L’uomo aumentato. Questioni di etica contemporanea di Rita Rocco

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Rita Rocco

L’uomo aumentato Questioni di etica contemporanea

MILELLA



Collana Orizzonti di psicologia diretta da A. Godino n. 6


Copyright Š 2017 Edizioni Milella - Lecce ISBN 978 - 88 -3329 - 001 - 0

Edizioni Milella Viale M. De Pietro, 9 - 73100 Lecce Tel. e fax 0832/241131 Sito internet: www.milellalecce.it email: edizionimilellalecce@gmail.com Impaginazione: Emanuele Augieri Immagine grafica in copertina: Andrea Rocco, web & grafhic designer


R i ta R o c c o

L’uomo aumentato Questioni di etica contemporanea

Milella



Alle mie figlie Francesca e Cristiana e a mio nipote Andrea, custodi del mio cuore.



INDICE

INTRODUZIONE pag.

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Prima parte 1. 2. 3.

L’uomo nuovo Primo esempio: Il corpo mostruoso Secondo esempio: Il corpo scolpito e rimodellato

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17 26 33

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37 43 47 55 57

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Seconda parte 1. 2. 3. 4. 5.

Il corpo immortale Il corpo virtuale La continuità presunta: il corpo biologico Il corpo autopoietico Il corpo emotivo

Terza parte 1. 2. 3. 4. 5.

Umanesimo e transumanesimo: opinioni a confronto Ray Kurzweil: la singolarità tecnologica Francis Fukuyama: la fine dell’umanità Jean Michel Besnier: l’uomo incompiuto Una riflessione etica


Bibliografia Appendice Il rapporto Cerna

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INTRODUZIONE

Sempre più ci si interroga sul futuro dell’uomo e sull’umanità del futuro, su ciò che è oggi e che probabilmente sarà domani e si prende coscienza di una rivoluzione in corso, delle sue possibilità e dei suoi pericoli. Mentre la ricerca scientifica avanza e rivela prospettive incredibili poiché ripara e soprattutto migliora trasformando il naturale in un artificiale che, anziché estensione differente della nostra identità, diviene apparenza umana, la filosofia che ha sempre dato voce all’interpretazione di coloro che hanno riflettuto sull’uomo, anche al di là di se stesso e alla piena espressione delle sue potenzialità, dall’androgino del Simposio di Platone,1 al mutante2, all’avatar3 e all’Übermensch di Nietzsche, ora riflette sull’immaginario contemporaneo del cyborg e si focalizza sull’idea di un’implementazione dell’umanità intesa come contaminazione con l’alterità, recuperando dalla tradizione quelle figure al limite L’androgino di Platone rivendica un’immagine di pienezza e per contrasto illustra la dimensione del desiderio in quanto esperienza del limite. 2 Il mito del mutante con la sua appartenenza ad una specie e ad una tradizione culturale, segna egualmente il processo di individuazione e di soggettivazione e appartiene al cuore della nostra idea di evoluzione. In effetti, l’opera di Darwin assegna implicitamente al mutante il compito prometeico di fare della sua natura l’oggetto di una trasformazione e della sua differenza il principio di una palingenesi. In tal modo il paradigma dell’evoluzione sostituisce progressivamente quello della creazione, senza tuttavia affievolire l’idea di un primato della specie umana che chiude la catena evolutiva così come rappresenta la meraviglia del creato. 3 La «discesa» evocata dal sanscrito «avatāra» indica l’incarnazione umana di una potenza divina ed è il primo movimento di una dinamica che implica egualmente il superamento delle potenzialità umane reso possibile dal sacrificio divino. Movimento contrario e speculare a quello della cacciata, l’assunzione di una forma umana da parte della natura divina apre anche, nella tradizione cristiana, alla possibilità di una redenzione dell’essere umano, segnando così una svolta fondamentale della storia universale. Nel pensiero induista, la teoria dei dieci avatars si incarna in forme di vita sempre più complesse e ci ricorda il valore implicitamente evolutivo di questo mito che evoca le relazioni delicate e articolate tra la vita e la coscienza. 1


