GIÙ AL SUD
“Mai ho viaggiato a Sud come in questi ultimi due, tre anni, e ogni volta mi sorprendo a fare il conto di quanto non ne so e di quanto si possa percepire, di intenso, profondo, senza riuscire a cogliere appieno il senso dell’insieme. Ho pensato che fosse più corretto raccontare le tappe del mio viaggio, senza ricorrere ad artifici che le facessero diventare parte di una narrazione unica. Ma questo paesaggio narrativo comunque parla, e sapere di noi, chiunque noi siamo, ovunque siamo, è opera collettiva. Questo libro è il mio mattone (termine disgraziatissimo per un libro) per il muro della casa che si costruisce insieme. Il Sud non ha voce, o voci piccole e sparse, ed è possibile che gli stessi protagonisti non percepiscano quanto siano parte di un tutto, forse decisivo. Mentre tutti guardano al Nord, ricco e potente, alle loro spalle, al Sud, credo stia nascendo l’Italia di domani. Un’Italia migliore.” Cosa succede dove sembra che non stia succedendo nulla? Nelle regioni più dimenticate, come la Calabria che pare esistere soltanto per la criminalità e la ’ndrangheta? Invece, forse, è proprio lì che si prepara il futuro. Un viaggio a tappe nel Sud, dove ogni esperienza parla per sé e di sé ma, tutte insieme, riescono a disegnare un paesaggio narrativo intenso e unico.
PINO APRILE Giornalista e scrittore, pugliese residente ai Castelli Romani, ha lavorato per anni a Milano. È stato vicedirettore di Oggi e direttore di Gente. Per la televisione ha lavorato con Sergio Zavoli all’inchiesta a puntate “Viaggio nel Sud” e al settimanale di approfondimento del Tg1, Tv7. Il suo libro precedente, Terroni, è stato il volume di saggistica più venduto del 2010. Pino Aprile è diventato il giornalista “meridionalista” più seguito in Italia, un vero fenomeno che, nelle parole dei suoi lettori, “ha ridato voce e dignità al Sud”. Terroni verrà pubblicato anche in America e diffuso nelle università americane. Per Piemme ha scritto anche Il trionfo dell’Apparenza, sui falsi miti di questo inizio di secolo, Elogio dell’imbecille ed Elogio dell’errore, accolti con successo e tradotti in molti paesi. www.pinoaprile.it
Art Director: Cecilia Flegenheimer Foto dell’autore: Massimo Sestini
GIÙ AL SUD
PINO APRILE
GIÙ AL SUD Perché i terroni salveranno l’Italia
PIEMME
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I Edizione 2011 © 2011 Pino Aprile
Š 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 info@edizpiemme.it - www.edizpiemme.it
Dedicato a chi resta, perchĂŠ sceglie di restare. Dedicato a chi torna, perchĂŠ sceglie di tornare. Dedicato a chi guarda casa sua con la meraviglia del forestiero. Dedicato a chi, da lontano non la perde di vista. p.a.
ÂŤLa redenzione comincia da noi.Âť (Dal discorso di don Luigi Sturzo a Napoli, il 18 gennaio 1923, in Svegliati, Sud!)
1 SE ANCHE IL SOLE...
Mi dice: «Come può essere buono il Sud, se persino i meridionali, appena possono, se ne vanno?». Non sa che sta parafrasando i bellissimi versi di un poeta afro-americano. È la finta logica dei frettolosi, che giudicano sugli effetti, per non studiarne le cause (è fatica!). E io non posso fargli il riassunto di tutto. Così, parafrasando quel poeta in modo ancora più spinto (ma lui non lo sa), rispondo con un’altra sciocchezza, figlia della stessa finta logica di ferro: «Come può essere buono il Nord, se persino il sole, dovendo andare ogni giorno da Est a Ovest, gli gira alla larga?». E ci sono cascato, ho violato la prima regola: non discutere mai con un cretino, per il rischio che non si veda la differenza... Ma lui non è cretino; e io, se lo sono, non amo dirmelo da solo. E nemmeno l’argomento è cretino: impegna grandi teste (altrui) da un secolo e mezzo. Be’, allora, se non il chi e manco il cosa, cretino dev’essere il come: le analisi per giudicare il Sud sono svelte, perché il giudizio le precede. E quel giudizio è per sempre.
2 QUALE SUD
Il Sud è il luogo che non riconosci, perché cambia nel silenzio, nascosto dietro il peggio. Più lo percorri, più ti dà, meno ne sai. Il Sud seduce chi per vocazione o mestiere narra o s’interroga sugli altri: molti sono stati contaminati e arricchiti dalla “passione del Sud” (una resa dell’anima ben raccontata, sino a meridionalisti e confinati dal fascismo, come Umberto Zanotti Bianco, Manlio Rossi Doria, Carlo Levi...). Sapere del Sud parrebbe avere un carattere che anticipa la coscienza: prima lo si sente, poi si cerca di capirlo, mai del tutto. Il che rende il Sud inspiegabile, ma non incomprensibile, se è vero, come dice lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, che «l’atteggiamento meridionale corrisponde di più all’anima umana». Il Sud pare immutabile nell’insieme, ma continuamente cambia, nel dettaglio. I posti che conosci non sono mai come li ricordavi, quando ci torni; ma il viaggio per giungervi attraversa sempre il Sud che conoscevi. Viene da dire che se tutto è passato da qui e si è fermato, quando sembra che il Sud si stia rinnovando, forse soltanto ricorda, recupera pezzi di memoria adattandoli al tempo; come se avesse tutto il vivibile nel suo guardaroba della
storia e, di volta in volta, indossasse quello che serve, secondo le circostanze. Per resistere. E si direbbe che non tutto il Sud indossi lo stesso periodo della sua storia contemporaneamente; il che lo fa apparire diviso e vario. Perché racconto questo? Perché mai ho viaggiato a Sud come in questi ultimi due, tre anni (e sì che non me lo sono mai fatto mancare) e sempre mi sorprendo a fare il conto di quanto non ne so e di quanto si possa percepire, di intenso, profondo, senza riuscire a coglierne il senso dell’insieme. Ho pensato fosse più corretto raccontare le tappe del mio viaggio, evitando di ricorrere ad artifici che le facessero divenire parti di una narrazione unica, resa coerente da una struttura, una trama, un progetto. Ogni tappa, ogni esperienza parla per sé, di sé, non in coro. E questo andava preservato, per non attribuire al tuo sguardo il potere di piegare quel che vede a uno schema, perché la somma di quelle singolarità è più onesta del tentativo di fonderle. Ma questo paesaggio narrativo comunque parla, come i quadri cinesi delle nebbie: un tetto qua, un ponte là, più oltre le chiome di un bosco, uno squarcio di sole rivela un tratto di fiume a valle, sullo sfondo la cima di un monte; cos’hai visto? Poco, quasi niente, eppure non puoi dire di non sapere. Questo sento e avverto di conoscere, del mio Sud. E spero di riuscire a porgerlo, senza forzare, né diminuire: di non nascondere la mia ignoranza alla luce di quel che so, di non buttare quel che so, con l’acqua sporca della mia ignoranza. Sapere di noi, chiunque noi siamo, ovunque siamo, è opera collettiva. Queste sono le mie forze; questo il mio mattone (termine disgraziatissimo che non si dovrebbe mai usare per un libro...), per il muro della casa che si costruisce insieme.
3 IL FUTURO SOTTOTRACCIA
Cosa succede dove sembra che non stia succedendo nulla? Nelle regioni più dimenticate, come in Calabria (e non solo), che sembrano esistere soltanto per la ’ndrangheta e la Salerno-Reggio? Forse è lì, sottotraccia, sotto il pelo libero delle notizie, dove non arriva l’occhio dei giornali (indifferenti al Sud, se non per il sangue e la monnezza con cui lo si vorrebbe identificare), che si prepara il futuro. Non so dire come sarà, e nemmeno se ce la farà a essere, ma qualcosa sta accadendo. Il Sud non ha voce, o voci piccole e sparse, quindi non sa di sé e non riesce a far sapere di sé; è possibile che gli stessi protagonisti non percepiscano quanto siano parte di un tutto, forse decisivo: si muovono ognuno per conto proprio (sempre meno, però), ma nella stessa direzione. Se non si disperderanno prima, sono destinati a incontrarsi e diventare popolo in marcia: rivoli sparsi che possono, confluendo, farsi fiume. In tal caso, cambierà tutto, al Sud e in Italia, paesaggio e clima, storia e futuro; se quei promettenti rii restassero singolarità, magari conflittuali, inconciliabili, degraderanno in palude, come altre volte è accaduto, peggiorando l’esistente. Ma se devo rischiare un’opinione: credo che l’onda si stia alzando.
Gli animi si scaldano al Sud; e i sentimenti sono il vento che muove gli uomini, anche a popoli interi. Grandi forze possono generarsi a partire da minuscole differenze. «Gli uragani,» spiega Sebastian Junger (La tempesta perfetta), «hanno inizio quando nell’aria del livello superiore si forma un piccolo nodo.» Solo una modesta variazione di temperatura, magari, ma tutto «incomincia a ruotare intorno al nodo», e «più aria viene richiamata all’interno, più veloce è la rotazione», sino a che si forma «l’occhio del ciclone, una colonna di aria secca circondata da una solida parete di vento». Le potenze sviluppate sono spaventose: «Gli arsenali nucleari degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica insieme non contengono energia sufficiente a mantenere un uragano in attività per un giorno». I sentimenti alzano azioni, come il vento le onde. Qualunque dimensione raggiungano, tutte le onde nascono minuscole, come «increspature a forma di rombo, dette onde capillari». Sono queste a offrire «al vento un punto d’appoggio su un mare altrimenti piatto». E il gioco di potenze che si origina a partire da così poco è tale che nessuno strumento è mai stato capace, sinora, di misurarne gli effetti massimi. L’altezza delle onde dipende dalla velocità del vento (“vento”, leggetelo come fosse “sentimenti”, e ci capiamo meglio); da quanto tempo soffi, senza interruzione; da quanta distanza l’onda possa percorrere (si fa per dire, perché le onde, finché non frangono, non si muovono, si limitano a trasmettersi l’energia l’un l’altra), senza essere ostacolata da terre emerse. Il rapporto fra forza del vento e quella dell’onda va a potenza di quattro; significa che un vento di 40 nodi (circa 80 chilometri all’ora) non genera onde con energia doppia rispetto a uno di 20 nodi, ma 17 volte maggiore. Si alzano, così, masse d’acqua enormi, sino a 30 metri, in media; mentre le onde d’altezza massima possono superare i 60. Tutto viene distrutto, a quelle potenze (alcuni degli tsunami più devastanti, come quello di Lisbona, nel 1755, non
superavano i 15 metri; la più alta delle tre onde anomale che devastarono Reggio Calabria, nel 1908, era di 13). E quando le onde divengono troppo alte, rispetto alla loro lunghezza (la distanza fra una cresta e l’altra), si rompono, frangono, e montagne d’acqua, migliaia di tonnellate, precipitano. Ma può succedere che il vento cada; che l’onda non sia più sospinta, e spenda la sua spaventosa energia distendendosi, a mano a mano (“mare vecchio”, “mare lungo”); e l’immenso potere si spenga inoffensivo, spiaggiandosi basso su una riva lontana, lontanissima, da dove era sorto. Dopo il 1860, quando il Sud fu invaso e messo a ferro e fuoco, distrutta la sua economia, massacrata la sua gente, un’onda armata si alzò e furono anni di guerra, la cui ferocia è ancora nascosta negli archivi dello Stato italiano, per vergogna. Sterminati i combattenti, subentrò la rassegnazione e l’onda lunga di venti milioni di emigranti portò la sua rabbia ad arenarsi sulle spiagge d’America e non solo. Oggi, il Sud è nuovamente percorso da “onde capillari” e più che capillari. Se diverranno altro e più, lo dirà il vento. Ma per esserci, ci sono; e qualcuna è già alta. E io come lo so? Godo della doppia (e faticosa) condizione di essere meridionale che si occupa del Sud e, da giornalista, lo percorre, ma vivendo altrove. Così, le variazioni si colgono più facilmente. In un anno abbondante, ho accettato più di trecento inviti (su circa mille e seicento; e continuano ad arrivarne), per parlare di Terroni. Questa strapazzata, avessi dovuto preventivarla, non l’avrei mai fatta: perché andare in paesini di cui ignoravi persino l’esistenza? Cosa credi di trovare in borghi persi nelle montagne lontane dall’autostrada, dove va solo chi deve andare proprio là? Poi..., be’, spesso, era lì quello che c’era da sapere. E quelli che lo sanno, succede pure che non
sappiano di saperlo, ci vuole l’occhio del forestiero per vedere: gli indios del Potosì, con l’argento di cui è fatta la loro montagna, lastricavano le strade; poi, arrivarono gli spagnoli. C’è un Sud che sta perdendo la subalternità, per la tenacia con cui una sparuta catena di padri ha inseguito la propria storia denigrata e taciuta, incurante dell’idea di inutilità (e persino la derisione) che li circondava; e per la modernità, la naturalezza, con cui l’ultima, cosmopolita generazione vede o vuol vedere possibilità di futuro nella sua terra, recuperandone i valori sottostimati; e, con quelli, riprendersi l’identità e il passato persi. Perché, è vero (i dati dell’agenzia Svimez lo confermano), è ricominciata l’emigrazione dei giovani laureati meridionali; ma quelli che restano, sempre più spesso, agiscono a casa propria, come a Barcellona o a Londra: local & global, universali stando a Milazzo. Non c’era mai stata una generazione così. È un fenomeno figlio di necessità (tira brutt’aria un po’ ovunque, andarsene non è più una soluzione certa e vantaggiosa, come prima) e di cultura più ampia: sono ragazzi cresciuti in una Europa senza frontiere, con una sola moneta, il viaggio facile ed economico: hanno visto altrove i localismi produrre lavoro, ricchezza, con molto meno di quello che una regione antica e pregna come il nostro Mezzogiorno possiede e non apprezza. Insomma: guardano alla propria terra come farebbe uno straniero, vedendo quello a cui non si faceva caso, perché c’è da sempre. Sono gente pratica, con buoni, ottimi studi, i 110 e molte lodi, le Bocconi e i Politecnici, i master wow! Come Antonio Cucco Fiore, che mi chiama a Gravina in Puglia. Era all’Università di Bari, poi «ho preso un Rayan Air, per Londra», University of Buckingham, Mba (master of business administration); a 24 anni, già lavora nella City (il tempio della finanza): seleziona personale per le più grandi banche d’affari del mondo (Merrill Lynch, poi assorbita dalla Bank of America, Goldman Sachs, Lehman
Brothers, poi sepolta nel crollo di Wall Street, Barclays Capital, Bnp Paribas, Unicredit); dopo due anni si licenzia e torna a Gravina, scrive la tesi, si laurea a Bari, parte per la Spagna, lavora alcuni mesi a Valencia, in un progetto europeo, poi rientra al suo paese e si inventa un lavoro: scopre che il padre di tutti i provoloni e i caciocavalli del mondo è di Gravina in Puglia: “il pallone”, mai commercializzato a dovere, nella sua storia, se non a livello locale, e poco pure quello (se ne era perso addirittura il nome, che lui ha rispristinato). Non chiedetegli le prove di quella casearia paternità: chiama a testimoniare i Greci che qui fondarono una città, i Peuceti (l’antica Gravina ne era una capitale), i Romani, le mucche podoliche che qui pascolavano, le greggi ovine che per secoli passarono su questi tratturi... insomma, tutto sul “pallone”, dai ritrovamenti degli attrezzi per produrlo (come “u grattacaese”, il grattacacio, uguale ancora oggi), nelle tombe arcaiche della zona, sino a un «trattato del 1847, Lectures on Agricultural Chemistry and Geology, di James F.W. Johnston, edito da William Blackwood and Sons (Edinburgh and London), rinvenuto nella biblioteca dell’Edward College, in cui si cita il nostro “pallone”». La somma dell’esperienza murgiano-britannica è questa: sul “pallone” è stata ora stesa una disciplina di produzione, se ne è, a norma di legge, riconosciuta l’eccezionalità con il PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale), si mira al DOP , quale garanzia europea di unicità; i casari locali lo vendono, Antonio ha avviato una bottega on line, Murgiamadre, per il “pallone” e non solo. E si occupa pure della vendita di prodotti tecnologici. Da Gravina. Dice che «bisogna investire sui giovani». Lui, «ormai», ha «quasi trent’anni». Non sono idealisti come i padri, non si fanno illusioni, hanno poca stima nelle possibilità, negli spazi, nell’attenzione al merito che questo Paese offre (hanno la Gelmini ministro della Pubblica istruzione, il Trota e la Minetti consiglieri regionali nella sedicente “capitale
morale”: che gli racconti?); ma hanno più fiducia in se stessi, creano un festival del cinema ad Ariano Irpino («tra i più importanti progetti etno-culturali del Sud Italia», secondo «il Fatto»); dotano il paesello di pescatori di una stagione letteraria nazionale; con in tasca una laurea al Dams e l’amico bocconiano, mentre piazzano gruppi musicali giamaicani per i festival e le feste, avviano, nel Vallo di Diano, un allevamento di maiali per la produzione di salumi tradizionali; si associano per tutelare la sorgente che dà nome alla cittadina e farne una miniera cultural-turistica; si ritrovano ogni fine settimana nel paese da cui son partiti, per far nascere iniziative che gli ridiano vita, riportino a casa gli emigrati; scoprono il brigante “nostro”, cercano i documenti, ne scrivono la storia; si presentano agli esami di Stato con una tesina su industrializzazione nel Regno delle Due Sicilie, Questione meridionale e brigantaggio, e con documenti a video, sul computer, contrapponendoli a quanto c’è sul libro di testo. Se il presidente della commissione obietta, replicano: «Non ho finito!» («Ho sudato freddo» scrive la madre, su Facebook); scelgono, all’università, corsi di studi che li riconducano al loro paese, alla comprensione dei loro costumi, al dialetto: antropologi in missione dinanzi all’uscio di casa propria; danno vita a progetti artistici, musica, teatro, letteratura, che hanno per protagonista il passato di cui i loro nonni, i loro padri si vergognavano. Ma sempre, in tutti questi casi, e molti altri ancora, quella fame di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, è avvertita come risorsa economica e personale. Ne incontro molti di questi ragazzi, studenti, giovani professionisti, nei miei giri in Meridione (ci sono nato; ma ho cominciato ad amarlo tardi, per reazione agli insulti e per confronto con quel che vedevo nel resto del mondo). Sarà per la ragione dei miei viaggi, che seleziona le persone; o perché sono fortunato negli incontri; o per altro che falsa la
statistica... insomma, può essere per molte ragioni, ma non si può escludere la possibilità che le cose siano proprio come appaiono: c’è una generazione di meridionali che non vuole più andarsene e, conoscendo il mondo, vuol saperne di più del suo Sud e viverci; e, per viverci bene, migliorarlo, migliorando la propria condizione; e pensa di poter fare molto con poco e che quel poco a Sud valga più del molto altrove. Badano al sodo: non vogliono cambiare il mondo con la forza dei sentimenti condivisi (non è roba da Imagine o Blowin’ in the Wind ), vogliono che sia più efficiente e corretto: più saggi, meno infantili e ingenui dei loro padri sessantottini e post. Hanno cuore, ma ci arrivano di testa, per somma di convenienze e la delusione di un altrove non più dorato, un Nord (quel Nord, non “il Nord”) che ha perso la vergogna dei suoi umori più impresentabili, della sua avidità. E c’è l’ostinazione di credere che persino a Sud, chi vuole e insiste qualcosa possa conquistare, pur con molte amarezze sulle scorciatoie di ogni tipo e avendo chiaro che l’ambiente sociale è quasi sempre un ostacolo, “ma”... E quel “ma” sono loro: la stima che hanno nelle proprie capacità. E basterebbe questo a confermare che le hanno. Il punto di forza è avvertire in loro l’assenza della condizione di minorità che frena il Sud da un secolo e mezzo: conoscono, come fosse quella del proprio quartiere, la vita non così diversa dalla propria, dei loro coetanei di Paesi che erano esotici, mondi altri, per i padri (andavi a Lugano, a Nizza, eri “stato all’estero”...). Mentre ogni luogo raggiungibile, per questa generazione, è un’estensione di casa; per l’uso degli stessi strumenti informatici, la condivisione di mode, dagli abiti alla musica, ci si incontra per quel che si ha in comune, ci si apprezza per quel che distingue. Così, si impara a considerare il valore (valore di scambio) delle proprie specificità. E quel che era vissuto come minoritario non è più tale; è,
anzi, il tuo vantaggio. «Cosa scelgo io tra il dover andare via e il voler restare? Non ho alcun dubbio. Io resto qui al Sud, e non perché sono un perdente o un rassegnato, ma perché restare è molto più difficile che andarsene. Io resterò qui», ha deciso Giuseppe Olivieri, uno dei migliori diplomati dell’Istituto Ferrari di Lauria, sul Pollino. Mi ha chiamato il preside Natale Straface a un confronto, vero, tosto, critico, con gli studenti, a fine anno. Premiano i numeri uno della scuola. Olivieri non c’è, è fuori per preparare la continuazione dei suoi studi, ma ha voluto far sapere che torna a Lauria. Un compagno di classe legge la sua lettera. Ha scoperto di essere terrone, Olivieri, cita La libertà di Verga, Bronte di Mancini e «se non si vuole continuare a morire in ginocchio, ad abbandonare la nostra terra per arricchire le già ricche regioni settentrionali, bisogna ritrovare il coraggio di restare e di morire all’impiedi!»; torna, «perché la lotta per la vita è molto più entusiasmante dell’abbandonarsi apaticamente a una pur possibile estinzione naturale». E il suo amico, nel leggere, indurisce man mano la voce. Li incontro questi che restano: li vedi darsi da fare, per volontariato, agendo con padronanza ed efficienza (forse il risultato di studi specifici); o per riprendere l’aziendina di famiglia, data per spacciata, invece di fare il manager “di successo” fuori; li scopri nell’organizzazione di un premio importante, complesso, come il Rhegium Julii, a Reggio Calabria, che comporta una serie di iniziative con istituzioni, scuole, nella provincia, e si regge quasi solo sulla buona volontà e le capacità di studenti, studentesse, o di fresca laurea (e lauree importanti). Ti guidano con educazione e polso fermo; sanno prendere le misure agl’imprevisti e risolverli con scioltezza; senza soggezione, a volte con ironia (complici, fra loro) per le ritualità estranee ai loro vent’anni (si parla di uno scrittore bravissimo, ma
molto anziano, lo si definisce «uno dei maggiori autori viventi», e senti che sghignazzano, simpaticamente feroci: «“Vivente”, che esagerazione!»). Ma “vendono” il loro prodotto al meglio. I Bronzi di Riace li hai già visti, glielo dici. Li hai visti al Quirinale, poi al museo di Reggio Calabria, più di una volta. Sì, ma adesso sono in restauro (e si restaura pure la sede del Museo, dove torneranno), «senza lasciare la città», puntualizzano; e sono sdraiati, non in piedi. Li hai mai visti sdraiati? Sdraiati no, e fors’è meglio: un guerriero a terra è un guerriero sconfitto; il contrario dell’orgogliosa potenza o prepotenza dei Bronzi. Un’umiliazione, no? No: anche gli eroi riposano... Okay, ho capito, andiamo: i guerrieri stanno nella sede del Consiglio regionale, un pezzo del risarcimento dato a Reggio, per lo “scippo” del titolo di capoluogo della regione. La guida che ci accoglie ha esperienze all’estero, impeccabile nella divisa, ferratissima, diresti fiera di quel che sa della propria terra, di cui mostra i tesori recuperati. Quando ho visto i Bronzi l’ultima volta, poco più di un anno fa, erano nel Museo, ridotto male: degradato l’ambiente, degradato apparve l’umore di chi vi lavorava. Ora, in uno spazio lindo, persino presuntuoso, prevale l’idea di efficienza, di motivato orgoglio, mentre ti dicono quali sofisticate tecnologie garantiscano temperatura e umidità ideali per gli dei venuti dal mare; come il restauro avvenga dinanzi agli occhi di tutti, di là dal vetro; da quali centri della regione provengano i reperti. E finalmente capisci dove affiorano le tracce dell’orgoglio: nella connessione che ti viene offerta fra quei resti e l’oggi. Se vedi i Bronzi (e, accanto a loro, la stupefacente “testa del filosofo”, il primo ritratto dal vero della storia; come dire: le rughe del dubbio e della ragione, ai piedi della forza), ti riempi di meraviglia, ti senti lo scarto di un grande passato e ti ripeti, mentre vai oltre: «Accidenti, questi Greci!». Ma qui ragazze e ragazzi poliglotti, a proprio agio al Metropolitan Museum di New
York o al Louvre, come a Reggio Calabria, ti narrano un’altra storia, pur illustrando un dettaglio alla volta: qui c’erano popoli interessanti, che accolsero i Greci o ne furono soggiogati; insieme divennero i calabresi o l’atlante delle diversità calabresi. I quali non sono più la tavolozza su cui il popolo dei Bronzi scrisse la sua epopea, ma emergono finalmente coprotagonisti e risultato di quell’epopea convissuta. La guida (è, per cultura e modi, sovradimensionata al ruolo, e per questo lo innalza. Mi informo: si chiama Noemi Murata, laurea a Messina, operatrice in beni culturali, specializzazione in storia dell’arte a Firenze), con garbo e misura cancella, senza mai farvi davvero cenno, l’assenza dei nativi dalla storia; e della storia fa un percorso unico, frutto di tanti apporti. Un miscuglio di colori e accenti che continua in tempi moderni e molto più ampio e profondo di quel che pure si intuisce in pochi chilometri di costa, dove confinano paesi che conservano nei nomi, o nelle parlate, la diversità dell’origine: l’occitano degli albigesi di Guardia Piemontese, giunti secoli fa dalle Alpi, per sfuggire al massacro (e furono massacrati pure qui); l’albanese delle comunità arrivate in fuga dalla loro terra, invasa dai Turchi e che hanno conservato la lingua, i costumi, la liturgia di rito greco cattolico, i preti sposati; cercavano rifugio pure i Bizantini che si trapiantarono qui, al tempo della persecuzione iconoclasta nell’impero romano d’Oriente, e che ha fossilizzato una lingua “di transizione”, il grecanico (non è il greco antico, né quello moderno); mentre i nomi dicono tutto dell’origine di Saracena e Longobardi, paesi ai bordi del Pollino, il primo quasi sullo Jonio, l’altro sul Tirreno (fondato da re Liutprando, al confine con la Calabria bizantina), a un passo da Belmonte Calabro, nato francese con gli Angioini, nel territorio di Amantea, per decenni emirato arabo... Ma di tal somma di popoli che da millenni si insediano negli stessi luoghi, pare non resti nulla, se non sciatte curiosità turistiche (persino
poco esibite, ridotte a nomi mitologici, o addirittura calpestate dal dilagante cemento costiero, dai cimiteri di veleni in terra e in mare). E contro quel nulla amorfo, irriconoscibile come una foto molto sfocata, dominano, prepotentemente a fuoco, i Bronzi: dinanzi a quel troppo, l’accumulo di residui (o presunti poco) scompare. Ma se spingi lo sguardo oltre il primo colpo d’occhio, ti sorprende un lavorio formicoloso per il recupero di memoria e identità. Una tale quantità di convegni, dibattiti, mostre sul tema credo non si sia vista mai. Su questo, le generazioni si incontrano, ma la differenza si vede: i padri si dividono sulle idee (sono cresciuti in un mondo ideologizzato); i figli si uniscono sui fatti. I padri hanno dovuto scrollarsi il peso del pregiudizio; i figli ne sono immuni. La parola e la figura del brigante, per dire: erano vergogna celata nel passato delle famiglie meridionali; oggi sono motivo di fierezza e rivendicazione identitaria: “brigante” è un complimento; come quando le mamme vezzeggiavano i figli, chiamandoli “brigantiello mio”. A Belmonte, durante la cena, dopo un teso confronto sulle ragioni e i modi dell’Unità d’Italia, c’è uno one-manshow: un giovane canta, con voce educata e potente, suona tammorra e tamburello con maestria (stupisce sempre che si possa trarre tanto da uno strumento così semplice), poi chitarra, organetto e zampogna. È un antropologo, mi dicono, laureato benissimo con il professor Vito Teti, si chiama Nando Brusco. Centro della sua esibizione sono le “strine di Lago”, che per me potrebbero esser pesci d’acqua dolce, mentre sono improvvisati (... quasi) componimenti popolari in rima, dalla satira al dileggio pesante. “Strine” sta per “strenne” e Lago è il paese più in alto, verso l’interno. Qualche duello fra strinatori, scivolati un po’ troppo sul pesante, finiva a coltellate. Le strine, mi spiega il professor Ottavio Cavalcanti, dell’Università della Calabria, al
tavolo accanto al mio, non sono soltanto di Lago, ma quelle di Lago sono particolari. Lui vi ha dedicato uno studio e un libro di centinaia di pagine, Le strine atipiche di Lago. E più ne parla, più l’immagine sfocata della Calabria (se vista nel suo insieme) svela, quando scendi nel dettaglio, diversità e ricchezze insospettate; e fra paesi vicini corrono, fossilizzate, distanze di secoli. Tu ci passavi davanti ignorandolo. Sembra quasi che le regioni del Sud abbiano deciso di riscoprirsi, dividendosi i compiti: la Sicilia è quella che per prima e più di tutti ha trasformato questi nuovi sentimenti in potere (l’arrivo alla presidenza della Regione di un autonomista, il varo della legge per l’insegnamento nelle scuole della cultura e della storia dell’isola; la proliferazione di partiti, partitini e movimenti identitari, già pronti a opporsi o sottomettersi, nel solito ruolo gregario, al potere padano). La Lucania gioca in casa e quasi da sola, all’interno dei partiti storici, esportando cultura e analisi economiche, da Raffaele Nigro a Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo; ma senza guadagnare peso (come sempre, per scarsità di popolo, pur così interessante). La Puglia pare concentrarsi nel ruolo di produttrice di analisti, come faceva con i Gaetano Salvemini, i Tommaso Fiore, i Peppino Di Vittorio, i De Viti De Marco; oggi offre, nel folto elenco stilato dallo scrittore Marcello Veneziani, una lunga serie di numeri uno, dal cinema alla letteratura, alla tv, sino a Gianfranco Viesti, migliore studioso dell’economia “duale” italiana; a Franco Cassano, sociologo, il più intenso interprete e narratore della meridionalità; più una fitta serie di polemisti e divulgatori. La Campania, depositaria di un grande patrimonio identitario, opera (confusamente, a volte), su tutto, ma si esprime al meglio nella traduzione artistica e popolare, dal cinema di Pasquale Squitieri, Mario Martone, al teatro e, soprattutto, alla musica (a partire da Eugenio Bennato). In un certo senso, il sentimento e l’intelligenza hanno
seguito, nelle regioni, il percorso della tradizione. In Calabria no, si scorge qualcosa di inedito: dei tanti movimenti culturali e politici del rinato meridionalismo, “Io resto in Calabria” (sostenuto dall’imprenditore Pippo Callipo) è unico: un progetto territoriale, identitario, affidato ai giovani (e che giovani!), con uso di tecniche moderne, manageriali, modellate sul futuro, la creazione di una scuola di politica per educare una nuova classe dirigente. È una fame nuova, assecondata con inesauribile voracità, si chiama «Bisogno di passato», dice il patriarca degli antropologi calabresi, il professor Luigi Maria Lombardi Satriani. Qualche decennio fa, il suo Il ponte di san Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, scritto con Mariano Meligrana, ebbe lo stesso effetto rivelatore di Morte e pianto rituale, di Ernesto De Martino, nel secondo dopoguerra, ma illuminava la parte di Mezzogiorno fin lì trascurata: la Calabria (il libro irruppe dalle aule universitarie nel normale circuito commerciale; e vinse il Premio Viareggio, come quello di De Martino). Il passato del resto del Sud era già stato scoperto, indagato, riferito; e, sorpresa!, da vergognoso, residuale, perdente, venne divulgato come interessante, complesso, di pregio. Tutte quelle cose che apparivano, a chi le possedeva, arcaismi, manifestazioni di arretratezza, mutavano di segno (riti, tarantolate, magherie, superstizioni, “vattienti”, “serpari” e altre primitive forme di religiosità appena tinte di cristianesimo, per salvarle dalla condanna, scaramanzie...). Il Sud cominciò a perdere la vergogna di quel che era e, sull’onda dell’interesse altrui, e non solo, cominciò a recuperare la dignità del suo passato, ma non ancora, forse, la coscienza dei suoi diritti. Il fenomeno riguardò il Mezzogiorno più esposto e raggiungibile: la Campania, la Puglia, la Sicilia e, per ragioni particolari (i confinati antifascisti; il territorio isolato, ma a portata
di mano) la Lucania. Fu opera di grandi studiosi meridionali, ma soprattutto forestieri: Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Danilo Dolci, Umberto Zanotti Bianco, Edward C. Banfield... In un certo senso, furono gli altri a riscoprire e raccontare quel Sud (con i versi di Danilo Dolci, si potrebbe dir loro: «Vi sono grato / di non esservi vergognati di me / quando mi eran contro quasi tutti»). Per la Calabria, la fine del tempo della “vergogna” è arrivata più tardi, adesso, ma (ecco la differenza) principalmente a opera degli stessi calabresi. Quello che nel resto del Sud fu un fenomeno culturale, in Calabria è un fenomeno sociale. Lombardi Satriani spiega che «l’interesse per l’antropologia, in Calabria, va oltre l’ambito universitario o il personale coinvolgimento per ragioni di studio o professione. È una necessità di sapere di sé, della propria storia, dei percorsi che ci hanno formato come siamo. È un bisogno di passato che non si era mai visto così vasto e profondo». Lombardi Satriani è stato un precursore (ma lui comincia subito a enumerare colleghi, calabresi e no, e allievi che hanno avviato e alimentano questa potente ondata: Vito Teti, Fulvio Librandi, coideatore del Museo della ’ndrangheta, Ottavio Cavalcanti, Giovanni Sole, Maria Teresa Milicia, Maria Pascuzzi, Gualtiero Harrison, Matilde Callari Galli, Franco Fileni, Mario Bolognari... A cui bisognerebbe aggiungere lo storico della filosofia Mario Alcaro). Oggi, Antropologia è una delle facoltà di maggior successo, fra gli studenti calabresi. Dovesse, il professore, quantificarne la crescita, nel corso della sua attività accademica? «Almeno dieci volte tanto.» «È moltissimo!» «No, è un’enormità, perché a quest’affluenza non corrisponde una possibilità altrettanto grande di trovare lavoro coerente con gli studi. Quindi, se in tanti vengono ad Antropologia, è per voglia di conoscersi, di riscattare il
valore proprio, di una comunità, di una storia denigrata.» I calabresi mostrano, in questo, la passione degli inizi, di chi recupera il terreno perso; ma il fenomeno tocca tutto il Sud, anche dove ora sembra meno forte, per averlo anticipato. Il professor Lombardi Satriani lo spiega con il mito di Odisseo: «In Omero, è uno che va ovunque e tutto conosce, ma per tornare: Itaca è povera, “petrosa”, non fertile come l’isola di Ogigia; Penelope non è giovane come Nausicaa, dell’isola dei Feaci, né potente come la maga Circe, né immortale come la ninfa Calipso. Lui passa attraverso tutto questo, ma diretto a casa, dai suoi: il futuro dell’Odisseo omerico è la sua radice. In Dante, invece, pur di sapere, Odisseo oltrepassa le Colonne d’Ercole e perde la via del ritorno. L’Odisseo calabrese e meridionale che si sta muovendo è quello omerico: ha già fatto il viaggio e ora ritrova la strada di casa, per essere completo. Nessuno lo è, senza il suo passato». Il domani del Sud è il ritorno a se stesso. Ho chiesto a un paio di ragazze volontarie al premio Rhegium Julii, perché lo facessero: «Qui c’è poco. E quel poco è a rischio. Vogliamo tenercelo. Per tenercelo, dobbiamo restare». Quel che aggiunge una di loro, Josephine Condemi, sembra una risposta alla mia sensazione che il nuovo si muova ancora sottotraccia, ma possa cambiare tutto: «La chimica dei sistemi dissipativi dice che solo da una regione periferica può insorgere, a determinate condizioni, un’oscillazione “anomala” che, anziché regredire, invade tutto il sistema e lo rinnova. È successo in male (intende: dalla Calabria, con la ’ndrangheta; N.d.A.); può succedere in bene». Lo spiega Nicholas Nassin Taleb (uno dei due o tre analisti a prevedere il crollo di Wall Street), in Il cigno nero: il mondo cambia all’improvviso, velocemente e in modo
imprevedibile. Mentre tutti guardano alla Padania e, se a Sud, alla Puglia, alla Sicilia, alla Calabria, perché no?, potrebbe arrivarci quel che rifarà l’Italia. In bene, dice Josephine. Credo abbia ragione, perché in Calabria, più che in altre regioni del Sud, si rafforza un fenomeno che riguarda tutto il Meridione e somiglia (da non credersi) a quello da cui scaturì il popolo che fece l’Unità d’Italia: la mortificazione delle classi medio-alte e colte; la sproporzione fra il numero di persone che ne fanno parte e le possibilità di occupazione adeguate; la consapevolezza delle proprie capacità e la legittima aspirazione a gestire il potere, la cosa pubblica, da protagonisti, non da subordinati. Martin Clark, in Il Risorgimento italiano, racconta l’insoddisfazione dei nobili lombardi, tenuti ai margini dagli occupanti austriaci; le difficoltà di lavoro per i professionisti (avvocati, medici), lì come in Veneto; le schiere dei democratici, in Toscana, folte di avvocati e giornalisti; nel Regno delle Due Sicilie, la restaurazione nel primo quarto dell’800, comportò l’epurazione di funzionari, intellettuali e professionisti convertiti alle idee liberali e “francesi”; in Piemonte, i nobili si tenevano stretti i posti di potere, e sui giornali regnava una rigida censura: «perfino termini come “Italia” e “nazione” erano tabù» (in Piemonte), scrive Clark. La somma di troppe capacità e volontà compresse trovò sfogo nell’ideale unitario e si tradusse in azione, offrendo a quella sparsa, ma sempre più numerosa classe dirigente a cui non si dava nulla o poco da dirigere, un’impresa, un compito, un Paese e un futuro in cui trovare il ruolo fin lì negato. Il loro luogo d’incontro furono le associazioni segrete, specie la massoneria (o la carboneria, la Giovane Italia...). Ancora oggi, avvocati, professori, giornalisti sono i più rappresentati in Parlamento (e i massoni pure). La “produzione” di scolarizzati, al Sud, subito dopo l’Unità, risentì degli anni necessari per reprimere la resistenza armata all’invasione piemontese (chiamata “brigantaggio”, per
nasconderne e infamarne la natura); patì per la chiusura degl’istituti superiori già esistenti a Napoli, da parte dei nuovi arrivati, e per le leggi sulla costruzione di scuole, concepite in modo da privilegiare il Nord e ignorare il Sud (allora come oggi...). L’emigrazione massiva fece il resto. Il Mezzogiorno divenne riserva di braccia per il Nord e di funzionari pubblici. Sono del ’50 (secolo scorso, non quell’altro...), ma ricordo che mio padre, primo di nove figli, suscitava commenti, in famiglia, perché insisteva nel farci studiare, nonostante le difficoltà economiche, invece di mandarci a lavorare, come i nostri cugini. Pareva, il suo, una sorta di atto di presunzione. La conquista del titolo di studio era il passaporto per affrancarsi dalla condizione minoritaria (specie meridionale, ma non solo meridionale). Su quello, le famiglie investivano: con sacrificio di tutti, si “mandava avanti” il figlio più portato ai libri (gli altri producevano reddito). Ma oggi, al Sud, più che braccia proletarie, tocca fornire teste proletarizzate, a centinaia di migliaia: ci si svena per produrle, poi le si cedono a basso prezzo, ché di più il mercato non dà, offrendo il giusto a pochi, poco a molti, niente a tutti gli altri. Condizione analoga a quella delle classi medie e medioalte negli Stati italiani preRisorgimento. E come quei professionisti mortificati da rapporti di tipo coloniale, comunque a sovranità limitata (allora al Nord, ora al Sud) anche questi, non potendo cambiare la propria condizione in un Paese così fatto, né potendola tollerare oltre, non hanno altra scelta che cambiare le condizioni del Paese. Per questo, saranno i giovani terroni a salvare l’Italia: nessuno ha più interesse (e bisogno) di loro a farlo. Al Nord non conviene cambiare: al più la forma, non la sostanza; e tende a perpetuare (con sempre maggior fatica), una situazione ormai insostenibile, da cui
però trae vantaggio, pur se a spese degli altri. Ma l’età coloniale è un retaggio ottocentesco: è finita; il ladro che ruba sempre nella stessa casa, trova sempre meno e prima o poi la trova vuota. Se il Sud fallirà nell’azione di recupero del Paese, tutta l’Italia continuerà a scivolare sempre più indietro nella graduatoria delle nazioni civili e progredite. E non è detto che resti una.
4 SBIG – I RAGAZZI DEL ’73
È la sintesi di un Sud com’era, com’è, come potrà essere; ed è un paese che ignoravo ci fosse (pure in questo, essere ignorato, è sintesi del Sud?). «Ci vieni a Sbig?» «Sbig?» «San Bartolomeo in Galdo» «Senza offesa: esiste davvero?» «Sta nell’angolo fra Puglia, Molise e Sannio. Provincia di Benevento. Eravamo Puglia, sino all’arrivo dei Savoia.E noi siamo l’associazione Steven Bantu Biko» «Ah...» «L’ultimo tratto di strada, per arrivarci è mezzo franato, ci devi stare attento, però si passa. Ma hanno detto che la rifanno.» Il tono è convinto: c’è ancora chi crede che faranno le strade al Sud. È una notizia (non riferitela al ministro Tremonti o a chi dopo di lui, potrebbe restarci secco, dal ridere. E non dite che questa è proprio la ragione per farglielo sapere!). La faccia di uno così voglio vederla, ma mi costa un giorno. Graziosamente, mi nego. Simpaticamente, insiste: «E mo’, chi lo dice ai ragazzi dell’associazione che non vieni?». La risposta giusta sarebbe: e chi ha mai detto che venivo! Ma immagino l’impatto sui dimenticati dell’angolo triregionale, la conferma dell’isolamento... «Mi ha chiesto se Sbig esiste davvero!» figurati se non glielo dice. Così, mi scappa: «Va bene». E, troppo tardi: «Ma l’associazione: quanti siete?».
«Sei.» Fregato. Oh, non è che voglio esagerare, ma la strada per arrivarci sembra proprio quella per Nowhere (Nessunluogo), di certi film americani, con l’auto che va, unico segno di vita, in un panorama di orizzonti vasti e vuoti. Attraversi le terre di Diomede, dalla costa subgarganica verso l’interno, in una distesa verde di grano, finché la via comincia a torcersi e salire, infilandosi nelle valli. Vero: gli ultimi due chilometri, deviazione per San Bartolomeo in Galdo, sono una leccata d’asfalto su una gobba, rotta da una frana. «Il Comune ci ha dato la disponibilità della sala della biblioteca» mi dicono subito. E con una certa soddisfazione. «Benissimo» gratifico. «Ma ci sarebbe bastato un tavolino al bar.» No; si sono dati da fare, hanno progetti ambiziosi e famiglie numerose, capisco che fra parenti e amici possono schierare una massa d’urto di una ventina di volontari o volontari per forza. «C’è tempo di mostrarti il paese, prima di pranzo. Una strada gli gira intorno.» Come sono gli ospedali al Sud? In costruzione. Eccolo: anno di avvio lavori, 1962, mezzo secolo fa. Ma sembra nuovo. «Lo è: mai usato. Attrezzato con sale operatorie, ambulatori, letti; concorsi per assunzione del personale, avviso ai vincitori; forse, ora, già arrivati alla pensione, aspettando le lettere d’incarico. Mai inviate. Si rifà il piano sanitario regionale e il nostro ospedale viene escluso; poi spogliato delle attrezzature, finite chissà dove. Manutenzione del bene, per impedirne il degrado; presentazione di progetti, uno dopo l’altro, per il suo utilizzo in altro modo; inutile attesa di risposta positiva o di risposta.» Una piccola parte della struttura, finalmente si decise, avrebbe trovato una destinazione d’uso a fine 2005: avrebbe ospitato uno PSAUT. «Uno...?» «PSAUT» ripete il sindaco, Enzo Sangregorio. «Nessuno sa di preciso cosa significhi l’acronimo; nei documenti, ogni volta
compare con un nome diverso. Di fatto, è un pronto soccorso un po’ speciale, qualcosa di più di una guardia medica, con la possibilità di piccoli interventi di urgenza. Il 2005 passò, e il 2006 e... nel 2009 ci fu assicurato, in presenza e con garanzia del prefetto, che entro l’anno lo PSAUT sarebbe entrato in funzione; oggi, nel 2011...» (Se vivrò abbastanza, vi racconto come va a finire.) «Forse, aspettano che ci estinguiamo. Eppure,» sospira Sergio Truglio, avvocato e anche procuratore della Sacra Rota «sarebbe una struttura ideale per assistenza ad anziani, lungodegenti, terminali: il paese è tranquillo, l’aria buona, alla confluenza di tre regioni. E Sbig avrebbe lavoro, tornerebbe a vivere.» Mi sa che sto prendendo la malattia di Massimo Troisi, ne Il postino, la metaforite, ma questa è davvero forte: il paese tornerebbe a vivere, se diventasse un posto dove venire a morire. «Eh...» alza le spalle lui «ma qualcosa sarebbe. Meglio che niente!» Che fanno i laureati del Sud? Se ne vanno. A parlare, per potestà territoriale, è quasi sempre chi mi ha fregato con l’invito, Sergio Truglio. È stanziale a Sbig; gli altri, altrove per lavoro, tornano ogni settimana in paese, perché hanno deciso che continui a essere il centro, la base, il posto per cui spendersi. E dove tornare, appena si può, per restarci (e perché? Ma non glielo chiedi. È lo spirito dell’associazione). Alberto Ambroselli lavora al 118 e insegna musica; Alessio Fusco attivo a Roma, in una cooperativa per assistenza ai disabili; Igor (Aigor, per tutti) Guerra veterinario a Latina; Luciano Palumbo, in una cooperativa sociale, ma a Parma. Tutti 37 anni. La generazione del 1973 è impegnata a disegnare il futuro di Sbig; meno nel ripopolarlo: sono tutti scapoli, incluso un paio di ragazzi-padre. Ha 37 anni pure Enzo Sangregorio, ingegnere elettronico, ma è sposato e ha due figli: per
questo fa il sindaco? «Perché è precoce, in tutto: lui è di aprile, noi, tutti quanti fra ottobre e dicembre.» Tutti amici di scuola, al liceo scientifico di San Bartolomeo in Galdo. «Ogni anno si riescono ancora a costituire due classi,» dice Sergio «ma l’abbandono scolastico è alto. Le nostre si ridussero a 13 e 16 studenti. Una decina scarsa siamo rimasti, dopo la laurea, incluse le ragazze che si sono sposate qui; gli altri, circa il doppio, via, a Perugia, a Parma, al Nord. Il migliore, presso Roma, a Pomezia, dove dirige un importante laboratorio di ricerca.» Tornano? «Poco; e qualcuno, mai.» L’associazione? «L’avevano fondata dei ragazzi del liceo che andarono via per l’università, come tutti, ma restarono fuori. Diciamo che noi la trovammo vuota e ci entrammo. L’abbiamo ereditata.» Credo non serva indagare troppo sulla scelta del mito giovanile cui intitolare l’associazione: Steven Bantu Biko fu un altro Nelson Mandela, in Sudafrica, attivista contro l’apartheid, lo stato di minorità sociale, civile, economica, imposta dai bianchi ai neri. Fu meno fortunato di Mandela: aveva 31 anni, quando morì in carcere, per sciopero della fame, dissero; per sprangata sul cranio, pare. E che c’entra con Sbig? Perché dei giovani del Sud si riconoscono nel martire della lotta contro la condanna alla minorità di una parte della popolazione dello stesso Stato? Mah, stranezze meridionali. Come sono le periferie del Sud? Degradate e incompiute. Si attraversa Nuova Sbig, palazzi moderni, uguali a blocchi di cinque, sei, o più, o diversissimi uno accanto all’altro; alcuni così brutti, malandati (pare siano nati tali) che hai voglia di girarti e andartene; altri più che decenti, pure graziosi. C’è un grande edificio incompiuto, invaso da erbacce e scarti di fabbrica: «Doveva essere una chiesa. È rimasta così». Eccone un altro, messo pure peggio: «Una scuola, mai finita». «A Sbig ci sono case per 20.000 abitanti: quattro volte la
popolazione. Con il terremoto dell’Irpinia, l’area della ricostruzione fu allargata, un po’ alla volta, sino al Gargano. E anche qui si accelerò la fuga dal centro storico, per le nuove costruzioni e ville e villette nell’agro.» Il massimo dell’espansione edilizia di San Bartolomeo in Galdo coincide con il minimo storico della popolazione. È un primato tutto italiano, rammenta Salvatore Settis, in Paesaggio Costituzione cemento: siamo il Paese europeo in cui nascono meno figli e quello in cui si “consuma” più territorio per costruire. A Sbig, il calo di presenze umane è figlio dell’emigrazione. Dov’è la maggior parte degli abitanti dei paesi del Sud? All’estero, al Nord, altrove: “Fuori”. «Sbig aveva oltre 10.000 abitanti, poi...» Poi arrivarono i piemontesi. «La prima emigrazione fu quella classica del 1880 (per oltre vent’anni, dopo le spoliazioni e i massacri subiti, i meridionali continuarono a sperare di poter risorgere nella propria terra. Poi, decise il dono dell’Unità: la miseria; N.d.A.): da Sbig partirono per il Brasile e l’Argentina. Non bastò; l’altra ondata fu ai primi del Novecento, pre e post Prima guerra mondiale: e per meta ebbe gli Stati Uniti. La fuga all’estero fu fermata dal fascismo, ma riprese appena finì la Seconda guerra mondiale. E stavolta se ne andarono in Australia, in Sudafrica (quelli che erano stati prigionieri lì, vi restarono; anche chi era stato prigioniero negli Stati Uniti avrebbe voluto rimanervi: “Mai stato così bene in vita mia” dicevano, a paragone della vita che toccava fare a Sbig. Ma non se li tennero, li rimandarono indietro). I lavori di ricostruzione, dopo il terremoto irpino, mantennero per un po’ la gente qui, eravamo 6.300-6.400. Poi riprese la fuga, questa volta per il Belgio, la Germania, il Nord Italia. Abbiamo pure una emigrata a Sud: una nostra compagna di liceo, che dopo la laurea ha sposato uno di Potenza, e mo’ lavora là. E siamo rimasti in circa 5.200 ufficiali, ché molti hanno la residenza, ma abitano altrove per lavoro e periodicamente tornano. Diciamo
un po’ più di 4.000, stanziali veri. Fuori, quelli di San Bartolomeo sono decine di migliaia.» Dove si butta la monnezza degli altri? A Sud. Quella del Sud? Più a sud: a Sbig. «E ti pare che ci facevamo mancare la discarica? Il miracolo temporaneo di Napoli ripulita eccolo là»: appena sotto il paese, giusto addosso alla pigra valletta del ruscello; è uno dei posti lontano dagli occhi e dalle telecamere in cui furono sversati i rifiuti partenopei. È la proprietà distributiva della monnezza: quella tossica del Nord finisce a Sud, specie in terra camorrae; e da lì democraticamente divisa, un po’ ciascuno, ai paesini dell’interno, per i quali nessuno strillerà ai telegiornali. Mentre l’onorevole Calderoli si propone come commissario per la monnezza a Napoli, forse per controllare che venga regolarmente sversata lì quella tossica del Nord; e, per impedire che se ne riconosca l’origine, negli stessi giorni, la Lega vota in parlamento per l’abrogazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri), cui pure ci obbliga la normativa europea. Salvo abrogare l’abrogazione, dopo l’ondata di proteste. Così, una bella spalmata di monnezza su tutto il Meridione, a sintetizzare il giudizio sul medesimo, con scelta strategica di punti di irradiazione del bene trasferito: la spremuta di monnezza della discarica di Sbig produce un fetido rigagnolo, che confluisce nel già ridente ruscello, e arriva nel lago della diga di Occhito, che disseta mezzo milione di pugliesi. «La costruzione della discarica iniziò nel 1996,» narra Sergio Truglio «doveva essere usata inizialmente solo per i rifiuti dei paesi a nord-est di Benevento. La capienza totale era di 60.000 tonnellate. Nel 1999 venne aperta e furono sversate 33.000 tonnellate di monnezza “tal quale”: senza selezione, né trattamenti. Ma già nel 2000, per l’emergenza a Napoli e provincia, fu usata per i rifiuti napoletani. Nel 2004, tra FOS (frazione organica stabilizzata, ma solo sulla carta, a giudicare dal
nauseabondo odore che aleggiò per mesi a Sbig) e rifiuti “tal quali”, si arrivò a 70.000 tonnellate di immondizia, 10.000 più della capienza massima. Le comiche iniziano nel 2006, per un’altra emergenza; l’ordinanza commissariale regionale 437 recita: “utilizzando e ampliando le volumetrie residue, vi è la possibilità di ulteriori abbancamenti di rifiuti, valutati in almeno 10.500 tonnellate”. A febbraio 2007, quell’“almeno 10.500” si era già trasformato in oltre 30.000. Insomma, una discarica per 60.000 tonnellate, si è ritrovata a contenerne oltre 100.000, quasi il doppio. Ovviamente il percolato (sarebbe il “succo di monnezza”; N.d.A.) è tracimato e ha cominciato a scorrere. Legambiente della Valfortore e il Comitato per la difesa del territorio hanno inviato a vari enti dei filmati sulla tracimazione del percolato (Corpo Forestale dello Stato, Carabinieri, Acquedotto Pugliese, Arpa, le Agenzie per l’ambiente della Campania, della Puglia e del Molise). Il percolato attraverso i valloni dei Preti, il Capuano e il Cupo, ha raggiunto il fiume Fortore, che riempie l’invaso di Occhito, il quale dà da bere a quasi tutta la Capitanata. Nel lago è comparsa un’alga rossa: secondo alcuni esperti, in un invaso artificiale, questo è fisiologico; per altri, è colpa dei fertilizzanti azotati, o degli scarichi civili non controllati: si parla del depuratore di Campobasso come maggiore indiziato. La nostra discarica non è citata, ma, su segnalazione del Corpo Forestale di Sbig, il Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e Forestale del Coordinamento di Benevento del Corpo Forestale dello Stato l’ha sequestrata. La pioggia continuava a irrorarla, alimentando la produzione di percolato, rimosso ogni settimana da autobotti, per evitare che tracimasse. Solo dopo tre anni, nel 2010, sono stati stanziati i fondi per la bonifica. Ma, a tutt’oggi, hanno solo coperto la discarica con un telo: un ombrello...» Che fanno le aziende, al Sud? Chiudono. La Plasticfortore era la Fiat di Sbig: 80
dipendenti (come dire che almeno un decimo della popolazione campava di quello), per produrre sacchetti di plastica, adesso fuorilegge, per sopraggiunta sensibilità ecologica. Ora ci lavorano in 20, in attesa di capire se si riuscirà a riconvertire la fabbrica. Fedele D’Urso era titolare di un’azienda per lo stivaggio del grano (quei silos fuori paese). Ed era presidente della squadra di calcio di Sbig. «Ci giocavano anche gli stranieri; sì, insomma, di Foggia. E Usvani N’Gom, senegalese, fortissimo. Quando il patriarca ha smesso di occuparsi dell’azienda, sono cominciati i problemi. E la Fedelseme non si sa che fine fa.» Come sono le case? Tante e vuote. Chi le vuole? Nessuno. «Il nostro centro storico è uno dei meglio conservati; per abbandono. E per abbandono, rischia il disfacimento. Edifici d’epoca, belli, nessuno li vuole, nemmeno a 2.000, 3.000 euro.» Un vero peccato: a vederlo da sotto, case in pietra, una addosso all’altra; una bomboniera. Poi, lungo la strada, ne mostrano una con un giardinetto pensile, graziosa, due piani, vista panoramica. «Invendibile, manco a 3.000 euro, per il fantasma.» Ma davvero? «Circa mezzo secolo fa, il padrone si suicidò: fu trovato appeso per la gola. Rimasero la vedova e un figlio disabile, mai uscito di casa: tutto il giorno con la faccia contro il vetro, la tenda appena scostata, a guardare in strada. Vent’anni fa morì anche lui; dieci anni dopo la mamma. Non resta che il fantasma del suicida. Uno di Sbig emigrato a Milano, che ogni estate affitta una casa e si fa un mese in paese, qualche anno fa (l’albergo non c’era ancora), decise di prendere proprio quella. “Il fantasma? Figuriamoci!” La notte sentì dei rumori al piano di sotto, aprì una botola e apparve una figura bianca che fece: “Uh!”. Lui lasciò di corsa la casa; da allora, nessuno ci ha più messo piede. Il fantasma le ha tolto ogni valore.» «Conoscete il proprietario?» chiedo. «Certo.» «Ditegli che voglio comprare io la casa.» «E che te ne fai? Prendine una senza fantasma, un guaio di meno.» «Tutte le altre sono senza fantasma, solo quella ne ha
uno. Voglio farci un bed & breakfast: l’unico “con fantasma”; prezzo triplo rispetto agli altri e dieci volte tanto, nelle settimane di Halloween e di Carnevale.» Perché resti a Sbig? «Per fare qualcosa. Sbig mica è perso!» «Ora abbiamo pure l’albergo!» dice Sergio Truglio. Ed è grazioso, pulito e confortevole, gestione familiare, si vede che ci tengono. «Non ti sembra un segnale importante? Il proprietario, Donato Agostinelli, ha investito in questa attività, per atto di fede: poteva farlo altrove, vuol dire che crede possa esserci un futuro, qua, per i figli, no?» Eh, sì, ottimisti bisogna essere, ché se ti guardi intorno...: un unico, sparso quartiere, senza disegno né centro. È vero, è un segno, ma come dire che la partita è ancora aperta, perché, invece di 10 a 0, ora stiamo 10 a 1. «E l’organo, allora?» Ti portano alla “chiesa nuova”; «Si chiama così, ma è del Settecento»: l’organo è dello stesso periodo e piuttosto messo male. «Ce n’era un altro, alla chiesa madre, ma l’allora parroco lo vendette. Questo rischiava la stessa fine.» Fu così che “quelli dell’associazione” (ma un paio non furono presi: non sono manco cresimati!) si iscrissero alla Confraternita dell’Immacolata Concezione, alla chiesa nuova: tutti di sinistra, in un paese già monocolore democristiano, che vota 75 per cento centrodestra. Ma erano «in missione per conto di Dio, anzi di sua Madre» che voleva continuare a sentire la voce dell’organo. Nella Congregazione, ora, i loro voti fanno maggioranza ed è stato approvato il restauro dell’organo, e il no allo scambio alla pari con uno moderno («Nonostante garantissero lo stesso suono.») Servono 50.000 euro; prima o poi, li troveranno. Dove, se le aziende chiudono e i giovani vanno via? «Ma noi siamo quelli del ’73, noi restiamo.» Quando si dice: le risorse locali... «Nicola Circelli, uno di noi, un nostro amico, classe ’73, sta rilanciando la sua azienda, la Metalplast. E non lavora più per aziende del Nord (loro ordinavano i modelli, la Metalplast eseguiva, un po’ come le fabbrichette tessili che
producevano, a Sbig, giubbotti per le migliori marche). Ora è lui che li disegna. Uno stilista dell’alluminio. Ha già più di 40 dipendenti.» Non è un altro segno? E ci sono altre due aziende di stivaggio dei cereali: una sembra persino in crescita, nonostante la crisi del settore. Ne ha preso le redini una ragazza, insieme con i fratelli, rientrata a Sbig, dopo la laurea a Roma. «Indovina di che classe è?» Indovino: ’73, ma non mi danno l’orsacchiotto di peluche. E l’altra azienda? Apprendo, da diversa fonte, che era ugualmente in affanno, ma che ora si è ripresa bene, perché un figlio del titolare ha abbandonato l’università, è tornato in paese e vi si è dedicato a tempo pieno. «Già, Silvestro, il cognato del sindaco» borbotta Truglio. «Indovina quand’è nato?» chiedo. Indovina pure lui: ’73, ma niente orsacchiotto di peluche, lo sapeva già. «E a Sbig, mo’ ci vengono pure gli scrittori, a tenere le conferenze...» Sfotte, pure! Si guardano intorno, fieri e raggianti, ma con misura: la sala della biblioteca è colma, gente in piedi, pigiata, molti restano fuori, e ne continuano ad arrivare. Sono venuti sindaci degli altri paesi, alcuni si sono mossi con piccole carovane d’auto; ci stanno i vigili urbani, i carabinieri e studenti, professori... Ne aspettavano una ventina. Se sono pochi, questi qua, sono almeno dieci volte tanto, forse più. «E dimmi che non è un segno,» mormora Sergio «non si era mai visto niente del genere a Sbig.» La vera ragione per cui alcuni fanno delle cose e altri no, è che cominciano a farle. E non è necessario abbia un senso e sia vero il principio che li muove: li fa cominciare e poi, visto che ci sono, continuano. Loro possono, perché sono del ’73; dei predestinati. Nessuno degli altri (del ’72, ’74, ’68, ’81...) è del ’73. Vorrà dire qualcosa se solo quelli del ’73, sono del ’73, no? (Zitti, assecondateli, fate finta di niente). Dove trovi i soldi per creare lavoro? Non c’è niente! Allora, niente deve bastare. A
cena, appena a tavola, si discute sul “che fare?”. Torna Alessio, mortificato: «Il proprietario della casa del fantasma ora di euro ne vuole 30.000». «Gli hai detto cosa volevo farne?» chiedo. «Sì, e ho sbagliato.» «Non è vero, non poteva andare meglio. Quello che sembrava niente, anzi, un niente con fantasma, in pochi minuti ha moltiplicato per dieci il suo valore. Cosa è cambiato? Nulla, solo che a quel niente è stata aggiunta un’idea, se tale si può chiamare; e si è scoperto che il valore ce l’ha, ma nascosto proprio da quel che sembra toglierglielo.» Così, alla domanda “che fare?”, la risposta diviene: usare i problemi come risorse. (Quando lascio l’albergo, la mattina dopo, non sono solo a fare colazione: ci sono due coppie di tedeschi: si saranno persi... Un anno dopo, qualcuno deve aver rubato la segnaletica al confine fra Sannio, Molise e Capitanata, perché c’è un sacco di gente che smarrisce la strada e trova rifugio nell’albergo che era una follia fare lì. Questa volta, alcuni parlano veneto, altri inglese! Donato ha vinto.) In Terroni, suggerisco di ricostruire alberi genealogici e mappe delle nuove patrie degli emigrati e degli oriundi e di organizzare, per ogni famiglia, un annuale “giorno del ritorno”, magari facendo perno su eventuali parenti rimasti in paese. Servirebbe un accordo con il Comune, per i dati dell’anagrafe. Il sindaco? «Enzo è... era... è, credo..., il mio migliore amico.» Era, è o credi? «Eravamo inseparabili, dividevano pure la stanza a Roma, negli anni dell’università. Poi, lui si candidò con il centrodestra e io feci una lista (Batman, Kamikaze: per noi aveva più di un nome) con i ragazzi dell’associazione e un paio di vecchi comunisti, per batterlo. Ma...» Ma l’accordo è stato fatto. Sergio e i trentasettenni dell’associazione hanno ricostruito, con e per conto del Comune, la lista degli emigrati e degli oriundi (quelli della prima ondata, 1880, i bisnipoti, non parlano manco italiano); hanno scritto centinaia di lettere, in
varie lingue, da Sbig al resto del mondo (Sud e Nord America, specie Canada; Australia, Sudafrica, Nord Europa). Chi si aspettava subito una caterva di risposte, è rimasto deluso: la cosa marcia, ma con circospezione, si direbbe. «Ma, seppure null’altro accadesse,» dice Truglio (sono passati alcuni mesi dal nostro incontro, quando lo sento) «mi sentirei gratificato anche solo per questo»: mi gira un paio delle lettere giunte in seguito alla loro iniziativa. Una, molto commovente, dal Brasile; l’altra dagli Stati Uniti, dalla signora Alyssa Asack Rawlins: dice di essere stata in Italia, nel marzo 2011, con il marito, e di essersi recata a San Bartolomeo in Galdo, “my family’s homeland”, la terra dei suoi, perché la nonna, “Ermalinda” Piccuito, era di San Bartolomeo, nata nel 1911, poi emigrata con i genitori, negli Stati Uniti e stabilitasi a Brocton. “Ermalinda” era la sorella di “Pasquelina”, mamma di Rocky Marciano, il campione di boxe. La signora Alyssa aveva 15 anni, quando la nonna morì, ma il ricordo le è tanto caro, che si era ripromessa di far visita al paese in cui nacque. Ora che lo ha conosciuto, si dice colpita dalla sua bellezza, dalla gente meravigliosa e ospitale, che le ha mostrato, nel centro storico, la casa in cui la nonna nacque e abitò, prima di andar via. Alyssa si proclama fiera delle sue radici e ha una speranza: portare the whole family, together, la famiglia, tutta insieme, a San Bartolomeo, in memoria di “Ermalinda” e “Pasquelina”. Sull’eccellenza di quel quasi compaesano, l’assessore alla cultura, Giampaolo Fiorilli, ha appena fondato il premio Rocky Marciano, assegnato a cittadini e oriundi di San Bartolomeo che hanno onorato, con le proprie opere, il paese. Rocky sostenne 49 incontri, vincendoli tutti, prima di morire per un incidente aereo. Anche a lui si ispirò, per la fortunatissima serie cinematografica, Silvester Stallone, che ha una storia simile a quella di Marciano (nel film, parla con il poster del grande pugile, a parte avergli copiato il nome):
pure lui è nato negli Stati Uniti da un emigrato meridionale; suo padre partì da Gioia del Colle: la casa degli Stallone non era lontana da quella degli Aprile (dove nacqui anch’io). Il premio, nel 2011, viene dato ad Aldo Curiale, “falegname” a Sbig, ebanista di successo nel New Jersey: disegna e realizza mobili e strutture in legno di grande pregio (ha ideato e fatto i mobili per il palazzo del governatore del suo Stato; quelli della First National Bank...). Mister Curiale è una potenza nel suo campo, negli USA; ma quando ritira la targa, gli tremano le mani. Durante la cerimonia (eravamo seduti accanto, in prima fila) ha inzuppato più fazzolettini del ciripà di un bimbo che ha mangiato un’anguria: se non si tratta di una fastidiosa congiuntivite... Sbig si è gemellata con Ripa Teatina, paese dell’Abruzzo da cui emigrò il padre di Rocky. Il sindaco è qui. «È stato bravo Giampaolo,» dice Truglio dell’assessore alla cultura «pensare che ce l’avevo in sospetto...» E perché? «Come, perché? È del ’76, che c’entra con noi?» Fra le tante forme di razzismo, questa non l’avevo considerata; per fortuna è stata superata, senza che fosse necessario ammazzare un qualche Martin Luther King del ’71. I ragazzi dell’associazione hanno anche loro una speranza: che gli emigrati, gli oriundi di ritorno, vogliano recuperare le antiche case abbandonate: costano così poco. Se accadesse, quelle case restituirebbero una identità, e la riacquisterebbero. «Il sindaco ha già disposto la delibera, per il piano di recupero del centro storico» informa Sergio. Il bene del paese ha riunito i due grandi amici che la politica aveva diviso, a riprova che i progetti uniscono, le idee separano; e che il Sud (non avevamo detto che Sbig ne è una sintesi?) si salva, solo a partire da se stesso, da quel che era. (Mi informano che se ancora volessi la casa con il fantasma, il prezzo ora, sarebbe molto più ragionevole. Che faccio, la piglio?)
5 UN BEL POSTO, ILLUMINATO DI RIMBALZO
Persino la luce, qui (e la barca, le donne, l’origine, il dialetto, la casata nobiliare) non è la stessa di tutti. «Noi abbiamo qualcosa che altrove non c’è»; nessuno te lo dice così, ma tutto quello che fanno e ti mostrano dice questo. Accade un po’ ovunque, ultimamente a Sud, ma a Bagnara Calabra il fenomeno sembra più evidente, forse per la dimensione del borgo, che nel piccolo maggiormente esalta le specificità locali, la coralità dell’opera, l’intensità del sentimento di riappropriazione. Quaranta volontari, per “Ottobre piovono libri” e per impulso dell’associazione “Insieme per Riaprire la Città”, hanno fatto lettura pubblica di Terroni, per un mese. E, per un mese, il corso della cittadina è stato arricchito da una libreria: Librandosinvolo. Poi, mi hanno chiesto di chiudere la stagione. Sono in tanti, appassionati, giovani la più parte, con una fertilità interiore che affiora per molti rivi: Maria Rosaria, presto di nuovo mamma, forte e decisa, guida l’associazione (si è
rischiata la rinuncia all’iniziativa, quest’anno, perché molti soci hanno dovuto inseguire un lavoro altrove); suo marito Mario Lo Cascio, musicista e compositore, suona il piano con i Mattanza (una vera scoperta!) di Mimmo Martino, istituzione poetico-musicale, per aver recuperato canti vecchi di secoli, in lingua arcaica, altro che dialetto, e in grecanico (il greco bizantino dei monaci basiliani in fuga da Bisanzio e dalle incursioni saracene); Maria è emozionata, ha risolto i problemi, e dice: «Non c’è più un euro; abbiamo le tasche vuote e il cuore pieno»; Roberta fa la giornalista, deve fingere di non vedere gli ostacoli che farebbero desistere i saggi (è lei che mi fa le domande in pubblico); un giovanissimo storico e ricercatore, Domenico Gioffrè, mi dà il suo libro su La Gran Casa dei Ruffo di Bagnara e, con un amico, mi dice, due passi sul lungomare, quel che vale e che si perde del paese. C’è molta fierezza, per il lavoro di Gioffrè, perché tutti conoscono i Ruffo di Calabria, principi di Scilla (sul promontorio accanto); e non vogliono si perda il valore dei duchi di Bagnara, l’altro ramo del casato di quei Ruffo che riportarono il regno ai Borbone, ributtando a mare i francesi che l’avevano invaso. È stata l’associazione Capo Marturano, sorta meno di dieci anni fa, a chiedere a Gioffrè di condurre lo studio sul lato bagnarota della potente dinastia. La sala del grand hotel Victoria è strapiena, l’attenzione tanta, fuori, appena attraversata la strada c’è il mare; a sinistra, oltre le vetrate aperte, le luci della Sicilia, che sembra sporgersi verso il paese. L’onda frange lenta sui sassi e l’aria salsa entra a farmi sentire a casa (la prima che ricordo come mia era così, a ridosso del mare, ma sullo Jonio). A fine serata, esplode l’energia dei Mattanza e i sentimenti intuiti prorompono a sassate: la musica li libera; con la musica si può gridare quello cui a malapena si accenna. Ci tengono, a Bagnara, a quello che li distingue e, a mano a mano, si riscopre e valorizza.
«Sarà perché qui pare ci fosse una stazione fenicia, e solo qui» azzardano. Per dire che i Fenici erano più audaci e liberi. Incluse le donne; soprattutto le donne. Sennò come ti spieghi le bagnarote, le mogli dei pescatori, cui hanno alzato pure un monumento, che al ritorno dei loro mariti dalla pesca, li aiutavano a tirare in secca le barche, poi, con ceste di pesci in testa, salivano a piedi sul monte per la “strada del sale”, un sentierino a strapiombo sul mare, fino a Tropea, a vendere pesce, frutta e (appunto) sale; andavano a Villa, a Messina, intraprendenti e autonome quanto nessun’altra donna, sullo Stretto, con i pacchi di sale nascosti sotto le gonne larghe dell’abito tradizionale “a saia”, per sfuggire al dazio. (In Lucania, i mulattieri che portavano prodotti agricoli sulla costa, al rientro, riempivano le botti di acqua di mare. Le guardie, se li sorprendevano, gliele facevano svuotare: contrabbando di sale!) Belle, forti, roventi le donne di Bagnara. Come Mia Martini, potente nella voce, nella volontà e nei sentimenti; tesa alla perfezione e piuttosto alla morte, senza quella. Anche a lei hanno eretto un monumento, sul lungomare. La forza, qui, il valore, sono declinati al femminile, nella regione forse più maschilista d’Italia. Così diversi i bagnaroti, che «non abbiamo le doppie, il che fa apparire bizzarro, ai vicini, il nostro parlare; e a volte incomprensibile, per gli equivoci che genera» dice Mario. A un passo, lungo la costa, a nord e a sud del paese, ci sono Palmi e Scilla; ma lì il gallo è jaddhu, o gaddhu come nel resto della Calabria, mentre a Bagnara è gaiu. Si arriva alla scomparsa, a volte, delle residue consonanti fra le invadenti vocali. L’esempio classico è «“jeu ìa jà”, e sembra cinese. Significa: io sono andato là» continua Mario, che pure è nato lucano, da padre siciliano, «mentre gli altri calabresi dicono: “eu ìa ddhà”, noi, non potendo forzare la doppia d, perdiamo pure la singola...».
