole. Essere assoluto creatore dell’essere ed Essere eterno creatore del tempo: «La sua conoscenza dei tre tempi (scientia trium temporum), cioè presente, passato e futuro non diviene, come la nostra, in una molteplicità, perché in lui non ci sono né il divenire né ombra di successione nel tempo» (ibid.: 11, 21). Il cristianesimo, in quanto via universale verso la salvezza, stabilisce ciò che purifica l’uomo combattendo le falsità pagane o eretiche; ma il Dio cristiano può far «regnare un buffone a causa del pervertimento di un popolo» (ibid.: 5, 19). Tuttavia, poiché Dio è giustizia e provvidenza insieme, egli “provvede” a tutto il creato e ad ogni uomo nel quale può far giungere la luce della verità. È una verità eterna, immutabile, che rende liberi e vitali (cfr. ibid. : 20, 3) evitando di fare come quelle mulierculae ‒ «quelle donnette» ‒ «che imparano sempre e non arrivano mai alla conoscenza della verità» (ibid.: 2, 1). L’antifemminismo di Agostino è temperato dalla sua fede. Scrive, infatti: «la donna è una creatura di Dio come l’uomo» (ibid.: 22, 17). Entrambe accolgono nell’intimo della loro interiorità spirituale la forma religiosa, che diventerà il canone teologico della loro formazione. In questo nesso unente la verità divina con la formazione umana si dispone il primo passaggio della pedagogia agostiniana. Essa dischiude l’interiorità dell’uomo alla luce di una verità che contemporaneamente lo trascende e lo innerva, divenendo il fulcro della sua formazione. L’uomo cristiano, secondo Agostino, è il templum Dei. Quel «tempio di Dio» (De doctrina cristiana, Prol. 6), posto tra la mutevolezza del mondo e l’immutabilità del divino, il cui cómpito è duplice: credere e intelligere, ponendosi alla ricerca di Dio e di se stessi. Questa ricerca della propria anima stilizza l’àmbito teologico-pedagogico della formazione (cfr. Madec, 1989). È nell’anima che il Verbum parla all’uomo ed è nell’anima che prende forma l’essenza ontologica dell’essere cristiani. Dunque, la formazione dell’uomo coincide omníno ‒ interamente ‒ con la formazione del suo animus.
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3. La pedagogia agostiniana della perfectio L’animus, per Agostino, non è altro che l’uomo. Un uomo dotato di un corpo, di un’interiorità, di una volizione temperata nell’adesione completa al Dio-Padre, al Dio-Figlio e al Dio-Santità spirituale. La verità parla attraverso la volontà trinitaria, alla transeunte volontà umana: lo Spirito dello Spirito si rivolge coscienzialmente allo spirito dell’uomo, al suo animus, ingiungendogli di farsi perfetto. L’uomo interiore diventa, agostinianamente, immagine a somiglianza del divino e della Trinità. Questa icona unitaria e trinitaria si rispecchia appunto nell’uomo. Ed è in se stesso ‒ e non piuttosto nel mondo ‒ che l’uomo deve porsi alla ricerca del mistero (umano e divino). La verità resta presente nell’interiorità dell’uomo. C’è in quanto mistero; c’è in quanto misura del mondo; c’è in quanto immagine di Dio; infine, c’è in quanto idea (trascendente) della perfectio divina. La verità illumina l’uomo, poiché essa è il Pensiero di Dio. Questo pensiero è eterno, non ha storia, non abita il tempo. Ma si riflette nell’uomo, nella sua memoria del passato, nella sua intuizione del presente e nella sua attesa del futuro. Dunque, da Dio al suo Pensiero, dal Pensiero alla Verità, dalla Verità all’uomo, dall’uomo alla sua essenza che è amore, dall’amore umano all’Amore divino quale Essere del Mistero, dell’Eterno e del Sacro che si riflettono nel mondo dell’uomo. E da qui possono dispiegarsi ‒ se libero dal peccato ‒ nell’uomo che vive con il mondo, testimoniando il Bene divino. Pertanto, dalle idee platoniche al Pensiero di Dio; dall’eros platonico all’Amore cristiano; dalla gnoseologia antica alla conoscenza agostiniana quale circolarità virtuosa tra fides et ratio. È questo l’itinerario in cui la fede si unisce, nell’Enchiridion ad Laurentium de fide et spe et caritate, alla speranza e alla carità. Se nei Vangeli si legge «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per quelli che vi perseguitano (…) ciò appartiene alla perfezione dei figli di Dio, alla quale ogni credente deve protendersi, orientando verso questa disposizione l’animo umano» (Agostino, Enchiridion, 19, 73). Dell’animo Agostino sonda la natura e in De libero arbitrio (3, 13) annota: «Ogni natura, che può divenire meno buona, è buona ed ogni natura corrompendosi diviene meno
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buona». Ogni animo, provenendo da Dio, è buono sebbene sia «corruttibile». Se quindi si biasima l’«imperfezione», va lodata la «natura» dell’animo: ossia la sostanza umana. L’imperfezione coincide con il peccare, mentre una retta Via percorsa nella Vita in nome della Verità è sempre perfetta, sebbene la perfezione assoluta sia propria soltanto di Dio. Eppure ‒ rammenta Agostino in De peccatorum meritis et remissione (2, 15, 22) ‒ «il Signore comanda: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”». Tuttavia ‒ argomenta ‒, un uomo «può essere uditore perfetto della sapienza e non ancora dottore perfetto, può essere conoscitore perfetto della giustizia e non ancora esecutore perfetto, può essere perfetto nell’amare i nemici e non ancora perfetto nel sopportare i nemici» (ibid.: l.c.). Ciò significa che la perfezione umana non è mai come la perfezione divina, anche se, essendo l’uomo creato a immagine di Dio, la sua tensione alla perfectio è la strada maestra che lo avvicina alla verità di Dio. Certo il peccato ostacola il cammino sulla via della perfezione, ma attraverso la grazia divina «l’uomo si rinnova nella sua anima di giorno in giorno» (Agostino, De perfectione iustitiae hominis, 3, 4, 10). La pedagogia di Agostino volge qui a un secondo e decisivo passaggio: dall’uomo vecchio al nuovo uomo. E ciò da colui che, dimentico del passato, si protende verso il futuro. Per farlo occorre seguire due norme: «Nolite conformari huic saeculo (non conformatevi alla mentalità di questo secolo)» (ibid.: 4, 5, 11) e «Sed reformamini in novitate mentis vestrae (ma trasformatevi rinnovando la vostra mente)» (ibid.: l.c.). Nell’evocare la Lettera ai Romani, di Paolo, Agostino sa che la trasformazione dell’animo ‒ mens come animus ‒ va conseguita «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12, 2). La pedagogia agostiniana promuove il rinnovamento trasformativo dell’uomo, facendo della perfectio lo “spirito sacro” della formazione umana. Ma questo ritornare a prendere nuova forma da parte dell’uomo consiste in una progressiva preparazione alla mèta posta al di là della vita presente. Dio concede la grazia e la misericordia; l’uomo provvede con la forza della sua volontà e della sua fede. Esse connettono la vita terrena con la città celeste. Tuttavia, la perfectio del cuore (cor) in questa vita non è mai completa, sebbene la caritas (intesa
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come pietas e amor) sia l’esercizio indispensabile per testimoniare la presenza di Dio nell’uomo. Anche per colui che non sa essere davvero cristiano ‒ e perciò sempre capace di amore, pietà e carità ‒ c’è chi accorre in suo soccorso: «quando l’uomo si trova insufficiente ad osservare tali precetti, non s’impenni per tumida superbia, ma nella sua fatica ricorra alla grazia, e così avverrà che la legge nella sua veste di pedagogo lo condurrà attraverso il timore all’amore di Cristo» (Agostino, De perfectione iustitiae hominis, 5, 11). È già sulla via della perfezione chi sa di non essere perfetto, cerca la misericordia divina, combatte dentro di sé contro il peccato, si rende custode di se stesso davanti alla propria cupidigia, progredisce nella santità, non cerca le glorie umane ma anela la grazia dello Spirito credendo, pregando, mortificandosi e perdonando. Questi sono alcuni passaggi del perfezionamento cristiano nell’itinerario della ricerca di Dio dentro l’uomo, affinché scacci le proprie infermità e consegnandosi alla speranza ma anche alla volontà si volga a rendersi perfettibile. Ma chi potrà essergli d’aiuto?
4. Il De Magistro e la formazione del cristiano nella purezza La storia della salvezza ‒ secondo i Padri della Chiesa e in particolare nel pensiero di Clemente d’Alessandria, vissuto duecento anni prima di Aurelio Agostino ‒ consiste in una «pedagogia divina» attraverso cui il Signore educa l’uomo fino a condurlo alla verità. Nel De Magistro (11, 38) si legge: «insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell’uomo interiore». Nel dialogo con il figlio Adeodato ‒ di cui si compone il De Magistro, steso nel 389 ‒, Agostino si sofferma sul significato del «parlare». Quest’ultimo concetto consiste nel reciproco interrogarsi, ove insegnare (docere) e apprendere (discere) fecondano appunto il dialogare (cfr. ibid.: 1, 1). Se la preghiera rivolta verso Dio «nel recesso dello spirito» ‒ in ciò che Agostino chiama «l’uomo interiore (homo interior)» (ibid.: 1, 2) ‒ è un parlare «interiormente nel pensiero» (ibid.: l.c.), il dialogo con gli altri implica il linguaggio e questo l’universo dei segni con cui si
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approda ai significati. Semiotica, linguistica e semantica rappresentano lo sfondo imprescindibile del dialogare, dell’insegnare e dell’apprendere. Il magister insegna: il suo è un insegnamento umano costituito di segni e significati, parole e dialoghi. Ma ciò che il discepolo apprende non è tanto quello che il maestro ha detto o pensato quanto piuttosto quello che il discepolo stesso ha pensato e detto nella propria interiorità (cfr. ibid.: 14). E in ciò consiste il fondamentale valore della paideia agostiniana. Non si va a scuola per apprendere «quello che pensa il maestro» ‒ sentenzia Agostino ‒, bensì per scoprire nell’interiorità la forza veritativa di quanto è stato appreso. Nell’interiorità dell’uomo c’è la luce divina, la parola di Dio «pronunciata ‒ come Agostino scriverà nel Liber imperfectus (5, 19) ‒ in modo ineffabile (ineffabiliter dictum est)». Tuttavia, è facile cadere nell’errore di credere che sia il maestro umano a parlare nell’interiorità del discente. Si apre, così, il passo decisivo del De Magistro: «Non dobbiamo infatti soltanto avere fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero (autorictate divina) è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l’unico maestro di tutti è in cielo (unus omnium magister in caelis sit)» (ibid.: 14, 46). È questo il terzo passaggio della pedagogia agostiniana: la formazione dell’uomo consiste in un itinerario alla perfectio (che i segni, le parole e gli insegnamenti indicano con la loro funzione “ostensiva”), il quale si compie nell’intimo dell’uomo, dove il Maestro divino parla “ineffabilmente” all’interiorità. Così Agostino conclude di non essere in grado d’insegnare e, rivolgendosi ad Adeodato, gli ricorda di non essere «ancora capace di apprendere (adhuc non potes discere)» (ibid.:l.c.). La questione non è di ordine essenzialmente didattico, poiché l’orizzonte da cui Agostino guarda comprende anzitutto il problema pedagogico della formazione dell’uomo, che non viene posta in relazione con l’insegnamento e l’apprendimento, bensì con l’interiorità profonda dell’uomo assunta non già nei suoi termini intrapsichici, ma come tempio divino e imago Dei. E qui Agostino segna il cammino che, attraverso il Medioevo, porterà fino a Meister Eckhart e alla traduzione dell’imago latina con la
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parola Bild nella lingua tedesca, fino a stabilire l’idea di Bild (quale immagine che l’uomo ha di se stesso nel rispecchiamento del mistero divino) come il presupposto semantico-teologico della propria Bildung: ossia, della formazione religiosa dell’uomo. La perfectio sta nel riconoscere dentro se stessi l’immagine divina che guida l’uomo nella sua ascesa alla vera sapienza. Così ogni creatura trova la propria perfezione soltanto nel Creatore «per il fatto che non ci sarà nulla di più perfetto di quella perfezione (quia non erit aliquid illa perfectione perfectius)» (Agostino, De Genesi ad litteram, 4, 18, 31). L’immagine della perfezione è il verbo divino (cfr. ibid.: 1, 4, 9). Il pensiero diventa nutrimento dello spirito umano soltanto se alla «orgogliosa aspirazione» alla filosofia (cfr. Agostino, De beata vita, 1, 3) viene sostituendosi la saggezza radicata non già nella tradizione classica ma nella fede della religione cristiana. Non si dà, quindi, alcuna perfezione al di fuori dei confini teologici del cristianesimo, sicché ‒ per Agostino ‒ l’uomo può formar-si soltanto in quanto uomo religioso. Nel proprio cuore, l’uomo è l’immagine di Dio. Nell’anima dell’uomo Dio depone la propria immagine. Il Verbo ri-forma l’imago Dei dopo il peccato. Compito del cristiano è restaurare, rinnovare e conservare l’immagine di Dio dentro se stesso. Ma la via della perfectio è lunga, e non perviene ad alcuna mèta spirituale colui che si ferma nel cammino. Consegue, invece, l’ideale della perfezione religiosa (cfr. Agostino, Epistolae, 216, 6) chi sale i gradini della virtù fino alla purezza del cuore in Dio. La purezza scalza l’amor sui in favore dell’amor Dei. Essa fa della vita spirituale il tempio della Gerusalemme celeste. Non c’è pedagogia dell’interiorità senza la purezza dell’animo umano. Non si dà alcun uomo nuovo e nessuna perfezione se si è privi della purezza. Non può essere udito il Maestro interiore se nell’interiorità profonda, intima e umana la purezza è assente. L’uomo privo della purezza interiore è incapace di amare Dio, l’umanità e ogni essere umano. La putredine della città terrena, con il suo carico di nequizia, empietà e corruzione, non educa all’onestà bensì all’impudicizia. Agostino conosce il suo tempo e ha contezza circa lo squallore della guerra che nasce dai cuori corrotti nella bramosia di denaro e potere. Per questo predica l’umiltà, domandando che l’amore cristiano sia esercizio di mo-
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destia praticata nella mansuetudine che inibisce le ambizioni fallaci di chi è altezzosamente orgoglioso. La bontà esprimentesi nella mitezza, nella clemenza e nella delicatezza sconfigge gli egoismi e persino le malvagità. Agostino non è mai indulgente, ma ricorda come si debba saper vivere «di perdono» (Agostino, De civitate Dei, 10, 12). Ciò perché il perdono chiama la grazia divina. Da essa ‒ scrive ‒ «siamo regolati in questa vita mediante la fede e dopo questa vita mediante la partecipazione stessa della immutabile verità saremo condotti alla piena perfezione» (ibid.: l.c.). Di poi, il perdono si ottiene da Dio chiedendogli attraverso la preghiera che i peccati umani siano oggetto della sua remissione. Dio vuole che nel mondo il cristiano divenga testimone di carità, poiché come si legge nei Proverbi (10, 22), «L’odio suscita litigi, l’amore ricopre ogni colpa». E come è scritto in Matteo (22, 37-39), «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso». L’umanità intera diventa il confine della caritas cristiana. La Chiesa cattolica e, perciò, universale deve farsi esempio di perdono e pietà, volgendo lo sguardo agli esclusi (cfr. Alici, 1999). Voluta da Dio ed edificata da Cristo, essa è contemporaneamente corpo, sposa e regno di Gesù, nonché la Gerusalemme dell’umanità simbolicamente evocata da Agostino come famiglia del Dio sommo, casa del Dio vero, tempio del Dio unico e del suo popolo. Al popolo cristiano-cattolico è chiesto di testimoniare l’amicizia secondo gli insegnamenti del Vecchio e del Nuovo Testamento, conducendo la speranza nell’ordine costitutivo della misericordia e la gioia nello spazio caritativo della pace. Questa rappresenta il tema centrale del Libro XIX del De civitate Dei. Qui, «la pace è il fine del nostro bene» (De civitate Dei, 19, 11). Entrambi, la pace e il bene, si esprimono nella vita cristiana dove l’ordine umano è a immagine di quello divino. Esso si protende nell’orizzonte di se stessi e in quello degli altri. La pace terrena e quella celeste sono affatto differenti fra loro, rispecchiando le due città. Tuttavia, se la pace in Dio è il fine della vita cristiana, la pace fra gli uomini costituisce una mèta ambita da chi opera nella carità e nella pietà (cfr. ibid.: 19, 26). Gli «eletti» cercano la pace, i «reprobi» la respingono (ibid.: 19, 28), ma con questi
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ultimi si affermano «il dolore e la morte», mentre la misericordia si allontana. La vita segnata da discordie e contrasti, da dissidi e conflitti anziché favorire la quiete, la pacatezza, la serenità e la beatitudine, deforma l’uomo riducendolo all’odio e al rancore, all’astio e all’ostilità. Il credente trae da Luca (6, 35-36) l’indicazione più rivoluzionaria del cristianesimo: «Amate i vostri nemici (…) Siate misericordiosi». E poco oltre (Lc 6, 40): «Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro». Ritorna così la eco del De Magistro dove Agostino, pur confermando la peculiarità del figlio di Dio quale unico Maestro, conosce bene l’importanza pedagogica del maestro terreno. E questa consapevolezza gli addiviene ‒ come detto ‒ dagli insegnamenti ricevuti dalla madre, dai suoi cómpiti di magister cui attende nelle differenti scuole dove insegna, dall’esperienza paterna, infine dalla sua presenza di educatore nella Chiesa affinché la navigazione compiuta nel mare della vita sia affrontata come un barca costruita con il legno della Croce.