12 con l’umano e quindi più che umane che sfruttano l’idea di completezza o di evoluzione o di espansione delle nostre possibilità. Senza limiti netti e precisi è iniziato lentamente, diversificandosi a poco a poco, l’avvento dei cyborgs non sempre visibile, ma progressivo e che qualunque ne sia la nostra percezione, nel bene o nel male, riguarderà comunque la nostra umanità. Esiste un limite a ciò che siamo pronti ad accettare? O si accoglie già molto senza essersi mai posti la questione? Il movimento transumanista sogna un’epoca tecnologica in cui gli ordinatori diventeranno più intelligenti degli uomini e si augura che, in quel momento, l’umanità sarà riuscita a reincarnarsi nella macchina per conquistare l’immortalità. D’altronde, modificare la nostra corporeità con l’ovvietà dell’artificio o telecomandare il contenuto del nostro cervello, cartografarlo, prima di replicarlo, per realizzare una copia della nostra personalità o connetterlo su un qualsiasi supporto informatico sono ambizioni che cominciano a trovare riscontro in diversi programmi neuroscientifici internazionali quali l’Human Brain Project in Europa o la Brain Initiative negli Stati Uniti4. L’universo filosofico allora lancia l’allarme: non si tratta più di reinventare l’uomo, ma di preparare la sua successione per dare i natali al post-umano e cominciare a temere che coloro che decideranno di restare umani e rifiuteranno di migliorarsi dovranno risolvere non solo il problema di raffigurare una sottospecie umana, ma persino affrontare il rischio di impersonare gli scimpanzé del futuro5. Verosimilmente si potrebbe ovviare a tale pericolo tentando di riconciliare gli esseri umani con la loro umanità e con la loro vulnerabilità, quelle stesse peculiarità che, oggi, cerchiamo in ogni modo di eliminare poiché I trans-umanisti più estremisti approfittano di questa confusione per realizzare i progetti più folli. Come quello del miliardario russo Dimitry Itskov, soprannominato “Avatar” che promette di realizzare un ologramma nel 2045, copia perfetta della sua umanità originaria. Il ricco russo, attraverso i media, diffonde le sue tesi da brivido: l’immortalità è un effetto secondario, un modo di trasformare e migliorare la coscienza umana. 5 J.Michel Besnier, L’uomo semplificato, Vita e pensiero, Roma 2013. Il libro del filosofo francese nasce proprio dall’intento di aprirci gli occhi per vedere con chiarezza a cosa rinunciamo quando accettiamo che uno standard tecnologico diventi ciò che ci caratterizza come umani. Le macchine, egli dice, rendono sì semplice la vita (e a volte la salvano, questo non va dimenticato), ma al prezzo di livellarla a colpi di algoritmi e calcoli matematici. 4


13 il mondo tecnologico sembra prediligere ciò che è inossidabile. Eppure il giorno in cui l’uomo prenderà coscienza del privilegio di essere umano, in un ambiente popolato da robots androidi e da macchine, rifletterà diversamente. È per questo che occorre fin d’ora immaginare una realtà nella quale noi umani saremo perfetti, in cui non avremo più bisogno di desiderare poiché niente potrà farci vacillare e nella quale non sentiremo più la necessità di dialogare poiché la nostra perfezione ci renderà autosufficienti. Se un tempo esser saggio significava trovare il proprio posto, nel mondo della liquefazione e della «de-materializzazione» che è il nostro mondo, quest’idea non ha più un senso. Cosa fare? Il suggerimento é di provare ad optare per una resistenza non reazionaria e restia al progresso della tecnica, ma consapevolmente attiva. Nel corso degli ultimi tre secoli l’ottimismo progressista ha dominato la percezione sociale dell’uomo e il progresso, parafrasando Condorcet, ha rappresentato questa marcia ferma e sicura dell’umanità sulla via della verità, della felicità e della virtù e la scienza e la tecnica, quali elementi determinanti del progresso, sono stati investiti di un valore morale a priori positivo, poiché rappresentavano lo stimolo dell’accrescimento della felicità e della virtù degli uomini. Certamente a questa visione idilliaca si è sempre opposto un approccio negativo a tale cammino che Rabelais esprime nella celeberrima formula «scienza senza coscienza non è che una rovina dell’anima». Oggi il sentimento del valore morale della ricerca scientifica sottolinea una linea di frattura in questa evoluzione: per i primi la qualità scientifica di un’innovazione deve essere portata al credito del suo probabile valore morale, ciò che induce per lo meno un a priori favorevole in quanto alla legittimità della sua applicazione all’uomo o a ciò che rappresenta un valore per lui; per i secondi, nella linea di Rabelais, la ricerca del vero, attraverso un progresso scientifico, è un diritto e un dovere, ma non ha né la capacità né la finalità di determinare ciò che dev’essere l’azione umana. L’attenzione contemporanea sembra replicare ad entrambe queste ipotesi con la disponibilità all’idea utopica del “paradiso in terra”, una sorta di paradismo che accolga adepti nel mondo con l’obiettivo che l’essere umano dedichi la propria vita alla ricerca, alle arti, agli studi, o allo sviluppo personale, lasciando ogni incombenza alle macchine che “libereranno l’individuo dalla schiavitù del lavoro e del denaro”6.