E ti dicono del villaggio neolitico affiorato e ricoperto sulla collina nel cantiere dell’autostrada; della villa liberty della famiglia «di grandi latifondisti, ancora padroni di mezzo Aspromonte» che va in malora sullo sperone fra Bagnara e la sua frazione orientale; della grotta a lungo abitata, in un passato remoto, poi divenuta luogo di culto e penitenza di anacoreti basiliani, che anni fa fu riscoperta e depredata da forestieri (è la grotta di San Sebastiano, sulla “strada del sale”: in epoca recente furono avviati scavi archeologici che portarono alla luce «reperti e strutture del neolitico, abbandonati e dimenticati da chi doveva tutelarli». Lì, dove, vox populi, sarebbe stato tenuto prigioniero John Paul Getty III, nel 1973, primo sequestrato di ’ndrangheta). La sfioritura del gusto e del bello ha imbruttito pure questo paese, con case anonime e decadenti, che il Tirreno potrebbe portarsi via (nella notte di capodanno dell’80, una spaventosa mareggiata scavalcò la murata sulla spiaggia e invase le strade, tanto che a tre parallele dal lungomare, verso monte, l’acqua arrivava ai polpacci. Vennero ghermite barche e auto; fu un miracolo se sparirono nei flutti solo le cose e non anche le persone). Il giorno dopo è molto presto, mentre percorriamo la vecchia strada per andare a Villa San Giovanni. La luce del mattino resta a lungo proprietà dello Jonio (aperto a est e a sud, regno dell’alba e dello scirocco): è fermata dai rostri dell’Aspromonte, perché il Tirreno dà a ovest e a nord, luogo di tramonti e tramontane. «È stato detto, di Bagnara, che non ha né sole né luna,» riferisce Mario «il testo tradizionale, diventato una canzone, dice: “pe stasira sugnu ccà gioiuzza cara e domani non lu sacciu undi mi scura, se mi scura pi li parti di Bagnara, undi non avi no suli e no luna...”, per stasera sono qui, gioia cara, e domani sera non so dove sarò, se dovessi trovarmi dalle parti di Bagnara, dove non c’è né sole né luna... D’inverno, il sole lo vediamo comparire sulle montagne alle nostre spalle verso le dieci.» Il
giorno deve scavalcare la Calabria per illuminare i bagnaroti. Ma una luce fresca rende ugualmente bella questa riva, mentre passi sullo Sfalassà, il fiume sormontato, duecento metri più in alto, da uno dei più arditi viadotti d’Europa; e, una gola avanti, danno di freddo le cascate di un altro rio, alle cave di Musella (dal nome del proprietario, fatto saltare in aria con la sua auto a Reggio Calabria, dalla ’ndrangheta). Siamo abituati alla luce, come all’aria; e ci vuole un po’, perché ti accorga che c’è, senza che ci sia pure il sole: qui, arriva prima la luce, di rimbalzo, poi sopraggiunge il sole. Davanti, c’è lo Stretto che si apre, con i frangenti dello scirocco che entra teso e si spinge nel Tirreno; per la stessa via, la luce si infila da est, perché trova il varco, e infiamma la striscia estrema dell’isola, Punta Faro, su cui si erge il pilone dell’alta tensione. Lì, la luce è anche calore, qui, per ora, soltanto luce. È un posto che ti schianta l’anima; nemmeno l’orgia di cemento a vista e sporco, di muri non intonacati o solo in parte, riesce a diminuirlo. E il colore del mare è subito di quello profondo, che s’inabissa. Uno dei paesini da cui si fuggiva, a cui voltare le spalle, senza futuro. E che ora lo cerca e lo trova nella riscoperta del suo passato. Forse, verrebbe da dire, perché non è rimasto altro. Con che cuore te ne vai da qui, dove tutto è così diverso, raro, bello? «Eppure, tanti se ne devono andare» dice Mario. «Ecco, immagina con che cuore uno se va da Bagnara. E capisci chi resta; comunque.»
6 LA DORMIENTE RIPUDIATA
«E mo’ facciamo una fondazione.» Ah, sì? E per fare cosa? «Progettare un futuro per la nostra terra.» E ci vuole una fondazione? ti viene da pensare. Ma non glielo dici. Poi, capisci. C’è in questi uomini giovani, affermati nel loro lavoro, il furore delle consapevolezze acquisite di fresco, ma con ritardo; c’è ansia di recupero e rimpianto (forse senso di colpa) del tempo perso. Siamo pochi chilometri a valle di Pontelandolfo e Casalduni, paesi martiri di un martirio dimenticato, perché risorgimentale, perché meridionale: bersaglieri contro popolazione disarmata, colta nel sonno e soppressa. «Tornai da una vacanza in Trentino e mostrai a mia figlia piccola le foto di quei monti; le dicevo i nomi delle vette» racconta uno del gruppo. «E quella come si chiama?» domandò lei, indicando la montagna di fronte al nostro paese, Ponte. Chi racconta, imprenditore di successo, sui quaranta, viaggia molto, si chiama Libero Sica, la sua azienda produce coppe, trofei, statuette... tutta roba per premiazioni. Mi dà il catalogo: c’è buon gusto e un pizzico di fantasia. È attento a non restare indietro, rispetto all’evoluzione dei mercati («Abbiamo
contatti con Cina, India, Thailandia. Il mondo cambia e dice cosa vuole»). Ma il nome della montagna che chiude a sud l’orizzonte del suo paese, lui non lo conosceva: è il Pentime, una delle cime del Taburno. Sta sui 1.100 metri, non è la più alta del massiccio, che arriva ai 1.400. «Andai a vedere sulla cartina» confessa «per poter rispondere a mia figlia.» L’ignoranza non è mai un caso; è figlia del disinteresse. Quanto ce ne vuole, per non chiedersi nemmeno come si chiama la tua montagna (e sì che qui ce ne sono, di ogni tipo, e pure per sciare, come in Trentino)? Niente viene dal niente (tranne l’intero universo, ma questa è un’altra storia...); da cosa può nascere tanta disistima per la propria terra, da non volerne sapere nemmeno il nome? Per scoprire dopo quasi mezzo secolo, e solo perché te lo hanno chiesto, che non lo sai! Avrei un’idea, in proposito. Ma ho da ascoltare, adesso. «Se penso a quanto poco sapevamo due anni fa...» dice un altro (il primo annuisce), Giuseppe Mazza. È un chimico, ramo alimentare, lavora per una multinazionale dolciaria, gira per i vari stabilimenti italiani. È di Napoli, come sua moglie Simona, ma abitano qui da molti anni. Come faccio a descrivere la sua voce? Sembra Colombo al ritorno dalle Americhe: racconta di una terra appena scoperta, e scoperta da lui: ma è la sua, quella da cui non si è mosso; sua, davvero, però, solo adesso, perché ha avvertito il bisogno di conoscerla; mentre prima ci stava e basta. «Siamo dove l’Appennino si spezza, salendo, alle nostre spalle, sino a più di 2.000 metri, nel massiccio del Matese, con monte Miletto (dietro c’è Campitello, i campi da sci).» Lo sentite che sembra abbia imparato a memoria una voce della Garzantina? Ma il tono non posso riferirlo; ed è quello che fa la differenza. Dice: «L’Appennino si rialza solo più a
sud, oltre il Beneventano, nella provincia di Avellino. In mezzo, eccola: la Dormiente del Sannio, il Taburno». Il massiccio di fronte. Dicono abbia contorni di una donna distesa. Non riesco a vederli. Ti spiegano che, per scorgerli, bisogna cambiare, di troppi chilometri, il punto di osservazione. Altri me l’hanno detto; ma il punto di osservazione giusto non era lo stesso... «Non è vero,» insiste l’interlocutore «le montagne del Taburno-Camposauro, viste da Benevento, hanno il profilo di una donna distesa, con il capo riverso leggermente all’indietro e i capelli sciolti. I tratti decisamente femminili, di figura esile, un seno ben visibile (ma piccolo, diciamo al massimo una seconda), capelli lunghi e lineamenti gentili.» Si parla così di un amore o di una dea, di cui forse si attende il risveglio. «La figura dà l’idea di estrema tranquillità: naturale immaginare che dorma, senza voler attribuire, a questo, significati più profondi. Tipo il sonno del demonio o altro.» Dicevo una dea... «Allora mi devo documentare» premette il mio interlocutore. E accidenti se lo fa! «È vero, era una dea» confermerà poi, con la ricchezza delle sue fonti. «Benevento è nota come città delle streghe; per i riti, sembra, che si celebravano sotto il Noce di Benevento, e che furono proibiti dal vescovo Barbato, nel 663. Qui dominarono i Longobardi, cristiani, ma seguaci dell’arianesimo; e nei loro riti, la figura femminile era il centro. Ma già prima, fin dal 300-400 avanti Cristo, a Benevento, i Sanniti avevano importato dai tarantini l’adorazione della dea Iside (l’Ishtar babilonese) o dea Madre. Un culto talmente sentito e forte, che Domiziano, nell’88 dopo Cristo, fece erigere a Benevento il più importante tempio di Iside presente nell’impero, dopo quelli d’Egitto. Le strutture di quel tempio non sono state ancora ritrovate, ma reperti da esso tolti, dopo che andò in rovina, sì. Sicuramente i Sanniti avevano già individuato nella “Dormiente” la dea madre e
successivamente Iside.» Ogni volta che un dio ne sostituisce un altro, quello precedente resta, ma diviene un demone; e se dea, strega: continuano a esistere, ma in un olimpo subalterno, degradato nel male, padrone non più del cielo, ma del sottosuolo, degl’inferi. Benevento è la città delle streghe, delle dee decadute. Presenti qui come da nessun’altra parte. Hanno perso il dominio, non la forza. Sono poteri in attesa. Per questo incuriosisce il massiccio: montagna femmina e sdraiata, che dorme. Manco fosse un vulcano, che può svegliarsi. Mentre «è un rilievo calcareo, nato per emersione dal mare, dove l’Appennino si interrompe. Sembra enorme, perché qui, nella valle, siamo a soli 100 metri sul livello del mare; e circa 200 dall’altra parte, nell’Avellinese. Sta al centro di questa enorme vallata fra Campania e Puglia, nella quale si infilano i venti tirrenici e adriatici, di cui tutte queste torri eoliche sfruttano i flussi». Dal vento prende il nome pure la città capoluogo della provincia (nata, la provincia, non la città, centocinquant’anni fa, con l’Unità d’Italia). «E sono i venti che disegnano il paesaggio: a ovest, dalla parte del Tirreno, le colline, poche centinaia di metri, vanno a vigne; a Oriente, dalla parte dell’Adriatico, verso il Foggiano, dove arrivano venti gelidi dall’Est europeo, è tutto grano duro e, in associata col grano, l’erba medica e, in associata con l’erba medica, la zootecnia. Abbiamo una razza tipica con l’IGP , nostrana, anche se si chiama “marchigiana”.» Sembra abbiano il timore di dimenticare qualcuna delle tante cose che hanno appreso di fresco sulla loro terra. Sono protesi verso di me, durante il racconto, come volessero porgermi un vassoio. Ogni tanto, qualcuno aggiunge un nome, un dettaglio, un riferimento ulteriore alla narrazione principale. Per ospitarmi si è riaperta la chiesa di Sant’Anastasia, quel che resta dell’antica abbazia longobarda sul ponte dove, nel fiume Calore, si butta
l’Alenta (o Lente, o Alente; forse divenuto, per assimilazione, da “la Lente”, “l’Alente” e poi “l’Alenta”); a dispetto del nome, vorticoso e di incostante portata, al punto che lo si ritiene un corso d’acqua torrentizio. «Invece,» interviene il primo narratore «l’Alenta è fiume; ho controllato le mappe: fiume di terza classe» (quanti ne conosco che vanno a controllare di quale classe è il rio casalingo? Un ruscello perenne fa da confine al giardino di casa mia. Ci sono pure cascato dentro, una volta. Ma mai, proprio mai mi è venuto in mente che lo si potesse classificare e ci fosse una mappa in cui andare a vedere la sua pagella. Cosa spinge a una ricerca così minuziosa questi uomini che, appena ieri, non erano interessati manco al nome della montagna che sovrasta 180 gradi e più del loro orizzonte? Più parlano, più quella mia idea si fa forte). Ha piovuto molto i giorni scorsi; e ancora piove, a sprazzi. L’Alenta si scaglia con un ruggito nel Calore, schiumando alto sulle rocce. Non è un fiume, ma una vena di storia: nasce a Pontelandolfo, scende a Casalduni, in pochi chilometri diviene il largo signore della sua valle incassata, nei cui fianchi, sotto Ponte, si aprono sette grotte (ora inaccessibili) trasformate in rifugi nell’ultima guerra, durante i bombardamenti. Sul castello di Ponte c’erano i cannoni di una batteria tedesca. La strada si infila con una stretta “esse” sotto l’arcata del ponte che scavalca il burrascoso incontro fra le acque dei due fiumi. La strada poggia su uno sperone di roccia. Sul suo ciglio, la piccola basilica longobarda in pietra; al cui interno, in una sezione aperta del pavimento, la tomba, ora vuota, di un guerriero sannita. Dell’abbazia ci sono altri resti, «ma sottoterra, ancora. E forse è una fortuna. Il fondo è proprietà privata». «Le confluenze» ti spiegano «erano considerate luoghi satanici.» L’abbazia era un esorcismo.
«Nacque prima l’abbazia, poi il castello, poi il borgo, che si chiamò Castello Ponte. Ora Ponte, Ponte e basta; mentre tutti gli altri paesi sorti dove si collegano le sponde d’un fiume, si chiamano Ponte... Qualcosa. Ci fu pure un duca di Ponte, che era parte della contea di Casalduni.» Sanno troppo, tutto insieme, pure l’inutile, del proprio paese. Citano l’anno, il secolo, come da una guida. Suona esagerato il valore che attribuiscono alle rovinate casette del borgo, sull’acropoli, agganciate ai bastioni del castello e (dis)abitate da una cinquantina di nativi e qualche extracomunitario. Il recupero degli ambienti procede lento e discutibile: muri intonacati, dove c’era pietra viva («Sindaco, io rivoglio le pietre» dice un vecchio); strade a chianche, dov’erano i sassi dell’Alenta («Sindaco, su queste lastre si scivola» dice una vecchia. E non è una caduta da poco: con niente, salti il ciglio e finisci a valle. Il sindaco annuisce e scuote le spalle: è arrivato a cose fatte); persino alluminio anodizzato a incorniciare porte e finestre nel centro storico. Mentre loro, i miei interlocutori, hanno riscoperto l’antico e il suo valore. E in quello intendono ritrovarsi: «Questa è terra di vite e ulivo. Il vino è la Falanghina e l’olio è il migliore». Sul tema, da pugliese, sono preparato; chiunque parli di olio, sa qual è il migliore: quello di casa sua. Ma chi mi accompagna ha degli argomenti: «Negli ultimi dieci anni, i nostri produttori hanno vinto cinque volte l’Ercole Oleario, a Perugia. E agli altri non ha fatto molto piacere...». Anche qui, il valore è nel passato riscoperto. «I cultivar della nostra zona sono l’Ortice e il Rappulella, o Racioppella (si chiama così, perché le olive si presentano piccole, a grappoli). Anni fa, cominciarono a tagliare gli alberi secolari, per sostituirli con i cultivar
Frantoiano e Leccino, che in Puglia danno 50 chili di olive all’anno, contro i 30 delle nostre specie locali. L’avidità... Ma il clima e la terra, da noi, non sono quelli della Puglia. E i nuovi cultivar, qui, rendono meno di 30, persino 10. I nostri vecchi non erano scemi; se, in tante generazioni, avevano selezionato Ortice e Racioppella, la ragione c’era. E ora ci stanno tornando. Vuol dire, per allargare il discorso, che per andare avanti, dobbiamo ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo, no?» Uno porge il cestello con i taralli; aveva taciuto sinora: «Assaggiali: perché il nostro tarallo non è lo stesso degli altri. E mo’ ce ne siamo accorti». Si lancia in una dissertazione che va dal dialetto alle canzoni, alle fiabe, alle storie di paese e che si può tradurre così: cos’è una cultura se non la somma di tante differenze? E loro si son dati il compito di ritrovare le proprie. Adesso, per dirne una, tutti loro sanno che la montagna davanti si chiama Pentime. Ma io mi chiedo come abbia potuto ignorarlo per tanto tempo qualcuno che vive qui, ha buona istruzione, un’attività imprenditoriale importante, gira il mondo, sa i nomi dei monti del Trentino. E non so darmi altra spiegazione che questa: la Dormiente del Taburno, signora del luogo, è la terra che non ha saputo difenderti e smette, così, di essere tua madre. La disconosci. Imperi immensi sono caduti da un giorno all’altro, dinanzi a nemici risibili per numero e mezzi, perché un popolo non ha retto alla scoperta che il suo dio ha mentito, non era onnipotente; i suoi rappresentanti in terra, sovrani e sacerdoti, perdono il rapporto con il cielo, che si rivela vuoto. E questo svuota anche la terra, che si riduce da patria, casa, a superficie. È la fine del grande inganno; non importa quanto grande e forte sia la comunità così colpita, il cedimento è istantaneo (mi sa che così dovrò tornare sull’argomento). E qui accadde qualcosa di simile.
L’Alenta, il 14 agosto 1861, portò nel Calore il sangue delle molte centinaia di abitanti di Pontelandolfo e Casalduni che i bersaglieri mandati dal generale Cialdini trucidarono dopo averli seviziati, stuprati, derubati. Questa valle è terra di vinti. Mentre i miei interlocutori sono uomini di successo. Erano abituati a vedersi disgiunti dal destino degli sconfitti, perché, ognuno di loro, nel proprio campo, ha raggiunto risultati. Così, ognuno di loro è legittimato a vedere, nell’eccezione della propria riuscita, l’insufficienza degli altri e la conferma che chi vuole, può. Ma la memoria lunga della Dormiente ripudiata li ha raggiunti: per quanto tu voglia allontanare la madre, dimenticartene, lei resta il punto di partenza. E quando ogni riferimento identitario è perduto, non ne hai un altro cui tornare. Ora, dopo tanto tempo, hanno fretta. Vedono un destino persino nei nomi: «Siamo di Ponte: che non è un nome, ma una vocazione». L’industriale ha disegnato un logo: due uomini stilizzati, uno blu, l’altro rosso, a gambe larghe (i piloni, le arcate) protendono le braccia l’un verso l’altro, sino al contatto. «A noi tocca unire.»
7 I MERIDIONALI DOVREBBERO PRODURRE SOLO FRUTTA E ORTAGGI
«I meridionali? L’agricoltura.» Tu sei pronto a consentire: certo, anche. Ma il tono è tale che non hanno bisogno di aggiungere: «E basta!». Quante volte me lo sento dire? Gli sembra una buona idea: il clima, il sole... Ma le pianure sono al Nord (31 per cento del territorio, contro il 14 del Sud, zero virgola in Calabria) e al Centro; i grandi fiumi e le piogge nella stagione giusta per l’irrigazione scorrono al Nord e al Centro. In Puglia, dare acqua alle piante costava sino a dieci volte più che in Emilia, perché bisognava andarla a cercare nel sottosuolo, con pozzi sempre più profondi. Il Sud è terra di molte montagne petrose; hai le argille impermeabili più instabili del pianeta e le pendici più franose (un intero uliveto, a Cetraro, nel Cosentino, scivolò nella notte sul vigneto a valle: gli alberi rimangano al proprietario dell’uliveto, la terra a quello del vigneto, sentenziò il giudice, salomonico); i monti che si allargano alla base, e le vette sprofondano, si sfaldano; gli altipiani di poca terra e tanti sassi; i soli deserti esistenti nel
nostro Paese; la paradossale “aridità pedologica”, dovuta all’eccesso di sodio nel terreno, che cattura l’acqua e, rigonfiando gli strati superficiali, le impedisce di penetrare in profondità, dove invano la cercano le radici delle piante (tanto che l’agricoltura del Sud, scrivevano gli analisti, è penalizzata più dalla troppa acqua che ristagna d’inverno, che dalla scarsità estiva); le fiumare che scendono a precipizio dai monti, con imprevedibile frequenza, a devastare la rigogliosa, ma esigua fascia costiera, troppo stretta per frenarne l’impeto e regolarne il corso; gli strati d’acqua dolce infiltrati da quella salmastra, che affiorano gonfiati dalle piogge e rendono la terra salina e improduttiva; i terremoti più funesti; i soli vulcani attivi d’Europa (escluse le lontane isole atlantiche), fra i più grandi del mondo, che periodicamente distruggono quel che costruiscono; il sole che irradia così impietoso da bruciare, talvolta, il lavoro di un anno in pochi giorni; un freddo che, a dispetto della latitudine, fa della Basilicata una delle regioni più gelide del Paese. Dal Nord si può immaginare la fertilità del Sud molto al di là del vero, come si fece per le colonie africane; ma dietro le strette pianure costiere, si stendono troppe ossute montagne, roventi d’estate, ghiacce d’inverno. Si attribuiva la ricchezza degli agrumeti, degli orti, alla natura ricca e generosa, trascurando il lavoro di chi aveva terrazzato, con secolare fatica, colline scoscese sul mare, strappato frutto ai dirupi. Sembrava quasi ingiusto che quel paradiso fosse nelle mani dei (poveri) diavoli che pure lo rendevano e mantenevano tale. Gli esploratori di Mosè tornano dalla Terra Promessa con grappoli d’uva che toccano il suolo, per mostrare la ricchezza del Paese «che il Signore ci darà». Poca curiosità per chi ha lavorato la vigna e ignora che stanno per portargli via il raccolto. Nella distinzione del territorio fra buono per l’agricoltura (polpa) e no (osso), il Sud è la parte più sfavorita d’Italia, avvertivano i primi meridionalisti: 13 per cento scarso di polpa,
87 di osso (rubo dati e aneddoti un po’ a tutti, da Giustino Fortunato a Friedrich Vochting, La Questione Meridionale). Ma in secoli di fatica, genio ed esperienza, qui hanno saputo rendere fruttifero l’osso. Nella mia Puglia, la necessità ha selezionato i più grandi aridocultori del Mediterraneo, capaci di tirar su tesori vegetali catturando l’umidità dell’aria, di notte, con i sassi dei muretti (gli agronomi israeliani che hanno messo a coltura il deserto del Negev, erano ospiti nelle masserie pugliesi). Ma era convinzione diffusa che il Sud fosse il giardino d’Italia, da cui attingere primizie e abbondanza; e non avesse vocazione più sicura di questa. Un’opinione fondata sulla superficialità e la convenienza (badino alle insalate, che alle cose serie, ghe pensi mi). E, invece di cercare di incrementare il meglio (l’orticoltura, la frutticoltura, gli agrumeti), si condannò il Sud al peggio, specie con «l’inaugurarsi, già nel 1878, di un regime protezionistico, il quale [...] servì a salvaguardare i centri più avanzati dell’agricoltura nella pianura padana» (da L’emigrazione italiana negli anni ’70). Dopo la condanna alla “battaglia del grano”, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, le esportazioni di arance del Mezzogiorno erano meno della metà di quelle degli Stati Uniti, del Brasile, della Palestina; sei, sette volte inferiori a quelle della Spagna. Quando ero ragazzino, per farmi «spezzare l’aria» e temprarmi (abitavamo sul mare), i miei mi mandavano per qualche settimana da una zia paterna, famiglia contadina, nella Murgia di Gioia del Colle, forse la più rovente. La curiosità mi indusse a chiedere agli zii di fare la vita dei miei cugini. Non immaginavo che la sveglia suonasse alle 2, le 3 del mattino, che la colazione non fosse il caffellatte, ma somigliasse più, per sostanza e pietanze, alla cena; per poi sonnecchiare sul “traìne”, il carro agricolo, saltellante per tratturi, sino al campo in cui lavorare quel giorno. Svenni per una botta di calore durante la
raccolta delle lenticchie (o ceci?) nella conca più ardente dell’altopiano, Abbash o’ Jucch, una depressione che, come una lente, riverbera i raggi del sole e fa registrare temperature facilmente oltre i 40 gradi. Ma l’estate, tempo delle vacanze, è anche quello in cui i lavori agricoli sono scarsi, quasi nulli. Ed è allora che, in Puglia, si faceva, da sempre, “lo spietramento”. La mia regione è un pezzo di Nordafrica che la deriva geologica ha fatto migrare sino ad arenarsi fra le argille della valle del Bradano e il Gargano. Ed è nella mia regione l’unico vero deserto italiano; non ve ne siete accorti, perché abbiamo saputo metterlo a frutto. E dei deserti, la Puglia ha pure le contraddizioni: è la meno forestata d’Europa (solo il 2 per cento del territorio è bosco), ma ha il comune più forestato, Vieste: oltre il 90 per cento; e la foresta Umbra (da ombra), sempre sul Gargano, è l’ultimo scampolo di quella europea primigenia, che ricopriva l’intero continente e sui rami della quale avreste potuto andare da Reggio Calabria a Lisbona, senza toccare terra. Quella foresta è stata ovunque distrutta e le attuali sono tutte ricostituite, nei millenni. Tranne la Umbra, le cui essenze (dai tassi, ai faggi, ai pini d’Aleppo) hanno dimensioni maggiori che altrove, nonostante il Gargano sia, geologicamente, un’isola (poi connessa alla terraferma) e, quindi, tutte le forme di vita che vi albergano siano affette da nanismo (provate a immaginare quanto grandi fossero gli alberi della prima foresta europea). Ultima bizzarria dell’unica regione italiana a dominanza desertica: è la sola, in Europa, in cui siano compresenti quasi tutti i tipi di quercia del continente, incluso la ciclopica Fragna; e sul Gargano c’è la più grande varietà di orchidee del continente. Ma la Puglia è Murgia: i suoi altipiani erano uno sterminato giacimento di sassi e macigni, a perdita d’occhio. I Romani li chiamavano «Deserta Apuliae», al plurale. Non
ricordo dove lessi che la Murgia fu l’unica parte dell’impero in cui si rivelò inapplicabile il modello economico di Roma, fondato su un sistema autosufficiente: la “villa”, casa del dominus, il padrone, attorno alla quale sorgevano le abitazioni di soprastanti, contadini, artigiani, schiavi. Ogni giorno, quanti accudivano al governo dei campi raggiungevano il fondo in cui lavorare. La sera, rientravano. Questo determinava le dimensioni del latifondo, ché non poteva essere tanto grande da rendere antieconomico il tempo del viaggio di andata e ritorno dai coltivi più periferici, rispetto al tempo dedicato al lavoro vero e proprio. Fatto centro sulla villa, tale necessità era il raggio che delimitava, a giro, l’area di convenienza del latifondo: la ricchezza dell’azienda era data, ovviamente, dallo sfruttamento della fertilità di quest’area, detratte le spese per la produzione. Il modello fallì sulla Murgia, perché quelle pietraie non davano abbastanza per coprire le spese e far avanzare un utile. Per essere redditizia, una “villa” sulla Murgia avrebbe dovuto avere estensione molto più ampia; così, però, sarebbero divenuti irraggiungibili, in giornata, i campi più lontani. Oggi questi altipiani non sono più deserto. I pugliesi ci hanno messo millenni a spietrarli. E a farne l’uliveto più grande del mondo: 60 milioni di alberi, un terzo di tutta l’Italia, uno per ogni italiano (prima o poi convincerò la Regione a dare a ogni ulivo il nome di un italiano; così, la Puglia diventerà l’anagrafe d’Italia e ognuno avrà interesse ad aver cura di un ulivo, suo omonimo: salveremo, così, le nostre piante dalla ferocia dei pugliesi, e ospiteremo tutti gli italiani quali pugliesi onorari o... oleari). E qui c’è anche l’uliveto, “certificato” scientificamente, più antico del mondo, circa 6.000 dinosauri vegetali di 2.000-2.500 anni, ancora in produzione: grandiose opere d’arte scolpite dalla natura, dal tempo, dal vento, dai fulmini. E dall’uomo, per un centinaio di generazioni. Me li mostra Gianni Pofi, che ha contribuito a salvarli da distruzione (già dirigente della Forestale,
collaboratore del Consiglio nazionale delle ricerche, grande agronomo e grande camminatore, gira la Puglia a piedi, con la moglie, descrivendo nei suoi libri gli itinerari). In quella vacanza agreste, fui condotto, dai parenti gioiesi, allo spietramento: ognuno rimuoveva sassi nella misura delle sue forze e li ammassava in un luogo indicato. Quasi un rito sociale: vi partecipano uomini, donne, parenti, vicini, amici, braccianti a giornata. A me pareva la fabbrica dei matti: rimuovevi il primo strato di sassi, fra poche zolle rosse, grasse (terra untuosa, si appiccica alle mani). Mio zio e gli altri, quando ne liberavano una piccola superficie, vi affondavano le mani, con voluttà, come se la sentissero già gravida dei loro semi. Ma quando credevi di averla nettata dalle pietre, ecco che ne affioravano altre, appena più profonde. E ricominciava l’opera. E quando anche quelle erano state tolte, nei vuoti così aperti affioravano altri sassi o veri macigni... Sarebbero finite mai? Fin dove bisognava scendere? (Zio e gli altri erano divertiti dalle mie domande, sudati e cotti da anni di sole, sino ad assumere lo stesso colore della terra.) «Che non le baci l’aratro» rispose mia cugina: non dovevano essercene, fin dove sarebbe scesa la lama per rivoltare le zolle. Poi mio zio e gli altri uomini si accinsero a dislocare un masso tanto più grande degli altri: ne demolivano a picconate parti lesionate o più friabili, per alleggerirlo, scavavano sotto, incastravano cunei e leve, creavano un dislivello dalla parte opposta, imbracavano il macigno, spronavano il cavallo a tirare, mentre loro si appendevano alle pertiche e spingevano, nervi e muscoli turgidi da crepare la pelle. Non avrebbero mai potuto farcela: non era lavoro da uomini, quello. E lo dissi. Risero (ero il più piccolo e unico “cittadino”, lì). «Se qualcuno ha tolto quelli,» ansimò mio zio, indicando, nell’angolo più brullo del fondo, un cumulo di macigni rugginosi, per il muschio ormai antico «noi possiamo levare
questo.» Il più accanito spietratore, animato quasi da rabbia, voglia di vendetta, era mio cugino Peppinello, che aveva 15, 16 anni (quasi il doppio della mia età), ma già uomo fatto per il lavoro: meno imponente del padre, però della consistenza di quei massi. «Ci dobbiamo sbrigare» mi diceva in rari momenti di confidenza, quando si andava a bere da u ’rzule, l’anfora di terracotta a collo stretto, ricoperta di un panno umido che, con l’evaporazione, sottraeva calore e teneva fresca l’acqua. «Un giorno, tutta questa terra sarà mia. E la voglio senza pietre.» Parlava sottovoce, perché i grandi ridacchiavano, quando lo diceva. Peppinello si era fatta fama di sbruffone. A 15, 16 anni, si può. Ma quei sorrisini lo offendevano, si incupiva, masticava rancore. Quell’opera dei matti è durata millenni e ha reso coltivabile il deserto che sconfisse i Romani. E io appresi, in ogni senso, sul campo, «come ha fatto questa gente a scavare e allineare tanta pietra» e come «un popolo di formiche sia riuscito a fare quello che avrebbe spaventato un popolo di giganti», secondo le parole del meridionalista Tommaso Fiore. Così la Murgia è diventata giardino di ulivi, ricamo di vigne, ragione di orgoglio. E dove la forza e la tenacia erano insufficienti, interveniva la pazienza: quando il macigno era proprio ciclopico, si riempiva di terra uno dei suoi buchi e vi si piantava l’ulivo. Un regalo ai pronipoti: l’albero, crescendo di forza lenta ma inesorabile, avrebbe incrinato il masso, riducendone la consistenza a portata di spietratore. Con questo sistema, si ponevano a coltura pure le rocce: le donne, con i cesti sul capo, recavano la terra; gli uomini, arrampicati sullo sperone, con quella colmavano le buche in cui sistemare la pianticella d’ulivo: le radici, poi, avrebbero trovato, fra le lesioni della pietra, la via per trarre alimento: una natura stenta ha educato l’albero dei meridionali a
ricavare molto dal poco, con un dippiù di fatica. Si spietrava d’agosto, perché nel resto dell’anno, le braccia servivano ai coltivi; e perché la paga di quelle giornate consentisse ai braccianti di non morir di fame sino alla ripresa dei lavori agricoli, a settembre. I contadini senza terra del Sud avevano creduto alla promessa fatta in Parlamento da Antonio Salandra, rappresentante massimo degli agrari meridionali e capo del governo, quando la guerra del ’15-’18 stava mettendosi molto male per il nostro Paese: «L’Italia compirà un grande atto di giustizia sociale» dopo aver vinto. «L’Italia darà la terra ai contadini» (be’... quelli superstiti). Ma prima, bisognava vincere. La stessa promessa che guadagnò a Garibaldi il caloroso benvenuto dei senzaterra meridionali; e che fu pagata con la delusione e la strage dei delusi inferociti, da Bronte, in poi. Furono delusi e si ribellarono, pure i reduci della Grande Guerra: conquistarono quasi ovunque i comuni in mano agli agrari, occuparono le terre incolte, le misero in produzione. Finalmente il governo, nel settembre del ’19, con il decreto Visocchi, riconobbe ai contadini poveri il diritto di coltivare terre non sfruttate da proprietari che spesso le avevano usurpate, appropriandosi di agro demaniale. Bisognava organizzarsi in cooperative, le procedure per esercitare tale diritto erano farraginose, e la concessione valeva solo per un certo numero di anni, secondo il tipo di coltura. Le terre davvero assegnate furono poche, fra le meno redditizie. Ma i contadini ci credettero, fecero debiti, le bonificarono, le attrezzarono, le misero a coltura. Tutto in perdita, per alcuni anni. Quando avrebbero dovuto finalmente ricavarne un profitto, un nuovo decreto, nel 1923, cancellò il precedente. I contadini che lavoravano quelle terre in forza di una legge dello Stato, divennero da un giorno all’altro abusivi, per legge dello
Stato. E dovettero abbandonarle, portandosi appresso i debiti fatti per recuperarle. Ritrovo, fra vecchi appunti, una frase del sindacalista del Tavoliere, Giuseppe Di Vittorio, che avevo copiato: «Le perdite materiali dei contadini spossessati furono enormi, in compenso, un notevole profitto trassero dal decreto i grandi proprietari, i quali vivevano nelle grandi città e mai avevano visto i “loro” terreni». Come se lo Stato ti desse il diritto di costruirti casa su un terreno demaniale e te lo revocasse a edificazione avvenuta, riprendendosi terra e casa, ma lasciandoti il mutuo da pagare. Oggi, sulla Murgia, a volte sembra che abbia nevicato d’agosto: si vede la terra di alcuni vigneti d’un bianco fuori posto: sono pietre sfarinate, le ultime superfici non bonificate sono adesso percorse da macchinari potentissimi, che tritano i sassi e li riducono a ghiaia. Uno scempio, ma quell’opera dei matti, per cui tanto sudore e tanto sangue sono stati versati, può dirsi compiuta. E qualcuno può permettersi di poetare sui muretti a secco che segnano la regione come una ragnatela: non sempre indicano un confine; erano strumento per attrarre umidità a beneficio di una terra che non può chiedere acqua ai fiumi, alla pioggia d’estate. La porosa e scabra superficie dei sassi fa condensare l’umidità della notte e la lascia percolare nella terra. La condensazione notturna del vapore acqueo apporta sino a dieci volte più dell’umidità che scende con la rugiada e penetra nel terreno per una decina di centimetri, tanto da «gareggiare per abbondanza» ricorda Friedrich Vöchting, in La Questione meridionale «con una lieve pioggia». Quei perimetri petrosi sono come un dito bagnato nella saliva che scorra sulla terra: più densa la ragnatela, maggiore il sollievo trasmesso alle radici di quanto, nei pressi, è a dimora. Gaetano Salvemini si divertiva a prendere in giro certi supponenti esperti che volevano insegnare ai contadini del Sud come far fruttare i campi.
E allora non poteva conoscere, Salvemini, quanto antica fosse questa sapienza. Lo scoprii (come ho raccontato altrove), quando mi appassionai ai templi megalitici dell’arcipelago maltese alla Grande Madre, venerata, con nomi diversi, dalle popolazioni mediterranee preistoriche (in Calabria, si chiamava Italia). Sono templi che hanno forma di utero, eretti con macigni di impressionante dimensione e peso: meraviglia che architetti di cinquemila anni fa abbiano portato a compimento tali progetti. Il popolo che costruì queste basiliche era ancora all’età della pietra, ma la sua civiltà era già più raffinata di quella dell’età del bronzo, apparsa secoli più tardi, quando l’arcipelago era ormai disabitato e di quel popolo non restava più nulla. Che fine aveva fatto? Un mistero, mi resi conto, solo apparente. Avevo appena letto di come era finita la civiltà dei polinesiani dell’isola di Pasqua: per scolpire, trasportare ed erigere colossali statue di divinità o eroi, fu necessario abbattere l’intera vegetazione dell’isola, per realizzare strumenti, rulli, leve. Quei lavori tenevano unito il popolo, a spese del futuro, perché quando non ci furono più un albero e uno scopo comune, la gente dell’isola si divise e quasi si autodistrusse (si sbranarono, letteralmente, fra di loro), con una ferocissima guerra civile. La fine del popolo della Grande Madre maltese non sembra sia stata altrettanto cruenta: abbandonò l’arcipelago (mentre dall’isola di Pasqua era impossibile fuggire), che rimase privo di vegetazione e abitanti. La terra, ormai spoglia, fu desertificata da piogge e venti, che asportarono lo strato fertile, mettendo a nudo la roccia carsica, che ingoia l’acqua e non la trattiene. Malta, Gozo e Comino restarono vuote per circa cinquecento anni, finché non vennero ripopolate da genti capaci di trarre alimento e vita persino da quella sorta di teschi che
erano diventate le isole maltesi. E si trattava, appresi con stupore da The story of Malta, del professor Brian Blouet, di «people» che «probably came from the heal of Italy »: gente che probabilmente venne dal calcagno dell’Italia. Pugliesi. Forse gli unici, già allora, a conoscere tecniche di aridocoltura tali da rendere fruttifera una terra che altri avevano abbandonato, perché ormai sterile, e più nessuno, in Mediterraneo, aveva voluto occupare. È così che di un deserto si è fatto un orto, da noi. A prezzo di una quantità di lavoro disumana, spesa per generazioni. Finché non avvenne il miracolo, un secolo fa: arrivò l’acqua. E la Puglia divenne altro. Ma Peppinello non aveva studiato la storia, non sapeva delle tante volte che i contadini del Sud erano stati illusi e gabbati; e continuava a condire la sua ambizione di una sentenza che gli suonava giusta: «La terra sarà di chi la lavora. La mia». Il padre e gli altri che lo sentivano parlare così, lo avevano pensato pure loro da giovani. Poi, la saggezza li aveva consegnati all’altra, più dura sentenza, che non sarà stata giusta, ma funzionava da sempre: «Le cose stanno così; e così restano». E continuavano a far fruttare la terra per il padrone assente. “Gli passerà” pensavano. Trovavano giusto che lui lo desiderasse, ma i padroni avevano la terra e loro le braccia; grati a chi le affittava, a giornata. Quanti lo trovavano ingiusto e cercavano una diversa, più larga speranza, dovevano alla fine rassegnarsi o andarsene. Si cresce, si capisce come va il mondo. «La mia famiglia ha lavorato la terra sin da quando il Signore ha detto: “Zappate”. Ma [...] noi non abbiamo mai posseduto un pezzo di terra nostro», riferì un bracciante di Stefanaconi, nel Catanzarese, al sociologo italoamericano Joseph Lopreato, autore di Peasants no more (Mai più contadini). Ma Peppinello non voleva capire, né emigrare, come gran parte dei nostri cugini: «Questa terra la conosco. Le altre, che ne so?». Un legame che veniva prima della ragione; io,
superficiale, lo attribuivo a tante cose, tutte sbagliate: la ristrettezza dell’orizzonte (scendere in paese dalla campagna era già varcare un confine, per lui, vedere il mondo); alla sudditanza che aveva sedimentato nell’animo dei contadini l’idea che appartenessero alla terra come le piante; e chi aveva la terra e le piante aveva anche loro. Insomma, banalità. Ricordo un sabato sera che Peppinello venne in paese, a Gioia: io, mingherlino, gli trotterellavo accanto, mentre lui pestava il marciapiede, come se gli scarponi da lavoro affondassero nella terra. Si era messo “il vestito”, ma i pantaloni non erano cresciuti con lui, e la giacca teneva eroicamente i pezzi insieme, nonostante le cuciture sotto sforzo. Mi incuriosiva che, nel fare il passo, non distendesse completamente la gamba, conservando un angolo (una riserva di elasticità per gli accidentati suoli campestri?); e le possenti spalle oscillassero in avanti, nell’incedere, come un blocco unico, destr-sinistr-destr-sinistr. Sembrava andasse a litigare. Attraversata la piazza, mio cugino si affacciò muto all’uscio di un circolo, finché fu notato: «Padrone...» mormorò. E il padrone uscì, con in mano ancora le carte da gioco. «Padrone (e Peppinello ne disse il nome, che non ricordo; N.d.A.), se mi potete anticipare...» Il padrone si girò verso i suoi compagni di tavolo, con un sorrisetto e un cenno del capo, trasse dei soldi dalla tasca: «Ti bastano questi, per ora?», e tornò a guardare verso gli altri “signori”. «Va bene. Grazie, patro’.» Io non avevo più traccia di saliva in bocca, avvampavo di rabbia e umiliazione. E più ancora, quando seppi che quell’“anticipare” non riguardava un lavoro da fare, ma uno già da tempo fatto e non ancora pagato. Peppinello, invece, tranquillo e contento: «Falli fare,» mi disse, vedendomi così turbato «non sanno che mi prenderò la loro terra». E gli ridevano gli occhi. Smisi, gli anni dopo, di andare “a spezzare l’aria” a Marzagaglia, che per me divenne, in ogni senso, “il mondo di ieri”, quello rimasto indietro, parte di una storia residuale, esclusa
dai nuovi tempi. Stavo per entrare in quel confuso ribollire di fermenti che fu il ’68, con lo sguardo a cose lontane, che sembravano più chiare e possibili, perché lontane. Stavo per dirmi, come tanti, che bisognava cambiare il mondo, emendare gli errori dei padri, ritrovare l’equilibrio con la natura e il prossimo, aiutati, magari, dalle filosofie orientali, pareggiare gli squilibri fra sfruttatori e sfruttati. E se ti venivano dei dubbi, ascoltavi Dylan, Baez, più tardi De Andrè e ti passavano. Prima o poi, qualcuno avrebbe scoperto da che parte cominciare e lo avremmo fatto. Non lo scoprirono, non lo scoprimmo, mentre Rino Gaetano sentiva, prima di tutti, che «il tempo passava, sulla nostra età». Qualcuno provò a sfondare i dubbi a colpi di P38, qualche altro li iniettò in vena. I più, come me, dovettero risolvere problemi di bollette e di cuore: il ’68 fu sentimento che volle farsi politica; perse molto sentimento e sbagliò molta politica. Peppinello lo persi di vista per trent’anni (non è strano: ho oltre cento cugini, fra quelli di sangue e quelli acquisiti). Anni dopo, accompagnai da lui mio padre, ormai in quella fase dell’esistenza che chiede di salutare i posti della propria vita. E scoprii che Peppinello non aveva girato il mondo, per conoscerlo: lo aveva cambiato. Quella storia della secolare sottomissione e povertà contadina l’aveva smentita: la masseria di un suo ex “padrone” era adesso di chi ci lavorava, la sua. Altre cose di possidenti distratti erano divenute sue: abbandonavano la campagna (chi ci credeva più: era un mondo ormai vinto; i signori vivevano altrove, a far carriere moderne nell’industria, nell’università, nella pubblica amministrazione e nelle professioni nobili), lui subentrava. Ma nel momento decisivo, quello pur tanto atteso, Peppinello ebbe timori, chiese consiglio al nostro cugino più anziano, Nicola: «Il padrone vuole 30 milioni, per la masseria; non ce la farò mai!». Nicola è saggio, pesa i caratteri. «Non è ai soldi che devi
pensare, ma alla tua volontà: quanto la vuoi quella masseria?» «A ogni costo, Nico’, ma 30 milioni...» «Se 30 milioni sono troppi, allora non la vuoi a ogni costo» ragionò Nicola. Peppinello capì e la mattina dopo, andò dal padrone. «Ieri 30, oggi 60 milioni» si sentì dire. E Peppinello firmò. Continuava a levarsi che era ancora buio; faticava più dei suoi dipendenti, più delle sue bestie. Era fatto di legno e pietra, come suo padre; ma lui aveva ambizione e progetto, e quella resistenza animale al lavoro non la svendeva, doveva rendere a lui. Tornava che era buio, maledicendo il sole che gli rubava la giornata. Guidava la famiglia con dedizione e durezza; la sottomise, quasi con ferocia ma con l’esempio, alla sua religione della fatica. Chissà come, aveva sviluppato gran gusto e una insospettata sensibilità al bello, e fece restaurare, con rispetto dell’architettura e dei materiali, masseria e casamenti che acquisiva. Un giorno, mise “il vestito” e scese a Gioia. Portò a Nicola un po’ di cose buone di campagna, della masseria. E gli consegnò la sua vittoria, con quel suo modo sincopato e pastoso di parlare: «Nico’, so’ diventat il più gran all’vator d’ Marzagaje». Nessuno ricorda di averlo mai visto malato. Gli dei dovettero aggredirlo con una invincibile forma di cancro, per averne ragione. Lui lottò infuriato, si lamentava come un bambino, incattivì: «Perché a me? Perché mo’?». Gli serviva tempo, doveva concludere le cose iniziate e poi ce n’erano altre... Il nemico gli succhiava gli ultimi fiati e lui dava ordini, anche per il futuro, programmava i lavori, ché l’opera non andasse a male, in sua assenza, si badasse agli armenti. È morto a 54 anni. Io me la ricordo com’era quella terra; e ho visto cos’è diventata: ci si vergognava di dire di abitare nei trulli; le masserie secolari erano in declino, spesso in malora, chiuse, sino a che intemperie e curiosi (io stesso, per esempio, a San Basilio) sfondavano le porte marce,
per entrare in quei mondi abbandonati, respirarne l’aria di storie perdute. Vi si appartavano amanti clandestini in una sorta di albergo dei poveri, o signore di strada, con i loro clienti, cercando gli ambienti in cui i camionisti non avessero lasciato i loro bisogni. Quelli che furono spazi immaginati e temuti, inaccessibili se non ai padroni e alla loro servitù, erano ridotti a deposito di merda e preservativi. Oggi sono regge (quella di San Basilio è a cinque stelle), il trullo lo vorrei, ma non me lo posso permettere; chi può elegge un suo eremo (si fa per dire) di lusso, dove prima si nascondevano gli ultimi. La riscoperta di se stessi ha portato alla valorizzazione di quello che ci apparteneva. E, spesso, sono stati gli altri a dircelo, a farcelo scoprire. Poco importa, purché lo si sappia. Qualcuno, che pensavamo alla deriva su un relitto della storia e dell’economia, lo aveva sempre saputo: Peppinello, salvando il suo mondo, ne aveva capovolto le leggi in una generazione, consegnandolo a suo figlio, mentre noi, avvertiti, “studiati” e protesi nel futuro, cercavamo altrove, ovunque nel mondo, tranne nel nostro, chiedendoci da dove cominciare. E dopo, dove avevamo sbagliato.
8 SOCRATE
«Finché ti convinci che certi problemi li risolvi solo con il fucile. Sì, ci potremmo arrivare.» Lo dice con la pacatezza di chi osserva, riflette e trae conclusioni, senza tono di minaccia. «Al punto in cui sono le cose...» Il siciliano di cui hai paura ha la sua faccia: cespugliosa nei capelli, nelle sopracciglia, la barba che pare una matassa di fil di ferro, persino se rasata (quel nero inestirpabile che andrebbe rimosso sottopelle, e chissà se basta); i lineamenti sbozzati con quattro colpi di coltello, possente di spalla e di pancia, l’occhio fermo e forte che non ti guarda (e non ti teme): ti studia. E il guaio è che ti capisce e te ne accorgi. «Lo chiamiamo Socrate» dice Franco Calderone, suo amico, dirigente del Partito del Sud, primo agricoltore “bio” di Sicilia: i suoi vini di montagna sono fra i più premiati d’Europa; unico al mondo a produrre un Pinot nero a 1.000 metri. «È un uomo saggio e giusto.» Il mio silenzio deve dirgli qualcosa, oppure è abituato all’obiezione, non necessariamente espressa, come nel mio caso. «Non fidarti della sua faccia: tanto è truce quella, quanto
sorprendente la sua delicatezza d’animo.» Non volendo, devo apparirgli ancora perplesso. «Credimi» aggiunge. Giuseppe Scarlata, 41 anni, allevatore alla terza generazione, è la guida naturale, per intelligenza e doti morali, assicurano, del Movimento dei Forconi (sorto in collaborazione con quello dei pastori sardi di Felice Floris), associazione di qualche migliaio di proprietari e conduttori di aziende agricole e zootecniche che tentano di impedire la propria scomparsa: nel disinteresse del Paese, l’intero comparto, specie a Sud, è strozzato dall’abbandono della politica e da strane manovre di Inps, Equitalia (non fatevi ingannare dal nome) e banche, con una ondata di pignoramenti per debiti, aziende svendute, messe all’asta. «In tre anni, solo in Sicilia, ne hanno chiuse 50.000 su 200.000. Tragedie vere, vite distrutte in silenzio, perché questa è gente orgogliosa e riservata. Da sempre, capisce solo alzarsi la mattina e andare nei campi. È questione di cultura, di mentalità, di storie familiari antiche» dice Scarlata. Un’idea di dignità solida, tessuta di fatti, di lavoro, la vedi addosso a questi uomini che hanno passi robusti e dita raspose, quando ti danno la mano; e il vestito grigio o blu che si riempie delle loro spalle e braccia forti di muscoli da lavoro, non eleganti da palestra. Sembra un’assemblea di capitribù, questa a cui mi hanno invitato; ognuno di loro deve rispondere delle vite di altri, di un futuro non solo suo. Sono molto agitati, ma cercano di mantenere un contegno, discutono in piccoli gruppi, poi rientrano in sala. Filaga è frazione di Prizzi, in una conca a più di 800 metri d’altezza, sui monti Sicani, la Sicilia più profonda, fra Palermo e Agrigento. Qui, padre Ennio Pintacuda, il gesuita protagonista di una stagione che vide grandi rimescolamenti di potere, a fine Novecento, fondò una scuola di politica. Arrivarci è già una lezione, e non scherzo: quest’isola resta un
continente inesplorato; ogni cittadina, ogni casale pare reggersi su equilibri sociali continuamente discussi e diversamente riconfermati. Mi affascina la capacità dei siciliani di capire il potere con tanta finezza, per esercitarlo con tanta rozzezza. Il potere è il gioco dei siciliani, la loro industria; così come, altrove, l’industria è il potere di altri, il loro gioco. Stare al centro, anche geograficamente, di tante ambizioni e mire (troppo piccoli per essere uno Stato concorrente di quelli intorno; troppo grandi per esserne solo una quieta provincia), forse li ha educati ad accompagnarsi con chiunque, per restare se stessi. Ricordo molti anni fa, quando un collega francese mi chiese di aggregarsi mentre andavo a Racalmuto, per intervistare Leonardo Sciascia. Al solito, il professore ci aprì le menti. Il collega ne era giustamente ammirato. E mi domandava, al ritorno, da cosa potesse venire tanta capacità di analisi, di profondità. «Avresti dovuto fartelo dire da lui» risposi. «Non sono siciliano e non sono Sciascia. Ma una cosa salta agli occhi: c’è una distanza fra il meglio e il peggio che qui si produce, che non ha l’equivalente altrove.» So che suona come forma di razzismo all’incontrario, ma sembra che si operi una sorta di dilatazione delle anime e delle possibilità di agire. E se questo c’è, darwinianamente, le circostanze devono averlo reso necessario. Nulla, come l’interno di certe isole annulla l’idea dell’esistenza del mare. I Sicani hanno picchi rocciosi, forse residui di perdute altezze; raggiungono i 1.500 metri, ma mentre li risali per strade malmesse e contorte, ti appaiono come oceano erboso, ondulazioni lente a vista d’occhio sui 1.000 metri scarsi. Sterminati campi di grano; la poca frammentazione terriera ti dice pure che dominano grandi aziende agricole. Era così già al tempo dei Romani. Dopo di me, interviene il deputato del gruppo filo-berlusconiano Noi Sud, Arturo
Iannaccone, che vuol parlare dell’impegno del governo per le grandi riforme: giustizia, intercettazioni... Non riesce a finire la frase; per gli agricoltori è davvero troppo; gli urlano che mentre le Camere lavorano per l’impunità del presidente del Consiglio, l’agricoltura va in fallimento. «Dobbiamo vendere il grano persino a otto euro al quintale!» Sono esasperati, si avvicinano al palco: si è rotto il freno, e tutti lo abbiamo capito... Il senatore Carlo Vizzini, fermo, riesce a interloquire (io mi limito a prendere appunti): lo incontreranno poi, per esporgli i fatti. L’equivalente di quattro confezioni di gomme americane, otto euro, per cento chili di grano? «E quello che si compra per la semina costa il doppio. Si produce in perdita» dice Scarlata. «Ci fosse una giusta tutela nel prezzo, per il grano certificato, di nota produzione e provenienza, ci si potrebbe stare. Invece, tutto finisce nella stessa busta di pasta, mischiato a grano canadese, del Kazakistan o di chissà dove; figura tutto italiano. Perché dovrebbero pagartelo meglio? In Egitto, il lavoratore costa due euro al giorno, senza protezioni, contratti e contributi. Il pomodoro ciliegino egiziano, però, qui lo vendi a due euro come quello italiano, che deve essere prodotto con garanzie (per il pomodoro e per chi lo coltiva), che all’altro non sono chieste. Da quasi vent’anni la politica non fa nulla per l’agricoltura, specie per la commercializzazione dei prodotti» (mentre partorisce accordi con i Paesi nordafricani e non solo, che consentono l’importazione dei loro prodotti agricoli e l’esportazione di quelli industriali nostri. Come dire: sacrificare il Sanmarzano alla Punto). Né si sentono garantiti dalle associazioni di categoria, strumenti elettorali dei partiti: «La Cia, la confederazione italiana agricoltori, per la sinistra; la Coldiretti, era per la Democrazia cristiana e ora non si capisce più per chi, per cosa; l’Unione agricoltori, per il centrodestra: poteri forti. E noi siamo soli». (Meno gli allevatori padani cari alla Lega, che
hanno truffato sulle quote latte. «A quelli lo Stato paga pure le multe. Con i soldi nostri.») Cercano di resistere, ma ogni mossa pare ritorcersi loro contro. «Gli agricoltori avevano aderito a una grande società per commercializzare i loro prodotti in un mercato più ampio; alla fine, ne sono usciti: spuntavano prezzi migliori e introiti più sicuri sul mercato locale. Quanto agli allevatori, la sanità per la zootecnia è cosa ottima; ma la Regione Siciliana investe, nel settore, quattro volte il valore dell’intero parco zootecnico; abbiamo un decimo delle bestie della Francia, ma, per la sola Sicilia, lo stesso numero di veterinari addetti ai controlli. Avevamo fatto dei patti territoriali, quattro anni fa, per riammodernare tecniche, macchine, caseificio aziendale; preso impegni con le banche e in favore dei dipendenti, per garantire l’occupazione... Poi si fanno i prelievi e metà delle mie bestie risultano brucellose. A noi non viene data possibilità di controanalisi, non ci lasciano un doppione delle provette. Quindi, salva la buona fede, se tu sbagli, pago io? Gli impegni devi mantenerli, i redditi calano. Così, proprio le aziende più moderne, che avevano investito di più, sono in difficoltà. Le banche non ti fanno nemmeno entrare da loro, per riprogrammare i debiti. Che fine fai?» Socrate ha un gregge di 500, 600 pecore. Un pastore. Lo era suo padre; lo era suo nonno: «Spero non lo siano i miei figli». E avverti il rammarico: a lui piace il suo lavoro; ma quale futuro? Investire per sopravvivere: lo fai e ti metti nelle mani delle banche (la Sicilia, mi spiegheranno, è l’eldorado delle società di “performance”, che consigliano agli istituti di credito quando allentare o tirare il cappio al collo dei loro clienti, per portar loro via i beni dati in garanzia dei prestiti); dall’altra parte, hai lo Stato che ti ignora, tranne per i controlli (e quando controlla, ha in mente qualcosa; esattamente come quando non controlla) e gli
obblighi fiscali. «Le società di riscossione sono all’attacco di chi non può pagare» scrive un dirigente del Movimento dei Forconi, Mariano Ferro, che fa un elenco delle tagliole: «Le banche sono proprietarie di mezza Sicilia. La mafia nei mercati di tutta la Sicilia continua a muoversi indisturbata e sempre più potente. I centri commerciali degli amici dei mafiosi nascono come funghi, col benestare dei politici di zona, pronti a lucrare qualche decina di posti di precariato in cambio dei voti. L’Inps diffida; e, per finire, gli adempimenti burocratici allucinanti per stare in regola». Le aziende agricole e zootecniche sono indebitate con l’Inps, perché non riescono più a pagare i contributi. «La cifra è enorme» dice Socrate, sono decine di miliardi di euro, «allora, l’Inps vende il suo credito ai privati, per il 6 per cento del valore (secondo altre fonti, l’8, il 10 per cento; N.d.A.). Un affare, per chi lo acquista! Peccato che da noi pretendesse il 100 per cento. Peccato, perché avrebbe potuto proporre a noi di estinguere il debito (e badi che non siamo evasori, ma nei guai) a quel prezzo! Peccato che ora, quei privati chiedano ai debitori di accordarsi al 30, 40, 50 per cento del totale.» Il presidente del Centro di Azione agraria della Provincia di Foggia, Matteo Cartesiano, mi aveva avvicinato durante una presentazione di Terroni nella sua città, per porgermi dei documenti («Ho letto il suo libro, ci aiuti!» Io? Caspita, questa è disperazione vera!); poi me ne aveva inviati altri per posta elettronica. Rapporti, studi, tabelle piene di numeri sui costi delle coltivazioni e sui ricavi: a me, che non so leggere il mio conto in banca. Li avevo messi da parte. Li riprendo, metto il neurone sotto sforzo: le tabelle sono chiarissime (si chiama Cartesiano chi me le manda...), quei numeri sono il racconto di un fallimento programmato e inevitabile: si impennano i costi, crollano i prezzi. E gli agricoltori in mezzo
alle due lame di forbice che si chiudono. C’è un inutile appello all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, già nel 2005, in cui si dice che, mentre Stato e Inps impongono obblighi, pena feroci sanzioni, molte industrie trasformatrici, «approfittando della loro posizione dominante», agiscono come un “cartello” e impongono prezzi di vendita assurdi del pomodoro: 6,5 centesimi al chilo, sino a 0 (zero) centesimi, con la minaccia di non ritirare il prodotto e far perdere ai coltivatori anche il contributo comunitario di 3,5 centesimi al chilo. Dopo aver letto e riletto, ho chiesto a mia moglie quanto paga i pelati: 1,60 euro, per otto etti sgocciolati («Puoi pagarli anche la metà, ma perché farsi del male?»). Forse è un prezzo giusto, forse no (ci devi calcolare lo spreco, il trasporto, il lavoro, il barattolo, l’etichetta, la commercializzazione...). Di sicuro, produrre a zero centesimi al chilo non deve rendere molto... E, come sempre accade, il debole che viene schiacciato schiaccia chi è più debole di lui: mentre qualcuno cumula il superfluo, qualche altro, per salvare il necessario, lo toglie a chi ne ha ancora meno, sottraendogli l’indispensabile, la libertà, la vita. E, attraverso i “caporali” e la mafia nel ruolo di intermediari, si sono visti agricoltori meridionali schiavizzare gli extracomunitari nel Tavoliere, nella piana di Rosarno e altrove che non si è saputo, promettendo venticinque euro al giorno e dandone dieci o negandoli; pagando poche decine di centesimi “a cassetta”, quando la raccolta è alla fine e fai fatica a riempire dieci, venti cassette in dodici ore; rifiutando il lavoro a chi chiede il rispetto dei patti, picchiandoli, se insistono; uccidendoli se organizzano nella protesta i loro colleghi. Quando finisci sulla zattera della Meduse (ricordate?: il naufragio più metaforico della storia dell’umanità, ai primi dell’800), ti salvi solo se butti i tuoi più sventurati compagni di sventura fra i denti dei pescecani; o fra i tuoi.
«I tribunali fallimentari stanno eseguendo la sentenza di morte dell’intero mondo agricolo! Questa carneficina si sta traducendo in una valanga di pignoramenti e vendite all’asta di un enorme numero di aziende agricole, decretando la morte di altrettante famiglie di agricoltori, per consegnarle nella mani di chi ha alte disponibilità economiche di dubbia provenienza, consentendo così a truffatori, corrotti, usurai, malavitosi, sciacalli di ripulire il “proprio” denaro»: è un passo di Agricoltura in Capitanata: Ultimo Atto, di Matteo Cartesiano. «E in queste condizioni di illegalità diffusa da parte di chi dovrebbe rispettare e far rispettare gli accordi presi col mondo agricolo che si chiede agli agricoltori di mettersi in regola con i contributi Inps, di rispettare le scadenze delle banche, dei fornitori, dei contributi di bonifica della Capitanata, delle imposte... tenuti sotto la costante minaccia dell’inesorabile Equitalia e dei tribunali fallimentari.» Mi raccontano di aziende bloccate perché macchine agricole da decine di migliaia di euro sono state “piombate” per insolvenze di poche centinaia di euro. Un sistema che travolge i settori collegati (dipendenti, artigiani, commercianti, specialisti) e distrugge, «nell’indifferenza dello Stato, un’economia fatta col sacrificio e il sudore della fronte, per rimpiazzarla con quella precipitata economia virtuale truffaldina». A danno del Sud: Crisi o genocidio? era intitolato il rapporto inviato all’allora ministro leghista all’agricoltura, Luca Zaia, quello che impose a McDonald’s il panino italico, ma con formaggio veneto (un fallimento: uscì presto dal menu, forse manco Zaia lo mangiava). Ho raccolto la confidenza del titolare di un’azienda agricolo-alimentare di tradizione mediterranea che è un gioiellino, stimatissima all’estero, specie negli Stati Uniti: aveva vinto un appalto per fornire servizi a una multinazionale presente in Veneto. Al committente fu autorevolmente “consigliato” di disdire il contratto e stipularlo con un’azienda veneta. La
multinazionale dovette adeguarsi. Chiesi al titolare dell’azienda meridionale penalizzata di poter divulgare il fatto. «Così finisco di lavorare anche nel resto d’Italia?» rispose lui. «Tanto, al Sud in un modo, al Nord lo stesso... Cerco di espandermi sempre di più all’estero. Che devo fare?» «Io credo che le disgrazie non vengano da sole,» racconta con la sua sorprendente pacatezza il Socrate dei Sicani «qualcuno le aiuta. Le aziende agricole e zootecniche vengono sequestrate per debiti e vendute all’asta. Ci sono sentenze contro questo sistema, ma non cambia nulla: e sono indebitate, ripeto, proprio le migliori, che hanno investito per ammodernare. A gestire il tutto sono Equitalia e Serit Sicilia; e fra le banche, per esempio, Unicredit.» L’Inps, che vende a Equitalia, è socio di Equitalia (non badate al nome, potreste farvi un’idea sbagliata). E chi si vede togliere l’azienda, che fa? «Il nostro agricoltore si vergogna di esternare, protestare, portare in pubblico la sua rovina. Gli sembrerebbe di andare in giro con il cappello in mano, di chiedere. Sono drammi e conflitti che esplodono nel chiuso dei cuori, dei muri di casa; con gli altri si dissimula. La dignità ne soffrirebbe. Al massimo, si aprono, raramente e con difficoltà, con l’amico.» Lui, Giuseppe-Socrate, ha superato la trappola di questi pudori. Ti dicono di quando guidò il suo trattore per due giorni, sino a Palermo, per condurre una manifestazione di protesta. «La vocazione del Sud è la terra» sentenzia. È stato fra i primi “tutori dell’ambiente”, d’intesa con la Forestale: preserva da incendi e frane i circa 1.000 ettari in cui conduce il suo gregge. «Tranne l’agricoltura, non vedo grandi risorse, per il Mezzogiorno» sostiene.
Ma se va male! Mentre il turismo, forse... «Quello di massa, che si fa da noi, costa molto meno in Tunisia, in Marocco. Dovrebbe essere di qualità, ma non ci sono le infrastrutture. Sbarchi all’aeroporto di Catania e come arrivi qui? Le strade? I treni? Quando trascuri il territorio, all’inizio non succede niente. Per molto tempo può non succedere niente. Poi succede tutto insieme; e paghi tutto e tutto insieme. L’agricoltore che ha vergogna di protestare, gonfia, gonfia il fegato, e quando non ne può più, non fa un corteo: prende il fucile.» L’agricoltura, al Sud, è Sud due volte. Quando il parmigiano è rimasto invenduto, il governo padan-leghista ne ha acquistato centomila forme, usando i soldi destinati alle aree sottoutilizzate del Sud. «Ma soltanto i grandi produttori ne hanno tratto benefici; il vaccaro emiliano che a quelli vende il suo latte, tira la cinta come il suo collega siracusano» dice Socrate. E la geografia che lui traccia è soprattutto economica, perché si soccorre il ricco e si abbandona il povero. Ma è pure geografia e basta: «Quando è rimasto invenduto il pecorino, gli allevatori e caseari sardi sono stati randellati in Sardegna e hanno dovuto tenersi il formaggio: mica era parmigiano! E quando hanno preso il traghetto per portare la loro protesta a Roma, li hanno attesi e randellati in trasferta, a Civitavecchia, preventivamente...». Non ci sono toni risentiti, rancorosi, irritati, nel racconto del pastore Giuseppe Scarlata, detto Socrate. Il suo è un discorso piano, chiaro, con termini appropriati. Sa farsi capire e non dice più di quel che serve. Cortese, equilibrato, attende la domanda ed è esaustivo nella risposta. E sta parlando di quello che può distruggergli la vita. Incuriosito, chiederò ad altri che scuole ha fatto. Avverto imbarazzo: «...quasi zero» confidano, alla fine. «Ma non devi stupirti: Socrate ha una grande capacità di capire anche
le cose non dette e di sintetizzare situazioni complesse. Quando andiamo a Roma, a discutere con il governo, mette in difficoltà ministri. Noi lo conosciamo, eppure riesce a sorprenderti sempre con il suo acume, la chiarezza con cui espone le idee. Alcune delle quali sono davvero notevoli. “Ma dove le trovi?” gli chiesi una volta» narra Calderone. «“Franco,” replicò lui “iu sugnu appress’a li piecuri di la matina a la sira. E tu mi voi livari puru di raggiunari?”» Il giorno dopo, il panorama antico di questi monti lo guardi con altri occhi, mentre scendi al mare di Punta Raisi, per l’aereo che ti riporta altrove: altre luci, altri ritmi, altra velocità; è altra la civiltà, non interessata a quella che si dibatte per sopravvivere, appena oltre la montagna, se non per quello che può rendere la sua morte. La fine del mondo è intesa come improvvisa e per tutti: una sorta di estrema forma di giustizia e ingiustizia collettiva, nel senso che tutti castiga, con o senza colpa; senza distinguere. Ma pure questa cieca forma di egualitarismo trova le sue smentite. La fine del mondo può essere lenta, combattuta, incerta; ed essere solo la fine di un mondo, il mondo di alcuni, non quello di tutti; e persino finire a vantaggio di un mondo contiguo e diverso, che non riconosce valori e radici di quello che muore, ma solo ne pesa le spoglie.