5. L’eredità di Agostino nel Medioevo Filosofo, teologo e Padre della Chiesa, Agostino ha espletato l’esegesi accurata delle Scritture, edificando un solido apparato dottrinale che rimarrà nel tempo quale imprescindibile riferimento per la cristianità. La sua originale sintesi teologica ‒ che non trascura le problematiche morali, sociali e politiche ‒ entra nelle pieghe della vita alla luce della dottrina evangelica dirigendo una critica radicale al mondo pagano e al suo politeismo, a cui viene contrapposta la conversione spirituale nella continua e quotidiana scoperta della misericordia divina (cfr. Lettieri, 2001). Dalle Scritture Agostino muove nel rimarcare che l’uomo è stato fatto «ad immagine di Dio» e che questa immagine abita l’«interiorità» dell’uomo, costituendone la sua autentica cifra religiosa e il suo significato umano riflesso nell’amore verso l’amico e il nemico. La natura (buona) del mondo, la libertà (ragionevole) dell’uomo e la grazia (redentiva) di Cristo risplendono nell’imago, che cancella e rimuove ogni deformitas. Agostino immette nel proprio spettro speculativo questo
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Mario Gennari
intreccio: un nexus che stabilisce il duplice primato di Dio nella storia e dell’uomo nella vita. Il principio dell’autonomia spirituale, intesa come auto-formazione conseguita per il tramite del riflesso divino nell’interiorità umana, circoscrive il profilo non meramente “enigmatico” bensì “misterioso” dell’inquietudine (cfr. Bonanati, 1989), che afferra l’uomo ponendolo tra finitudine ed eternità. La risposta agostiniana, oltre a stagliarsi sulla conversione quale spartiacque della sua vicenda esistenziale, prosegue nell’itinerario del pensiero alla volta di Dio. Agostino determina il progressivo tramonto della cultura antica, della civiltà greco-romana, della paideia classica ‒ ricuperandone però, attraverso Platone, il senso ultimo ‒. Con lui si apre il nuovo grande ciclo della cultura, della civiltà e della perfectio latino-cristiana che, in parte sotto il nome di Medioevo, interesserà la storia dell’Occidente dal III-IV secolo fino al XIV-XV. L’agostinismo influenzerà tutta la teologia, da Anselmo d’Aosta a Pietro Abelardo, da Bernardo di Chiaravalle a Ugo di San Vittore fino a Bonaventura (e al suo De Magistro). Gli storici descriveranno l’agostinismo come la linea di prosecuzione del platonismo verso il Medioevo, anche se l’originalità del pensiero agostiniano così densa di temi precipuamente cristiani rende limpido e di per sé costitutivo il lavoro di costruzione ab imis fundamentis compiuto dal santo di Ippona. La sua straordinaria opera di fondazione teologica del cristianesimo, pur compiendo una torsione liberante per l’uomo (con la propria formazione) e il mondo (con il suo rinnovato eidos), resta sempre ancorata alla fides. È questa fede esigenziale a far scrivere ad Agostino nel Sermone 43 un assunto decisivo quanto celeberrimo: intellige ut credas, crede ut intelligas ‒ comprendi per credere, credi per comprendere. Lo sforzo teologico si radica nella visione metafisica capace di flettere l’«Io sono Colui che è» dell’Esodo nel «Colui che è immutabile» (Gilson, 1952: 155), disponendo quindi il Dio cristiano in quanto essere ontologico ed Essere metafisico, il cui magistero assoluto entra nell’anima coscienziale di ogni uomo. Così, la potenza pedagogica del pensiero agostiniano porta la paideia di Cristo all’interno del processo di formazione religiosa proprio dell’uomo, declinando come imago Dei (accolta quale lumen verum) la veritas che in interiore homine stabilisce l’essenza della perfectio quale purezza spirituale al cospetto di Cristo, del mondo e di se stessi.
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Tommaso Perrone*1
Models, Theory Dislodgment, and Epistemic Non Asymptotic Enrichment Are physical theories involved in scientific dislodgment so mutually consistent to ensure an epistemic enrichment, both at a theoretical and confirmatory level? Does any transition from a scientific tradition to another force the meanings of the meta-standards employed, so radical to preclude one theory to be encompassing the other? In this paper I outline a new model theoretic framework for a formal understanding of epistemic enrichment for the concrete cases of theory dislodgement in physical science. To show how different theories could be extensively compared and epistemically enriched is the key question I intend to address. On the basis of that, some crucial issues of the “propositional” approaches to theory dislodgement will be topologically reconsidered.
1. Introduction Ordinary, in mathematical and scientific practice the notion of “theory” is understood as follows: (1) A theory T is a collection of statements, propositions, and conjectures. Here (1) denotes a standard conception of theories (SCT). For SCT, a theory claims that things are thus and so. The theory may be true, or it may be false. A theory T is true if things are as T says they are, and T is false if things are not as T says they are. One can make this explanation more precise in the cases where we understand how to give precise logical analyses of theories, identifying an interpreted language (L, ℑ) 1
Lecturer of Philosophy at the University of Salento.
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Tommaso Perrsone
in which T may be formulated (L is some formalized language and ℑ is an L-interpretation)1. We may define the satisfaction relation ⊨ holding between L-sentences ϕ and L-interpretations, and then define the notion “L-sentence ϕ is true in (L, ℑ)” as “ℑ ⊨ ϕ”. What is essential about this is that theories are truth bearers. They are bearers of semantic properties2. SCT as a propositional conception of theories would take theories to be truth-bearers. Over the last forty years, a contrasting view has appeared: (2) A theory T is a collection Σ of structures. What (2) refers to is a model conception of theories (MCT). This view, has been advocated by P. Suppes, B.C. van Fraassen, W. Stegmüller, C.U. Moulines, and others. Some accounts of MCT have been severely proposed throughout the 20th century by a number of philosophers of science, including Carnap, Sneed, Adams, Redhead, Bar-Hillel, et al. However, they all could be considered epistemologically rooted in Russell’s analysis of the relation of cognition to the external world3. According to Russell, a phenomenal structure is what comes to be “built up in the mind” on the basis of the perceptual experience of the external world4. This contains a perception arranged in a relational structure. The mind is directly acquainted with this structure. But we See J. Barwise, J. Perry, Situations and Attitudes, The M.I.T. Press, Cambridge, Mass. 1983; D. Føllesdal, Situation Semantics and the “Slingshot” Argument, “Erkenntnis”, 19, 1983, pp. 91-98. 2 See A. Church, Carnap’s Introduction to Semantics, “Philosophical Review”, 52, 1943, pp. 298-304; see also W.V. Quine, Three Grades of Modal Involvement, in The Ways of Paradox and other Essays, Random, New York 1966, 158-176, see in part. p.160, 197f. 3 T. Perrone, La dinamica delle teorie scientifiche, with a preface by C. U. Moulines, Franco Angeli, Milano 2012. In a sense, we may look to Russell as to the “zero-point” of these model theoretic representations. 4 See B. Russell, Logical and Philosophical Papers, 1909–13, Collected Papers, Vol. 6, Routledge, London and New York 1992. 1
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are, on Russell’s view, not directly acquainted with external reality. That would say, we know it only by “description”. To cash this out, Russell suggested that the relation of this structure to the world is that to be “isomorphic” to the world (S, W) and the structure (P, W) is the corresponding phenomenal structure. Russell’s idea is that experience brings us into direct acquaintance with a phenomenal structure Sp. Then, we may say with Russell’s words that our scientific knowledge of the external world, in general, takes the following form: (3) The world W exemplifies (instantiates) Sp. (3*) Sp represents (is isomorphic to) the world W. These are “structural representation claims”. They could be expressed, but also semantically analyzed, as a sentence of the form: (4) For some D ⊆ W, there are R1,…, Rn on D with (D, R1,…, Rn) ≅ Sp. The inherent connection between Russell’s structural representational claims and MCT could be best shown by a shared statement, according to which a scientific theory is a “class of mathematical structures”, or a “class of models”5. The primary distinctive characteristic of MCT is its rejecting of central semantic notions of truth, meaning and reference. Actually, if a theory is a class of mathematical structures, it dos not make any sense in saying that “a theory is true, or it is false”. In the simplest case, a structure S is a package of the form (D, R1,…,Rn), where D is some non-empty set, and the Ri are relations on D. This can be generalized in various ways that are immaterial to our discussion. «The standard view […] used to be that a theory is a deductive system formulated in a formal language. Nowadays it is probably the “semantic view” that dominates: theory is a set of models and any language will do for describing exactly what the models are like» (N. Cartwright, From Causation to Explanation and Back, in B. Leiter, The Future of Philosophy, ed., Clarendon Press, Oxford 2004, pp. 230-245. 5
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Unlike SCT, in MCT it is meaningless to say of a structure S that it is true, in the same way it does not make any sense to say of an a “hotdog” that is true, or false. For MCT theories are not “truth-bearers”. Within Tarskian semantics, truth bearers are formulas of some interpreted language L. An interpreted language L may be construed as a pair (L, S), where L is an un-interpreted language, and S is an L-structure (or interpretation). Then truth of a formula ϕ in L is precisely defined in the usual way. That is, ϕ is true in L iff S ⊨ ϕ. Alternatively, truth bearers may be taken to be propositions (e.g., those expressed by sentences in an interpreted language). Indeed, as I see it, scientific theories simply are collections of propositions. If models and structures are not truth-bearers, what does would mean to say of a structure (or model) that it is “true”? For example, orderings without, given a class Σ of structures (e.g., the models of Peano arithmetic; the countable dense linear endpoints, etc.), what could the following mean: “The class Σ is true”? Perhaps, it means that: (5) Some S ∈ Σ “represents” (or “is isomorphic to”) the world. More exactly, (6) For some S ∈ Σ, there are R1,…, Rn in D, such that S ≅ (D, R1,…, Rn). Nevertheless, the question is that of what it is meant by saying of a structure S that it represents the world. According to MCT theorists, a structure S represents the world only on the basis of its “being isomorphic” to it. Prima facie, it doesn’t make any sense whatsoever to say of a structure S that it is “isomorphic to the world”, because isomorphism is a relation that holds between structures. Is the world a structure? The only answer to be at least consistent with the intentions of theorists of this view, is the following: (7) A structure S = (D, R1, …, Rn) represents the world iff there is a subset W of things in the world, and there are relations S1, …, Sn on W such that (D, R1,.., Rn) ≈ (W, S1, …, Sn)6. 6
“≈” stands for “is isomorphic to”. See also J. K. Derden, Carnap’s Definition
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2. Truth functionality, sentences, facts On the basis of (7), Frege has drawn his conclusion that «we are driven into accepting the truth-value of a sentence as constituting what it means»7, alluding to the epistemological importance of inquiring after the truth-value. Quine, instead, develops an argument for relying on the syntactic and semantic rules of a language with class abstraction (referential opacity of intensional contexts). Particularly, he argues that the substitutivity of co-referring terms is inseparable from the truth-functionality of the relevant context. Thus we face the notorious problems of quantifying into modal contexts and the lack of transparency in ascriptions of propositional attitudes8. Føllesdal and Davidson have taken up Quine’s “semantic” view and apply it to causal contexts. Both are dissatisfied with Quine’s restrictions on substitutivity, but whereas Føllesdal suggests to place restrictions on singular terms, rather than on the principles for their substitution, Davidson conclusions are towards a definitive elimination of the non-truth-functional connectives from causal explanations. For him, substantially the concept of “fact” remains an idle wheel in a correspondence theory of truth, since all true sentences would correspond to the same fact9. A crucial objection to Føllesdal-Davidson approach stems form Russell’s theory of definite descriptions (RTDD)10. According to it, if definite descriptions do not occur as “categorematic” expressions they are not governed by the substitution rules for singular terms. For this of Analytic Truth for Scientific Theories, “Philosophy of Science”, 43, 1976, pp. 506-522 7 G. Frege, On Sense and Meaning, reprinted in B. Mc Guinness, Collected Papers on Mathematics, Logic, and Philosophy, ed., Basil Blackwell, Oxford 1984, pp. 157-177, see in part. p. 163. 8 See Quine, Three Grades of Modal Involvement, op. cit., pp. 158-176. 9 See Føllesdal, Situation Semantics, op. cit.; D. D avidson , Causal Relations, Clarendon Press, Oxford 1980. 10 RTDD has been formally drawn by Russell especially in his Introduction to Mathematical Philosophy, Allen, London 1919.