6

L. Amoroso, in www.repubblica.it/scienze/2013/9/28.


14 La riflessione intrapresa, in questo lavoro, sulla trasgressione dei limiti dell’umano è stata sollecitata dal convincimento che una società consapevole dovrebbe porre concretamente e teoricamente dei limiti laddove avverta il confronto con un problema che potrebbe mettere in causa la sua esistenza e la sua identità. A tal proposito ci è sembrato pertinente interrogarsi sull’uomo che sarà, pur nel rischio di avventurarsi in un terreno minato. «L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa»7. Purtroppo i problemi emersi da queste considerazioni ci spingono spesso a de-naturalizzare la nostra definizione di umano e a rivolgere uno sguardo che tenga conto dei diversi divenire nei quali si inscrive nella convinzione che egli, continuando ad appropriarsi del mondo, se la natura da cui si protegge non esiste più allora è solo un’autodistruzione8. Certamente non è facile distinguere ciò che è naturale da ciò che è artificiale: in ambito scientifico si tratta di differenziare ciò che la tecnica ha prodotto da ciò che spontaneamente deriva dalla natura e questa distinzione persiste nel dominio dell’ipotesi e dell’incertezza anche nel momento in cui il pensiero filosofico ritiene di attribuirle un senso o é tentato di assegnarle un valore. Voler discernere il naturale dall’artificiale significa comunque formulare una questione di ordine etico e cercare di fornire una risposta in termini di valore. In quanto criterio soggettivo la scelta più ovvia nella distinzione tra naturale e artificiale sembra, per alcuni versi, riproporre la differenza tra verità e menzogna: ciò che è naturale è vero, ciò che è artificiale è falso. Lasciandoci guidare dal pensiero di Jean-Jacques Rousseau che, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, distingue la nostra natura da ciò che le circostanze o i progressi hanno aggiunto o modificato al suo stato primitivo, lo condividiamo quando egli sostiene che, l’animo umano è stato alterato dai cambiamenti interni della società trasformandolo in una realtà quasi irriconoscibile. J.P. Sartre, L’Esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1971, p. 34-38. B. Williams, «the paradox is that we have to use our power to preserve a sense of what is not in our power» in, Making sense of humanity, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p.239. 7 8


15 È evidente che per il filosofo la relazione con il naturale è alla base non solo di ciò che per l’umanità è necessario, ma soprattutto rappresenta un bene: rispettare la nostra naturalità significa ritrovare la nostra primaria moralità. Così in Emile o dell’educazione, precisa:«la natura vuole che i bambini siano bambini prima di essere uomini. Se vogliamo invertire quest’ordine, produciamo dei frutti precoci, senza maturità né sapore e che non tarderanno a guastarsi»9. È forse un’invocazione a stabilire una relazione essenziale tra l’umanità e la sensibilità? Occorre associare le idee alle sensazioni, trasformare le sensazioni in idee avendo sempre l’obiettivo della mediazione tra intelletto e sensibilità? L’uomo che sviluppa la coscienza della bellezza e della grandezza della natura e il sentimento della sua esistenza alimenta la sua sensibilità, tutela la natura umana dall’artificio e comprende la reale distinzione tra superficiale ed essenziale, tra menzogna e verità, tra sensibilità ed intelletto e probabilmente tra vita e non vita. D’altra parte un uomo indifferente al rischio di lasciarsi coinvolgere dal progetto di una ricerca scientifica che promuove la contaminazione del corpo col simulacro di un’alterità deformata, che accetta un’immagine di sé riflesso di un’affermazione sociale, condividerà persino l’atavico disegno di conquistare l’immortalità ricorrendo al virtuale e illudendosi di poter giustificare una sorta di continuità tra il vivente e l’inerte.

J.Jacques Rousseau, Emile o dell’educazione, tr.it. M.Valensise, Rizzoli, Milano 2013, p. 109. 9



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