9 IL FURTO DELL’ACQUA
«Quello che l’Italia ha fatto al Sud, la Puglia ha fatto a Caposele» dice il sindaco dell’orgoglioso e risentito paese irpino, Pasquale Farina: «Ci ha rubato la ricchezza, il nostro tesoro, l’acqua». E bisogna sentire con quali termini e quale tono ne parla. Per l’ospite (onore immeritato? sono pugliese; o forse per mostrarmi l’entità del delitto), si aprono le porte del tempio: la camera di captazione della sorgente del Sele. Non si potrebbe, sono in corso lavori di manutenzione. L’assessore è architetto, mostra ammirato le opere di un secolo fa, efficienti, perfette come appena costruite. L’acqua erompe subito tanta, subito fiume e fiume grande, potente e prepotente: non esce dalla montagna, la sfonda, la sventra; il Sele è fiume che usa il monte, non ne è dono. «Sino a 5.000 litri al secondo!» si gonfia la voce dell’assessore Salvatore Conforti. E prova a dargli torto, mentre quei 5.000 litri ti esplodono a un metro sotto i piedi, dall’utero di roccia del monte Paflagone. «Questo è il colore dell’acqua; il colore vero» mormora Nancy Malanga, dell’associazione di volontari (sono una decina, guidati da Antonio Ruglio)
che cura le iniziative culturali, turistiche, legate alla sorgente. È un verdino trasparentissimo, tenue tenue, che diventa riconoscibile soltanto nei vortici. Per me, pugliese, non è una visita, ma un pellegrinaggio: sono nel santuario dell’acqua che ci cambiò il destino e la storia. È questa vena il dio che portò la vita nella mia regione, dopo millenni di sete (la Puglia è scheggia d’Africa migrata a nord. Pure quella...). Le donne della Murgia raschiavano acqua dai sassi, la raccoglievano nelle cisterne, la riadoperavano in usi a igiene a scalare, come si fa nel deserto, dall’uomo agli animali, dall’abitazione ai campi. «Esiste una scena significativa della fiction Rai su Giuseppe Di Vittorio» (il bracciante pugliese che fondò il sindacato moderno), ricorda Michele Ceres, sul periodico di Caposele, «La Sorgente», in cui si mostrano «gli abitanti di Cerignola che si affannano, durante un acquazzone estivo, a raccogliere in grossi recipienti l’acqua piovana che scorre lungo una strada in lieve pendio. È difficile per noi di Caposele immaginare che una comunità possa vivere con poca acqua a disposizione.» Mi torna in mente un aneddoto che Carlo Levi raccontò a Salvatore Giannella, per la rivista «Il Mondo», quando qualcuno sparò alla statua di Di Vittorio, negli anni Settanta: il grande sindacalista compì il suo primo viaggio a Firenze, in treno, per un congresso. Nella stazione di arrivo, ebbe bisogno di usare il bagno. C’era una catenella; la tirò, per la maledetta curiosità che tradisce pure i migliori, e fu il disastro: vennero giù secchiate d’acqua che andarono perse nella tazza, senza che nulla si potesse fare per impedirlo. Un istante dopo, tutto era finito; sparite anche le prove del misfatto. Ma Peppino Di Vittorio era di leggendaria onestà e andò a denunciarsi al capostazione: era pronto a risarcire, non immaginava di procurare cotanto danno, tirando la catena... Il capostazione, superata l’iniziale perplessità, gli spiegò che non c’era nulla di cui scusarsi: lo sciacquone era lì
apposta per ripulire, ogni volta, la tazza dopo l’uso. «Ma erano almeno dodici litri di acqua!» balbettò il sindacalista, sconcertato. «Al mio paese, è la paga di un giorno di lavoro, per un bracciante.» Una terra senz’acqua viene arsa dal sole, si sbriciola in polvere che il vento solleva e il calore mantiene a mezz’aria. Orazio (“poeta latino”, ma era lucano di Venosa; mentre il primo “poeta latino”, Quinto Ennio, era pugliese, del Salento) diceva che l’afa della Puglia arrivava alle stelle. Le case delle mie nonne, dei miei zii, in campagna e al paese, lo ricordo bene (ero bimbo, adolescente, non parlo di secoli fa), avevano il pozzo da cui si attingeva il tesoro idrico che vi si convogliava con la pioggia, dai tetti a mandorla, o dalle feritoie dell’aia concava, nella cisterna. Noi, invece, già trasferiti in città, aprivamo il rubinetto (ed eravamo i primi pugliesi nella storia della Puglia!); anche se non sempre al gesto corrispondeva il presunto ovvio: il flusso dell’acqua; che era poca, contingentata. Solo molti anni dopo, la rete fu arricchita con gli apporti di altri bacini. Abitavo a Bari, allora, il capoluogo della regione, avevo poco meno di trent’anni, moglie, due figlie, e la mattina, quante volte!, mi toccava fare la doccia con una bottiglia di acqua minerale (non è vero che non si può, è solo questione di metodo). Ed ero già della generazione fortunata dei pugliesi: il Sele era stato catturato da più di mezzo secolo, ma gli si chiedeva troppo: irrigare i campi, dissetare quattro milioni di persone, alimentare le aziende della montante industrializzazione della Puglia, con impianti colossali. «La fine della nostra ricchezza segnò la nascita della vostra» mi dice il sindaco. Non è solo cronaca, è rimprovero. Ed è vero. Ti mostrano una foto d’epoca («Ecco com’era»): già a cominciare dalla bocca della sorgente, edifici affacciati sull’acqua vorticosa. E te li
enumerano: mulini, tintorie, gualchiere per l’industria tessile... Caposele era uno dei centri più industrializzati dell’Alta Irpinia, con Sant’Angelo dei Lombardi e Calitri. Una eccellenza figlia dell’imponente quantità di acqua che sgorga da questi monti. Ai mulini di Caposele arrivava grano da macinare sin dalla Lucania; e così per le gualchiere, dove le stoffe artigianali (specie di lana) venivano pressate e ingentilite a colpi di magli in legno azionati dall’acqua, per essere poi tinte e dilavate. Poco distante, le ferriere trattavano il minerale inviato dall’isola d’Elba. «Eravamo ricchi,» borbotta l’assessore «d’acqua e per l’acqua.» E, ancora oggi, qui tutto gira intorno alla sorgente. «Sorgente» si chiama il periodico (corposo, ben fatto) di Caposele; “Sorgente del sapere” si chiama l’associazione che organizza gli eventi culturali, appoggiandosi pure alla libreria Pergamon di Michele Cetta, a Sant’Angelo dei Lombardi (l’unica, mi dicono, in una subregione di 45 chilometri di raggio, fra Capitanata e Irpinia) e sull’attivismo di giovanissime volontarie del Presidio del libro, come Maria Stanco e Gerardina Giammarino (una laureanda in relazioni internazionali e diplomatiche, l’altra laureata in organizzazione di eventi culturali, indirizzo cinema. Qui?). Un ampio slargo asfaltato trasuda acqua: «La sorgente vuole fuggire» commentano. Ti mostrano la prigione: «Lì,» sotto la parete umida e precipite del Paflagone «c’era il laghetto che la sorgente creava; oggi è chiuso da una copertura di cemento armato». Il Sele non vede più il sole: imbrigliato in galleria, appena nato, scorre per 240 chilometri, sfruttando principi idraulici, meccanici e pendenze minime che tengono l’acqua in continuo movimento, ma che a fine percorso non arrivano a 100 metri di dislivello, dai 419 di partenza. «Se butti qui dentro una barchetta di carta,» dice l’assessore Conforti «fra tre giorni, tanto ci mette l’acqua ad arrivarci, la vedi uscire dalla bocca di Santa Maria di
Leuca», la punta estrema del tacco d’Italia, ultimo sasso di Puglia. Lì, questa straordinaria opera di ingegneria genera la meraviglia finale: la cascata dal promontorio che si affaccia sull’incontro fra Adriatico e Jonio. Le acque residue, periodicamente, vengono sversate a mare, con un salto spettacolare. È il modo di spurgare la condotta, ma produce bellezza. «Ancora oggi,» continua l’assessore «dopo un secolo, è il più lungo acquedotto del mondo (c’è chi dice solo d’Europa, adesso; N.d.A.), il terzo per portata d’acqua.» Sono passati guerra e terremoti su questa vena, senza romperla. La palazzina costruita a sorvegliare la sorgente fu la prima in Italia, in cemento armato: è intatta; oggi la utilizzano i carabinieri. Mentre gli opifici, le case in pietra che compaiono nelle vecchie foto, non ci sono più. A parte il campanile, rimasto lì, come un cippo, a ricordare che Caposele, una volta, era in un altro posto, proteso sulla bocca d’acqua (la chiesa è stata ricomposta altrove, sasso per sasso). «Lo presero per un pazzo» dice l’assessore. Parla dell’ingegner Camillo Rosalba (cui è intitolata la prima galleria), quando propose il suo progetto; il primo a concepire un’impresa che sembrava impossibile: captare acque a centinaia di chilometri di distanza, per dare alla Puglia i fiumi che non ha. Vinse la gara per dissetare la regione più arida d’Italia, ma non riuscì a vedere realizzata la sua idea. Fu un facoltoso ingegnere barese a riprenderne le fila, rivisitandola, e a concludere un accordo con il Comune di Caposele («Hanno venduto e ballano!» commentarono i vicini dei caposelesi, quando in paese si fece festa, per la cessione della fonte); i tempi per l’avvio dell’opera, però, scaddero senza che si iniziassero i lavori. E, tanto per rispettare le buone tradizioni nazionali, si finì a causa; e dovette subentrare lo Stato, con il ministero dei Lavori pubblici. Era il 1905: in cambio di 700.000 lire, il Comune accettava che le acque del Sele divenissero demanio dello Stato;
meno 500 litri al secondo, che avrebbero continuato a scorrere nell’alveo naturale (riducibili a 200, se la portata complessiva della fonte fosse scesa a meno di 4.000 litri al secondo). A questo modo, la Puglia avrebbe avuto il suo acquedotto e i mulini, i frantoi oleari, le tintorie e le gualchiere dei caposelesi non si sarebbero fermati. Ma se la fame non guarda in faccia nessuno, figurarsi la sete... E qui scopro la storia che non sapevo. Ha ragione il sindaco di Caposele: la Puglia ha fatto loro quel che l’Italia ha fatto al Sud. Né è diverso il modo in cui la cosa è stata raccontata. Il Risorgimento è una fulgida cavalcata di visionari che realizzarono un sogno con la forza dei loro ideali (peccato abbiano dimenticato di dirci chi calpestarono, cavalcando cavalcando); e il colossale acquedotto fu l’esaltante risultato dell’incontro di uomini capaci di pensare e agire senza limiti: dall’ingegner Rosalba, al ministro Jatta, al barone Pavoncelli, tutti convinti che quando l’impossibile diviene necessario, l’impossibile non è più tale. Suona bene narrato così, no? I lavori cominciarono nel 1906 e nel 1915 l’acqua sgorgava da una fontana nel centro di Bari, forando l’Appennino dov’è più largo, scavalcando orridi e gravine profonde centinaia di metri: bastarono dieci anni e si stupì il mondo (oggi, nello stesso tempo, non si fa un marciapiede). E noi così abbiamo appreso la fine della “naturale”, “atavica” sete di Puglia. C’è di che essere tutti fieri e contenti, no? No. Io quasi ignoravo esistesse un paese che si chiama Caposele e che noi pugliesi gli avessimo rubato l’acqua; ma che loro fossero ancora incazzati, non potevo immaginarlo! (Che senso ha che lo siano, dopo cento anni? Il senso che sono cento anni che ti prendi la mia acqua. Che senso ha parlare, dopo centocinquant’anni, delle stragi e dei saccheggi di cui fu vittima il Sud, per unificare l’Italia? Il senso che da centocinquant’anni lo stato di subordinazione costruito a mano armata viene mantenuto con la politica e le leggi.) Ha
ragione Ceres, quando scrive che i pugliesi non sembrano «coscienti del fatto che la loro crescita si basa, tutto sommato, su ciò che i linguisti chiamerebbero un ossimoro, ovvero un furto legalizzato». Proprio quel che i meridionalisti (da Salvemini a Dorso, a quasi tutti gli altri, sino a Viesti, oggi) hanno sempre rimproverato al Nord, cresciuto a spese del Sud, sottraendogli “legalmente” (ma anche non legalmente) le risorse: dall’oro delle Due Sicilie ai fondi, europei e no, stanziati per il Mezzogiorno e spesi in Lombardia e dintorni dal ministro dell’Economia padana (abusivamente detta italiana), Giulio Tremonti. Il potere contrattuale del Comune di Caposele, contro il ministero ai Lavori pubblici prima e il vorace Acquedotto pugliese, poi (spalleggiato da decisivi uomini di governo pugliesi), era ridicolo. Fra i più tenaci sostenitori dell’opera c’era il parlamentare Antonio Jatta, pugliese di Ruvo, uomo di grande competenza e autorevolezza; ministro ai Lavori pubblici era il barone Giuseppe Pavoncelli, pugliese pure lui (e dopo, durante il fascismo, per cinque anni, lo stesso incarico sarà affidato al barese Araldo di Crollalanza). In molti brigarono per sottrarre ai caposelesi pure la residua portata a loro riconosciuta dal patto di cessione della fonte. Ci furono riunioni a Bari, a Roma, ad Avellino, si fece un sopralluogo, «cui non partecipò il Comune, perché non invitato (che squallore!)», nota Ceres (ma va’! Proprio come oggi, quando alle riunioni per definire le norme federaliste, con cui rubare al Mezzogiorno pure gli spiccioli, non invitano nessuno del Sud). E sarebbe stato strano pretendere che i ladri invitassero il derubato alla progettazione del furto! Il 4 maggio 1939, la decisione è presa, lo scippo è compiuto: al Comune daranno un indennizzo di un milione e mezzo; 300.000 lire agl’imprenditori che vedranno sparire le loro aziende. Caposele non ha più niente: né l’acqua di cui era così fiera, né il distretto
industriale. È la fine di tutto. Il 27 maggio arriva in paese il prefetto di Avellino: deve salire in municipio per la firma dell’atto. Ma la popolazione insorge, fatto inaudito, durante il fascismo, vigilia della guerra. Le donne impediscono l’arresto dei loro uomini, opponendosi ai carabinieri; prefetto e autorità sono costretti a cercare riparo nel paese vicino. Nei giorni seguenti (si può dire... calmate le acque?), i protagonisti della rivolta vengono arrestati e processati; il più attivo, don Pasquale Ilaria, mutilato di guerra, è confinato alle Tremiti, il maestro elementare Camillo Benincasa è trasferito d’autorità, su altri piombano pene inferiori. Caposele, metafora del Meridione anche in questo, è spoglia e domata. Pochi mesi dopo, con l’accordo dei ministeri della Guerra e dei Lavori pubblici, l’Acquedotto pugliese può prendersi pure le acque rimaste comunali, ma solo di notte (come i ladri); tre anni dopo, anche di giorno (come i prepotenti). Passeranno trent’anni, prima che Caposele venga «parzialmente e irrisoriamente risarcito», scrive Ceres. E spiega: «le acque di Caposele e di Cassano Irpino sono state destinate per la quasi totalità alle popolazioni pugliesi e lucane e solo in minima parte a pochi comuni della nostra provincia; quelle di Serino all’area metropolitana di Napoli; quelle di Calabritto e Senerchia al Cilento. Non una sola sorgente alimenta attività produttive locali. Ragionando per paradossi, è come se i caposelesi si appropriassero di un tratto di costa del Gargano per fruire degli utili connessi al turismo». O come se la Lombardia vedesse il proprio bilancio gonfiato dal petrolio e dal gas estratti in Sicilia, Lucania, Calabria e Puglia. Come se. L’acquedotto pugliese fu l’opera più imponente che venne varata per risarcire il Mezzogiorno, dopo decenni di razzia e drenaggio di risorse a favore del Nord (con leggi che imponevano tasse più alte a Sud e investimenti pubblici soltanto a Nord). Fu il frutto più
ricco della diversa coscienza nazionale sorta grazie agli studi, all’impegno sociale e politico dei primi meridionalisti, che erano in gran parte settentrionali. Non fu il solo, perché altre iniziative (come la legge per Napoli, poi estesa all’intero Meridione) fecero dei primi anni del Novecento, uno dei due soli periodi, nei centocinquant’anni di storia unitaria (l’altro fu dopo la Seconda guerra mondiale), in cui si ridusse quel divario, sorto a partire dal 1861, fra le due aree del Paese. A riprova che, quando si vuole, si fa, si sa come, e si riesce. Il Sele ora dà da bere ad alcuni in Lucania e Molise; a molti in Puglia. Ma la sete dell’Acquedotto pugliese è inestinguibile, perché ha captato anche parte delle sorgenti del fiume Calore, nel contiguo comune di Cassano Irpino, e le convoglia, dopo un viaggio di 15 chilometri attraverso una montagna e con una cascata, a ridosso della fonte del Sele. L’ente pugliese ha catturato pure il fiume Fortore, con la diga di Occhito; e l’Agri, con l’invaso artificiale del Pertusillo; e il Sinni, con quello di Senise; e l’Ofanto, con la diga a Conza della Campania; e il torrente Locone, con un invaso sulle Murge; e le acque della falda sotterranea, ricchissima, ma a rischio, per eccesso di prelievo (ed è un vero spreco che non si incentivi il recupero e la riattivazione delle migliaia di cisterne di raccolta dell’acqua piovana, scavate in tanti secoli). «5.000 litri al secondo...» continua a borbottare, l’assessore-architetto, mentre li vediamo prorompere, quei 5.000 litri, convinti (se l’acqua potesse avere intenzione) di essere il parto della montagna che conquista la luce. Invece, no: l’acquedotto nega la luce alla sorgente, che viene chiusa in tubi e condotte, come se la montagna-madre fosse lunga centinaia di chilometri, perché la nascita, la via d’uscita, si riduca a un miserabile rubinetto. 5.000 litri al secondo: provate a immaginarli: cinque metri cubi, cinque tonnellate. Ogni
secondo; contate: 1 (5.000 litri), 2 (5.000 litri), 3 (5.000 litri)... E valutate in quanti secondi quei cinque metri cubi al secondo riempirebbero tutti gli ambienti della vostra casa, il palazzo. Questa è la potenza del Sele. E adesso, aprite il rubinetto, contate quanti secondi ci vogliono per riempire il bicchiere; ogni dieci bicchieri, un litro; e ora moltiplicate per 5.000 quel tempo; e per milioni (i pugliesi, più un po’ di lucani e molisani) il vostro gesto. I fiumi erano dei, un tempo: quando vedi la forza di quest’onda vergine, capisci perché. E quando la vedi imprigionata, costretta al buio e offerta in sacrificio alla sete della Puglia, comprendi quanto le dobbiamo. «È santa questa fonte» dice l’assessore Conforti. «Per via dei ritardi lungo il percorso dentro la montagna, carsica, l’acqua sgorga alla sorgente con la sua portata massima, proprio quando ce n’è più bisogno: in estate!» I pugliesi sanno che c’è Caposele e cosa gli abbiamo fatto? Solo io ignoravo l’entità del debito? «L’Acquedotto ci ha persino reso invisibili» rivela l’assessore. «Il nostro paese non è riportato, nelle mappe militari, perché “obiettivo sensibile”: un attacco terroristico qui, contaminando l’acqua, colpirebbe quattro milioni di persone in Puglia.» La mia regione dovrebbe istituire un pellegrinaggio annuale alla fonte della sua ricchezza. E restituirne una parte generosa o almeno equa a Caposele. I nostri scolari delle elementari dovrebbero apprendere la prima lezione di cittadinanza pugliese alle fonti del Sele: la vita della loro terra sorge lì. Caposele è Puglia fuori Puglia; è sua madre: e qui che le “si rompono le acque”. E qualcuno dovrebbe raccontare loro cos’era prima la nostra terra (siticulosa, scrisse Orazio). Da appena tre, quattro generazioni, il sogno dei pugliesi per decine di migliaia di anni è un fatto quotidiano così banale, che nemmeno si immagina la vita di prima. Quelli
della generazione di mio padre, che lo sapevano, per averlo vissuto, non ci sono più. E il miracolo quotidiano, passa inavvertito. Ci si dimentica pure di dire grazie... «Non sappiamo nemmeno quali diritti abbiamo sulla residua quota di 363 litri al secondo,» dice Conforti «regolati da una convenzione fra il nostro Comune e l’Acquedotto pugliese, che scade nel 2012, dopo un secolo.» Ne parliamo alla vigilia del referendum (giugno 2011) contro la privatizzazione dell’acqua. «Quello che può succedere allo scadere dei cento anni è un mistero. Abbiamo consultato luminari, scavato negli archivi alla ricerca di documenti... Ma è come giocare a poker, senza neanche sapere qual è la posta. Potrebbe venir fuori qualche normativa europea che cambia tutto e annullare le convenzioni come quella nostra con l’Acquedotto pugliese.» Nel dubbio, loro hanno preparato una bozza; dentro c’è un po’ di tutto: la richiesta di soldi (1,5-2 milioni all’anno, che per il Comune sarebbero tanti, visto che non ne ha nemmeno per chiudere le buche nelle strade. «“Sono pochi, chiedetene 10” ci dicono alcuni, in paese» riferisce Conforti. «Come se la questione fosse quanti prenderne, non quanti riuscire ad averne»); di investimenti, infrastrutture («Il nostro territorio è franoso, ha bisogno di opere di consolidamento. Il gran piazzale dinanzi alla sorgente, sistemato e attrezzato, tornerebbe utile per iniziative turistiche. Sarebbe tutto lavoro per il paese»); di energia («La cascata delle acque di Cassano, un salto di 45 metri, a ridosso della nostra sorgente, potrebbe alimentare una centrale idroelettrica e fornire energia gratuita per usi civili, industriali»); di poteri («Se ci dessero la gestione della “casa” della sorgente, potremmo sfruttarla a fini turistici. Oggi è chiusa al pubblico e ogni volta, noi stessi, per farci aprire la porta e mostrare la nascita del fiume a qualche visitatore, dobbiamo chiedere il permesso all’Acquedotto pugliese, a Bari.» Capisco di essere stato un privilegiato).
Per la prima volta, il Comune trova nei dirigenti dell’Acquedotto e nel presidente della Puglia, Nichi Vendola, interlocutori disponibili. Dopo cento anni. Ha ragione il sindaco di Caposele: mentre il Sud recupera la memoria e chiede conto al Paese e al Nord di quel che gli è stato sottratto e gli ha impedito di evolversi come avrebbe potuto, Caposele riscopre la storia della sorgente rubata, di una possibilità di sviluppo che era già avviata e fu distrutta. E la risorta coscienza mostra diritti negati. Nel rispetto dei quali c’è la possibilità di futuro e rinascita. Perché, chi vuole equità, deve darla. E poi dicono che la storia non serve a niente.
10 QUESTO È IL SUD: SOVERIA MANNELLI
Sorridono i monti e le caprette fanno ciao, ma Heidi non c’è: starà al computer («Questo è il comune più informatizzato d’Italia, come riporta il Censis»), o al lavoro in una delle quasi trecento aziende («Una ogni tre nuclei familiari o, se preferisci, ogni dieci abitanti»), oppure in biblioteca («La mia, donata alla Fondazione “Italia Domani” che ho creato, con mio fratello: almeno 30.000 volumi, nell’antico palazzo di famiglia»); comunque, non corre rischi («Criminalità zero: siamo l’unico paese di soli 3.000 abitanti a ospitare una compagnia dei carabinieri»). Mario Caligiuri è il pirotecnico assessore alla Cultura della Calabria, sindaco di Soveria Mannelli dal 1995 («Il più giovane d’Italia») al 2004. Ieri sera abbiamo discusso di Risorgimento, nell’aula consiliare del Comune: il Regno delle Due Sicilie non cadde a Marsala, con lo sbarco anglodiretto dei Mille; né sul Volturno, con l’ultima sconfitta in battaglia campale; né a Gaeta, con la resa della fedelissima rocca, coventrizzata a cannonate
dai macellai del generale Cialdini (che, fatta l’Italia, la svergognò a Custoza, ridicolizzato dagli austriaci via terra) e dell’ammiraglio Persano (che, fatta l’Italia, la svergognò a Lissa, ridicolizzato dagli austriaci via mare). «Il Regno delle Due Sicilie cadde a Soveria Mannelli, dove 12.000 soldati borbonici (per altre fonti, meno di 10.000; N.d.A.) si arresero a un garibaldino, quando capirono che il loro comandante, il generale Ghio, li aveva traditi, mettendosi d’accordo con il messaggero di Garibaldi: avrebbero potuto fermarne l’avanzata, gli aprirono la porta per Napoli. Non è mai stato chiarito cos’accadde davvero.» Mattina presto, non prestissimo: sole, venticello fresco, agriturismo come lo vorresti, le marmellate, i formaggi, il pane casereccio, buon caffè, biscotti della nonna (non so di chi), frutta colta qui attorno. E non abbiamo (quasi) fretta, nel senso che è fissata un’ora per la partenza, ma sappiamo già che non la rispetteremo. La valletta ha l’erba bassa e verde, ondulazione lenta, staccionate per recinti, la foresta a perdita d’occhio, a partire da dove il pendio s’inerpica. «Qui mafia non ce n’è. Però, pensai quand’ero sindaco, il rischio è che, prima o poi, per dilatazione, ci arrivi. Chiesi di ospitare una compagnia di carabinieri. Mi risposero che non se ne parlava nemmeno, in un centro così piccolo, troppo costoso: la caserma, gli alloggi per i militari... Offrii tutto gratis: non ci mancano edifici (dell’ex carcere inutilizzato, caso forse unico in Italia, abbiamo fatto un Centro di riabilitazione per anziani) e abitazioni. Certo, c’era da spendere, comunque, qualcosa; ma, mi dissi, se devi illuminare meglio il paese, per renderlo più sicuro, al prezzo di qualche lampione in meno, ho i carabinieri. Non c’è uno scippo, da noi.» A tavola con noi (suo l’agriturismo), Florindo Rubbettino, titolare dell’omonima casa
editrice: «La più grande del Sud, dopo la Laterza di Bari» dice Caligiuri. «E la Camillo Sirianni Arredamenti esporta in tutti i cinque continenti (serve comunità, specie scuole). La Leo è la più antica fabbrica della lana in Calabria, tessono ancora con macchinari dell’Ottocento, perfettamente funzionanti. L’industria silvestre alimenta diverse iniziative economiche, specie di conservazione e commercializzazione dei funghi: si esporta in tutto il mondo, ci sono centinaia di addetti, si fatturano milioni di euro. Da nessuna parte, nel Mezzogiorno, hai tale concentrazione di aziende e aziende sane, in ogni senso (penetrazione criminale: nulla), e con i conti a posto. In assoluta controtendenza, la percentuale degli occupati nel settore privato supera quella dei dipendenti pubblici. Appena fuori paese c’è l’hotel Vallenoce, il più grande “matrimonificio” di Calabria...» Ci vuole un «Ti dispiace passarmi la marmellata?» per interrompere l’elenco: tanto, ho capito che è lungo. E Caligiuri è un parlatore seriale: se gli spezzi il filo, lo riannoda da un’altra parte. «Tutte le aziende, gli uffici, le case private hanno il collegamento a internet: WiFi gratis per tutti, dal 2009; ma eravamo già avanzati tecnologicamente dal 2003. Fummo i primi in Europa. Il 10 per cento delle famiglie, percentuale emiliana, vive in case popolari o di cooperativa.» Gooong! «È rimasta ancora un po’ di spremuta?» «Della Fondazione “Italia Domani”, il vice presidente è Florindo Rubbettino; il patrimonio è costituito dal palazzo di famiglia: parte del ’700, parte dell’800, finito di restaurare nel 2010 e restituito a “casa napoletana” del primo Ottocento (bellissimo, me lo ha fatto visitare ieri sera; N.d.A.); dai 30.000 volumi della biblioteca dedicata a papà Michele Caligiuri (che a noi figli aveva consigliato una sola cosa: studiate), interamente
informatizzata e munita di ascensori, montacarichi, corridoi sospesi (vero, il sogno di chiunque abbia una nutrita biblioteca; N.d.A.); da una quindicina di opere d’arte di autori calabresi: Rotella, Berlingeri, Rotiroti, Turchiaro. Né io, né mio fratello, per quanto a nostra conoscenza, al momento abbiamo figli. Tutto, quindi, potrebbe finire (senza fretta...), alla fondazione.» «Perché “potrebbe”?» «Be’, godiamo di buona salute, siamo sessualmente attivi, ma scapoli... Metti che cambiasse qualcosa o non ci stessimo attenti, ci sarebbero degli eredi; sennò, eredita la fondazione.» Ora, lo so che questa è la faccia bella della medaglia. Ma è faccia vera; poi ce ne deve essere per forza anche un’altra, perché nulla è perfetto: me ne sono accorto a mie spese, ma non ve lo dico (è piccola cosa), perché qui ho deciso di usare, ma all’incontrario, il criterio d’informazione applicato al Mezzogiorno: se non è mafia, né monnezza, non è notizia. Mancando mafia, a Soveria Mannelli, ed essendo le strade pulite (magari solo i due giorni in cui l’ho vista io, perché i meridionali sono furbi e perfidi e i calabresi di più), son costretto a dire solo di quel che va bene. Che non è poco. Che avrebbe meritato più attenzione. Ma dubito ne abbiate letto granché: mica è mafia, mica è monnezza.
11 QUESTO È IL SUD: RIONE SALICELLE
Qui il terremoto non c’è stato: il quartiere nacque dopo; ma se ci fosse (salva la gente), non potrebbe peggiorare le cose: la mano dell’uomo ha provveduto, perché i terremotati non rimpiangessero le macerie. «Nacque per ospitare gli sfollati del sisma dell’80. Lo chiamarono Nuovo Centro Residenziale, NCR, quartiere modello: tre ville comunali, Pretura, l’ufficio delle Poste.» E quello che vedo intorno (periferia di Baghdad dopo la “liberazione”) mi fa desiderare di arrivarci prima possibile. «Dove?» mi chiedono. «All’NCR.» «Ci siamo dentro.» Ops! Le ville? «Be’, mo’ sai, con il problema della monnezza, c’è sempre qualcuno che approfitta di quello spazio...» La Pretura? «Struttura bellissima, ma ci sono voluti più di dieci anni per farla.» E le Poste? «Chiuse dopo un giorno, per gli uffici devastati durante la prima notte, dopo l’inaugurazione. E sai che significa non avere l’ufficio postale?» ti dicono. Un bel fastidio, immagino. No, di più: «Per consentire ai pensionati di riscuotere,
mensilmente, si dovette istituire un servizio navetta, con un pulmino, e traghettarli al più vicino ufficio postale». Già, perché il quartiere-modello conta circa 20.000 abitanti ed è sorto posticcio sulla coda di Afragola, che in tutto (compreso quelli) ne fa 70.000. Andare ad Afragola da Salicelle (che sempre Afragola è), non è un gran viaggio, ma è scomodo. Disagio seccante, se pensi che le Poste le avevi sotto casa. Disagio che ai pensionati, infine, fu risparmiato. Non che gli mandino la pensione a casa: hanno abolito il pulmino-navetta, perché, si disse, lo trovavano comodo pure i rapinatori, che da Salicelle scendevano in centro ad Afragola, rapina (per forza: con la scusa della giovane età, non gli dai la pensione!), e ritorno a casa in navetta, con il bottino. Il solito... tram tram. Così, ti spiegano, parve una buona soluzione sopprimere il servizio: che ci vadano a spese loro i rapinatori, a rapinare. O rubino prima un’auto, un motorino; ma portarceli noi, proprio no! Oddio, restano a piedi pure i pensionati, ma la perfezione non esiste. La vicenda è di diversi anni fa; il picco di rapine ci fu; gli autori erano quasi sempre di Salicelle, ma una conferma ufficiale, giudiziaria, di questa storia, non c’è. Eppure, vista da qui, appare assolutamente credibile. Ti viene da pensare che questo accanimento contro il Nuovo Centro Residenziale sia una sorta di pulsione distruttiva ai danni di una patria paesana estranea, da parte di chi, terremotato, ha visto la sua crollare in pochi secondi. Lo pensi, e lo dici pure! «Nooo, ma qua’ terremotat?!» ti rispondono. «Qua non ce n’è manco uno, più. Nel corso degli anni, le case sono state riassegnate secondo criteri, di volta in volta, mutevoli.» Afragola è una cittadina, può piacere o non piacere, ma i negozi ci sono, gli uffici anche (inclusi quelli postali), strutture per servizi e svago le trovi. A Salicelle non c’è niente: 20.000 abitanti quando scendono in strada (ma gli conviene?), trovano la strada. Forse.
Nessuna indicazione: a qualcuno fa comodo così. L’erba sui marciapiedi, dove il marciapiede ancora c’è; le buche, qualche rottame, sporcizia quanto basta; le carte che volano, insieme a cespi secchi di arbusti leggeri (visto mai, nei film, quei villaggi abbandonati del West?); una sensazione di lenta e irreversibile rovina e di pericolo diluita nell’aria, i muri scrostati, i ragazzotti che fanno i duri con i motorini e ti tagliano la strada al pelo, senza guardarti e manco un vaffanculo. Le strade non hanno mai avuto un nome, a Salicelle, i numeri civici non esistono; le palazzine sono identificate con il numero dell’isolato; quelle della cooperativa Nuova Casa, con il nome di un fiore (incluso quello della Rosa...): Palazzo Rosa, Palazzo Mimosa... L’unica via che vanti pubblica esistenza è via Salicelle, ma anche quella senza numeri. Altre, viale Europa, viale Nazioni Unite, piazzale Unicef, sono state battezzate così da una pionieristica dirigente scolastica (che poi incontrerò), a dispetto di tutto. Volesse dire qualcosa, forse sarebbe questa: «Se sei di qui, stattene a casa. Se non sei di qui, vattene a casa». Non so nulla delle persone che mi hanno invitato. Mi hanno detto che sono dei volontari, lavorano con la scuola, la parrocchia. Non ho avuto il coraggio di dire no. E ora mi chiedo se non dovevo informarmi meglio... Sai la droga, qui! «Qui? Nooo» mi assicurerà, poi, uno dei volontari. «Qua non ne gira.» E si racconta una storia, sul perché: «L’avrebbe giurato la vedova del boss, al marito morente, Gennaro Moccia, ucciso dai killer del clan rivale, i Magliulo, durante la guerra di camorra». (Vero o non vero, droga non ne gira. Quei pochi che hanno provato a smerciarne sono stati gambizzati.) Però, la vedova!, almeno qualcuno in famiglia... Mi guardano strano (non lo dicono, ma è chiaro lo stesso: «Ma dove vive questo: e fa il giornalista, lo scrittore, è del Sud?»): «La vedova è Anna Mazza!».
Uh, Madonna, è vero: Anna Mazza, vedova Moccia. È già nella storia: prima donna condannata per associazione mafiosa. «Ma che dici, quale condanna?» mi avverte un collega di Napoli. «Lei adesso è pulita. Assolta.» Ops... le mie scuse alla signora: girano tante di quelle chiacchiere... Poi, camorristicamente parlando, sono successe molte altre cose sulla pelle e nella carne di Salicelle; nuovi poteri criminali (in cui la dinastia Moccia compare con un paio di figli, uno all’ergastolo per più omicidi); nuove alleanze e strategie. Ma c’è bisogno di questi inferni, per creare paradisi altrove: al degrado del quartiere modello corrisponderebbero linde strutture turistiche dal Veneto al lago di Garda (riva lombarda), forse anche in Cilento. Stando a NCR, si vede bene la doppia faccia del male: qui opprime, deprime e toglie; altrove, la ricchezza così sottratta si presenta generosa, ligia alle regole, e si moltiplica con beneficio diffuso, avendo nulla di incivile, a parte l’inconffessabile origine. Non ha molto interesse che questa sia Salicelle, Afragola, o un’altra cittadina del Sud; che il fiato pesante che infesta la vita della gente sia quello della camorra, della ’ndrangheta o di cosa nostra: il risultato, dove questo accade, è ovunque uguale, ovunque accada. Qualunque sia il potere che governa Salicelle è forte, perché non ci sono faide, sparatorie. Se la camorra qui fosse più debole, si avrebbero problemi per lo scontro fra contendenti o con le istituzioni. Qua, tutto tranquillo: si sa chi comanda. «Un voto costa 50 euro o beni di prima necessità: zucchero, caffè, prosciutto. Paga la destra, gode pure la sinistra, ché la spesa la fanno alla Coop. L’amministrazione comunale è stata sciolta tre volte per mafia: è successo sia con il centrodestra sia con il centrosinistra.» Par condicio. Uno che vuole farti capire in breve, la dice così: «Salicelle sta ad Afragola, come il Sud sta all’Italia». E ’sta cosa la sapevo già: non si è mai abbastanza meridionali, per esserlo di
tutti. Ecco, questo è il fuori, di Salicelle. A essere superficiali, può capitare di farsi giudici di quel che si vede. Il dentro di Salicelle è altro; e a essere superficiali, può capitare di sentirsi giudicati; e con molte ragioni in più, almeno nel mio caso. Salicelle è la negazione dell’anima mediterranea: paese senza piazza, strada senza struscio; un posto dove non ci si incontra, ci si chiude. Ma questo è allontanarsi dalla vita, che ferve, c’è, produce, quando ci si mischia. Tanti piccoli mondi, chiusi da muri e una porta, non sono gente, non sono vita, non sono paese: somigliano a un cimitero, dove si sta, ma ognuno per conto suo, morti o vivi, non fa differenza, nel proprio spazio dedicato. Così, per incontrarsi, a Salicelle, ci vuole del coraggio e un posto chiuso ma ampio. Una piazza coperta, diciamo; uno spazio mediterraneo per l’uso, nordico come ambiente: per trovarsi con gli altri, devi rinunciare al sole, a Salicelle; o rinunciare a Salicelle, per stare con gli altri al sole. Cosa rimane a 20.000 abitanti, oltre restare a casa o evaderne quando si può, per quanto può? La scuola e la chiesa. «Per operare in una situazione come questa, ci vogliono degli eroi» mi dice un amico che ha voluto accompagnarmi da Napoli. Ci sono dei «volontari che vengono da fuori», me li presentano così (be’, “fuori”, per molti di loro è Afragola. Cioè, lo stesso comune. Il che sembra suggerire che, nel sentire collettivo, “fuori” non è chi viene da Afragola, ma Salicelle, sotto sotto, mai accettata come parte di Afragola). Hanno creato un circolo culturale universitario, con altre associazioni, laiche e religiose. Sono loro che mi hanno invitato. Ma, alla vigilia dell’incontro, il comandante dei Vigili Urbani, «accompagnato da un funzionario dell’Azienda sanitaria di Nola (quello competente, di Afragola, si era rifiutato) ci chiude la sede del cafè-cabaret» mi
spiega Lucio Iavarone, referente delle associazioni di volontari. «Per motivi sanitari.» Da giurarci: sempre su monnezza o similmonnezza vai a sbattere! «Era finita la carta igienica in bagno.» Scherza? «No.» E solo per questo? «Be’, non solo, per esempio, era finito pure il sapone.» Lodevole rigore; non applicabile fuori, perché bisognerebbe chiudere l’intero quartiere, per il motivo opposto: la debordante presenza di carta, igienica e no, incluso il materiale che quella carta non ha rimosso a dovere, e altre porcherie, non solo biologiche. Ma non si può arrivare a tutto. E gli occhiuti funzionari forse non hanno fatto caso, per via del manchevole cesso culturale, a quel cesso di quartiere. Qualche tempo dopo, Iavarone mi informa che «il giudice ha dissequestrato il cafè-cabaret, giudicando eccessiva la solerzia delle autorità competenti. Le quali, nel frattempo, hanno altro a cui pensare, per un’indagine che ha investito l’ufficio dei Vigili Urbani, con richiesta d’arresto di alcuni stretti collaboratori del comandante». Accidenti: vuoi vedere che era finita la carta igienica pure là? Persa la comodità del cafè-cabaret, mi avevano chiamato imbarazzati, i volontari, per dirmi che la sede del nostro incontro avrebbe potuto essere un po’ rimediata. Li avevo rassicurati: lo faremo per strada, al bar, a casa d’Irene, nel ristorante di Alice, nei cessi pubblici (persino senza carta igienica e con l’obbligo di portarsela da casa), ma ci sarò. La cosa si è risaputa. E i volontari hanno avuto il sostegno e la solidarietà dal Comune (no, non di Afragola, quello interessato; quello accanto, Acerra). La presentazione di un libro che si chiama Terroni, in un paese del Sud, sembra essere diventata una sfida. Se lo racconti, non ti credono. Ma i volontari hanno ora avuto l’appoggio della scuola e raddoppiato le loro iniziative. È lì che mi portano. Ormai sono suggestionato: mi pare Fort Apache. La prima cosa che pensi è: qui non hanno soldi (una tinteggiata ai muri ci vorrebbe; le
scarpe, le camicie, i calzoni di alcuni presenti hanno superato l’età del servizio attivo, persino considerandone i tempi secondo gli allungamenti previsti dall’ultima riforma pensionistica; le sedie, meglio saggiarne la solidità, prima di affidarvisi...); la seconda è: sono tesi (lo diresti un misto di rivalsa, orgoglio, forse persino di timore del dopo, del gesto. Si avverte, e forte, questo qualcosa, ma non so dirlo meglio, me ne scuso). Gli studenti delle medie hanno realizzato oggetti, collage, quadri (ora in mostra) ispirati all’Unità d’Italia, il tema è: “La storia imbavagliata”. E ci sono i ragazzini delle scuole inferiori, armati di flautuzzi di canna, quelli a due, tre euro dal cinese (fino a otto, se made in Italy). Quello hanno e gli deve bastare. Come ribelli contadini alla guerra con falci e forconi, loro entrano nella musica con un pezzo di canna. E il loro maestro (altro volontario) li educa al miglior uso del quasi niente. Sono intimiditi, piegati dal compito, si guardano a vicenda e poi il professore. Alcuni chiudono gli occhi, quando cominciano a suonare. Il fiato corto dell’emozione strozza qualche nota; il colpevole sfiora il pianto, non riuscendo a perdonarselo. Fanno ’O surdato ’nnammurate e ’O sole mio; e quello che vedo sui volti degli ascoltatori non ha nulla a che fare con la volenterosa bontà dell’esecuzione. Tutto quello che accade qui, stasera, sembra opporsi a qualcosa. E non è solo una mia sensazione, se Enzo Gulì, appassionato cultore di storia partenopea, spenta l’ultima nota, dice: «La poderosa fioritura della musica napoletana, che pure era già grande, quella che ha conquistato il mondo, esplose dopo il 1860, come sfogo artistico di un popolo vinto». Non ci avevo mai pensato: alle stragi di Cialdini, Pinelli, De Sonnaz e altri macellai, forse dobbiamo Marechiare, Era de maggio ! Voglio capirci qualcosa di più di questa faccenda. Non ora. La dottoressa Giovanna Mugione, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Europa
Unita, che ci ospita, è arrivata qui due anni fa. Se fu una condanna, non lo dice. «Ma se sono rimasta, è per mia scelta» rimarca le sillabe, indurendo i muscoli delle spalle, che le tirano indietro il collo. «Perché qui c’è da fare; perché credo nei miei alunni.» E quei genitori, quei nonni, sui gradoni del piccolo anfiteatro, sollevano il mento. Come punizione all’accidentale ministro alla Pubblica istruzione, per i danni fatti a queste scuole di frontiera (ha distribuito in tutt’Italia i soldi destinati al risanamento degli edifici scolastici del Sud e insultato gli insegnanti meridionali), la costringerei in una classe di queste, a guardare cos’è la scuola, quando c’è solo la scuola e deve esserti scuola di tutto: italiano, matematica, civismo, coraggio, democrazia, dignità e antimafia. Antimo Ceparano, poeta e attore, impiegato all’Ansaldo, recita ’O surdat e’ Gaeta (E ’a Riggina! / Signò!... Quant’era bella! / E che core teneva! / E che maniere! / Mo’ na bona parola a’ sentinella, / mo’ na strignuta ’e mana a l’artigliere... / Steva sempe cu nui!...). L’intensità con cui viene vissuto (non declamato) il poema è molto contagiosa: colpisce me, ma qualcosa di molto serio scende sui volti degli ascoltatori, che il napoletano lo capiscono tutto, non a tratti, come me. Sto assistendo a una specie di rito, e ne resto coinvolto. Ammiro questa gente, riconosco la loro superiorità civile: sono loro che puntellano la casa; noi ci limitiamo ad abitarla, cercando di non sporcare per terra. Ma è la dirigente scolastica che dice a me: «Lei forse non sa quello che ci ha dato. Grazie». Andrei a nascondermi. Vogliono raccontare, raccontarsi, ma il tono è rivendicativo. A uno a uno, con le loro domande, ti consegnano un brandello della propria storia. Ma uno di loro, ingegnere elettronico, Rosario Terracciano, fonde, e quasi confonde, la sua vicenda con quella del territorio, anzi, da questa la fa derivare. Narra la scoperta dello straordinario livello
scientifico che trovò all’Italsider di Bagnoli, lo stabilimento siderurgico che per un secolo fu volano economico, politico, sociale di Napoli. La sua chiusura, che Terracciano giura ingiustificata, amputò la città: nella testa, prima che nel portafogli. Lui si occupava dei sistemi informatici. Dice degli acciai speciali che producevano; fra i più pregiati al mondo. E il lamierino per auto probabilmente era il migliore in assoluto, al punto che il Giappone lo comprava di nascosto (forse per non ammettere il divario con la sua industria siderurgica, se ho capito bene). È una filippica appassionata. «Facevamo cose importanti, noi; facevamo cose belle ed eravamo stimati ovunque per il nostro lavoro!» Il racconto del mutato panorama del suo percorso quotidiano da pendolare potrebbe essere una pagina di storia economica. O un numero di cabaret-verità. Elenca le aziende che incrociava lungo la via: «La Fabbrica dello spirito, la Manifattura Tabacchi (oggi discarica), Partenavia e Montefibre, Richardson-Merrel, Fag, Avis (Avioindustrie), Ciba Geigy e Fondedile; l’Industria Politecnica Meridionale, Sofer, Cirio, Birreria Peroni, Centrale del latte, Pirelli, Meltem, Olivetti, Magrini, Sirma, Eternit, Mecfond, Remington, Snia Viscosa, la mia Italsider... E mo’? Mo’, nessuna di queste aziende esiste più. Lungo la mia strada, per quei paesi, trovo solo centri commerciali: l’Appia Center, il Campania, Le porte di Napoli, Eldo, Ikea, Medi, La Reggia Designer Outlet (La Reggia... sfottono pure!), Le Ginestre, Auchan (quattro!), San Paolo, Jambo, Mercogliano, Carrefour, Città mercato, Le cascate, La masseria, Le aquile, Vulcano buono, Castorama Italia, Meridiana... Ci sono 811 centri commerciali a Napoli e provincia, secondo le Pagine Gialle. Dello stabilimento Cirio era direttore il mio compianto zio, Giancarlo Argentino: mi ci portava da bambino, mi spiegava i processi di lavorazione; ne ero affascinato: sono
cresciuto fra quelle macchine, è lì che ho deciso di fare l’ingegnere, da grande. E mo’? È un supermercato GS! (Lo stabilimento era a San Giovanni a Teduccio, baluardo della cultura industriale e operaia di Napoli, già dalla creazione delle officine di Pietrarsa, le più grandi e moderne d’Italia sino all’Unità d’Italia; poi condannate al declino: si sparò ad altezza d’uomo sulle maestranze che volevano impedirlo. Furono, infine, trasformate in museo. Almeno, per consolazione dell’ingegner Terracciano, non sono ancora diventate un centro commerciale. Per ora; N.d.A.) Lì noi facevamo cose importanti, che gli altri compravano. Avevamo lavoro, dignità e orgoglio. Ora, dov’erano quelle fabbriche, gli altri vendono cose che noi compriamo; e per farcele comprare, ci danno, magari, una pensione d’invalidità, per potercela rimproverare. Da produttori a clienti assistiti... Ihiiiii, che soddisfaziooone!». Mentre vado via, Iavarone mi raggiunge: «Non farti impressionare da quello che hai visto: Afragola rinasce, incluso Salicelle. Non hai idea di quante cose ottime sono in cantiere, quanti vi partecipano, si impegnano. E quello che riusciremo a fare qui, a Napoli, in Campania, a partire proprio dalla monnezza, che può essere trasformata in ricchezza vera, potrebbe diventare un esempio per tutti, in Italia, in Europa. Si può fare». Eccone un altro che non ha letto Giorgio Bocca e non sa che questa terra è irredimibile.
12 REGIONI DI MAFIA
«Da ora in poi, per brevità: regioni di mafia» avverte Luca Ricolfi, nel suo Il sacco del Nord, per indicare che in Sicilia, Calabria e Campania, la presenza del crimine organizzato costituisce un freno allo sviluppo economico, una forma di tassazione ulteriore, a danno dell’impresa. E, per tutto il libro, una dozzina abbondante di milioni di meridionali viene marchiata così. Mentre Lombardia, Veneto e paradisi convicini se tanto mi dà tanto, dobbiamo intenderle, sempre “per brevità” (si capisce) e in base a dati incontestabili, “regioni virtuose”. Che c’è di sbagliato? Tutto, ma non si vede. La mafia fa la faccia feroce al Sud, ma si presenta con le scarpe lucide al Nord; al Sud versa il sangue, al Nord il bottino frutto di quel sangue. Il professor Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre e autore di ’Ndrangheta padana spiega in una intervista che «se si fosse impedito agli imprenditori del Nord di fare affari con i mafiosi del Sud, forse il Meridione si sarebbe sviluppato diversamente. È un fatto storico». Per esempio: escludere dagli appalti per la Salerno-Reggio Calabria le aziende meridionali in odore di mafia non è
solo giusto, ma doveroso. Se, però, quegli stessi appalti sono dati ad aziende del Nord che pagano il pizzo alle cosche e subappaltano gli stessi lavori alle imprese in odore di mafia, si lascia intatto il vantaggio per i criminali e le aziende settentrionali e si danneggiano solo il Paese e le comunità e le aziende oneste del Meridione. «È ovvio che le mafie sono un prodotto del Sud Italia,» dice Ciconte «ma hanno trovato un’ottima accoglienza al Nord.» Milano è la quarta città italiana per sequestri di beni mafiosi, la capitale del traffico di cocaina, la principale base operativa per ’ndrangheta e mafia siciliana, la città in cui troppi agevolano, compiacenti e interessati, la trasformazione del potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Può essere “comprensibile” che, avendo da ripulire un po’ meno di 140 miliardi di euro all’anno, le mafie scelgano la capitale finanziaria d’Italia, per i servizi che generosamente offre, ma “scoprire” che il crimine organizzato gestisce 5.000 alloggi popolari a Milano e li assegna secondo una propria graduatoria parallela non è un po’ troppo (almeno quanto a... distrazione delle autorità)? Gran parte del Nord è lottizzato fra le varie mafie; e molti sono pronti a proteggere, nascondere i boss, spartire con loro; comuni del Settentrione vengono sciolti per mafia, ma si continua a considerarli (per fortuna, sempre meno) fastidiosi e ininfluenti episodi; mentre sempre più l’economia del Nord diviene mafiosa, sedotta da capitali facili e tanti. L’ho già detto: nel cimitero degli eroi antimafia, uccisi per averla combattuta, tolti alcuni (Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Ambrosoli), ci sono solo meridionali: siciliani, la più parte, come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Libero Grassi, Pippo Fava, Rosario Livatino, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Peppino Impastato, Pio La Torre e tantissimi altri; calabresi, come Antonino Scopelliti; o campani, come il giovane eroe di
giornalismo Giancarlo Siani; o pugliesi, come il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Sono centinaia i martiri civili, dal sindacalista Placido Rizzotto a oggi. E tanti rifiutano di pagare il pizzo, denunciano, si trasformano in reclusi a vita, nei programmi di protezione per testimoniare in tribunale; molti, persino, riescono in queste impossibili condizioni a fare impresa, e pure d’eccellenza. Queste (dove sia la mafia che la lotta alla mafia sono fenomeni sociali diffusi) sono “regioni di mafia”, per Ricolfi (e non gli si può dare torto, ma, come si è visto, manco tutta la ragione); mentre quelle in cui i mafiosi sono accolti nei salotti buoni della finanza e dell’alta imprenditoria, perché gonfi di soldi (lordi di sangue? Nessuno è perfetto), no. Anche se Ilda Boccassini, magistrato di irritante serietà e coraggio, è costretta a denunciare pubblicamente che nemmeno un imprenditore lombardo ammette di pagare il pizzo; e non si parla di quelli che lo versano per i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria, ma di quelli che vengono taglieggiati a Milano e dintorni. Mentre, a Palermo, l’associazione Addio Pizzo fa proseliti e gl’industriali che non denunciano di essere vittima di estorsione vengono espulsi dalla Confindustria siciliana. Come credete prendano le sintesi di Ricolfi, i meridionali che sul “no” al crimine organizzato rischiano, e spesso perdono, beni, incolumità propria e dei familiari, la vita? Si applicasse all’incontrario il criterio ricolfiano, dovremmo definire “regioni dell’antimafia”, quelle del Sud; e “regioni del riciclaggio”, le altre. Ma ogni generalizzazione è un’ingiustizia e sarebbe ugualmente sbagliato e offensivo, perché è vero che l’antimafia è prevalentemente meridionale, ma pure la mafia lo è; né meritano di essere assimilati al Nord colluso i tanti settentrionali che combattono la mafia, le associazioni che come quelle di don Ciotti, ma non solo, scendono nella Locride, per sfilare con i ragazzi anti ’ndrangheta
di “E ora ammazzateci tutti”, o, con loro, si impegnano per il recupero, a fin di economia vera e onesta, dei beni sottratti alla mafia. In più, nell’omertà meneghina lamentata dalla dottoressa Boccassini, si può riconoscere quella dominante al Sud, prima che una più diffusa consapevolezza del dovere civile e persino della convenienza del coraggio, inducessero un numero sempre maggiore di meridionali a dire no, e a unirsi per farlo. E allora, perché ho parlato delle sintesi ricolfiane (ma non solo sue)? Perché, quando è servito un espediente narrativo, per rappresentare il Sud e il Nord con un solo tratto distintivo, il Sud è stato ridotto al suo male, ignorandone il bene; e il Nord al suo bene, ignorandone il male. Il che fa apparire l’uno irredimibile, l’altro indenne. Così, senza neppure necessariamente volerlo (e, giuro, non penso lo voglia il professor Ricolfi, che pure critico), il pregiudizio si alimenta, accresce la distanza, facendola apparire e poi diventare, maggiore di quella che è. Magari, incolmabile.
13 PROFUMO DI IDEE
Il Risorgimento profuma di bergamotto (e di gelsomino, e di lavanda), ma non lo sa. È una storia interessantissima e ignota; riassume in sé (molto meglio di più celebrate vicende della conquista e annessione del Sud al resto del Paese) i tratti della maturazione, nell’intellighenzia meridionale, delle idee che la portarono al processo unitario. E di come furono tradite. Perché quella vivacissima borghesia imprenditoriale, amaro compenso, dall’Italia unita fu soffocata e ridotta a pubblico impiego, ceto parassitario e poi contiguo a quello criminale, usato dal nuovo potere quale strumento di controllo per l’affermazione, in loco, degli interessi economici del Centro-Nord e della politica che li sostiene (credete mica che il 3 per cento sugli appalti della Salerno-Reggio Calabria, la ’ndrangheta possa riscuoterlo stando all’opposizione? Deve rendere un servizio). L’esigua striscia costiera calabrese dello Stretto è una miniera vegetale. Difficile oggi rendersene conto, deturpata com’è da edilizia senza pregio, scempio di fiumare, abusivismi spudorati, cadaveri di aziende che hanno lasciato intatti e inerti gl’impianti, a calcinarsi al sole.
Gli orti e i giardini d’agrumi rendono l’idea di cosa poteva essere, nell’Ottocento e prima, questa riviera benedetta: non solo stupenda da levarti il fiato (ancora oggi ricevi un pugno di emozione, quando esci dall’ultima galleria della Salerno-Reggio e ti si apre dinanzi lo Stretto), ma ricca per la qualità della terra, del mare, del clima, della latitudine che conferisce alla striscia costiera (larga, al più, un paio di chilometri) una feracità unica al mondo; come uniche al mondo sono le essenze che vi si producono: prima fra tutti il bergamotto, è l’“Oro Verde”. Questa particolarità geografica e botanica dette vita, per tre secoli, a una fiorentissima economia che coinvolse Messina (come sempre, quando si tratta di Reggio, e viceversa); e mise in contatto gli audaci mercanti calabresi con le città più colte d’Europa: Napoli, Parigi, Londra. Il risultato fu l’importazione, per contagio da commercio, delle idee illuministe, riformatrici, repubblicane e la nascita di un ceto agiato e riformatore. Sospettato (a ragione) di simpatie bonapartiste allo scadere del Settecento (finì male: la pagarono cara); poi anima del moto antiborbonico del 1847 (finì male: la pagarono cara); infine di sentimenti garibaldeschi per l’Unità d’Italia (finì peggio: la pagarono carissima, furono spazzati via). Cos’ha questa costa, fra Scilla e Monasterace, per esser fonte di tanto valore? Nella parte direttamente sullo Stretto (appena oltre lo sbocco nel Tirreno, a nord; e, da sud, a risalire nello Jonio, per qualche decina di chilometri verso est), attecchisce, solo posto al mondo, un agrume straordinario per aroma, proprietà e sapore: il bergamotto, base di molta industria profumiera e alimentare. Sulla costa jonica, la fascia del bergamotto incontra quella del gelsomino (lunga un centinaio di chilometri), altro dono degli dei a questa terra: il succo dei fiori, raccolto alle prime luci del giorno, ancora umido di rugiada, dà la
concreta, aggregante di qualsiasi profumo. Bergamotto e gelsomino devono sentire l’odore del mare; un paio di chilometri nell’interno non attecchiscono più. Oltre quel confine, a rimontare le pendici d’Aspromonte e confermare la vocazione aromatica, i calabresi stesero vaste piantagioni di lavanda. Ora immaginate di scorrere lungocosta, in barca, con brezza da terra; cancellate mentalmente le porcherie cementizie con cui i calabresi hanno massacrato il loro ambiente (non commettete l’errore di pensare che lo fanno perché non apprezzano il bello: tutti preferiscono il meglio al peggio. Quando accade il contrario, dev’esserci un motivo. Specie se chi produce il brutto è lo stesso che produceva il bello, persino nello stesso posto: «Un immenso giardino..., come credo non ne esistano altri sulla terra», scriveva il viaggiatore inglese Edward Lear, nel 1847, sul Journal of a Landscape Painter in Southern Calabria. Tocca ragionarci. Non ora): sentite le ondate di profumi che scendono dai piedi d’Aspromonte al mare? Vedete i colori verde virante al nero, quasi, del bergamotto, bianco dei gelsomini, viola della lavanda? È la Calabria felix, anche se si stenta a crederlo. E quegli aromi valgono ancora oro. Il primo ad arricchirsi fu François Procope des Couteaux. Che non era di Reggio (il che mostra che i calabresi erano bravi a produrre il bergamotto, il suo olio essenziale, a commercializzarlo, ma non a trarne i derivati, ben più preziosi); e nemmeno era francese, monsieur François. Me lo racconta il professor Pasquale Amato, che a Messina insegna Storia dei movimenti e dei partiti politici e Storia contemporanea a Scienze politiche; e all’università per stranieri di Reggio Calabria, Storia contemporanea. Mi ha chiamato per parlare di Risorgimento in un suo programma televisivo. Ne approfitto: la sua Storia del bergamotto
di Reggio Calabria è un libro prezioso quasi quanto l’essenza di cui parla. «Nell’ansia di autodenigrarci, di pensare inconcepibile che qualcosa di buono possa essere nostro, si discetta da sempre sull’origine forestiera del bergamotto. Invece è autoctono,» dice Amato «insomma, bisogna rassegnarsi: non solo è nato qua, ma nasce solo qua e tutti i tentativi di farlo attecchire altrove sono falliti. Ci hanno provato i francesi, i californiani, gli spagnoli, gl’israeliani, i sudamericani, gli africani. Solo in Costa d’Avorio si è riusciti a far vivere qualche piantagione, ma i frutti ottenuti non hanno la ricchezza di componenti chimiche essenziali, ben 350 sinora scoperte, che rende unico il nostro principe degli agrumi.» Quello che lo incuriosisce e indispone è proprio «quest’idea radicata che il bene può venire solo da fuori!». Non troverete linguaggio accademico, nel libro di Pasquale Amato; si narra di un «giardino – in un giorno misterioso avvolto nella leggenda», in cui «per un innesto casuale favorito dal microclima e dal terreno», nacque il bergamotto, agrume color limone, più piccolo dell’arancia, da un albero alto 3, 4 metri. Il più antico profumo del mondo, circa duemila anni prima di Cristo, è stato rinvenuto dal gruppo del Consiglio Nazionale delle Ricerche guidato da Maria Rosaria Belgiorno, nel 2003. A Cipro. Ed è a base di bergamotto. Cipro è l’isola in cui nacque Venere; e non c’è un albero di bergamotto. E ora partite con la fantasia... L’olio tratto dalla buccia del nuovo agrume, per spremitura a freddo e manuale, è aromatico, purificante, terapeutico. E il Re Sole puzzava, come tutta la sua corte, per scarsa igiene (i medici sconsigliavano l’uso dell’acqua, ritenuta dannosa per la salute). Il siciliano Francesco Procopio dei Coltelli sbarcò a Parigi con una damigiana di essenza di bergamotto; il Re Sole non puzzò più, i cortigiani nemmeno, Francesco divenne François, ricco e ottenne di aprire il primo Caffè del mondo (c’è ancora, al 13 di Rue de l’Ancienne
Comédie): di fronte al luogo in cui si esibiva la compagnia di Molière. Poco dopo, agli albori del Settecento, l’aroma delle granite e dei gelati al bergamotto di monsieur Procope comincia a trasferirsi, a Parigi e non solo, bedda matri!, nell’industria profumiera. Nel 1704, un merciaio ambulante di Novara, Gian Paolo Feminis, crea l’“acqua di Colonia” (cioè, al bergamotto) e fa i soldi pure lui. L’agrume ha conquistato il mondo che vale; sullo Stretto porta ricchezza e modernità: nasce la «borghesia del bergamotto,» scrive Amato «colta e aperta alle nuove idee che circolavano in Europa», e i cui rampolli studiano nella Parigi illuminista e a Londra, dove vengono stravolti «sistemi di produzione millenari», perché le macchine stanno per sostituire gli uomini nell’opera di moltiplicare le merci. Una circolazione di persone e conoscenze che l’economia del raro frutto rende possibile. La città di Reggio Calabria e ancor più i suoi dintorni verso nord e verso sud, diventano una ininterrotta sequenza di giardini d’agrumi. Impossibile immaginare adesso com’era, mentre percorri quartieri selvaggiamente tirati su, senza gusto né pudore (ma non senza ragione, purtroppo, per brutta che sia). «Nell’ultima parte del Settecento la sponda reggina dello Stretto si caratterizza – nello scenario di una Calabria arroccata nelle montagne, immobile e pietrificata – come l’area più dinamica della regione» spiega Amato. Quella borghesia che viaggia e «vede cose», quando torna a casa le rifà: e comincia a produrre vino «con metodo francese»; seta alla «piemontese», importa macchinari ed esperti dall’Inghilterra e non solo. I Grimaldi e i Caracciolo erano capifila di quell’ondata di modernità; i Ruffo di Calabria i custodi del passato. I Grimaldi e i Caracciolo finirono male: i promotori reggini della rivoluzione del 1799, arresisi alle truppe sanfediste del cardinal Fabrizio, furono decapitati, nonostante la
clemenza promessa. «La Borghesia del bergamotto» riassume Amato «venne quindi coinvolta, alla fine del Settecento, almeno in due delle tre grandi rivoluzioni borghesi»: quella industriale in Inghilterra e quella politica e sociale in Francia (non in quella d’indipendenza nordamericana). Ma i rivolgimenti sociali indotti dalle nuove idee trasformavano ormai «i sudditi in cittadini» e moltiplicarono la disponibilità di merci, con la produzione industriale. «Ne conseguì un ritmo di espansione frenetico, con l’allargamento della fascia dei consumatori di beni come quelli del comparto profumiero e cosmetico. Un settore che assunse proporzioni inimmaginabili sino ad allora, col conseguente boom della domanda di essenza di bergamotto.» Che avanzava con le armate di Bonaparte; anzi, proprio con lui, che ne portava sempre una boccetta infilata in uno stivale, pure in guerra. E l’arrivo dei napoleonidi nel Regno di Napoli, dal 1806 al 1815, creò le condizioni perché si allargasse ancora di più l’area del bergamotto (e delle altre colture tipiche ad alta redditività). Per ragioni storiche e geografiche, il territorio calabro sullo Stretto era già indenne dalla monocoltura del latifondo (secondo un detto popolare: Reggio non ha venduto mai grano), per «la prevalenza della piccola e media proprietà e della grande proprietà frazionata». Con le leggi dei francesi contro la feudalità, divennero acquistabili terre morte in mano alla nobiltà pigra; i borghesi in soldi le resero fruttifere, con la coltivazione intensiva del bergamotto (sempre più richiesto dall’industria profumiera francese) e di altre essenze. In quegli stessi anni (i primi dell’Ottocento), un medico di Reggio, Francesco Calabrò Anzalone, indaga sull’uso terapeutico (consuetudine popolare radicata) del bergamotto e ne scopre le proprietà medicamentose per «affezioni della pelle, del sistema digestivo, dei
dolori reumatici, delle malattie dell’apparato respiratorio e per disinfettare ferite e ambienti». Sorge un nuovo ramo dell’industria farmaceutica, che ha repentina diffusione. Mentre, grazie al tè aromatizzato al bergamotto la Earl Grey’s Tea diviene leader mondiale del settore; salvo mentire sulla terra d’origine dell’agrume: una sperduta landa cinese, secondo i bugiardi di Sua Maestà... È il marketing, bellezza! Ha passione, il professor Amato e sono fortunati i suoi studenti (organizza, dal 1983, un premio mondiale di poesia, il Nosside, cui hanno partecipato, nel 2011, in trecentosessanta, di sessantaquattro Paesi, di ogni continente, in sessanta lingue). È un piacere parlare con lui di questo intreccio di eventi: vedi la terra che produce frutti secondo idee di cui segue il destino e viceversa; vedi leggi francesi nel nostro Mezzogiorno che generano (per conseguenza indiretta) le condizioni perché le industrie francesi possano produrre di più e conquistare mercati internazionali, mentre altre conquiste procedono in armi (ne è sintesi quel Bonaparte che indossa, insieme, spada e boccetta di aroma al bergamotto); vedi un’audace classe borghese evolversi e arricchirsi, al Sud, nello scambio con città all’avanguardia nel mondo di allora, per cultura, elaborazione politica, iniziativa economica; la vedi scontrarsi con la nobiltà più retriva, esserne sconfitta e risorgere, per sottrarre a quella stessa nobiltà, feudi stanchi e inerti; e valorizzarli (mentre nascono nuove figure professionali, si depositano brevetti, come quello della “macchina calabrese”, per l’estrazione dell’essenza). L’incontro, per espansione, sulla costa di sud-est, fra le piantagioni di bergamotto e gelsomino, segnò quello dei ceti che sui mercati nordeuropei esportavano essenze indigene e in terra indigena importavano innovazioni politiche e culturali. Al punto che il famoso ’48, l’anno in cui esplosero moti in quasi tutti gli Stati italiani e d’Europa (specie a Parigi), per
chiedere alle dinastie regnanti compartecipazione al potere e il riconoscimento di diritti, fu preceduto dal meno noto ’47, quando Reggio, Messina e Gerace insorsero contro i Borbone, per rivendicare il passaggio a una monarchia costituzionale, non più assoluta. A guidare la rivolta, i reggini e la borghesia del bergamotto, di sentimenti liberali europei. Finì male, come nel 1799. Ma i Borbone, tornati in sella, non agirono in modo da troncare quel ramo dell’economia politicamente ribelle ma florido; al contrario, ne favorirono i successi e non soppressero le riforme che funzionavano, pur se varate dai napoleonidi che li avevano spodestati. E le fecero proprie (tutto il contrario di come si comporteranno, in seguito, i Savoia, nel Sud). I guai arrivarono con l’Unità d’Italia: Messina, perno commerciale dell’intera area dello Stretto, perse subito il privilegio di porto franco, il che comportò la scomparsa di 33.000 posti di lavoro in tre anni, in una città, allora, di 105.000 abitanti (provate a immaginare la stessa cosa nella vostra città; per dire: togliete, in tre anni, a Milano, un numero di posti di lavoro pari a un terzo della popolazione). Ne fu danneggiata seriamente la vivacissima economia della costa reggina e dell’intera Calabria meridionale: non c’erano solo il bergamotto, la seta, il gelsomino e la lavanda, gli altri agrumi e l’olio, e più a nord, la liquirizia di Rossano, la più buona del mondo (non per modo di dire: l’azienda-famiglia Amarelli è una delle trentadue più antiche del pianeta e la più antica azienda dolciaria d’Italia). Nelle Serre del Catanzarese, c’erano i più grandi stabilimenti siderurgici d’Italia; e gli strani frantoi in cui potrà capitare di imbattervi, che somigliano tanto a quelli che forse qualcuno ha visto alle Antille, be’, sono proprio quel che sembrano: producevano zucchero di canna. Quella Calabria che oggi appare così naturalmente vuota e arretrata, era altro, specie
sulla costa, sullo Stretto, partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d’Europa, che era l’area più avanzata del mondo. La testa della regione era nel circuito in cui si costruiva futuro; fu ricacciata nel passato, quello più arcaico di alcune zone interne, tali ancora oggi. Le tasse divennero feroci, con l’Italia unita, per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l’espansione delle infrastrutture (soprattutto le ferrovie) nel Nord» scrive Amato. E quella borghesia moderna e fervida, soffocata dai sanfedisti nel 1799, inutilmente insorta nel 1847, illusa dal garibaldismo nel 1860 e nel 1862 (i tre quarti del consiglio comunale di Reggio si dimisero, per solidarietà, quando don Peppino fu ferito in Aspromonte), venne definitivamente stroncata dall’Unità. Eppure, la provincia di Reggio Calabria fu una delle sole due, in tutto l’ex Regno delle Due Sicilie, escluse dall’applicazione dell’infame legge Pica, che consentiva di imprigionare i meridionali senz’accusa e condanna e fucilarli a discrezione di quasi chiunque, anche solo per sospetta freddezza verso i Savoia. L’area dello Stretto era, infatti, indenne da brigantaggio (circostanza che gli studiosi collegano all’assenza di latifondo e del conseguente conflitto sociale per la distribuzione della terra). La denuncia del trattato commerciale con la Francia, nel 1887, per favorire l’industria del Nord, provocò il crollo dell’agricoltura specializzata del Sud (destinata all’esportazione oltralpe), che si vide chiudere i mercati, per rappresaglia. Il disastro travolse la brillante genia di coltivatori intensivi di essenze ad alto reddito, che pure aveva retto a tanti scossoni politici e sociali. Furono proprio loro, imprenditori agricoli quasi da un momento all’altro non più benestanti, a costituire «il grosso degli emigrati di quell’ultimo decennio dell’Ottocento». Non poveri contadini, ma gente abituata a rischiare, a commerciare con
acquirenti stranieri; taluni a frequentare i mercati esteri. Persero tutto, meno la capacità di produrre ricchezza; e non potendo più farlo nel loro Paese, vendettero il fondo, l’ultimo bene, e andarono via. Consideri pure questo, chi si stupisce del fatto che gli italiani in America, in una generazione o due, raggiunsero redditi pro capite pari a quelli delle comunità etniche più ricche e da molto più tempo radicate nel nuovo continente. E consideri cosa perse l’Italia, privandosi di loro; e di quando fu amputato il futuro del Sud, non avendo più quelle energie. Mentre la fascia dei più pregiati coltivi smobilitava, «il bergamotto rimase l’ultimo baluardo di resistenza» spiega Amato. E, anzi, guadagnò terreno, conquistando quelli abbandonati dai gelsi, per esempio (le filande chiusero una dopo l’altra, e di quella che era nota come la Manchester del Sud, nella zona di Villa San Giovanni, non rimase quasi nulla), sino a occupare i due terzi dell’area di Reggio e a triplicare la produzione. Nonostante il calo dei prezzi alla vendita, il principe degli agrumi restava “Oro Verde”. E, ancora «all’alba del Novecento il circondario di Reggio continuava a essere una delle aree di più elevato dinamismo economico sociale dell’intero Mezzogiorno». Il Regno delle Due Sicilie non aveva banche territoriali per il sostegno alle imprese: provvedeva direttamente lo Stato, fra incentivi e protezioni doganali. Con l’unità, il governo sabaudo tolse gli uni e le altre (salvo ripristinarli anni dopo, ma a beneficio della sola industria del Nord); e mentre da una parte, con le banche, rastrellava nel Mezzogiorno «risorse per investirle nelle infrastrutture e nel sostegno allo sviluppo nel Triangolo industriale», dall’altra provvedeva «a smantellare le strutture pre-industriali favorite e protette dai Borboni». La ricca borghesia del bergamotto si adagiò nella gestione del monopolio produttivo,
senza svilupparne le possibilità; anche perché, a stroncare le iniziative interessanti che cominciavano a sorgere, in tal senso, provvide uno dei più grandi disastri naturali di sempre, al Sud: il terremoto del 1908, che a Reggio uccise 15.000 persone, un terzo della popolazione, «distrusse tutte le forme di vita sociale ed economica», abbatté il 95 per cento degli edifici, meno quelli eretti secondo le norme antisismiche dettate, un secolo prima, dopo un altro disastro, dagl’ingegneri borbonici. Quei palazzi sono ancora in piedi. Me li mostra Corrado Calabrò, presidente dell’Agenzia delle comunicazioni, mentre andiamo, a piedi, dall’hotel al teatro in cui mi verrà consegnato il premio Rhegium Julii. Di quel terremoto, Calabrò sa molto e ne parla; nel suo poema La stella promessa, narra del sindaco della città, rimasto sotto le macerie, ma vivo. Riuscirono a tirarlo fuori, mentre sopraggiungeva il re, Umberto I. «Sindaco, c’è il re, c’è il re!» dissero all’appena dissepolto. «Me ne fotto» mormorò lui; e spirò. Un cronista di «Nuova Antologia», Giovanni Cena, fu testimone di quanto la vita dei reggini fosse calibrata sui tempi del bergamotto. La costa calabrese, devastata come quella di Messina, non fu altrettanto prontamente soccorsa (i più attivi, specie russi e inglesi, si diressero subito sulla città siciliana; gli italiani arrivarono tardi lì e tardissimo qui): «finalmente lo Stato italiano al settimo giorno ha ritrovato questo lembo d’Italia» riferisce Cena; e narra che i contandini superstiti di Archi si rivolgono a lui per essere presentati al tenente colonnello, suo amico. «Non domandano l’elemosina, vogliono lavorare: il bergamotto è maturo per l’estrazione dell’essenza» scrive. «Fra una settimana il raccolto sarebbe perduto: si diano loro delle tavole, delle baracche e pane per alcuni giorni.» Perché nemmeno la catastrofe più rovinosa che abbia mai colpito lo Stretto, a memoria d’uomo, doveva interrompere il ciclo del prezioso agrume.
Tensioni politiche (come la rivolta di Reggio, quando fu privata della dignità di capoluogo di Regione); tensioni commerciali (dalla falsificazione dell’essenza, a fine Ottocento, che disorientò il mercato, alla diffusione, tra gli anni ’60 e ’80 del Novecento, a opera di multinazionali chimiche statunitensi, della falsa notizia che il bergamotto favoriva il cancro della pelle); tensioni economiche (per le oscillazioni di mercato, molti preferirono abbattere le piantagioni e far palazzi), tutte messe insieme, portarono il bergamotto a rischio estinzione. Amato propone di ricondurre l’agrume ai suoi fasti, istituendo un Distretto del bergamotto; e di sfruttarne tutte le potenzialità: non limitarsi a produrre e vendere l’essenza, ma lavorarla in loco (come già, in modo embrionale, avviene), in campo alimentare e profumiero: sta sorgendo un Istituto Superiore di Profumeria ed esiste già un master universitario in Profumeria, essenze e aromi naturali. «I corsi di specializzazione su questo tema sono stati, fino a oggi, monopolio di un solo Paese al mondo: la Francia» scrive il professore. Sfornano specialisti fra i più sofisticati, i cosiddetti “nasi”, al servizio di una delle industrie più redditizie, quella dei profumi. Ancora una volta, il bergamotto incarna lo spirito del tempo (dalla politica all’economia): il Mezzogiorno è animato da forti sentimenti di rivalsa e rinascita, ma a partire da se stesso, dalla sua storia, dalle sue eccellenze. Per tre secoli, l’“Oro Verde” ha formato, all’ombra del suo aroma, il più innovativo ceto imprenditoriale e politico della Calabria e, per alcuni aspetti, dell’intero Sud. È un caso che gli si chieda di rifarlo, mentre un Paese mal connesso si scolla e disorienta come mai in 150 anni? La borghesia del bergamotto, distrutta l’economia che sorse dal favoloso agrume, si
riconvertì, spesso, nelle professioni liberali. Oggi accade che gli eredi di quel ceto evoluto chiudano gli studi legali che avevano aperto al Nord e tornino sullo Jonio, a rimettere in produzione le piantagioni abbandonate e malcondotte. L’avvocato Ugo Sergi, con moglie piemontese, ha lasciato le terre savoiarde ed è rientrato a Condofuri, ha riavviato la piantagione sulla fiumara Amendolea, con annesso agriturismo, ottimamente frequentato (“Il Bergamotto”) e celebrata cucina. E altri hanno fatto la stessa scelta, come Amilcare Mollica, fratello di Edoardo (meridionalista da poco scomparso), che sta chiudendo lo studio di Milano, perché ha deciso di rientrare a Bova, dove l’agrumeto di famiglia è già risorto. Il bergamotto generò una borghesia delle professioni; a distanza di due, tre generazioni, quella borghesia ritorna alle piantagioni. A naso, il profumo che aleggia, come sempre quando c’entra il bergamotto, è di nuovo quello delle idee.
14 IL TEMPO DEGLI ULIVI E QUELLO DEGLI UOMINI
Leone Salvatore Viola, attraverso un’intuizione e una lunga ricerca, arrivò a comprendere quello che (non poteva immaginarlo!) era già noto, ma dimenticato: gli ulivi camminano. E fu questo il titolo che dette al suo libro. Io stesso, che del patriarca vegetale del Mediterraneo mi vanto di saperne molto (tutti quelli che si occupano di ulivi o fanno anche un solo litro di olio credono di avere qualche conoscenza esclusiva sull’argomento), rimasi incantato quando lessi il lavoro del professor Viola, tanto da farne, in Terroni, metafora dell’emigrazione indotta dall’invasione e dal saccheggio del Regno delle Due Sicilie. Un abbandono di dimensioni tali, da svuotare intere aree che si erano mantenute in equilibrio per millenni (quasi la metà degli abitanti di alcuni regioni del Sud, come l’Abruzzo, andò via). Viola osservò che il tronco degli ulivi cresce, nei secoli, sino a svuotarsi e poi si divide in due, tre, quattro parti che diventano autonome e si allontanano, dal centro originario,
ognuna nella direzione da cui prende il sole. Era giunto a tale conclusione, indagando sulla illogica disposizione di un antichissimo uliveto nella valle del fiume Garga, sulle pendici joniche del Pollino (il poderoso massiccio che fa da cerniera fra Calabria, Lucania e Campania), per cui, mentre più piante erano a pochi metri l’una dall’altra, inspiegabilmente molto maggiore era la distanza fra i diversi gruppi di alberi. Le piante derivate da un unico tronco avevano continuato a marcire nel lato opposto al sole e a rigenerarsi (radici e legno) dalla parte illuminata; per secoli. E per secoli gli uomini avevano rimosso il legno morto (sennò le piante sarebbero perite. Questa simbiosi fra ulivi e contadini meridionali è così forte, da legare le loro vite in un solo futuro. «Tanto che,» scrisse il meridionalista Manlio Rossi Doria «si potrebbe dire che alberi e filosofia hanno le stesse radici» al Sud). Valutando sulla scorta della stimabile velocità di allontanamento delle piante derivate l’una dall’altra e dell’età certa di antichi uliveti nella stessa valle, Viola calcolò che quegli alberi dovevano avere circa tremila anni; forse piantati dagli esuli troiani che, secondo la leggenda riportata dai classici, si erano stabiliti lì, in fuga dalla loro città in fiamme. Una storia bellissima, vero? Ne ho parlato con esperti botanici e con lo specialista del Consiglio Nazionale delle Ricerche che studia l’età degli ulivi. Insomma, non ero il solo a subirne il fascino! E potevo rendermene conto dal numero di lettori che mi interrogavano sull’argomento. Finché, in Irpinia, a Sant’Angelo dei Lombardi (uno dei paesi-simbolo del terremoto del 1981), incontro Antonio Pesce, che si definisce “cacciatore di storie perdute”; storie piccole, ma dense: le spigola nella vita, nel lavoro dei contadini delle sue montagne. «Finalmente,» mi dice «grazie a quello che hai raccontato di Leone Salvatore Viola, ho capito cosa intendevano davvero i vecchi olivicoltori, quando mi dicevano: “Noi siamo
antichi, come gli ulivi che camminano verso il sole”. Io credevo che fosse una frase poetica, non un fatto!» Viola non sapeva che la sua scoperta era una riscoperta. Pesce sapeva, ma non si rendeva conto di saperlo. Io ignoravo quello che aveva scoperto Viola e quello che sapeva Pesce; e solo perché ne sapevo meno di tutti, ho potuto, senza nemmeno volerlo, cucire i due brandelli perduti di una sola storia. E chissà se finisce qui...