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reason, we may consider Russell’s theory as a possible reply to Frege’s treatment of sentences as names of truth-values. However, as Gödel has noticed, a merely blocking the argument would be not enough, as «there might be something behind it [..], which is not yet completely understood»11, that is to say, the fundamental problem of how facts (or fact-like entities) can be individuated as correlates of sentences. Equivalently, we turn to consider the following fundamental question: (8) What semantic relation is given between sentences and facts? Firstly, this question should be answered before considering the main objective of this paper, i.e. the model theoretic understanding of the possibility of an epistemic (non asymptotic) enrichment by theorydislodgment. What we propose here is then to rephrase (8). That means, the question should not be: (9) Does a sentence p refer to the same entity as the nominal phrase the fact that p? Rather, the question should be: (10) What semantic relation obtains between sentences and facts that allows us to use nominal phrases of the form the fact that p? Adopting SCT, (10) could be canonically answered stating that the (semantic) relation interfacing a (true) sentence with a fact is correspondence. So, in general we may say that (11) A sentence S corresponds to the fact that s, more exactly, K. Gödel, Russell’s Mathematical Logic, in P. Benacerraf, H. Putnam Philosophy of Mathematics, eds., Cambridge University Press, Cambridge, Mass. 1983, 447-469, see in part. 451 11
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(12) A sentence S is true iff there is at least one fact corresponding to it. But from this we may not infer the stronger claim that (13) A sentence S is true iff it corresponds to the fact that s. However, this inference becomes problematic if we approaching logically complex sentences. For example, we consider the “lesson from Linda”. We should not assume that there is the fact that “Linda is 40 years old and married”. Rather, there are two facts here to which this complex statement corresponds; namely, the fact that “Linda is 40 years old” and the fact “that she is married”. The point is even more obvious in the case of disjunctive statements. Surely, the sentence “Linda is 40 years or married” may be made true by two different facts. Why we should then expect that the sentence correspond to just one fact? The same question arises for the other truth-functional connectives. How is it with sentences that do not contain such connectives? Is there something like the fact that Linda is married? Or do we get several facts here too, e.g. the fact that Linda’s heart beats regularly? Particularly, we ask, do statements like the latter describe individual physiological facts, or does each of them also correspond to a “bundle of facts”? According to the fundamental assumptions of the logical “atomistic strategy”, the successive analysis of sentences comes to a conclusive end. Someone maintaining this assumption may say that every true atomic sentence corresponds to exactly one fact, and that no other atomic sentence (of the same language) corresponds to the same fact. Thus the statement “the fact that x is identical with the fact that y” would be either false or ill-formed. It would be false if “p” and “q” were atomic sentences, and it would be ill-formed if those sentences were complex12. The disadvantage of the atomistic solution is well-known. 12
The claim “the fact that” has not any interpretation at all, if applied to a
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Individuating facts as correlates of atomic sentences requires a criterion for being “atomic”. But this criterion seems to be essentially circular, since a sentence is atomic if it corresponds to exactly one fact13. There is, however, an alternative to the atomistic assumptions. One can advance the more radical claim that every true sentence corresponds to more than just one fact. We assume that we could identify bundles of facts prior to single facts. What we need for this purpose is a criterion for singular terms, and a method for picking out those positions which a singular term can occupy. In first order predicate logic this would be just the quantifiable positions. Let us call such positions “referential”, and let us mark each referential position in a given sentence by a different variable. Besides, we assume that among all the ”open sentences” on which sentence S is based one has the maximal number of referential positions. If we also name them as “positions contained in S”, then we may formulate the following (restrictive) criterion for the referential identity of bundles of facts (intensionally isomorphic): (14) The bundle of facts making it true that p is “intensionally isomorphic”, if it is given a bundle of facts making it true that q”, and iff (15) if “p” and “q” contain the same number of referential positions, (16) if “a” is a singular term occurring in “p”, then there is a coreferring singular term “b” occurring in “q”, (17) if S1 is an open sentence on which “p” is based, then there is a logically equivalent open sentence S2 on which “q” is based, and viceversa. complex sentence. 13 I ought to be grateful to Giorgio Rizzo for having drawn my attention to this difficulty, especially for his useful criticism of an earlier version of this section of the paper.
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On the basis of that a non propositional alternative to the atomistic program, without to sacrifice the ontology of facts should be presumably offered. We may name it non statement view, or simply Structuralist Theory Conception (STC).
3. Structuralist Model Theory The structuralist model theory (SMT) represents an extension to the domain of physical sciences of Suppes’ axiomatic set theory (MCT)14. Instead of equating theories to a “package” of statements logically explained, as the “traditional” ideas of science do, SMT introduces innovative benefits, both theoretical and practical. Among them, the possibility of theorization of the notion of “theory change” which permits to comparing different scientific theories (meaning invariance); a more intelligibility regarding the phenomenon of the immunity of theories; the rejection of the “monism of rationality”, i.e. the epistemological attitude of adhering to the rules of inductive inference; the possibility of a suitable “scheduled theorization” of scientific advances”15. Fundamentally, SMT owes its name to a methodological proposal. Within it, theories are complex set-theoretic structures (“models”), satisfying a set of axioms. Formally, (18) M = <D1,…, Dm, R1,…, Rm> See P. Suppes, Set-Theoretical Structures in Science, Stanford University Press, Stanford 1970. See also S. Okasha, Multilevel Selection and the Major Transitions in Evolution, “Philosophy of Science”, 72, 2005, pp. 1013-1025;T. Lombrozo, Explanation and categorization: How “why?” informs “what”?, “Cognition”, 110, 2009, pp. 248-253. 15 See M. Przelecki, A Set Theoretic versus a Model Theoretic Approach to the Logical Structure of Physical Theories, “Studia Logica”, 33, 1974, pp. 91105. Here we face the case for that the distinction between objects and facts comes definitely to collapse, unless a category of bare particulars would be postulated. 14
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(Di represents the “ontology” of the theory, i.e. its the fundamental sets or domains, Ri the set of the relations that are constructed out of Dm). A theory may have an infinite number of models. In the case of empirical theories at least some of its Dm domains will be sets of physical objects, spatial-temporal points, people, mental states, tables, hot dogs, etc., that is to say empirically testable entities, and not “merely mathematical entities”. In a sense, models are not a kind of self-referential entity, but on the contrary relational-referential entities, with which the content of the theory (domain) is matched with a state of real things in a possible world. Methodologically, the most fundamental claim of SMT is that in the formal understanding (formalization) of theories, one should exactly distinguish between the set of actual models of the theory (M) and the set of the set of potential models (Mp). That is to say, the distinction between the “analytic” and the “synthetic” components within a theory is to model theoretically explained. In particular, the set M defines the mathematical structure on the basis of a set-theoretic predicate, for example “s is an Archimedian static”, or “x is a group”; the set of partial potential models Mpp is a set of entities which permit the theory to be applied to physical reality16. Furthermore, given that a theory T is characterized in CPM by the mathematical structures S, whose predicate may be defined as “x is a S”, this statement ought to be reviewed: (19) As regards the epistemological correctness of T, the truth-values of the functions occurring in Ti satisfy the conditions established by the definition of S. (20) Additionally, if the domain Di of the applications is not ended, any existence of values of truth may be checked for an endless domain.
See Ø. Linnebo, Pluralities and Sets, “Journal of Philosophy, 107, 2010, pp. 144-166. 16
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According to SMT, if we say that a physical law is epistemologically valid, would amount to admit the validity of an enunciate of the form “c is a S” (more exactly, “cj is a S”). That is, any empirical element can be exhibited in order to support the condition that “ck is a S” – and that might be possible only if there were sufficient empirical elements to justify the proposition “cj is a S’17. Presumably, the sceptical deep-seated attitude towards the epistemic possibility of “scientific change as rational and progressive enterprise” is rooted in the assumption that propositional approach to scientific theories (statement view) should be hold. Then if theories do consist of sentences, formulated in different languages with different “vocabularies”, they seem to be incomparable to each other. Instead, in the context of SMT we may analyze the epistemic features of theory-evolution by building in additional factors leading to finer comparative distinctions. In particular, certain confirmatory aspects can be included without committing oneself to a preconceived theory of confirmation. Nevertheless, a SMT representation of the dynamics of (physical) theories let us encourage to maintain that there might be some hope that the process of the “theory dislodgment”, especially in the concrete case of CPMsystem, mechanics, become explicable as a dynamic relation between theories differently cored. And if it can be done at all, it must not be placed with the help of a certain teleological metaphysics, but rather “structurally” investigated in terms of two kinds of “inter-theoretic” relations, i.e. the equivalence relation, and the reduction relation. Equivalence Relation Within the SMT framework, two theories are equivalent if they have the same set of intended applications (I), or their possible models (Mp). As additional epistemological requirement, they have to endowed with a formal identity between their cores. In this sense Quine’s thesis of the empirical equivalence seems to be significantly stimulating. According See I. Niiniluoto, R. Wójcicki, Theories and Models in Scientific Processes, “British Journal of Philosophy of Science”, 47, 1996, pp. 658-662. 17
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to it, theories may be fundamentally defined in terms of the totality of all their possible observational outcomes. Epistemologically, the fact that they played an noteworthy role for the understanding of the processes of theory dislodgement in quantitative sciences. Actually, the notion of observation sentence is not introduced, as it is in the Carnap’s conception, by recourse to an observational language, but rather with the help of the empirical meaning of equivalence. Therefore, operating with theories equivalent to each other, would mean that they do produce identical empirical consequences, or to put it formally18: (21) Mpp= M1p and Mp ∩ Cs = M1p ∩ Cs
Reduction Relation To reduce a theory T (reduced-theory) to a theory T1 (reducing theory) would amount to give for example a description of a physical system in the language of one-many relation, with domain Mpp and co-domain M1pp. All that can otherwise be expressed saying that: the core of the reduced theory ought to be reducible to the core of the reducing theory; and the intended applications of the reduced theory correspond bi-univocally to that of the reducing theory. Using the abbreviations: T(C) for “the core of the theory T”, and AppT(I) for “the domain of I, i.e. the set of the intended applications), then we may formally put the statement as follows, (22) T = <C, I>, T1 = <C1, I1> are theories, then RED(ρ, T, T1) (ρ reduces T to T1) iff: T(S) ∧ AppT(I) ∧ RED (ρ, S, S1) ∧ ∀x(x ∈ I → ∀x1(x1∈I1 ∧ <x,x1> ∈ ρ). See M. Paty, Predicate of existence and predictability for a theoretical object in physics, in E. Agazzi, Realism and Quantum Physics, ed., Rodopi, Amsterdam 1997, pp. 97-130. 18
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The basic idea of the reduction relation can be intuitively characterized in these terms. First, the reducing theory T1 is normally more “expressive” than the reduced theory T. What is, from the standpoint of T, one and the same state of affairs, may split up into different states of affairs, if viewed from T1. Generally speaking, there might be a one-many epistemic relation RED, that reductively corresponds Mpp with M1pp, i.e. RED (Mpp,M1pp). If RED+ is the relation working “one level higher” than RED, the reductive correspondence characterizing the reduction relation can be expressed stating that (23) ∀ <X, X1> ∈ M pp × M 1pp, if < X , X 1 > ∈ RED+ ∧ X'∈ A(C1), then X ∈ A (C). More exactly, (24) if RED (Mpp,M1pp), then RED is the class { <X, Y> ∈ M pp × M 1pp, and there is a bi-univocal function ϕ : X ↔ Y, such that ∀ x∈X: <x, ϕ(x)> ∈ RED}. Let there be given two theories T and T1. T may be Kepler’s theory and T1 Newton’s theory of gravitation. The reduction relation in rendered precise in terms of models and sequences of models. A given model of T is approximated by an infinite sequence of “corresponding” models of T1. Then, the reductive correspondence of the reduction relation is more that a one-many relation, but oneinfinite19. The result epistemologically remarkable. It may be concretely illustrated by recourse to the Kepler-Newton example. The sequence of the approximating models of Newton’s theory is such that the mass of the “sun-particles” tends to Kepler’s constant, instead masses of the planets approximates to a zero-point, or equivalently, the limit of the sequence See A. Tarski, Introduction to Logic and to the Methodology of Deductive Sciences, reprint, Dover Publications, New York 1994, pp. 98-104. 19
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may no longer be a possible model of Newton‘s theory. Generalizing, we may say that in this section we have achieved an interesting intermediate result: progress ought to be epistemologically defined in terms of reduction, and as a non asymptotically uni-directed process.