15 I NOMI DELLA FORESTA PERDUTA
«Delle antiche foreste ci sono rimasti i nomi» mi mostra Pino Marino (e da uno che si chiama così, che discorsi ti puoi aspettare?), attivo nell’associazione Due Sicilie. Dall’acropoli di Troia, lo sguardo corre sino al Molise, verso nord; all’Adriatico, per un largo tratto d’orizzonte nascosto dall’immenso Gargano, verso est; al Tavoliere che si perde in una foschia bassa, verso sud-est; alle ondulazioni lente del Subappennino Dauno che s’innalzano sino al Vulture e ai monti lucani, verso sud-ovest e al Sannio verso ovest. Tutto grano, tranne isole. I vinti fanno il pane per i vincitori. Ricordo quando a scuola leggevo che i Romani (anzi: “gli antichi Romani”) conquistarono la Sicilia e ne fecero il granaio dell’impero; mi chiedevo: e com’era la Sicilia, prima di diventare campo di grano? Poi anche il Nordafrica fu granaio dell’impero; e dovunque arrivava, e terra e clima permettessero, l’impero chiedeva ai vinti di fargli il pane. Così (approssimazione estrema ma comoda), mi convinsi che, per capire chi ha perso, anche senza conoscere la storia, basta vedere chi coltiva il grano: è una produzione a basso
contenuto di lavoro, da latifondo; mentre l’alto reddito viene dalle colture specializzate. Anche il paesaggio lo dice: il grano è un mondo uniforme, verde quando c’è, giallo se mietuto, rosso o nero, se già arato; e ha bisogno di terra livellata, rasa. È l’idea di un popolo ridotto a un uso e una misura; un popolo di schiavi, con un solo pensiero per tutti. Le colture specializzate danno un paesaggio vario, che si adatta ai dislivelli, ne segue le linee, chiede a volte muretti a difesa della produzione di pregio, disegna forme di ogni geometria e colore, dagli orti ai frutteti: è la ricchezza delle idee, un invito allo scambio, ai traffici, al confronto. È il racconto di molti pensieri: un popolo di uomini liberi. Il fascismo condannò il Sud a «vincere la battaglia del grano», ovvero a fare il pane anche per il Nord, gratificato, invece, con la salvezza, grazie a soldi pubblici e commesse statali, del suo dissestato comparto industriale, dopo la Prima guerra mondiale. Così, al Sud, perdemmo la guerra dell’olio, che vale molto di più e dov’eravamo stati sempre imbattibili: ci toccò importarlo. Era di qui Antonio Salandra, capo di governo durante la Prima guerra mondiale. Non resisto (maledetto demone meschino!) alla perfida tentazione di ricordare che, nel parlamento prefascista, con deferenza eccessiva e sospetta, a Salandra si rivolsero chiamandolo «Illustre figlio di Troia»; e lui rispose, si narra: «Per parte di padre». «Per essere precisi,» replica Marino «in quell’occasione lui disse: “Ciò che per me fu patria, per voi è madre!”». «Avevo 8 anni, c’erano i mondiali del Messico, quando morì mio nonno» ricorda Pino. «Si chiamava Giuseppe, meglio conosciuto come Mast’ Pepp. Porto il suo nome. Era un artigiano, maniscalco, uno di quelli apprezzati di una volta, quando, per dirla con il grande Nicola Zitara, “il mestiere conferiva parecchio prestigio sociale, in bottega il mastro si
circondava di un alone sacrale, come di persona addentrata in misteriosi saperi”. Forgiava ferri per i cavalli. Aveva imparato sotto le armi. E sapeva curarne i malanni, se è vero che come “veterinario”, aveva più clienti lui di quello ufficiale del paese. Nelle nostre lunghe passeggiate, mi portava sul belvedere che da Troia si affaccia verso sud: “Guarda,” mi diceva “da quaggiù fino ai monti era tutto un bosco. Piana delle Foreste, si chiamava”. Mi piaceva molto l’idea di questa selva che si perdeva a vista d’occhio. “E perché non c’è più?” gli chiedevo; e lui, con uno sbuffo di delusione: “Mio padre diceva: l’ha bruciata Mazzè! L’ultimo pezzo, il boscariello di Giardinetto, lo ricordo, era grandissimo. Pensa com’era qui un tempo: un’unica, grande, distesa di alberi, da Troia al santuario dell’Incoronata, fino a Bovino e a Montaguto; migliaia di ettari di querce. Che peccato...”. E ogni volta, al termine del racconto, i suoi occhi di novantenne si rattristavano. “Nonno, ma chi era questo Mazzè che l’ha distrutta? E perché?” Non sapevo chi fosse, ma lo detestavo. “Mah... pare che fosse un brigante che bruciava tutto per sfuggire ai bersaglieri”.» Curioso, gli dico, un brigante nella foresta si nasconde; se la brucia, si danneggia da solo. «Era la sua risposta e, per allora, mi bastava. A distanza di quarant’anni, l’amore per la nostra terra e la sua vera storia, mi ha fatto scoprire chi fosse davvero il “Mazzè” dei racconti del nonno. Non era un folletto cattivo che dava fuoco ai boschi, non era di qui e non era brigante, ma conte: Gustavo Mazè de la Roche, comandante in capo delle forze piemontesi in Capitanata (la provincia di Foggia). Per la cancellazione forzosa della verità storica, che i nostri antenati subirono e si auto-imposero, in seguito all’Unità d’Italia, avvenne l’inversione dei ruoli tra buoni e cattivi: i fedeli sudditi del Regno delle Due Sicilie si ritrovarono marchiati come “traditori” (e di che, della patria di un altro o della
propria in futuro?) e briganti e “manutengoli” i loro complici. Furono massacrati a migliaia, per questo. Per snidarli, le foreste vennero bruciate. Poi, nella memoria capovolta, l’incendiario Mazè diventò Mazzè e brigante e gli sconfitti presero su di sé anche la colpa che non avevano.» Negli atti della Commissione Massari sul brigantaggio, letta al Parlamento, in seduta segreta, nel 1863, è riportata l’audizione dell’allora colonnello Mazè de la Roche, comandante in Capitanata. «La sua deposizione si chiude con un omaggio “ai combattenti dell’altra parte, che muoiono con un certo stoicismo e che si fanno briganti per romanticismo” [...] poveri cafoni, spaventati e ignoranti che appena presi vengono passati per le armi» (apprezzando, il signor conte, il romanticismo, ma non praticandolo, essendo sbrigativo). È primavera, ma mattina presto, e Troia è in alto: un vento polare ti gela appena esci dalla cresta di palazzi storici che incorona il dorso lungo e stretto della collina (vista di lato, Troia sembra una città immensa; inganna). «Lo chiamiamo “A Vorje” questo vento: è la bora, si infila dall’Adriatico, dove il Gargano si abbassa e non ci protegge più.» Cosa resta oggi dell’antica “Piana delle foreste”? «Nulla o quasi. I francesi, al tempo di Murat, l’avevano abbondantemente disboscata, per approvvigionarsi di legname. I Borbone, che tenevano in grande considerazione il bosco dell’Incoronata e tutta la piana, provvidero a far ripiantare nuovi alberi. E la foresta rivisse. Le distruzioni piemontesi le assestarono il colpo di grazia. Rimangono alcuni brandelli, qua e là. Nel 1969, a Giardinetto, qualche chilometro da Troia, resisteva ancora qualche ettaro del “Boscariello” (quello che mio nonno ricordava grandissimo), ma l’Ente riforma ne cancellò le ultime macchie, per farne seminativo.
Più in là, nei dintorni di Bovino, c’è molta boscaglia originale; altre parti risultano ripiantate. E così a Orsara. Poi, sparsi, degli appezzamenti di “macchia mediterranea”. Il solo lembo certamente originale dell’antica foresta, oggi area protetta, è quello dell’Incoronata, dov’è il più famoso santuario mariano della provincia di Foggia, per la Madonna Nera.» Ascolto e tento di sintetizzare: la terra conserva il nome di quel che era, ma è altro; la gente conserva il nome di chi è stato, non la storia che gli corrispondeva; né la propria. Per riappropriarsene, il vinto la ruba al vincitore: fu Mazzè, uno di noi, non Mazè, uno di loro, a bruciare la foresta. Ma la foresta era la nostra! Già, ma Mazzè era un brigante. Si ricade sempre nella stessa risposta: il vinto non si sente più tale, se compie il gesto del vincitore. Non potendolo fare contro di lui (ci ha provato, ha perso), lo fa contro un altro vinto o persino contro se stesso. Così, strappa al vincitore il potere di colpirlo: è lui che lo fa! E non c’è più bisogno che ci sia Mazè: se è Mazzè a incendiare il bosco, Mazè scompare dalla nostra storia; se lui non c’è mai stato, noi non fummo sconfitti. È affascinante seguire quanto potenti siano questi meccanismi psicologici e sociali: il brigante Mazzè non è mai esistito: di dov’era, esattamente? Da quale famiglia venne fuori? C’è ancora qualche Mazzè, da queste parti? E cos’altro fece Mazzè? Come morì Mazzè? C’è almeno un documento che testimoni l’esistenza di Mazzè? Tutte domande senza risposta. Come ha fatto il gran capitano (in realtà, colonnello, allora) di Capitanata, monsù Gustave Mazè comte de la Roche, a sparire? Dopo la guerra al brigantaggio si ritirò in convento? Emigrò in Australia? No, divenne generale e qualche anno dopo c’era lui a Porta Pia, per la presa di Roma, sotto gli occhi del mondo. E poi, a casa? No, in Parlamento: senatore. E poi? Addirittura ministro della Guerra. Insomma, mentre Mazzè continuava a
non esistere ma dilagava, Mazè continuava a crescere dinanzi all’intero Paese, ma a sparire. Così, la memoria (che tende a migliorare il passato per renderlo più accettabile) ha cancellato lui e lo ha sostituito con il falso brigante che gli rubò il nome e l’opera; e ha rimosso l’umiliazione di chi doveva ricordarla. L’intera storia del Sud è un paesaggio di ricordi riadattati, nel quale la verità, quando e se irrompe, assume il carattere di provocazione, disturbo: a che pro rivangare antiche vicende? «Tutto là era come un ricordo: gli uccelli che giravano attorno agli alberi spettrali, furiosi di cantare su rami ormai inesistenti [...]. Tutto là sapeva di passato, di vecchio bosco defunto. Persino la luce cadeva come una memoria della luce» scriveva il poeta Rafael Alberti, di un posto della sua infanzia che era stato un bosco. Aveva un nome, quel posto, che lui usò come titolo per la sua biografia: La arboleda perdida (L’albereto perduto). «Dei nostri tanti boschi,» dice Pino Marino «non ci resta che il nome. E nemmeno sappiamo che è il prezzo che pagammo per la squilibrata Unità d’Italia. Avevamo dimenticato pure questo. Credo sia venuto il tempo di ricordare» (lui e altri, a Troia, nei paesi intorno e a Foggia, hanno costituito un gruppo che recupera documenti e li pubblica, sul web, sui giornali locali. Ma Mazzè, nonostante la dimostrazione della sua inesistenza, resterà per sempre, perché l’unica certezza che si ha, sui miti, è che non si sa come nascono, ma non muoiono mai). Ma c’è una cosa che a Marino resta sullo stomaco. La tira fuori, mentre già mi allontano... «A proposito di nomi, visto che è da lì che si comincia: Subappennino Dauno, non si usa più, per indicare le nostre montagne. Si chiamano monti Dauni. O, se vuoi, Preappennino Dauno.» Come dire: il Subappennino, nel nome porta sottomissione, sta “sotto” (il che perpetua il
danno); il Preappennino sta “prima”, “avanti” (che non sempre è un vantaggio...); mentre i monti Dauni stanno e basta, come tutti gli altri. Né avanti, né sotto.
16 IL TEMPO PASSA. NON OVUNQUE
«Era un uomo buono» dice. Ed è la prima cosa che dice. La voce scende a un tono materno, addolcito. La signora è circondata da giovani che la trattano con attenzione particolare; mi verrebbe da dire: di rispettoso soccorso, come per persona veneranda. Suo zio, quell’uomo buono, pugliese di Torremaggiore, emigrato negli Stati Uniti, fu giustiziato sulla sedia elettrica, per rapina e duplice omicidio. Aveva trentasei anni ed era sano e forte, nonostante i patimenti dei mesi prima della morte e lo sciopero della fame; sopravvisse alla prima scarica elettrica tra i 1.800 e i 2.000 volts; resistette pure alla seconda; si apprese, con raccapriccio, che solo la terza riuscì a ucciderlo (avete visto Il miglio verde?). Nelle ultime ore prima di morire, scrisse a suo figlio («Non dimenticare di amarmi un poco»), per consegnargli il proprio testamento morale: «Ricordati sempre, Dante, nel gioco della felicità, non prendere tutto per te, ma scendi di un passo e aiuta i deboli che chiamano al soccorso, aiuta le vittime e i perseguitati». Quand’era ragazzo, soffriva per i mietitori
d’Abruzzo che dormivano all’aperto, finché non avessero atterrato tutto l’immenso grano del Tavoliere; e per i drammi dell’8 settembre, la data entro cui, allora, si doveva pagare l’affitto per l’anno intero e chi non poteva, via, per strada, con le sue poche cose, o in cerca dell’ospitalità di un parente, con tutta la vita cacciata di casa su un carretto, e la vergogna esibita all’intero paese. Ferdinando Sacco, detto Nicola, fu giustiziato, e con lui Bartolomeo Vanzetti, piemontese, il 23 agosto del 1927, undici minuti dopo la mezzanotte del 22, per un delitto che non aveva commesso, come era evidente a tutti. Fu un omicidio di Stato; lo Stato del Massachusetts. «Io sono della classe degli oppressi, voi siete degli oppressori» furono le ultime parole di Sacco ai suoi corrotti giudici. Ci furono proteste in tutto il mondo. Lo stesso presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, disse che quel «fantasma continuerà ad agitare l’America per decenni». «Liberateli», era scritto sui cartelli dei manifestanti che scesero nelle piazze e per le strade, in difesa dei due italiani, a milioni, in tutto il mondo, «e salvate il Massachusetts. L’onore dell’America muore con Sacco e Vanzetti.» Non servì a nulla. Cinquantamila persone seguirono le due bare. «Bisogna fare di tutto, perché il tragico caso di Sacco e Vanzetti sia mantenuto vivo nella coscienza dell’umanità» ammonì Albert Einstein, dopo la loro soppressione. Prove e testimonianze dell’innocenza dei due italiani vennero negate; nemmeno la tardiva confessione di un gangster, sulla paternità del delitto, si volle prendere in considerazione. Per tutta la vita, Sabino Sacco chiese la revisione del processo e la riabilitazione del fratello Nicola e dell’amico Vanzetti. Rinnovava la richiesta a ogni presidente degli Stati Uniti, appena eletto. Aveva novantadue anni quando lo fece l’ultima volta, presidente
Gerald Ford: «Non ho molto tempo da vivere. Dopo di me, chi porterà avanti questa battaglia?». Maria Fernanda Sacco nacque cinque anni dopo la morte di suo zio sulla sedia elettrica («Era il più bello della famiglia»). Ultima dei cinque figli di un fratello di Nicola rimasto a Torremaggiore, toccò a lei continuare a dire al mondo che il nome di suo zio era pulito, come le sue mani; mentre erano quelle dei suoi giudici a essere sporche di sangue, come l’onore perduto del Massachusetts. Quando fu un po’ avanti con gli anni, la signora Maria Fernanda cominciò a farsi la stessa domanda di zio Sabino: «Dopo di me, chi porterà avanti questa battaglia?». Fu così che nacque l’associazione. Ed è (assieme al Comune) l’associazione “Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti” che mi invita a Torremaggiore; siamo nella sala del castello e la signora Maria mi consegna la tessera che mi rende membro dell’associazione: mi onora essere avvicinato al nome della sua famiglia. E mi commuove. Ero ragazzo, ardevo di ansia di giustizia (malattia adolescenziale, non fateci caso, poi si guarisce e ci si fa furbi; qualcuno, purtroppo?, cronicizza...); ero riuscito a governare l’emozione, mentre vedevo il film di Giuliano Montaldo su Nick e Bart; avevo resistito alla stretta al cuore della voce di Joan Baez e alla colonna sonora (forse la più bella) scritta da Ennio Morricone. Finché, verso la fine, non avevo retto e avevo cominciato a piangere. Ma ero stato bravo a farlo silenziosamente. Ora, però, temevo il riaccendersi delle luci in sala; tentavo di riconquistare un contegno, ma come fai se con i titoli di coda riparte, imponente, Here’s to you, Nicola and Bart ? La luce mi espose indifeso agli sguardi altrui: volti paonazzi, o irrigiditi dai denti serrati, o irrigati da lacrime senza più ritegno, come me. E ci ritrovammo tutti in piedi, senza più nascondere la nostra debolezza, ad applaudire, facendo esplodere le mani di rabbia, come colpi di pistola.
Così, quarant’anni dopo, per quel pezzetto di carta che mi veniva donato dalla nipote di Nicola Sacco, riuscivo a mormorare solo: «Grazie». «Se le fa piacere...» esitava lei, per eccesso di buona educazione. «No, no... grazie!» E ancora lo dico, mentre un ragazzo mi distoglie, per offrirmi l’ultimo sunto delle gesta del “brigante” Michele Caruso: pure lui di Torremaggiore, pastore audace, spietato e indomito, quanto Sacco, artigiano calzaturiero, era dolce e generoso. Caruso fu uno dei più feroci e temerari fra quanti si ribellarono all’invasione piemontese; temutissimo per l’intelligenza con cui adoperava la sua cavalleria e le innate capacità militari (sconfisse forze regolari savoiarde pure in campo aperto, sfida che non temeva di accettare), fu infine catturato e fatto giustiziare dal generale Emilio Pallavicini, lo stesso che ferì Garibaldi in Aspromonte e sconfisse il brigantaggio. Di Caruso, scrisse che era «coraggioso e abile capo». Non avrebbe, altrimenti, potuto guidare tanti uomini, con tale sicurezza, per tanto tempo (fu preso nel 1863), in un territorio così vasto: il generale Alessandro Della Rovere riferiva a La Marmora che Caruso e i suoi uomini, tracimando ampiamente dalla terra del Fortore, in tutta la Capitanata e il Sannio, «percorrono invariabilmente una regione che dalle sorgenti del Bradano attraverso l’Appennino, quasi ovunque accessibile, si estende fino al Molise». Nell’esercito regolare si può far carriera per meriti e doti, ma anche per fortuna, raccomandazioni e corruzione, e pur essendo vigliacchi o stupidi; le formazioni brigantesche no, per loro «spontanea strutturazione militare» scrive Franco Molfese, nella sua imperdibile Storia del brigantaggio dopo l’Unità, pur se inglobavano fior di soldati e graduati borbonici «erano comandate dal più abile, il più energico, il più coraggioso, il più spietato», tanto che «la disciplina che regnava nelle bande era ferrea, basata soprattutto sul prestigio personale e sul timore che ispirava il capo».
Le imprese di Caruso furono subito leggendarie; la sua cavalleria era un terrore fantasma: immaginate cento, duecento satanassi, quando non più, che sbucano dal niente e piombano da ogni parte su una colonna di bersaglieri, sulle guardie nazionali, con urla, spari, sanguinose evoluzioni fra le fila scompaginate dei soldati, seminano morte; e scompaiono. O che eseguono azioni militari perfette, mettendo a frutto la momentanea superiorità numerica, e sterminano la 13a compagnia del 36o fanteria dell’esercito savoiardo, al comando del capitano Rota, ex garibaldino. Leggendaria, purtroppo, fu anche la ferocia di Caruso (ma feroci erano i tempi, con i nuovi venuti che radevano al suolo interi paesi, li bruciavano, con la gente dentro, collezionavano teste di meridionali). E quando decise che bisognava distruggere l’economia, per punire i possidenti collusi con l’invasore, non esitò a trucidare i contadini e le loro famiglie, una quindicina a Melfi, una decina a Lavello... e le donne violentate. Per dire quale pericolo fosse il capo brigante di Torremaggiore, in Parlamento si portò la sua avvenuta cattura e fucilazione, a fine dicembre del 1863, quale argomento a favore della proroga della infame legge Pica (secondo la quale i meridionali potevano essere incarcerati o giustiziati, senza accusa, prove, indizi, condanne, processi, se non il libero convincimento di chi decideva di farlo: provocò decine di migliaia di morti). Il temerario ma capace pastore fu uno dei più grandi capi della risposta armata del Sud alla conquista piemontese che, in nome dell’unità del Paese (e dei propri debiti), ridusse il Mezzogiorno in rovina. E qui, accidenti se se lo ricordano... Quella orrenda guerra civile da cui nacque l’Italia, è ancora la colpa dei meridionali che non accettarono supinamente la spoliazione e il massacro, ed è ancora l’orgoglio dei vincitori che celebrano se stessi. I primi si sono rassegnati alla sconfitta; i secondi rifiutano
la colpa, addossandola al vinto, che la fa propria. Il Paese resta diviso, nel profondo e nel rancore, senza riuscire a perdonarsi il passato, per aggiustare almeno tardivamente il proprio futuro. Noi italiani, nel segreto della memoria muta, non ci siamo ancora perdonati niente. Maria Fernanda Sacco ha raccontato la sua storia in un libro scritto quasi sottovoce, ma denso: I miei ricordi di una tragedia familiare; me lo regala, nel «ricordo di due martiri». Maria Fernanda Sacco ha molto speso, di sé, perché quella storia di una ingiustizia avesse una conclusione giusta e insegnasse qualcosa a tutti. Ed è stata infine ricompensata, la nipote dell’anarchico pugliese sconfitto innocente da chi pensava di poter fare scempio di lui e della legge, pur di vincere per “un principio” (salvare gli Stati Uniti dall’anarchismo e dal socialismo). Maria Fernanda ce l’ha fatta a vivere un giorno grande, un giorno negato a suo padre e a tutti i suoi parenti della precedente generazione: il 19 luglio del 1977, mezzo secolo dopo l’assassinio di Nick e Bart, il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, pagò il debito di giustizia del suo Stato nei confronti dei due italiani e, con un atto solenne, dichiarò: «che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti dai nomi delle loro famiglie e dei discendenti e dal nome dello Stato
del Massachusetts». I due italiani «non ebbero un processo equo» proclamò Dukakis, nella State House. «Il giudice e il procuratore erano prevenuti contro gli stranieri e i dissidenti.» Da allora, nello Stato del Massachusetts, per decisione del governatore, il 23 di agosto è il giorno della memoria in onore di Sacco e Vanzetti. («Una volta morti, non ne parlerà più nessuno» aveva assicurato il procuratore Frederick Katzman all’allora governatore Alvan T. Fuller. Oggi, se ne parla ancora, procuratore, e la vergogna resta sui vostri nomi e su quello del giudice Thayer.) E, finalmente, Spencer Sacco, terzo figlio di Dante (cui papà Nicola scrisse: «Non dimenticare di amarmi un poco»), «venne a Torremaggiore con un’interprete americana per conoscere il resto della famiglia» annota Maria Fernanda nel suo libro. E lei andò negli Stati Uniti, a Boston, nell’aula di tribunale in cui suo zio fu condannato con prove false; un magistrato le permise di sedersi sul seggio che era stato del giudice Thayer; poi, la condusse in un’altra aula: al muro, una foto di Sacco e Vanzetti, a ricordare, a chi decide della vita e (negli Stati Uniti) della morte degli altri, l’onta che pesa su quel tribunale. Gli Stati Uniti sono uno spaventoso Paese civile. Ci sono voluti cinquant’anni, ma hanno saputo pacificarsi con le loro vittime, onorarle. Lo hanno fatto anche con gl’indiani, sterminati negli anni in cui, qui, fratelli-caini sterminavano meridionali. A quell’altro di Torremaggiore finito nei libri di storia, Michele Caruso, non è andata altrettanto bene. Non c’è stato chi, a nome dell’Italia, emanasse un solenne decreto per consegnare alla saggezza dei tempi i torti e i rancori del passato e riconoscere ai vinti la loro dignità:
«che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Michele Caruso Carmine Crocco, detto Donatelli Pasquale Domenico Romano, alfiere di sua maestà, detto Sergente Romano Michelina De Cesare e dai nomi di quanti altri combatterono con loro e come loro, per il loro Paese da quelli delle loro famiglie e dei discendenti E dal nome dell’Italia Unita». Quella dignità universale, scrive nel suo libro Maria Fernanda Sacco, è «simboleggiata orgogliosamente da un operaio pugliese e l’altro piemontese» che «hanno lottato per lo stesso ideale e hanno affrontato uniti la tragedia della morte». Ci sono degli studenti delle medie; scopro che la loro insegnante, Luciana Tricarico, li educa a visioni diverse sullo stesso argomento, inclusa la storia (la loro scuola, ora, è gemellata con quella di Villafalleto, Piemonte, paese di Bartolomeo Vanzetti. Ogni allievo ha un suo corrispondente, con cui scambiare lettere, non sms o e-mail, per raccontarsi, apparentati solo da un’antica ingiustizia. È spaventoso il potere della memoria, la sua capacità di spalmarsi sull’anima degli altri, di divenire collettiva e continuamente rinascere,
rinascere. A esergo del suo libro sull’eccidio a Montesano della Marcellana, nel 1943, uno dei tanti, al Sud, dopo uno sciopero, nel Vallo di Diano, fra Lucania e Campania, Angelo Sica scrive: «Tutti quelli che se ne vanno ci lasciano addosso un po’ di se stessi. È questo il segreto della memoria»). Alcuni studenti hanno letto brani di Terroni. E c’è chi racconta le sue riflessioni su quell’unità e quei rapporti Nord-Sud di cui si discute, stasera. Mi segno qualche frase: «Che colpa abbiamo noi meridionali, se non quella di essere meridionali?» (Mariarosaria); e sulle ingiustizie a danno del Sud, Cecilia si interroga: «Siamo noi che lasciamo correre?»; mentre Federica sospetta che non sia servito metterci «“una pietra sopra”. Non hanno considerato che in questo modo la piccola collina è diventata una montagna e prima o poi crollerà. O forse è già crollata», anche se più avanti si chiede come mai non si dà «la svolta decisiva al Meridione» e tutti «stanno là a guardare la vita che continua, seppur ingiusta e disuguale». Ora lei non può, perché solo adolescente, «posso solo aspettare il mio momento e sperare di riuscire». Ma qualcosa pensa di saperla già: «Il destino del Sud è quindi già segnato? No, è ancora tutto da scrivere». Hanno una storia ricca, a Torremaggiore, e lo sanno. Ma chi ne riempie le pagine sono due uomini vinti; e uno di quei due è ancora trattato da nemico e nemico indegno. Tempo ne è passato tanto, ma solo in America, pare. Non credo ne passerà inutilmente altro, perché sono troppi i nostri figli e nipoti che ora sanno (e, soprattutto, l’hanno saputo a scuola) che quei vinti avevano valori, dignità, non meritano l’oblio e l’insulto. Noi fummo studenti più inconsapevoli, più ingannati.
17 L’ABC DEL RAZZISMO
Il razzista non si aspetta reciprocità; è così convinto della sua presunta superiorità e, grazie a quella, del proprio diritto alla denigrazione di quanti non gli sono pari, che l’essere trattato come lui fa con “quegli altri”, prima che offenderlo, lo disorienta, lo sorprende. Prendete Renzo Bossi e il suo “gioco” lanciato sulla pagina Facebook della Lega, con il quale sommavi tanti più punti, quanti più clandestini respingevi: solo virtualmente, sia chiaro; da non prendere come allenamento... Ma parole e simulazioni hanno sempre preceduto i fatti, perché svelano un’intenzione. Cosa direbbero i führer della Milizia Padana, se qualcuno mettesse in rete il gioco “Abbatti il leghista”? Tanti più punti, quante più camicie verdi stendi. Virtualmente, chiaro. E se centri Umberto Bossi, fai strike! Game over! Be’, che c’è, non ti diverti più? Così, all’Università Insubria, a Como («quella della Lega»), ho usato le frasi razziste di Calderoli e Borghezio per mostrarne, sulla pelle di chi le aveva pronunciate, il contenuto discriminatorio. E a Torino, al Salone del libro, ho cominciato il mio intervento alla
presentazione di Terroni, dicendo: «Torino è una fogna, da derattizzare, perché anche i topi votano». E l’ho fatto ad Asti, a Milano, in Veneto... Mentre un fremito percorreva gli ascoltatori, giustamente offesi, avvertivo che nella frase originale, di Calderoli, la cittàfogna è Napoli. Ma quando il noto “porcataro” (per autodefinizione, quando si è improvvisato legislatore) la pronunciò, quei fremiti indignati mancarono. Sia a Nord, sia a Sud (solo un napoletano, residente a Vicenza, fece causa; e la perse). «Ecco,» spiegavo «quella mancanza di indignazione misura il pregiudizio condiviso, da chi lo nutre e da chi lo subisce.» Altri esempi? Bossi dice di adoperare la bandiera italiana come carta igienica? «Io uso quella della Lega,» dissi a Torino, per evidenziare, respinto al mittente, il peso dell’insulto «ma, siccome mi fa schifo, la tengo per il mio cane.» Be’, che fai, non ridi? Spostare da umana ad animale la natura dell’interlocutore che si vuole denigrare è il primo passo del razzismo. Chi ricorre a questo metodo vuole ridurre la responsabilità morale del suo gesto e il valore biologico di chi lo patisce (un conto è far danno a un uomo, un conto a un topo di fogna). Ma capisco che qualcuno possa trovare complicato l’assunto: bisogna pur tener conto di chi riesce a superare gli esami di media superiore, in solo quattro tentativi, con o senza sostegno morale del ministro alla Pubblica istruzione (con rispetto parlando). All’Università dell’Insubria (e non solo), stimolato da un uditorio giovane e ironico, son ricorso ai disegnini: l’indecenza a fumetti. Figura A: un umano stilizzato (cerchietto-testolina, lineetta torso, due lineette-braccia, due lineette-gambe) e scrivo sotto: «Homo sapiens sapiens – napoletano». Figura B: una sorta di pera coricata, quattro zampette, codino lungo dalla parte rigonfia e
due, tre baffetti dalla parte più a punta; e scrivo sotto: «Topo, o pantegana, o zoccola». Figura C: replico il primo disegno, e scrivo sotto: «Homo sapiens sapiens – parente di leghista».
Ora, essendo innegabile l’identità A = C, appare evidente, per la disparità dei disegni e degli esseri viventi rappresentati, che A non può essere uguale a B, come sostiene Calderoli. Altrimenti, ne deriverebbe che se A = B (napoletano = topo, o pantegana, o zoccola), avremmo anche C = B (parente di leghista = topo, o pantegana, o zoccola). E non è pensabile che Calderoli voglia insinuare qualcosa di offensivo nei riguardi dei suoi familiari (o di quelli di suoi colleghi di partito) che potrebbero essere anche strettissimi... Lui stesso non ne uscirebbe indenne. Pertanto, non volendo dubitare che, anche per i leghisti, C è sempre diverso da B, allora, pure A è sempre diverso da B. Quindi, i napoletani non sono topi da derattizzare. E nemmeno Calderoli e le persone a lui care. Con lo stesso schema, si può indagare il contenuto fognario (ma com’è che ’sti leghisti li trovi sempre da quelle parti?) dell’affermazione di Borghezio sui meridionali “merdacce”. Sia A un essere umano, ma meridionale (è ancora un essere umano?), B una merda, e C, un essere umano, ma leghista (è ancora un essere umano?): se A = B, anche C = B. Se il terrone è una merda, pure il leghista...
E via di seguito. Capisco che i razzisti si arrabbino: questo metodo fu inventato dai meridionali, qualche anno prima che Borghezio cominciasse a dire sciocchezze. Ad Atene. Altrettanto palese il contenuto razzista di note espressioni di altri (incredibilmente) ministri. Mariastella Gelmini (Pubblica istruzione), sostenne la necessità di riqualificare gl’insegnanti meridionali; mentre Giulio Tremonti (Economia), definì «cialtroni» gli amministratori del Sud. Poniamo che la signora ministro abbia ragione: che tutti, ma proprio tutti gl’insegnanti meridionali siano pessimi; e che, per converso, tutti quelli settentrionali siano ottimi, tant’è che nessun corso di riqualificazione è stato ritenuto necessario, per loro. Abbiamo la certezza che la perfezione, nel bene e nel male, non è possibile in questo universo (dimostrato dal professor Max Planck, approfittando dell’assenza della Gelmini). Quindi, bisogna ammettere che, almeno in questo universo, possono e addirittura devono esistere insegnanti meridionali bravi a sufficienza, da non aver bisogno di riqualificazione; e, per la stessa ragione, si deve dolorosamente ammettere che devono esistere insegnanti settentrionali bravi, ma non tanto da poter fare a meno di un corso di riqualificazione (mo’, chi glielo dice a Mariastella?). Il ministro, però, i corsi li voleva per i soli insegnanti meridionali. Ma non avendone tutti quelli del Sud necessità ed essendocene almeno qualcuno del Nord che ne ha bisogno, l’impreparazione dei docenti non può essere il vero motivo della stupefacente proposta ministeriale, perché non tutti i meridionali sono impreparati; non tutti i settentrionali sono preparati. L’unica qualità che include tutti e soltanto i docenti meridionali è l’essere meridionali. La proposta è razzista. Così, quando Tremonti, chiama «cialtroni» i soli amministratori meridionali, esclude la
possibilità che almeno uno non lo sia (sempre per quel Planck che spacca il capello in quattro). E dimentica, mentre lo dice, che la Milano della sua Lombardia ha offerto al mondo il desolante spettacolo di una città che vince, con l’appoggio di tutto il Paese, la gara per ospitare l’Expo, e poi vede i suoi pubblici amministratori dilaniarsi per quasi tre anni, bruciando tempo, milioni di euro e “grandi manager ”, non per posare la prima pietra, ma per riuscire a decidere dove! Mentre a Parma, per l’ennesimo scandalo, la popolazione assedia il sindaco e la sua giunta; l’assessore regionale leghista Alessandro Cè denuncia «il sistema criminogeno» delle cliniche lombarde e vede finire la sua carriera politica; l’assessore regionale lombardo Pier Gianni Prosperini, ex pure lui, finisce in carcere... L’offesa di Tremonti è offesa razzista. Come quella di Renato Brunetta, ministro alla Pubblica amministrazione, che definisce «cancro» gli abitanti dell’asse Napoli-Caserta. E smetto di riproporre la lista ormai nota. Tremonti e Brunetta, si sono scusati (vedete che manco «tutti» quelli che ragionano, o sembrano ragionare così sono uguali?). La Gelmini ha smentito; lo ha fatto in una intervista a Claudio Sabelli Fioretti, che sotto la smentita ha riportato la frase incriminata. Ops... Personalmente, preferisco chi si scusa a chi smentisce. Ma tutti, incluso quelli di “topi” e “porci”, sono rimasti al loro posto. Nel 2010, in Germania, per affermazioni discriminatorie nei confronti di islamici ed ebrei, il potentissimo Thilo Sarrazin, al vertice della Bundesbank, la Banca nazionale tedesca, ha dovuto dimettersi, e di corsa. In Germania sanno apprendere dalla loro storia. Perché «dagli errori si impara». Se si pagano. E suggerirei di stare attenti anche alle parole, che trasportano più significati di quanti vorremmo a volte. Ne cito solo un paio, quasi per fatto personale:
Il rimprovero arriva dalle colonne di un giornale molto diffuso: con Terroni, fomenterei il mugugno del Sud. Le parole sono infide: ci mettono a nudo. Nel vocabolario ce ne sono tante altre (rivendicazione, protesta, risentimento...), ma il signore con il ditino alzato ha scelto “mugugno”. E cos’è il mugugno? È la protesta dei servi, cui non si riconosce coraggio e diritto di obiettare, a viso aperto, ai padroni. Lo facciano, ma non visti, in cucina; donde ci si adoperi acciocché non giunga, fastidiosa al sire, la sgradevole eco de lo servil mugugnamento... E chi sarebbe il padrone? MUGUGNO.
MERIDIONALE.
«Sei meridionale, ma sei bravo!», come dire che, nonostante sia meridionale, non solo hai recuperato il ritardo, ma hai conquistato un’eccellenza. Quindi “meridionale” è un’aggiunta che toglie qualcosa, un moltiplicatore inferiore a 1, per cui, qualunque cosa si accosti al valore “meridionale” vede diminuito il proprio. Insomma, “meridionale” è un handicap. Quindi, a chi mi faceva quell’ambiguo complimento, risposi che bisognava adeguare il linguaggio alle idee, per essere corretti. E se “meridionale” è un handicap, il termine andava sostituito con: “diversamente settentrionale”. Fa ridere? Allora abituatevi a pensare che la latitudine non è un handicap; e se mai lo fosse, lo sarebbe per chi pensa che lo sia...
18 ITALIA UNITA
Il mio Paese è unito, ma tanto unito, che il 17 marzo 2011 ha celebrato i 150 anni di Unità: a partire, il conteggio, dalla promulgazione della legge (approvata tre giorni prima dalla Camera dei deputati a Torino), con cui si dichiaravano (en français, naturellement) re d’Italia Vittorio Emanuele II e ses successeurs (Gian Mario Cazzaniga, docente di filosofia all’Università di Pisa, su «Belfagor», fa notare che si è scelto di celebrare l’incoronazione del re di Sardegna a re d’Italia e non la data della prima riunione del Parlamento italiano, il 18 febbraio). Erano appena state annesse, con referendum patriotticamente taroccati, Toscana, Marche, Umbria, ducati e, a mano armata, perché riluttante, il Regno delle Due Sicilie. Civitella del Tronto, quindi, non farebbe parte dell’Italia, visto che la fortezza fu espugnata tre giorni dopo; ma essendo chiaro, che, ormai, ne fa parte, Civitella avrebbe dovuto festeggiare i 150 anni di Unità il 20 marzo, in leggero ritardo sul resto del Paese. E che saranno mai tre giorni! (A voler sottilizzare, su quel che successe fra un venerdì pomeriggio e una domenica mattina, qualcuno ha fondato una religione con un miliardo di
fedeli...) Più complicata la faccenda con il Veneto, che diventò italiano solo il 4 novembre del 1866; e, quindi, dovrebbe celebrare i 150 anni di Unità nel 2016 (chissà se ci invitano; ma se quando l’Italia fu dichiarata unita, nel 1861, loro non c’erano, saranno italiani pure loro? E se sì, un po’ meno? Chiedere al presidente del Veneto, Zaia, quello che è italiano quando deve prendere soldi da Roma, e veneto quando li deve mandare). Sempre che si sia posto rimedio, nel frattempo, alla cancellazione del regio decreto con cui Veneto e ducato di Mantova furono dichiarati «parte integrante dell’Italia». E già, perché, l’atto di annessione è stato abrogato il 16 dicembre 2010, con il famoso decreto ammazza-norme inutili (vi risulta servano a qualcosa veneti e mantovani?). A complicare le cose è stato quel ministro alla Semplificazione (lo so, viene da ridere anche a me, ma non guardatemi così: non l’ho nominato io!), Roberto Calderoli, il quale dichiara l’esistenza di quasi 30.000 leggi inutili (ma pare fossero poco più di 20.000) e ne brucia pubblicamente 375.000, costringendo i vigili del fuoco ad accendere il rogo (ma non dovevano spegnerli?). Forse, l’annessione di veneti e mantovani è stata aggiunta per fare numero... (per sfornare 375.000 leggi, persino approvandone una al giorno, non bastano centocinquant’anni, ce ne vogliono più di mille). Un errore, certo, si aggiusta. Ma provate a immaginare se io, veneto, mantovano, una volta espulso dall’Italia per decreto, non volessi tornarci: me lo si può imporre per controdecreto? Nel 1866 lo fecero, ma almeno ci fu la finzione del referendum per l’annessione degl’irredenti alla madre Patria. E ora? Così, come se niente fosse: me pijano, me buttano, me ripijano... Il sedicente porcataro Calderoli dice che veneti e mantovani restano italiani per
usucapione, decreto o non decreto. Al collega Stefano Lorenzetto, l’imprenditore veneto Fabio Padovan, leghista eretico, racconta di aver inviato questa e-mail all’amministratore della sua azienda: «Adesso si dice che lo Stato italiano può far valere il diritto di usucapione nei confronti dei territori del Veneto. Mi sembra pazzesco che uno Stato usucapisca un altro Stato, ma tant’è. Dopo averci dormito su bene, in assoluta serenità d’animo, ho deciso che voglio dare un piccolo segnale di questo evento, che per me è comunque storico, per altri è una cazzata. Desidero che resti il ricordo del “Giorno de l’Independensa veneta” dalla famelica lupa italica. Quindi, Tonon, nella prossima busta paga inserisca un bonus di 100 euro. Grazie» (almeno, ci hanno guadagnato qualcosa 172 dipendenti). Vabbe’ che per unire l’Italia s’è fatto di tutto, ma no’ saremo mia drio a esagerar , non staremo esagerando? Pure il Lazio, nel 2011, ha festeggiato, ma i suoi anni di Unità erano solo 140; per i 150 aspetta il 2020, magari, alla data del referendum dell’annessione, il 2 ottobre (1870). Perché l’Italia era unita, nel 1861, ma il Lazio no. Sarà Italia lo stesso o un po’ meno? E non è curioso che i lumbard ce l’abbiano tanto con un’Italia in cui sono entrati dieci anni prima di Roma? Quanto al Trentino, alla Venezia Giulia, alla parte allora irredenta del Friuli... be’, un po’ di pazienza, ché prima di loro, diventa italiana la Libia, 1911; poi l’Italia mette piede nel Corno d’Africa, nelle isole greche (pure Rodi diventerà italiana prima di quei ridotti alpini), sulla costa anatolica, persino in Cina, con una piccola concessione a Tientsin. E finalmente, nel 1919, finita la Prima guerra mondiale, con il trattato che risistema l’Europa e non solo, le ultime regioni ancora escluse diventano italiane. Quindi, i 150 anni, Trieste, un
pezzo di Friuli e il Trentino-Alto Adige, dovrebbero festeggiarli nel 2069. Un po’ ci vuole: potrebbero consolarsi festeggiandone 100, otto anni dopo che il resto del Paese ha celebrato i 150 anni. Quanto italiani sono gl’italiani diventati italiani 59 anni dopo gli altri italiani? Oddio, a voler essere pignoli, la legge che dichiara annesso il Trentino è del 26 settembre 1920, quindi ci sarebbe da aver pazienza sino al 2020 per i 100 anni (magari accordandosi con i laziali, che lo stesso anno ne festeggiano 150) e il 2070 per i 150. Tutto sommato, il presidente della Provincia di Bolzano aveva delle ragioni, nel rifiutarsi di celebrare i 150 anni; poteva celebrarne lo stesso 91, ma la riduzione avrebbe potuto estendersi al suo stipendio (più alto di quello del presidente degli Stati Uniti) e certi rischi è meglio non correrli, ricordandosi di essere di lingua-madre tedesca, come Schwarzenegger, già governatore della California (e pure lui, però, guadagnava meno del signor Durnwalder). Se Civitella del Tronto, il Lazio, il Veneto, il Trentino, mezzo Friuli, Trieste sono fuori data, a spegnere le candeline per i 150 anni del Paese avrebbe dovuto essere quel che resta del Centronord più l’ex Regno delle Due Sicilie, costrettovi da una guerra subita. Succede; è capitato ad altri Paesi. L’importante è essere uniti, anche se come una famiglia nata da uno stupro, per amore dei figli. L’Italia doveva esserci; ora c’è. E si riconosce nelle proprie istituzioni. Nell’Arma dei carabinieri, per dire, che, mentre l’Italia raggiungeva 150 anni (almeno quella parte d’Italia che era già Italia), celebrava il suo 169° compleanno, fa notare Federico Pirro in Uniti per forza. Eh, sì, l’Arma è più vecchia dell’Italia. Ma di poco. Vuoi mettere la Guardia di finanza, che di anni, nel 150°, ne compiva 235 (85 anni più anziana dell’Italia)? A voler giocare con le età, i Carabinieri hanno quella della mamma dell’Italia (19 anni, giovane, irruenta, corona turrita e tetta in fuori. Guarda tu: abbigliamento simile e, mese più,
mese meno, l’età che aveva la contessa di Castiglione, quando sacrificò il meglio di sé, per amor di Patria, nel letto di Napoleone III; per fortuna era allenata a quel genere di sofferenza... Però, questo, non lo scrivo, sennò qualcuno se ne viene fuori, riferendola al mio Paese, con la famosa battuta, Hollywood sia maledetto: «Hai vent’anni, figliuolo, è ora che tu sappia chi era tua madre»). La Finanza ha l’età della nonna o bisnonna, rispetto all’Italia: 85 anni in più. Per questo è così occhiuta, pulciara, spaccacentesimi, e ti chiede sempre quanto guadagni. Tutte queste incongruenze cronologiche si spiegano, ovvio, con il fatto che quella che si continua a chiamare unificazione dell’Italia, non fu che il progressivo ampliamento del Piemonte, con l’estensione ai possedimenti via via inglobati, delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia (poi detta borbonica, per scaricarne corruzione e inefficienza sui vinti, ma era savoiarda e dal Piemonte, specie Torino, si spedirono in tutte le nuove province funzionari, dirigenti e impiegati, norme e procedure). Mentre «non una sola istituzione militare di altri Stati, men che mai del Regno partenopeo, è stata fatta assurgere a dignità nazionale» scrive Pirro. Ai vinti viene concesso di festeggiare i vincitori, non di partecipare.
19 FUCILI PARLATI, FUCILI SPARATI
La Lega minaccia la secessione; la Sicilia può farla. Se ne accorge Franco Bechis, vicedirettore di «Libero»: scopre che se l’isola se ne va per i fatti suoi, l’Italia scende dall’automobile e va a piedi. Ogni sparata di Bossi sull’uso delle armi riempie giornali e telegiornali e si dimentica che se lui fa “pum!” con la bocca, i siciliani, per l’autonomia, spararono davvero, crearono un esercito di volontari, attaccarono le caserme dei carabinieri, tesero agguati ai militari, sostennero una battaglia campale. Il totale dei morti (ci furono carabinieri fatti prigionieri e fucilati; almeno un rivoltoso sarebbe perito sotto tortura) forse resterà ignoto: fra cento e duecento. Le forze armate italiane dovettero dislocare interi reparti nell’isola, assediarono città, compirono rastrellamenti fra la popolazione civile; ricorsero alla tortura, agli omicidi mirati; e, segretamente, a trattative con gl’insorti, per dividerli. Ci furono più che sospetti sull’intervento, con ambiguità mai chiarite, di potenze straniere come Gran Bretagna e Stati Uniti (tramite militari polacchi, giunsero armi agli autonomisti). E mentre, a gennaio del 1946, ancora si contavano i morti del conflitto mondiale, il padre di
un militare di Treviso, sottotenente Enrico Piotti, ucciso in battaglia dagl’indipendentisti, commentava incredulo ai funerali, che suo figlio, scampato al gran conflitto, era caduto in «guerra contro la Sicilia!». Poi, nella dimenticanza e banalizzazione organizzata, tutto si ridusse al bandito Giuliano e al massacro di Portella delle Ginestre (considerata la prima strage di Stato; però, secondo alcuni, più che contro il comunismo, contro l’indipendentismo siciliano). Ma allora, la vicenda era ormai alla fine. La soluzione riuscì a trovarla in tempo Alcide De Gasperi, e fu politica. Conquistarono così, i siciliani, la loro autonomia, garantita da uno statuto speciale, che è parte integrante della Costituzione italiana; e se ora dovessero renderne operativi, come dicono, poteri e possibilità, diverrebbero, di fatto, uno Stato indipendente, con conseguenze inimmaginabili, ma tutte a norma di legge; e di legge costituzionale! Bechis si limita alle conseguenze di carattere energetico. Ma è già tanto; ed è tantissimo che qualcuno cominci a pensarci: «Se qualche altra regione del Sud volesse togliere il disturbo,» scrive «è probabile che asciugatesi le lacrime con i fazzoletti di rito il resto degli italiani starebbe meglio. Dalla secessione quasi tutte le regioni del Sud avrebbero da perdere, e il resto d’Italia si troverebbe più ricco (ci sarebbe da obiettare, ma andiamo avanti; N.d.A.). Con l’addio della Sicilia sarebbe invece ben altra musica [...]. Pochi lo sanno, ma la Sicilia ha in mano le chiavi dell’auto italiana. Lì si raffina il 40 per cento della benzina e del gasolio utilizzati nel continente. Non solo: Lombardo (primo presidente autonomista della Regione Siciliana; N.d.A.) è in grado di spegnere luce, gas e riscaldamento in buona parte d’Italia. Un po’ perché lui produce energia in sovrabbondanza e il 12 per cento lo gira
alle altre Regioni. Ma soprattutto perché in Sicilia transita il più grande metanodotto marino italiano che trasporta 25 miliardi di metri cubi di gas e passa di lì pure il gasdotto libico che attualmente è chiuso per guerra» (l’articolo è stato pubblicato durante la rivolta contro il dittatore di Tripoli). Questa situazione non è solo siciliana, perché la Puglia, per dire, produce più del doppio dell’energia che consuma (ma, come non bastasse, vorrebbero regalarle pure una centrale nucleare nella più bella zona umida della regione, Torre Guaceto); e la Lucania ha i più grandi giacimenti petroliferi non sottomarini d’Europa. Ricchezza che passa sulla testa delle regioni in cui è prodotta e va quasi totalmente a beneficio altrui. Ma mentre la Sicilia può bloccare l’esproprio (tale è, poche chiacchiere) delle sue risorse, le altre regioni del Sud no, perché non hanno i poteri che lo statuto speciale riconosce all’isola. Ma cos’accadrebbe in Lucania, in Puglia (dove si scoprirono, negli anni Sessanta, i più vasti giacimenti di gas d’Europa, nel Subappennino Dauno, quaranta miliardi di metri cubi, trasferito al Nord, senza alcun vantaggio alla popolazione locale), cosa accadrebbe se vedessero la Sicilia gestire in proprio quello che loro sono costretti a cedere per niente (o quasi, nel caso del petrolio lucano; e del gas calabrese nelle acque di Crotone)? A norma di legge, la Calabria con il suo gas, la Lucania con il suo petrolio, la Puglia con il gas e il petrolio adriatico e via espandendo, potrebbero chiedere di aggregarsi, previo referendum, alla Sicilia (com’è accaduto con alcuni ricchi comuni veneti, desiderosi di diventare trentini, per essere ancora più ricchi). In tal modo, le norme dello statuto che tutelano la Sicilia si allargherebbero come un ombrello, su tutto il Sud; la cui ricchezza smetterebbe di migrare al Nord, in cambio di insulti. Oltretutto, non sarebbe che un ritorno alla propria storia: è già successo che la Sicilia,
conquistata dal Sud continentale, estendesse, poi, il suo governo al Sud continentale, con Federico II. «Non siamo così forti da dominare Roma, ma siamo tanto forti da non farci dominare da Roma» dice un principe siciliano allo zio del piccolo (allora) Nicola Zitara (Memorie di quand’ero italiano.) Figurati Milano. Il Nord, ciò avvenisse, sarebbe finalmente libero di farsi amministrare dal Trota, di studiare secondo i programmi padani della sicula sua madre, circondati dalla stima internazionale, specie scandinava, conquistata da Borghezio. Ma l’elenco dei danni, se la Sicilia si staccasse, è ancora più lungo, ché «se uscendo dalle pastoie legali e burocratiche che finora li hanno fermati, venissero realizzati i due rigassificatori previsti a Porto Empedocle e a Priolo,» continua Bechis «quasi la metà del metano consumato in Italia verrebbe dalla Sicilia. Insomma, prima di chiudere i ponti con una regione così, l’Italia dovrebbe pensarci su due volte. Lombardo ieri ha spiegato che se facesse la secessione, riscuoterebbe lui in loco quelle accise sui prodotti energetici che attualmente finiscono nelle casse del Tesoro italiano. È vero. E si tratta di dieci miliardi di euro all’anno. Una somma che compenserebbe ampiamente quel che la Sicilia verrebbe a perdere staccandosi dal resto d’Italia.» Prima di andare avanti, provate a immaginare cosa rimbomberebbe nelle orecchie degli italiani, se (tutto al contrario) dieci miliardi di euro di accise per petrolio estratto in val Padana venissero versati, ogni anno, in Sicilia; e, contemporaneamente, andassero alla Lucania proventi e tasse di giacimenti petroliferi non off-shore più grandi del continente scovati, metti, fra Asti e Vercelli, e non fra Potenza e Matera; e il gas del delta del Po provocasse disagi ed emigrazione fra Veneto ed Emilia, per arricchire la Puglia. E immaginate che un ministro siciliano, in Veneto per inaugurare qualcosa, dicesse: «Fatevele
da soli, le strade, come abbiamo fatto noi, senza chiedere niente a nessuno!». (Lo ha detto il ministro veneto Galan, in visita ai siciliani.) Infatti, i soldi del petrolio e del gas meridionali non li hanno chiesti, se li sono presi e basta! E si sono presi anche i soldi per le strade siciliane e calabresi, 3,5 miliardi di euro, con cui (devo ricordarlo ancora?), Tremonti pagò l’Ici delle prime case di lusso a tutta Italia (continuate da soli i compiti a casa per l’esercizio del muscolo democratico: immaginate se Calabria e Sicilia si fossero presi i soldi per le strade del Veneto, poi un ministro di Catanzaro avesse detto ai veneti: fatevele da soli, le strade, come abbiamo fatto noi...). E ora seguiamo Bechis: alla Sicilia, «nel bilancio provvisorio per il 2011 approvato in attesa della legge finanziaria sono previsti trasferimenti da parte dello Stato centrale per meno di 3 miliardi di euro, in gran parte legati alla spesa sanitaria. In quella somma non sono considerati però altri costi del governo centrale, che paga con fondi suoi buona parte del sistema di istruzione siciliano, così come l’ordine pubblico e la giustizia. Secondo uno studio (contestato dai siciliani) della Cgia di Mestre che ha diviso per abitante la spesa pubblica regionalizzata censita dalla Ragioneria generale dello Stato, ogni siciliano costa al resto di Italia 550 euro per la sanità, 681 euro per l’istruzione e 130 euro per ordine pubblico e giustizia. Ma anche mettendo insieme tutte queste voci, la bilancia penderebbe dalla parte dell’isola: dieci miliardi di euro di accise in entrata e 6 miliardi di euro di trasferimenti statali per sanità, istruzione e ordine pubblico a cui rinunciare. Ne avanzerebbero quattro, e sono ragione più che valida per non prendere sottogamba le parole di Lombardo». Significa che, con quel che avanzerebbe, la Sicilia potrebbe costruire un ponte sullo Stretto ogni diciotto mesi; oppure, con l’avanzo di un solo anno, comprarsi l’Alitalia. E
forse molto di più, perché non è finita, visto che «c’è spazio perfino per discutere se le accise che insistono sulle produzioni essenzialmente dell’Eni di Paolo Scaroni a Priolo, Gela, Porto Empedocle, Milazzo, Augusta, Melilli e Ragusa, debbano essere incassate tutte dalla Sicilia o parzialmente divise con il governo centrale che quegli impianti ha agevolato e in parte finanziato di tasca sua. Ma il contenzioso non sarebbe di facile soluzione: da anni è in corso già un braccio di ferro fra Sicilia e Tesoro italiano per una divisione più equa di quella torta. Perché se i finanziamenti li ha fatti lo Stato, i danni ambientali li ha sopportati la regione. Finora a compensazione sono arrivati a Palermo e dintorni qualche centinaio di milioni all’anno. Con una rottura,» avverte Bechis «l’Italia avrebbe solo da perdere.» E la Sicilia solo da guadagnare. Almeno finché si parla di soldi. Bechis non ha bisogno di spingere oltre il discorso, per dimostrare quanto dice. Ma conviene fare un passo ancora in quella direzione: con tali sopravanzi, la Sicilia potrebbe finanziarsi l’espansione industriale, producendo merci che farebbero concorrenza a quelle del Nord in loco (dove arriverebbero sui mercati a chilometri zero e non dopo 1.200 e più) e altrove, facendo fruttare la posizione centrale nel Mediterraneo; in più, come altri Paesi ex colonie, quale l’India, potrebbe puntare sulla più recente tecnologia informatica, lasciando al Nord quella del secolo scorso, su cui ancora insiste (auto, frigoriferi...): il necessario, la Sicilia ce l’ha in casa, perché alle porte di Catania c’è il più grande centro di ricerca informatica d’Italia. Il sentimento siciliano per l’autonomia non è una trovata di sfaccendati, come la Padania della Lega Nord. L’autonomia è figlia vera di storia vera della Sicilia, che non deve inventarsi una identità territoriale dai confini a geometria variabile detta Padania (mai esistita). La Sicilia («Un’isola vasta quasi come il Belgio e con una civiltà più antica di quella di
Roma» diceva Mario Scelba, potente ministro democristiano dell’Interno) divenne nazione dall’incontro-scontro delle nazioni madri d’Occidente e dell’Oriente prossimo; fu provincia dell’impero (la prima) con i Romani, dopo essere stata l’America dei Greci; Paese potente con gli Arabi e i Normanni, gli Svevi. L’isola ha passato e cultura di nazione e storia propria, integrata con quella della penisola, ma non sempre. E tutto questo è sentimento e risentimento, palese o inconsapevole, nell’animo dei siciliani. Altro che ampolle del dio Po, per una distesa territoriale che vedrebbe insieme i veneti, fieri della propria storia opposta a quella dei lombardi, i quali ebbero sorti e interessi a est e a nord, persino a sud, ma poco all’ovest dei piemontesi, le cui radici erano in Francia. Fu facile indurre i siciliani ad appoggiare l’iniziativa garibaldin-britannico-piemontese, perché aspiravano a governarsi da soli; basterebbe il piccolo elenco delle intemperanze isolane, nel solo Ottocento, riportato da Mario Spataro in I primi secessionisti, nei «moti costituzionalisti del 1812 e in quelli antinapoletani del 1820, 1824 e 1837 (c’è da aggiungere la fallita sollevazione dei messinesi del 1847, malconcertata con i reggini ; N.d.A.). Nel 1848 i siciliani, mossi dalle mai sopite aspirazioni indipendentiste e dalla ventata rivoluzionaria che percorreva l’Europa [...] allontanarono i Borbone dall’isola e offrirono la corona siciliana ad Amedeo d’Aosta che la rifiutò. Tornato nel 1849 il dominio napoletano, si ebbero le sollevazioni del 1850, 1854, 1856 e 1859». Con queste premesse, nel 1860, Garibaldi fu il cerino sulla paglia, ma la fiammata durò poco, ché i siciliani si accorsero presto di essere stati usati: persero i privilegi di cui godevano con i Borbone, il tenore di vita crollò; le tasse, che «erano meno di un terzo di quelle piemontesi», si moltiplicarono: per i sindaci che non le riscuotevano e per quelli che si dimettevano, per evitare di riscuoterle, fu sancita la condanna a morte (la soluzione per
tutto!); le casse pubbliche svuotate; fu imposta, con fucilazioni in massa e rappresaglie contro interi paesi (vedi parentesi precedente), la leva militare obbligatoria, che prima non c’era. E l’isola tornò a insorgere a soli tre mesi dallo sbarco dei Mille a Marsala, non solo a Bronte; e non solo a Bronte Nino Bixio risolse con stragi liberatrici e patriottiche (come da scorse parentesi: «Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi e altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò muoversi» riferisce Cesare Abba, in Da Quarto al Volturno ); l’isola si ribellò ancora nel 1863, nel 1866, nel 1891 e poi nel 1893-1894 con i Fasci siciliani. La storia di questa aspirazione isolana è costellata di episodi mai chiariti, che con grossolana, ma non infondata approssimazione, si possono chiamare “delitti di Stato”; a cominciare da quello di Giovanni Corrao, uno dei principali attivisti (con Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Giuseppe La Farina) che prepararono la spedizione dei Mille e poi ne fu uno dei capi. Ma quello che accadde dopo non dovette piacergli perché, generale garibaldino inquadrato nell’esercito nazionale con il grado di colonnello, si dimise e tornò in Sicilia, dove, nel 1863, fu ucciso da tre falsi carabinieri. «Mafia», si disse (fu la prima volta, pare, che la parola comparve in una indagine ufficiale). In realtà, lo avrebbero assassinato «per ordini venuti da ambienti filogovernativi piemontesi che lo accusavano di organizzare un moto separatista isolano e di minacciare l’unità della patria» riferisce Spataro (Matteo Collura, in Qualcuno ha ucciso il generale, narra la vicenda in forma romanzata). Lo scambio di favori irriferibili fra poteri dello Stato e potere criminale, allora in embrione, era cominciato (con Salvatore Giuliano accadrà qualcosa di analogo e per motivazioni analoghe. E Bernardino Verro, uno dei capi della fallita insurrezione dei Fasci siciliani, fu tolto di mezzo per mano mafiosa nel 1915, nel Corleonese, leggi in Storia della
Mafia, di S.F. Romano. Sarà che «la storia si ripete», ma così tanto?). Tre anni dopo, 1866, esplose il malumore, per la miseria (lo ammise pure il generale Raffaele Cadorna, che domò l’insurrezione alla testa di un esercito di 40.000 uomini) a cui era stata ridotta l’isola, con sistemi di tipo coloniale (ferocia, disprezzo e spoliazioni). La secessione armata fallì per poco; la flotta britannica, al largo, era pronta a intervenire per stendere sugl’insorti il protettorato di sua maestà. Fu “Il Sette e mezzo”, dal numero di giorni di vera e propria guerra che durò. Palermo fu conquistata dai ribelli, che divennero 18.000; e 35.000 nella provincia (in Sikeloi, blog sulla memoria siciliana, si può leggere quello che scrive Andrea Camilleri, in proposito). I tentativi di riconquista delle forze armate nazionali furono respinti uno dopo l’altro; nei paesi dell’interno le caserme dei carabinieri venivano espugnate e i militari passati per le armi. In quattro, a Ogliastro, dopo aver visto cosa era stato fatto ai loro commilitoni, «si suicidarono per non cadere nelle mani dei ribelli» riferisce Spataro. A Misilmeri l’episodio più atroce: ventuno carabinieri uccisi («si disse poi che i loro corpi, fatti a pezzi, erano finiti nelle macellerie»). L’arrivo della flotta e di reparti sempre più numerosi di bersaglieri, fanti e artiglieri capovolse le sorti. Le navi bombardarono Palermo, radendo al suolo i quartieri popolari (come avevano fatto a Gaeta, cinque anni prima e, ancora prima, a Genova; si trattava della stessa flotta che, quello stesso 1866, con la fuga dinanzi alla inferiore flotta austriaca, a Lissa, svergognò per sempre la nostra Marina). La repressione fu spaventosa, con esecuzioni in massa, fosse comuni. A Misilmeri, i carabinieri non si fermarono all’eliminazione dei ribelli: si concessero il ricorso allo stupro etnico sulle donne della città. La ribellione costò qualche centinaio di morti fra i militari e qualche migliaio fra
gl’insorti e la popolazione civile (circa mille fucilati solo a Palermo). Numeri più attendibili, ormai dovrebbe essere difficilissimo riuscire a recuperarne, perché scoppiò un’epidemia di colera, portata dai soldati, che fece più di 50.000 morti, forse 65.000 (le cifre divergono). Quali che fossero le cause scatenanti delle rivolte (quella dei Fasci, a fine secolo, costò altre centinaia di morti), sempre «alle questioni sociali e costituzionali» dice Spataro «si mescolarono aspirazioni indipendentiste e, talvolta, federaliste». Se Spataro è osservatore di destra (sostiene il diritto dei nazisti alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine e condanna il processo di Norimberga), il più fertile pensatore comunista, Antonio Gramsci, non dice cose diverse (e Spataro lo ricorda): «Lo strato sociale unitario è in Sicilia molto sottile: esso padroneggia a stento forze latenti demoniache che potrebbero anche essere separatiste»; mentre, per il fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo, «il separatismo fermentò sotto il fascismo» (per l’ulteriore riduzione dell’autonomia, con la soppressione di enti locali e dei poteri del Banco di Sicilia, i cui 460 milioni di lire in oro furono trasferiti alla Banca d’Italia), «e si manifestò apertamente durante l’occupazione alleata». Forse, la virulenza con cui la voglia di autonomia si ripropose, fu determinata anche dalla maggior compressione subita negli anni della dittatura (i militanti separatisti, primo movimento nato nell’Italia liberata, divennero 480.000, secondo un rapporto del ministero dell’Interno: 14 volte gl’iscritti alla Dc, quasi 20 volte quelli del Pci); e dal fatto che, per sei mesi, gli alleati tennero la Sicilia staccata dal resto del Paese, ridotto a quel Regno del Sud, con capitale Brindisi, in cui si era rifugiato re Umberto, coraggiosamente in fuga dinanzi al nemico. Questo «ebbe notevoli effetti psicologici sui siciliani che si resero conto, come era solito dire lo storico catanese Sandro Attanasio, di potere “vivere senza Italia”»
scrive Spataro. Per qualche tempo, poi, agli abitanti dell’isola si richiese il visto di polizia per passare lo Stretto (umiliazione a parte, quel visto sapeva di passaporto, di “espatrio”...). Il potere post-fascista, in Sicilia, fu separatista (si professò autonomismo da destra a sinistra e fiorirono progetti, dalla restaurazione monarchica con i Borbone, alla costituzione di una repubblica socialista): quasi tutti i sindaci erano separatisti e separatista fu la mafia (fino a che non divenne chiaro che conveniva diventare democristiani). Circa le mire straniere sull’isola, quelle britanniche erano figlie di secolari e inappagati desideri e coincidenze contemporanee (per chi ci crede...): capo dell’indipendentismo siciliano era l’anglofono e anglofilo Andrea Finocchiato Aprile (io sono pugliese, solo Aprile, nessuna parentela), con solide amicizie nella diplomazia inglese, specie con lord James Rennell Rodd (di cui fu spesso ospite), il cui figlio Francis divenne responsabile del governo alleato provvisorio in Sicilia; apparteneva ai servizi segreti britannici il professor Antonio Canepa, capo dell’Evis, l’esercito indipendentista siciliano, poi ucciso a un posto di blocco dai carabinieri; fu persino teorizzata la possibile adesione dell’isola al Commonwealth, il mercato comune britannico. Mentre gli statunitensi usarono mafia e separatisti (non sempre c’era distinzione fra l’una e gli altri) in funzione anticomunista: il capo dei servizi civili, Charles Poletti aveva il boss italoamericano Vito Genovese quale primo collaboratore e quello della mafia locale, don Calogero Vizzini, per assiduo frequentatore («Quest’isola potrebbe essere considerata casa nostra» scrisse Eisenhower in un suo rapporto, secondo quanto riportato in I primi secessionisti; e più avanti si vagheggiò di annessione agli Stati Uniti, una nuova “stella” della bandiera, la quarantanovesima). Come dire che, ogni volta che la Sicilia si è pensata sul punto di andarsene da sola, c’è sempre stato chi era pronto ad
aiutarla, per prendersela. Detto diversamente: parrebbe destino dell’isola consegnarsi a qualcuno, per liberarsi di qualche altro. «L’esperienza di tante tirannidi ci ha fatto finalmente capire questa grande verità» scrisse Antonio Canepa in La Sicilia ai siciliani: «Tutte le volte che la Sicilia è stata indipendente, tutte le volte che si è governata da sé, è stata anche forte, ricca e felice. Invece, tutte le volte che abbiamo dovuto obbedire ai padroni venuti dal continente, siamo stati deboli, poveri e disprezzati». Continuo a seguire la ricostruzione di queste vicende fatta da Spataro, perché ne conobbe diversi protagonisti (a partire da Finocchiaro Aprile) e le visse in famiglia: il padre «ebbe la casa piantonata e fu pedinato per settimane, sino a quando, disgustato, non si rivolse al poliziotto pedinatore pregandolo di reggergli la borsa e l’ombrello». Quando i siciliani videro il sogno separatista annegare nella rinascente Italia, la delusione sfociò in proteste, violenza e un progetto di conquista armata dell’indipendenza; a cominciare dal 1944, ci furono attacchi a uffici pubblici, diversi paesi vennero “espugnati” e retti da comitati rivoluzionari. L’esercito inviò interi reggimenti, «con minacce di bombardare gli abitati» scrive Spataro. «Non è mai stato fatto il conto esatto dei caduti di una parte e dell’altra.» L’episodio più grave si ebbe a Palermo, dove i soldati spararono sulla folla lanciata all’assalto della Prefettura. Le vittime, secondo i diversi conteggi, vanno da una ventina (e oltre cento feriti) a quasi cinque volte tanto (se ne vietarono persino i funerali). L’intera isola era insorta; nacquero effimere repubbliche comunali, poi riconquistate dall’esercito italiano, anche con intervento di artiglieria e carri armati. Fra gli scontri più duri, con morti e feriti, quelli di Catania, Palma di Montechiaro, Vizzini, Piazza Armerina, Ragusa (particolarmente feroce la repressione), Palazzolo (20 morti, 70 feriti), Comiso (35 morti e
150 feriti, fra ribelli e militari: la battaglia finì, quando l’esercito minacciò di bombardare la città a tappeto). E, come dopo il 1860, fuorilegge e indipendentisti armati finirono per incontrarsi: i primi furono promossi guerriglieri, i secondi ebbero a disposizione formazioni esperte, già padrone del territorio. La figura di Salvatore Giuliano prevalse su tutti e oscurò la vasta e complessa scena alle sue spalle, perché l’alleanza dei combattenti indipendentisti dell’Evis si estese a molti fuorilegge e loro bande (Rindone, Avila, Rizzo, Cucchiara, Terranova, Madonia, Ferreri, Passatempo, Badalamenti, Zito, Candela, Labruzzo, Mazzola, Genovese, Cucinella, Di Lorenzo, Vitale. Mentre «nessun accordo si ebbe coi banditi Dottore e Molano», riferisce Spataro, perché “comunisti”). I soldati dell’Evis segnalavano la natura politico-irredentista della loro azione in armi, rispettando le norme internazionali, e in particolare la «seconda conferenza internazionale dell’Aja (15 giugno-31 ottobre 1907) che ammetteva, sì, che la guerra potesse essere condotta dai civili, a condizione, però: a) che avessero alla loro testa un comandante responsabile; b) che portassero una uniforme o un segno ben riconoscibile a distanza (i combattenti dell’Evis avevano divisa cachi, con fazzoletto rosso e giallo; N.d.A.); c) che portassero apertamente le armi; d) che si attenessero alle leggi e agli usi di guerra». Raccontano che fra militari dell’Evis e la banda Avila, per dire, si arrivò a un passo dallo scontro armato, quando, gennaio 1946, i fuorilegge giustiziarono otto carabinieri fatti prigionieri e affidati a loro, in attesa dello sviluppo delle trattative per lo scambio con dei volontari detenuti (e lì terminò la collaborazione con gli Avila). Le armi degli insorti erano sottratte ai militari italiani, ma non solo: c’erano mitragliatrici (alcune potentissime), fucili, pistole, bombe a mano, in dotazione alle forze armate americane, tedesche, britanniche.