4. Non asymptotic enrichment topologically reviewed All physical theories involve quantitative concepts, i.e. functions. The values of these functions are obtained by calculation from functions appearing in other, more elementary physical theories. That is to say, we have to reach a “optimal point”, by which certain quantitative keynotes ought to be linked directly to qualitative (non metric) concepts, or equivalently, all experiments, operations, should be referred to the extensions of qualitative relations underlying the quantitative structures. Namely, as we early mentioned, a fundamental difference between the traditional (propositional) operationalism of formal language approaches, e.g. SCT, and a model theoretic understanding of theories, e.g. SMT, is that by the latter only quantitative notions and intra-theoretical (one-level) relations are used. For example, in the case of correspondence rules, model-theoretically quantitative concepts may be explicated by theoretical cross-relations (or inter-theoretical relations). SMT, instead, is a two-level theory conception. According to it, all theories always refer to two parts, a higher-level theory, containing the quantitative concepts, on the one hand, and a lower-level non metric theory, describing axiomatically certain operational procedures and relations. A linkage between quantitative concepts of the higher-level theory and its corresponding qualitative theory is ensured by representation functions. On the basis of that, the existence and uniqueness of the quantitative concepts satisfying the crucial conditions mathematically formulated in the higher-level theory come to be conclusively established. This set-theoretical apparatus, in the way it has been introduced above, would be definitely helpful to our objectives. In a sense, it would allow us to understand to what extent the notion of non asymptotic epis-
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temic enrichment is topologically to be concerned with. To do it, we should proceed preliminarily drawing the epistemic features related to the notion of “theory net” (NET). (25) NET is a theory net, iff there exist N, ≤ such that (1) NET = <N, ≤>, (2) N is a finite set of theory elements (3) ≤ ⊆ N × N (4) ∀T, T1 ∈ N(T1 ≤T ↔ T1 is a specialization of T) (5) <K, I>, <K1, I 1 >∈ N(I=I 1 → K=K1). According to (25), a theory net is a set of theory elements ordered by the relation of specialization. Particularly, some properties of this ordering would justify speaking of nets. For example, (25-5) excludes one and the same range of intended applications in the net being treated by different cores. In this sense, if such a thing happens in history with respect to, say, two cores, either one core is a core specialization of the other and the latter is dropped, or the two cores are not comparable and it is likely that one of the elements is excluded from the theory. If theory nets “expand” themselves, they may originate theory nets epistemically enriched (NETE). So that, (26) If NET=<N,≤>,and N E T 1 = < N 1 , ≤1> are theory nets, then NETE is an epistemic enrichment of NET 1 iff (1) N1 ⊆ N (N 1⊂ N) (2) ≤1= ≤ ∩ (N 1× N 1). Model-theoretically, the epistemic enrichment of theory nets exhibits a static structure. If for each theory net epistemically enriched (NETE) there would be a uniquely associated historical interval h N , we obtain temporal sequences of NETE by means of the relation h N ≤ h N1 , saying that the time interval hN associated with NETE is previous to the time interval hN1 associated with NETE1. Accordingly,
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(27) NETE1 immediately follows NETE2 (28) NET E is previous to NETE1 and there is no NETE2, different from NETE and from NETE1, such that hN ≤ h N2 ≤ h N1. Besides, on the basis of (28) we may say that (29) An epistemic enrichment EPE is a finite sequence <NETE1, NETE2,…>, such that for each i (i≥1), NETEi+1 immediately follows NET E i, and NET E i+1 is a proper refinement of NET E i. Viewed in terms of its progressive (confirmatory) aspects, epistemic enrichments can be considered “optimal” in several respects. For example, in the concrete case of the Newtonian particle mechanics (NPM), it can be used to level the “gap” between “theoreticity” and reality, or for the theoretical representation of the real world phenomena with models (meta-level) and real physical objects as they are (object-level)20. This does not mean, of course, that within the present approach “idealities” can only be described, since it would be contain an oversimplification. Rather, that “the airy flights of merely analytical methods are to be brought back down to earth”, to borrow a Hartmann’s provocative statement21. Going over the distinction between object-level and meta-level, the question of whether and to what extent theories could be epistemically enriched, may not in principle be answered by merely theoretical reasoning. There necessary exist a definite epistemic evaluation of “agreement with the data”, i.e. an “evidential” support. This does not mean that theoretical reason bounces against limits which it cannot transcend. It rather means it gives way to practical deliberation. HoSee D. Mayr, Investigations of the Concept of Reduction, Part I, “Erkenntnis”, 10, 1976, pp. 275-294; C.U. Moulines, Approximate Application of Empirical Theories, “Erkenntnis”, 10, 1976, pp. 201-227. 21 Http://www.en.uni-muenchen.de/news/spotlight/2012_articles/hartmann. html. 20
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227
wever, from that does not follow necessary that one has to interpret it as saying that “rationality comes to an end”. For the last forty years theorists have been trying to understanding EPE merely in terms of one-directedness, i.e. as an asymptotic processes underlying Tarski’s conception of truth22. On the contrary, we address here the issue of a categorial refu tation of identifying epistemic enrichment with a asymptotically convergence to truth. And we do it by recourse to “models”. These, as earlier seen for MCT (and especially SMT), should function to explain universal repeatable features (patterns) of physical systems. Expressing it in more appropriate terms, we may say that at a model theoretic level the only forms of non asymptotic EPE admissible consist then either in an expansion of the set of intended applications or a refinement of the theory net by concrete cases of theory dislodgment. Let consider the situation graphically represented below. |{2*}|, |{ 3 }|, |{ i }| (30)
|{ 0 }|, |{ 1 }| |{ 2 }|
Each level represents here a progressive (non one-directly) step. After the point [1], there would be a “node” at which a twofold bifurcation started, actually [2] and [2*]. But at one of two levels, exactly at [2], the progress came to a definitive “end”. Historically viewed, that would mean, for example, that a group of theory-users, presumably after several unsuccessful attempts, gave up their hopes for making any progress at his point. Nevertheless, the fact that the progress was stopped at [2] does not imply that the group must to reSee T. Lombrozo, The structure and function of explanations, “Trends in Cognitive Sciences”, 10 (2006), pp. 464-470. 22
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nounce the achievements reached at this point. They may also decide to do so or they may decide otherwise. How they decide will depend on how important the achievement is for them. Unlike Popper, we admit that in theory change different EPE are possible, i.e. «there is an incompatibility between accepting the existence of radical paradigm change in science and the idea of a growth of objective knowledge»23. Following Putnam, that is an attempted preserving of reference across theory change, we apparently have in mind the traditional (Carnapian) view of theoretical terms, according to which they belong to the non-observational, i.e. theoretical, part of the “language of science”. This traditional view is rooted in the assumption that we are confronted with a semantic dichotomy: observational – theoretical (that is a part of the theoretical – non theoretical dichotomy). The main difficulty in defining an “asymptotic enrichment” by theory dislodgement consists in the fact that the theoretical cross-structures of the supplanting theory T1 are different from the theoretical cross-structures of the dislodged theory T. In a sense, it ought be shown whether under precisely describable circumstances there may occur a change of the truth conditions of the empirical hypotheses of the theory on the values of theoretical functions. This is a substantiation of the claim that theory change can bring about “meaning changes” even in a purely extensional sense. In saying that we face concretely the problem of explicating to what extent we can may speak about of EPE for the concrete cases of theory dislodgment in physical sciences. We admit that two theories aiming to explain the same empirical phenomena are theoretically reducible (T-RED) if the theoretical crossstructures of both theories are not model theoretically incompatible. If it was T 1 which dislodged T, then we speak of enrichment only if T may be reductively related to T1, but not conversely. A concept of reduction
H. Putnam, Philosophical Papers, Cambridge University Press, Cambridge, Mass., 1975, p. 281. 23
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serving this purpose must be applicable even in those cases where the theory dislodgement represents “radical shift change” in the sense that T is “incommensurable” with T1. On the basis of that, the following conclusion may be drawn: the acceptance of such outcomes is fundamentally based on a relatively naive view of physical systems. For the “physical systems” are not be introduced just as individuals of a certain sort, but more sophisticatedly as individuals epistemically characterized through non-theoretical functions. Let consider the underlying geometric structure of CPM. Within it all elements of Mpp are systems of moving particles described by the position function, and the laws to be formulated are Galilei-invariant. In the relativistic particle mechanics (RPM) they are Lorentz-invariant. If we call the equivalence classes resulting in the first case Galilei-Equivalence-Relation (GER), and those resulting in second case LorentzEquivalence-Relation (LER), we shall reach the point that the two theories to be compared no longer concern the same empirical systems24. In the case of CPM, the set Mpp has to be replaced by the quotient set Mpp/GER; in RPM, instead, it has to be replaced by the quotient set Mpp/ LER. These two sets are structurally different. Prima facie, this seems to be a non “optimal” result for the idea of reduction at all. Namely, the two theories to be compared deal no longer with “the same physical systems”. But rather, with more abstract objects. In the first case, these abstract entities, that is the new partial potential models of the theory, are the equivalence classes generated by the group of the Galilei-transformations (GT). Secondly, the new partial potential models consist of the equivalence classes generated by the group of Lorentz-transformations (LT). Any empirical system “s”, approximately selected, belongs to an equivalence of GT-class, as well as to a LT-class. But this not helpful for us at all because “s” is the only element common to both these classes. That is to say that there is no “natural” correspondence between the elements of the two systems of equivalence classes. See C.P. Enz, Le Role de l’Espace et le Problème de Localisation en Physique Moderne, “Epistemologia”, 10, 1987, pp. 187-206. 24
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However, a more plausible and precise interpretation of “reduction” of theories has been reached. Actually, in order to distinguish it from T-RED, we call it P-RED (phenomenic reduction). Namely, it applies if M pp of the first theory are different from Mpp of the second theory such that the presupposition for applying the reduction relation is not satisfied. This intermediate result describes a quite awkward situation. Considered as dynamic theories, Newtonian mechanics (NM) is not reducible to relativistic particle mechanics (RPM), because of the fact that NM is fundamentally included in RPM. A solution of the problem can be found, if we turn to a topological reconsidering of their physical geometries. That may change their “non reducibility” into the fact they would be “reductively comparable”. More exactly, they are two competing, non reducible geometries, the one of which should be taken as empirically refuted. But what would it mean a topological modeling of a geometric theory in accordance to the pattern of a physical theory? First, M pp should be “ordinary things”, namely solid bodies; secondly, they ought to be not described mereologically by means of a part-whole-theory25. Viewed topologically, physical theories are to be considered as a multiple models system. According to that, all physical objects which the theory is referring to may be logically reconstruct as abstract entities, i.e. as points, sets, etc. Nevertheless, in doing that there might be any place more for semantic dichotomies, “observational – non observational”, “theoretical – non theoretical”, etc. A topological understanding of theories allows us to establish a continuum view between theoreticity and facts26. As far the topological See J.T. Srzednicki, V.F. Rickey, Leśniewski’s Systems: Ontology and Mereology, eds., Nijhoff, The Hague 1984, S. Hawking, G.F. Ellis, The Large Scale Structure of Space-Time, Cambridge University Press, Cambridge Mass. 1973. 26 More details in W. Wimsatt, Re-engineering Philosophy for Limited Beings: Piecewise Approximations to Reality, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2007. 25
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reconsidering is concerned, especially for the cases of epistemic, dynamic, and non asymptotically directed enrichment in theory dislodgment, we may draw the following conclusive explanation, i.e. what it is to be counted to represent “a fact” for a theory. The bi-univocally corresponding of facts with theories, i.e. their biunique relation, is prima facie ambiguous. For a theory T, containing T-theoretical terms, it makes a difference whether we focus upon facts described or the facts explained. In the concrete case of CPM, this would mean that the theory does not describe empirical systems, i.e. the systems of moving particles as they me described in the non-theoretical vocabulary of particle kinematics. Rather, it would describe at a topological level the set of theoretical entities epistemically enriched, i.e. particles as endowed with masses and forces acting between them. Equivalently, the behaviour of the kinematical systems is expected to be explain as well. Conclusively, the empirical claims of a theory do not simply describe Mpp, but rathet they should represent the theoretical enrichments, i.e. the Mp as becoming members of M; or equivalently they should explain the “behaviour” of Mpp. In other words, they should stand for the state of things described in the non theoretical language of the Mpp. In this case, it is reasonable to believe that our topological remarks on the non asymptotic enrichment of theories are mostly in accordance with Putnam’s views on referential explanation of theories27. Theories are not about clocks, hot dogs, light rays, as the “canonic” empiricists believed, but rather about theoretical entities with a metric-topological field, that would explain theoretic-hypothetically the behaviour of empirical entities like clocks, hot dogs, light rays etc. This should be a multi-level conception of explanation, topologically modelled and mirroring a hierarchical structure of theories.
27
See Putnam, Philosophical Papers, op. cit., pp. 196-214.
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Piergiorgio Della Pelle*1 Cassirer e la prima “validazione filosofica” dell’autenticità della Settima Lettera platonica (1922-1925) Cassirer and the First “Validation” of the legitimacy of Plato’s Seventh Letter (1922-1925). At the beginning of 1900, in Germany, the neo-Kantians philosophers of Baden’s School and Marburger’s School start to read Plato’s thought through the lenses of Kant’s philosophy. In this cultural context, Ernest Cassirer in 1923 represents the first philosophical confirmation, after the philological illustration by Wilamowitz-Moellendorff, for the demonstration of the authenticity of Plato’s Seventh Letter. Placing this work in the last Plato’s philosophy, he puts it on a continuum with the Dialogues, expecially the Cratylus and the Phaedo, drawing an interpretation of the theory of knowledge, as it occurs in the Letter, which is focused on the role of the means of the knowledge and the knowledge itself - that is also important for Cassirer’s philosophy. A partire dai primi decenni del Novecento il neokantismo tedesco incrocia il suo sviluppo, come la critica filosofica ha rilevato, con una operazione di rilettura di Platone che pare essere fondamentale e determinante per la stessa interpretazione del pensiero di Kant che questa temperie porta avanti1. Non pare difatti un caso che la Scuola del Baden * Dottore di ricerca in Filosofia, Università di Chieti. Cfr. M. Ferrari, Cassirer, Natorp e l’immagine di Platone, in «Rivista di filosofia», XCVI (2005) n. 3, pp. 427-456; G. Gigliotti, Natorp tra Platone e Kant. Sensibilità e conoscenza: l’interpretazione del Teeteto, in «Rivista di storia della filosofia», LX (2005) n. 3, pp. 443-471; H. Holzhey, Platon in Neokantismus, in T. Kobusch u. B. Mojsisch (hrsg. v.), Platon in der abendländischen Geistesgeschichte, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, pp. 226-240; K.-H. Lembeck, Platon im Marburg. Platon-Rezeption und Philosophiegeschichtsphilosophie bei Cohen und Natorp, Königshausen & 1
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e la Scuola del Marburgo, abbiano rivolto, seppur con accenti differenti, la propria attenzione al pensiero platonico, e, in particolare alla teoria delle idee, sottolineandone la valenza gnoseologica e ontologica. Per quanto si possa considerare problematico il fatto che questa tradizione abbia, spesso, inteso il pensiero platonico alla luce di un’idea di scienza, e di legge scientifica, di tipo moderno, alla Kant, non può essere ignorato, tuttavia, quanto essa sia stata capace di rinnovare e stimolare produttivamente il dibattito attorno a queste due grandi figure della filosofia. In tal senso, al dì là della indubbia problematicità insita nello studio di un «Platone kantizzato» e di un «Kant platonizzato», ciò che è opportuno sottolineare è che, a partire dagli studi di Hermann Lotze e Wilhelm Windelband, per la Scuola del Baden, e di Hermann Cohen, per la Scuola di Marburgo, lo studio di Platone ha accompagnato lo sviluppo del neokantismo, come è visibile negli interessi e negli studi di Emil Lask, o di, Paul Natorp, Nicolai Hartmann e Ernst Cassirer2. Neumann, Würzburg 1994; G. Reale, Paul Natorp e l’interpretazione neokantiana del pensiero di Platone, in Introduzione a P. Natorp, Dottrina platonica delle idee, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. XI-XXX; F. Trabattoni, Ernst Cassirer e l’«estetica platonica», ora in L’attualità di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 165-184. 2 Cfr. E. Cassirer, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, in M. Dessoir (hrsg. v.), Lehrbuch der Philosophie, Bd. I: Die Geschichte der Philosophie, Ullstein GmbH, Berlin 1925, pp. 7-139, tr. it. di G. A. De Toni, Da Talete a Platone, Laterza, Roma- Bari 1984, pp. 1-163; Id., Die Sprache, in Philosophie der symbolischen Formen, Bd. I, Berlin1923, tr. it. di E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze 1987; Id, Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», Bd. II (1922-23), Teil I, Teubner, Leipzig-Berlin 1924, pp. 1-27; H. Cohen, Platon‘s Ideenlehre und die Mathematik, Marburg, 1878-19282; N. Hartmann, Über das Seinsproblem in der griechischen Philosophie vor Plato, Dissertation, Marburg, 1909; Id., Zur Lehre vom Eidos bei Platon und Aristoteles, Aus den Abhandlungen der Preußischen Akademie der Wissenschaften Jahrgang 1941, in N. Hartman, Kleinere Schriften 2. Abhandlungen zur Philosophie-Geschichte, Walter de Gruyter & Co, Berlin 1957, pp. 129-164; E. Lask, Platon, in Gesammelte Schriften, Bd. III, Mohr, Tübingen 1924, pp. 1-51; H. Lotze, Logik. Drei Bü-
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Dal punto di vista storico-filosofico, in questo clima di rilettura del kantismo con le lenti di Platone, una significativa posizione esegetica sul pensiero del filosofo dell’antichità, degna di nota, pare essere quella assunta da Ernst Cassirer, allievo in gioventù dei maestri della Scuola di Marburgo3. Tenendo bene in mente tali radici, ciò che qui si intende mettere in evidenza, dal punto di vista storico-filosofico, è quanto egli, nel I volume di Philosophie der symbolischen Formen del 1923, dedicato a Die Sprache, prenda decisamente posizione in favore dell’autenticità della Settima Lettera di Platone, collocandola nel contesto delle opere del filosofo, proponendone un’analisi che appare una validazione filosofica alla autenticità dello scritto, che appare originale, oltre che nella interpretazione platonica neokantiana, anche nel più ampio contesto del dibattito filosofico e storiografico di quegli anni4. Non essendo ancora stata dimostrata all’epoca l’autenticità della Settima Lettera, né, tantomeno, quella dell’excursus, Cassirer, nel ricorrere a questo testo per rafforzare la propria lettura del pensiero platonico, scrive:
cher vom Denken, vom Untersuchen und vom Erkennen, S. Hirzel, Leipzig 18802, pp. 505-sgg.; P. Natorp, Platos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Dürr, Leipzig 1903, 19212, tr. it. di V. Cicero, Dottrina platonica delle Idee; Id., Über Platos Ideenlehre, Berlin 1914, tr. it. di V. Cicero, Logos Psyche - Eros. Metacritica alla «Dottrina Platonica delle Idee», Vita e Pensiero, Milano 1999; W. Windelband, Platon, Frommann, Stuttgart 1900, 19206. 3 Cfr. M. Ferrari, Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Franco Angeli, Milano 1988; H. Paetzold, Ernst Cassirer von Marburg nach New York. Eine philosophische Biographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995. 4 Cfr. E. Cassirer, Die Sprache, in Philosophie der symbolischen Formen, Bd. I, Berlin 1923, tr. it. di E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze 1987 pp. 62-66, tr. it pp. 71-75. Per una ricognizione critica delle posizioni dei vari interpreti della Settima Lettera, si rinvia a M. Isnardi Parente, Introduzione, in Platone, Lettere, tr. it. M. G. Ciani, A. Mondadori, Milano 2002.
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nella costruzione e nel graduale procedere del sapere dialettico la parola mantiene un posto e un valore a essa propri. Gli incerti confini, la stabilità sempre soltanto relativa del significato delle parole diventano per il dialettico uno sprone per elevarsi in contrapposizione e in lotta con esso, all’esigenza dell’assoluta stabilità del contenuto significativo dei concetti puri, alla βεβαιότης del mondo delle idee. Ma solo la filosofia platonica delle opere della vecchiaia portò, in senso sia positivo che negativo, a pieno dispiegamento questa intuizione fondamentale. L’autenticità della VII Lettera platonica probabilmente da nulla è dimostrata in maniera più evidente che dal fatto che essa, sotto questo riguardo, si ricollega direttamente al risultato del Cratilo, portandolo per la prima volta ad assoluta chiarezza metodologica e a compiuta fondazione sistematica.5
La prima osservazione che occorre fare è che tale attestazione di autenticità non è meramente e immediatamente filosofica, in quanto il testo di Cassirer si colloca poco dopo la rilevante presa di posizione filologica di Wilamowitz-Moellendorff che, oltrepassata la reticenza visibile in Aristoteles und Athens6, con il suo Platon, nel 1919, ammette la platonicità dello scritto7. Il peso di tale posizione, d’altra parte, può essere scorto, oltre che nel placet accordato da Cassiser a tale disamina, anche nell’immediata risposta della comunità scientifica, fornita da Stenzel (1921)8 e da Howald (1923)9, entrambi tenuti in considerazione dalla lettura filosofica cassireriana, e da Andreae (1923)10. Nell’ambito di questo contesto di indagine filologica, un Cassirer quasi cinquantenIvi. p. 62, tr. it., p. 72. Cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Aristoteles und Athens, Bd. I, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1893. 7 Cfr., U. von Wilamowitz-Moellendorff, Platon, Berlin 1919 (19595), Bd. I, pp. 648-653, Bd. II, pp. 283-299. 8 Cfr., J. Stenzel, Über den Aufbau der Erkenntnis im VII. Platonischen Brief, in «Jahresbericht des philologischen Vereins», 1921, ora in Kleine Schriften zur griechischen Philosophie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19572, pp. 85-107. 9 Cfr. E. Howald, Die Briefe Platons, Verlag Seldwyla, Zürich 1923, pp. 52114. 10 Cfr. W. Andreae, Die philosophischen Probleme in den Platonischen Briefen, in «Philologus», 78 (1923), pp. 34-87. 5 6
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ne, ma cattedratico ad Amburgo da pochi anni, fornisce probabilmente per primo, a seguito dello studio di Wilamowitz-Moellendorff, una motivazione prettamente filosofica all’autenticità della lettera di Platone. In proposito, occorre anzitutto porre in evidenza quanto la citazione della lettera, avvenga nell’intento di ripercorrere una storia del linguaggio nel pensiero filosofico, che, seguendo lo schema evolutivo, di certo non originale, ma in gran parte attestato dalla critica del tempo, dal mythos al logos, vede Cassirer confrontarsi dapprima con i presocratici, in particolare Eraclito e Senofonte, e, subito dopo, con Platone. La lettura di quella che si potrebbe chiamare la filosofia del linguaggio platonica (ove per linguaggio si intende il senso greco di logos in tutte le sue accezioni) è introdotta con lo sguardo a un Platone attento alla rilevanza della questione dell’identità, nell’ambito del significato delle parole, nel soffermarsi sul τί ἐστι. Nel far ciò, Cassirer ricorrere non al Fedro, ma al Cratilo, sottolineando la notizia (aristotelica) per cui l’omonimo filosofo del dialogo sarebbe stato amico di Platone11. Scrivendo queste pagine di questa storia filosofica del linguaggio, è intuibile che Cassirer non a caso presenti come prossimo al giovane Platone, Cratilo, che avrebbe percorso con lui i sentieri eraclitei, nei quali, appare ben presto la conoscenza della questione filosofica dell’“identità” nella realtà, e, pertanto, nel linguaggio. Asserendo che «l’identità che Eraclito aveva affermato tra la totalità del linguaggio e la totalità della ragione viene qui trasferita nella relazione tra la singola parola e il suo contenuto concettuale»12, Cassirer, in un’ottica prettamente neokantiana, mette in risalto la necessità, rinvenibile nell’ironia platonica, di oltrepassare l’ingenua identificazione, per similitudine, tra parola e conoscenza, svincolando così l’ambito della parola dalle problematiche legate alla Erkenntnistheorie. Quasi a voler lasciare intendere lo stridore esistente tra la stabilità della conoscenza e quella «sempre e soltanto relativa del significato delle parole», il pericolo dello scadere nella sofistica, a cui Platone ha reagito, è fugato nel far emergere la peculiarità e la superiorità del sapere del dialettico (del platonico), che può «elevarsi», 11 12
Cfr. Arstotele, Metafisica, 987 a 33-b 1. E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 62, tr. it p. 71.