Sulla provenienza di armi e uniformi «si seppe, in seguito, che la polizia aveva accertato illeciti traffici con una potenza straniera alleata dell’Italia». Uno degli arrestati confessò di averne «ottenute da ufficiali dell’esercito polacco di stanza in Italia». Però, «la strana ma costante collaborazione fra l’Evis e i militari polacchi non è mai stata chiarita da alcuna inchiesta». Con la morte di Antonio Canepa, capo dell’esercito indipendentista divenne Concetto Gallo (adottò il nome di battaglia di Canepa, “Turri”, ma “Secondo”: come l’Uomo Ombra e Zorro, un nome immortale per più mortali); al suo arresto, gli successe Nino Velis (non “Terzo” Turri, perché “Secondo” era prigioniero, ma vivo), che abbandonò la tattica degli scontri aperti e accampamenti fortificati e adottò quella di guerriglia, in cui si rivelò capacissimo Salvatore Giuliano: caserme, polveriere, reparti militari erano attaccati all’improvviso; ottenuto il risultato (uccisioni, distruzione, catture), ci si dileguava. Fu Gallo ad arruolare Giuliano, raggiungendolo nella sua clandestinità, da latitante a latitante. Nelle memorie dettate, poi, a Enzo Magrì, dell’«Europeo», Gallo riferì di quell’unico incontro: «Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’Unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la FlorioRubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva quattrocento operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani.” Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci
hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.» Quando si lasciarono, Giuliano, commosso, promise: «Chi tocca a vossia, mori». Morì prima lui, mentre Concetto Gallo uscì vivo dall’unica battaglia campale fra l’esercito italiano e quello indipendentista siciliano. Alcune operazioni (dall’assalto al treno alla conquista di intere cittadine), suscitarono scalpore: la Montelepre di Giuliano fu presa dopo una notte di combattimenti per le strade e i militari italiani in fuga all’alba, che lasciavano alle loro spalle mezzi e autoblindo in fiamme e non si sa quanti caduti. Arrivati i rinforzi (dal continente continuavano a giungere reparti di fanteria, artiglieria, persino dell’aviazione e la Folgore, la Garibaldi, gli Alpini) si combatté molte ore per espugnare l’altura su cui si era rifugiato Giuliano con i suoi. Ma quando la postazione fu presa, vi trovarono solo un cartello: «Ccà nisciuno è fesso». Si era creata una situazione che oggi ci è difficile comprendere; ma pure allora, un Paese appena uscito da un ferocissimo conflitto mondiale non capiva la Sicilia, e la Sicilia era sostanzialmente disinteressata a quel che avveniva “in Italia”. Solo il genio politico di Alcide De Gasperi sbrogliò, poi, il groviglio che pareva irrisolvibile. La reazione militare ai crescenti successi dei secessionisti fu durissima, come si evince da una serie di reportage giornalistici, testimonianze e libri su quei fatti: «lo Stato italiano fece ricorso all’arresto dei familiari dei latitanti e all’occupazione delle loro case, trasformate in dormitori per la truppa autorizzata a “prelevare” denaro, vettovaglie, mobili e suppellettili»; «le campagne erano paralizzate»; «migliaia di persone sono costrette a vivere segregate e asserragliate subendo intimidazioni, ingiurie, prepotenze dei militari che pattugliano i paesi e che hanno collocato nei punti strategici cannoni leggeri, mitragliatrici, mezzi corazzati»; «Stefano Mannino, che fu sindaco di Montelepre in quegli anni, fornisce una serie di impressionanti testimonianze sui sistemi adottati, come il concentramento in
piazza dell’intera popolazione in catene per tutta la giornata»; «a Palermo si contarono sino a 2.400 persone detenute in attesa di interrogatorio»; «gli uomini, compresi gli invalidi, i vecchi e gli ammalati, furono strappati dalle abitazioni, legati in lunghe funate e trascinati nei luoghi di raccolta per gli interrogatori [...] giacevano per terra, senza cibo né acqua»; «la tortura era prassi ordinaria [...], colpi scientificamente applicati alle reni o alle piante dei piedi, le diete d’acqua e sale, le scariche elettriche, la torsione dei testicoli e il letto di contenzione [...]. Un tizio si sfogava mordendo lo scroto agli arrestati, un altro dirigeva gli interrogatori ordinando ai subalterni: “Stringigli i coglioni! Ficcagli la bottiglia nel culo! Pisciagli in faccia!”»; «un metodo in voga a Palermo, e riservato ai detenuti “di buona famiglia”, era quello degli scarafaggi in bocca»... Ma dietro la ferocia, agiva la politica; De Gasperi riuscì a indurre a un accordo segreto i capi del movimento indipendentista, confinati nell’isola di Ponza: in cambio della fine della guerra civile e dello scioglimento delle formazioni militari, la Sicilia avrebbe avuto un’ampia autonomia, garantita da uno statuto speciale, l’amnistia per i reati politici. Alle elezioni per la Costituente, appena due settimane dopo la concessione dell’autonomia, il Mis, movimento indipendentista siciliano, apparve ormai inutile, prese meno del 10 per cento dei voti, e continuò a calare, sino a esser dimenticato. De Gasperi aveva vinto, dove le armi non erano riuscite; la Sicilia era nuovamente “italiana”, tanto che si parlò di “seconda annessione”. Senza il grande statista trentino (terra di confine, contigua a una minoranza linguistica: forse questo lo rese più adatto a comprendere), c’è da chiedersi se la Sicilia non sarebbe divenuta qualcosa di simile a quello che l’Irlanda è stata per la Gran Bretagna. Questa epopea, nella memoria comune, si riduce al ruspante fascino di Salvatore
Giuliano; del quale si può dire che ebbe un percorso, nella sintesi, pari a quello di Carmine Crocco Donatelli, il più grande condottiero della rivolta meridionale all’invasione sabauda del Sud, dopo “lu Sissanta” (il 1860): cominciò come brigante, divenne “partigiano”, ritornò brigante e basta (quasi, nel caso di Giuliano). Nel rispetto della tradizione nazionale, il re di Montelepre morì senza farci sapere come (alle versioni ufficiali, in questo Paese, non crede più nessuno; neppure chi le propala si aspetta ci si creda: si comprano case ai ministri, a insaputa dei medesimi; e noti puttanieri sostengono, senza ridere né arrossire, di riempire di soldi una puttana, per non farle più fare quel mestiere); e chiunque potesse metterci sulla buona strada, ci fece la cortesia di “farsi morire” prima che gli scappasse una parola di troppo: a uno faceva male il caffè, a un altro il piombo... Ci sono rimasti tanti bei soggetti per il cinema e domande, domande. Tutto sembra finito, anche a guardare a cosa sono ridotti quei furori indipendentisti di massa del post-fascismo che aggiunsero una guerra a una che stava finendo: dopo sessantun anni, nel 2004, il Mis è risorto, ma senza progetti bellici. Nel 1943 generò Evis, l’esercito dei volontari separatisti (come l’Ira, per l’Irlanda, l’Eta per i baschi) e Gris, giovani rivoluzionari indipendentisti, armati pure loro. Oggi l’Evis esiste ancora, ma al momento non impensierisce per la potenza di fuoco, nemmeno verbale. Di area progressista il Fns, fronte nazionale siciliano, nato nel 1964 (edita un giornale, «Sicilia Nazione»); con il Mis, è per l’autodeterminazione dell’isola, ma non esclude un federalismo spinto; dopo vent’anni, dal Fns, per gemmazione, è sorto Terra e Liberazione, di orientamento marxista ma pragmatico (si è alleato con l’Mpa, movimento per l’autonomia che ha conquistato il governo della Regione, con Raffaele Lombardo). L’Altra Sicilia-Antudo (sigla che richiama un motto dei Vespri siciliani: Animus Tuus Dominus, il coraggio è il tuo signore), molto
combattiva, ha sede a Bruxelles, dove edita un giornale, «l’Isola», e ha un comprensibile sguardo particolare per i siciliani all’estero; poi: Partito del popolo siciliano; Lsg-Gis, Lega giovanile separatista-Giovani indipendentisti siciliani; Fasg, Fronte azione siciliano giovanile; Comitato giovanile indipendentista e altri gruppi, sempre più piccoli, sino a quelli che si identificano con il loro creatore. «C’è uno,» racconta Nino Sala, del Partito tradizionalista siciliano «che negli incontri comuni, quando si inizia a parlare di questioni che riguardano tutto il Sud e non la sola Sicilia, si alza e abbandona la riunione: “Noi ce ne andiamo”. “Noi, chi?” “Io” dice, e pronuncia la sigla del suo, ma proprio solo suo, partito.» La sorella ultrasettantenne del comico Franco Franchi, sicilianista sfrenata e simpaticissima, interviene a sostegno di ogni manifestazione dei gruppi isolani e distribuisce, come santini, le foto del fu fratello. Suonano folcloristiche queste noticine? Eppure sono spia di qualcosa di grande e forte, a cui il Paese non presta attenzione, perché il Sud è perdita di tempo, interessa poco... Be’, la cosa grande e forte è questa: ormai, la politica, in Sicilia (avviene lo stesso pure altrove, al Sud, ma con altre dimensioni e velocità) non è più possibile, se non sicilianizzata. E non è la stessa cosa della Lega Nord, banale fascismo camuffato da localismo, come insegna (c’è il video su YouTube) Borghezio ai camerati francesi. Quello che accade in Sicilia non è un moto razzista che si inventa una identità per poter declassare le altre: non ha bisogno di contrapporsi a quelle, per esistere; l’identità siciliana basta a sé, esiste da sola (non può sfociare in razzismo, perché c’è e ci sarebbe anche se le altre non ci fossero); e tanto è forte, radicata, che dovunque la butti, nel mondo, attecchisce restando se stessa: avete notizia di qualche comunità “padana” in Australia, in Canada, in Argentina? Veneta, magari (e ti credo!), piemontese, friulana, persino “lombarda”, anche se più facilmente la trovereste
bergamasca, valtellinese, che non “lombarda”; ma “padana” proprio no (è un inganno ottico, prodotto da magliari a uso degl’ingenui di paese, per la fiera dello stracchino; è come un’ombra sulla coscienza e le paure dei bambini: vivono solo al buio, anche quello della mente, e spariscono con la luce). E non vi dice nulla questa risorgiva identitaria così potente in Sicilia? Ci vollero una quasi guerra e il riconoscimento di una condizione di privilegio unica all’interno dello Stato, per sopire la pulsione separatista che stava staccando l’isola dall’Italia. Dopo, però, i partiti siciliani furono gli stessi che nel resto del Paese: nazionali. Perché «cominciarono ad intervenire brutalmente nelle questioni siciliane le segreterie nazionali dei partiti» scriveva nel 1970, in La Nazione Siciliana, Mario Moncada, dirigente della Olivetti (marketing) a Ivrea, ed erede di una dinastia che aveva dato all’isola tre vicerè. «Gli interessi della Sicilia furono subordinati agli interessi dei partiti e secoli di attesa andarono e vanno delusi.» La Sicilia era parte integrante del Paese, perché le divisioni del potere nazionale continuavano nell’isola e le divisioni del potere siciliano seguivano quelle del potere nazionale. Nel 1980, un meticoloso studio di Giuseppe Mignemi, La Questione siciliana, documentava il saccheggio dell’isola da parte dello Stato italiano, ma soprattutto le gravi violazioni degli obblighi imposti dal Trattato di pace che mise fine alla Seconda guerra mondiale: Sicilia e Sardegna dovevano essere smilitarizzate (ma vi si impiantarono basi americane a Sigonella e La Maddalena). Se l’isola fosse diventata davvero autonoma, gli obblighi derivanti all’Italia dal Trattato sarebbero decaduti. La Sicilia, quale “popolo giovane e neoindipendente”, a norma della Carta delle Nazioni Unite, approvata anche dall’Unione Sovietica, avrebbe potuto armarsi e diventare una Cuba statunitense nel Mediterraneo. Fu pure inviato un rapporto all’ONU, in questo senso.
E guardate ora, dopo più di sessant’anni: la regione amministrata da un movimento autonomista, con una selva di sigle che lo sostiene e maggioranza garantita da formazioni locali di partiti nazionali (come Udc e Pd). Il contrario di quello che De Gasperi aveva ottenuto: dare alla Sicilia lo statuto dell’autonomia, senza darle autonomia. Lo statuto concede poteri enormi al presidente e al parlamento della Sicilia, ma è rimasto inapplicato quasi del tutto. «Perché, invece, alla Catalogna, al Sud Tirolo l’autonomia ha reso tantissimo e alla Sicilia no?» mi chiede il presidente Raffaele Lombardo; e, per fortuna, mi dà anche la risposta: «Perché è sempre mancata una nostra rappresentanza politica autonomista forte: quando la carriera delle classi dirigenti locali dipende da quelle nazionali, il dirigente locale è in conflitto di interessi». Se il potere locale fa prevalere gli interessi di quello nazionale (o di chi quel potere muove) viene aiutato a crescere. Chi conduce il gioco è il Nord, con la sua economia assistita dallo Stato. «Così, al dirigente meridionale si permette qualsiasi misfatto, se garantisce consenso allo Stato e ai partiti nazionali. E gli si danno risorse, assistenza da gestire, per incrementare il proprio potere» dice Lombardo. Sai come devi comportarti, se da consigliere regionale vuoi diventare deputato nazionale, da presidente di Regione, ministro o capo del governo. «Ma io sono un autonomista» continua Lombardo «e guidare la mia Regione è il massimo cui aspiravo. Per questo non ho accettato di fare il ministro e posso pretendere l’applicazione integrale dello statuto, che può darci l’autosufficienza economica e il governo del nostro destino.» Al ministro Galan che diceva ai siciliani di farsi le strade da soli, Lombardo, ha replicato che lo facevano già 2.500 anni fa, quando “loro”, i galan..i, scavavano radici per poter mangiare (testuale). E torneranno a far da soli con
l’indipendenza della Sicilia. Lo statuto consente al governo dell’isola di legiferare quasi su tutto (e, in diversi campi, in modo esclusivo): agricoltura, foreste, bonifiche, industria e commercio, urbanistica, lavori pubblici, miniere, saline, acque pubbliche, pesca, turismo, antichità e opere d’arte, regime degli enti locali, istruzione elementare, media e universitaria, espropri, comunicazioni e trasporti, sanità, disciplina del credito, legislazione sociale e altro ancora. Alcuni poteri possono avere effetti difficilmente valutabili. Che ne dite di: «La Regione ha diritto di partecipare con un suo rappresentante, nominato dal governo regionale, alla formazione delle tariffe ferroviarie dello Stato e alla istituzione e regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi e aerei, che possano comunque interessare la Regione»? A volerla usare come zeppa contro le scellerate azioni del signor Moretti (e di quanti altri come lui), disgraziatamente amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato del Centro-Nord, con i soldi pure del Sud... Oppure: il presidente della Regione siciliana, «col rango di ministro partecipa al Consiglio dei ministri, con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione». Quante volte credete che questo avvenga? Così, ora, «sistematicamente invaliderò le riunioni a cui non mi invitano» assicura Lombardo. E quando hanno cercato di sottrarre poteri alla Regione (per esempio sulle autostrade), lui ha fatto ricorsi e ha vinto un po’ troppo spesso... «Ormai è il mio vero lavoro: ricorsi al Tribunale amministrativo, alla Corte Costituzionale. E il governo reagisce, come sempre reagisce il centro, quando la periferia si affranca.» Per lo statuto, ma solo sulla carta, il presidente della Regione è il capo della polizia, dei
cui funzionari può chiedere la rimozione o il trasferimento (un potere rimasto sulla carta: «Si teme che, in sede locale, si possano fare accordi con la mafia. Perché quelli del potere centrale non ne hanno fatti?»); può pure chiedere l’intervento delle forze armate. Quanto ai poteri sull’economia (esclusivo su risorse proprie, compartecipazione alla ricchezza prodotta da aziende esterne su suolo isolano), si è già visto cosa accadrebbe se fossero integralmente usati. «Il nostro bilancio vale 16 miliardi di euro; con i soldi del petrolio e il resto, già ci siamo. A quel punto, altro che le tasse di Tremonti! Perché non dovrei abbassarle al 12 per cento, come Malta, che non sa più dove espandersi (magari in Tunisia), per i benefici che ne gode? Noi, a differenza delle altre regioni, abbiamo le risorse. Che non vanno a beneficio dei siciliani, i quali, come tutti i meridionali, sono solo mercato della grande distribuzione. La nostra isola era autosufficiente ed esportava alimenti in tutto il mondo, oggi ne produce per 4 miliardi di euro, ne esporta per 2, e ne consuma per 9! Il grano è prodotto in Sicilia a 18 centesimi al chilo, ma megamulini, costruiti pure con finanziamenti della Regione (grazie ai partiti che, per governare, tradiscono l’autonomia) macinano megaquantità di quello spagnolo, egiziano, kazako, messicano, presi a 11 centesimi. Il pane lo si vende a 3 euro, e persino a 5, 6. Un guadagno strepitoso, per questi dei megamulini, come il pugliese Casillo, che è stato pure in galera, per aver trattato grani contaminati. Con un mercato così, i nostri coltivatori di grano, ulivo, vite, produttori di frutta secca chiudono i battenti.» Ascolto Lombardo nella sede romana del suo Mpa, il Movimento per l’autonomia che progetta di sciogliere, per farlo confluire in una sorta di confederazione di partiti e movimenti del Sud, di cui mi offre di divenire punto di riferimento. Lo ringrazio, ma credo che la voce di un solitario possa essere più facilmente riconoscibile libera.
«Loro pensavano che avrei garantito lo statu quo...» mormora. Non gli faccio domande su quel “loro”, credo siano inutili. E comincia a enumerare le azioni che hanno smosso un ordine distorto, ma comodo a molti: «Adesso investiamo nella filiera che garantisca chi produce e chi acquista alimenti: pane, formaggi freschi, vino da tavola, latte fresco, per cominciare, disturbando un sistema che permette mille speculazioni e altissimi guadagni. Smantellarlo significa scatenare reazioni furibonde. Vorrebbero che costruissimo termovalorizzatori per 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti. Ma con la raccolta differenziata, e si può fare, presto e bene, non arriveremo a 1,1 milioni di tonnellate, perché pagare per 2,7? Eppure, il ministro per l’Ambiente, la Prestigiacomo, favorevole ai termovalorizzatori, tiene fermo il nostro più economico ed ecologico piano per lo smaltimento rifiuti (lo scontro fra i due, entrambi siliciani, ha raggiunto, non solo su questo tema, tutti i toni raggiungibili, prima dell’eliminazione fisica o politica dell’altro; N.d.A.). Siamo stati criticatissimi, per l’assunzione, a tempo indeterminato, di 4.500 precari; i quali, però, non guadagnano un euro più di prima, hanno soltanto smesso di essere precari. E si sono dimenticati di aggiungere che la spesa corrente della Regione è, nonostante questo, scesa a quella di dieci anni fa. Da Catania a Palermo, 180 chilometri, ci vogliono quattro ore e mezzo di treno e bisogna spendere due miliardi per ridurre il tempo a un po’ meno della metà. Lo stiamo facendo, ma ce lo dobbiamo pagare da soli e abbiamo già impegnato i primi 180 milioni. È passata la legge per l’insegnamento a scuola di storia e cultura siciliana». Ricordo con quale orgoglio me ne parlava, in un incontro a Marsala, l’assessore regionale all’Istruzione, il professor Mario Centorrino, ordinario di Politica economica all’Università di Messina, docente per passione e vocazione («Le scuole sono una delle poche cose normali della Sicilia. Alle 8.30 i ragazzi entrano, alle 13.30 escono. E sappiamo
già che domani saranno qui. Questi ragazzi sono il vero oro nero dell’isola» diceva. Eravamo in un liceo). Lombardo continua a elencare «cose fatte», mentre corregge testi, disfa e rifà organigrammi al telefono; chiede alla segretaria (di Verona, se ricordo bene) se il programma informatico usato per i manifesti che mi mostra consente di apportare modifiche; spiega, al figlio con stoffa da affarista, che non può comprare dallo zio la macchina usata, tirando così sul prezzo. Sui giornali ci sono gli articoli sulle tensioni, nella Procura di Catania, circa l’inchiesta che lo riguarda, per il presunto appoggio elettorale della mafia. Che lui nega, citando le scelte sulla gestione della sanità siciliana (affidata, con risultati straordinari, all’indiscutibile magistrato Massimo Russo), sul piano energetico, con la soppressione di un appalto miliardario in euro (poco più tardi, la Direzione investigativa antimafia sequestrerà beni per un miliardo e mezzo di euro, la maggiore operazione di sempre, all’imprenditore Vito Nicastri, “re del vento”, per gl’investimenti nell’energia eolica, ritenuto prestanome del nuovo capo dei capi della mafia, Matteo Messina Denaro). Secondo Gioacchino Genchi, il superperito informatico di Luigi De Magistris, una trappola micidiale è stata tesa a Lombardo. Troppo complicato per uno come me, che non piglia pace, perché da sei giorni non trovo il tempo di pagare una cartella Equitalia in scadenza fra due mesi. E come campa lui, con quei macigni addosso? Non ha mai avuto la maggioranza, ma continua a cambiare governi regionali, sostenendoli con i voti degli altri; la prima volta che lo incontrai (qualche avvisaglia seria gli era già arrivata), mi disse che non avrebbe mai pensato si potesse vivere così male: mi parve determinato ma oppresso. Ora che la situazione è peggiore, appare quasi indifferente, come se tutto fosse già successo, di qualunque cosa si tratti; o lui
avesse deciso di accettarlo. E questo, paradossalmente, lo avrebbe alleggerito, liberato dalla condizione dell’attesa, di chi non sa quanto tempo resta per fare le cose. Una indiretta conferma, credo di trovarla in quel che dice, mentre stiamo per salutarci: «Era delle mie parti Antonio Canepa, il primo capo dell’esercito indipendentista siciliano: fra qualche giorno sarà l’anniversario della sua morte (il 17 giugno 1945, in un conflitto a fuoco a un posto di blocco; N.d.A.). Mi vogliono uccidere... moralmente... civilmente... come Canepa». Ma lo dice come se parlasse di un altro. È un’anomalia, Lombardo: la Sicilia, conquistata l’autonomia, per circa sessant’anni, ha visto la sua riuscita di potere a Roma, spendendo fuori dell’isola il consenso conquistato nell’isola. Lui ha avvertito prima degli altri che il sentimento identitario antico e forte (in lui stesso molto radicato: Catania è stata la culla dell’indipendentismo) tornava a prevalere; e ha deciso di rappresentarlo. Ma Lombardo è solo la parte più visibile dell’anomalia, perché chiunque voglia mutare gli assetti del governo regionale, ormai, deve cambiare nome e proclami, darsi un vestito isolano, meridionale, come il raccogliticcio Noi Sud di migranti professionali della politica, o Forza del Sud, di Gianfranco Miccichè, che nasce, secondo gli annunci, per sostenere il Mezzogiorno e il governo nazionale di centrodestra: ma Miccichè da sempre sostiene il governo di centrodestra e ne fa pure parte, avendo avuto proprio la delega per il Mezzogiorno e poi, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, quella del Cipe, il comitato interministeriale che quando, vedi ultime due assegnazioni per 30 miliardi di euro, distribuisce i soldi in Italia, divide il bottino in 100 quote e ne dà una al Sud e 99 al Nord, o Centro-Nord. Vuol dire che, per fare una cosa nuova, e persino per continuare a fare quello che si faceva prima, bisogna presentarsi meridionalizzati.
O si perde. Poco più di sessant’anni fa, questo succedeva solo in Sicilia; oggi accade di nuovo nell’isola, e senza armi, ma non più solo nell’isola. Perché? Cosa è cambiato? O cosa non è cambiato e, anzi peggiorato, perché questo avvenisse? Proviamo a chiederlo ai pensatori abituati a concludere ogni loro “analisi” dicendo che «Il Sud deve fare autocritica»: c’è qualche altro (pensatori inclusi) che ha bisogno di un esamino di coscienza? Sempre che ne resti il tempo, ormai, perché, mentre si blatera dell’indipendenza di un paese mai esistito (la Padania), la Sicilia, che ha l’autonomismo nella sua storia e nel sangue, torna a fare sul serio. E a me un brivido è venuto, quando ho letto degl’indipendentisti dell’Evis, la cui preoccupazione non era morire, ma «morire bene».
20 ELOGIO DELLA “RESTANZA”
«A Riace» dice Giovanni Marroccio, sindaco di Acquaformosa (paese di origine albanese, nel Cosentino) «mi ha incantato la piazza dove bambini curdi, palestinesi, eritrei, iracheni, iraniani giocavano insieme.» I ragazzi di “Io resto in Calabria” mi hanno invitato a Reggio, per coordinare l’incontro fra protagonisti di esperienze difficili, belle e differenti, nella regione. Marroccio è il primo a raccontare. «Chi troppo frettolosamente continua a parlare di un Sud lamentoso, compromesso e rinunciatario dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale» scrive, in Terronismo (una risposta al mio Terroni), Marco Demarco, direttore del «Corriere del Mezzogiorno», edizione meridionale del «Corriere della Sera». E parla delle centinaia di migliaia di giovani laureati meridionali che vanno via, a cercare la propria realizzazione altrove, insofferenti per i ritardi, le insufficienze, le compromissioni del Sud. Ma, laurea a parte o persino inclusa, è da circa centotrent’anni che il Sud produce questo «straordinario fenomeno sociale» e le cose non sono migliorate: se non son bastati dai 13 ai
20 milioni di fuggitivi, il dubbio dovremmo farcelo venire: e se fosse il contrario la soluzione? Per esempio la scelta di “Io resto in Calabria” (e non solo)? Nella sessione affidatami si va dal fondatore di una minuscola cooperativa fra disoccupati che si inventano un lavoro (piccolo, è quasi un insulto chiamarlo lavoro, ma lavoro), al rappresentante della multinazionale che gestisce il porto di Gioia Tauro. Qui sono una dozzina, a raccontarsi; nelle sale accanto altre decine; negli stand, fuori, ne incontri ancora; nell’anfiteatro del Consiglio regionale sono centinaia i giovani e no che hanno qualcosa da dire o soltanto voglia di ascoltare, esserci, farsi vedere lì; e sono un migliaio nell’area occupata da questo festoso raduno di calabresi indomiti. E quanto indomiti, lo capirò poi, a Messina, dove riferisco del mio stupore e l’ammirazione per quel che avviene nella regione più negletta e diffamata. Narravo delle cose coraggiose fatte e riferite nei pubblici interventi; del sindaco di Isola Capo Rizzuto (un grumo di oppressione mafiosa), Carolina Girasole: donna, giovane, piccolina che, mentre un fremito corre nell’anfiteatro, parla di doveri, regole, diritti, dignità, coraggio, senza un cedimento nella voce e nel tono. Altro che banalità del male, questo donnino scatenava a palle incatenate il terribile potere della normalità delle norme: civili, legali, democratiche. Infastidita solo verso la fine da un... trasudamento oculare che rimuove con gesto veloce, quasi irritato, senza abbassare lo sguardo. Lei e gli altri sapevano bene cosa stava accadendo, lì. «A Reggio sei segnalato subito,» dice un mio interlocutore messinese che molto sa e molto si dà da fare; e il termine spiega tanto «appena impugni il microfono, sei già segnalato. Tutto viene segnalato a Reggio.» E ne hanno da segnalare, nel giorno della Calabria migliore, il Calabria-day. Quel sindaco donna, professionista e tosta, un paio di mesi dopo, a Isola Capo Rizzuto, con la
cooperativa che ha preso in gestione un terreno sequestrato al potente clan degli Arena, partecipa, assieme al prefetto e al questore, al pubblico rito della trebbiatura. Gesto antico, che rimanda a quello fondante delle nuove città (la trebbiatrice l’ha fornita un giovane imprenditore locale; per capire cosa significhi: l’anno prima, avevano dovuto provvedere prefetto e Corpo Forestale, perché nessuno osò aiutare chi traeva orzo dalla terra del boss, a onta del boss. E a raccoglierlo, c’erano anche il sindaco e don Ciotti). C’è una rifondazione sociale in atto, in molte parti del Sud, nel disinteresse del Paese “che conta” (magari i soldi della mafia, a volte): ci andrebbero il Trota, la signorina Minetti, a spaccarsi la schiena su un fondo tolto alla ’ndrangheta, nella speranza di pochi euro, magari con una laurea in tasca, sapendo che già l’esser presenti, su quella terra, è una plateale umiliazione del permalosissimo potere criminale che pretende di dominare sulle vite di tutti? Spendendovi le proprie ferie, ad affiancare questi coraggiosi ragazzi, vanno a fare “campi estivi” (cioè a lavorare), giovani quasi esclusivamente del Nord, ugualmente legati all’associazione Libera, di don Ciotti. Così, con il coraggio e il sacrificio dei migliori, si recuperano alla legalità strutture, edifici, aziende nate sul sangue e la sofferenza degli onesti. L’Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga. Mentre noi, al Calabria-day, ascoltiamo il sindaco di Acquaformosa che parla di Riace e di quanto quell’esperienza lo abbia colpito, rimbombano, nel continente, apocalittiche minacce del ministro leghista dell’Interno, Roberto Maroni: dice che l’Italia potrebbe uscire dall’Unione Europea, perché gli altri Paesi cattivoni ci hanno... “rimasti” soli nell’emergenza (tanto imprevista, che lui l’annunciava da settimane) di ventimila profughi sbarcati a Lampedusa (la Germania ne accolse centomila dai Balcani e non dette fastidio a nessuno). Il sindaco di Acquaformosa, invece, ha seguito l’esempio di Riace: ha aperto le
porte ai profughi. «È nato un bimbo, quest’anno, al mio paese. Lo hanno chiamato Giovanni, come il sindaco...: è nero, figlio di una coppia di nigeriani. Le donne di Acquaformosa si informavano: quando nasce, serve niente?» L’Italia ha più di ottomila Comuni, incluso metropoli quali Napoli, Milano, Roma, Torino... Se ognuno di questi avesse accolto due profughi, Lampedusa sarebbe stata svuotata in un giorno. Due, a Roma, a Milano! C’è un italiano nel mondo, per ogni italiano in Italia (60 milioni altrove, 60 qua): un Paese con questa storia non ha saputo accogliere, in “emergenza”, due profughi a Milano, a Bari o a Udine. Riace ha 1.970 abitanti, poco meno di 300 sono extracomunitari integrati (provenienti da Ghana, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mauritania, Costa D’Avorio, Kurdistan, Bangladesh, Serbia, Palestina, Eritrea, Iran, Iraq...). Ad alcuni di loro è affidata la raccolta differenziata, fatta con asini autoctoni (almeno quelli...), per stradine altrimenti inaccessibili, e un carretto con la scritta: “Abituati a spingere, non a respingere”. Da quando i barconi cominciarono a spiaggiarsi, su questo tratto della Locride ne sono passati seimila. Nessuno è stato lasciato solo, tutti sono stati aiutati: una casa (nei paesini svuotati dall’emigrazione, ce ne sono), la possibilità di avviare un’attività economica, o solo riprendere fiato, rimettersi in salute, imparare l’italiano, regolarizzarsi e proseguire il viaggio, nel resto d’Europa, o fermarsi. Il sindaco di Riace si chiama Domenico Lucano; il primo luglio del 1998, poco più che ragazzo, vide per la prima volta decine di uomini, donne, bambini «uscire dal mare». Erano curdi. Totò Matozzo, amministratore di Soverato che ha impegnato tutto quello che aveva per sostenere la squadra di volley del suo paese (con notevolissimi risultati sportivi e non solo: «La pallavolo, duecento iscritti, allontana i ragazzi dalla piazzetta in cui oziavano, nel migliore dei casi»), racconta, al Calabria-day: «C’ero, quel giorno: arrivarono in duecento,
sulla spiaggia, in condizioni inimmaginabili, affetti da moltissime malattie. Li sistemammo subito, in un paese ormai fantasma, Badolato, che ora non è più tale: è abitato, i curdi gestiscono sei bar, tre ristoranti, altre attività economiche. Vengono turisti dall’estero, per vedere questo miracolo». Badolato fu il primo passo, per iniziativa di Antonio Perna, docente di Sociologia economica a Messina. Oggi, se scorrete per quei paesini già muti e vuoti, vi trovate una sintesi dei malconci della Terra, ma risorti e attivissimi; dopo i curdi arrivarono etiopi, siriani, serbi, albanesi, iracheni, eritrei, iraniani, palestinesi, egiziani, somali, afghani... (pensa le fiaccolate che si è perse Borghezio). E mentre Maroni ci riempiva di vergogna e ridicolo in Europa per i profughi di Lampedusa, il sindaco di Riace chiedeva, inascoltato: «Mandateli qui». Non era solo: sono diventati una quarantina i comuni calabresi che accolgono profughi e li integrano. «Noi e gli altri centri italiani del progetto Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati) avremmo potuto ospitarne quasi tremila di quelli di Lampedusa; e subito» dice il sindaco di Acquaformosa. «Non ci hanno nemmeno risposto» (dal Lombardo-Veneto, dove hai redditi fra i più alti d’Europa, giungeva, per “mancanza di mezzi”, il rifiuto di accoglierne poche unità). Poi, magari (sai il sindaco di Adro, quello che dedica la scuola elementare a un razzista?), ci si batte per “i valori cristiani”, appendendo il crocifisso in ufficio. Giovanni Marroccio ha reso Acquaformosa “primo comune deleghistizzato” ed è orgoglioso del suo decalogo dell’accoglienza, che diffonde ovunque: 1. Nel nostro paese non togliamo le panchine per gli immigrati, anzi le addobbiamo di cuscini.
2. Nel nostro paese non disinfettiamo i luoghi dove vivono gli immigrati: i nostri luoghi sono puliti naturalmente. 3. Nel nostro paese è vietato scrivere «Forza Etna» o «Forza Vesuvio»: è consentito scrivere «Fate l’amore e non la guerra». 4. Nel nostro paese è vietato fare gli esami di dialetto: nelle scuole basta l’esame di abilitazione nazionale. 5. Nel nostro paese non sono ammesse le ronde: è consentito il libero passeggio e lo “struscio”. 6. Nel nostro paese sono abolite le magliette con scritte offensive verso l’Islam: «meglio essere nudi che cretini». 7. Nel nostro paese non si possono cantare le canzoni che inneggiano alla «monnezza di Napoli», si può cantare ’O sole mio. 8. Nel nostro paese non occorre affermare di «avercelo duro»: tutti lo sanno già. 9. Nel nostro paese non si può gridare «Roma ladrona»: si può cantare Roma Capoccia. 10. Nel nostro paese Alberto da Giussano è ritenuto un dilettante al cospetto del nostro Giorgio Castriota Scanderbeg. Alberto da Giussano è una leggenda, non è mai esistito; Giorgio Castriota Scanderbeg sì: è l’eroe nazionale albanese; per quasi un trentennio arrestò l’avanzata in Europa dell’impero ottomano, alla vigilia del 1500. Fu baluardo della cristianità e dell’Occidente. Gli albanesi d’Italia, detti arberesh, sono frutto della migrazione succeduta alla sua morte (in Puglia sorse uno stato potentissimo, che si chiamò Albania Salentina; andava da Taranto
a Brindisi, giù per la provincia di Lecce. Ancora oggi, a Specchia, presso Santa Maria di Leuca, c’è il palazzo Scanderbeg). Acquaformosa è un paese arberesh e si parla albanese. Sono passati 500 anni, ma il sindaco ricorda che la sua gente fu accolta e ha il dovere di accogliere. «Quei tremila profughi di Lampedusa che avremmo potuto ospitare sarebbero costati allo Stato circa 25 milioni di euro in un anno: quanto hanno speso, se son vere le cifre, per la sola sceneggiata di Manduria» (gli immigrati portati in un campo di prima accoglienza e poi lasciati fuggire; mentre sindaco e abitanti della cittadina presso Taranto, invece di barricare le strade, si facevano in quattro per aiutare i rifugiati, perché avvertivano quale primo dovere dare una mano a chi era in difficoltà, poi protestare con il governo e il ministro leghista). La legge sull’accoglienza della Regione Calabria è forse la migliore d’Italia; l’iniziativa fu del centrosinistra, ma passò all’unanimità e venne «elogiata dal rappresentante in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), Laurens Jolles», scrive (Autointervista sul federalismo) Agazio Loiero, allora presidente della Regione. Quella legge «sta funzionando e, attraverso l’integrazione, si è trasformata la presenza di immigrati e di rifugiati in un’opportunità per il territorio» perché la civiltà dell’accoglienza può essere un affare, genera sviluppo, educazione alla convivenza. Per assistere i profughi si spendono, in media, meno di 30 euro al giorno. «Prima» spiega Marroccio «il ministero dell’Interno corrispondeva da 23 a 35 euro al giorno per ogni rifugiato assistito nel circuito dei comuni aderenti allo Sprar: normalmente, 23 al Sud, 35 al Nord! Dopo l’emergenza dell’aprile 2011, a Lampedusa, la gestione è passata alla Protezione Civile che, a trattativa privata con i proprietari, spesso sistema i rifugiati in alberghi dismessi, a far niente. Nei comuni dello Sprar, i rifugiati sono inseriti nella vita del paese, aiutati a ricostruire i
documenti, i figli vanno a scuola». Ma i soldi arrivano con tempi burocratici, mentre profughi e rifugiati ne hanno bisogno subito. Così, il sindaco di Riace, detto “Lucano l’afghano” o “Mimmo dei curdi”, ha messo in circolazione una sorta di moneta provvisoria scambiabile con l’euro: sulla “banconota” da 50 “euro provvisori” c’è Gandhi; su quella da 20, Martin Luther King; su quella da 10, Ernesto Che Guevara e il martire antimafia Peppino Impastato (il film I cento passi, ricordate? A lui era intitolata la biblioteca comunale di Ponteranica, nel Bergamasco, prima che il sindaco leghista ne cancellasse il nome; poi, anche l’ulivo dedicato a Peppino fu divelto. La giustificazione fu che non apparteneva alla cultura locale. Che, dunque, non sarebbe antimafia... I primi a protestare furono tanti cittadini di Ponteranica). Mimmo dei curdi è stato candidato al Nobel per la pace e, con altri 22 di tutto il mondo (unico italiano), al titolo di Miglior Sindaco del pianeta (riesci a stento a farti dire che è risultato terzo. Al mondo. Sindaco senza auto di servizio, senza segretaria). In Italia, i più, non sanno nemmeno chi sia: non è un capomafia, non ha il paese pieno di monnezza: perché se ne dovrebbe parlare? E se non fosse per i Bronzi, non si saprebbe nemmeno che Riace esiste; ma Wim Wenders, il regista de Il cielo sopra Berlino, su Riace, il suo sindaco, la sua gente, i suoi ospiti e la loro meravigliosa avventura umana, ha girato un cortometraggio, Il Volo, che ha fatto il giro del mondo. L’avete visto voi? Marroccio parla divertito dalla sorpresa che suscitano i racconti della Calabria che accoglie, in chi non ne sa nulla (quasi tutti). E come descrivi la voce indebolita dall’emozione di Francesca Rocca? Sottile, un tono dolente nel finale delle parole, forse per l’affioramento della cadenza dialettale nell’irreprensibile italiano di laureata in Lettere a Firenze (indirizzo antropologico).
L’intonazione è accentuata da un dire lento e pacato, privo di alti e bassi. Chi ascoltasse senza cogliere le parole, penserebbe a un lamento. Ma più la segui, minuta, pensosa, il giaccone serrato sino al collo come una corazza, più ne avverti la forza: persone così non le schiaccerai mai, perché forse nemmeno comprendono la possibilità di sottrarsi a quello che considerano dovere. Più l’ascolti, che enumera risultati, come dinanzi a un consiglio d’amministrazione, più sospetti che quella nota dolente possa essere l’eco del prezzo (non detto), per ottenere quei risultati: migliaia di persone assistite, regolarizzate, dai tossicodipendenti, ai malati di aids, ai profughi e rifugiati. Solo accenna al suo benvenuto nella cooperativa Agorà Kroton, a Crotone (quanti sanno che lì c’è il più grande Centro di prima accoglienza profughi d’Europa?): gli attentati con cui la mafia distrusse i loro automezzi. Aveva ventisei anni, era appena tornata da Firenze, rinunciando a valorizzare la sua laurea in più comodi “altrove”. Eppure non sembra esserci nemmeno rimprovero nel suo racconto e nella “logica” spiegazione: «Se non fai qualcosa di buono, non ti odiano». La cooperativa aveva aperto pure una casa famiglia, a Crotone. Fra mille problemi, funzionava, ma sono stati costretti a chiuderla: la Provincia non ha più dato contributi: «Forse la crisi, i tagli, i problemi di bilancio...» suggerisce Francesca. E guarda da dove comincia a tagliare la Provincia! Agorà Kroton occupa il villaggio di Sovereto, abbandonato dall’ente bonifica dell’Opera Sila, passato al vescovado di Crotone e ceduto in comodato gratuito alla cooperativa (nata da alcuni fedeli della chiesa di Fondo Gesù). Negli anni, quei ruderi sono stati resi agibili. Poi è scaduto il contratto e il vescovo nuovo ha chiesto affitto e arretrati, oppure lo sfratto. Pare che il Vaticano abbia disposto che nessuna proprietà della Chiesa resti infruttuosa. E tu
guarda da dove si va a cominciare! Ci sono stati appelli dei cittadini di Crotone; alla fine, il vescovo si è accontentato di mille euro al mese. Sia lodato Gesù Cristo. Così, versando l’obolo al Tempio, il buon samaritano può continuare a soccorrere gli ultimi della Terra. Francesca indica ogni tanto, in sala, «il nostro presidente», Pino De Lucia: con altri ex parrocchiani di Fondo Gesù, il quartiere più degradato di Crotone, addosso alla “fabbrica della morte” della Montedison (ora chiusa: il cancro continua a mietere), accolse la richiesta di aiuto di un tossicodipendente. Non avevano intenzione né coscienza di quello che ne sarebbe nato: «Stavamo avviando un progetto importante, il nostro progetto» leggo in una sua intervista. E non lo sapevano. Perché dopo quel tossicomane, ne venne un altro, e un altro... Attrezzarono una casa, poi non bastò. Poi il vescovo Giuseppe Agostino permise loro di sistemarsi in quei ruderi, trasformati, riferisce «Il Crotonese», «in un angolo di paradiso, ogni ospite, straniero o tossicodipendente, ha dato il suo contributo, costruendo, lavorando, ripulendo». «A Sovereto,» dice De Lucia «ogni pietra racconta storie, sofferenze... Qui abbiamo celebrato i funerali dei nostri ragazzi, ma anche matrimoni, battesimi. Ogni angolo è un pezzo di un cammino in cui abbiamo creduto per anni, in cui ci siamo buttati a capofitto, dimenticando ciò che eravamo prima, quando eravamo uomini insoddisfatti del nostro modo di vivere, quando ancora dovevamo trovare la strada» (vi viene da togliervi il cappello, vero? E non ne avevate mai sentito parlare. Nemmeno io: mica è mafia, mica è monnezza). Non sapevano neanche di essere una cooperativa, De Lucia e gli altri: solo nel 1989 lo divennero effettivamente. E nel 1999 aderirono al circuito Sprar, per l’assistenza ai rifugiati. «Il nostro presidente,» narra Francesca «incontrò dei curdi per strada, a Crotone, smarriti, non sapevano dove andare. E disse: “Venite con me”» (Sono ateo, ma una frase
così mi pare di averla letta già. Cos’era, il Vangelo?). Quelli di Agorà Kroton fanno anche “animazione” per i 1.500 profughi e rifugiati del CPA: «Ma fuori del Centro, non hanno nulla, manco i bagni chimici. Il loro primo problema è dove fare i bisogni. L’unica cosa che trovano è la statale 106 e tanti ne sono morti, investiti». Francesca racconta senza mutare tono e postura. Due anni fa le proposero un lavoro, lavoro vero: contratto a tempo in-de-ter-mi-na-to, persino i buoni pasto! Il sogno di ogni precario (roba che neanche il candidato al Nobel degli insulti, ministro Brunetta, avrebbe più potuto chiamarla “Italia peggiore”). E lei accettò: aveva fatto tanto per gli altri (questo non lo dice lei, lo dico io), forse poteva pensare un po’ al suo futuro, aveva ventinove anni, progetti matrimoniali. Resistette qualche settimana: non poteva risolvere il suo problema, allontanandosi da quelli degli altri. Si dimise e tornò a combattere con lo scarso, il niente e il forse per sé, in cambio del molto da dare agli ultimi della Terra. Un anno fa si è sposata. «I miei colleghi sono un etiope e un marocchino.» Spio come la guarda Daniele Testi, responsabile del marketing della Contship, la multinazionale che gestisce, con quello di Gioia Tauro, una mezza dozzina di porti nel Mediterraneo. «Quanti di voi sono entrati almeno una volta nel porto di Gioia Tauro?» chiede. In sala si alzano solo due mani. Gli rammento che Mimmo Cersosimo, docente di economia all’università calabrese di Arcavacata, disse che quel porto è collegato con tutto il mondo, meno la Calabria. Testi spiega che la Contship ha avviato un programma, Portolab, per far vedere ai bambini calabresi che nella loro regione c’è il porto più grande del Mediterraneo. «Ne sono passati, sinora, più di seimila, in cinque anni: vengono e studiano storia, geografia (un porto è il luogo più indicato); ma l’entusiasmo è quando si collegano, in tempo reale con i loro coetanei nei porti di Cagliari, Tangeri, La Spezia,
Ravenna e gl’interporti di Rho e Melzo, dove arrivano i treni, i camion. Poi, molti di loro scrivono i loro commenti sul nostro blog. Vale la pena darvi un’occhiata...» Lo faccio; ha ragione. Alessandra Tuzza, che dirige Europe Direct (ottiene finanziamenti europei per progetti, senza l’intermediazione politica) gli dice che lei provò a mostrare il porto di Gioia Tauro a una delegazione spagnola, ma non li fecero entrare. Testi ancora non c’era... Quando il primo genovese, un Costa, venne a Gioia Tauro, per valutare se fosse il caso di investirvi, si accesero molte speranze: quel deserto d’acqua costato tanto poteva finalmente diventare pane. Lessi che Costa trovò due file silenziose di calabresi, dinanzi al municipio. Poi uno di loro gli si avvicinò: «Qui c’è gente onesta» gli disse. Lo ricordo a Testi. Lui risponde che lo fece pure un altro, un giovane: «Sono laureato in ingegneria dei trasporti». Si chiamava Domenico Bagalà. Oggi ha quarantadue anni, è l’amministratore delegato della Contship, per il porto di Gioia Tauro, dopo aver fatto tutta la trafila dirigenziale in azienda, avviato il porto di Tangeri, diretto quello di Cagliari. Michele Ferraro, dirigente della società sportiva Volley Tonno Callipo, chiederà, poi, a Testi: «Un giorno, lei andrà altrove. La domanda è: chi verrà dopo di lei? Perché, ogni volta che nasce qualcosa di buono, la domanda è questa: e poi?». E la domanda è più grande di quel che sembra, per l’incerto domani che la crisi propria e generale disegna per il porto calabrese. Ferraro è abituato a programmare futuro, a partire dal niente: «Dieci anni fa era impensabile che avessimo un palazzetto dello sport. Oggi ne abbiamo tre, e pure la piscina; e la scuola di pallavolo e una squadra che milita nella prima serie, ma anche altre nelle serie minori, e in quelle giovanili. Centinaia di ragazzini di 12, 13 anni frequentano la nostra
scuola, giocano, girano l’Italia, affidati a dei tutor... Non è più sport, ma operare nel sociale. Se hai un progetto e volontà, puoi cambiare molto anche con poco». Carmensissi Malferà lo ha fatto. È una donna giovane e di molte doti: a sedici anni, vinto un concorso dell’Europa unita, era già a Strasburgo, per collaborare alla scrittura della carta dei diritti degli europei, poi firmata dai capi di Stato, a Nizza, nel 2000 (è di Pizzo Calabro, ma fu eletta portavoce della Puglia, del Trentino, del Veneto e del Friuli, non solo della sua regione). I suoi studi furono all’altezza degli esordi. Ma un giorno, a Pizzo, una persona disabile chiese il suo aiuto per superare un ostacolo impossibile per una sedia a rotelle. E lei vide il mondo in un altro modo. «Mi promisi che da allora mi sarei educata a guardarlo con gli occhi di un bambino e la forza di un vecchio.» Decise di specializzarsi, all’università, nell’eliminazione di barriere architettoniche. I suoi vecchi e i suoi disabili divennero troppi; allora con i soldi di una borsa di studio, creò l’associazione di volontariato ArtigianFamiglia, sede legale nel negozio di papà: «Volevo che la nostra storia, le nostre tradizioni non andassero perse». Edita anche un periodico: «Pensiero artigiano». E, per conciliare le due cose, varò un progetto, unico in Europa, di leaving history (ricostruzione animata di eventi storici, con scientifico, maniacale rispetto di fatti e dettagli) e reactment (archeologia sperimentale: insegnare storia, facendola rivivere), affidato soltanto a disabili, mentali e no, per favorirne integrazione e recupero: «Abiti e oggetti usati sono originali, o ricostruiti con materiali d’epoca (stoffe di due secoli fa, per dire) o comunque riprodotti identici». Carmensissi presiede pure l’associazione Due Sicilie Tirrenica, per il recupero e la divulgazione della storia del periodo borbonico (e con il suo libro sulla rivelazione dei
messaggi nascosti della chiesetta di Piedigrotta, che non sta a Napoli, ma a Pizzo, realizzata nella roccia, e nella quale ogni pietra, ogni linea, ogni apertura ha un significato da scoprire, si è classificata terza al premio letterario Europa, a Lugano). Racconta di competenze artigianali che si pensavano estinte, scoperte in paesini dell’interno, quale il ricamo con filo di oro (sapete quei paramenti sacri che indossa il papa?): lo faceva ancora una signora di Vezzano, l’unica da Salerno in giù. Dalla ceramica alla sartoria, affiancò i disabili mentali agli artigiani. Oggi, a scuola, i disabili trasferiscono le competenze apprese ai normodotati. «Che li chiamano: “Signor maestro”.» Carmensissi organizza fiere-laboratorio, perché quaranta, cinquanta, vecchi artigiani alla volta mostrino la bellezza e il segreto del proprio lavoro ai bambini. Come dire: non solo playstation. E nel laboratorio creativo di un’altra sua associazione, la Nemo, i disabili imparano realizzando oggetti, alcuni dei quali sono poi venduti per l’acquisto dei materiali. «Quest’anno, per la prima volta nella loro vita,» dice come se mi mostrasse un diamantino «i miei disabili potranno andare in spiaggia e fare il bagno: sono riuscita a far comprare, da Confindustria e Centro servizi volontariato di Vibo, quattro sedie-job». «Job? Non vuol dire “lavoro”, in inglese? Che c’entra il mare?» «Sono sedie molto particolari, per disabili: con cui ci si può muovere pure sulla sabbia ed entrare in mare. Le hanno inventate a Napoli, e job sta per “Jamm’o bagne”.» Segue personalmente 53 disabili sparsi nella provincia di Vibo Valentia (gratis, con i suoi soldi). È vice presidente dell’associazione Don Gnocchi Calabria, per l’aiuto psicologico alle famiglie. Ha fondato pure una cooperativa per l’assistenza agli anziani: «Riusciamo a fare poco»; le cooperative ricevono contributi e hanno spesso un traino politico che lei non cerca e non vuole. Preferisce le associazioni, più libere; i soldi li mette
lei. Il problema è trovarli. In un modo o nell’altro, ci riesce. Uno dei disabili desiderava vestirsi da soldato borbonico, per sparare a Gioacchino Murat (fucilato a Pizzo Calabro, dopo lo sbarco in Calabria per tentare la riconquista del trono perso). Ma togliersi la soddisfazione di farlo fuori, evidentemente non gli bastò: propose di partecipare alla battaglia di Tolentino, che Murat perdette contro gli austriaci (e fu la fine sua e del suo sogno di unificare l’Italia), nel 1815. Lo scontro viene ricostruito ogni anno, a Tolentino. «Ma ci volevano 35.000 euro per vestire tutti i protagonisti della scena» narra Carmensissi «e non avevamo i soldi.» Quali sacrifici non farebbe, lei, per i suoi disabili? «Dissi al mio fidanzato di sposarmi. Con i regali del matrimonio si pagarono gli abiti storici per tutti e prima ci sposammo in costumi ottocenteschi, poi partimmo in viaggio di nozze. A Tolentino. In trentacinque» (mai sentito parlare, prima, di Carmensissi? Nemmeno io: mica è mafia, mica è monnezza). Simpatico, il marito. «Sei un uomo prudente» gli dico. «Ubbidisci...» «Sempre» assicura lui e stringe la moglie per la vita. Carmensissi spiega che il suo nome significa: “Dono del giardino di Dio”. Lo è per molti. Per lui, di più. Questa ragazza ha ventisette anni. Marco Demarco, in Terronismo, tesse le lodi dei giovani meridionali che rifiutano i mali del Sud e vanno via, per un agire libero, senza padrini, senza attese, senza un prezzo di dignità da pagare. Sono quelli che non restano attaccati allo scoglio, secondo la metafora di Vittorio Nisticò, che Demarco ricorda, ad aspettare l’onda che li bagni, ma si spingono in mare aperto. Hanno “piedi leggeri”, “piedi veloci”. «I dati Istat» riporto dal libro di Demarco «parlano ormai di quasi quattro giovani disoccupati su dieci, aumentano anche gli “inattivi”, quelli che hanno smesso di cercare lavoro, e sale anche il tasso di disoccupazione di lungo periodo, ma i giovani laureati del
Sud se ne vanno non tanto per questo, ma perché non ne possono più del clima generale. Non ne possono più delle famiglie e del familismo amorale; non ne possono più delle piccole e grandi arroganze di paese; non ne possono più delle caste professionali, chiuse e immobili come ascensori bloccati tra un piano sociale e l’altro. Non ne possono più dei corsi di formazione infinita, degli esami regalati, dei concorsi fasulli, delle élites asfittiche e consociative più che ai tempi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Non ne possono più del paternalismo dei Gaspari e dei Colombo, che hanno mortificato i genitori, dei Bassolino e dei Loiero, che invece hanno mortificato le loro speranze, e in genere di tutti i leader, i capicorrente e perfino i portavoce che hanno popolato il panpoliticismo meridionale, quell’informe garbuglio in cui la politica controlla ogni assunzione, ogni progetto a termine, ogni passaggio di carriera, ogni posto in ospedale, ogni appalto, ogni assegno di ricerca. Non ne possono più, direbbe Piero Barucci, di un Mezzogiorno “dalle intermediazioni multiple, impropriamente svolte da soggetti non autorizzati, senza alcun riconoscimento di professionalità e senza controlli”. E non ne possono più, anche, di quelle cene a casa organizzate per chiedere la raccomandazione al notabile di turno, o dei fiori o dei cioccolatini inviati a ogni festa comandata alla signora tal dei tali per commuovere il potente marito.» Qui avrei da rammentare che è tutto vero, ma non tutto meridionale, se si guarda ai meneghini criteri di selezione a mezzo bunga bunga; servilismo garantito in difesa giornalistica, legale, politica, persino religiosa (contestualizzando, s’intende) di ogni vizio e difetto del capo; e renzi bossi, per la cultura ai tempi della Gelmini e delle pari opportunità carfagnane. Ma restiamo all’argomento. «Tra il 1997 e il 2008» prosegue Demarco «circa 700.000 meridionali hanno preso un
aereo o un treno per trasferirsi altrove. Nel solo 2008, il Sud ha perso oltre 122.000 residenti. Sono andati in cerca di un altro mondo, molto meno angusto di quello meridionale [...]. Questi ragazzi sono i nostri Luftmenschen, come li chiama George Steiner. Sono gli “uomini dai piedi leggeri”, i nuovi cosmopoliti. Francesco Saverio Nitti li chiamava invece “gli spostati” e oltre un secolo fa li vedeva come il “peggior pericolo per l’Italia”. Fino a quando non troveranno un lavoro o un guadagno sicuro, diceva Nitti, questi giovani “non potranno fare a meno di coltivare le loro velleità rivoluzionarie”. Gli “spostati” di oggi sono apparentemente meno pericolosi, eppure la loro rivoluzione, seppur silenziosa, non è meno dirompente. Sono gli stessi ragazzi di cui ha scritto Franco La Cecla sul “Sole 24 Ore”, consapevoli del fatto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana e lo strangolamento delle potenzialità giovanili sono una malattia ormai cronica. E allora lo scossone provocato dal loro lucido e consapevole distacco non potrà essere privo di conseguenze. Chi troppo frettolosamente continua a parlare di un Sud lamentoso, compromesso e rinunciatario dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale.» Che io non riesco a considerare tale, visto che inutilmente svuota e non risolve. Ma scusate l’interruzione e seguiamo cosa scrive Demarco. «È impressionante, a leggere il libro di Pezzulli (In fuga dal Sud; N.d.A.), mettere in fila il modo in cui gli intervistati descrivono il contesto di provenienza: “Mi innervosiva”, “cominciava ad ammorbarmi”, “un orizzonte chiuso, troppo claustrofobico, insopportabile”, “arrogante e incivile”, “odioso, deprimente, castrante”, “ristretto e senza prospettive”, “affollato di gente corrotta e di malaffare”, “c’erano solo briciole, ci saremmo ammazzati a vicenda”. E ciò spiega, dice l’autore, la prima differenza tra questa emigrazione e quella di
un secolo fa. Rispetto ai loro nonni, rispetto al Totò di Nuovo cinema Paradiso a cui il vecchio Alfredo urla vattinni e rispetto ai ’uaglioni napoletani a cui Eduardo dice fujtevenne, i giovani d’oggi partono “senza alcun rancore”. Il che vuol dire anche, ed ecco una seconda differenza, che quest’ultima generazione di migranti non ha alcuna intenzione di tornare. “Il rischio di impantanamento sarebbe molto elevato” confessa un ricercatore felicemente approdato in un’università americana. Rientrare? “Soltanto se la mia famiglia avesse necessità della mia presenza” è la risposta più frequente. Malinconici? Mammisti? Languidamente distesi al sole a discettare di pensiero meridiano? Tutto si può dire di loro tranne che questo. I nuovi meridionali di mare aperto o dai piedi veloci sono gli unici, veri rivoluzionari dei nostri tempi. Altro che Masaniello, altro che Pisacane, altro che Eleonora Pimentel Fonseca. O Caccioppoli, che come Cesare Pavese si ammazzò con un colpo alla testa. Questi, almeno, non faranno una brutta fine.» È vero: questi, almeno, non faranno una brutta fine. Tu cosa vuoi per tuo figlio? Ecco, anch’io. E lo capisco; nel mio egoismo, faccio più che capirlo: lo voglio; voglio che le mie figlie vivano una buona vita, non facciano una brutta fine. E se la soluzione fosse stata affidarsi, con “piedi leggeri”, al “mare aperto”, l’avrei accettata e ne sarei stato lieto, alleggerito anch’io (hanno scelto altro, di far diversamente la propria parte, precarie ancora a trentasette e trentacinque anni). Ricordo un imprenditore pugliese, giovane, famiglia importante e solidissima, studi eccellenti, concupito da grandi società per il suo valore e le personali possibilità di compartecipazione a investimenti con molti zeri. Legato al Salento, ma sfiduciato da ostacoli, compromissioni politiche, mentre esaminava proposte giuntegli dall’estero, si rivolse a un grande manager, suo riferimento professionale e morale: «Che faccio, cambio
Paese?». «No,» rispose quello, che pure era stato per anni alla guida di un grande gruppo europeo e poi era tornato in Italia «cambia il Paese». E lui restò. A volte gli cascano le braccia, ma resiste. E Carmensissi, dai piedi tanto leggeri, che a sedici anni era già a Strasburgo e poi decide di tornare a Pizzo Calabro? E Francesca Rocca, che era già fuori, a Firenze, ma rientra a Crotone, dove trova tutte quelle cose appena elencate che fanno “brutto” il Sud, ma non solo il Sud, e invece di fuggirle, cerca di cambiarle; e lascia “il posto fisso”, per andare a schivare le bombe della ’ndrangheta, pur di rendersi utile agli ultimi? E tutti gli altri, qui al Calabriaday, di cui non ho potuto raccontare le storie, perché sono meravigliosamente troppi? E tanti ancora, da Annalaura Orrico che organizza questa festa dei “folli e giusti”, allo stesso Pippo Callipo (che, appena nominato commissario-presidente della Confindustria di Reggio Calabria, ha espulso tredici imprese sospettate di mafia. Immaginate lo facesse la Confindustria nazionale) e suo figlio, che potrebbero essere industriali più ricchi e tranquilli al Nord; e gl’infiniti altri come loro che fanno altrettanto? E la lista spaventosamente lunga degli sconosciuti cronisti calabresi antimafia che vivono minacciati, magari sfruttati per la promessa di un tesserino da pubblicista o di un contratto ai minimi, e scrivono a proprio rischio quello che domani leggerà il vicino di casa capo della cosca? Ne avete mai saputo niente? Nemmeno io: mica è monnezza, mica è mafia. Anzi, è mafia, ma “anti”, quindi chissene. Solo «Il Fatto», e Attilio Bolzoni su «la Repubblica», hanno dedicato delle pagine a questi eroi dell’informazione, quando uno di loro fu pure licenziato per eccesso di antimafia (molti, me compreso, l’hanno capita così. Saremo puniti per la malizia, nell’aldilà. Ma qualche girone più sotto, sospetto che troveremo quelli che l’hanno licenziato); si chiamano, questi coraggiosi dai piedi pesanti,
che restano e lottano, magari con un blog, per essere liberi: Michele Albanese, Francesco Mobilio, Michele Inserra, Lucio Musolino, Pietro Comito, Angela Corica, Agostino Pantano, Ferdinando Piccolo, Antonino Monteleone, Giuseppe Baldessarro... e chiedo scusa a tutti gli altri che non nomino. Hanno fra i venti e i trent’anni; uno solo più di quaranta. Angelo Sisca, il loro decano, ne ha sessantaquattro. In soli nove mesi, documenta Bolzoni, ventuno giornalisti sono stati “avvisati”: pallottole arrivate per posta o sparate contro l’auto, o l’auto incendiata... Possibile che nessuno di loro abbia capito che sarebbe stato meglio lasciare il Sud alla sua mafia e andarsene? E Leo Aiello, ingegnere, trent’anni, che da Roma rientra in Calabria e fonda Nuova Era, associazione di giovani per lo sport e il sociale? E Otello Vizzino, che realizza un redditizio progetto di turismo sportivo in Spagna e lo importa in Calabria, al suo paese, dove ritorna? E Giovanni Pileggi, fondatore di Talità Kum, cooperativa fra disoccupati che s’inventano lavori? E tutti gli altri che scelgono il mondo scomodo e potrebbero averlo facile altrove: gli dico che sbagliano? Che dovevano andarsene? Io sono qui, con un microfono in mano a “tirare le conclusioni”, dopo aver ascoltato le loro storie, essermi sentito piccolo, egoista, superficiale, perché tu te ne vai dopo esserti turbato per il loro coraggio, ma loro restano; e il mondo in cui restano è quello brutto descritto da Demarco. Io devo dire qualcosa a questa gente. Gli spiego che sono il lato storto della soluzione? Che se avessero i piedi leggeri navigherebbero in mare aperto, invece di pigliarsi le mareggiate che li schiantano sugli scogli, mentre cercano di impedire che uno sconosciuto affoghi o di tendere la mano, loro con tutti quei problemi, a chi ha più problemi di loro? Che il mio egoismo è tale che non vorrei le mie figlie avessero il loro coraggio e i loro guai? Tanto coraggio, da andarseli a cercare i guai, per tentare di
rimuoverli? Io una cosa so: chi ha il problema è la soluzione. E capisco quelli dai piedi leggeri che se ne vanno e lo risolvono. Ma perché ammiro chi resta? Chi se ne va risolve un problema: il suo, un pezzo di quello di tutti; e se ognuno risolvesse il suo, tutti i problemi sarebbero risolti. Quindi, dal Sud dovrebbero andarsene tutti? Perché “tanti” non è sufficiente, se venti milioni di fuggiaschi non sono bastati. Arriveremmo alla soluzione per assurdo: il problema del Meridione si risolve svuotandolo dei meridionali migliori; riducendolo, per espulsione di quelli perbene, a una sorta di colonia penale abitata da quelli permale e quelli perniente (cosa che sarebbe già adesso, secondo la vulgata leghista e tremontian-gelminianbrunettiana). Con un ulteriore, piccolo sforzo, si può arrivare all’espulsione di tutto il Sud (secessione) o, almeno, dei suoi residui, impresentabili abitanti permale e perniente, in una “landa desolata” della Patagonia o del Borneo, come già cercò di fare l’Italia appena unita, per iniziativa del ministero degli Esteri, per circa dieci anni, sino a che il fastidio, l’irritazione e persino il disgusto di mezzo mondo indusse i “fratelli d’Italia” ad abbandonare il progetto. Mi ricorda la battuta che compare nella Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi (mi pare lo faccia dire a Cavour): «Noi volevamo il Sud, ma non ci avevano detto che era abitato!». Mi sa che chi va via risolve un problema, ma chi resta risolve il problema: non lo sfugge, lo affronta, o, almeno, ci prova. Talvolta, sempre più spesso, ci riesce, perché chi viene dopo fa minor fatica di quanti l’hanno preceduto: non deve più trovare la strada, ma percorrerla; altri, a più caro prezzo, l’hanno tracciata. E nessuno di loro ha avuto paura di
essere il solo, ma si è avviato sperando di essere il primo, in compagnia ideale di quanti sarebbero venuti dopo, per continuare. Ma c’è un argomento che mi pare ancor più trascurato, quanto all’idea di cos’è risorsa: il futuro. E il futuro sono i giovani. Il Sud è quella terra da dove i giovani vanno via e dove i pensionati restano o sono addirittura importati, a migliaia, dal resto d’Europa (pur se il fenomeno non ha ancora le dimensioni che ha raggiunto già altrove), a riempire a poco prezzo, le case rimaste vuote. Per carità: sempre un’economia, un’alternativa al vuoto. Ma il disvalore dello scambio è evidente: si perde futuro, si acquista passato: dai “tempo a crescere”, in cambio di “tempo a termine”. È la risorsa dei Paesi del terzo mondo. Se questo è il presepe che mi vogliono far piacere, ’o presepe nun me piace. «Siete bravi, siamo orgogliosi di voi» diceva il professore dell’Università di Arcavacata a mio nipote e altri eccellenti neolaureati in Ingegneria, nel consegnar loro la meritata pergamena. «È stato un onore avervi allievi. Siete il pregio delle vostre famiglie e della nostra terra. Ma non lo sarete più, se andate via. Per favore, restate, anche se è difficile.» Ci vuole coraggio, per parlare così a dei giovani. Io ringrazio chi ce l’ha; e chi li ascolta. Il professor Vito Teti, nel suo recentissimo Pietre di pane. Un’antropologia del restare , analizza splendidamente (e come scrive!) questo trascuratissimo fenomeno, la Restanza, la crescente tribù di quelli che restano. Ma è calabrese e insegna in Calabria: «Sono nato in una terra in cui partenza e attesa hanno costituito una nuova mentalità, una nuova identità». Dice che bisogna «ripensare le concezioni e le pratiche del restare», anche se, nella cultura occidentale vale «l’erranza più della permanenza». (Nonostante, come spiegò Eric J. Leed i n La mente del viaggiatore, dover andare non era solo frutto di necessità, ma persino condanna, espiazione, prima di diventare turismo.)
Eppure, «Ulisse non avrebbe senso, senza l’attesa di Penelope» scrive Teti. E, per l’emigrazione massiva degli uomini, l’attesa delle donne calabresi «si è tradotta in capacità organizzativa, assunzione di un nuovo ruolo». Così, «l’antropologo che resta incontra i rimasti» e «analizza il proprio territorio, mentre diventa territorio di frontiera». Perché le generazioni, le circostanze, i mezzi cambiano e l’antropologo della Restanza studia «chi si sente appartenere a una tradizione immutabile, mentre, a tutti gli effetti, è preso nelle dinamiche della globalizzazione». Il valore dei popoli è questo (come per le famiglie): qualcuno paga, perché altri riscuotano. Ma, per farlo (è la lezione dell’ulivo, la nostra pianta), devi proiettare il senso e il pregio di quello che fai, nel futuro e nella vita degli altri. È un dono. Ma mentre lo fai, lo ricevi. Lo dice Francesca, lo dice Carmensissi. Io che ne so: ero di quelli con i piedi leggeri, appesantiti con l’età.
21 BORDELLO
L’«Economist» (29 aprile 2010) ridisegna l’Europa, smembra e accorpa macroregioni con diversa logica, stacca il Sud dall’Italia e lo fa galleggiare nel Mediterraneo, fra Grecia e Africa, creando un nuovo Paese, che battezza: “Bordello”. È l’unica terra cui si riservi un’annotazione ingiuriosa in tutta la mappa continentale così rivisitata. Ma a nessuno sembra dare fastidio: si ride, si ridacchia, si ammicca. E se l’«Economist» l’avesse fatto con la Lombardia, giustificando il termine “Bordello”, con le note abitudini di un potente meneghino e sedicente puttaniere? Immaginate come avrebbero replicato i rappresentanti del governo, i leghisti, «il Giornale», «Libero», il «Corriere della Sera». Una regione “virtuosa” insultata, per un po’ di bunga bunga! E avrebbero fatto bene. La reazione, se “Bordello” è il Sud, non c’è stata, perché, in fondo, la mappa l’avrebbero disegnata uguale i giornali della virtuosa regione della Parmalat e dell’Ambrosiano. L’insulto al Sud non è che sintesi del giudizio corrente. Ma se all’«Economist» non sono fischiate le orecchie, è perché nemmeno a Mezzogiorno qualcuno ha fischiato, fidando nello scirocco che portasse il messaggio oltremanica. Ci si abitua, si risparmia tempo,
rinunciando a proteste e persino condividendo a proprio danno i pregiudizi. Una legge fisica (oltre alle spiegazioni psico-sociali di cui riferisco in Terroni) dice che ogni azione tende a essere compiuta con il minor dispendio di energia possibile. Subire può diventare la scelta meno faticosa e persino più produttiva: se ci si convince che opporsi non rende nulla, solo fastidi, puoi spendere quelle energie per conquistare la migliore condizione concessa a chi è nel ruolo subordinato: il capo dei servi, piuttosto che servo e basta. Forse sono andato troppo lontano, a partire da una sgradevole goliardata. Ma tali comportamenti nascono dalla stessa famiglia di idee, quello che li distingue è solo la loro densità, non la loro sostanza. Il pregiudizio antiebraico alcuni si limitano a esprimerlo con battute di pessimo gusto (questo, a loro, basta per esaurire il fondo di aggressività e paura che il pregiudizio sempre contiene); altri giungono all’odio, all’aggressione. Ma la natura di quel sentire e quell’agire è la stessa. Dell’esistenza di una sorta di antisemitismo antimeridionale si parlava autorevolmente già un secolo fa. Non voglio fomentare liti familiari, ma... come la mettiamo con il Trota, figlio del lombardo Umberto Bossi e della sicula Manuela Marrone: è intelligente come papà o come la madre? O ha preso il meglio di entrambi? Va bene, la smetto... quasi: e se il «Sole 24 Ore» avesse isolato Cornovaglia o Scozia, rinominandole “Bordello”? Non si considera che possa esserci reciprocità, in azioni denigratorie, per la condivisa idea, del denigratore e persino del denigrato, che l’insulto sia quel che si merita. Be’, io non condivido; e reputo di pessimo gusto che il tale dell’«Economist», con quella mappa e, soprattutto, con quel titolo, abbia voluto farci sapere dove si è trasferita sua madre; in fondo, è sempre sua madre! Trova la cosa ancora divertente, sir? (Visto che sto da queste parti: devo salutargliela?)
22 COMPRARSI LA SOLITUDINE
«Che fai?». «Economia, la Bocconi, sono alla tesi.» È uno dei ragazzi che mi hanno invitato ad Ariano Irpino, per una discussione su Terroni. Ha piglio da giovane leader naturale. Decide e dispone, con efficienza e pacatezza. Cena in piazza, attrezzata per un popolo interessato più a mangiar insieme che a cosa mangiare: tavolacci e panche, fogli di carta da imballaggio per tovaglie; stoviglie di plastica, vino dalle damigiane, birra come la vuoi, complesso folk-rock sul palco; saremo un migliaio; gli altri ciondolano intorno o seduti per terra, bevono, ballano, fumano e parlano, in attesa che si liberi uno spicchio di mensa. «Ogni anno, Marcello e i suoi amici dicono che è l’ultima volta che lo fanno. Ogni anno lo fanno, da cinque anni.» «Mio padre, Michele» lo presenta Marcello. «Medico condotto; uno degli ultimi in Italia» si descrive il papà. Dobbiamo alzare i toni, per sovrastare rumori e vocio del Folk-festival cinematografico.
Intorno è lo sbarco in Normandia, ma in blue jeans e classe mista, età media licealuniversitaria. «Ariano rinasce un mese all’anno in estate, quando dalle università tornano i nostri ragazzi» dice papà Michele Gelormini. «Poi ricomincia l’anno accademico e in paese, da un giorno all’altro, si alza l’età media e si abbassano i decibel; poi ci sono i dieci giorni a Natale e una settimana a Pasqua. Qui, non hai altra possibilità: andartene per studiare e studiare per andartene. I nostri giovani arrivano e partono a stormi. Noi restiamo ad aspettarli.» Marcello è figlio unico? Nooo, sono in quattro: Domenico, Camilla, Marcello e Carmine; ventisette anni, venticinque, ventitré e venti; Medicina a Roma, alla Cattolica, il primo; Medicina alla Statale, a Perugia, la seconda; Economia, Bocconi, il terzo; Economia politica, alla Statale di Milano, il quarto. Laureati a tempo di record e 110 e lode, i primi sono già alle specializzazioni. «Appena si diplomano, partono e li perdiamo» dice Michele. «Ma siamo molto legati; ci si sente via computer, grazie a Skype, tutti insieme. Con l’ultimo, il rapporto è più difficile: non chiama mai, lo facciamo noi; mentre gli altri ti chiedono consiglio, si discute di libri, di cinema, della lettura dei giornali. Mi interrogo su cosa non riesco a capire, dell’ultimo.» Quattro, e tutti fuori. «Come noi, tanti.» E ce la fa con i soldi? «Appartengo all’uno per cento di italiani ricchi (secondo il fisco) che guadagnano 100.000 euro all’anno. Ogni figlio mi costa più di mille euro al mese; solo per Camilla mi danno le ricevute e posso scaricarle dalle tasse; gli altri tre, no. Mi hanno multato come
evasore fiscale: di iscrizione, Marcello costa 9.000 euro; il commercialista, convinto che tutta la somma fosse scaricabile, la pose in detrazione. Invece, si poteva detrarre solo l’equivalente delle tasse che si pagano all’università statale. Mi fecero settemila euro di multa; riuscii a dimostrare, ricevute alla mano, la mia buona fede, e mi fecero lo sconto: 3.500 euro.» I soldi dell’iscrizione sono inclusi nei mille euro e passa al mese, per ognuno? «No, a parte; in aggiunta.» I libri? «A parte, in aggiunta.» I viaggi? «A parte, in aggiunta.» Be’, anche uno dei più ricchi d’Italia, come lei, a quasi cinquemila euro di spese fisse al mese, più viaggi, più iscrizioni, più libri e salvo imprevisti, può trovarsi in difficoltà. «Ci si organizza. E i ragazzi sono bravi, se lo meritano.» Insomma, lei e sua moglie siete una sorta di azienda che produce Gelormini laureati da esiliare in Italia, se non altrove. «E siamo gli unici Gelormini rimasti in Italia. Tutta la mia famiglia emigrò in America. Mio padre, ultimo a dover partire, fu bloccato dallo scoppio della guerra. Così, io e i miei fratelli, siamo nati qui. Con i cugini americani, ormai, non abbiamo più contatti. Loro andarono via con le valigie di cartone, oggi si parte con un pezzo di carta, perché li vogliono laureati.» Non le dispiace aver lavorato una vita per dare ai suoi figli la possibilità di andarsene? «E che altro?»