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al di sopra della plurisemicità della parola, del significato, nel tendere verso alla stabilità eidetica, della conoscenza. Con riferimento a quella esigenza di assoluta stabilità «del contenuto significativo» dei concetti puri, la dialettica tyche-bebaiotes, sarebbe così risolvibile a favore della seconda, nella dimensione della teoria delle idee, che, solo il dialettico conosce e fa sua, senza lasciarsi ingannare dalla mera conoscenza del nome delle cose. Nella lettura del Cratilo, prospettandosi l’esistenza di un nodo teoretico, non totalmente chiaro e sviluppato, tra conoscibilità dei significati dei nomi e i contenuti significativi dei concetti, Cassirer, facendo suo il paradigma genetico-evolutivo neokantiano del pensiero platonico, sostiene, alludendo alla Settima Lettera, lo sviluppo della questione nel tardo Platone13. Asserendo che la Lettera platonica proseguirebbe e porterebbe a termine quanto impostato nel Cratilo, Cassirer sembra riferirsi in particolare alla parte dell’excursus, in cui sono presentati i gradi di conoscenza, «che conducono all’intuizione del vero essere, dell’oggetto della conoscenza come γνωστὸν καὶ ἀληϑῶς ὄν», che, oltre a quest’ultimo supremo grado, sono relativi, in quelli inferiori, all’ὄνομα, il nome (Namen), al λόγος, la definizione linguistica dell’oggetto (die sprachliche Definition des Gegenstandes), e all’εἴδωλον, il riflesso sensibile (sinnliches Abbild)14. Seguendo l’esempio del cerchio che Platone presenta nella Lettera, si osserva come né il grado di conoscenza che riguarda il pronunciare meramente il nome “cerchio”, né la sua definizione, «quella figura che in tutti i sensi ha la medesima distanza fra i punti della periferia e il centro», né la figura sensibile, il cerchio tracciato o tornito, ovvero il suo modello, riescono a cogliere «la vera essenza del cerchio (die wahre Wesenheit des Kreises)»15. In linea con quanto precedentemente ricostruito, bisogna rilevare quanto Cassirer leghi questo aspetto alla dialettica essere-divenire, derivante dal pensiero eracliteo (che sarebbe Cfr. anche E. Cassirer, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, in M. Dessoir (hrsg. v.), Lehrbuch der Philosophie, Bd. I: Die Geschichte der Philosophie, Ullstein GmbH, Berlin 1925, tr. it,. pp. 155-156. 14 E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 63, tr. it. p. 72. 15 Ivi. p. 63, tr. it. p. 72. 13
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stato proprio del giovane Platone, amico di Cratilo), laddove questi gradi di conoscenza non sarebbero la vera essenza di un qualcosa, essendone semplicemente rappresentazioni legate alla realtà transeunte e non alla immutabilità che è propria dell’eidos. A questi gradi del conoscere, Platone ne aggiungerebbe altri due, che il neokantiano Cassirer rende come «la conoscenza scientifica e il suo oggetto (die wissenschaftliche Erkenntnis und ihr Gegenstand)»16. Leggendo, alla luce del moderno concetto di scienza, l’insegnamento platonico e presupponendo che in Platone possa essere riscontrata un’idea simile o identica a quella di “oggetto” (della conoscenza scientifica), il filosofo tedesco afferma la natura preliminare dei primi tre gradi, conservandone però, al contempo, la validità per raggiungere gli ultimi due. Questa macrodivisione di questi due livelli conoscitivi, all’interno dei quali si articolano tali gradi, porta Cassirer a leggere l’idea platonica di ἐπιστήμη come quella «conoscenza razionale (vernünftigen Einsicht)»17 che riguarderebbe gli ultimi due gradi. Questi ultimi possono così essere raggiunti solo attraverso gli strumenti del conoscere che si è visto essere l’ὄνομα, il λόγος e l’εἴδωλον, che consentono di salire gradualmente verso la conoscenza scientifica e gli oggetti propri di questa. La cognizione dell’oggetto e l’oggetto stesso appaiono conseguentemente del pari come qualche cosa che trascende questi tre gradi, e come qualche cosa che in sé li comprende, come loro trascendenza e sintesi.18
Nell’avvalorare filosoficamente l’autenticità della Settima Lettera, Cassirer non solo la presenta come una sorta di prosecuzione matura dei risultati raggiunti nel Cratilo, ma la colloca anche in una relazione di prossimità con le posizioni espresse nel Fedone. In particolare, questo dialogo, nel presentare il percorso del pensiero filosofico, indicherebbe, al pari della lettera, quella direzione che va dai λόγοι ai πράγματα, e non viceversa, in tal senso «solo nella verità del concetto, la realtà delle Ivi. p. 63, tr. it. p. 73. Ibidem. 18 E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 64, tr. it. p.73. 16 17
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cose può essere colta e intuita»19. Muovendo da questo aspetto, Cassirer, da un lato, sottolinea la centralità e la rilevanza dell’idea platonica di rappresentazione (che gioca un ruolo fondamentale per la stessa possibilità della teoria delle idee e per concepire la distinzione tra idea e fenomeno), e, dall’altro, ribadisce la necessità di tenere presente, come la Lettera propone, la rilevanza conoscitiva in essa insita. Tanto che, nello svolgersi dell’excursus della Settima Lettera: per la prima volta nella storia del pensiero, viene fatto il tentativo di determinare e circoscrivere in senso puramente metodologico il valore conoscitivo (Erkenntniswert) del linguaggio.20
Affermando ciò, e annotando al contempo che il linguaggio è pur sempre «un semplice punto di partenza»21 per la conoscenza, è intuibile come questo sia colto nel senso di una via d’accesso alla conoscenza, uno strumento per la conoscenza, in quanto la parola non è né l’idea, né il suo contenuto; naturalmente, lo stesso vale per la definizione e per il modello sensibile. D’altro canto, non può essere ignorato che la rappresentazione, il fenomeno per cui queste forme superficiali e mediatiche di conoscenza sensibile presentino un significato di cui sono, solo, simbolo sensibile (e non possessori), siano appunto in relazione con l’idea stessa, dacché hanno una «tendenza spirituale (geistige Tendenz) verso le idee» che «va riconosciuta anche nei prodotti del linguaggio»22. Riprendendo qui quella peculiare direzione che va dai λόγοι ai πράγματα, si osserva come nel linguaggio sia sviluppata una relazione che non è propria delle “cose”(Dinge), ovvero degli «oggetti di esperienza che hanno concretezza sensibile»23, ma che anzi è peculiare di quanto si sviluppa tra parola (Wort) e significato (Sinn) e tra simbolo (Zeichen) e significato in esso pensato (gemeinten Bedeutung). Questa specificità consente di tener distinte le due sfere, conoscitiva e linguistica, evidenIvi, p. 64, p. 74. Ivi, p. 64, p. 73. 21 Ibidem. 22 E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 64, tr. it. 74. 23 Ibidem. 19 20
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ziando la distanza tra parole e concetti puri e, al contempo, di tenere viva la loro relazione, attraverso l’originale neologismo filosofico platonico della μέϑεξις. Questo termine, inteso nel senso di «partecipazione (Teilhabe)»24, consentirebbe così a Platone di uscire dalla antinomia identità-diversità, con indubbi vantaggi. Difatti, spiega Cassirer: la pura idea dell’“eguale stesso” rimane, rispetto alle pietre o ai legni eguali con cui essa è rappresentata, un essere altro, un ἕτερον, e tuttavia, proprio questo altro, dal punto di vista della visione del mondo sensibilmente condizionata, può essere colto solo in questa rappresentazione (Darstellung).25
Così, alla luce della consapevolezza per cui «dal punto di vista dell’idealismo» le «“cose” della comune visione mondane (die “Dinge” der gemeinen Weltansicht)» divengono «immagini (Bildern)»26, che non posseggono un contenuto di verità immediato, Cassirer sostiene che la rappresentazione di queste cose del mondo rimanda a un essere altro che essa non è, e che non raggiunge, in quanto proprio la pura idea non è in sé afferrabile. Leggendo così assieme a Kant (dei neokantiani) Platone, si può comprendere come per la questione del linguaggio il «contenuto fisico-sensibile della parola» sia latore di un significato ideale «(ideellen Bedeutung)» che è ben al di là del linguaggio stesso, che, con la parola, tenta di esprimere l’essere nella sua purezza27. Il limite dei gradi della conoscenza, d’altro canto (e, pertanto, il limite del linguaggio) per Platone pare essere proprio quello di non riuscire a cogliere l’essere puro, in quanto, come si legge nella lettera: tali elementi esprimono non meno la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. (Platone, Lettera Settima, 342e-342a) E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 65, tr. it. 75. Ibidem. 26 E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 64, tr. it. 74. 27 Cfr. Ivi. p. 65, p. 75. 24 25
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Così, per quanto il linguaggio (e con esso ὄνομα, λόγος e εἴδωλον) nutra l’ambizione di esprimere il puro essere, questa non è mai soddisfatta, perché in esso vi è quella che Cassirer chiama «la designazione di un’altra “qualità” (Beschaffenheit)» accidentale dell’oggetto28. Esprimendo, assieme all’essere, questa qualità, gli elementi della conoscenza possono rendere stabili, nel linguaggio, ciò che è partecipe tanto della natura dell’essere, quanto di quella, accidentale, della dinamicità della parola in cui esso è colto. In tal senso, la critica allo scritto, al voler fissare in forma linguistica (parola), una conoscitiva (concetto puro), è limitata dalla superiorità dell’espressione orale, che, al contempo, rivelando la propria instabilità, mostra il proprio limite. In questa presentazione della forza e della debolezza del linguaggio e della parola, Cassirer intende ricucire e mostrare la convergenza tra le opere platoniche e la Lettera Settima, mostrando la coincidenza tematica e teoretica con le altre opere di Platone. Qui, infatti, il discorso su Platone, prima di introdurre Aristotele in questa storia filosofica del linguaggio, si spegne proprio sulla superiorità dell’insegnamento orale e sulla impossibilità di tenere intrappolata nello scritto «l’esposizione del supremo contenuto conoscitivo, del contenuto realmente filosofico»29, ovvero, dell’essere nella sua purezza. Che questa presa di posizione filosofica a favore dell’autenticità della lettera platonica non sia una mera contingenza, trova conferma nel fatto che, se è vero che sul piano storico-filosofico, cronologicamente, la posizione speculativa di Cassirer segue quella filologica di Wilamowitz-Moellendorff, ingenerando il citato dibattito, è altrettanto rilevante il fatto che il filosofo tedesco ricorre alla parte dell’excursus della Lettera, negli anni della stesura di Philosophie der symbolischen Formen (probabilmente per la prima volta pubblicamente a seguito della lettura wilamowitziana), già nel 1922, nell’ambito dei Vortäge der Bibliothek Warburg, con un contributo, poi pubblicato nel 1924, dal titolo Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in
28 29
Ibidem. Ibidem.
Cassirer e la prima “validazione filosofica”
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Platons Dialogen30. Se l’interesse prevalentemente teoretico del saggio è orientato, come chiaro, sull’estetica platonica, alla ricerca di una mediazione possibile tra eidos ed eidolon, tra forme pure (matematiche) e mondo sensibile (natura), la Lettera platonica è citata, ancora una volta, a supporto degli altri scritti del corpus, al fine di mostrare il limite di tentare di cogliere e comunicare attraverso la parola una dottrina, un’idea, dacché, la parola è, e resta, sempre mero strumento al servizio della filosofia, non essendo, né potendo essere, filosofia stessa. Conferma ulteriore della stabilità di tale orientamento esegetico, in favore della autenticità della Settima Lettera, è rintracciabile nello scritto del 1925 Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, che ripercorre l’itinerario del pensiero antico da Talete a Platone31. Collocando di nuovo accanto al Cratilo la Settima Lettera (questa volta non al fine di giustificarne un’autenticità, ormai dimostrata), Cassirer conferma i risultati a cui era giunto nei precedenti studi, riprendendo le forme della «parola pronunziata» e della «immagine intuita», nelle quali «vive la forza del logos»: entrambe mirano a conoscere determinate entità essenziali pure senza tuttavia contenere in sé tale conoscenza né esserla esse stesse32.
Tornando così, nuovamente, sulla debolezza e sulla forza dei mezzi della conoscenza, che l’esposizione presente nell’excursus della Lettera Settima pone chiaramente in luce, l’intento di Cassirer pare quello di proseguire e rafforzare la lettura platonica di Cohen e Natorp in merito alla gnoseologia platonica, che, in questi primi anni Venti del Novecento, può essere sostenuta ulteriormente, a seguito della ammissione Cfr. E. Cassirer, Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», Bd. II (1922-23), Teil I, Teubner, Leipzig-Berlin 1924, pp. 1-27. Per l’analisi dello scritto, si rimanda a F. Trabattoni, Ernst Cassirer e l’«estetica platonica», pp. 165-184. 31 Cfr. E. Cassirer, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon. cit. 32 Ivi. p. 91, tr. it. p. 110. 30
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filologica dell’originalità dello scritto. Quest’ultimo, dal punto di vista filosofico, seguendo l’analisi cassireriana, conferma, storicamente, l’impianto genetico-evolutivo tipico della lettura neokantiana di Platone, sostenendo una maturazione filosofica del filosofo d’Atene, dalle prime opere, il Cratilo, a quelle tarde, appunto, la Lettera Settima, e, teoreticamente, rafforza un’analisi del conoscere, dei suoi mezzi e del suo oggetto, rintracciabile nell’impianto esegetico (kantizzato) delle interpretazioni platoniche, tanto della Scuola del Baden, tanto di quella di Marburgo. Questa prima validazione filosofica dell’autenticità della Settima Lettera di Platone, inserendosi nella più ampia riflessione sul tema del linguaggio, peculiare della impostazione filosofica di Cassirer, fornisce un ulteriore tassello all’analisi di un fenomeno che, ponendosi a metà strada tra le forme pure del conoscere e il sensibile, spinge quel tentativo del filosofo tedesco di «ampliare» la critica della ragione (più o meno «semplicemente»33) verso le forme di una «critica della cultura»34.
Cfr. M. Heidegger, Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. 2. Teil: Das mythische Denken, in «Deutsche Literaturzeitung», 21 (1928), pp. 1000-1012, ora in Kant und das Problem der Metaphysik, GA 3, Klostermann, Frankfurt am Main 19986, pp. 255-270. 34 E. Cassirer, Die Sprache, cit., p. 10, cfr., tr. it. p. 12. 33
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Una “nuova” businnes ethics? L’uomo come “risorsa” tra bisogni e capabilities A New Businnes Ethics? Man as “Resource” between Needs and Capabilities. The aim of this paper is to describe and eventually give some clues about the “endless” debate about “Human Resources” and their rules inside and outside firms. Starting with an historical and economically based analysis, from 70’s to nowadays, the discussion goes through the birth of the Business Ethics and its “evolution”, led by the theories of Weber and Rawls; the definition of needs and capabilities, thanks to Sen’s and Nussbaum’s theories; coming at least to a different approach, “proposed” by the new business ethical thought. This new approach sets apart from the “classic” economic, and strongly autoreferential view of the “Human Resources”, moving to an anthropocentric and systemic vision, outlining the role of “Human Resources”, on the basis of the fundamental contribution of Morin, and hightlighting a new paradigm: “The Ring Paradigm”. This shows that people are not only the mean, but also the final aim of economic performances. Prima di trattare nello specifico, l’acceso conflitto, che negli ultimi anni divampa sempre più forte, tra una visione prettamente “economistica” di “uomo – risorsa”, e un approccio più ampio, “antropologico” di matrice etica; sembra doveroso contestualizzare, l’ambiente economico, lo scenario economico-sociale all’interno del quale, tale diatriba va consumandosi. Il contesto ambientale, negli ultimi anni, si ritrova ad essere coinvolto in pesanti spinte verso un cambiamento radicale, verso un “apertura”, verso un “ritorno all’etica”.
* Laurea Magistrale in Economia Aziendale - Università del Salento.