Il dottor Michele ha sessantadue anni, sua moglie sessanta. Ce ne vogliono altri tre, perché pure l’ultimo, Carmine, prenda la sua laurea; poi avranno finito di pagare la loro solitudine. E ce l’avranno gratis. “Produrre” un laureato, a partire dalla scuola materna, costa 300.000 euro, secondo le ricerche del CISF (Centro internazionale studi sulla famiglia), includendo spese per materiale didattico, libri, accessori, viaggi di istruzione... Dai conti riportati in un’inchiesta di Pietro Reichlin, per il «Sole 24 Ore», si apprende che ci si laurea, in media, in sette anni; per i quali si spendono 60.000 euro scarsi. A tali cifre, dovete aggiungere vitto, alloggio, trasferimenti, se si è fuori sede: fortunato chi se la cava con 20.000 euro all’anno (contro meno della metà della spesa annua per i residenti); ma alcuni genitori mi dicono che fanno fatica a starci con 25.000 («Qualche soldo in tasca glielo vuoi dare?») Vuol dire: la laurea che agli studenti in sede costa meno di 60.000 euro, per i meridionali costretti a spostarsi al Nord comporta un esborso che va da scarsi 150.000 a scarsi 180.000 (la differenza va aggiunta ai 300.000 che sono la normale spesa di “produzione” di un laureato). Ora andate s u Universita.it, e scoprite che sono almeno 23.000 all’anno le matricole universitarie meridionali che vanno a studiare al Nord (vi ricordo che la media degli anni, per la laurea, è di sette). Se avete fatto i conti: già per il solo primo anno, per gli studi dei figli, passa dal Sud al Nord, più di mezzo miliardo di euro. Non tutti quei 23.000, poi, arriveranno alla laurea, ma provate ad aggiungere (a scalare), alla spesa per il primo anno, quella per i sei (rispettando la media di sette per la laurea) a seguire. Mi spiego (scusate se lo faccio in maniera infantile): il primo anno, 23.000 e mezzo miliardo di euro; il secondo anno, qualcuno di quei 23.000 abbandona, ma per chi prosegue negli studi, continui a pagare, mentre si aggiungono altri 23.000 e mezzo miliardo di euro; il terzo anno, cala il numero di
quelli che avevano iniziato due anni e un anno prima, e per loro continui a pagare, mentre si aggiungono altri 23.000 e mezzo miliardo di euro... così sino a sette. Sono miliardi di euro all’anno (a spanne, non meno di tre) che migrano da Sud a Nord: è il prezzo che si paga all’insufficienza di infrastrutture (nei trasporti, nella salute, nei servizi non è sempre altrettanto visibile, ma il meccanismo è esattamente lo stesso: ogni carenza costa a chi ce l’ha e arricchisce chi non ce l’ha. Il che incrementa il ritardo di chi è dietro e che ha finanziato e continua a finanziare il vantaggio altrui). Uno studio del 2007, condotto dal professor Roberto Ciampicacigli, direttore del Censis, avverte che nella «bilancia commerciale dei saperi», i flussi «sono tutti orientati nella direttrice Sud verso Nord»; generando il maggior “saldo attivo” (guadagno), di 800 milioni di euro all’anno, in Emilia Romagna; e il maggior saldo negativo, di 500 milioni, in Puglia. Perché mai una persona dotata del noto senso di equità padana come la Gelmini (e tanti altri come lei e prima di lei) dovrebbe adoperarsi per ripianare uno squilibrio Nord-Sud che, solo per l’università, rende tanto (a loro, si capisce)? E ancora: il 60 per cento dei meridionali laureati al Nord, ci resta; vuol dire che, per misurare la vera perdita del Mezzogiorno, a quella cifra va aggiunta la ricchezza che ognuno di loro, da allora in poi, genera altrove, con la sua competenza (e su cui il Nord non ha investito nulla, anzi, ci ha guadagnato): sono i calcoli che si fanno per valutare l’entità dei “capitali umani” trasferiti. Si misura così la perdita (o il guadagno) prodotto dall’emigrazione, non soltanto intellettuale. Il sistema deriva dalla stima del valore degli animali da fatica. Quei giovani laureati sono un capitale accumulato in anni, con immensi sacrifici, ma che non rende niente al Sud. Pura perdita, in favore del Nord.
È la stessa cosa che limitarsi il pane per una vita, per acquistare 300.000, 400.000 euro di Bot; poi, quando ci siete riusciti, passa il signor Brambilla a ritirarli. Naturalmente, voi siete contenti che il figlio abbia un buon lavoro, in una buona azienda, peccato così lontano; erano contenti pure i genitori di laureati indiani che trovavano adeguata occupazione a Londra o New York, non a Calcutta. Ma se l’India oggi corre come corre e domina nell’informatica, è perché quelle eccellenze restano in patria; perché l’India non è più colonia. E non basta, dei laureati meridionali (ovunque, anche al Sud), con il massimo dei voti, nel 2004, uno su quattro non restava o non tornava al Sud; con la cura del governo a trazione leghista, in soli tre anni, la percentuale è salita a quasi uno su due. E questo per le eccellenze. Sul totale dei 67.000 laureati meridionali (dati 2007), meno di uno ogni sette ha possibilità di trovare lavoro degno al Sud. Gli altri, o si accontentano, o se ne devono andare. Se fosse sanato lo squilibrio Nord-Sud di strutture universitarie (ma date fiducia alla Gelmini: se resta abbastanza a lungo, dovremo mandare i figli al Nord pure per la scuola materna), tutti quei miliardi di euro che riceve, il Settentrione li perderebbe. E che so’ scemi? (Ripeto: la Gelmini, lì, non rappresenta nulla, nemmeno se stessa, più o meno come gli altri: è solo la sintesi di volontà vaste, potenti e persino antiche. Se lei facesse qualcosa in senso contrario, cambierebbero il ministro. Insomma, un po’ come l’amministratore delegato delle Ferrovie. Il che non li assolve.) Il dottor Gelormini e la professoressa sua moglie saranno lieti e fieri del contributo dato al Paese; anzi alla parte del Paese che comanda. E, con loro, quello stuolo di genitori meridionali convinti di sacrificarsi per i propri ragazzi, mentre lo fanno per sostenere un
sistema economico coloniale. Quanto a quel che il Paese fa per i loro figli, non so se abbiano letto un illuminante articolo del professor Gianfranco Viesti, docente di Economia all’Università di Bari (ora anche alla guida della Fiera del Levante), occhiuto analista delle discriminazioni istituzionali a danno del Sud: tratta delle sovvenzioni in favore dei ricercatori laureati meridionali. Bisogna avere la pazienza di seguire cose che sembrano un po’ complicate, ma la porcheria si vede benissimo: – una legge del 1992 dispone finanziamenti per le imprese che investono nel Mezzogiorno (potevano usufruirne anche le altre, ma meno); – nella legge finanziaria per il 2008, il governo Prodi decide di vedere quanti di quei soldi non sono stati spesi (perché le imprese vi hanno rinunciato, o non ne avevano diritto, o hanno lasciato scadere i termini); e di destinarli a giovani laureati del Sud, per «favorire il loro inserimento lavorativo; ma anche» scrive Viesti «la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori impiegati in nuove imprese innovatrici (le “start up”) sempre al Sud»; – il governo Prodi cade e, nel 2009, il nuovo governo Berlusconi destina quelle risorse alla rottamazione degli autoveicoli (non ridere: è vero). «I giovani laureati e ricercatori del Mezzogiorno vengono così rottamati» riassume Viesti (e dagli torto!). Si tratta di una somma imponente: 933 milioni di euro. Tanto che il governo a ricatto leghista stabilisce di finanziare, con quei soldi, pure la «valorizzazione dello stile e della produzione italiana» (e che sarà mai? Sarebbe stato più onesto scrivere: tutto e il contrario di tutto), più gli «incentivi ai distretti industriali», e persino «il sistema produttivo delle armi di Brescia», l’emittenza locale (50 milioni) e «il sistema dell’illuminazione del Veneto». Scusate... e i laureati e ricercatori del Sud? Ops, sono finiti i soldi! «Dopo essere stati “rottamati”,
vengono adesso “folgorati”», chiosa Viesti, in favore del Veneto a illuminazione sovvenzionata (sapete quelli che: «Noi facciamo da soli, lo facciano pure al Sud»? Loro). I giovani laureati e ricercatori meridionali lasciati per strada potrebbero anche apprezzare che, grazie agli aiuti all’industria bresciana delle armi, sarà più facile acquistare una pistola per spararsi, se disperati, sperando che non abbiano letto il Manuale del perfetto suicida, che dice al primo punto: non sprecate il vostro suicidio, eliminate prima chi vi sta più sulle scatole; – e non è finita, perché, scopre Viesti il tenace, l’allora ministro allo Sviluppo economico, Claudio Scajola, trova (a sua insaputa?) 152 milioni di risparmi per il 2010. E, un attimo prima di dimettersi per via della casa che qualcuno gli ha pagato, senza manco avvisarlo (ce n’è di cafoni in giro...), divide quei soldi fra tv locali, «programmazione negoziata nel Centronord» (niente Sud: perché ci avevate creduto?), un altro po’ di soldi a Lombardia e Veneto (quelli abituati a far da soli) e 50 milioni all’industria degli armamenti. E so’ finiti gli euri un’altra volta. Così, «dopo essere stati rottamati e folgorati, i giovani laureati e ricercatori meridionali sono definitivamente battuti, armi alla mano», conclude il professore, che fra gli altri difetti, ha quello dell’ironia: tanto, hai voglia a dirlo, non succede niente; almeno ti ci diverti, per amaro che sia quel riso. Ora, prendete il libro degli esercizi per una democrazia equa e solidale e, quale compito a casa, raccontate cosa sarebbe accaduto se tali porcherie fossero state fatte a beneficio dei sistemi di illuminazione della Lucania, dell’industria campana della pasta e dell’allevamento tarantino delle cozze, sottraendo oltre un miliardo di euro ai giovani laureati e ricercatori del Nord (si ricorda che è vietato riportare pernacchie di Umberto
Bossi, gesti di Borghezio, comunicati della scuola padana gestita dalla moglie di Bossi e finanziata con soldi pubblici, mentre ne tolgono alla scuola pubblica; e i silenzi di riflessione del Pd). E il ministro alla Pubblica istruzione non dice niente? Era troppo occupata a varare una norma per impedire ai professori meritevoli del Sud di sorpassare, nell’assegnazione delle supplenze al Nord, i colleghi settentrionali più scarsi. Così, nel 2009, stabilì che chi si spostava da una provincia all’altra, non poteva più entrare nelle graduatorie con il suo punteggio, ma doveva aggiungersi in coda ai residenti, pur se di punteggio inferiore. Come dire: se avanza qualcosa, dopo il Trota, lo diamo all’Einstein di Campobasso. Ricordo ai distratti, che è lo stesso ministro che ha sfasciato la Pubblica istruzione in nome della meritocrazia (ma perché, ci avevate creduto?); per esempio, facendo in modo che risultassero meritevoli e ricevessero altri soldi, in base a criteri “obiettivi” (cioè: obiettivamente settentrionali) solo le università del Nord. Con la norma sulle supplenze, fu ancora più chiaro quale fosse il vero merito da premiare: essere settentrionali, non importa se scarsi. E se ci si imbatte nel merito di insegnanti meridionali, certificato da alti punteggi, come da norme ministeriali, li si costringe in coda, dietro ai bianchi! La Consulta, supremo giudice, ha bocciato la novità, perché «comporta il totale sacrificio del principio» che è stato «posto a fondamento della procedura di reclutamento dei docenti». E quale sarebbe? Quello “del merito”, come: non ve l’ha detto la Gelmini? È stato calcolato che se i 15.000 insegnanti meritevoli e penalizzati soltanto perché meridionali facessero causa allo Stato, il danno oscillerebbe fra i 200 e i 300 milioni di euro. Mentre il presidente leghista del Piemonte, Roberto Cota, fa passare una legge per evitare che studenti meridionali meritevoli abbiano borse di studio nella sua regione: preferisce
destinarle a quelli locali, anche nel caso dovessero rivelarsi meno bravi. Così, mentre in tutto il mondo le università, per innalzare il proprio livello culturale (la Gelmini direbbe: “merito”), offrono facilitazioni di ogni tipo ai migliori, sia professori sia studenti, nell’Italia a infezione leghista e gelminian-tremontiana, si obbligano i migliori ad accodarsi ai peggiori, ove si tratti dei peggiori del posto, e il posto sia a Nord. Così, persino il Trota rischia di prendere una borsa di studio (avvisatelo, però, che deve almeno iscriversi... Che fa, presidente Cota, lascia un attimo il posacenere con il sigaro di Bossi padre e telefona lei?). La cosa non dovrebbe dispiacere al ministro Gelmini, nota per aver preso quasi mezzo miliardo di euro destinati, per legge, alle più malmesse scuole del Sud e averlo distribuito a tutt’Italia (lo so che l’ho già detto, ma continuerò a ripeterlo, finché qualcuno non comincerà a vergognarsi). Ora, se rubi la mia penna, sei un ladro e meriti una punizione; se sottrai alla parte più svantaggiata del Paese le risorse attribuitele per legge, diventi ministro alla Pubblica istruzione del Centro-Nord. La Gelmini applica il metodo in uso da 150 anni e che il ministro alle Finanze padane, Giulio Tremonti, adotta per dirottare i fondi delle aree sottoutilizzate (FAS) al Nord. Non sono né peggiori, né migliori dei loro predecessori: se si va indietro, nella storia dell’Italia-si-fa-per-dire-unita, si scopre che questo accade sin dall’inizio, per le strade, le scuole, le ferrovie, le bonifiche, gli aeroporti... Io parlo di loro, solo perché miei contemporanei (quando si dice la fortuna!); ma se fossimo in un diverso periodo della storia unitaria, le cose non cambierebbero: stesso sistema, stessa discriminazione antimeridionale. Si è solo abbassato il livello dei protagonisti. L’incredibile ministro alla Pubblica istruzione, però, ha voluto metterci del suo, ripulendo i libri della “sua” scuola, da poeti e scrittori meridionali, dotati o no di premio
Nobel per la letteratura. Ma questa è un’altra storia; la racconto alla voce: La setta dei Poeti Estinti. Una storia molto “istruttiva”. Infatti, la signora è, con decenza parlando, ministro della Pubblica istruzione (scusate se lo ripeto spesso, ma siccome non mi credono, quando lo dico...).
23 QUOTE SUD
Me l’avevano già fatta la domanda? Sì, ora che ci penso, sì. Quando? Sempre, ogni volta: «E le responsabilità della classe dirigente meridionale, allora? È sempre e solo tutta colpa del Nord?». E forse devo aver già detto che la classe dirigente di un territorio e una popolazione ridotti in condizione coloniale o semicoloniale (politici, manager, banchieri, intellettuali) può gestire il potere che gli viene delegato, solo se consenziente con progetti, idee e interessi di chi comanda davvero. È la situazione del Mezzogiorno d’Italia. «Comanda il Nord. Votato anche dal Sud, ma comanda il Nord» scrive Giovanni Floris, in Separati in patria. E perché il Sud vota il Nord? L’azienda del Sud è posto pubblico e assistenza, più poco altro (le sue industrie e i commerci furono spazzati via dalle armi piemontesi e dalle leggi pro-Nord dell’Italia unita, allora come oggi; solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale). Chi è in questa condizione, vota sempre per il governo in carica che gli garantisce il reddito. E la classe dirigente meridionale può intercettare e gestire risorse pubbliche solo se rassicura il potere dominante. Per riassumere: chi vota paga il suo reddito con l’acquiescenza; chi
gestisce ricambia con la fedeltà il potere che gli viene delegato. L’argomento si ripropone a casa di Antonio Ferraioli, a Cava de’ Tirreni (è amministratore della Doria, unica industria conserviera quotata in Borsa), dove Isaia Sales, autore di libri importanti sul Mezzogiorno, mi invita a dialogare con alcune decine di colti componenti di un club di lettori, orientamento progressista. Chi sintetizza il mio Terroni lo fa con competenza e profondità che ho raramente riscontrato in altre occasioni. Il tema lo coinvolge, al punto che all’inizio non riesce a parlare, si interrompe, ricomincia da un altro bandolo... Accade, quando troppe cose premono, dentro di te, per essere dette. Mi assicurano che non gli era mai successo. Quando ingrana, però, sviluppa il ragionamento con tale linearità e ricchezza di osservazioni, anche critiche, che mi induce a pensare: davvero se l’autore vuol capire cos’ha scritto, deve chiedere a un buon critico. Un testo contiene sempre più cose di quelle che pensi di metterci. Ma alla fine, è quella la domanda: perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo? Provo a elencare: a cospetto della classe dirigente nazionale, che è tutta settentrionale, tranne tre o quattro infiltrati (ehm..., meno uno: mentre scrivo, il romano Cesare Geronzi, che da Mediobanca era passato alle Assicurazioni Generali, è stato imbottito di milioni e defenestrato), quella meridionale occupa linee di potere di seconda e terza fila o peggio, o solo locali. Il Parlamento è a trazione nordica (candidati settentrionali vengono catapultati al Sud, raro il contrario); il governo è solo settentrionale, in particolare lombardo, specie milanese: la presenza meridionale è di rappresentanza o poco più, come la campana Mara Carfagna alle Pari Opportunità (di cui lei è esempio), la siracusana Stefania Prestigiacomo
all’Ambiente, che il ministro Tremonti priva delle risorse ministeriali, senza manco avvertirla, o l’agrigentino Angelino Alfano, ex segretario di Berlusconi, ex ministro alle leggi ad personam (qualcuno dice: alla Giustizia. Noo! La Giustizia lo sa?); i capi dei partiti, tranne Antonio Di Pietro, sono tutti del Nord (mentre scrivo, Berlusconi nomina il suo ex segretario Alfano segretario del suo partito. E ora indovinate chi è il capo del partito); le banche tutte settentrionali o centro-settentrionali, come i loro dirigenti e quelli delle aziende di Stato o che dal potere statal-governativo dipendono (ENI, Ferrovie dello Stato, Terna, Autostrade, Poste, Lottomatica, Finmeccanica... ne fece l’elenco Floris); l’editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord; proporzione meno squilibrata nelle università, ma il ministro Gelmini ha varato strumenti “meritocratici” per rendere sempre meno efficienti quelle del Sud, e sempre più ricche quelle del Nord; quanto alla Confindustria, prevede, nella sua dirigenza, una quota di meridionali prossima allo zero (in cento anni di esistenza, ha avuto un solo presidente del Sud; ma, per bocca del suo presidente in carica, mentre scrivo, Emma Marcegaglia, in tutta la sua storia, non ha preso una decisione in favore del Mezzogiorno). Ho già fatto questo elenco, ma se le cose restano le stesse, come faccio a non ripeterlo? Qualsiasi cosa il Sud debba fare, deve chiederla a un settentrionale: dalla finanza all’industria, alla politica, alle infrastrutture, al credito, ai servizi, all’industria culturale. Il potere è interessato a conservare se stesso e a sapere di se stesso e chi vuol capire quanto qualcuno o qualcosa conti, misura lo spazio che occupa nei giornali, il tempo che gli si dedica nell’informazione televisiva. Ci sono agenzie che su tali dati elaborano indicatori di influenza. In questo senso, l’unico potere meridionale è il crimine organizzato. Per il resto, «il Sud è scomparso: dalla tv, dagli articoli di giornale, dalla stanza dei bottoni»,
notava Floris nel suo libro. Non è una situazione inedita (non penserete dipenda dal fatto che i meridionali sono meno capaci dei settentrionali! Sì? All’uscita, potete ritirare il vostro cappuccio del Ku Klux Klan). I Savoia non avrebbero potuto fregiarsi del titolo di re, senza la Sardegna (i loro feudi alpini non avevano dignità reale), ma l’isola fu sempre tenuta in condizione di colonia, subordinata, terra da cui prendere: niente investimenti, infrastrutture, scuole (il tasso di analfabetismo era il più alto d’Italia); i sardi erano esclusi dagli incarichi importanti. Il potere era tutto in mano a piemontesi. Sono forse meno capaci gli isolani, oggi? E perché avrebbero dovuto esserlo allora? Quando sei in vantaggio di potere, la posizione dominante ti permette di incrementarlo. E più cresce il divario in tuo favore, più è facile farlo aumentare ancora. Per questo nascono industrie dove ce ne sono già; e «solo chi ha i soldi può fare i soldi. La condizione dura sino a che non viene rimossa la ragione del divario: o la discriminazione imposta viene eliminata o chi la subisce se la scrolla di dosso (ex colonie come l’India e il Brasile, conquistato il diritto di disporre del proprio futuro, stanno entrando nel club dei primi Paesi della Terra). Quanto ai sardi, Carlo Felice, che regnò dal 1821 al 1831, infranse il tabù che li escludeva (era stato vicerè dell’isola, li conosceva e apprezzava): «anziché riservare tutti i posti di responsabilità agli aristocratici piemontesi», scrive Martin Clark, in Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa , «ne affidò un certo numero a sardi delle classi medie». Non solo sardi, ma nemmeno nobili, che vergogna, signora mia! E come andò? Bene, erano sardi, mica scemi. In Lombardia, con gli austriaci, le cose non erano diverse. Mentre la nobiltà piemontese
era coinvolta nella gestione dello Stato, gli austriaci mostravano poca stima per quella lombarda, che veniva esclusa dalla cosa pubblica. «Né erano in alcun modo riconosciute le capacità militari e amministrative, anche se dimostrate, di certi nobili, neppure a livello municipale» (sempre Clark). «E le massime cariche nell’amministrazione civile e giudiziaria erano riservate agli austriaci [...] Anche le classi medie erano vittime di discriminazioni. Gli avvocati dovevano uniformarsi alle leggi austriache, per cui erano tenuti a conoscere il tedesco; di conseguenza le cause più importanti (e lucrose) erano monopolizzate dagli avvocati sudtirolesi, generalmente bilingue. Le università e le altre scuole d’ogni ordine e grado dovevano seguire programmi stabiliti a Vienna. Insomma, per i lombardi il dominio austriaco finì col significare la sudditanza ad altezzosi forestieri.» E si radicò la convinzione che i lombardi fossero inetti. Quando furono rimosse le cause che frenavano i loro talenti, mostrarono di cosa fossero capaci. Erano lombardi, mica scemi. E in Veneto? Anche lì «i membri insoddisfatti delle classi medie – per esempio avvocati e medici che non riuscivano a trovare una sistemazione – divennero man mano più numerosi. I posti più importanti nella pubblica amministrazione erano occupati da austriaci, o da cechi, persino da lombardi» (addirittura!). Se i veneti “non riuscivano”, era colpa dei veneti o delle circostanze che negavano loro la riuscita? Tant’è che, rimosse quelle, e nonostante le penalizzazioni postunitarie, hanno fatto vedere quanto valgono. Sono veneti, mica scemi. E i meridionali, invece, sì? Per questo non risolvono la “Questione” che li riguarda? Mentre i settentrionali acchiappano tutto loro, perché sono più bravi (non quanto gli austriaci, quando ci sono gli austriaci...)? O perché sono oggi nel ruolo in cui erano gli austriaci, quando i lombardi erano nel ruolo dei terroni?
Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non “risolverà”, perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo. Questi argomenti non hanno molta presa su chi, meridionale di talento, ha meritatamente conquistato posizioni di eccellenza. La sua personale esperienza, e la cosa è comprensibile, lo porta a ritenere che, se vali e hai la forza di dimostrarlo, riesci. E ci mancherebbe non ci fossero nemmeno le eccezioni! E questa sera sono con persone di successo, portati a pensare: se io ce l’ho fatta, tutti possono, volendo. Il guaio è che quel “volendo”, è anche il volere di un altro, non solo il tuo. Ti dicono che ci sono stati ministri e capi di governo meridionali e potentissimi, vedi De Mita. E non è cambiato nulla. Hanno ragione, ma il governo e il suo capo non hanno il potere, lo gestiscono. Non è la stessa cosa (la stragrande maggioranza dei manager delle principali aziende italiane è meridionale, spiegava un dirigente della presidenza del Consiglio, a un convegno cui ho partecipato a Civitella del Tronto: hanno il potere di farle marciare, ma sono di altri). C’è, fra gli ospiti, un alto dirigente di banca. Ha appena raccontato alcune esperienze legate alla sua professione, che dimostrano quanto pesi la subordinazione del Sud a interessi estranei al territorio e al suo sviluppo. È uno che conta; ma per chi? E lui lo sa e ne soffre, anche se non lo dice. Era del Banco di Napoli, poi assorbito dalla Sanpaolo di Torino (senza bersaglieri, questa volta, ma non ce n’era bisogno. Già quando fu unificata l’Italia, alle banche del Sud venne riservato solo il compito di rastrellare risparmio meridionale, da
dirottare al Nord; nonostante il Banco napoletano fosse decine di volte più ricco e solvibile di quello piemontese). Gli chiedo cosa accadrebbe se lui usasse i suoi poteri, non piccoli, nel gruppo bancario, per favorire la crescita di un’azienda napoletana possibile concorrente di una di Torino. Verrebbe sostituito subito o no? Lui tace, allarga le braccia. E immaginate se De Mita avesse preso una decisione contro gli interessi della Fiat o della Montedison (allora): il giorno dopo, sarebbe caduto il governo e De Mita avrebbe coronato la sua carriera come sindaco di Nusco (forse... A Giacomo Mancini è successo, per aver imposto la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, a dispetto dell’Iri, che non voleva autostrade a Sud, manco quella schifezza della Salerno-Reggio). Questo assolverebbe De Mita? No, la regola è: fa’ quel che devi, accada quel che può. Se, per esempio, i parlamentari meridionali non votassero le leggi della Lega contro il Sud, pur sapendo che non verranno ricandidati per l’impertinenza, il meccanismo che tiene il Sud subordinato apparirebbe più chiaro. Il male teme la luce: lo vedrebbero anche i distratti, i semplici, gli ingenui. Mentre i furbi e complici perderebbero alibi. A marzo 2011, il Parlamento ha varato una legge perché almeno il 30 per cento dei componenti dei consigli di amministrazione delle grandi aziende siano donne. Sono le “quote rosa”; esistono anche in altri Paesi. Per impedire che un cretino e sprovveduto, solo perché uomo, rubi un posto importante a una donna intelligente e preparata, si impone per legge la possibilità che una cretina e sprovveduta, solo perché donna, rubi il posto a un uomo intelligente e preparato. Questi sono i guasti che si creano quando, invece di eliminare le eccezioni con una buona regola, si raddoppiano le eccezioni nell’illusione che si bilancino.
Insomma, se tutto il potere è settentrionale e non si vogliono riconoscere ai meridionali pari ed eque opportunità, anche senza essere Mara Carfagna, allora si pretendano le “Quote Sud”. La discriminazione nei riguardi delle donne è stata rimossa, perché nei centri del potere vero (Eni, Enel, Fiat, Telecom e altri) la loro presenza era zero; nei consigli di amministrazione dei più importanti titoli quotati in Borsa, la quota femminile andava dal 5 al 7,5 per cento. Non ammissibile in un Paese civile, moderno: le donne sono la maggioranza della popolazione, perché diventano minoranza etnica nella stanza dei bottoni? La percentuale dei meridionali al vertice dei centri del potere vero è persino inferiore, prossima ovunque allo zero; nella gran parte dei casi, è proprio zero. E allora servono le “Quote Sud”, per equità e per non rischiare che quelle “rosa” portino a una finta perequazione, perché senza “Quote Sud” potremmo avere le “rosa” solo settentrionali. Come dire: altre Letizia Moratti, più Michela Vittoria Brambilla, più Maria Stella Gelmini... E i meridionali verrebbero ancora esclusi; e le meridionali escluse due volte: perché del Sud, e perché donne (chissà se esiste qualcosa di peggio...). Isaia Sales mi domanda se il successo di Terroni non sia pericoloso, visto che il libro è diventato riferimento per l’azione politica di partiti e movimenti diversissimi (dai “Terroni democratici” del sindaco di Bari, Michele Emiliano, a “Forza del Sud” di Gianfranco Miccichè), ma soprattutto di centrodestra. È una preoccupazione che condivido, ma Terroni non c’entra niente: io descrivo fenomeni sociali, non li creo; la sinistra (salvo ottime, ma isolate eccezioni) si limita a condannarli, se non le piacciono; il centrodestra, in modo politicamente svelto e senza troppe finezze, cerca di rappresentarli; magari usarli, persino per scopi esattamente contrari a quelli per cui quei fenomeni sorgono (come fare partiti del
Sud, per votare con la Lega, come vuole la Lega, contro il Sud). Ma con chi vuoi prendertela, se non con te stesso? Questi fenomeni si governano o si subiscono; tenersene lontani, per urlare che vanno in direzione sbagliata, serve solo a lasciare mani libere a chi li porta in quella direzione. La serata è stata meno lineare di come appare in questa sintesi, ma ricchissima di riflessioni. Tanto che in auto, esausto, è notte, avevo deciso di dormire, mentre il mio amico guida verso il Sannio. Invece scrivo sulla mia moleskine, per non dimenticare. Così ho perso il sonno e, pochi giorni dopo, la moleskine. Si è salvato qualcosa a memoria: per esempio, questa roba delle “Quote Sud”. Ma ho capito cosa sono le moleskine, visto che è la seconda volta che mi succede: se è vero, come dice Freud, che si perde solo ciò che si vuol perdere, allora la moleskine, i blocchi per gli appunti, sono il posto in cui stipi tutte le cose più importanti, per potertene liberare in un colpo solo. Se, invece, la sottrazione dei miei appunti era un esercizio di critica letteraria da parte degli dei («Mica vorrai scriverle davvero queste cose?»), be’, purtroppo per voi, gli dei hanno perso.
24 EUTANASIA DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE
La solita storia, in tutti i sensi. Sul sito del «Corriere della Sera», si discute della conferenza del professor Galli della Loggia, che obietta sulla riscoperta e riproposizione dei massacri e dei furti “risorgimentali” compiuti nel Mezzogiorno e sulle vere condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie, al momento dell’invasione. Alcuni lettori contestano le affermazioni del professore riportando dati. Il giornalista che governa gli interventi prova a metterli in dubbio; un interlocutore, in particolare, il presidente dei Neoborbonici, Gennaro De Crescenzo, replica elencando documenti (quale archivio, scaffale, plico, busta, anno...). Ed è qui che leggo la cosa: l’industria meridionale, sostiene il giornalista, sarebbe morta lo stesso, anche senza l’Unità. E cita un brano dell’intervista a «Reset», di un altro professore, questa volta dell’Università Bocconi, Giuseppe Berta: «Per quanto riguarda il Sud [...] non si può non considerare l’impatto che avrebbe avuto, dopo la crisi agraria,
l’effetto dell’ondata migratoria. L’agricoltura meridionale avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere solo grazie al commercio di agrumi, olio e vino. Ipotizzare invece uno sviluppo industriale al Sud non sarebbe stato possibile senza il sostegno statale e le commesse pubbliche, dimostrato anche dal fatto che prima di allora non si crearono delle valide infrastrutture. Allo stesso modo esisteva il problema dei collegamenti ferroviari, se si considera che la prima ferrovia italiana aveva uno scopo puramente dimostrativo: solo per far vedere cioè che anche al Sud si poteva costruire una linea ferrata. Insomma, serviva per andare al mare. Quindi la situazione del Sud sarebbe stata più problematica rispetto a quella del Nord e anche per questo si può ipotizzare che l’impoverimento meridionale si sarebbe comunque verificato come effetto della crisi agraria degli anni Ottanta... Il territorio del Sud sarebbe stato un territorio sottoposto a crescenti difficoltà. Le esportazioni all’epoca erano modeste e, perdurando il carattere di una economia, come quella meridionale, fondata sul latifondo e quindi non autosufficiente, questa stessa economia non sarebbe stata in grado di superare quella crisi». E poi dicono che la perfezione non esiste: è meglio di un’antologia, non manca proprio niente, e il tutto in breve! Ecco perché riporto questo brano. Lo ripropongo, pezzo per pezzo: 1 . «Per quanto riguarda il Sud… [...] non si può non considerare l’impatto che avrebbe avuto, dopo la crisi agraria, l’effetto dell’ondata migratoria.» Già, ma la crisi agraria fu indotta dalla denuncia del trattato commerciale con la Francia nel 1887, fatta dall’Italia, per favorire la nascente industria settentrionale, proteggendone le merci dalla concorrenza straniera, con l’imposizione di dazi; mentre l’industria del Sud era stata privata
delle commesse e, in parte, persino distrutta manu militari. L’ondata migratoria dei meridionali, mai esistita prima, ne fu la conseguenza. Insomma, quegli eventi si verificarono in seguito al modo in cui il Meridione fu annesso al resto d’Italia: come si fa a “prevedere” che ci sarebbero stati lo stesso, senza la causa che li generò? 2. «L’agricoltura meridionale avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere solo grazie al commercio di agrumi, olio e vino.» E ti pare niente? Il Regno delle Due Sicilie fu il primo a puntare sull’agricoltura mediterranea specializzata ad altissimo reddito: la convenienza degli agrumeti della Conca d’Oro superava quella dei frutteti alle porte di Parigi. E il commercio di quei prodotti agricoli si svolgeva quasi interamente con i Paesi più ricchi del mondo, dal Nord Europa agli Stati Uniti. L’olio pugliese e calabrese lubrificò le macchine delle industrie dell’intera Europa; e quando, nelle fabbriche, fu sostituito da quello minerale, con una geniale innovazione tecnologica, la produzione olearia venne riconvertita in alimentare e continuò ad arricchire i suoi sostenitori (pure il fratello minore di Garibaldi, Felice, fece i soldi così, con l’olio pugliese; e don Peppino acquistò Caprera con il lascito ereditato per la prematura morte del consanguineo). La possibilità di sopravvivere con agrumi, olio e vino (la Puglia ne divenne la maggiore produttrice al mondo) fu depressa dalle scelte dello Stato unitario. Quindi, l’argomento non può essere usato per buono, perché senza invasione e scelte politico-economiche penalizzanti per il Sud, quel ricco cespite non avrebbe subito i danni che ebbe! Tant’è che torna non buono, ma ottimo, ancora oggi, al Sud e in tutta Italia, se il nostro vino ha superato quello francese sui mercati mondiali e si coltivano 180 milioni di ulivi (60 milioni, solo in Puglia); 3. «Ipotizzare invece uno sviluppo industriale al Sud non sarebbe stato possibile senza il sostegno statale e le commesse pubbliche, dimostrato anche dal fatto che prima di
allora non si crearono delle valide infrastrutture.» Infatti, lo sviluppo industriale del Sud aveva preso un interessante avvio, proprio con le commesse statali (nessuna industria pesante, allora e spesso pure adesso, sarebbe sopravvissuta senza l’aiuto e gli ordinativi dello Stato, considerando che si parla di ferrovie, navi...); ed ebbe il sostegno dell’Istituto di Incoraggiamento, di ideazione murattiana, ma non sconfessata dai Borbone, che anticiperà tecniche e metodi poi ricomparsi nelle scelte dell’Italia unita, per favorire però solo l’industria settentrionale, salvarla e rilanciarla. L’industria meridionale morì perché tale sostegno le fu tolto (dopo averlo avuto); quella settentrionale decollò, perché lo ottenne, a spese del Sud. Le commesse statali andarono tutte o quasi tutte ad aziende del Nord; gli appalti, pure, e se già assegnati a imprese meridionali, vennero girati a quelle settentrionali (come la costruzione della ferrovia Napoli-Bari). Pertanto, l’argomento non è valido per dire che anche senza l’Unità, l’industria del Sud sarebbe morta, visto che fu l’Unità fatta a quel modo a ucciderla, vedi le acciaierie di Mongiana, che erano le più grandi d’Italia (talvolta, per buona misura, uccisero pure gli operai che si opponevano allo scempio, mandando i militari a sparargli, come alle officine di Pietrarsa, le più grandi del tempo, per favorire lo sviluppo della Ansaldo, di cui era socio il direttore generale della prima Banca nazionale italiana. Per capire di cosa si parla: fate conto che l’attuale governatore della Banca d’Italia divenga socio di una nuova fabbrica di automobili e si mandino i carabinieri a sparare contro gli operai della Fiat, per eliminare la concorrenza). 4 . «Allo stesso modo esisteva il problema dei collegamenti ferroviari...» Ancora! Questo è l’argomento principe usato per “dimostrare” l’arretratezza del Regno delle Due Sicilie che, al momento dell’Unità, aveva sviluppi viario e ferroviario modesti, rispetto a Piemonte e Lombardia. Tocca ripetersi, e me ne scuso. Con la stessa disinvoltura, si può
dimostrare che la prova dell’arretratezza della Val d’Aosta (allora la più povera regione italiana; vedi l’indagine del Consiglio Nazionale delle Ricerche) sta nel fatto che la Puglia era ricca di allevatori di cozze e la Val d’Aosta no: non si può prendere quale parametro unico di sviluppo la rete ferroviaria e viaria di due regioni senza sbocco sul mare, paragonandola a quella di un Paese tutto sul mare (tranne un istmo di 190 chilometri), con migliaia di chilometri di coste, e che aveva puntato, per ragionata scelta politicoeconomica, sui trasporti marittimi e la cantieristica navale (esattamente come la superpotenza dell’epoca, la Gran Bretagna; che, infatti, fu infastidita dalla poderosa e veloce crescita della flotta commerciale duosiciliana, specie nell’imminenza dell’apertura del canale di Suez, che avrebbe posto il Sud d’Italia al centro del commercio mondiale). Ma se quello è il metodo, allora si può affermare che Piemonte e Lombardia erano tanto arretrate rispetto al Regno delle Due Sicilie, che non avevano flotta commerciale. Peccato che le prime potevano sviluppare trasporti solo via terra; all’altro conveniva farlo, più economicamente e in tutto il mondo, via mare (questa roba mi sa che l’ho già detta. Che faccio, la ripeto? Be’, loro continuano a dirla; prima o poi, qualcuno si stancherà. Io no). 5 . «E si considera che la prima ferrovia italiana aveva uno scopo puramente dimostrativo: solo per far vedere cioè che anche al Sud si poteva costruire una linea ferrata.» Il Regno delle Due Sicilie fu il primo, in Italia, a costruire una linea ferroviaria; il che, se non vogliamo applicare pure alla lingua italiana questa nordica logica ferroviaria, significa che nessuno degli altri Stati preunitari, allora, aveva già il treno. O no? Almeno questo non si può negare. Epperò, con quell’“anche” si tenta di smentire, indirettamente, pure l’innegabile! Quindi, rimettiamo le cose a posto: persino se la costruzione della prima linea ferroviaria fosse stata “puramente dimostrativa” (e non è così), sarebbe servita a far
vedere che “solo” il Sud sapeva già fare i treni e farli viaggiare. E gli altri no; o non ancora. Che c’entra “anche”? 6. «Insomma, serviva per andare al mare...» Be’, se qualcuno evitasse di andarci, anche solo un giorno, potrebbe dare una guardata in archivi aperti a tutti. Scoprirebbe, come è accaduto al professor De Crescenzo e ad altri, quante tonnellate di merci trasportavano quei treni, insieme a quasi 60.000 viaggiatori in un solo mese. E il mese era ottobre, che forse sarà balneare all’idroscalo di Milano. A Napoli e dintorni no. 7. «Quindi la situazione del Sud sarebbe stata più problematica rispetto a quella del Nord e anche per questo si può ipotizzare che l’impoverimento meridionale si sarebbe comunque verificato come effetto della crisi agraria degli anni Ottanta...» Versione corretta: Quindi la situazione del Sud fu resa più problematica rispetto a quella del Nord, dalle scelte politico-economiche post-unitarie; fra cui quella che determinò la crisi agraria degli anni Ottanta. Curioso modo di prevedere quello che si sarebbe comunque verificato, trascurando quel che si fece per farlo verificare. Come dire che tizio sarebbe caduto comunque dalle scale, tacendo che Caio ve lo spinse. 8. «Il territorio del Sud sarebbe stato un territorio sottoposto a crescenti difficoltà. Le esportazioni all’epoca erano modeste e, perdurando il carattere di una economia, come quella meridionale, fondata sul latifondo e quindi non autosufficiente, questa stessa economia non sarebbe stata in grado di superare quella crisi.» Non sapremo mai quali difficoltà avrebbe potuto incontrare l’economia del Sud, lasciata crescere o morire secondo le sue scelte e la strada intrapresa. Sappiamo quali incontrò e le vennero imposte, a mano armata, per fermarne il cammino e non ostacolare quella settentrionale. Le altre possono essere immaginate, a piacere; queste sono vere. Quanto al latifondo, esplose soprattutto
dopo l’Unità, per lo scellerato patto fra nuovo potere e agrari del Sud, cui fu consentito di ampliare i propri possedimenti con l’usurpazione degli usi civici, le terre demaniali, e l’acquisizione, a prezzi scontatissimi, degl’immensi beni sottratti agli enti ecclesiastici. E l’economia meridionale era così non autosufficiente, che almeno per quanto riguarda i prodotti agricoli mediterranei ad alto reddito, ne esportava; per la ghisa e il ferro, il Regno provvedeva da sé con i suoi stabilimenti; e negli ultimi tempi aveva cominciato a importare materie prime, per trasformarle (quantitativi modesti, a volte minimi; ma tutto era piccolo ovunque, allora, in Italia, a paragone di Paesi più avanzati. E tale restò ancora per qualche decennio). La sintesi, così, è stupefacente: l’industria meridionale sarebbe morta comunque, non poteva farcela (il che dovrebbe diminuire le responsabilità di averla uccisa: furono costretti a finirla, per non farla soffrire). Può darsi, non potremo saperlo più, ormai. Ma prevederne la morte è una ragione sufficiente per farla morire? E negarle e sottrarle le commesse pubbliche, destinandole altrove? Sfasciare gli altiforni dei più grandi stabilimenti siderurgici d’Italia e squagliarli in un altro, ma fatto nuovo più a Nord? Impedire ai cantieri navali più grandi d’Italia di continuare a fare navi e farle costruire solo a Nord? Così, è sicuro che si muore; per “eutanasia... non consenziente”. E poi: che argomento è? Tutti dobbiamo morire, non è una buona ragione perché qualcuno aspetti me e il professor Berta sotto casa e anticipi l’ineluttabile! Persino la pluriassistita (allora come adesso) industria del Nord non ce la fece e morì (da sola!): dopo la Prima guerra mondiale l’ondata di fallimenti rischiò di cancellarla per sempre. Lo Stato intervenne e la salvò, con i soldi di tutti (non successe una volta soltanto e
continua a succedere). Perché se l’industria meridionale “doveva” morire, si anticipa a fucilate l’evento e non si aspetta che defunga, invece di salvarla con i soldi pubblici; e se quella del Nord muore, la si fa risorgere, a spese di tutti? Mi sembra che ci si rassegni troppo facilmente al triste destino altrui, di cui si è persino artefici. E sorge il sospetto che, volendo far fuori qualcuno, gli si preconizzi il peggio e gli si dia una mano, per risparmiargli l’attesa. Dimostrando, per averla realizzata, che la previsione era giusta. Il professor Berta è altrimenti celebrato (e non a torto) per i suoi studi. In questo caso, parlando di storia del Sud, è invece approssimativo; tanto. Non è all’altezza del suo nome e dei suoi lavori. Perché? Forse, perché il Sud non merita uguale accuratezza e attenzione: trattasi di storia minore. Potremmo vederci un riverbero, sulla scala dei valori accademica, dell’idea di minorità che accompagna e condanna tutto quello che è meridionale. P.S.: Si polemizza molto sul Regno delle Due Sicilie terza potenza industriale. No? E cos’era: quarta, quinta? Se ne discuta. L’unica cosa che non si può dire, e lo si fa, è che fosse, come tale, inesistente. Badate che sono soprattutto intellettuali meridionali a sostenerlo (è stato già autorevolmente spiegato che il Sud d’Italia è l’unica colonia creata e mantenuta tale da un potere armato e poi politico ed economico esterno e da una giustificazione ideologica interna. Insomma, i colti del popolo sottomesso, in aiuto del dominatore). Ma credo utile, nel mio piccolo, osservare che la “potenza industriale” non è misurata dalla quantità delle merci che si fanno, ma dalla quantità delle cose che si fanno fare. La quantità di ghisa prodotta dal Sud e dal Nord d’Italia a metà Ottocento faceva ridere a
confronto di quella britannica; ma la qualità e la tecnologia no. «Non esistono nemici piccoli, ma solo nemici» diceva Gianni Agnelli, perché i nemici piccoli crescono. Se sai fare la ghisa, l’acciaio, la seta, le navi, i treni, le colture specializzate, i commerci... (e il Regno delle Due Sicilie, in diversi campi era il solo, in Italia o era stato il primo), tu sei un pericolo. Specie per la Gran Bretagna: le navi napoletane sostenevano scambi commerciali con tutto il mondo, incluso Cina e Australia. Non preoccupanti per numero, rispetto a quelle inglesi, ma in crescita. E, comunque, non è importante quante navi percorrano quella rotta, ma che quella rotta sia stata aperta. La prima che passa genera il fatto, le mille che seguono fanno numero.
25 NON SAPEVO
«Noi abbiamo fatto questo?» Mi sento colpevole del suo dolore. È un uomo probo che parla, lo rivela quello che dice, e come lo dice. Ho appena finito di raccontare del massacro per rappresaglia compiuto dai bersaglieri a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, due delle decine di paesi del Sud rasi al suolo, perché restii a dismettere un re, il proprio, per un altro, il Savoia, che non conoscevano e parlava francese. È un uomo che va per i sessanta, portati benissimo; ha dignità: non reagisce rifiutando quel che lo disturba così tanto, né rigettando, per delusione o opportunismo, quanto fin lì lo inorgogliva: i piemontesi hanno fatto l’Italia. «Ma non sapevo così...» mormora. Vuole capire e spiegare. La sala del castello, a Cisterna d’Asti, è zeppa. Lui ha figura composta e davvero risorgimentale, con baffo e pizzetto: gli manca la divisa e potrebbe posare per il monumento al bersagliere. Persino può darsi lo sia stato, perché proprio non gli va giù: «I bersaglieri... io che portavo i miei figli ad applaudirli alla Festa della Repubblica... hanno stuprato, sterminato...». Chiederò di lui, poi. È di Canale d’Alba, si chiama Gino Scarsi, impegnato nel recupero di tradizioni e musica popolari. Una persona molto stimata.
Come immaginate che parli un piemounteeeise? Ecco, così. Argomenta, con buoni argomenti. Se la prende con la limitatezza dell’insegnamento: «A scuola eravamo trenta: uno solo parlava italiano. L’Italia era il grande contenitore, ma noi non andavamo oltre la nostra vasca, qui, il Piemonte, e nemmeno tutto». Era convinto di essere un buon italiano, perché cercava di far bene il suo lavoro, rispettando i suoi doveri, valutando la portata dei diritti suoi in rapporto a quelli altrui. Era convinto di sapere com’è nato il nostro Paese e gli piaceva quella storia di pochi che fanno cose grandi (anche a me, sa?, anche a me). Adesso è confuso. Non lo dice così limpidamente, con un discorso consequenziale, questa è una sintesi, perché lui si interrompe, riprende, conclude, ricomincia per completare. Ma ci conquista tutti con la sua onestà. Se avesse saputo, lo avrebbe raccontato ai suoi figli. Poi ci atterra, quando trae le conseguenze del suo ragionamento: «Dobbiamo andare in questi due paesi, bisogna chiedere scusa. Organizziamo dei pullman, me ne interesso, se volete, già domani» dice agli altri in sala. «Guardi che lei non deve scusarsi di nulla» lo interrompo. «È giusto conoscere anche quello che di orribile c’è nel nostro comune passato, non diverso da quello di altri grandi Paesi, nati nel sangue. Ma quel passato orribile non è opera sua, dunque di cosa vorrebbe emendarsi, lei?» Si alza una giovane donna: «Io lo sapevo. Da poco: ho letto il suo Terroni e altri libri. Sono la figlia» dice indicando l’uomo che ha appena parlato. «Ho sposato un meridionale; gli ho chiesto di portarmi al suo paese, al Sud, che non conoscevo: me ne sono innamorata subito. Spero di riuscire a ricondurvi i miei suoceri, un giorno: non ci sono più tornati, dopo essere venuti qui. Perché, per loro, sarebbe troppo dolore, dicono.» È un atteggiamento che conosco e ammiro: non ho mai avuto una reazione negativa, nei
miei incontri con i lettori al Nord; al più un dolente stupore, voglia di capire e fare qualcosa (talvolta un argomentato obiettare, molto raramente un rifiuto, con educato e silenzioso allontanarsi dalla sala). Il professor Marco Ravera, ordinario di Filosofia morale alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino, fu uno dei primi a cercarmi, pochi giorni dopo la pubblicazione del libro. «Ho sempre avuto» racconta «la tendenza a interessarmi della storia, soprattutto “dalla parte dei vinti”, cioè di coloro la cui voce è stata troncata.» «Vede,» mi scrisse «io sono, lo si capisce del resto dal mio cognome, un piemontese, e per giunta con ascendenze valdostano-savoiarde. Uno che ama la sua terra, i suoi monti, la cultura a cui appartiene. E che nei confronti del Sud non ha mai nutrito alcuna avversità; tuttavia, questo devo pur confessarlo, un senso di estraneità, come se si trattasse di un mondo ignoto, lontano, diverso, con cui non si capisce bene quali legami possano esservi, se non appunto quello, accidentale e forzato, di una guerra di conquista e di un nazionalismo imposto per più di un secolo da chi aveva ingannato gli uni e gli altri, i “settentrionali” e i “meridionali”. Appunto: non ostilità ma estraneità: la guerra di camorra? una cosa che riguarda “loro”... le bombe di mafia? non più vicine di quelle che scoppiano a Baghdad... roba che non “ci” riguarda... e così via. Ignoranza la mia, disinformazione, ottusità: le parole son queste e non mi tiro indietro. Poi il bello è che, sul piano dei rapporti individuali e personali, ho molti amici del Sud, coi quali discorro spesso di queste cose, e ciò ch’è curioso è che finiamo sempre per trovarci d’accordo, pur muovendo da prospettive lontanissime, con un processo d’avvicinamento che si realizza nel dialogo aperto e franco (a riprova di quel che dice, informo che con il professor Ravera, dopo uno scambio di lettere, siamo diventati amici, ci siamo incontrati al Salone del libro di Torino; N.d.A.).
Ma è stato appunto il suo libro a mettere in crisi questo mio atteggiamento, istintivo, ripeto, e non razionale. Da quando l’ho letto la mia identità piemontese e savoiarda è come in crisi, cerco i miei amici napoletani e siciliani, mi sforzo di rinsaldare i legami, consiglio anche a loro di leggere quel libro, così come lo consiglio a chiunque, come me, desideri sapere “di più”. E non le nascondo, mi consenta di parlare a cuore aperto, anche se non ci conosciamo, che è come se su di me, sulla mia Torino, sulle mie splendide montagne fosse scesa un’ombra. Non è che mi senta “colpevole”, la “colpa” è sempre individuale, e sappiamo tutti quali orrori porti con sé l’idea della “colpa collettiva”, ma oppresso da quell’ombra sì. E così, se mi è consentito questo paragone, la disposizione d’animo con cui Le scrivo è un po’ simile, credo, a quella di quel giovane tedesco, nato dopo il 1945 e dunque “individualmente” non imputabile di nulla, che scrisse al filosofo ebreo V. Jankélévitch per avere una parola da lui, per poter “capire” di più.» Il professor Ravera mi ha chiesto un elenco di libri da leggere, per approfondire i temi trattati in Terroni. E dalle sue lettere successive, credo li abbia divorati. Anche lui pensò di andare, un giorno, «in pellegrinaggio da solo a Pontelandolfo e a Casalduni, per inginocchiarmi e chiedere perdono di qualcosa che ignoravo, di cui nessuno mai ci aveva detto nulla, e che tuttavia mi opprime. Come mi opprime, fino al pianto (non esagero, è vero), l’immagine di quella giovane cui vennero mozzate le mani per avere graffiato il bersagliere che voleva violentarla. E l’altro giorno, trovandomi a passare in via De Sonnaz (già, perché qui c’è una via De Sonnaz! E penso che a Torino non ci siano dieci persone che sappiano chi era davvero costui e che cosa ha fatto!) ho sputato per terra.» (De Sonnaz era un generale savoiardo che al Sud ribattezzarono Requiescat, perché dove passava lui, dicevano non restasse vivo un meridionale. Naturalmente, è un Padre della Patria ;
N.d.A.) Qualche tempo dopo, il professor Ravera mi segnalò d’aver visto, nella sala del Circolo ufficiali della Zona militare di nord-ovest di Torino, un quadro enorme, circa cinque metri per otto, raffigurante l’incoronazione di Alfonso d’Aragona a re di Napoli, «con tanto di Vesuvio sullo sfondo». E, giustamente, si chiese: che ci fa qui? «Tu ne sai qualcosa?» mi scrisse. Girai il quesito a chi poteva saperne più di me: «Niente di più probabile che provenga dalla sala maggiore del palazzo Aquilecchia di Melfi, in Lucania, discendenti dei nobili di Aragona» mi spiegò Alessandro Romano, buon pescatore in archivi e capitano della risorta Armata borbonica (alcune decine di “militari” da parata) che sfila nelle commemorazioni duosiciliane. Il palazzo «fu letteralmente saccheggiato dagli invasori» fratelli d’Italia, e poi svenduto «per fronteggiare i ricatti savoiardi». Bottino risorgimentale... Quando cominci a sapere, guardi con altri occhi. «Prima la cosa mi sarebbe sfuggita e non mi avrebbe indotto a interrogarmi» mi disse Ravera. Così Paolo Occhipinti, mio direttore a «Oggi» (poi concorrente, quando andai a dirigere «Gente»), milanese da molte generazioni, ma di cognome ragusano, era rimasto sconcertato dalla lettura delle stragi, dei massacri, dei furti riportati nel mio libro. Fu a lui e a Umberto Brindani, nel frattempo passato a dirigere «Oggi», che chiesi la prima presentazione del libro. Occhipinti mi conosce da trentacinque anni e per venticinque abbiamo lavorato nella stessa redazione; ma sul «Corriere della Sera», ha letto che le mie sarebbero «fantasiose ricostruzioni» (poi sono diventate «cose note») e il «Corriere» è il primo giornale che Paolo legge, ogni mattina. Un giorno, mi dice che nella biblioteca appartenuta al padre, nella quale aveva cominciato a mettere ordine, aveva trovato un libro del 1863, un
Quaresimale del Contemporaneo, «in cui sono dette le cose che scrivi tu, identiche». Me lo ha regalato, con una dedica: «Mio padre aveva una madre piemontese, un bisnonno siciliano e un nonno napoletano. Io sono milanese. Capisci perché mi tocca talvolta di essere... neutrale». Qualunque cosa sia accaduta in questo Paese, il Paese ora è questo ed è il nostro. È Paolo Occhipinti, è i 15 milioni di italiani, dice Claudio Martelli, l’ex ministro, che è uno di loro (ha padre milanese e madre siciliana), nati dallo scontro, dall’incontro e dall’amore fra meridionali e settentrionali. A Cisterna d’Asti mi ha invitato la professoressa Giovanna Cravanzola («vuol dire: guardiano di capre»): piccoletta, irrefrenabile, mi viene a prendere ad Asti e per tutto il viaggio, quasi metro per metro, mi racconta la sua terra, con una conoscenza, una passione! Ti dice persino a che ora del giorno è più bello il paese; e quando ci sono le nubi basse, e la nebbia colma la valle, ma le case sono nel sole; affacciarti al mattino su quel panorama di tetti e campanili che sbucano dalle nuvole sotto i tuoi piedi «è una gioia che riempie per tutto il giorno». Diresti che sua madre è calabrese? «Mia nonna mi parla in reggino, io non capisco una parola, ma la sto ad ascoltare.» Il cuoco e proprietario Lino Vaudano (trattoria Garibaldi: «Non è colpa mia,» ride «si chiama così, perché l’aprì un garibaldino») offre il meglio della tradizione culinaria locale, ma il genero e aiutante è meridioniale pure lui (ho capito bene?); e viene con il suocero, che vuole conoscermi: è nato a Gioia del Colle, come me, cresciuto a Taranto, pure lui («Fermiamoci qui, ho già troppi parenti!» dico); a riaccompagnarmi ad Asti, la sera, sono tre giovani donne (salutano due loro amici: meridionali): una è insegnante di Manduria (precaria qui); una è segretaria comunale, ma di Napoli; l’altra è veneta, maestra precaria pure lei, sposata a un astigiano («Mio suocero,
quando gli venni presentata dal figlio, mi disse: “Veneta? Lo sai che voi facevate la fame e venivate a lavorare qui?”. “Vero, ma io non faccio la mondina,” risposi “insegno. E mi sono trasferita per amore”»). Come si fa a separare geograficamente questa Italia? L’insegnante e giornalista che mi interrogava pubblicamente sul libro mi aveva detto: «Noi, al Nord, non ci siamo accorti di tutti questi vantaggi conquistati a spese del Sud, come tu scrivi nel libro». E non puoi dargli torto: chi ha, non sa di avere, finché ce l’ha. «Fidati delle gambe,» gli ho risposto «quando la gente si muove, insegue quel che le manca. Prima dell’Unità, i meridionali non venivano qui, adesso sì. Vuol dire che prima non aveva bisogno di farlo. Qualcosa, da un momento all’altro (c’è una data, sui libri di storia) è venuto a mancare; ma solo ai meridionali; mentre dal Nord, da cui emigravano a milioni, nessuno, dopo un po’, è più andato via.»
26 + SUD
Mi sembravano ambasciate in un Paese straniero: PeiraniSud, SudElettra, PolimeriSud, PignoneSud, AlfaSud... Immaginate quante ne vedevo, vivendo a Taranto, a ridosso del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, circondato da fabbriche dell’indotto calate dal Nord. Se un’azienda nazionale apre uno stabilimento a Udine, mica segnala la cosa in senso cardinale: PignoneEst, AlfaEst. Perché a Sud sì? Pareva una dichiarazione di estraterritorialità, rispetto a quella dell’azienda, tipo: Bmw-Italia, Ibm-Italia. Sì, ma l’Alfa, la Pignone, la Peirani erano già italiane. Quindi, quel “Sud” dettava l’idea di una estraneità da superare con l’indicazione geografica, e paradossalmente sottolineandola; più o meno come la bandiera di rispetto che devono esporre le navi, accanto a quella del proprio Paese, quando solcano acque forestiere. La cosa era più evidente negli anni Settanta, quando, con gli incentivi, le fabbriche figliavano a Mezzogiorno, magari giusto per il tempo di arraffare i soldi della Cassa, dello Stato. E quel “Sud” sparato bello grande, insegna, carta intestata, penna aziendale, stava a
rimarcare una presenza che pretendeva un compenso. E suggeriva un indiretto rimprovero: giusto se veniamo noi, perché da soli, voi... Quel “Sud” era una diminuzione, proprio mentre voleva proporsi quale aggiunta: se devi forzare qualcosa con le parole, quel qualcosa non è forte a sufficienza di suo. Ricordo, quando collaborai con Sergio Zavoli all’inchiesta Viaggio nel Sud, dieci ore di televisione, l’intervista a un ragazzo veronese, che urlava al microfono: «Una macchina chiamata AlfaSud non la comprerò mai! Mai!». Aveva i lineamenti del volto deformati dal disgusto. Nessuno gli aveva detto che l’ingegner Nicola Romeo, creatore dell’omonima fabbrica, era napoletano, di famiglia lucana... Le aziende meridionali che aprono al Nord, o vi si spostano, non aggiungono “Nord”, nel nome; e tantomeno si portano il “Sud” appresso. Ne sarebbero danneggiate. Nei sotterranei inconsci (ma sempre meno tali, ormai) dell’Italia, a Sud c’è quello che ha perso; il Nord ha vinto. Il valore dello sconfitto è un peggiorativo, autolesionista esibirlo. La sottolineatura di aziende settentrionali che partorivano un doppione “Sud”, sotto sotto, forse stava a indicare un bilanciamento della minorità meridionale. Come dire: è AlfaSud, ma è sempre Alfa, ne’?, nonostante sia Sud. Finché i punti cardinali non indicheranno altro che una direzione, sapremo di avere un problema.
27 NEOBORBONICO
Mille idealisti guidati da un arcangelo biondo su un cavallo bianco liberarono nove milioni di meridionali, conquistarono un regno difeso da 120.000 uomini e lo dettero ai Savoia, per far l’Italia. Non ci credi? Non credi che le navi inglesi erano a Marsala, per caso? Che quelle borboniche non riuscirono a bloccare lo sbarco, per incapacità (erano borboniche...)? Che i generali napoletani facevano suonare la ritirata quando Garibaldi rischiava di perdere, perché ne avevano paura e non per gli assegni presi? Che il Regno delle Due Sicilie era povero, arretrato e oppresso, anche se tutti i documenti e i più attendibili istituti di ricerca ed economici dimostrano il contrario? Allora sei nostalgico dei Borbone e vuoi che tornino sul trono delle rinate Due Sicilie. Non serve dirsi contrario all’idea, inattuale, seppur legittima: lo sei e zitto. Un nipote acquisito di Benedetto Croce (ma non solo lui) me lo attribuisce nell’edizione meridionale del «Corriere della Sera»: «il Sud deve tornare nelle condizioni di allora»; questo vorrei. Ma io, in Terroni, scrivo che meridionali e settentrionali dovrebbero evitare che il Paese si spacchi, e solo se la Lega Nord riuscisse a portare a compimento il suo progetto
secessionista, il Sud, per limitare i danni, piuttosto che farsi cacciare e di nuovo derubare, dovrebbe contrattare l’uscita. La monarchia non la vorrei nemmeno se il re fossi io, figuriamoci un altro. Ma questo non vuol dire che giudichi negativamente tutto quello che è “borbonico”. E se oggi, l’ingegnere Salvatore Carreca, di Agrigento, si dichiara neoborbonico e ricostruisce la storia del Reggimento Real Marina, Unità di Élite del Regno delle Due Sicilie, perché la cosa dovrebbe disturbare? Ed è pericoloso per l’unità del Paese, se il carabiniere sannita di stanza a Como, Guglielmo Di Grezza, allenatore di judo, presiede la nazionale di calcio delle Due Sicilie e progetta la sconfitta di quella della Padania? Per me, questo equivale al monumento all’imperatrice Sissi, in piazza, a Trieste: parte della propria storia, cui non capisco perché si dovrebbe rinunciare. Perché ne parlo? Perché trasformare un periodo storico in insulto è rivelatore, specie se a farlo è chi insegna storia, e all’università. È disonesto definire “borbonico” tutto quello che è (o si vuol raffigurare) deteriore: nessuno è perfetto, nemmeno nel male; figuriamoci nel così così... Persino l’inferno ha i suoi lati positivi: non ci si muore di freddo! Sennò, il compito della storia si riduce alla diffamazione dei vinti, per esaltare i vincitori: è quel che si fa con i nemici (sbagliando). La parola “neoborbonico” è usata per declassare l’interlocutore e i suoi argomenti: squalificare il primo, per non misurarsi con i secondi. Il regno borbonico è parte della nostra storia (italiana, non meridionale: italiana), comunque discutibile; e se ne discuta, per capirla, e non per demolire l’altro, ma per ascoltarlo. Il nipote di Croce mi porta, a esempio di correttezza e attendibilità documentale, le lettere di lord Gladstone, che disgustarono l’Europa, con la descrizione delle infami condizioni di
carceri e tribunali napoletani. Peccato che, distrutto il Regno delle Due Sicilie, Gladstone ammise di non aver mai messo piede in quei luoghi. E lo si insegna tuttora per vero, all’università! A Matera, un neolaureato in storia mi obietta: «Però lord Gladstone racconta altro, nelle sue lettere». «Già,» rispondo «ma sono inventate, non gliel’hanno detto all’università?» Mi guarda perplesso: non sa se credermi o pensare a un tranello dialettico. E fossero anche state vere, si trascura di dire che c’erano carceri peggiori in Piemonte, alcune delle quali così spaventose, che equivalevano a una pena di morte in pochi mesi: parola di lord inglese, pure là (Vernon, questa volta). I quali lord, censori di prigioni e plebi altrui, venivano dal Paese con le carceri più infami; «In Londra vedi sovente morti per le vie di mera fame» scriveva Giacinto de’ Sivo. E su 17 milioni di abitanti, nel regno britannico, circa il 10 per cento erano mendicanti: andatevi a rivedere le illustrazioni di Gustave Doré (London: a Pilgrimage, 1872) sulla spaventosa condizione dei poveri di sua maestà. Se l’Italia è un Paese unito, perché non è di tutti la sua storia? Se l’Italia è Nord e Sud insieme, la storia dei Savoia e quella dei Borbone dovrebbero essere indagate e insegnate con lo stesso metro, nelle loro luci e ombre; storia condivisa, “propria” ovunque, nel Paese, insieme a quella degli altoatesini, dei veneti, dei valdostani, dei sardi, dei siciliani... Come può la memoria di un Paese non essere la somma delle differenti vicende confluite nella casa comune? La curiosità della mia professione giornalistica e l’interesse che ho per gli altri mi fanno pensare alla storia di un Paese, come a una scampagnata di Pasquetta: ognuno porta quello che ha (uno il vino, l’altro la pasta al forno, qualcuno la parmigiana...); tutto viene messo al centro e tutti mangiano e bevono di tutto, ognuno fiero del suo contributo al pasto; ognuno ha portato esattamente quello che avrebbe consumato di suo, ma tutti hanno
avuto di più, hanno conosciuto altro, si sono fatti conoscere: “nostro” in un’unica digestione. Che senso ha imporre peperonata per tutti? Invece, tutta la storia che brilla è a Nord; tutta quella che puzza è a Sud: che non se ne parli, per carità di Patria, e dovendone parlare, male. Non c’è nulla che si salvi: i soli meridionali buoni sono quelli che uccisero (con Garibaldi o per Vittorio) gli altri meridionali, come gli indiani al servizio dell’uomo bianco, contro la propria tribù o quella accanto. C’è pure chi lo scrive, proprio così, commosso, su un giornale importante, oggi: i veri patrioti sparavano contro la loro Patria, in nome di una da farsi (o perché avevano capito da che parte conveniva stare); traditori erano quelli che la difendevano. E una nota prostituta, tenutaria di casini, viene elevata a eroina del Risorgimento, ancora oggi!, per aver accolto e scortato Garibaldi al suo arrivo a Napoli, insieme ai suoi amici e parenti camorristi, d’accordo con don Liborio Romano (il superministro che consegnò il Sud al Nord, per amor di Italia unita e poi morì di crepacuore, quando vide cosa ne fecero). C’era da costruire un Paese unico e più grande (anzi, un Piemonte più grande: ufficialmente dichiarato, in Parlamento), e nell’immediato lo fai con quel che trovi: conta il risultato. Una sventolata di tricolore può pure riabilitare, all’istante, molti mafiosi e mignotte, ma dopo 150 anni potremmo smetterla e dirci le cose come stanno: stravolgere così le parole (patriota, eroina, traditore) ne distrugge il significato. L’irredentismo di italiani sotto dominazione austriaca, i lombardi, i triveneti, aveva un senso; ma i duosiciliani erano liberi e indipendenti, come i piemontesi: da chi dovevano liberarsi? Non si pensa di offendere i veneti, per la perduta Serenissima, né i toscani per il Granducato, perché i meridionali sì, per i 127 anni di regno borbonico? Perché opposero resistenza? E cosa avrebbero dovuto fare i savoiardi, se l’esercito duosiciliano li avesse
invasi, per annetterli? Lo si scrisse, all’epoca, in Piemonte, sul giornale: combattere come stanno facendo i “napolitani”. Anche altri Paesi si sono uniti nel sangue; da noi, però, la guerra non sembra finita. Come se gli uni non avessero mai accettato la sconfitta, e gli altri l’idea che i vinti possano esser loro pari. Così, il compito datosi dalla cultura parrebbe di preservare gl’italiani dal loro passato impresentabile; una sorta di cantina buia, dove ai bimbi si dice di non mettere piede: è sporca, c’è la storia del Sud (forse per tacere o non doversi giustificare per quello che al Sud fu fatto). «Le rappresaglie, le violenze e le altre cose che oggi suscitano tanto stupore e scandalo sono note da sempre» mi obietta uno storico, in un dibattito radiofonico. Vero. «E perché non ce ne avete mai parlato?» replico. «Ho fatto elementari, medie, superiori, ho cambiato tre facoltà universitarie, ma su Pontelandolfo, Casalduni e il resto, non ho trovato un rigo sui libri di scuola.» Potrebbe essere solo una mia mancanza, ma allora, perché la reazione più diffusa, alla lettura dei massacri e dei furti compiuti al Sud, per annetterlo al resto del Paese, è lo stupore, l’incredulità? Se non mente lo storico che parla di cose note (e non mente), e nemmeno chi manifesta il suo stupore, vuol dire che le cose note non erano adeguatamente divulgate (a questo, solitamente, provvedono i giornalisti, più che gli storici; e non solo in Italia). Tutto qui. Agli storici che hanno da ridire su come lo fanno i giornalisti, nessuno impediva di farlo meglio loro. Mentre tocca continuare a citare l’inglese Denis Mack Smith, per dire che la “liberazione” del Sud fece più morti che tutte le guerre d’indipendenza messe insieme; o aspettare che David Gilmour, un altro storico inglese, riconosca che «il sistema delle regole messo a punto dai Borboni» era «decisamente superiore rispetto a quello dei piemontesi» esteso a tutt’Italia. Purtroppo.
«Ma le sembra il momento di rievocare queste vicende, mentre si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia e la situazione politica è così delicata?» mi chiede l’accademico di gran nome. E questa, non l’avrei indovinata. «Scusi, professore,» balbetto sbigottito «sono passati 150 anni... e ancora non bastano?» Sono giornalista, la prima regola della mia educazione professionale è: “Quando sai una cosa, dilla” (infatti, i cattivi giornalisti e veri ricattatori, quando sanno una cosa, per dirla, aspettano il momento più adatto, per loro o per chi li paga). Tale la sorpresa, che perdo il filo; vorrei obiettare: «Chi vi ha delegato a decidere qual è il momento in cui noi dobbiamo sapere i fatti nostri?». Ma il conduttore ormai chiude con i saluti, mentre lo storico mi fa: «Lei avrebbe voluto che vincessero quegli altri?». Accidenti: ma “quegli altri” eravamo noi; italiani, solo un po’ meridionali (come il professore, del resto. Scusate se non cito i nomi, non è discrezione; quello che mi preme mostrare sono gli argomenti). Si parlava della reazione armata del Sud, a riprova della delusione e dell’ostilità meridionale, se non all’Unità (e si può discutere), al modo in cui fu fatta (e ancora ne vogliamo discutere?): campi di sterminio, paesi rasi al suolo, esecuzioni di massa, teste tagliate da porre in scatole da collezionare o regalare agli “scienziati” del Nord. Tanti, tantissimi accolsero Garibaldi con la gioia e la speranza di maggiore giustizia e furono gabbati (molti ex garibaldini poi divennero briganti, come il più grande, Carmine Crocco Donatelli). Ma più dell’obiezione del mio illustre interlocutore, è il tono che mi sorprende: partecipato (di parte); un docente di storia! È allo stadio (e nelle trincee) che diviene insulto («Borbonico!», «Neoborbonico!», «Terrone!») l’identità dell’avversario. Sono passati 150 anni e siamo ancora sugli spalti a fare il tifo? La partita è finita; qualcuno ha giocato sporco,
è entrato in campo prima del fischio d’inizio, si è comprato arbitro e portiere avversario, ha spaccato le rotule ai raccattapalle, violato ogni regola (accusando gli sconfitti di averlo fatto) e ha vinto. Ma la partita è finita; forse si potrebbe smettere di continuarla sugli spalti e iniziare a raccontarla davvero, senza preoccuparsi di giustificare (nascondendole) le infamie del vincitore, esasperando quelle del vinto o addirittura attribuendogli anche quelle subite. Siamo creature sporche dotate della capacità e possibilità (ma da cogliere) di ripulirsi. Nasciamo fra piscio e merda, ricordava un padre della Chiesa, lordi del sangue di nostra madre; e dovendo scegliere con quale materiale farci, Dio preferì il fango; da ateo mi chiedo: voleva dirci qualcosa? E dovrei credere che i soli senza difetti furono quelli che scesero a emendare una terra con tutti i difetti? (E siccome, per risorgere, bisogna prima morire, furono costretti a preventiva strage...) Anche Roma nacque dallo stupro delle Sabine, ma poi non si fece distinzione fra i figli. Divennero famiglia. C’era un “perché” di cui dovevo ricordarmi... Eccolo: perché persone colte, responsabili, nient’affatto superficiali, quale il mio titolato e accademico interlocutore, sono così prudenti su quelle porcherie unitarie a loro (e ci mancherebbe) note? Sospetto che gli storici (non tutti; ma forse non a caso quelli che vengono da famiglie votate a tale disciplina da generazioni, a partire, quasi sempre, proprio dagli anni del Risorgimento) avvertano su di sé una responsabilità in più, sproporzionata, rispetto ai loro colleghi di altri Paesi; ed è una responsabilità che deriva, ancora una volta, dalla nostra fragilissima Unità. Appena fatta, per come fu fatta, l’edificio era talmente precario, che si può comprendere il timore di vederlo franare, se quelle terribili verità fossero state rese pubbliche. Spesso, lettori increduli obiettano: «E come mai parlamentari e intellettuali del Sud non denunciarono quegli scempi?». Lo fecero eccome, del Sud e del Nord, dal milenese
Giuseppe Ferrari al campano duca di Maddaloni, da Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi, ai siciliani Francesco Crispi, Vito D’Ondes Reggio e tanti altri. La stessa relazione della Commissione parlamentare sul brigantaggio, nel 1863, fu letta in seduta segreta; i documenti smembrati, dispersi, non dati in consultazione nemmeno ai deputati; chi tentò di raccontare in Parlamento cos’avveniva al Sud, fu messo a tacere, gli si volle negare la pubblicazione negli atti della Camera. Chi osò insistere, dovette lasciare il Parlamento e qualcuno, anche l’Italia (Giacinto de’ Sivo, il suo libro su quegli scempi, dopo gli ostracismi sofferti in Italia, dovette pubblicarlo a Trieste, che allora era terra austriaca, “estero”). E poi lo raccontarono tanti altri, dal comunista Antonio Gramsci, agli inizi del secolo scorso, sino al missino Angelo Manna, alla fine del secolo scorso; dai testi di Carlo Alianello sono stati tratti persino sceneggiati televisivi di successo; ma tutti, proprio tutti, quando non vennero zittiti, rimasero inascoltati. Conclusa l’epopea risorgimentale, con il suo enorme strascico di problemi conseguenti (fame e fuga dal Sud), ci fu la Prima guerra mondiale. E non era il momento migliore di mettersi a discutere di altre faccende; meno ancora, durante il fascismo, con la sua mistica nazionalista alla vaccinara, insensibile persino al ridicolo, che divenne la caricatura dell’amor di patria. Quindi, un’altra guerra mondiale, durante la quale i nazisti fecero quel che i piemontesi avevano già fatto al Sud. Poi, ci trovammo un Paese in macerie, da ricostruire, nei mattoni e nell’anima, dopo essere stato diviso in due parti opposte e combattenti, sia geograficamente sia ideologicamente, dalla guerra anche fra fascisti e antifascisti. Grande momento, la Ricostruzione: prendemmo tale rincorsa, che quando ci fermammo per rifiatare, scoprimmo
di aver realizzato il miracolo economico, la lira veniva premiata nel mondo per la sua stabilità; eravamo il quinto o sesto Paese della Terra. Insomma: in 150 anni, abbiamo avuto quasi sempre qualcosa di più urgente da fare, che lavare i panni sporchi (di sangue) del Risorgimento. Ma non sono bastati a dimenticarsene. Un sospetto, però, è legittimo: per un altro mio libro, Elogio dell’errore , dovetti documentarmi particolarmente sulla storia del Giappone. È “dimostrato”, scoprii, che il primo uomo apparso sulla Terra, era giapponese. Come lo sappiamo? Lo comunicò un sovrano del “Paese centrale delle canne”; e disse pure quando avvenne: 1.792.470 anni prima. Osereste smentire l’imperatore? No? Be’, e figuratevi i giapponesi. E se emergono prove del contrario (durante scavi o altro), può accadere che siano viste con diffidenza; persino sottaciute. L’archeologia rischia di proporsi come disciplina sovversiva, in Giappone, perché può intaccare le radici dell’identità nazionale. Così, il sapere, in merito, non è detto coincida con la sua diffusione. Anzi. Temo che qualcosa del genere succeda con la storia del Risorgimento, nel timore che sapere cose brutte di noi, possa farci male. Non sono d’accordo. Mentre scrivo, in Germania (in Germania, non in Israele...), riscuote grande successo una mostra che prova l’adesione dei tedeschi alla follia hitleriana, a smentire la nota affermazione autoassolutoria, secondo la quale essa fu “la prima vittima del nazismo”. È sacrosanto chiedere la verità sulle foibe in cui furono buttati gl’italiani dagli iugoslavi, nell’immediato dopoguerra, ma bisogna pretenderla anche su quanto facemmo noi, di analogo e prima, nei Balcani; e in Africa (senza il coraggio e l’onestà di un Angelo Del Boca, saremmo ancora a “italiani brava gente”). E così su quanto facemmo a noi stessi, a partire dal Risorgimento (e anche prima, vedi a
Genova), al Sud, e altrove. Potremo solo uscirne migliori, più consapevoli. Il passato non ha fretta, sa aspettare, ma prima o poi bisognerà farci i conti. Con o senza custodi della memoria “possibile”. Con tutto il rispetto. E adesso mi diranno di nuovo: «Neoborbonico!». «Non c’è nulla di male a esserlo. Ma io non lo sono» replicai a un collega napoletano. «Tu lo sei» sentenziò lui. «Te lo dico io.» «Parli bene l’italiano, pur essendo turco, complimenti!» gli feci. «Ma che dici? Sono napoletano!» obiettò lui, sorpreso. «Sei turco. Te lo dico io.»
28 IL DITO E LA LUNA
«Pino presidente!» (non mi si dice di che), scandiscono in piazza, dopo una presentazione di Terroni, in Calabria, e in un teatro in Puglia e in altre occasioni. Prospettiva imbarazzante, visto che la siglia (P.P.) parrebbe la pubblicità di un diuretico. La butto sullo scherzo: «Non ho i requisiti: sono incensurato, calvo non catramato, non vado a trans con auto di servizio né propria, e la casa nessuno me l’ha pagata a mia insaputa, la banca mi avvisava sempre per la rata del mutuo!». Se dopo la risatina insistono, aggiungo: «Da quarant’anni tento di essere un giornalista decente. Mi pare già parecchio impegnativo» (tacendo, per educazione, l’alterigia del mestiere, così espressa da Enzo Biagi, quando Fanfani ne chiese il licenziamento dal «Corriere della Sera»: «Io sono un giornalista, lui solo un ministro»). Terroni, in cui ricostruisco 150 anni di Unità d’Italia, visti da Sud, è diventato «un libro bandiera, un vessillo della nuova fierezza meridionale, un inno di guerra culturale e di nostalgia», secondo Pierluigi Battista, vicedirettore del «Corriere della Sera». E, per lo storico Giordano Bruno Guerri, su «il Giornale»: «la rivendicazione dell’orgoglio
meridionale, oltre che un tentativo di spiegare – in modo appassionato e polemico – come l’Unità d’Italia abbia danneggiato il Sud e quanto sia costata ai suoi abitanti: ridotti, decennio dopo decennio, a italiani di seconda scelta» (alcuni mesi dopo, Guerri pubblica Il sangue del Sud, che riprende cifre, analisi e denunce sull’invasione del Regno delle Due Sicilie e quella guerra civile che fu spacciata per “lotta al brigantaggio”). Io volevo solo finire un libro inconcluso da troppi anni, e mi ritrovavo riluttante capopopolo! Mi hanno chiamato all’estero (dal Nord Europa all’America), in università, centri studi o associazioni di connazionali («Ora so perché, col mio cognome duosiciliano, io e mio padre siamo nati a New York e in Italia sono extracomunitario» mi dice Anthony Quattrone, che lavora alla NATO. Altri ti confidano che, letto il libro, il nonno ha confessato l’esistenza di “briganti” nell’album di famiglia: non se ne vergogna più, anzi!). «Se ti candidi, ti eleggiamo e divieni nostro leader» mi propongono delegazioni di partiti, movimenti meridionalisti, associazioni: mi hanno adottato, mi aiutano a scovare libri, documenti, mi invitano a tenere conferenze; lezioni in un paio di scuole di partito («E di che? Mai frequentato partiti.» «Parla dei temi del libro.» «Ah, vabbe’»); alcuni imprenditori hanno acquistato le copie per i loro dipendenti (specie al Nord!); degli amministratori locali, per le scuole; dei parlamentari, per i loro elettori. La senatrice Adriana Poli Bortone mi vorrebbe candidare a sindaco di Napoli (non ho vocazione al martirio e la città ha avuto troppi amministratori incapaci, per essere ulteriormente castigata); il presidente della Sicilia, Raffaele Lombardo, mi chiede di accettare il ruolo di garante del programma comune di una federazione di gruppi politici meridionalisti; il sindaco di Bari, Michele Emiliano, unico nel Pd a capire la portata dei nuovi sentimenti a Sud, a condividerli e rappresentarli, mi esorta a «prendere le responsabilità»; mi hanno invitato più volte i
ragazzi di “Io resto in Calabria”, il movimento del coraggioso imprenditore Pippo Callipo. Non continuo, li cito solo per osservare che la prima è ex An, fondatrice di “Io Sud”; il secondo è un ex democristiano, poi Udc, e ideatore del Mpa (Movimento per l’autonomia); il terzo è del Pd; il quarto è un senza partito, nonostante da destra e da sinistra abbiano cercato di arruolarlo. E questo, per la politica “ufficiale” (che si arricchisce, in pochi mesi, di nuovi soggetti opportunisti, fiancheggiatori o antagonisti, sino a fenomeni “di Palazzo” come Noi Sud e Forza del Sud, di Gianfranco Miccichè, sotto l’inquietante e interessato sguardo di Marcello Dell’Utri). Ma oltre ai gruppi culturalmente e numericamente più apprezzabili, come il Partito del Sud, il Movimento Neoborbonico, Insorgenza, scopro una miriade di formazioni (fra 100 e 150, mi dicono) anche micro, talvolta monocellulari, ma attivissime, di giovani e no, persone non impegnate in politica che ora si cercano e dicono: «Facciamo qualcosa». A volte ti commuovono: si tassano, per pagarti viaggio e sosta da loro, discutere del libro e, soprattutto, di «Cosa fare adesso?». Come si fa a pensare tutto questo conseguenza del libro? Quello che c’era nella stanza non l’ha generato il dito che ha acceso la luce; c’era anche al buio, solo che non lo vedevamo. Giancarlo Mazzuca, già direttore del «Quotidiano Nazionale», poi parlamentare, teme, e lo scrive, che il mio libro alimenti «la rivolta del Sud». Perché ricordo che è stato “unito” con fucilazioni, tortura, lager, progetto di deportare i meridionali in Patagonia; tasse solo al Sud, per pagare le spese della guerra subita; mentre, nella cassa comune del Paese ormai unico, arrivano dall’ex Regno delle Due Sicilie i due terzi dei soldi e il residuo terzo, da Nord e Centro insieme... e poi, insomma, tutte quelle altre cose che, quando le metti in fila,
ti ribolle il sangue. Ma davvero si pensava restassero senza conseguenze vent’anni di insulti leghisti (e non solo) contro i meridionali “topi”, “porci”, “merdacce”, “cancro”; la continua sottrazione al Sud, in favore del Nord, dei soldi per le aree sottoutilizzate, per le scuole cadenti, per porti e strade dissestate di Sicilia e Calabria; il Comitato interministeriale per l’economia (CIPE) che sblocca finalmente i fondi per i lavori pubblici, assegnandone 99 parti su cento al Nord e una al Sud? E dopo il coro di proteste, si riunisce di nuovo e procede a una ulteriore distribuzione di fondi, esattamente nella stessa proporzione, per un totale di oltre 30 miliardi di euro a Nord e poco più di 300 milioni a Sud? E se fosse accaduto il contrario? E se parlamentari meridionali inveissero contro “topi milanesi” e “merdacce padane”? Qualcuno comincia a chiederserlo. No, rispondo a Mazzuca, tutto questo un libro può forse raccontarlo, non generarlo. Sì, ci sono libri capaci di cambiare la gente e la storia, ma il mio non è fra questi: papà si chiamava Giorgio, non faceva il falegname e io sono nato di febbraio. Ci si ostina a non voler vedere che Terroni e gli altri libri sul tema sono il dito; la luna è quel che succede al Sud, l’ansia sempre più forte e diffusa di recupero di equità per se stessi e per la propria storia. Ma le frettolose meningi di editorialisti lombardocentrici, mentre l’Italia sta facendo harakiri, non riescono ad andare oltre: «Il Sud deve fare autocritica». E qualsiasi cosa il Sud faccia, anche solo raccontarsi, persino aver ragione, è sempre un errore: o è sbagliato il cosa, o è sbagliato il come, o è sbagliato il quando. Tutto, meno che chiedersi perché. Nel presentare i libri più letti del 2010, bilancio di fine anno, Antonio Carioti, sempre sul «Corriere della Sera», si stupisce di Terroni sul podio, «un successo in parte comprensibile» scrive «visto che il Sud ha molte più ragioni del Nord di lamentarsi
per come andarono le cose nel Risorgimento, ma forse controproducente, visto che oggi delegittimare l’unità d’Italia favorisce proprio chi vuole abbandonare il Sud al proprio destino». Traduco: hai ragione, ma meglio non dirlo, sennò delegittimi l’Unità. L’onestà di intenti di Carioti è evidente, ma il risultato non cambia: se parli avendo torto, è sbagliato il cosa; avendo ragione, è sbagliato il quando; o il come, se qualcuno (stavolta, io) «enfatizza le recriminazioni meridionali contro lo Stato unitario». Prudenza... ché ci sono milioni di leghisti pronti a battersi, minaccia Bossi (ministro della Repubblica, non uno sbruffone qualsiasi; o uno sbruffone qualsiasi, disgraziatamente ministro della Repubblica): e vogliamo dargli un pretesto? Perché, vi risulta che sinora ne abbia mai avuto bisogno? Molti, a Sud, reagiscono ormai con insofferenza a questi consigli («Attenzione» commenta su Facebook la lettrice che mi “posta” la pagina del «Corriere», «per Carioti, siamo già colpevoli di qualcos’altro»); a me sembra che nascano spesso in buona fede, da analisi svelte, per l’abitudine, sia a Nord sia a Sud, di sottostimare ruolo e diritti dei meridionali; e di individuare le ragioni dei comportamenti antimeridionali (sino a giustificarli), sempre in una colpa del Sud: sì, la Lega sarà becera, ma esprime e cavalca l’esasperazione del Nord per l’inefficienza del Sud; sì, si sono presi i fondi destinati al Mezzogiorno, ma perché “quelli” non li usano, li spendono male, li rubano (così glieli tolgono, ma a fin di bene, metti che servano a completare quei quattro chilometri della statale 36 per il lago di Como, in costruzione da oltre 10 anni, al prezzo di 57 milioni di euro, pari a 115 vecchi miliardi di lire, a chilometro. Tutto in pianura. Record mondiale): se la prendano, piuttosto, i meridionali, con i loro amministratori corrotti (potremmo farci prestare Scajola, Verdini, Berlusconi Silvio, con uso di fratello minore Paolo pregiudicato, di legale promosso ministro e pregiudicato Cesare Previti, e braccio destro Marcello
Dell’Utri con condanne per mafia in due gradi di giudizio, e monumento all’“eroe” di famiglia Antonio Mangano, pluriomicida, trafficante d’ogni porcheria, condannato all’ergastolo); sì, forse la Lega esagera nei toni, ma i meridionali dovrebbero fare autocritica... Angelo Panebianco, sullo stesso giornale, aveva avvertito che se il Sud non la smette di replicare alle provocazioni leghiste, la Lega ne approfitterà per spaccare il Paese. Quindi, se succedesse, la colpa sarebbe del Sud che non sta più zitto, quando lo insultano. E se l’Italia si dividesse, il Sud perderebbe, avvisa Panebianco, perché non ha i soldi del Nord (sembra il consiglio dato alle mogli picchiate dai mariti: lui non è cattivo, figlia mia, è carattere! E potresti pure evitare di rispondere, lo sai che si imbestialisce, se lo provochi. E comunque è un lavoratore, porta a casa lo stipendio. Poi come fai con i figli?). È la forza delle idee...: il Nord non ha i soldi. Vuoi vedere che se Ghandi sconfisse l’impero britannico, senza sparare un colpo, e liberò il subcontinente indiano, fu perché era ruscito a diventare più ricco della regina d’Inghilterra? (Risparmiando fino all’osso, però: uno straccetto sulle pubenda, scalzo, due chicchi di riso nella ciotola... se ce l’aveva la ciotola). C’è stupore, vien da dire, quasi fastidio, in certi commentatori del Nord, per le pretese di chi non sa più stare al suo posto. Se gli argomenti scendono a questi livelli, è perché non vengono mai esposti al rischio del confronto: la voce del Sud non compare quasi mai sulla “grande stampa” (il giorno dopo il raduno, a Catania, di migliaia di attivisti meridionali, per creare una formazione politica unitaria, non c’era un rigo sui quotidiani nazionali, ma non siamo stati privati di foto e cronaca della rottura della fune, durante una sfida “al tiro” fra leghisti). Immediate e roventi le reazioni sulla sterminata lavagna che è il web, specie Facebook,
ogni volta che un articolo del genere appare. Se l’autore è del Nord, la circostanza basta come spiegazione; se meridionale, è un venduto. La mancata comprensione dei comportamenti approfondisce il solco. Si trascura che ognuno legge la realtà attraverso la lente della sua esperienza e dei suoi interessi, che reputa (si spera in buona fede) legittimi. Così, è facile che sui giornali del Nord si sottovalutino i rischi delle pretese leghiste, persino le più spudorate manifestazioni di razzismo (di cui, magari, qualcosa, non dicendolo, si condivide). E se scrivi su un giornale di Milano, è comprensibile che sia portato ad approfondire questioni a te più vicine e a giudicare con maggiore superficialità e minore indulgenza le più distanti. Questo vale per tutti: da Sud, si legge sempre più spesso come malafede, supponenza e razzismo tutto quel che appare denigratorio verso i meridionali. A volte lo è, ma non è detto che lo sia sempre in modo consapevole (per dire, la Lega Nord è un partito razzista, ma non sono tali tutti quelli che la votano); da Nord, si generalizza il male del Sud e si sospetta delle sue eccellenze: saranno vere? E se sì, ottenute con quale imbroglio? Come può essere meridionale lo studente più bravo d’Italia? «Tutti sanno quanto questi voti siano fasulli» sostiene Roger Abravanel, consulente della Gelmini (chi si somiglia si piglia) che ogni anno denuncia questo “scandalo”. E punta il dito specialmente contro Reggio Calabria. Poi, scopri (non lui) che alle Olimpiadi nazionali di Fisica, la medaglia è andata a uno studente di Reggio Calabria; che è calabrese anche il terzo classificato fra gli juniores; che il liceo Vinci di Reggio Calabria, nella lista dei migliori siti stilata dall’Econtet Award, sezione E-Government Institutions, è preceduto solo da altri due. Il pregiudizio antimeridionale è così radicato, che tutto quello che è Sud è, e non può che essere, negativo; e quel che è negativo è del Sud. Sino alla caricatura. Giorgio Bocca,
antimeridionalista dichiarato, per spiegare l’arretratezza del Mezzogiorno preunitario e post-unitario (vi ho già detto che, per lui, Napoli è irredimibile? Io, invece, credo che tutti possano essere redenti, persino Giorgio Bocca), rispolvera l’abusatissimo e disonesto argomento dell’analfabetismo nel Regno delle Due Sicilie. Cita, su «l’Espresso», le percentuali, maggiori al Sud che al Nord (un censimento falsato da dieci anni di chiusura delle scuole in Meridione, causa invasione piemontese e guerra). E mostra la distanza: in Piemonte, gli analfabeti erano quasi la metà che in Sardegna, dove si raggiungeva il massimo: 90 per cento. Capito mi hai? Peccato che la Sardegna fosse regno sabaudo, non delle Due Sicilie; se aveva il primato degli analfabeti, non devi prendertela con Napoli, ma con Torino. La trappola mentale, la forza del pregiudizio, regala l’isola al Sud, quando “rovina la media” al Nord. E, nelle statistiche, anche retroattive, sulle condizioni delle macroregioni italiane, la sabauda Sardegna la trovi sistematicamente regalata al Sud; in tal modo, le medie del Sud diventano ancora peggiori, quelle del Nord, ancora migliori (possiamo aggiungerci una ulteriore lettura: nell’espandersi a tutta l’Italia, il Piemonte estese il suo modo di concepire un Paese diviso fra un Nord che guida e prende e un Sud che segue e dà). Ne volete un altro esempio? Lo pesco nella nutrita collezione messa insieme dal professor Gianfranco Viesti, che scopre una vera perla fra le pagine de «Il Sole 24 Ore», il quale, nel 2010, conduce una indagine su quanto sono migliorate le regioni italiane, nel decennio che precede il federalismo. Così, sulla base di quaranta indicatori divisi in otto “aree”, si stila una classifica, Il Medagliere delle Regioni, che «premia soprattutto chi si è mosso, in questi anni, in maniera virtuosa». Tutti gli altri giornali l’hanno ripresa; eccola: Lazio 17 punti; Lombardia e Veneto 16; Trentino, Emilia, Liguria e Marche 12; Friuli e
Toscana 10,5; Valle d’Aosta e Piemonte 8,5; Abruzzo 8; Basilicata e Molise 7,5; Campania 7; Umbria 6,5; Puglia e Sicilia 4; Calabria 2; Sardegna –1. «Nei primi dieci posti» osserva il professor Viesti «ci sono solo regioni del CentroNord. Che novità c’è, si potrebbe chiedere il lettore medio? Le regioni del Nord diventano sempre più brave, e quelle del Sud sempre meno brave. È esattamente quello che ci dicono tutti. Tanti soldi, pochi risultati. Il solito spreco.» Lo sapevamo già, giusto? Ma il professore si accorge che «non è chiaro quali siano i quaranta indicatori. Non è chiaro come vengono aggregati. Non è chiaro che cosa esattamente significhi una “performance” positiva». Roba da specialisti, e lascia correre. Preferisce concentrarsi sul modo in cui viene costruita la classifica finale: «Gli autori dell’indagine assegnano i punteggi nel modo seguente. Per ognuna delle otto aree danno 3 punti alle regioni che partono da una situazione migliore della media italiana e hanno una performance positiva. Va bene. Poi danno 1,5 punti alle regioni che partono da una situazione peggiore della media italiana e hanno una performance positiva. Chissà perché, chi sta peggio e migliora merita meno punti di chi sta meglio e migliora. Potrebbe essere benissimo il contrario. Ma andiamo ancora avanti. Gli autori dell’indagine tolgono un punto a chi sta peggio e ha una performance negativa. Corretto. Ma, infine, sorpresa, a chi sta meglio e ha una performance negativa viene dato un punto. Positivo. Ma come? Non è una indagine che premia chi ha migliorato? E se è così perché si dà un punto a chi ha peggiorato?». Il professor Viesti, allora, prova a vedere cosa accade se, seguendo una logica di tipo umano, terrestre, quella normale, diciamo, si danno punti negativi a chi fa male e positivi a chi fa bene (guardate dove riesce ad arrivare chi ha studiato!!): «Accettiamo tutti i numeri
dell’indagine, diamoli tutti per buoni,» scrive, ma «diamo un punto se la regione migliora; togliamo un punto se la regione peggiora. Stiamo cioè pienamente al gioco degli autori: valutiamo così chi si è mosso in maniera virtuosa. La classifica che ne scaturisce è la seguente: Lazio e Campania 4 punti; Liguria 3; Basilicata e Molise 2; Sicilia 1; Abruzzo, Puglia e Calabria 0; Trentino e Valle d’Aosta –1; Lombardia e Veneto –2; Friuli e Sardegna –3; Umbria, Piemonte, Toscana, Marche ed Emilia –4. Magia. Nei primi dieci posti ci sono sette delle otto regioni del Sud. Con gli stessi numeri usati nella ricerca; gli stessi indicatori; gli stessi otto ambiti. Senza nessun “trucco” tecnico». La verità, quindi, è che le regioni del Nord, nei dieci anni precedenti, hanno avuto comportamenti peggiori di quelle del Sud. Ma «una classifica del genere non può esistere» scrive Viesti. «Non deve esistere (ed è facile farla sparire: basta assegnare punteggi in modo assurdo come fa “Il Sole 24 Ore”; tanto il lettore medio mica se ne accorge). Non sia mai che il lettore medio de “Il Sole 24 Ore” sia informato che qualcosa di buono succede al Sud: se no, come facciamo a convincerlo ogni giorno che più soldi togliamo al Sud, meglio è per tutti?» Questo riflesso condizionato a danno del Mezzogiorno c’è da sempre; ed è stato fatto proprio dai meridionali. Ma ora è sempre meno accetto (e a questo il Nord non era preparato) per l’insofferenza dei meridionali, che cresce con l’acquisizione di consapevolezza. Il mio libro (ma avrebbe potuto essere un altro, perché l’argomento ha partorito un insospettato ma robusto genere editoriale) è solo uno strumento che rende manifesto un sentire in crescita, sempre più diffuso e più profondo, ma preesistente. Lo si poteva capire prima, volendo e dedicandovi un po’ di attenzione, come hanno fatto Paolo Mieli, sin da
quando era direttore de «La Stampa», poi sul «Corriere della Sera»; Paolo Granzotto su «il Giornale», e pochi altri (troppo occupati, i più, nell’analisi delle dichiarazioni del Trota su miss Padania o miss Padania sul Trota): sono sorti movimenti politici, ma li hanno derisi (l’è minga la Lega!); sono nate testate giornalistiche che affrontavano temi storici, identitari, ma non ci si è preso il fastidio di buttarvi uno sguardo; sono state fornite analisi economiche serie, ma si è preferito ignorarle... Prima o poi, uno dei segnali di quanto stava e sta montando, a Sud, doveva risuonare più forte degli altri. E quando questo accade, si considera “fenomeno” lo strumento che dice la cosa, e non la cosa. Aspetta, che non ricordo chi è che deve fare autocritica...
29 ZITARA
«Ti vuole conoscere» mi dice Pasquale Zavaglia, suo allievo prediletto. Nicola Zitara è ormai un esserino scarnificato, nel letto che condivide con il cancro che lo sta uccidendo; i tubicini che escono dalle lenzuola nascondono l’indecenza del male sotto la brandina. Ma gli occhi, nerissimi, enormi olive senza distinzione di colore fra pupilla e iride, sono di vivezza e intelligenza giovani e roventi. Piccola, modesta, la sua casa: un cancelletto, un giardino minimo, una stretta aiuola da cui Lidia, la figlia di Nicola, trae aromi mediterranei e agrumi (scrive di giardinaggio); un saloncino, la cucina. E lui, nella stanza, sereno, minuscolo, lucidissimo. Lessi il suo primo libro che ero poco più di un ragazzo; lo incontro solo ora. Gli porgo la mano. «Gira da quest’altra parte» fa «voglio abbracciarti. Sei stato bravo.» I suoi estimatori lo venerano, solleciti e discretissimi. Quando escono, per lasciarci soli, li segue con lo sguardo: «Tutto questo affetto, queste attenzioni...» mormora «non credi che stia ricevendo più di quel che merito, proprio mentre me ne vado?». È come se osservasse la sua condizione da estraneo. «Ti dà fastidio se fumo?» Non rinuncia. E perché dovrebbe?
Ha ragione lui, a questo punto. Mi parla del libro cui dette inizio tanti anni fa e che è riuscito a scrivere, nonostante la chemioterapia, i lunghi periodi di inabilità, la scomodissima infermità che gli rende penosi movimenti modesti, persino raggiungere il pacchetto di sigarette (e ti precede, per evitare di essere aiutato), figurarsi i libri che rendono l’intera casa, e persino la stanza-ospedale, un unico, contorto corridoio di biblioteca. Sta correggendo le bozze: «Non riesco a licenziarne più di venti pagine al giorno». Gli è difficoltoso pure leggere; lo aiutano moglie e le figlie (l’altra è Grazia), che custodiscono il congiunto come un bene pubblico loro affidato dalla comunità. Ha ricostruito oltre due secoli di politiche bancarie e di finanza, da prima della nostra storia unitaria in poi, con la spoliazione scientifica del Sud. «È necessario anche fare un’antologia della malefatte a danno del Mezzogiorno» dice. «Io non potrò. Devi farla tu. Tu e uno storico; tu per la capacità divulgativa giornalistica, lo storico per il dettaglio documentale, la cui ricerca potrebbe riuscirti troppo dispendiosa.» Non so se si rende conto che sono vuoto, in questo periodo, incapace di progettare e fare: aspetto che dal sentire confuso emerga l’idea che porrà le altre in secondo piano. Non rispondo (ma è dal racconto del nostro incontro che ricomincio a scrivere). Finiamo per parlare di identità; e mi narra una storia. «Ero giovane, insegnavo a Cremona, ero solo. Feci amicizia con un collega di qualche anno più giovane, ne avrà avuti ventisei, ventisette. Era figlio di un calabrese mai più tornato nella sua regione. E della quale, lui, nato al Nord, non sapeva niente. Ne apprendeva da me. Quando tornai giù, mi seguì; lo accompagnai a Sant’Eufemia d’Aspromonte, il paese della sua famiglia. Immagina cos’era più di mezzo secolo fa, con gli escrementi delle greggi per le strade, le misere case
di pietra. E lì incontrò, per la prima volta, i suoi cugini: era un professore del Nord, ben vestito, di forbito parlare; i parenti erano semianalfabeti, poveri, mani callose e sporche di terra e lavoro, sudore; intimiditi dal giovin signore che avevano di fronte. Lo portarono dinanzi alla casa che era stata del nonno, quella da cui era partito suo padre. E lì accadde qualcosa che ancora oggi mi sconvolge» e mentre lo dice, ma senza che la voce ne sia incrinata, comincia a lacrimare, con due rivoletti che scorrono veloci e gonfi («Non badarci» si giustifica «succede ai vecchi»). «Il mio amico cominciò a tremare, si avvicinò alla porta, cadde in ginocchio e scoppiò a piangere, con il viso fra le mani. Rimanemmo tutti muti, i suoi stupiti e ritrovati parenti e io. Tornò altre volte. Infine, riportò al paese anche suo padre.» C’è una potenza del sentire che il tempo, la distanza possono nascondere, ma da cui non riesci ad allontanarti tanto da perderne la radice. Nicola vuol dirmi che la tua natura prima o poi ti raggiunge. Ha poco tempo, troppo poco, per poterlo sprecare in chiacchiere. Quel suo amico potrebbe essere metafora del nostro Paese e del passato: mentre credi di perderlo, gli vai incontro. Conoscete la sindrome del portaordini? Egli dovrebbe, come l’araldo che corse da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria, morire molto prima, ma il compito da svolgere lo tiene in vita, a dispetto di tutto (disidratazione, ferite, fatica). Infine, arriva, consegna il dispaccio («Abbiamo vinto!») e crolla. Nicola ha chiuso gli occhi dopo aver licenziato l’ultima pagina. Aveva ottantatré anni. «Questa è la storia. Non ne esiste una diversa» scrive a chiusura del suo capolavoro e della sua vita. La storia di com’è nata davvero l’Italia, 150 anni fa; e non somiglia a quella che continuano a raccontarci. La sua casa editrice, la Jaka Book, mi invia il volume, prima
che esca: L’invenzione del Mezzogiorno, una storia finanziaria, monumentale ricostruzione (quasi 500 pagine) di due secoli di finanza: da quando l’Italia era divisa in più Stati, a quando divenne una. Nicola mostra come, dietro un pugno di idealisti, tricolore e inno di Mameli, c’era una questione di soldi. Al solito. E lo spiega con una serie impressionante di dati, documenti, tabelle. Forse mai sono state elencate con tale chiarezza le prove della spoliazione del Sud d’Italia, per pagare i debiti del Piemonte («non avrebbe retto sei mesi ancora») e avviare l’industrializzazione del Nord (ancora due anni dopo l’Unità «non esisteva neppure l’ombra di un moderno capitalismo tosco-padano»). Abbondanza di documentazione necessaria «in un paese come l’Italia, in cui la narrazione storica sembra l’arringa di un pubblico ministero che deve mandare in galera il Sud a ogni costo». Zitara, già imprenditore, insegnò Diritto ed economia prima di darsi al giornalismo, alla politica e allo studio del dislivello Nord-Sud. «Per la verità storica» scrive «in quei fotogrammi in cui si costruisce l’immaginario industriale di uno scolaro, come navi e treni, il Sud non stava dietro al Nord; al contrario lo sopravanzava, e di parecchio. Un solo esempio: quando il Piemonte prese a dotarsi di ferrovie, fu a Napoli che comprò le prime locomotive.» Il Regno delle Due Sicilie (che per i suoi traffici puntò sulla flotta, più economica: «le prime esportazioni del Made in Italy») avviò la modernizzazione della sua economia nel 1831; il Piemonte, vent’anni dopo. Una libertà da cui furono «esclusi il Veneto, i Ducati, la Lombardia» terre non indipendenti. Zitara spiega che mentre il Sud puntò sulla produzione di merci, poche tasse (le più basse d’Italia, immutate per oltre un secolo), gestione economica prudente e solida, il Piemonte preferì la speculazione finanziaria, l’inflazione, l’indebitamento squilibrato con banchieri
stranieri, i Rothschild e altri (in rapporto all’oggi, sino a dieci volte il deficit italiano). Sull’orlo della bancarotta (lo scrisse il braccio destro di Cavour) espandere il Regno divenne una necessità, per trovare chi pagasse i debiti. L’azione coincise con il desiderio di chi voleva unificare il Paese. Mentre alcuni fuoriusciti duosiciliani portavano a Torino le conquiste della cultura meridionale, fondando pure lì cattedre di Chimica ed Economia politica (nata a Napoli, come l’archeologia, la vulcanologia, la moderna storiografia. «Le quattro università meridionali avevano» scrive Zitara «oltre due volte gli iscritti dell’Italia restante»: 10.000, contro poco più di 4.000). Il vero protagonista del libro è Carlo Bombrini, passato alla storia come patriota, finanziatore delle guerre di indipendenza, per conto di Cavour e del Piemonte, prima con la Banca di Genova, poi con quella degli Stati sardi, infine a capo della Banca nazionale. In realtà, un vero filibustiere, per Zitara «il massimo dei profittatori del regime» per il saccheggio dei beni degli Stati via via annessi, poi delle casse italiane, con la corruzione degli apparati statali e di parlamentari (resterà nel dna italico, sino a Enrico Mattei, le P2, le P3, le P4...). Agisce quale capofila di una consorteria di speculatori liguri, piemontesi, lombardi e (in un secondo momento) toscani. Il che comporta: 1. la distruzione della sola area industriale che esisteva allora in Italia (seppur modesta, rispetto alle dimensioni in altri Paesi europei): quella napoletana; mentre la genovese Ansaldo, abbandonata in soli tre anni dai suoi fondatori, risorge a spese dello Stato, ma stenta contro le officine napoletane di Pietrarsa, più antiche ed efficienti, meno costose,
grandi il doppio (la Breda nascerà 44 anni dopo; la Fiat dopo 57); 2. la spoliazione, a mano armata, della «più solida e moderna banca esistente nell’Italia del tempo»: il Banco delle Due Sicilie (con tesoro grande decine di volte quello della banca di Bombrini). Il sistema bancario napoletano era ritenuto «uno dei meglio affinati del mondo» e «tra il 1831 e il 1859, il Banco promosse più attività produttive di quante ne creerà la Banca Nazionale nei trent’anni compresi fra la sua imposizione agli italiani (1859) e il suo dissesto (1892)». Banca tanto Nazionale, da impiegare 143 lire per ogni ligure, 6 per ogni abruzzese, zero per ogni lucano; 3. l’arricchimento di pochi, grazie a una serie di svalutazioni della lira per eccesso di moneta circolante e alla svendita di titoli di Stato; 4. il ritardo di circa trent’anni della nascita dell’industria padana (dopo l’Unità, non prima, a parte le filande), visto che la facile rendita parassitaria era più conveniente della produzione di merci. E anche quando nascerà, iperagevolata, favorita dal monopolio o quasi delle commesse statali, il vizio d’origine perdurerà. E perdura. «Il Sud è prostrato» da tutto questo, conclude Zitara; il vantaggio che il Nord ne trae è miope; ma il dissesto provocato da tale malaeconomia (scandita da noti scandali finanziari) sarà pagato con le rimesse dei milioni di meridionali costretti a emigrare, dopo l’Unità d’Italia, per la prima volta nella loro storia. È un libro di spaventosa franchezza, questo di Nicola, sarcastico. L’autore avverte che tali cose «si sanno», ma si evita di dirle; preferendo, per ignoranza, “carità di Patria” o pelo sullo stomaco, una edulcorata rappresentazione degli eventi da cui è nato il Paese. L’invenzione del Mezzogiorno è l’opera più importate di Zitara, che ha dedicato la vita a
questi temi (in L’Unità d’Italia, nascita di una colonia, rieditato dopo quasi quarant’anni, recuperò, aggiornandoli, studi dei meridionalisti classici, sulla riduzione del Mezzogiorno a regione gregaria del resto del Paese). Quando un maestro muore, il suo insegnamento rimane; per questo non si può dire che i maestri muoiano mai, davvero. Zitara ha spiegato, sino all’ultimo, in quali modi l’economia tiene soggette regioni della Terra condannate a ruoli subordinati. Come il nostro Mezzogiorno. «Sul piano teorico» ricorda «la tematica del colonialismo interno è giunta in Italia dall’Inghilterra»; ed è facile comprendere come mai si sia sviluppata proprio lì una linea di studi politico-economica sulla creazione e lo sfruttamento di “colonie interne”, basti pensare a cosa è accaduto, per secoli, in Irlanda, Scozia, Galles... Nicola cita quanto scrisse in proposito Michele Abbate, profondo osservatore di questi fenomeni. L’ufficio di Michele, alla «Gazzetta del Mezzogiorno», responsabile della cultura (fu il primo a far scrivere, su un quotidiano, un promettente maestro di Racalmuto, tal Leonardo Sciascia), era accanto allo stanzone della cronaca cittadina; ma per noi giovani giornalisti, quello era un tempio, zeppo di libri dai titoli impossibili, che lui promuoveva o bocciava, in ieratica solitudine. Era il vecchio della montagna («Hanno tradotto il libro di Michele in cinese!»: e neppure so più se era vero. La Cina di Mao, non questa delle Ferrari di plastica). Abbate spiegava quanto fosse superficiale e sbagliata l’idea diffusa e radicata che divide il mondo in Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati: «il colonialismo non è soltanto una pratica esterna del capitalismo monopolistico. Esso è infatti innanzi tutto una sua pratica interna. Le sue prime vittime non sono le nazioni sfruttate, oppresse, smembrate, ma proprio le popolazioni, o una parte delle popolazioni dei paesi dominanti: cominciano riducendo a colonia parte dei loro connazionali». Con coloritura nostrana, per quanto ci riguarda, perché
«Il colonialismo interno italiano ha un carattere singolare: come forza efficiente è azionato dal sistema industriale padano, come cultura e consenso politico appare un carattere intrinseco degli intellettuali meridionali». E di questo (classe dirigente e intellettuali del Sud che affiancano, nella riduzione a colonia del Mezzogiorno, il monopolismo economico del Nord), forse ci eravamo accorti... L’invasione del Sud, in nome dell’Unità, non fu impresa coloniale “in terre selvagge”, spiega Sante Bagnoli, nella nota editoriale che accompagna il libro postumo di Nicola «ma di conquista su terre competitive col Nord; un Nord dove spesso la condizione contadina era peggiore». La storia stessa della famiglia di Nicola Zitara è sintesi di quello che il Nord ha fatto al Sud, approfittando dell’ideale unitario: i parenti di parte siciliana, industriali, videro le loro attività declinare velocemente, per le scelte nord-centriche del governo “nazionale” (accadde ai Florio, una vera potenza economica, figurarsi gli altri). Ma ancora più illuminante la sorte del ramo campano, che mosse dalla costiera amalfitana: commerciavano in prodotti agricoli, principalmente olio, con la costa jonica calabrese, dove avevano posto una loro base operativa. L’attività crebbe velocemente, al punto che divennero anche armatori (i velieri); banchieri (anticipavano, comprando “sulla stima” il raccolto); rinnovatori sociali: i contadini usi a trarre dalla propria terra il fabbisogno per la famiglia, si convertirono, per convenienza, alla coltura specializzata, il che li mise nella condizione di dover acquistare quel che non producevano più da sé; potevano farlo, grazie ai soldi anticipati dai commercianti (sostenuti, a loro volta, dal Banco napoletano), i quali da una parte compravano olio, dall’altra vendevano ai fornitori i beni loro mancanti. E il denaro girava. E tanto. La stessa vicenda economica, però dal lato dei contadini evolutisi in agricoltori specializzati, è narrata, per quegli stessi anni, da Mimmo Gangemi in La signora
di Ellis Island, la storia della sua famiglia, calabrese. Una economia così florida, che, in Memorie di quand’ero italiano, Zitara dice che, nonostante la politica antimeridionale dell’Italia unita, i suoi familiari «ancora nel 1892 avrebbero potuto finanziare, senza eccessive difficoltà e tutta in contanti, la fondazione della futura Fiat, ma già nel 1920 giudicavano di non potersi permettere il lusso di un’automobile». Cos’era accaduto? Napoli, la sua banca, il suo porto erano stati messi in condizione di non poter competere con i concorrenti del Nord (l’ex capitale smise di essere porto di ingresso e partenza di merci straniere o destinate all’estero: e il Regno delle Due Sicilie commerciava con Nord Europa, Stati Uniti, Cina e Australia); l’attività bancaria meridionale fu inibita: prima si impedì agli istituti del Sud di aprire filiali al Nord, mentre il contrario era possibile, poi si impose al Sud di convertire in oro la carta moneta stampata al Nord, mentre il contrario non era possibile. I commercianti e industriali del Sud si trovarono senza più paracadute. Tutto fu spostato a Nord, specie in Liguria. I parenti di Nicola, persa la sicurezza del Banco meridionale, ne fecero uno locale, in cui, con bella dose di coraggio, confluirono i soldi propri e degli agricoltori ex contadini che, nel frattempo, avevano cumulato del capitale. Ma bastò che la nuova banca fosse inondata di carta-moneta del Nord (generosamente stampata, senza reale corrispondenza con le riserve di oro), per metterla in difficoltà. Si dovette venderla, e il commercio dell’olio passò nelle mani dei liguri, spalleggiati dalla nuova politica unitaria e dal sistema bancario “nazionale” del Nord. Il padre di Nicola si ridusse a un decoroso commercio locale in Calabria, sempre meno florido; Nicola fu il primo della stirpe a divenire dipendente statale. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del
Nord: da concorrente, a cliente. Una condizione che mi pare ben narrata (ritrovo l’appunto dopo decenni!) dal senatore e scienziato Giovan Battista Grassi, che ai primi del Novecento condusse un’indagine, in Sicilia, sulla nocività del fosforo bianco usato per i fiammiferi: «il proprietario di una minuscola fabbrica, udendo il motivo della mia visita, mi domandò se ero continentale e mi disse: “Sappia che questo cappello è fabbricato in Alessandria, che la mia cravatta viene da Milano, dal Veneto la tela della mia camicia, da Biella la stoffa del mio abito, dalla Brianza i bottoni, tutto viene da lassù. A noi siciliani finora era rimasta la sola soddisfazione di accendere i nostri fiammiferi. Oggi voi venite a inventare che il fosforo fa male alla salute e, come ci avete tolto il resto, vi prendete anche la fabbricazione dei fiammiferi e ci riducete ad accontentarci di strofinare i vostri fiammiferi contro la vostra stoffa dei pantaloni”. E mi voltò le spalle.» Chissà perché! È cambiato poco, da allora, talvolta in peggio. Nicola Zitara ha voluto dimostrarlo. Era ridotto a solo cervello e volontà, quando scrisse l’ultima frase: «Mi fermo qui. Auguro buon lavoro a chi proseguirà il racconto. La storia del Sud è tutta da scrivere». E quella storia del Sud negata è l’unica in cui l’Italia può ritrovare se stessa. O perdersi. È stato guida di molti, Nicola, non sempre compreso, per il dono avvelenato che tocca ai migliori: vedere le cose prima dei loro contemporanei. Con i suoi primi libri, l’azione politica da dirigente del Psiup, le analisi sui Quaderni calabresi, diretti dal giudice Francesco Tassone, cercò di mostrare l’inganno dell’industrializzazione del Mezzogiorno negli anni Settanta, con metodi ancora una volta «coloniali e fallimentari»: finivano al Sud le code di produzione, quelle destinate alla dismissione, in tempi brevi, per vetustà tecnologica e impossibile concorrenza con i costi di Paesi in via di sviluppo; e senza tener
in alcun conto le vocazioni territoriali. Li ricordo, quegli anni, e capisco la solitudine intellettuale e politica di Zitara. Vivevo a Taranto; l’arrivo dell’Italsider, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, parve il riscatto tanto atteso. Mi sembra sia stato un sindaco della città a dire: ci avessero chiesto di metterlo in piazza Castello, avremmo detto sì. Ed è vero. Noi capimmo dopo, tardi. Capire, sapere e restare inascoltati dev’essere stato sfiancante. Ma Nicola non rinunciò mai al dovere primo degli onesti: fa’ quel che devi, accada quel che può. Quando mi accorsi che la conversazione (ma io preferivo ascoltare) cominciava a essergli faticosa, dissi che dovevo raggiungere delle persone. Mi prese le mani: «Sono felice del successo del tuo libro; una bella sorpresa: vuol dire che c’era chi aspettava di sapere, chi è interessato alla nostra storia». Poi, fu poco più di un sospiro, un soffio, e mi strinse le mani, con l’insignificante forza di cui era ancora in possesso: «Dopo tanto tempo, non ci credevo più». Gli avevano detto che erano venute centinaia di persone, nonostante il sole e il pomeriggio d’estate, alla presentazione del libro, a Gioiosa Jonica. Vidi me in quella folla, e lui infilato con la lettiga fra le pile di libri, solo, a correggere il suo, con gli ultimi fiati. E la cosa mi suonò ingiusta. Fuori dalla sua stanza, una folla quasi silente: nel salottino, nella veranda, nel vialetto, sino al cancello, e sul marciapiede... La solitudine di un uomo intelligente e rigoroso aveva prodotto quel popolo di continuatori, ormai consapevoli e impegnati nell’organizzare manifestazioni, iniziative culturali e politiche, ricerche storiche, economiche. I segni del passaggio di quell’uomo che moriva sono tanti: gruppi meridionalisti e associazioni germogliati ovunque (incluso uno che ha base in Italia e in Argentina), qualche giornale, libri che restano.
Non feci in tempo a rivedere vivo Nicola; ma spero sia sbagliata l’analisi che chiude il suo libro-testamento: «L’Italia, Stato nazionale, è già morta. Aspetta soltanto le esequie. Una parte sarà accolta dalla benevolenza germanica, l’altra è nelle mani della fortuna» (l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha raccontato, a febbraio 2011, che quando l’Italia riuscì a entrare nell’euro, Umberto Bossi disse «di aver scommesso sulla nostra esclusione, per poter dare la spallata separatista. Di più: confessò che su questo aveva già preso contatti con certi suoi “amici” austriaci e bavaresi, in modo che avallassero l’ingresso nel club della moneta unica solo per la parte più ricca del Paese, cioè la Padania, lasciando andare a picco il resto dell’Italia»). Trascurava, Zitara, che proprio il lavoro di severi giudici come lui può fornire, alla stragrande maggioranza di onesti, gli strumenti per aggiustare la casa.
30 D’ORIGINE
«Pino Aprile, di origine pugliese...» esordisce il professor Anthony Julian Tamburri, direttore dell’Istituto di Italianistica (il John Calandra) della City University of New York, a Manhattan. «...pugliese, professore, pugliese e basta», lo interrompo. E lui: «Appunto: di origine pugliese...». Non ci siamo capiti. Ma già è più comprensibile che accada qui, negli Stati Uniti, dove tutti hanno o hanno avuto, in famiglia, origine altrove; e quelli che erano originari del luogo, gli indiani, sono stati sterminati: gli unici sbagliati, perché stavano a casa loro. Succede (e non ho fatto nessuna analogia con l’invasione delle Due Sicilie e il massacro dei nativi; siete stati voi a pensarci). Ma fateci caso: un meridionale, gli chiedi di dov’è, ti senti rispondere quasi sempre che è «di origine...» e segue la regione. Ora, che senso ha «di origine»? Se a un milanese da trent’anni a Palermo chiedi: «Di dove sei?», lui ti dice: «Di Milano»; magari aggiunge che sta da trent’anni a Palermo, ma non dice: «Di origine milanese». È milanese; sta altrove,
può darsi gli piaccia pure e ci resti a vita, ma è di Milano. Perché un meridionale, invece, specie se al Nord, capita che sia soltanto “originario” della sua regione? Quell’aggiunta sembra, anzi è, una presa di distanza. Segnala un fatto o un’intenzione: il distacco dall’origine, non dal luogo. Se uno è milanese, è milanese; se è «di origine» pugliese, può rinunciare a essere ancora pugliese. Come dire: è successo, non l’ho fatto apposta, ma posso smettere; con il tempo, altrove, sono diventato altro. A maggior ragione se dice: «Di origine pugliese, ma sono trent’anni che sto a Milano»; meneghino per usucapione. A volte, l’indagine porta ad acquisire un dettaglio ulteriore: «Ormai, torno sempre meno in Puglia». Pure il milanese a Palermo può dirti: «Ormai, torno sempre meno a Milano». Ma, mentre il secondo vuol dire che è assente dalla città, il primo è assente dall’essere pugliese, persino se rientra nella sua regione, periodicamente, più spesso di quanto non faccia quell’altro. Il nordico parla di geografia, il terrone sterronizzato di antropologia. Il distacco, come si vede, è consumato; almeno nel desiderio di essere di preciso qualcos’altro, visto che non si può (o non si vuole, o non conviene) restare quel che si era. Questo succede solo se l’identità “di origine” è avvertita come perdente, debole: chi va via dalla Puglia, dalla Calabria, se ne allontana, spesso in tutti i sensi, non avendo trovato modo di restarci (non ti hanno voluto, non conveniva...). Chi va via da Milano non ha il problema di smettere di essere di Milano, la sua carta di identità è più spendibile, moneta forte al mercato del pregiudizio. La sua lontananza da Milano è solo chilometrica. Ma non necessariamente i terroni padanizzati di seconda generazione sono i più accesi leghisti o “originari immemori”. I moti profondi dell’animo non muoiono mai, e possono avere impreviste risorgive. Accade che i figli di quei “pugliesi di origine”, pur nati a
Milano, si riscoprano pugliesi: avvertono meno la condizione meticcia dei genitori, sono quasi sempre più colti, hanno visto più mondo dei loro padri e delle loro madri e non da emigrati; sono permeabili al fascino dei luoghi e della storia e, fecondati dalla curiosità e dal maggior sapere, quei semi dimenticati germogliano. E puoi sentir dire, a volte: «Sono pugliese, nato a Milano, perché i miei si erano trasferiti qui». O anche: «Sono apulobergamasco, nato a Milano; ma siccome prevale l’identità più forte... Insomma, sono un pugliese di Bergamo» mi spiega (e mi sarei aspettato dicesse il contrario) il collega Antonio Carnevale, responsabile delle pagine culturali di «Panorama»; gli avevo chiesto del cognome eteropadano. Il papà è pugliese dichiarato, non “d’origine”, nonostante la lunga permanenza in terra infidelorum. «Appartenere a una cultura significa condividerne la lingua» dice Antonio «e a Milano ricordano ancora quando mia sorella alle elementari scrisse, in un tema in classe: “inchianare le scale”»; ’nchianà, in dialetto pugliese, significa “salire” (e meno male che non si trattava del verbo “vedere”, che all’infinito fa t’kjemend). Si arriva, così, a una sorta di inversione identitaria: i genitori nati in Puglia (o Calabria, o...) sono milanesi o bergamaschi “di origine” pugliese (o...); i loro figli nati a Milano o Bergamo possono scoprirsi pugliesi (o...), di origine milanese o bergamasca. I primi migranti da un’identità all’altra, per bisogno; i secondi per scelta o riemersione sentimentale. C’è tanta umanità che con dolore qualcuno perde o rinnega e altri ritrova, fra le mille sfumature di quella terra di nessuno (o di tutti) degli apolidi identitari. Il trauma dell’amputazione dell’identità, se irrisolto, è un disagio che si tramanda di padre in figlio (e lo si avverte fortissimo, soprattutto fra gli emigrati oltreoceano); e si risolve, quando si risolve, solo con una riconquista che, invece di continuare a togliere, comincia ad aggiungere. Arricchisce. Il sindaco di Gaeta, Anthony (Antonio, a Gaeta) Raimondi, è nato a
Sommerville, Boston, Stati Uniti; il sindaco di Sommerville, Joseph (Giuseppe, a Gaeta) Curtatone, schivò di poco la nascita a Gaeta, come sua sorella (lui è nato in USA): i suoi abitavano in via Piave 15, dove ora vive Antonio Ciano, fondatore del Partito del Sud, ex emigrato a Sommerville. Neanche la volontà di dimenticare riesce a recidere, davvero e per sempre, quei fili dell’anima. Il professor Robert Rossicone insegna Storia alla scuola pubblica, a Brooklyn. Per questo viene a sapere in anticipo che Ilaria Marra Rosiglioni traduce Terroni in inglese, con la supervisione del professor Tamburri. A cui scrive, « desperate to get a copy to read», impaziente di leggerlo. E, per spiegare il perché, racconta la sua Storia: i suoi familiari emigrarono da Basilicata, Campania e Abruzzo (anzi, “Abruzzi”, come si diceva una volta) a cavallo del Novecento, per le «horrid conditions created by Garibaldi’s invasion of the Kingdon of the Two Sicilies», per le orrende condizioni in cui fu ridotto il Sud, a seguito dell’invasione. I suoi bisnonni, come i loro genitori, erano fedeli ai Borbone, venivano da San Fele, Potenza, si chiamavano Dondiego e Pietropinto. E lui, ora, sta cercando di ricostruire quali erano davvero le condizioni di vita, prima e dopo l’arrivo di Garibaldi e dei piemontesi, per indurre i suoi avi alla fuga, e non solo: «once in America», una volta in America, il suo bisnonno allontanò da sé tutto quello che fosse “italiano”, rifiutando pure di insegnare la lingua ai suoi figli («including my grandmother», incluso la nonna del professor Rossicone) e persino rinunciando ad avere ancora un nome italiano (lo mutò in Bell, per americanizzarlo). Da cento anni, nessuno nella famiglia del professore ha più parlato italiano; nemmeno lui lo parla. Ma la violenza dello strappo non ha strappato la radice. E lui, oggi, ha due figli e vuole che sappiano «who we are and where we come from », chi siamo e da dove siamo
venuti. E perché dovettero lasciare «my ancestors homeland», la terra dei miei avi. A fine incontro con gli studenti, alla State University of New York, la Stony Brook di Long Island, mi si avvicina una ragazzona sui vent’anni, e fa: «Mio patrei, mi ha dettow di venirei qui, per sapere chi sonow». Ha gli occhi liquidi Forse, sono proprio le identità di ritorno le più forti. Per questo mi incuriosisce l’idea di volerne ripescare una solo celta dove si sono stratificati popoli e culture, generando un sentire che di tutti quegli apporti non può che essere la somma. Ne parlo con Gilberto Oneto, architetto leghista convinto, studioso di identità padane, mentre attendiamo l’avvio della puntata de L’Infedele, di Gad Lerner, di cui entrambi siamo ospiti. Gli faccio una battuta sul mai esistito Alberto da Giussano, totem della Lega: «Capisco la necessità di miti fondanti, però...». «Non è molto importante che si tratti di un personaggio storico “vero”» replica lui «le costruzioni dei miti nazionali sono piene di personaggi inventati o ampiamente rivisitati (Guglielmo Tell, el Cid Campeador, Giovanna d’Arco). La mitologia italiana è piena di Balilla, Francesco Ferrucci, disfide di Barletta, eccetera. L’anomalia è, semmai, nel recupero di un mito risorgimentale creato in chiave anti-tedesca (l’Alberto; N.d.A.).» «Ma se la Celtic League manco vi vuole!». «Se ti riferisci alla Celtic League di rugby, l’Italia è stata appena ammessa, con Galles, Scozia e Irlanda. Se, invece, si parla della omonima unione delle sei comunità che parlano gaelico, non mi risulta che ci sia mai stato nessun tentativo di entrarci. Non c’è motivo: in Padania si parlano lingue celto-romanze (come in Francia o Spagna), certo non lingue celte. Il riferimento ai celti rientra, semmai, nella necessità di miti di riferimento più appropriati
di quello di Alberto da Giussano, perché si riferisce a lotte contro Roma. In ogni caso, si tratta di enfatizzazioni di giornalisti e avversari: i riferimenti storici sono un po’ ottocenteschi, quelli padani sono molto più moderni, avendo a che fare con caratteri socioeconomici e diritti all’autodeterminazione, cioè al riconoscimento della volontà popolare come vero segno identitario.» Osservo che lui, come altre teste pensanti, è stato messo da parte dalla Lega; che, nel passaggio dall’ideologo Gianfranco Miglio al Trota, si è persa qualcosa (la mia opinione è che abbia trovato la sua vera natura, ma me la tengo). «Quasi tutti i partiti contemporanei hanno in scarsa simpatia la cultura, ma l’opera bossiana è stata così sistematica e “professionale” da far pensare a un preciso progetto antiautonomista, di cui il Trota è solo la “comica finale”» dice. Durante la trasmissione, Gad Lerner mi informa che «stanno arrivando migliaia di messaggi di tuoi estimatori (una valanga mai vista, nella storia del programma, diranno poi; N.d.A.): protestano, perché ti faccio “parlare poco”» dei temi meridionali, ovvio. «Non ho tutti questi parenti» dico. La cosa colpisce molto loro, non me: io lo so cosa sta montando a Sud, è il Nord che rischia di scoprirlo tutto insieme. Scriverò, poi, sul blog Terroni, che Lerner non ha limitato i miei interventi, anzi: quella è proprio la cifra della trasmissione. Ma la montagna di messaggi e la conversazione con Oneto mi mostrano che la ricerca di identità più diverse e lontane, se compiuta in modo conflittuale, può solo evolvere a spese di quella nazionale-italiana, che dovrebbe, invece, esserne la somma, il contenitore di tante felici e invidiate differenze.
31 DI DOVE SEI?
Il Gargano, quando arrivi da Sud, occupa tutto l’orizzonte: inquieta, sbucando come da una nuvola, sulla foschia della piana; è un mondo estraneo, dovrebbe essere un’altra regione, se la Puglia non fosse somma di estranei. La strada passa per la terra degli ipogei (caverne sotterranee che gli uomini di un popolo ancestrale usarono da vivi; e altri, dopo, da morti); è il fondo emerso di una sterminata laguna, che aveva la sua Venezia, Salapia, per capitale; ne sono residua testimonianza le vastissime saline di Barletta (che i pugliesi furono poi costretti a chiamare di Margherita di Savoia). Ho appuntamento al Laboratorio Urbano Culturale, LUC “Peppino Impastato”, di Manfredonia, all’ex mercato ittico, sul lungomare; e subito dopo, a Foggia, alla biblioteca provinciale, dove si dibatte di Unità d’Italia con il senatore Valerio Zanone e alcuni ottimi docenti universitari. Questo tratto di Tavoliere mi intimidisce; si avverte una profondità del tempo che fa perdere l’orientamento, perché dell’infinita storia di questa parte d’Italia si sa pochissimo, nonostante la sua recente riscoperta e valorizzazione turistica (il progetto Puglia Imperiale, del collega Salvatore Giannella, compare fra le dieci storie di successo in quella Bibbia del
turismo per le università che è Il marketing del turismo, del professor Philip Kotler, statunitense, uno dei maggiori esperti al mondo, in materia). Poco si conosce, a parte una eletta pattuglia di specialisti ammirevoli, della gente che vide questa geografia mutare aspetto e contorni, con la linea del mare che arretrava; e popoli sempre diversi che portavano nuovi stili di vita. Parlando di questa parte della Puglia, il professor Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza alla Bicocca (Milano), dice: «Sembra incredibile che in una sola regione vi possa essere una tale concentrazione di reperti sul più antico popolamento umano d’Europa». Gli unici pugliesi sicuramente autoctoni (non è uno scherzo) sono l’asino di Martina Franca e il cavallo murgiano. Non ci tengo sino a quel punto, anche se ci sono andato vicino: Taranto, dove sono cresciuto, è ai piedi del colle di Martina; e Gioia del Colle, dove sono nato, è il cuore della Murgia. I pugliesi (sintesi al cubo degl’italiani, in questo) sono figli di troppi padri, dagli Svevi ai Saraceni, dai Greci agli spagnoli, dagli slavi e albanesi ai Normanni e tedeschi, e bulgari, armeni, provenzali, Micenei, Longobardi, Illiri, ebrei, turchi... Forse, questo li rende ovunque a loro agio. Ma tutti, prima o poi, abbiamo bisogno di sentire un luogo come proprio, in cui ti accorgi di pensare: “Io sono di qui”. E nemmeno ne sai la ragione. Ma perché, per essere meridionale, devo essere solo del Sud? Io mi sento tale, ma come stato d’animo che ignora la geografia. E non è una faccenda che riguardi solo me, o i meridionali. Mi succede di “sentirmi di qui” a Capo Santa Maria di Leuca, dinanzi al quale il mio Jonio e l’Adriatico si incontrano; e a Trieste, a Cervia, a Sperlonga, in Cilento (Acciaroli e Pisciotta), a L’Aquila, a Saint-Malò, a Bonifacio, a Ragusa italiana e Ragusa adriatica, sulla sabbiosa penisola di Troia, in Portogallo, sullo Stretto di Messina, a Lampedusa, ad
Auckland, in Nuova Zelanda, a Leptis Magna (pure in sogno!), in Libia, e in molti altri posti. Mi sono fatto l’idea che uno prima nasce, poi si sceglie una patria, e non è detto che sia tutta nello stesso posto; la mia può essere una somma di pezzi sparsi, quasi a ricomporre nella geografia, quello che la storia ha concentrato in Puglia e nella mia stirpe, portandovi genti varie. Si colgono echi ai quali non sempre si riesce a dare una spiegazione. Mi accadde di avvertire una sorta di richiamo (giuro, non baro) nell’antico monastero fortificato di San Vito, sul fiordo che precede l’abitato di Polignano a mare, una ventina di chilometri a sud di Bari. Ma così forte, che, pur abitando già da tempo in Lazio, capitata l’occasione, per altrettanto straordinaria coincidenza, ne affittai uno degli appartamenti. Pagai per tre anni, ci stetti undici giorni; ci portai mia madre, e scoprii che lì lei aveva visto per la prima volta il mare, circa settant’anni prima, a tredici anni, dopo una notte di viaggio su un carro agricolo, dalla Murgia di Laterza. Lì, mio nipote, che porta il nome di mio padre, è entrato per la prima volta in mare. È con le coincidenze, dicevano i Greci, che gli dei rivelano le loro intenzioni. Ma il luogo in cui sento possa affondare la mia radice più profonda, è questo, subgarganico, in cui non sono mai vissuto. La sola montagna pugliese viene, geologicamente dai Balcani, come la Maiella, più a nord, e le isole Tremiti. Ed è misteriosa: chi ci viene, conosce a malapena la costa; e, nell’interno, San Giovanni Rotondo. Ma poco distante c’è la grotta di San Michele Arcangelo, cristianizzazione di divinità più antiche e dell’indovino Calcante, di cui si diceva quello fosse l’antro. D’altro, quasi niente. Ma questo è uno dei posti più spirituali d’Europa, sin dal tempo che si riesce a cogliere, nella ricerca all’indietro, di come fummo. Quasi ogni sasso pare il resto di un tempio, ogni grotta un ancestrale rifugio: ci sono tracce delle prime caverne dipinte
d’Europa (le sole in Italia); il monastero di Santa Maria di Pulsano, se nessuno ti dice che sei in Italia, Puglia, Gargano, potresti prenderlo per tibetano; nella Foresta Umbra (la più antica del continente) che ricopre l’intero massiccio, fra alberi e rovi, appaiono, ogni tanto, muri diroccati di edifici sacri, eremi; su uno dei famosi faraglioni di Vieste si narra vivesse uno stilita, rubandone la sommità ai gabbiani. Il Gargano è una montagna sacra, alla cui ombra, alcuni uomini divennero dei. E non perché la tomba di padre Pio, la chiesa a lui dedicata, sia fra i più frequentati santuari della cristianità. Una leggenda riportata dai classici romani narra che Diomede approdò qui, dopo la conquista di Troia; sposò la figlia del re dei Dauni, ne ebbe in dote parte del regno, che delimitò con pietre usate come zavorra nelle sue navi e tolte dalle mura della città di Ettore, costruite dal dio del mare, Poseidone. Diomede fondò città, come Brindisi (e suo figlio Tirreno, Trani, sull’Adriatico), divenne potente, troppo: per invidia il suocero lo fece uccidere. L’eroe divinizzato fu sepolto alle Tremiti dai suoi uomini, trasformati in uccelli, perché lo piangessero in eterno. Le isole e gli uccelli che vi stazionano (l’albatro urlatore o berta maggiore, apertura alare quasi due metri, li trovate pure in Antartide) si chiamano, da allora, Diomedee. A metà dello scorso secolo, un contadino dauno trovò una pietra strana e la mostrò a un amico archeologo, il professor Ferri: era una di quelle poste da Diomede, secondo la leggenda, a confine del regno; se ne trovarono molte altre, sane e a frammenti; alte circa un metro e mezzo, forma vagamente umana: su di esse è narrata, per graffiti, la guerra di Troia! Un bel racconto, ma la radice identitaria affonda in una preistoria ancora più buia. Visse qui una popolazione che usava rifugi sotterranei nella piana del Tavoliere. In seguito, quelle cavità vennero adoperate come tombe collettive. Fu il collega Giannella a mostrarmene
alcune appena scoperte a Trinitapoli, il suo paese. Disse che gli archeologi vi avevano trovato decine di sepolture: uomini, donne (su tutte, “La Signora delle Ambre”, per i suoi monili), bambini. La loro postura, in gran parte dei casi, era fetale (gambe e braccia ripiegate sul petto: nel grembo della terra, come in quello materno); l’orientamento dei corpi prevalentemente verso est (da lì torna la luce, si aspetta la vita); tranne uno, quello del più robusto, addossato alla parete, seduto, con la lunga spada accanto: il “Capo”, custode delle speranze di rinascita da quell’utero sotterraneo. Verso l’uscita dall’ipogeo, frammenti di ossa di cervi, buoi e altri animali domestici e selvatici, come “seminati” nella terra, per far germogliare altre vite, arricchire il mondo che sarà restituito, al risveglio, a quel piccolo popolo, vigilato dal “Capo”, nel suo lungo sonno. Quella comunità unita oltre la morte, nell’attesa di rivivere insieme, mi commosse. Volevo raccontare questo al dibattito sulla patria in pezzi, a Foggia. Non lo feci, nel timore di non essere compreso, di apparire troppo sentimentale, retorico. Mentre il Paese viene smembrato da egoismi, avidità, risentimenti e si inventano avi e liturgie, le nostre istituzioni massime ci obbligano a celebrarne l’anniversario della nascita, tralasciando la ferocia che l’accompagnò, a danno dei meridionali, la loro condanna (senza coscienza e volontà di rimuoverla) a una condizione di minorità. Sulla quale, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Quegli uomini e quelle donne degli ipogei, chiunque fossero, non scendevano soli ad aspettare la resurrezione, ognuno nella sua tomba. Ma insieme a condivider la morte (o l’attesa), come avevano condiviso la vita: a mano a mano, morendo, riprendevano il loro posto accanto a chi li aveva preceduti; neppure la morte faceva decadere i loro diritti familiari e nella comunità, né i loro doveri sociali: sul guerriero continuava a gravare,
intatta, la responsabilità dei dormienti. Patria, penso, dev’essere qualcosa che somiglia a questo. Ma come lo dico? Non sembrerà che la prenda un po’ troppo da lontano? Lascio perdere. P. S. La mia reticenza è stata un errore. Finito il dibattito, a noi relatori regalano il bellissimo libro di Anna Maria Tunzi Sisto (della Sovrintendenza archeologica della Puglia): Ipogei della Daunia. Ops... (e ora ne ho due copie).
32 IL PASSATO NEMICO
L’obiezione che più di frequente ti fanno, soprattutto i settentrionali, ma non solo, è: «Se Napoli è sepolta dalla monnezza e Pavia no, sarà mica colpa dei Savoia?». Per dire: come puoi giustificare la tua insufficienza di oggi con una vicenda di 150 anni fa? Me la cavo, in questi casi, con risposte brevi, ma incomplete, perché non sono capace di sintetizzare più di tanto. Sono risposte che non bastano. Perché dovrei, ogni volta, dire che... ...Il passato non passa. Il passato dura e ti è nemico, se ti ha fatto del male; e finché non mutano le condizioni che ha prodotto, ti ferisce e cammina con te; puoi rimuovere quello che te lo ricorda, se ci riesci, ma non puoi smettere di esserne la conseguenza, a sua immagine e somiglianza. Il passato è quello che mangi; le linee, i colori e i suoni che sei abituato a vedere e ascoltare; la disposizione di spazi e di valori, sia morali sia metrici e volumetrici; il tono della tua voce, la lunghezza del tuo passo, l’ampiezza dei tuoi sogni e quella dei diritti cui ritieni di poter aspirare... Il passato è l’ordine che disegna il tuo presente, finché dura quell’ordine: ti trasmette i confini del gusto e del disgusto, il senso della bellezza sedimentato in generazioni; del
giusto e dell’ingiusto. Il passato è la regola e l’unità di misura con cui, senza nemmeno saperlo, prendi le distanze fra te e gli altri e stabilisci il tuo posto e il tuo valore nel mondo. Il passato è quello che l’appartenenza a un luogo e a una gente ha portato sino a te e ha salvato, e che funziona (persino se a tuo danno, a volte), perché conviene, in una sorta di selezione darwiniana dei comportamenti. Il passato è il contenuto di civiltà con cui ti rechi alla mensa delle altre, per condividerne e scambiare i sapori. Il passato è il tuo dono e la tua forza o la forza persa. C’è, c’è sempre, pure quando non sai di averlo. Il passato è la somma delle cose che forse non conosci, ma ti fanno come sei. Ti abitui e adegui al suo ordine, tanto da considerarlo unico, fisso, come il cielo, a cui si presenta speculare: perché il passato coincide con la terra, la tua (terra e passato condividono la proprietà di accogliere e fecondare le radici, in ogni senso). E appare come mondo unico che fonde storia, cultura, gente, cibo, dio e territorio. Da lì vieni; figlio di quel dio, anche se ateo. Il passato è la fonte della tua sicurezza, persino se ti condanna a un ruolo subordinato: più è lungo, più si conferma valido. Da più tempo sei re o schiavo, più è ovvio che tu lo sia. Fino a che il passato non ti tradisce. Un lettore meridionale (solo d’origine, ormai, perché, da quel che dice, lavora e vive altrove) mi ha inviato su Facebook, un messaggio: «Tante volte, andando in Meridione e in Sicilia, mi sono chiesto come mai, tutto ciò che è bello risale a prima dell’Unità d’Italia, e ciò che è brutto a dopo. Terroni dà di questo fatto la spiegazione più convincente che abbia mai letto». Curioso, perché io non la do la spiegazione: l’ha dedotta lui, traendola da cenni che non avevo sviluppato, per brevità.
Il Sud era un Paese unico da più di sette secoli; governato dalla stessa dinastia da quasi centotrent’anni (i Savoia, in Italia, ne sono durati solo ottantacinque; la Repubblica, fin qui, ancora meno...). Tempo e geografia del Meridione erano, nella mente dei suoi abitanti (pur fra rivolgimenti storici e alterni reggitori del regno), un dato di natura. I confini della nostra casa e quelli del nostro Paese sono il minimo e il massimo nella mappa dei nostri spazi personale e pubblico. Per i meridionali, erano tali da tanto tempo, da poterli intendere “da sempre”. Un giorno, da un giorno all’altro, il tuo passato diviene sovversivo, un crimine, da nascondere, da vergognarsene, da punire; i tuoi confini spariscono, i tuoi colori sono sbagliati; la tua stessa lingua “nazionale” è sospetta: «Non si parla in dialetto!» (mentre il francese dei nuovi padroni piemontesi era idioma internazionale, in Europa, e non solo, allora; lo usavano i galantuomini fra loro e accomunava i nobili di ogni Paese, sino alla Russia e compreso Napoli; al punto che un detto popolare fotografò così la decadenza economica della nobiltà partenopea, dopo l’Unità: «Ce se so’ abbassat’e bicchier’, ma o’ frangese nun c’o facimme mancà’»: intendendo che non potevano più permettersi i calici, ma, oh parbleu!, facevano sciccosamente la fame en français...). Cosa accade a chi subisce tale trauma? Ogni riferimento del proprio equilibrio non soltanto personale, psicologico, ma di identità culturale e sociale, economico viene a mancare all’istante, dopo tanto, dopo secoli, dopo “sempre”. E sono le certezze incrollabili a tradirti, a rivelarsi incapaci di proteggerti: la tua terra, il tuo re, la tua storia, il tuo Paese, il tuo modo di stare al mondo, che era quello di tuo padre, del padre di tuo padre... persino il papa (altro sconfitto del Risorgimento), che era garanzia di Dio e garantito da Dio. Ti hanno tutti mentito: non erano onnipotenti.