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Proprio per questo motivo, apriremo la trattazione introducendo quella radicale trasformazione, conosciuta come “new business ethics”. Con l’espressione “business ethics” si intende quello specifico settore dell’etica applicata che si esercita nell’analisi e nella giustificazione di pratiche, organizzazioni e istituzioni che hanno a che fare con il settore dell’economia e degli affari. Costituitasi come settore disciplinare autonomo negli anni ‘70, tramite un fecondo scambio interdisciplinare con l’economia, le scienze sociali e il diritto, la business ethics tende ad articolarsi in: Macro-etica degli affari Meso-etica degli affari Micro-etica degli affari Nel presente lavoro, ci occuperemo esclusivamente dell’ultima tipologia di etica. La Micro-etica degli affari, difatti, fondando radici sulla sospensione dell’economia di mercato all’interno delle moderne imprese globali, introduce un livello collettivo della business ethics, che verte sulle relazioni interne alle imprese, sull’etica dell’organizzazione, sulle relazioni tra shareholders, management e dipendenti, ovvero tutta la componente umana facente parte dell’organizzazione. L’etica degli affari, si propone come un etica “protesa a prescrivere”, come una manifestazione tardo novecentesca di etica normativa, “coinvolta” nel tradizionale scontro tra affari ed appunto etica, storicamente considerati incompatibili. Tale difficoltà nell’accostamento tra affari ed etica, si riflette nella moderna concezione del valore. Locke, Smith, e Kant definiranno il concetto di valore, non considerando ancora gli affari, come pratiche con un valore intrinseco o morale, tuttavia, l’apporto di Smith e il globale successo dell’ideologia del capitalismo, renderanno possibile la nascita di quella che viene oggi chiamata business ethics moderna. Cruciale inoltre, fù il cambiamento di atteggiamento morale nei confronti dell’idea di homo oeconomicus, il cui egoismo razionale fu a
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lungo considerato una condizione necessaria ma problematica da parte delle correnti dominanti della filosofia pratica. Solo a seguito della formulazione di “teorie rimedio” da parte di Hobbes, che teorizzò il contratto sociale, Smith che basò la sua teoria sulla simpatia e Bentham con il suo apporto basato sulla razionalità, l’egoismo razionale dell’uomo viene accettato, poiché intrinsecamente strumentale; ma una netta distinzione tra la sua utilità individuale e comunitaria continuò a caratterizzare il concetto. Tuttavia, tale cambiamento di “tendenza”, rese possibile la nascita e il riconoscimento, della business ethics come parte legittima della filosofia pratica. Una strategia per una business ethics con basi filosofiche, è la concezione della “giustizia distributiva” di John Rawls, che accetta l’economia di mercato ma combina la razionalità dell’ homo oeconomicus con la ragionevolezza kantiana dell’uomo pubblico. Sulla base di tali approcci, è stata posta in essere una rivalutazione totale dello scambio economico, che «Può e deve contribuire a soddisfare bisogni e desideri umani, a favorire relazioni sociali pacifiche e a rendere possibile la sconfitta della povertà attraverso il lavoro, la creatività e la fortuna in modo socialmente accettabile e non a puro detrimento degli altri»1. «L’uomo difatti, non è soltanto un avido uomo d’affari, ma non è neppure un santo, e se il lavoro di distribuire beni non crea alcun valore, la giustizia richiede qualche altra compensazione»2. Proprio queste due asserzioni, saranno i punti cardine di un aspetto che recentemente è emerso in maniera preponderante, la responsabilità sociale d’impresa, che sfocia in quella oggi nota come new business ethics. Sarà a partire dalla responsabilità sociale di impresa, nella quale vengono accostati due termini quali responsabilità e impresa, che fino a poco tempo fa sembravano assolutamente incompatibili, che si accetterà l’esistenza di un etica individuale all’interno delle organizzazioni, 1 2
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Roma, 1991, p. 27. J. Rawls, op. cit., p. 33.
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volta a promuovere comportamenti sani dal punto di vista etico per il lavoro che si svolge all’interno e all’esterno dell’azienda. Ovviamente tale tipo di etica deve assolutamente essere interpretata in maniera relativa e non assoluta, deve avere caratteri pragmatici calandosi nella concretezza delle cose, poiché l’impresa deve sempre fare i conti con la competitività. Proprio il concetto di responsabilità sociale di impresa, funge da trampolino di lancio per il concetto di new business ethics. Difatti, tale “teoria morale” oggi fortemente diffusa negli studi di RSI, si basa sul principio di responsabilità che funge da base alla formulazione della teria degli stakeholders con la quale finalmente avviene il “riconoscimento” dei bisogni di soggetti diversi dai soli azionisti. La prima teorizzazione del principio di responsabilità, è espressa da Max Weber nel suo saggio La politica come professione. Egli sostiene che tale responsabilità deve prescindere da qualsiasi scambio utilitaristico, basandosi sull’idea di fondo che qualsiasi giudizio morale, oltre che delle intenzioni, deve tenere conto degli effetti delle azioni, quando questi sono prevedibili, poiché ogni attività potrebbe, anche in maniera accidentale, generare esternalità negative, trasformando un atto morale soggettivamente lecito, in un atto oggettivamente illecito. Tale definizione, sarà la base per il successivo apporto di Jonas, il quale apporterà “modifiche” sostanziali allo stesso. Hans Jonas, accentuando progressivamente il concetto di “filosofia pratica”, impegnata ad esplicitare il nesso tra etica e ontologia, che è alla base della filosofia della natura, si spinge fino a sottolineare i pericoli della “civiltà tecnologica”, “aggiungendo” alla definizione di responsabilità, teorizzata da Weber, la sua euristica della paura, riproponendo inoltre il concetto che tale responsabilità prescinda qualsiasi scambio utilitaristico, aggiungendo che, proprio sulla base dell’euristica della paura, questa deve “aumentare progressivamente” nei confronti degli individui più fragili e vulnerabili, includendo quindi un dovere “asimmetrico” nei confronti delle generazioni future. Con l’introduzione della sua euristica della paura, Jonas esplicita la convinzione che non sia sufficiente soffermarsi sulle sole conseguenza
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prevedibili, occorre spingersi fino a prendere in considerazione anche le conseguenze possibili delle azioni. L’imperativo adeguato per il nuovo tipo di agire umano è, per Jonas: «Agisci ed opera in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di una autentica vita umana sulla terra»3 reinterpretando la famosa massima kantiana. Ebbene, è su tale impianto di discorso che la teoria degli stakeholders, ovvero di tutti quegli individui che hanno un interesse nell’attività di impresa, si è andata affermando. Tale tipo di approccio richiede una revisione profonda, in prospettiva kantiana, presupponendo che ogni gruppo di stakeholders abbia diritto a non essere trattato come un mezzo orientato a qualche fine, ma debba essere trattato come determinante degli indirizzi aziendali. Se ne deduce che il fine dell’azienda, non può più essere considerato la mera massimizzazione, sotto vincoli, del profitto e degli interessi degli shareholders, l’obbiettivo vero dell’impresa deve essere quello di fungere da veicolo per coordinare gli interessi degli stakeholders. Se in passato dunque, l’attenzione era concentrata sull’aumento di valore per gli azionisti, considerato come l’obbligo prioritario (etico e finanziario) dell’impresa, nei suoi sviluppi recenti la teoria degli stakeholders ha posto l’accento sull’ importanza del “coinvolgimento”. Alle origini di questa autentica svolta nella teoria dell’impresa si trova un fondamento morale, individuato nel principio kantiano del rispetto delle persone, principio secondo cui queste devono essere trattate come un fine in sé e non meramente come mezzo per qualche fine, «Opera e agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come un fine e mai semplicemente come un mezzo»4. Bisogna perciò convenire che la morale kantiana può essere adoperata come clava per demolire vecchie e venerabili tradizioni di pensiero, tutte incentrate sulle sole ragioni dell’impresa. H. Jonas, Il principio di responsabilità: un etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990, p. 58. 4 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, UTET, Torino, 1970, p. 88. 3
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Ma come fare a realizzare la compatibilità degli interessi di tutti gli stakeholders ? La ragione per accettare tale principio, può essere rintracciata assumendo la prospettiva secondo cui sia possibile raggiungere tale scopo grazie ad un “ipotetico” contratto sociale. Ricorrendo difatti all’impostazione contrattualistica di Rawls, il quale teorizza l’esperimento della “scelta mentale equa” in una “posizione originaria” 5 sotto un “velo di ignoranza”6 si ritiene di poter raggiungere il consenso tramite la creazione di un “contratto equo” Detto ciò, si può facilmente comprendere come la new business ethics sia fondata sulla corrispondenza tra due elementi principali: la teoria del contratto sociale “equo” e il modello degli stakeholders come suo corrispettivo nell’analisi dell’azienda. Tale “definizione” può essere ulteriormente avvalorata partendo dall’idea che il contratto sociale, cosi come nella tradizione filosofica è stato normalmente concepito, è un contratto che vincola i cittadini tra di loro e con lo Stato, fornendo una giustificazione teorica dell’“obbligo politico”. Dunque, se il contratto è uno strumento concettuale adeguato per giustificare l’autorità dello Stato, si può pensare che lo sia anche per giustificare il ruolo dell’azienda come motore dello sviluppo economico. Ovviamente, l’“autorità” dell’impresa è diversa da quella dello Stato, e consiste in primo luogo nella disponibilità ad agire in prima persona da parte dell’azienda, e nella possibilità che le è garantita di “disporre” in questo modo di cose e persone a fini produttivi. Quello che la nuova prospettiva dell’etica degli affari aggiunge a ciò è un interesse speciale per le condizioni morali sotto cui un contratto Posizione originaria: definita come uno stato di cose non reale, di un esperimento mentale, identificabile con la tradizionale definizione di “stato di natura” proposta da Hobbes. 6 Velo di ignoranza: caratteristica fondamentale della “posizione originaria”, che definisce la situazione di assoluta “non conoscenza” della posizione sociale che ogni singolo soggetto ricopre, rendendolo capace di scegliere in maniera “più equa” di quanto non farebbe in altre circostanze. 5
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ideale, idoneo quindi a giustificare la presenza e il ruolo dell’azienda, dovrebbe essere siglato. La tesi centrale della new business ethics sembra perciò essere che il contratto sia accettabile se e solo se ottempera a determinate condizioni morali particolarmente significative. In tutto questo stravolgimento della concezione stessa del “fare impresa”, l’uomo, come principale attore dell’azienda stessa, come “risorsa potenziale” prima e “risorsa umana” poi, vede profondamente modificata la sua “rilevanza”. I parametri storicamente usati, per “pesare”, “valutare”, “assegnare un ruolo” all’uomo – risorsa, devono essere radicalmente ridisegnati in tale ottica. Basandoci infatti sul modello degli stakeholders, tutti i soggetti che in vario modo vengono coinvolti nell’attività delle aziende devono veder soddisfatti i propri interessi, perciò quali “migliori” stakeholders dei lavoratori o dei candidati ad una posizione lavorativa potrebbero essere coinvolti in tale approccio “rivoluzionario” ? In tal senso, le “risorse umane” ma anche le “risorse potenziali” vengono pienamente investite dai cambiamenti apportati dal principio della responsabilità, in termini di responsabilizzazione, coinvolgimento, empowerment; cosi come l’onda del modello degli stakeholders le travolge, portando alla luce quella sempre presente e sempre più pressante necessità del riconoscimento dei bisogni e dei desideri delle stesse. Sarà proprio basandoci su questo rinnovato contesto di riferimento che struttureremo l’analisi della necessità di “mettersi in ascolto” dei bisogni, di rivalutare le capabilities dell’uomo e di modificare radicalmente il punto di osservazione, mirando ad una visione “complessiva”, “più ampia”, “intera” dell’uomo stesso, in una visione antropocentrica, sia pure modificata radicalmente. Per poter definire il concetto di capabilities, usando un approccio prettamente “antropocentrico”, è fondamentale introdurre il concetto di bisogno, dal quale le capabilities, in maniera inequivocabile, scaturiscono. Il tema del bisogno, fortemente caratterizzato da ambiguità e pluralità interpretative, ha attraversato e continua ad attraversare il dibattito,
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coinvolgendo una riflessione multidisciplinare e a più livelli, costringendo quindi ad un interrogazione non solo nell’ambito dell’economia, dove tuttavia incontra la gran parte delle questioni materiali, ma anche, con una visione più ampia, in un’analisi approfondita sul piano eticofilosofico e antropologico. Il bisogno, genericamente definito come “privazione”, “mancanza”, “assenza”, rappresenta un elemento costitutivo dell’essere stesso. E proprio la spinta del bisogno è alla base della nostra società, poiché, questa “infinita inquietudine dell’uomo” spinse verso la civilizzazione, alla stesura di statuti e alla costituzione di Stati. Ed è proprio all’interno delle città, che si manifesta e si sviluppa l’universalità del “bisogno della ragione”, che si mostra in modi diversi nel rapporto qualitativo tra le fondamentali dimensioni del capire e dell’agire umano. Tale bisogno, ripropone la questione sul carattere oggettivo o soggettivo del bisogno, sul relativismo o universalismo dello stesso, riaffermando tuttavia, che la ragione stessa non può che orientarsi se non secondo il “suo proprio bisogno”. Tale inevitabile bisogno della ragione umana svolge senza dubbio una funzione di congiunzione di pensiero e azione, di teoria e prassi, di universale e particolare, di relativo e assoluto nella direzione del recupero di un’apertura del bisogno al suo ruolo di fondamento. Tuttavia, l’“indomabile” bisogno della ragione, spinse l’uomo, posto di fronte all’insoddisfazione delle promesse della modernità, ad impegnarsi illusoriamente su un progetto di definitiva “liberazione dal bisogno” e a riporre incondizionatamente e testardamente fiducia nell’esercizio di una razionalità orgogliosa e inflessibile, basata su un rigore assoluto e sul dominio totale di una “paradigmaticità tecnica” nel quale riporre il totale affrancamento dal bisogno. Proprio in tale “contesto”, seguendo tale pensiero di “liberazione” dal bisogno, le aziende si organizzavano e di conseguenza “gestivano” il personale, le “risorse umane”. Una “gestione”, che però, a partire dalla rivoluzione industriale, ha trascurato quasi del tutto i “bisogni” e utilizzato le “risorse umane” ai soli fini del profitto.
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Come detto però, il bisogno è naturalmente insito nella natura umana, e l’uomo non è in grado di liberarsi definitivamente da esso. Cosi, quella che abbiamo definito come business ethics riafferma, con il passare degli anni, una nuova centralità del bisogno, guidando la rinascita di una “nuova filosofia critica della prassi umana”. Ed è proprio grazie a questa spinta innovatrice che, tenendo saldo il riferimento alla “complessità” del reale, e il fondamentale “ gioco delle relazioni” tra persone, cose, ambiente, situazioni culturali, nasce quello stretto collegamento del bisogno con il paradigma della complessità, aprendo inevitabilmente a quell’attenzione multidisciplinare che lo sottrae all’egemonia della teorizzazione e della prassi economica, definendo criticamente la pretesa egemonia dei “saperi” tecnici, giuridici, economici ecc.. e la conseguente necessità di una “totale” ridefinizione delle competenze. Asserita la centralità del bisogno e il ruolo fondamentale che il “riconoscimento” del bisogno gioca, è semplice comprendere come, nella “complessa” realtà moderna, risulti essere auspicabile, per comprendere la centralità delle capabilities, come diretta “conseguenza” del riconoscimento, muoversi in una prospettiva di un’ antropologia “condivisa”, che per la tesi e il fine che si vuole raggiungere, va intesa come «la piattaforma concettuale o il tavolo di contrattazione attorno al quale diverse tradizioni culturali possono e devono sedersi per tentare di ridurre la distanza che le separa nell’operazione culturale di individuazione di una tavola essenziale di bisogni e delle strategie più efficaci per la loro soddisfazione»7. Uno spunto importante per comprendere la rilevanza multidisciplinare della questione, può essere derivato dalla riflessione di J. Rawls, che definisce gli uomini moderni come “stranieri morali”, caratterizzati da vedute individuali fortemente differenziate, se non irriducibili. Egli inoltre, dopo aver proposto l’idea della giustizia come equità, che come detto rappresenta la base teorica della teoria degli stakeholders e della new business ethics, si propone di analizzare e trovare una M. Signore, Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensa Multimedia, Lecce, 2009, p. 49. 7
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“soluzione” alla “sfida” posta dall’ “estraneità morale ” che caratterizza le persone iscritte a pieno titolo entro il dominio delle nuove sfide introdotte da quel fenomeno socio-politico e culturale definito nei termini del “multiculturalismo”. Sfida, cioè, di convivenza pacifica, nella durata, tra soggetti con dimensioni identitarie e dottrine comprensive differenti, una convivenza che si realizzi secondo modalità accettabili da tutte le parti in causa, all’interno dei loro propri orizzonti etici di appartenenza, come detto molto distanti gli uni dagli altri, a volte anche opposti. È a questo proposito che Rawls introduce l’idea di un consenso per intersezione (overlapping consensus), come base per la realizzazione di una convivenza pacifica entro coordinate “multiculturali”. L’idea di fondo è che «i principi di giustizia per l’ambito del politico devono giacere, per così dire, nel sottoinsieme di intersezione non vuoto fra gli insiemi delle dottrine comprensive»8, come sottolinea S. Veca. L’adesione ai valori politici fondamentali, definiti dalla teoria della giustizia come equità, viene ricondotta così alle ragioni che ogni cittadino può trovare entro la propria dottrina comprensiva, ragioni che lo spingono a collaborare con i suoi partner sociali per la costruzione di un assetto sociale ed istituzionale, il più possibile stabile, i cui principi di base siano circoscrivibili nell’area di condivisione generatasi dalla sovrapposizione delle diverse prospettive sul mondo coinvolte. «Entro un simile consenso le dottrine ragionevoli fanno propria, ciascuna dal suo punto di vista, la concezione politica. L’unità sociale si basa su un consenso intorno alla concezione politica; la stabilità è possibile quando le dottrine che compongono questo consenso sono affermate dai cittadini politicamente attivi e il conflitto tra i requisiti della giustizia e di interessi essenziali dei cittadini, creati e incoraggiati dai loro assetti sociali, non è troppo acuto»9. Si è così giunti ad un punto cruciale della tesi rawlsiana che partendo dall’idea di persona come cittadino, proposta entro tale prospettiva, 8 9
S. Veca, La politica e l’amicizia, Edizioni lavoro, Roma, 1998, p. 102. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Roma, 1991, p. 83.
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assume che le persone, proprio in quanto cittadini, dispongano tutte delle capacità necessarie per divenire a pieno titolo membri cooperativi di una società, intesa proprio come equo sistema di cooperazione; tali capacità vengono individuate nei “poteri morali” insiti nelle persone stesse. Queste caratteristiche del “consenso per intersezione” ci permettono di comprendere come questo venga posto alla base di un ordine politico che voglia essere stabile nel tempo, ma soprattutto, di come, in tale visione siano fondamentali le capacità (capabilities) delle persone stesse, che rappresentano l’elemento costitutivo di un “sistema equilibrato”. Dunque, prendendo spunto dalla tesi di Rawls, si può comprendere come il punto da cui tracciare il percorso che ci porterà a definire le capabilities dell’uomo è certamente una visione di “concertazione”, disponibile a quell’apertura antropologica che si contraddistingue per la conclamata centralità dell’uomo, origine e termine di tutti i processi che richiedono la relazione, con il suo carico responsabilizzante. Proprio seguendo tale “filone”, A. Sen prima e M. Nussbaum poi azzarderanno definizioni del concetto di capabilities: «L’insieme delle risorse relazionali di cui una persona dispone, congiunto con le sue capacità di fruirne e quindi di impiegarlo operativamente»10, dove per capacità si intendono le capacità personali intese come: «Le possibilità di funzionamenti, composte di stati di essere e di fare, funzionamenti rilevanti, che possono variare da cose elementari come essere adeguatamente nutriti, essere in buona salute, ad acquisizioni più complesse come essere felice, avere rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità»11. In letteratura, tale insieme, viene spesso anche indicato con il concetto di “capitale sociale”, come sintesi degli aspetti materiali e immateriali della relazione tra persona e contesto, anche se tale definizione non è certo univoca.
10 11
A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano, 2000, p. 57. Ibidem.
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M. Nussbaum si approssima a una definizione di quanto descritto che, rispetto al punto di vista di A. Sen circa i funzionamenti, sembra più ricca, per quanto ancora suscettibile di approfondimento. L’autrice individua tre tipi di capacità: quelle fondamentali, quelle interne e quelle combinate; ma, per comprendere il suo pensiero, è utile sottolineare che ella parte dalla “centralità della persona” e da ciò che può fare (ovvero in quanto competente per l’azione), rispetto ad altri approcci che partono dalle preferenze o dai diritti. Nussbaum considera centrali le capacità (intese come ciò che le persone possono essere messe in grado di fare e non come meri funzionamenti), su cui ella fonda i diritti, e non le preferenze e tanto meno i bisogni. Ogni persona deve essere messa in grado di esplicitare il proprio ventaglio di competenze, per quanto residuali, così affermando il “principio della capacità individuale” (e individualizzata) e della persona intesa come fine, unica e unico arbitro circa i propri bisogni e non ridotta a mero numero di un ragionamento statistico. “Confermata” la centralità dell’uomo, anche tramite le precedenti definizioni, la prima domanda da porsi, “navigando” all’interno dell’ipotesi antropologica, riguarda il tipo di sviluppo economico e la sua compatibilità con la tavola dei complessi “bisogni” che tale visione offre al confronto. In altri termini, bisogna chiedersi se sia sensato affrontare il problema dei bisogni economici (più in generale dello sviluppo), delle libertà politiche (in generale della democrazia) e dei diritti, attraverso una contrapposizione che finisce col negare la rilevanza dei secondi, facendo leva sull’urgenza dei primi. D’accordo con Sen, Nussbaum, e Smith, pensiamo che i problemi da affrontare, sempre più complessi, vadano risolti tenendo conto delle interconnessioni fra le libertà e la cultura dei diritti da un lato, e la percezione e il soddisfacimento dei bisogni economici dall’altro, indagando il tutto con una logica ad “includendum” non ad ”excludendum”. Tale logica è supportata dalla convinzione che tali connessioni non sono puramente strumentali, giungendo al punto di poter affermare che l’intensità e la complessità del bisogno economico rende, non meno, ma
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più urgenti le libertà politiche, potendo ancora sostenere sulla base di considerazioni essenziali, “un primato delle libertà politiche fondamentali e dei diritti liberali”. Una democrazia reale, ad esempio, ha tra gli altri effetti quello di aumentare le capacitazioni di base, ed è proprio tale presupposto che porta ad un approccio integrato (ad includendum) e ad uno sviluppo economico e sociale di cui Smith fu grande sostenitore. Smith sottolineò fortemente la necessità di uno sviluppo della “capacitazione a vivere una vita degna”, ponendolo al centro della sua analisi nella Ricchezza delle nazioni. Successivamente, come visto, anche Sen e Nussbaum giungeranno ad un forte riferimento e legame con le capabilities che sono anche il centro di tutto il nostro discorso. Il concetto di capabilities è strettamente legato ancora alla “possibilità intrinseca nell’uomo di migliorare le sue capacità”. «La differenza di talenti naturali dei diversi uomini è in realtà molto minore di quanto si supponga; è l’ingegno assai differente, che sembra distinguere gli uomini di diverse professioni quando raggiungono la maturità, in molti casi non è tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro. La differenza tra i caratteri più dissimili, sembra sia imputabile non tanto alla natura, quanto all’abitudine, al costume e all’ educazione»12. Il nesso fra “capacità produttiva” e stili di vita da un lato, e istruzione e formazione dall’altro, è fondamentale per il punto di vista delle capacitazioni. In realtà fra privilegiare il “capitale umano” o invece, le “capacitazioni”, esiste, sul piano dei valori, una differenza cruciale, in qualche modo affine alla distinzione tra mezzi e fini. Riconoscere che le qualità umane hanno un ruolo nel promuovere e sostenere la crescita economica non ci dice niente sul perchè vogliamo la crescita economica. Se invece il punto veramente essenziale è l’espansione della libertà di vivere, allora il ruolo che svolge la crescita economica in tale proces12
A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton, Roma, 1975, p. 76.
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so espansivo va inserito in una concezione dello sviluppo inteso come espansione della capacitazione a vivere vite più degne e libere. La distinzione ha conseguenze pratiche significative sulle scelte politiche pubbliche ma anche private, andando a incidere profondamente sul Welfare. L’uso stesso del concetto di “capitale umano” mette a fuoco solo una parte del quadro, sia pure collegata a una concezione più ampia delle risorse produttive. Sicuramente arricchisce l’analisi, ma richiede un’ integrazione, proprio perchè gli individui non sono soltanto dei mezzi di produzione ma anche il fine di tutto il processo economico. Smith sottolinea che vedere le persone unicamente dal punto di vista del loro uso produttivo è fare un torto alla stessa natura umana. Va aggiunto che la democrazia ha in sè la capacità strumentale di rendere più trasparenti le azioni politiche a favore dei bisogni di tutti, svolgendo un indubbio ruolo costruttivo nella concettualizzazione degli stessi, compresa la capacità di correlare il bisogno economico al contesto sociale. In un contesto democratico, anche la proposta di Latouche diviene più credibile. Latouche, con la sua analisi denuncia l’economicizzazione del mondo che impone la sua legge alla società, facendo scomparire la coscienza del male e delle ingiustizie che in suo nome si compiono e si sono commesse (giustificazionismo economico). Egli propone un cambiamento di atteggiamento nel rapporto con ciò che ci si procura dagli altri: non ci si deve accontentare di essere utenti passivi e bisogna riscoprire il ruolo di cittadinanza attiva mediante la politica del consumo critico. C’è infatti, un’istanza superiore alla legge economica, la società per cui attraverso la riappropriazione del potere politico insito nell’atto di consumare, il cittadino può ancora sperare di modificare lo stato delle cose. Bisogna cercare in tal modo di decolonizzare il nostro immaginario, prendendo coscienza del fatto che i nostri desideri di consumo non sempre sono una vera necessità. La proposta di Latouche, va nella direzione della messa in discussione del primato dell’economia sugli altri aspetti della vita.
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Tuttavia la “sola” democrazia non risolve per forza di automatismo i problemi dello sviluppo, come lo sviluppo di per sé non crea nè rafforza la democrazia. La democrazia crea un insieme di possibilità, ma l’uso di queste possibilità richiede un’analisi di tipo diverso, legata alla “pratica” dei diritti politici democratici. Possiamo certo dire che in Occidente la “pratica” democratica abbia consentito di risolvere molti problemi, di superare prove difficili di crisi, di mantenere una sostanziale stabilità e una sicurezza e un trend di sviluppo che nell’immediato periodo post-bellico non era facilmente prevedibile. Tuttavia oggi, l’Occidente si trova a fare i conti con una sfida del tutto nuova, non riguardante soltanto lo sviluppo economico, bensì lingue,culture e religioni diverse. Proprio questo dà un senso nuovo al concetto di sviluppo, guidato da un approccio più sistemico e comparativo delle capacità, che basato sul bisogno umano, inteso come categoria universale, può di certo aiutare le democrazie in difficoltà di fronte alle nuove sfide. Tale approccio al “bisogno umano condiviso” può diventare una misura per la qualità della vita, che nasce e si muove sul piano morale e si concentra «su ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere, avendo come modello l’idea intuitiva di una vita che sia degna della dignità di un essere umano»13. Da qui deve partire una nuova concezione dell’economia alla quale non deve mancare un qualche concetto di “capacità fondamentali”, le capacità di una persona di fare cose fondamentali.
M. Nussbaum, Femminismo e sviluppo internazionale, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 137. 13