Questa condizione è magistralmente narrata da Luigi Zoja che spiega, in Contro Ismene, come l’impero messicano degli Aztechi sia caduto per mano di pochi spagnoli (avvenne lo stesso in tutto il Sud America, con tale violenza che, in pochi decenni, la popolazione indigena si ridusse da 25 milioni a uno e ancora oggi è solo il 3 per cento del totale). Accadde a loro quel che succede ai bambini traditi e violentati dai genitori; e anzi, peggio: «Sono stati abusati dai loro dei. Tutti i sintomi successivi corrispondono a questa catastrofe originaria, e rimarranno pietrificati per secoli fra vaste masse di discendenti: perdita di fiducia in sé, perdita di iniziativa, trasferimento dei conflitti al proprio interno» (nel senso che le persone così colpite vivono quella violenza in se stessi, sino alla paralisi della volontà; ma può intendersi anche come trasferimento del conflitto all’interno del popolo aggredito, che si divide e sfoga contro se stesso la violenza che dovrebbe opporre all’aggressore: andate a rileggervi le tante “guerre intestine” che si accesero al Sud, con l’arrivo dell’esercito savoiardo, fra cafoni e signori, filoborbonici e filopiemontesi, possidenti fra di loro, briganti veri e no). Se l’insulto è grave, si sviluppa la «predisposizione sia alle condotte autolesioniste (tossicodipendenza, suicidio) sia a farsi abusare di nuovo», perché «gli abusati perdono la voglia di vivere». E si registra persino una minore o nulla difesa dalle malattie. Successe agli Aztechi; e successe ai meridionali, negli anni “eroici” del Risorgimento: anche per le peggiorate condizioni di vita, per i saccheggi e la guerra, si scatenarono epidemie e ondate di suicidi, specie fra i militari borbonici allo sbando, in particolare quelli deportati, che videro dissolversi l’ordine di cui erano difensori e custodi, la loro ragione di essere. Per avere idea di cosa avviene, in questi casi: quando gli Zeloti, setta politico-religiosa ebrea, nel 73 dopo Cristo, capiscono che la resistenza nella fortezza di Masada, durata anni,
contro l’impero romano, non è più possibile, rifiutano la resa e si suicidano in massa. Ci sono esempi più prossimi a noi: fra gli 11.000, 12.000 soldati argentini mandati a combattere contro gl’inglesi, nel 1982, nelle Malvinas-Falkland, e rientrati sconfitti, ci furono circa 350 suicidi: più suicidi che morti in guerra; una percentuale altissima, la più alta nella storia conosciuta, avverte Zoja. Perché? A quegli uomini era stata promessa una grande impresa, una grande gloria. Essere stati vinti non comportava necessariamente la perdita della ricompensa: l’onore di Ettore è maggiore di quello di Achille (il primo è vulnerabile, l’altro no). Ben di più fu tolto a quei vinti: fu loro sottratto il mondo da cui l’atteso onore derivava, perché il regime che li aveva inviati al fronte fu travolto dalla sconfitta. I combattenti videro le azioni della gloria mutate in vergogna; come per i militari della Germania nazista: tutto quello che li rendeva grandi in patria, nella fase vincente, divenne colpa e infamia personale e nazionale, da celare al mondo, dopo la resa. Quando il tuo cielo cade sulla terra, si resta attoniti; e una piccola forza può avere ragione di una molto più grande, in conseguenza della paralisi indotta non dal dolore, ma dall’impossibilità stessa di concepirlo quel dolore, dallo stupore di averne scoperto l’esistenza; dall’incapacità di ridurlo (per impreparazione, dinanzi all’imprevedibile) fra i sentimenti governabili. In quello stato, non ci si difende più, nemmeno in tanti da uno solo. A Soveria Mannelli, in Calabria, il 30 agosto 1860, diecimila soldati borbonici, forti pure di una dozzina di cannoni e quattrocento cavalli, gettarono le armi per terra e sbandarono, quando compresero che il loro comandante, il generale Giuseppe Ghio, si era arreso all’apparire di un messo garibaldino, tradendoli. «Io» aveva scritto alla moglie, soltanto cinque giorni prima «saprò sottomettermi a tutto meno che al disonore e al tradimento»
(appunto: pochi giorni dopo averlo fatto, Garibaldi lo nominò comandante della piazza di Napoli). Il fenomeno è lo stesso: a restare attoniti, per un dolore che ti svuota il cervello e l’anima, possono essere tanto i singoli che le masse. Quando questo avviene, «la popolazione resta per secoli apatica proprio come lo sono gli abusati» spiega Zoja (Elias Canetti, in Massa e potere e in Potere e sopravvivenza, riporta esempi di come grandi masse si lascino usare e abusare). E l’unica forma di difesa che si riesca ad approntare è quella “dal ricordo”. Infatti, «gli abusati perdono la memoria». Tanto che «proprio il popolo messicano – che fra quelli americani ha il passato più grande – sembra non esserne consapevole, sembra non avere storia». Come i meridionali d’Italia, dimentichi e nemici del proprio passato, andato perso nel secolo, il diciannovesimo, che ha preparato, con cinque milioni e mezzo di morti in guerra, i massacri di quello successivo (le stime più estreme arrivano a duecento milioni di morti, nel mondo, per i conflitti e i genocidi del Novecento). Si attribuisce al ventesimo secolo, “il secolo delle stragi”, l’invenzione dei campi di sterminio. Ma Luigi Zoja rileva che essi appaiono, in realtà, già un secolo prima, come strumento di sottomissione, al servizio delle più feroci imprese coloniali: «(Cuba, Filippine). Ma nel ventesimo secolo il numero e la tipologia dei campi esplode in Europa. Si instaura una continuità che rende difficile distinguere sia le stragi effettuate nei campi di concentramento, da quelle che avvengono durante i “viaggi” di concentramento, sia i campi per prigionieri di guerra da quelli per prigionieri politici». Per la dimenticata nostra storia, nemmeno Luigi Zoja aveva avuto occasione di sapere che pure in Europa, come a Cuba e nelle Filippine, il ricorso ai campi di concentramento va
anticipato al diciannovesimo secolo; e per la stessa ragione: la creazione di una colonia. E successe proprio in Italia, a danno dei meridionali (come documentano Fulvio Izzo, nel suo agghiacciante I lager dei Savoia, e Giuseppe Novero, che riprende quei fatti in I prigionieri dei Savoia). Il più feroce di tutti, quello di Fenestrelle, era in Piemonte: migliaia di meridionali furono internati in condizioni che portavano in poche settimane alla morte. A Fenestrelle li squagliavano, poi, in una vasca di calce viva. Non si sa nemmeno quanti. E non ci sono dubbi (a meno di non voler vedere, non voler capire, non voler sapere) che l’operazione avesse il solo scopo di ridurre il Mezzogiorno in stato coloniale: rapina dei suoi beni (Il saccheggio del Sud, di Vincenzo Gulì); distruzione della sua capacità industriale e produttiva; drenaggio dell’oro e del denaro circolante; trasformazione di un Paese produttore e concorrente, in mercato di consumo delle merci settentrionali, riserva prima di braccia e ora di teste. Il fatto che si tratti di una parte dello stesso territorio nazionale non significa nulla: lo spiega Nicola Zitara, soprattutto nel suo libro più recente e postumo L’invenzione del Mezzogiorno. Non fu solo il nostro Paese a fare questo; e non fu il primo. Chi è ridotto a colonia perde facilmente il rispetto di sé, delle istituzioni in cui si riconosceva, della propria storia, della sua cultura, del suo passato, della propria identità (il colonizzatore lo aiuta, spiegandogliene l’“effettiva” minorità, con il sostegno di una qualche morale o scienza compiacente: schiavista per i neri; nazista per gli ebrei; lombrosiana, persino nella sua caricatura leghista, per i meridionali). E quando quello che difendi viene distrutto, puoi disinteressarti alla sua sorte, come le donne che vengono violentate per educarle alla perdita di valore e di controllo del proprio corpo e indurle alla prostituzione.
Si entra, così, in un sistema a stima calante per tutto quello che ti riguarda, te incluso. Sino a darti un perverso godimento nell’agire in modo che, nel peggio, si abbia conferma dell’insufficienza non solo tua, ma di quelli come te. Il che diviene pure giustificazione del far poco; del far nulla per cambiare, perché inutile (sei “irredimibile”, te l’ha detto e ripetuto pure Giorgio Bocca; che fai, non ci credi?); e persino del fare male. E nel brutto totale in cui ti perdi, ma non da solo, quell’insufficienza imposta e accettata, ti nasconde e addirittura può assolverti: tu non saresti così, è che tutti “lì, da te” sono così e non puoi farci niente; da solo non cambi il mondo, quel mondo. Infatti, i migliori se ne vanno altrove, no?; e magari hanno buona riuscita, a riprova che il tuo mondo è irredimibile (vedi parentesi precedente); ma chi vale, si salva. Mentre chi resta, può capitare che apra la finestra e lanci il sacchetto della monnezza. Perché, per i salti mortali dell’inconscio, persino nel gesto a proprio detrimento, la vittima agisce secondo l’idea di chi la rende vittima, confermandola. Ho risposto alla domanda iniziale («Se Napoli è sepolta dalla monnezza e Pavia no, sarà mica colpa dei Savoia?»)? Non del tutto, credo. Perché è una “domanda a grappolo”: tali sono quelle che sembrano una ma, mentre rispondi, si ripropongono in una nuova forma. E la cosa può ripetersi più volte, portandoti a scoprire che i meccanismi mentali da cui derivano quei comportamenti possono partorire altre brutture, più difficili da rimuovere. La monnezza non è tutto, nella vita. E nemmeno il peggio.
33 IL PASSATO NEMICO E LA BELLEZZA PERSA
«Il Sud è bello» mi dice un collega appena rientrato a Milano, da un lungo giro in Campania e Calabria «sono i meridionali che lo imbruttiscono». È capitato pure a voi di pensarlo? Non ha torto, il mio collega. Perché al Sud (non solo al Sud, ma specie al Sud) sembra che si costruisca a danno di un’antica armonia, quasi con voluttà di bruttezza? E ci si accanisca, con mirata ferocia, proprio contro quel che c’è di più bello, da Napoli Antica alla Valle dei Templi, alla costa calabra, al mio mare di Taranto? Eppure, quello che distruggi è tuo, fatto così, per te, nel tempo, dai tuoi. Perché non ti piace più e sino a quel punto? Se il passato è una storia in cui tu risulti perdente e non ti protegge, per difenderti, te ne allontani (perdonate, se lo ripeto, ma devo compensare le volte che questa cosa importante non viene detta da altri). Ricordo che terra e passato sono fatti della stessa sostanza; così, chi emigra per prendere le distanze dalla sua terra, lo fa pure dalla sua storia (non sa di portarsela appresso; non sa che quella riemergerà, magari nella nostalgia, nel sogno dei
nipoti). Ma ciò che tieni lontano da te, diventa pian piano estraneo; e l’estraneo è il nemico (a questo, dice Luigi Zoja, che ha scritto La morte del prossimo, si riduce, in Occidente, «quello che nella tradizione cristiana era il prossimo»). Succede pure se estraneo diviene quello che eri tu prima, se l’estraneo sei tu di una volta: il tuo passato, di cui diventi nemico, non volendoti riconoscere in chi è come eri (sappiamo già che i più feroci leghisti sono meridionali o figli di meridionali, no?): neghi l’altro che ti somiglia, per rifiutare la tua storia, la parte di te che ha perso (prima o poi devo fare una domanda a Roberto Cota). Questa amputazione della memoria opera diversamente su chi resta e chi va. Chi parte, lascia quel che ha per qualcos’altro; sta facendo un cambio fra quello a cui rinuncia e quello a cui mira. È la condizione dell’emigrante, tanto più preferibile, quanto meno vale quel che lascia, rispetto a quello che raggiunge. Per rendere più facile il passaggio (doppiamente traumatico, perché prevede uno sradicamento e un trapianto, nell’anima e nella mente, nel luogo e nella gente), si tende a deprezzare quel che si perde e a valorizzare quel che si acquista. Per questo, spesso gli emigrati sono fra i più accesi denigratori delle comunità di origine: per rafforzare la ragione della propria scelta. Un atto doloroso, non sempre cosciente; a Rosy Mauro, leccese, leghista di rara violenza verbale (un brianzolo può essere leghista pacato e non sospetto; il meridionale deve urlare la conversione) tocca accettare con grato sorriso che Umberto Bossi dica di lei: «Una terrona che abbiamo civilizzato». Per tenerla accolta ma non assimilata; come i servi: vicini, ma non pari al padrone. Bisogna credere in qualcosa che sia più grande del proprio passato e del proprio presente, per volere un futuro; sennò, resti dove sei, non emigri. Ecco perché rimpicciolisci il valore di quel che è stato e ingigantisci le attese di quel che sarà. Ma devi avere coraggio
e risorse per comprarti la fuga: gli extracomunitari che arrivano qui non sono i più poveri della loro terra, perché possono versare agli scafisti il prezzo del passaggio in mare; per andare in America, milioni di meridionali dovevano aver qualcosa da vendere (l’ultimo pezzo di terra, la casa), pure per pagare le feroci tasse poste, dal soccorrevole Stato unitario che li aveva precipitati in quelle condizioni, sull’“emigrazione per miseria” (quasi esclusivamente meridionale; e con quei soldi rimborsavano le spese agli stagionali del Nord che andavano gelatai in Svizzera). Chi non aveva nulla da vendere, né possibilità di indebitarsi, dovette restare. Ma perse lo stesso il proprio passato, ormai luogo di dolore e vergogna, per le stragi, le umiliazioni, gli stupri, gl’insulti, il saccheggio; troppo pesante, per volerlo ricordare. Così, quella parte di storia fu rimossa dalla memoria personale e collettiva (racconto altrove per quali meccanismi psicologici questo avviene). La si riscopre, dopo un secolo e mezzo, con stupore e rabbia. La scomparsa dei padri, custodi delle regole (sterminati nella guerra al brigantaggio, in due conflitti mondiali, poi emigrati a milioni, in tre ondate generazionali: in alcune regioni si dimezzò la popolazione, rimasero quasi solo donne) stramò il tessuto sociale che governava la comunità meridionale; il che, spiegano gli antropologi, comportò un arretramento di civiltà che oggi ci viene rimproverato da chi lo produsse, e da noi stessi, dimenticandone le cause. Ma le regole non sono soltanto quelle scritte o codificate in comportamenti, buona creanza, proverbi e tradizioni. Altre, ugualmente sedimentate in secoli e non meno profonde, condivise e forti, ci educano al senso del bello. Non tutti hanno la stessa idea della bellezza: in alcune culture sono ritenute irresistibili
donne con natiche enormi, taglie forti, cellulite a palettate; in altre (la donna è rappresentazione universale della bellezza), Eva, per essere Elena, deve avere forme più armoniose, snelle e piuttosto un etto sottopeso che sopra. Può accadere si passi, nella stessa cultura, da un canone di bellezza all’altro. In Occidente, si va dalle Veneri dilatate della preistoria (con attributi sessuali al limite del mostruoso), alla linea perfetta di quelle greche e romane; nel Rinascimento non c’è solo la sottile e biondina Primavera di Botticelli, perché nella Tempesta del Giorgione, l’enigmatica signora nuda sul prato, di primavere botticelliane, in chili, ne fa almeno due, e l’icona più vicina all’idea di bellezza, al tempo, era questa, non quella. Oggi si è tornati alle taglie strette (un po’ meno strette, nel dopoguerra). Ma per capire come la percezione della bellezza abbia subito tale degrado, al Sud, da partorire lo scempio attuale, bisogna prima rispondere a una domanda: come si forma l’idea di “questo è bello, quello no”? Lo scoprì, ma non se ne accorse (lo racconto in Elogio dell’errore), uno dei più geniali (e meno male...) scienziati dell’Ottocento, sir Francis Galton, coetaneo di Darwin. Cercava pure lui il volto del “criminale perfetto”, come Cesare Lombroso, nostra discussa gloria nazionale. L’italiano fu più fortunato: avendo a disposizione teste di meridionali gentilmente offerte dai fratelli d’Italia scesi a liberare il Sud (dalle teste?), scoprì, in solo due mesi, che il delinquente perfetto è calabrese: nascono tarati e traviati (so’ terroni...). Parola di scienziato. Galton, purtroppo per lui, dovette arrangiarsi: gli permisero di fotografare le teste dei criminali, non di portarsi il lavoro a casa (inglesi nemici del progresso!). E ideò un sistema per sovrapporre i volti dei malfattori su una lastra fotografica. Il ragionamento era: i tratti somatici che li identificano come delinquenti si sommeranno e appariranno in tutta
chiarezza. La collezione di facce truci di sir Galton fa impressione; molto meno il risultato dei suoi esperimenti. Cos’era accaduto? Per quanti orribili volti lo scienziato sovrapponesse, quello finale era sempre più bello; e più aumentava il numero delle facce usate (storte, cupe, devastate, ferite, con cicatrici...), più ammirevole era la risultante dalla loro somma. Galton fu molto seccato: volgari facce di farabutti osavano smentire la teoria di un lord! E non vi dedicò altro tempo. Lo fece, un secolo dopo, un bravo biologo italiano, Alessandro Cellerino, e capì cos’era sfuggito al frettoloso britannico: la percezione della bellezza da parte degli esseri umani avrebbe una “componente biologica” e sarebbero «le caratteristiche medie e regolari a risultare più piacevoli». Vuol dire che i caratteri somatici ci appaiono tanto più belli, quanto più sono diffusi, comuni (come le idee, che sembrano tanto più giuste, quanto più condivise, indipendentemente dal valore dell’idea e di chi la condivide). Mentre disturba la vista di un tale con un occhio più grande dell’altro, le braccia lunghe rispetto al corpo... È nella natura umana (questo scoprì e dimostrò Cellerino) considerare bello, giusto, quel che è nella regola, nella media. E questa regolarità, questa media, si ottiene con la somma di tutte le eccezioni possibili (la parte che hanno in comune risulta “bella”, quella che se ne discosta, in ogni senso “eccentrica”, no). Siamo biologicamente portati a vedere brutto ciò che è “estraneo”, fuori norma o non vi è ancora entrato o vi è uscito (meccanismo analogo a quello che ci fa considerare pericoloso il forestiero, perché “non è dei nostri”; poi, magari, sposa la cugina di nostra cognata e...). Una volta divenuti comuni, nelle donne della tribù, i tatuaggi su tutto il corpo, la candida pelle di Marylin Monroe fa schifo. Più il brutto diventa consueto, meno è brutto; più si moltiplicano gli scempi edilizi, meno
sono visti come scempi: paradossalmente, quando c’è troppo di brutto, la bruttezza non si vede; ci si abitua, mutano i canoni estetici condivisi (più conosci “l’altro”, meno quello è “l’altro”). Così, ogni popolazione costruisce, inconsapevolmente, la propria idea di bellezza, influenzata da quel che più conviene (dai tetti molto spioventi delle Alpi scivola meglio la neve; quelli a dorso d’asino, in Puglia, favoriscono la raccolta dell’acqua piovana). La bellezza non esiste in natura; è negli occhi e nella mente di chi guarda: in ogni comunità, il senso estetico evolve con la storia, come i rapporti sociali, le leggi, i costumi, le consuetudini. E non potrebbe essere diversamente: il giusto e il gusto viaggiano sugli stessi binari (a voi piacciono i labbroni inferiori dilatati da piastre che rendono irresistibili le donne di una certa tribù per i loro uomini? O quelle che allungano il collo con cerchi metallici sovrapposti? E qualcuno fra noi ha in casa un figlio con i capelli rasati, meno la cresta centrale blu elettrico). Parlando di case, città e paesaggi, certi volumi, linee, rapporti, distanze, colori appaiono “giusti”, altri “disturbano”. Quell’insieme di equilibri e squilibri fotografa la storia del luogo e il senso estetico dei suoi abitanti. Può capitare che un disastro distrugga tutto, ma se quell’umana tessitura di norme, gusto e memoria resta intatta, nulla si perde: Brema bombardata è ricostruita uguale; il Friuli terremotato risorge com’era. Una comunità perde la sua idea di bellezza, quando smarrisce le regole: dalle leggi alle “buone” abitudini, dalle tradizioni ai canoni estetici. Quando le norme saltano o si deteriorano, saltano o si deteriorano tutte allo stesso modo e tutte insieme, perché nate dalla stessa radice culturale, storica, etnica. Insomma, quando qualcosa va male, tutto va male (non volete crederci? Fidatevi di Murphy: questa è una delle sue “leggi”). Messina, dopo il
sisma del 1783, non vide la sua comunità dissolta, nonostante la tragedia, e rifiorì con la superba “Palazzata” sul mare, unica al mondo. Dopo quello del 1908, lo spirito della città si perse per la strage dei nativi e l’arrivo di un preponderante numero di immigrati da ogni parte d’Italia. Nella confusione dei gusti, Messina rinacque confusa e brutta: si perse. (Poi lo spiego meglio.) Il Sud era rassicurato dalla sua unità territoriale da oltre sette secoli, pur nella turbolenza dei rivolgimenti politici e sociali dell’intera Europa. Persino i conflitti fra cafoni e possidenti erano parte del panorama, specie dall’ultimo scorcio del Settecento, sino all’invasione sabauda che, in cambio di appoggio politico contro il popolo “brigante”, permise a latifondisti e usurpatori di terre comuni, di estendere poteri e poderi. L’ultima fase di quella guerra contadina, diversamente combattuta (non più brigantesca, ma politicosindacale), durò sino a dopo la Seconda guerra mondiale. Quando si parla di Risorgimento, si trascura di considerare che fu una guerra e che ci fu chi la vinse e chi la perse. E quando il Sud perse, perse tutto insieme: terra, regno, beni razziati dai nuovi venuti, rispetto per la propria storia (ancor oggi taciuta o narrata come vergognosa), fiducia nel futuro; vide se stesso con altri occhi. Si vide brutto (capita, agli sconfitti): tutto quello che era suo non aveva retto alla prova; quello che giudicava intangibile era stato profanato; i padroni (pur odiati), per continuare a essere padroni, rinnegarono il vecchio ordine, agirono contro la loro gente, per conto terzi e conto proprio (è «il tradimento dell’élite», di cui parla Maurizio Viroli in La libertà dei servi) e dovettero sottomettersi a un padrone estraneo: l’intera scala sociale del mondo meridionale scese di un gradino; e sul più alto apparve un forestiero che si diceva fratello e ti trattava da servo.
Tutto perse valore: la capacità dei padri di essere la soluzione dei problemi della famiglia e di rappresentarla nella comunità (è la loro funzione sociale); la capacità delle donne di incarnare l’onore (divennero preda del vincitore, poi l’assenza dei maschi di casa comportò un allentamento dei costumi); la capacità del proprio paese di provvedere ai bisogni. La ragione per cui gli uomini decidono di stare insieme si indebolì. Dovettero cercarla in altro o altrove; o in altro, altrove. E brutta apparve ai meridionali ogni cosa che avesse a che fare con la loro sconfitta (ma accadde che quelle norme e quei comportamenti rifiorissero oltremare, come se a perdere fosse stata la terra di partenza, non la civiltà insediatavi; non la storia, ma la geografia). E bello apparve quello che apparteneva al vincitore. Per i paesi del Sud, ero ragazzo, passavano presunti rigattieri e veri antiquari, a scambiare tavoli di moderna fòrmica con quelli di noce durati di mamma in figlia, roba vecchia. La stessa cosa è avvenuta con il gusto estetico: non arricchito dall’incontro con altre sensibilità, ma sostituito da un’idea di bellezza mal copiata, non capìta e fatta propria a forza; come la storia di cui siamo comunque divenuti partecipi, ma partendo dall’assenza della nostra, da un “prima” vuoto. Ne deriva un futuro estraneo, in cui si è ospiti malaccetti, mentre avrebbe potuto essere la casa comune, se ognuno avesse potuto portarvi qualcosa di suo (scambio, non imposizione a mano armata). Il Sud era terra di bianche case a riva, o su un gradone rosa, rosso, grigiastro di roccia calcarea (Polignano a Mare, Otranto, Cefalù, Pizzo, Amalfi...); il mare è una striscia azzurra sotto, il cielo celeste sopra; in mezzo, a volte, il verde degli ulivi o della macchia mediterranea. La Calabria difetta di bianco edilizio: non calcinò le case al mare, forse
perché meno toccata dalla cultura moresca (nonostante diversi insediamenti islamici, quali l’emirato di Amantea, Castel Saraceno, Altomonte, il cui primo nome arabo era Bracallà: “Dio lo vuole”) che dettò i colori alla Sicilia, alla Puglia. Non so stimare quanto del degrado estetico si debba alle violenze della storia recente, né vorrei farmi influenzare troppo dall’osservazione di quel mio lettore («Tante volte, andando in Meridione e in Sicilia, mi sono chiesto come mai tutto ciò che è bello risale a prima dell’Unità d’Italia, e ciò che è brutto a dopo»), ma una deturpante architettura dell’incompiuto o malcompiuto ha infranto l’identità di volumi e colori del Sud e lo ha reso più uniforme nel brutto. Dopo il sorprendente (pure per lui) successo di Benvenuti al Sud, chiesi a Claudio Bisio come avesse scoperto il Mezzogiorno; nel modo migliore, beato lui: con la Cinquecento, una tenda e una bella ragazza. Gli piacque tutto (del Sud, intendo...). «Una cosa, però, mi incuriosì», rispose (e forse lo disturbò): «i tanti edifici incompiuti, magari abitati, ma non intonacati, con i pilastri vuoti dei piani superiori. È ancora così?» Meno, ma sì. Le case si costruivano a rate, con l’arrivo delle rimesse degli emigrati. E nascevano già dirute, senza rifiniture, con muri nudi, pilastri di cemento armato che sovrastavano il piano inferiore, già terminato; tondini di ferro emergenti che ricadevano larghi, come fiori secchi; a volte balconi senza ringhiere, finestre senza infissi, portoni ciechi. Le case parlano, dicono dei possessori (ricchezza, educazione, gusti). Quell’edilizia era una corsa in massa all’essenziale: quattro muri non vestiti, ma fondamenta profonde (quanto le speranze di crescita), per alzare un altro piano e un altro ancora, domani che i figli si sposano: dalla casa al palazzo, con l’idea del castello (dentro, solo “i nostri”). Quanto più presto si elevava la costruzione, per riempirsi di famiglia allargata a fratelli e cognati, tanto più abbondante la fortuna dell’emigrato che mandava i soldi per la fabbrica:
chiunque poteva valutarne il flusso, dalle file di mattoni alzate. Case rimaste a un piano e pilastri inutilmente al cielo erano pubblica umiliazione di chi progettò oltre le sue forze; mentre l’insospettata ampiezza di mezzi ed edifici malignava di soldi facili. Ma all’approssimazione esteriore non corrispondono interni altrettanto miseri. Anzi. Una lunga storia di razzie ha educato i meridionali a sottacere il benessere, non attirare l’altrui avidità e l’invidia (“a ’mmidje”, “u picciu”). Se entri in quelle case che paiono sorte già in rovina, scopri, a volte, piccole regge; da mostrare all’ospite che può varcar la soglia non sospetto. È come la bellezza delle donne celata dal chador. Ma quell’orgia edilizia sbagliò i conti. Mi ricorda il marinaio che conobbi in una piccola isola greca dello Jonio: aveva inseguito il riscatto sociale tutta la vita, consumata su navi e mari di tutto il mondo. Ma quando, vecchio e malmesso, si insediò nella villa sul luogo più alto e ambito dell’isola, non era rimasto quasi nessuno: tutti via, compreso i suoi figli, in Inghilterra e Stati Uniti. Finalmente re, ma di un regno vuoto. Rammento il tono risentito, rancoroso con cui mi narrava la sua storia, e l’odio per l’isola che lo aveva tradito. Troppo spesso, quelle case che hanno dilatato le brutte periferie del Sud e svuotato i centri storici si sono rivelate superflue: i figli non si sposano, e se sì, altrove; troppi vani, poca gente. Lavori per la casa al paese; poi hai casa, ma il lavoro resta fuori; e uno va dove lo trova. La mia città, Taranto, contava 250.000 abitanti, quando la lasciai, primi anni Settanta. È scesa a 190.000. «Le case sono vuote, in vendita, nessuno le compra» mi dice Angelo, fraterno amico, metalmeccanico in pensione che ha vissuto l’epopea dell’industria jonica: a quattordici anni già nei cantieri navali, poi all’Italsider. «Nel mio palazzo siamo tutti vecchi. E cominciano ad andarsene pure loro: che ci fanno qui? I figli stanno a Milano,
a Roma. E li raggiungono. Io e Anna restiamo. Non abbiamo figli.» Dopo la presentazione di Terroni a San Giovanni in Fiore, in Sila, l’assessore Giovanni Iaquinta, mi chiede che me ne pare, del paese. Brutto. «Già...» consente amaro. La moltiplicazione dei vani e degli usci avvenne con “le case degli svizzeri”, quando la gente si spostò in massa da queste montagne a quelle alpine (prima in Belgio; e ne morirono nelle miniere a Marcinelle). L’abbandono del centro storico (da dove si partì, poveri) e la costruzione di una casa moderna più in là, confermavano a se stessi e agli altri la conquista del benessere. Tutti insieme, ma ognuno a modo e gusto suo. Risultato: come in molti altri informi abitati, se non leggi il cartello, non sapresti dove sei; per scoprirlo, devi scendere all’abbazia di fra Gioacchino da Fiore, il visionario. «Siamo 18.000 e 200» dice Iaquinta «e abbiamo vani per 200.000.» Quell’edilizia senz’anima né pregio ha conquistato pure il mare (complice la disordinata corsa al turismo di seconde case e quindici giorni d’agosto): una muraglia di indegne palazzine sbarra le coste meridionali per centinaia di chilometri. È qualcosa di più della speculazione spicciola, diffusa, proterva; è una sorta di estraneità alla propria terra, per cui non ci si sente toccati, diminuiti dagli insulti che le vengono inflitti. Si dovesse sintetizzarlo in una frase, sarebbe: «Non è più mia, la uso». La si ascolta nel dialogo intercettato fra due mafiosi calabresi, circa il progettato affondamento, dinanzi alle coste della loro regione, di una nave di rifiuti tossici. «E il mare? Che ne sarà del mare della zona, se l’ammorbiamo?» obietta uno. «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi, che il mare, con quelli, andiamo a trovarcelo da un’altra parte» replica l’altro (la ’ndrangheta è la mafia più internazionale per investimenti e campo d’azione, ma la più arcaica per radicamento territoriale, tanto che le fonti del suo potere sono ancora a Platì, San Luca, Gioia Tauro,
Santuario di Polsi. Eppure...). La terra che avveleni non è più casa tua; e non è quella che pensi di lasciare ai figli. Un filo si è spezzato, quello che lega, nello stesso luogo, il tuo passato e il tuo futuro: il primo dimenticato, l’altro visto ormai altrove. E quel posto a perdere si può ridurlo a discarica dei veleni del presente e anche della propria storia. Con la Campania, la Calabria è la regione che più di tutte, al Sud, maltratta il suo territorio: 5.210 abusi edilizi per 700 chilometri di coste, uno ogni 135 metri. Si potrebbero scorgere significati profondi, oltre l’ovvietà di una economia di rapina. La prima dea del Mediterraneo fu la Grande Madreterra. Angelo Manna (fertilissimo scrittore e giornalista napoletano) dedicò molto studio all’argomento. E seppe divulgare con efficacia l’ipotesi che la famosissima, imponente statua in pietra ritrovata nella Locride, nel 1905 e ora in Germania, non sia dedicata alla dea greca Persefone, ma alla protettrice dei primi abitatori della Calabria meridionale. Genti italiche, ché quella montuosa sella fra Jonio e Tirreno fu il primo luogo a chiamarsi Italia. Sull’origine del nome sono state suggerite diverse ipotesi. Manna (Quando l’Italia era solo il Sud), sulla scorta delle ricerche di storiografi, mitologi, filologi, glottologi, archeologi, etnologi, numismatici e storici delle religioni, ne propone una di tal fascino e semplicità, che stupisce non se ne sia valutata prima la fondatezza: “Itha”, “Ita”, “Ido”, “Ida” sono radicali «non già preellenici, ma preariani», diffusissimi nel Mediterraneo, rammenta Manna. Si chiamano Ida la montagna presso Troia e quella dell’isola di Creta ove Zeus fu allevato dalla capra Amaltea, di nascosto dal padre Crono; Italia era il nome di una figlia di Temistocle e di una figlia di un re cretese (come l’eroe Idomeneo); e Itanos, Itanon, Ithome, Ithoria, Idalios, Idarna, Ide, Idomene si chiamavano isole, promontori, città e rilievi mediterranei, cui
aggiungere l’Ithaca di Odisseo e le isole Itacesiae che erano dinanzi a Vibo Valentia, poi unite alla terraferma. Quel radicale significa: “montagna boscosa”. Quindi la statua della Locride, riassume Manna, raffigurerebbe la «Grande Madre delle Selve dei monti e dei cicli vitali», il cui nome era: Idalia, Italia; lo stesso, «storicamente parlando [...] della più antica comunità della penisola italiana». Una dea venerata già da mille, mille e trecento anni quando, tremila anni fa scarsi, i Greci arrivarono in Calabria. A lei erano dedicati moltissimi templi (andati persi) sulle vette. Un nuovo potere sopravvenne, altri dei prevalsero; e Italia, come sempre per le divinità sconfitte, passò a governare il sottosuolo, dea dell’oltretomba (a regnare sul passato, la vita che fu, se spodestata dal presente): divenne Persefone, signora della Morte, lei che lo era stata della Vita (il che potrebbe spiegare il suo sorriso, appena un’ombra, più misterioso e vago di quello della Gioconda. Tanto che è detta Persefone Gaia, a suggerire, forse, l’incongruenza fra sorriso e morte). Così antico il legame di questa gente con la terra, e tanto forte, che mai nessuno era andato via. Finché gli uomini avvertono se stessi e la propria terra vittime della stessa violenza, il legame non si spezza, forse persino si rinsalda. Perché si produca lo strappo definitivo, deve accadere altro, la gente deve sentirsi tradita dalla terra e dal passato; dai suoi dei e dai suoi re; dalla sua storia, dall’idea di poter costruire futuro insieme, nello stesso posto. E da padri di inadatta sapienza a proseguire il cammino: è allora che li rinneghi e te ne vai, pensando di non tornare. Per chi cerca la vita altrove, quello che lascia, è già un cimitero. Che si può riempire di veleni, macerie: la terra dei morti è terra morta, non le si fa ulteriore danno versandovi scarti di un meglio forestiero. Accade quando la terra appare, a chi ci vive, fosse pure da
millenni, esausta come la sua storia. C’è una vicenda terribile e affascinante che lo narra in modo esemplare. Per duemila degli ultimi quattromila anni, nel Mezzogiorno fiorì, in maniera non continuativa, una ricchissima civiltà rupestre: intere “città” scavate nella roccia, lungo le pareti delle gravine, i burroni che si aprono, per chilometri, a crepare la Murgia. L’area in cui si sviluppò questa cultura va dal Salento, valle della Memoria (che vi dicevo?...), nel Brindisino, sino alla Lucania (i Sassi di Matera ne sono la parte più settentrionale), e zone più ridotte in Calabria e Sicilia. Il cuore è nel Tarantino, nelle gravine di Massafra, Crispiano, Ginosa, Laterza (la più profonda, oltre 200 metri, larga 400, per 12 chilometri) e altre. Caduto l’impero romano, la gente del luogo tornò a vivere in grotte scavate nella friabile roccia tufacea di questi burroni, ricavandone “palazzi” a più piani, non costruendo, ma asportando. Non si trattava di cavernicoli, ma di popolazioni colte, civili, guidate da monaci di rito bizantino, cui si aggiunsero quelli in fuga dall’impero d’Oriente, per il furore delle persecuzioni iconoclaste (il divieto di raffigurare la divinità), e poi dalla Sicilia e dalla Calabria, per le incursioni saracene. Erano comunità relativamente floride e per molti versi autonome. In una regione arida come la Puglia, sapevano sfruttare la permeabilità degli strati di roccia sovrapposti, in modo che nelle cavità percolassero, dopo mesi, le piogge dell’inverno (quando le visitai per la mia inchiesta giornalistica, durava siccità da tre anni, ma nelle vasche delle grotte, l’acqua c’era); l’umidità raccolta lungo pareti e fondo degli orridi (a volte percorsi da deboli rii che possono divenire rovinosi torrenti con le precipitazioni) sostiene una ricca macchia mediterranea e consente colture specializzate. Nelle grandi turbolenze dei secoli dopo la fine dell’ordine garantito da Roma, per sfuggire alle razzie di barbari invasori,
quelle città si resero invisibili, nonostante chiese e basiliche a tre navate, grandi farmacie con i prodotti della conoscenza dei monaci, frantoi... Quasi tutto meravigliosamente affrescato, in stile basiliano, con immagini i cui colori e perfezione ieratica han resistito sino a oggi. Quelle comunità avevano rito ortodosso, monachesimo orientale, parlavano greco, produssero cultura, coltivarono un’economia certo non misera, a giudicare dalla ricchezza cromatica con cui furono adornati gli antri (i colori costavano tanto, specie alcuni, come l’azzurro). Nella rovina di un equilibrio che aveva retto il mondo per un millennio, ne trovarono un altro recuperando parte del loro passato: si “incastellarono” (protessero) scendendo nei luoghi bassi della terra. Finché vennero i Normanni, che si fortificavano in alto, sostenevano il monachesimo benedettino e una comunicazione pittorica religiosa non codificata come la basiliana; ed esercitavano un potere centralizzato che aveva nel latino la sua lingua, a proporsi eredi del disfatto impero d’Occidente. Tutto quello che la popolazione rupestre sapeva, faceva ed era, non ebbe più valore. La sua lingua divenne inutile: ogni atto nei confronti del nuovo potere doveva essere in latino, così quelli notarili di compravendita di beni, terre (ne sono stati recuperati diversi), consentendo raggiri per ignoranza; la mediazione con i potenti della terra e del cielo non fu più garantita da monaci basiliani, ma benedettini. Persino le parole con l’Eterno erano in altra lingua e liturgia; in abbazie, per raggiungere le quali bisognava uscire allo scoperto, risalire le gravine. Dio era lo stesso, ma la via per giungere a lui non era più la tua. Non si hanno notizie che quel contrasto culturale sia sfociato in scontro armato; anzi, tutto depone per il contrario. Grazie a indagini condotte con la fotografia aerea, vennero alla
luce, presso Mottola, i resti di un grande centro rupestre; forse il più importante, la capitale di quella civiltà. Non se ne sapeva nulla. Nessun segnale di aggressione o sciagura ne spiega l’abbandono. Si ipotizzò che gli stessi abitanti abbiano condannato l’insediamento, abbandonandolo, forse distruggendolo e depredandolo, per trasferirsi altrove, stremati dalla condizione in cui li aveva posti l’improvvisa inutilità della loro cultura. Nemmeno il nome si è salvato della perduta capitale; solo in quello della contrada si può intravvedere una traccia del suo destino: Casalrotto. La civiltà dei luoghi bassi perse e fu rinnegata. Un cronista medievale, Lupo Protospatario, nel 1023 ne annotò la fine, con sintesi chirurgica: «Fabricatum est castellum Mutulae»; e Mottola eresse le sue difese sulla collina più elevata della zona, da cui dominare la piana sino al mare e la Murgia verso l’interno. Documenti tardivi, nel Medioevo, testimoniano l’estinzione di Casalrotto, ridotta a pochissimi abitanti. Ci sono voluti quasi mille anni, perché qualcuno riscoprisse il valore di quella storia rifiutata. Si devono a don Cosimo Damiano Fonseca (massafrese, accademico dei Lincei, docente all’Università di Lecce, fondatore di quella della Basilicata, a Potenza) studio e iniziative per salvare tale immenso patrimonio; fu lui a dargli un nome: civiltà rupestre. Non ovunque le cose andarono così: il professor Pietro Dalena (scoprì una parte di Casalrotto), ordinario di Storia medievale all’università cosentina di Arcavacata (ma è nato a Mottola, abita a Massafra, è stato allievo di Cosimo Damiano Fonseca e collabora, con lui, al Consiglio Nazionale delle Ricerche), ha spiegato nei suoi libri, Medioevo rupestre. Strutture insediative nella Calabria settentrionale e Da Matera a Casalrotto, quanto il fenomeno rupestre fosse esteso anche nelle due regioni vicine; e racconta che nel ducato normanno di Puglia e Calabria, ma specie in questa, le comunità grecaniche riuscirono a
conservare lingua e liturgia, però integrate nella gerarchia cattolica romana e non più bizantina (la comunità di Rossano si sollevò, nel 1092, quando vollero imporle un presule latino; ne pretesero uno greco, ma accettarono di versare a Roma i tributi previsti). Ancora oggi è così: rito greco, obbedienza latina, pure nell’ultramillenaria abbazia fortificata di San Nilo, che era calabrese, alle porte di Roma, a Grottaferrata. E le basiliche affrescate, le “città” scavate nelle gravine? Sotto quelle erette in alto: quasi ogni casa, a Massafra e non solo, prosegue sottoterra, dove, ridotte a cantine, depositi, buttatoi, esistono, celati al mondo, gli ambienti di una cultura sconfitta e abbandonata. E hai basiliche trasformate in ovili, pareti dipinte rovinate dai fuochi dei pastori, dagli escrementi delle greggi, dalle picconate negli occhi dei santi, inferte da superstiziosi allevatori; mani di calce, per secoli, sull’arte finissima di grandi e anonimi pittori; sfregi, solo per ingannare il tempo, da ragazzini per gioco o da materiali e macchinari malstivati in templi divenuti depositi. Dinanzi a quelle immagini di santi ci si inginocchiava; poi, uomini e animali vi hanno deposto i propri escrementi. Perduto il valore del percorso umano che aveva generato quei capolavori, svanì la sensibilità alla bellezza che produsse; e la si distrugge, ignorando che è la propria radice, l’identità nascosta. Quel sontuoso passato è, in ogni senso, messo sotto i piedi, disconosciuto e offeso. Lessi, molti anni fa, che quando i Greci vennero a colonizzare le nostre coste meridionali, a Metaponto, sul Bradano, costruirono i templi (poi detti Tavole Palatine perché, secondo una tarda leggenda, vi si riunivano i paladini di Carlomagno), avendo cura di non disturbare l’ordine dei ruderi degli edifici sacri eretti, secoli prima, dai pionieri della colonizzazione protostorica, essenzialmente micenea (al padre Laerte, prima di rivelarsi, Odisseo dice di essere signore di Alibante: Metaponto). A riprova del rispetto
per quella cultura di cui si sentivano partecipi, pur se ormai estinta su quelle terre, e per i loro dei, ancora imperanti. Mentre, dopo la caduta di Roma, «in certe zone dell’impero d’Oriente alcuni templi pagani furono oggetto di distruzione violenta da parte di fanatici cristiani. Ci furono persino casi in cui le stesse autorità imperiali furono conniventi e alcuni vescovi se ne fecero promotori» riferisce il professor Dalena. «Nel Medioevo, invece, spesso le statue romane venivano riutilizzate per la realizzazione della calce»: il loro tempo era giunto alla fine, portandosi via gli dei e un intero mondo. E non è questo, quanto descritto da Luigi Zoja, a proposito della fine della civiltà messicana? Perdi la tua, la senti nemica e la distruggi in te e intorno a te; vivi in quella di un altro, da perdente, e ti adatti al ruolo, confermandolo con comportamenti che ti rendono “meno”. Sino a convincerti di esserlo. Sono in tale condizione popoli strappati dal proprio passato da molti secoli, e non da solo 150 anni, com’è accaduto ai meridionali. La distruzione identitaria che, in tutto il Sud, il Risorgimento produsse con violenza, nel corso di molti anni, a Messina si ebbe da un giorno all’altro, con il sisma del 1908. La città era industre, fiera, con il gusto del collezionismo d’arte (tipico di ricchi centri commerciali) e un carattere estetico riconoscibile: la “Palazzata” identificava Messina, come il Colosseo Roma. Ma non furono terremoto e maremoto a disperdere quel carattere: a ripopolare la città furono pochi superstiti e tanti forestieri giunti dal resto dell’isola e d’Italia, dal Nord, sino alla «confusione babelica dei più svariati dialetti». Si operò con sciatteria, «in una ricostruzione edile “pacchiana, impersonale e quasi ‘coloniale’”», rammenta Andrea Giovanni Noto, in Messina 1908, citando, a sua volta, uno studio su La più recente e più meridionale conurbazione italiana. «Se i superstiti guardavano al passato e tentavano di legare alla nuova realtà quel patrimonio di conoscenze e tradizioni che avrebbero voluto
trasmettere alle nuove generazioni, queste, invece, sentendosi slegate da ogni memoria ed estranee da qualsiasi tradizione vivevano “l’avventura della creazione del mondo o di dopo il diluvio”.» Alle osservazioni di Noto, bisogna aggiungere che, negli eredi dei sopravvissuti, scattò quel meccanismo di rimozione della memoria che salva da dolori troppo grandi. Cos’era stata Messina fu dimenticato, per poterne fare un’altra; e la fecero pochi messinesi immemori e molti estranei, ognuno con la sua tradizione, un suo dialetto e la propria idea di bellezza; senza il tempo per fondere stili, colori e volumi in un nuovo ordine, nella fretta di costruire, comunque e ovunque, per necessità e interesse immediati. Ancora oggi, quell’irruenza senza disegno e ritegno è il (non) carattere della città. La vicenda di Messina è quella del Sud, con tempi diversi e contratti, ma stesso punto d’arrivo: dimenticanza di sé, parodia dell’altro. Prevalgono, così, dissonanti con il clima mediterraneo, architettura, urbanistica e arredamento che «sono originariamente, e spesso anche essenzialmente, legati all’ambiente nordico» scrive Eglo Benincasa, in L’arte di abitare nel Mezzogiorno . «A cominciare da quel predominio dei vuoti sul pieno, cioè delle finestre sui muri [...] che da noi, dove il Sole non è una dea benigna [...] ma un dio furioso e incombente, sono assolutamente fuori posto. Delle finestre così invadenti da noi possono solo servire a riempire la casa di piombo fuso in estate.» In millenni, il meridionale aveva imparato che a queste latitudini è sano abitare fra muri larghi, magari di pietra e paglia (come i trulli), disinfettati dalla calce e interrotti da poche aperture. Spogliarsi non è una difesa, a certe temperature: nel deserto, ci si veste di lana. Il Mezzogiorno teme la corruzione dello scirocco, vento asfissiante e lurido di sud-est,
che risveglia le paure dei pazzi, i pensieri più vergognosi. Le vecchie case del Sud, nonostante i muri spessi e chiusi, avevano a volte un ambiente interno, privo di finestre e spifferi: la camera dello scirocco, in cui rifugiarsi se alitava il fiato laido d’Oriente. Una difesa che diventava imperativa nel primo pomeriggio, quando Scirocco libera il suo spirito più temuto e potente: il Demone della Controra, epifania satanica responsabile delle più infami, inconfessate turpitudini, non di rado (considerate l’ora e la condizione) consumate in famiglia. Oggi, le case dei meridionali hanno perso sapienza; si ergono indifese, con muri di foratino di cinque centimetri e grandi vetrate su cui il Demone può affacciarsi. A Bagnara Calabra mi mostrano una sintesi di questa virata culturale: la demolizione di un’antica casa protesa sul mare, sostituita da un informe parallelepipedo: «C’era la camera dello scirocco...» borbotta il mio accompagnatore. E credo non ci sia modo migliore per far intendere la corruttiva potenza dell’aria di sud-est: Bagnara è esposta ai venti del nord e dell’ovest; fra le sue case e il soffio d’Oriente si ergono, a difesa, i bastioni d’Aspromonte! Eppure... «La classica casa mediterranea non si affaccia sulla strada, a cui piuttosto volge le spalle» scrive Benincasa «ma sull’atrio, sul cortile, sul patio, insomma su uno spazio coperto interno.» Anche se «il meridionale ama vivere abitualmente all’aperto; ma all’aperto riparato dal sole d’estate e dal vento d’inverno. Al semi-aperto potremmo dire, per intenderci. Il simbolo architettonico più significativo della civiltà mediterranea è il portico [...]. Perfino il tempio, la chiesa degli antichi, non è altro che un porticato intorno a una celletta». Una cultura si svela e riconosce dal modo di abitare. «La civiltà è una questione di
spazio» dice Benincasa. E dell’organizzazione che a quello spazio si dà. Uno spazio con delle regole. Il Sud, perdute le sue regole di spazio comune, si espone in uno sregolato: ognuno lo occupa, disegna e sfregia a proprio (dis)gusto. E chi più può, più lo fa, per una dovizia di mezzi che moltiplica disordine. Così, chi per scialo, chi per miseria, si produce un paesaggio urbanizzato che non ha più senso proprio, né quello altrui che tenta di tradurre. Per esempio, l’idea di una separazione fra quartieri alti e bassi era quasi ovunque estranea al Sud: nei più degradati angoli di Napoli antica, dei centri storici meridionali, trovate palazzi fastosi, nobiliari, fra casamenti popolari e botteghe artigiane, mercatini; la reggia di Portici non è stata costruita con il vuoto intorno (come Versailles, per capirci), ma fra le case, perché quello era il modo di abitare, persino del sovrano (e le regge di Caserta, Capodimonte e Largo di Palazzo, oggi piazza Plebiscito, non hanno mai avuto mura di recinzione, direttamente accessibili da parte di chiunque). Mi raccontava Pasquale Squitieri che, quando andò a Torino a girare un film sulla vita di meridionali “emigrati alla Fiat”, la cosa che più lo offese furono le case: gliele avevano costruite fuori città, per tenerli discosti. Il Sud distrugge le sue linee, i suoi volumi, la sua concezione del bello e insegue quello che non è suo e non riesce a far suo o ad armonizzare con quel che c’era. Nel Mezzogiorno, più che altrove, vale la descrizione del «grande malato d’Italia», fatta da Salvatore Settis, in Paesaggio Costituzione cemento: «coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e “palazzi” senz’anima [...]. Villaggi che per secoli avevano saputo crescere conservando l’impronta di una cultura dell’abitare tanto più nobile quanto più povera sono sempre più spesso assediati da nuovi, anonimi quartieri». Di quel modo di abitare estraneo, il Sud scopiazza la forma e non afferra la sostanza, figlia di altri climi e altra storia, vista,
però, come vincente. Anche Stoccolma, come altre città nel mondo, per diventare “moderna”, negli anni Sessanta, Settanta del Novecento, ha barattato il suo ordine per un altro (palazzoni vetrocemento e World Trade Center); ma per scelta consapevole. Le due, tre isole su quattordici rimaste indenni, ci raccontano la capitale nordica quando era se stessa, prima che un gusto globalizzato si imponesse lì, come a Tokyo o a Dubai. Nel nostro Sud, la mutazione risultò da un ordine infranto con la forza: nata da un incontro, ma per stupro. «Amore, padre di Bellezza» rammenta Benincasa, in altro contesto «è figlio di Povertà, di Penia (e di Poros, che corrisponde al nostro Arrangiarsi).» E, mancando amore, niente bellezza. Se una civiltà è un’idea di spazi, significa qualcosa che quelle case costruite come e dove capita, senza armonia d’insieme, siano linde come templi all’interno (lo spazio proprio), mentre fuori, nello spazio comune, il luogo pubblico, predominano lo sfregio e lo sporco? Il rispetto va a chi lo merita (o si pensa lo meriti) e a quel che ci appartiene; non a chi lo pretende e ci è estraneo, o a quello che non riconosciamo più come nostro. Risultato: i centri storici che rappresentavano l’anima meridionale sono spesso vuoti; le moderne periferie che dovrebbero rappresentare l’anima “ricevuta” sono incomprensibili: l’anima prima è persa, l’altra estranea. E “bello” è quel Sud che ha saputo rimanere se stesso, riconoscibile come tale (Costiera Amalfitana, Procida, Bari vecchia, Matera dei Sassi, Ragusa...). Solo dove la coscienza di sé è rimasta forte o è stata recuperata si salva l’apprezzamento per il bello che fu e che tale resta, perché ricorda da cosa nacque, da quali valori. E se riscopri questi, ritrovi quello.
Adesso, quel che ancora domina è lo scempio. Ma lo si comincia a riconoscere come tale e non è più sempre vera la sconsolata osservazione di Settis su «un’informazione ridondante che non sa trasformarsi in conoscenza, meno che mai in presa di coscienza». A mano a mano che i meridionali riconquistano il rispetto del proprio passato, tornano a valorizzare le vecchie case abbandonate, a vederle belle, ci spendono soldi, le rimettono a posto («AD», rivista-principe di architettura, vende, ora, più al Sud che al Nord). I centri storici già considerati ghetto, scarto dei vinti, posto degli ultimi (che non erano riusciti a evaderne), divengono sciccoso rifugio di giovani acculturati che ripercorrono, all’incontrario, la strada dei genitori (che ne fuggirono, per fuggire la miseria, preferendo «case incongure e “palazzi” senz’anima»); e di intellettuali, cui si accodano commercianti, speculatori, villeggianti o pensionati inglesi, tedeschi, ai quali non par vero trasferirsi al sole, in muri d’epoca, comprati a prezzo basso (ma sempre meno basso). Il valore delle antiche forme risorge e racconta una storia (e risorge, perché racconta una storia). È un ricominciare da sé, da quel che fummo: non sarà mai quel che era, ma ci sarà anche quel che era. Dev’essere un buon segnale questo ritorno, se può restituirci il perduto senso della bellezza: cominciamo a vederci con gli occhi dei forestieri che non scorgono, su quei muri, l’ombra della propria sconfitta.
34 DOPO QUANTI «NO» HANNO UCCISO ANGELO?
Li ho visti piangere per il mio amico Angelo Vassallo, ucciso con nove colpi di pistola. Erano in tanti. E quei fogli, tutti uguali, sulle saracinesche dei negozi chiusi, persino sui portoncini delle case: «Angelo, il paese muore con te»; lui ci ha rimesso la vita per difenderlo dalla criminalità che con il cemento distrugge la bellezza e con il piombo chi vuole impedirlo. La torre medievale sul porto di Acciaroli è quasi interamente coperta dalla gigantografia di Angelo in equilibrio sugli scogli, mentre eleva un calice di acqua di mare, pulita da poterla bere: fu fatta per il mio giornale, quella foto, per rappresentare la vittoria di Pollica (vastissimo comune, di cui fanno parte le frazioni di Acciaroli e Pioppi, sulla costa, Galdo, Cannicchio, Celso e San Mauro Cilento, in montagna), nel “Campionato delle vacanze” che mi ero inventato, fra le più celebrate località marinare d’Italia. Angelo, con la sua fantasiosa e oculata amministrazione del Comune, era riuscito a fare del “suo” tratto di
riviera cilentana, il numero uno, battendo le celebrate Cervia, Portofino, Capalbio... In una ventina di anni da sindaco, aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio: riteneva che quello fosse il “capitale”, da non intaccare, se si voleva continuare a vivere, e bene, con gl’“interessi”. Non è agevole arrivare ad Acciaroli, la perla costiera di Pollica, con Pioppi; non c’è la ferrovia, la strada è angusta e contorta. Ma lui non volle mai fare niente per facilitare l’arrivo: «Così, ci viene solo chi vuole davvero» mi diceva. Ma una volta lì, eri come in casa di parenti, con Angelo che vigilava sui prezzi (ché fossero onesti), sul cibo (ché fosse buono), sulla cortesia (ospiti paganti, i turisti, ma prima di tutto ospiti); sulla pulizia del mare (induceva comica commozione l’orgoglio con cui ti mostrava il primo e più efficiente depuratore della zona, che vedeva “bello”! Va bene tutto, ma sappiamo di cosa si tratta...); sulla pulizia del paese (poteva vantare il record di raccolta differenziata e se ti vedeva deporre il sacchetto nel modo sbagliato, te lo riportava magari a casa e ti imponeva il rispetto delle regole). Era fiero del porto in cui Hemingway aveva interrogato i pescatori di tonno per scrivere, poi, Il vecchio e il mare, ambientato, però a Cuba; quel porto che aveva trasformato in un gioiello, senza stravolgerlo, faceva gola a investitori privati, ma lui voleva restasse di proprietà e gestione pubblica, perché era un arricchimento del territorio comunale, reso bello e comodo con i soldi della sua gente. Mi ci portava, quando feci con i miei una breve vacanza ad Acciaroli e, a gesti, mi spiegava il progetto, contava i posti di lavoro. Rise di gusto quando gli dissi che il porto sarebbe stato penalizzato dagli orari di esercizio solo diurni, visto che mio nipote Giorgio, allora due anni e mezzo, aveva scoperto perché, ogni sera, prima di cena, la spiaggia del residence in cui alloggiavamo restava deserta e si metteva la catenella alla staccionatina d’accesso: «Il mare chiude» ad Acciaroli, pure il
mare, a una cert’ora... Zi’ Achille, unico testimone ancora in vita, era stufo di giornalisti (i primi furono i giapponesi) che gli chiedevano di raccontare del soggiorno di Hemingway ad Acciaroli, e dei colloqui che lo scrittore ebbe con lui e, poi, con l’altro pescatore, Antonio U Viecchiu. Angelo lo convinse a prendere un caffè con me. E Zi’ Achille (Di Matteo) mi raggiunse al bar sul porto. Mi descrisse un Hemingway ubriaco, invadente e tirchio. La pesca, per loro, era fatica, non letteratura. Ma quando tornavano da mare, lo scrittore entrava in acqua, sino alla coscia, armato di penna e blocchetto, e cominciava a fare domande sul metodo di pesca, la distanza dalla costa, le correnti, l’esca... Zi’ Achille, forte dello scarso inglese ereditato dalla guerra, gli rispondeva. Anche se in quello straniero c’era qualcosa che gli piaceva poco: era arrivato con una cassa di Amarone, non faceva niente tutto il giorno, era sempre ubriaco, tanto che l’allora proprietario della Scogliera, il ristorantealbergo dove alloggiava, lo cacciò, salvo pentirsi quando gli dissero chi era. Zi’ Achille, pratico, spiccio, uomo da lavoro, non da chiacchiera, a un certo punto si scocciò e smise di perdere tempo con l’americano. Che dirottò su U Viecchiu, Antonio Masarone, più paziente e disponibile, il quale guadagnò, così, in concorrenza con il pescatore cubano Gregorio Fuentes, l’onore postumo di aver ispirato Il vecchio e il mare, che spalancò a Hemingway la strada per il Nobel. «Che ti è sembrato di Zi’ Achille?» mi chiese Angelo, la sera, a cena. «Un vero marinaio» risposi «per il parlare essenziale; a bordo, chi naviga per lavoro, apre bocca solo per dire cosa c’è da fare. Però, prima di salutarci, mi ha chiesto: “Senti, ma ’st’americano, era uno che..., insomma: i soldi li teneva?”. “Non se la passava male” gli ho detto. E lui ha fatto partire un sacramento: “M’avesse mai offerto ’na sigaretta! Nu cafè!”».
Angelo assentiva e rideva: evidentemente, la cosa quadrava con quel che sapeva di Zi’ Achille. Lui di mare ne capiva: era la sua passione, la sua vita ed era stato il suo lavoro. Lo chiamavano il sindaco-pescatore; era l’uno e l’altro e gli piaceva talmente la definizione, che la usava lui stesso. Avrei voluto uscire in barca con lui, ma non riuscimmo mai a combinare, per colpa mia; nemmeno per l’inaugurazione del porto. Se un cruccio aveva, era che il benessere diffusosi, grazie a lui, nel comune, aveva dissuaso gli abitanti dal continuare la faticosa tradizione della pesca delle alici. «Abbiamo insegnato a mezzo mondo come si fa; e ora nessuno di noi la fa» diceva. «Perché il turismo basta e avanza.» In un Paese che punta al raccolto rapido e tanto dal turismo di luglio e agosto, lui aveva investito nella stagione lunga, che ad Acciaroli dura da marzo a novembre. Bel posto, bella gente, pulizia, prezzi giusti, criminalità zero, perché, all’occorrenza, Angelo faceva pure lo sceriffo. E questa, alla fine, l’ha pagata. Aveva individuato degli spacciatori, li aveva segnalati. Temeva che capitali sospetti tentassero di trovare varchi d’investimento (e aprire la strada a cos’altro?) ad Acciaroli. E si era posto subito di traverso, perché era ruvido, Angelo; persino duro, se serviva. Ma duro vero, non concepiva le scorciatoie, solo le regole. Sapeva essere convincente, ma anche svelto di mannaia, per dire che era di decisioni veloci e drastiche. E se doveva farsi dei nemici, il problema lo avevano i nemici. A qualcuno deve aver dato fastidio. Un “no” di troppo. E gli hanno sparato. Era il 5 settembre 2010. Soltanto da cinque mesi era stato eletto sindaco per la quarta volta, con il 100 per cento dei voti: era l’unico candidato. Non aveva concorrenti, nel cuore di Pollica. La verità poliziesca, processuale, sulla sua morte, ancora stenta. Ma il giudizio della
gente era lì, ai funerali: pezzi di marcantonio piegati in due dai singhiozzi; le autorità venute da lontano, dal ministro al sottosegretario, al segretario del partito, ai sindaci degli altri paesi, con i gonfaloni, un centinaio, forse più; le rappresentanze diplomatiche dei Paesi che aveva coinvolto nel suo progetto sulla dieta mediterranea (il cui scopritore, lo statunitense Ancel Keys, si trasferì qui, in Cilento): su proposta di Vassallo, e per onorarne la memoria, tre mesi dopo la sua morte, il 16 novembre 2010, l’ONU dichiarò la dieta mediterranea “Patrimonio immateriale dell’umanità”; una giornalista, lì per scrivere la cronaca, appoggia le braccia al palco, vi nasconde il volto e piange: vestita di nero, con un velo nero sui capelli: è una giovane, moderna donna, ma ha i colori e il silenzio dei dolori antichi; un cineoperatore ti urta, per farsi spazio, si gira, ti chiede scusa: ha gli occhi gonfi e rossi; il vicesindaco, Stefano Pisani, fa l’orazione funebre fra le lacrime, la voce è rotta, ma continua, tenace, rabbioso; minaccia: non servirà quel che hanno fatto ad Angelo, «perché lui ci ha insegnato come dobbiamo comportarci». Le nostre vite ci consentivano pochi incontri e molte telefonate, ma Angelo era mio amico, ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, ma soprattutto la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Forse, mi avrebbe preso in giro, se mi avesse visto piangere. Pioveva, ai suoi funerali. Per essere un buon sindaco, al Nord, basta mantenere le strade pulite. Al Sud devi mettere in gioco la vita e ti guardano con sospetto. E sai che la morte di un gigante morale, come Angelo Vassallo, getta discredito sui sopravvissuti. Cos’hanno fatto per meritarlo? Se il crimine abbatte i sindaci che ne contrastano gli affari, chi resta in piedi è connivente? La sera prima dei funerali di Angelo, presento Terroni a Oliveto Citra, assieme a Eugenio Bennato, che ha appena pubblicato Brigante se more, dal titolo della sua canzone
divenuta l’inno del Sud risvegliato, tanto da generare la leggenda che quella ballata, in realtà, sia antica; Eugenio e Carlo D’Angiò l’avrebbero plagiata. Non è vero; me lo conferma Raffaele Nigro, autore di Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri, che ha condotto uno studio esaustivo sulla musica brigantesca: «E quella non c’era, al tempo» assicura. In più, hanno cambiato le parole di un paio di versi, mutando l’universalità del testo originario («Nun ce ne fotte d’o re Burbone») in una dichiarazione monarchica («Nui combattimme p’o re Burbone»). E quella falsificazione, paradossalmente, rende vera la presunta antichità dell’inno. La sera, c’è il concerto di Eugenio (è sorprendente come le sue dita paiano far finta di scorrere sulle corde della chitarra e di altri strumenti musicali di tradizione e diano l’idea di non toccarle, come se il suono non venisse prodotto da lui, ma dallo strumento, in autonomia, restandogli solo di rappresentarne i gesti, a uso di chi guarda. La levità è la cifra di Eugenio). In sala, càpito accanto a un sindaco del Vallo di Diano (che fa parco unico con il Cilento). Nella pausa per la risistemazione del palco, mi parla di Angelo (erano colleghi, anche di partito, e amici), di come sia arduo fare il sindaco, da queste parti. «Quella violenza che giudica ciò che fai, solo in funzione dei propri interessi, ti sembra di poterla toccare, intorno a te» spiega. Mi chiede di Angelo, di cosa mi diceva, se e quando mi fosse parso inquieto, nervoso. Quando mi parlò l’ultima volta del porto, gli dico; ma inquieto alla sua maniera: irriducibile; tanto che polemizzammo pubblicamente, sul «Corriere del Mezzogiorno». «Per due volte» mormora il mio interlocutore, «ho avuto la certezza di essere andato vicino a una reazione che... Ma cosa fai? Hai paura, mantieni il punto e speri che, per “loro”, non sia ancora quello di rottura. Ho vissuto male, molto male, ma è
passata.» Corre un brutto silenzio, prima che aggiunga (ecco dove voleva arrivare): «Quante volte è successo ad Angelo, prima che lo uccidessero?». Non lo so, sindaco. Non rispondo. Non saprei nemmeno dire se è davvero a me che lo chiede, o a se stesso. Eugenio comincia a suonare. Il sindaco si volta verso il palco. Forse non si aspettava davvero una risposta, ma un indizio, qualcosa... Quante volte, prima che “loro” dicano basta? Se Angelo avesse saputo valutare la distanza da questo limite, forse non sarebbe morto, si sarebbe difeso. Come fai a dire a uno che teme di esserci già vicino: lo sai soltanto quando l’hai superato? Stride tanto la grandezza musicale del Sud, da Eugenio riscoperta e riproposta (anima larga e antica che si dispiega), nel confronto con la brutalità dell’argomento. La breve conversazione ha lasciato un velo di imbarazzo sul volto del sindaco; a nessuno piace mostrare la propria paura. Lui lo sa che gli altri si chiedono: perché Angelo sì e tu no? Sa che pensano: cos’hai fatto per “loro”? Mentre lui si domanda: quanto posso ancora fare, prima di consumare la distanza che porta alla fine di Angelo? E serve farlo (il Pd nemmeno rispose alla richiesta popolare di candidatura di Vassallo al Parlamento)? Una indicazione è stata data dai cittadini di Pollica: a succedere ad Angelo hanno eletto il suo vice e braccio destro, Stefano Pisani, giovane e attivo ecologista. Le sue prime parole sono state per il suo maestro; il suo primo gesto pubblico, andare a pregare sulla tomba del predecessore. La sua prima dichiarazione: «In questi mesi, ci siamo impegnati nel solco lasciato da lui. E anche in queste settimane abbiamo continuato a lavorare, senza farci distrarre dalle elezioni. È quanto avrebbe fatto Angelo». Una serie di iniziative sono state avviate, con il coinvolgimento di registi, magistrati,
giornalisti, persone di ogni parte d’Italia, per affiancare i cittadini e l’amministrazione di Pollica. È nata la Fondazione Angelo Vassallo, a iniziativa dei suoi familiari ed estimatori. Una sorta di cittadinanza virtuale è stata estesa a chiunque voglia, con SiamotuttidiPollica («Se credi nel rispetto della persona, nell’amore per il tuo territorio, nel contrasto a ogni forma di illegalità e vuoi essere al fianco dei cittadini che hanno sostenuto le idee di Angelo Vassallo»). Così, il Comune ha aggiunto duemila “abitanti”, in un anno, ai suoi duemilacinquecento effettivi. Un premio è stato istituito, a nome di Angelo, per i sindaci che riescono a sviluppare le loro comunità, tutelandone il territorio. Chi pensava di uccidere Angelo, lo ha moltiplicato, per l’esempio fecondato dal sangue. Quelli che chiamano cialtroni gli amministratori del Sud, trascurano che per essere un buon sindaco in Brianza, basta, ripeto, raggiungere la giusta percentuale di raccolta differenziata. Al Sud, per fare altrettanto, può succederti di dover morire. E lo sai. E c’è chi lo fa lo stesso. E si sente chiamare “cialtrone”. Alla memoria, magari, e senza che l’insulto si ritorca contro chi lo scaglia. A proposito: sono anch’io cittadino virtuale di Pollica.
35 DOV’È L’ALTROVE?
Sono stato ad Aliano, in Lucania, a ritirare il premio Carlo Levi, assegnato al mio Terroni, per la saggistica. Nel nome di un autore che ha segnato la mia adolescenza, mi si chiamava dove lui era stato confinato dal fascismo, perché si perdesse memoria del suo genio. E mai calcolo fu più sbagliato. Un paese sul crinale di un calanco, destinato a svuotarsi, essere dimenticato, scivolare a valle, e che ora vive ed è noto in letteratura, nell’arte, nel mondo, grazie al confinato: la memoria di uomo che si doveva perdere, ha recuperato quella persa di un luogo. Capita un po’ troppo spesso di dover esser grati alla stupidità del potere. Un paese che diventa un premio per averlo raggiunto, esserci arrivato, in quella terra bella e semideserta che è la Lucania. Dovrò passare per la valle dell’Agri, fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta. E, a valle, le terre sottane. Era appena la generazione di mio padre quella che è morta, sparata da campieri, usurpatori, latifondisti, fascisti, polizia e carabinieri agli ordini della politica asservita a quei padroni... Era la terra poca, che non bastava per tutti. Ricordo i filmati d’epoca, cavati
dall’archivio della Rai, quando lavoravo con Sergio Zavoli a Viaggio nel Sud: ero ammirato e commosso da quei cafoni che, in stracci indecenti (unico loro abito), erano monumento alla dignità, alla serietà; e avanzavano, come il Quarto Stato, armati solo dalla convinzione che chi è nel giusto, deve avere coraggio di dirlo, di andare, contro la «Celere, dove c’erano i tuoi figli in divisa» (furono usati pure i carri armati contro i braccianti!). Una generazione fa, i cafoni davano dignità agli stracci; una generazione dopo, doppiopetto e cachemire non riescono a nascondere l’indecenza di cafoni (non in senso bracciantile) che si fanno governo, potere e costume. Quei senzaterra «rubavano le parole» ai padroni, annotando su un quaderno, come Peppino Di Vittorio, quelle che non capivano, per farsele spiegare; raccoglievano le carte per terra, se erano stampate, per leggere. Per smettere di essere invisibili (“gli analfabeti”, nome collettivo), andavano “a scuola di firma”, da Gaetano Salvemini, rientrato dagli Stati Uniti, alla caduta del fascismo, per imparare a scrivere il proprio nome e cognome, diventare individui, riconoscibili alla penna. E poter siglare la domanda per la terra distribuita con la riforma agraria. Salvatore Giannella ricostruisce quei giorni in un suo libro: «E ora, miei carissimi braccianti, dite con tutta sincerità: da quando avete imparato a firmare, vi sentite più sicuri?» chiedeva, ai suoi nuovi allievi, il grande professore pugliese, che aveva appena lasciato la sua cattedra ad Harvard. Ora percorro la jonica, da Taranto, verso ovest, continuo a fermarmi nelle stazioni di servizio, nell’inutile ricerca dei giornali. «Ce li avevo, li ho tolti» mi dice uno. «Erano solo fastidio, niente guadagno e la sera troppo tempo per fare i conti delle rese.» Finché, in un immenso autogrill con albergo, una copia una, di un quotidiano locale. «Tutto qui?». «Finiti gli altri.» «Alle 11 del mattino? Accidenti quanto leggono.» «No, ne prendiamo pochi. Non
si vendono.» «Io li avrei presi, li aveste avuti...» Quando cominciai le mie prime inchieste sulla mafia della manodopera, in Puglia (mi denunciarono; fui assolto. E trovai casa devastata), vedersi raccontati su un giornale, «La Gazzetta del Mezzogiorno», che non era «l’Unità», parve la conquista di un diritto ai braccianti e ai loro sindacalisti, come Peppino Vasco, un orfano di Gioia del Colle adottato dalla Cgil: la sede della Federbraccianti fu la sua casa, poi fu mandato a studiare in Russia e, al ritorno, a organizzare gli ultimi lavoratori della terra, nella catena agricola. Peppino mi accompagnava di notte dove i “caporali” sceglievano i braccianti a cui “dare la giornata”. Poi mostrava l’articolo a quegli stessi braccianti: «Siamo sulla stampa borghese, per i diritti». E leggevano insieme. L’indifferenza al giornale è segno del suo perduto potere o di parentela ormai troppo lontana. Cambiato il giornale, o la campagna, o entrambi. Oggi, per chilometri e chilometri, quella terra (la migliore, i piani sottani, a valle, guardati con invidia e cupidigia dai franosi paesini sugli sfasciati colli d’argilla), terra che valeva il sangue, è vuota. La vigilano, a intervalli quasi regolari (ognuno il suo aerale) splendidi nibbi reali e altri falconidi. Più falchi che uomini. «Scusate, per Aliano?» urlai a un piccolo gruppo di contadini chini sul campo (gli uomini seduti sui talloni, a estirpare fra i filari, le donne culi all’aria e capelli raccolti sulla nuca). «Sempre dritto!». «Grazie. Quanto manca?» «Non lo so, siamo rumeni.» Quel popolo dignitoso e lacero non c’è più; inurbato altrove e non più lacero. Ha perso gli stracci, e forse pure qualcos’altro che lo rendeva epico; ha i figli all’università; quasi sempre fuori, con buone carriere, magari, ma non qui. E siccome questa terra pare venga fecondata solo dalla povertà, si importano i poveri: dalla Romania, dall’Africa, domani chissà. Altre storie costruiranno una più ampia anima collettiva; e si cercherà nei Fuochi
del Basento, di Raffaele Nigro, il respiro omerico di questi luoghi e di quei piccoli giganti silenziosi, forse estinti. «Non siamo una regione, ma un popolo, pur se pochi» spiegherà, con riferimenti accademici, storici, antropologici, il presidente della Basilicata, Vito di Filippo, durante la premiazione. «Ma basta una riga tracciata per terra a fermarci...» mormora il mio vicino, Giuseppe Tralli, della Confindustria regionale (e cita, poi, una mia osservazione in Terroni). Non capisco. «Non ricordi cosa diceva Leonardo Sinisgalli?» suggerisce. Ricordo Gente di Lucania, ma questa storia della riga per terra... Tralli pesca il brano sul suo BlackBerry. Ah, già! Gran poeta e manager (Pirelli, Finmeccanica, ENI, Alitalia, Olivetti), Sinisgalli spiegò i suoi corregionali come nessuno: «Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra. Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure i “mumciupì” con le rivendicazioni. È di poche parole. Quando cammina preferisce togliersi le scarpe, andare a piedi nudi. Quando lavora non parla, non canta. Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione. Abituato a contentarsi del meno possibile si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta. Gli emigranti che tornano dalla Colombia o dal Brasile, dall’Argentina o dall’Australia, dal Venezuela o dagli Stati Uniti, dopo quaranta anni di assenza, non raccontano mai nulla della vita che hanno trascorso da esuli». Un contegno che cela orgoglio estremo: «Il lucano non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa. Il lucano è perseguitato dal demone della insoddisfazione [...]. Questo è un popolo che la saggezza ha portato alle soglie
dell’insensatezza. Come una gallina che s’impunta davanti alla riga tracciata col gesso, l’intelligenza dei lucani si distoglie per un niente, si blocca appena sente volare una mosca». «Il nostro male è “u fuec d’i ginest”, il fuoco delle ginestre» dice Vincenzo Folino, presidente del Consiglio regionale «che bruciano di violenta ed effimera fiammata, subito estinta; e lasciano una cenere finissima e leggera, che il primo lieve fiato di vento porta via, cancellando persino la traccia di quel rogo.» Poi, dice qualcosa che mi distrae: «Terroni ci riporta a Levi e al Levismo». C’è anche il professor Guido Sacerdoti (nipote del medico e scrittorepoeta-pittore) presidente della Fondazione Carlo Levi, a Roma. Come potevo immaginare questo momento, quando, adolescente, continuavo a tornare sulle pagine già lette di Cristo si è fermato a Eboli, incantato dalla perfezione, allontanandomi dalla fine del libro, invece di avvicinarmici? «Con noi ti sei fatto i soldi; ad Aliano, cosa hai dato?» spiattellò un contadino a Carlo Levi, quando il torinese ammalato di Sud tornò da candidato senatore. Li aveva raccontati, gli alianesi, e ritratti: li aveva fatti esistere, «fece sapere che ci siamo» dicono ora. E oggi presentano l’ultima traduzione del libro, già volto in 37 lingue, adesso in 38: in alianese: Criste se jete fermete a Ebele. Ma Aliano restava per me un luogo letterario. Un po’ come Itaca: ho fatto vacanze e navigato nel mare e nelle isole intorno a Itaca, ma non ci ho mai messo piede, nel timore che la realtà me la banalizzasse (e poi, avevo già letto il poeta Costantino Kavafis, che dice di non andarci). Il sindaco, Antonio Colajacovo, ha puntato sul business della memoria. Mentre intorno i paesi (belli, inarrivabili e vuoti, erti e lesionati su valli spettrali e precipiti) diventano fantasmi che aziende straniere progettano di acquisire, riattare, per farne buen retiro di
pensionati nordeuropei (Craco vecchia, Alianello...), ad Aliano, un migliaio di abitanti, giovane sindaco e anziano parroco, don Pietro Di Lenge, stanno compiendo un miracolo, con il recupero delle case (svuotate dagli emigranti e rotte dal terremoto o rotte dal terremoto e svuotate dagli emigranti); la rinascita di attività commerciali («Ora c’è il bar!»; «Abbiamo “i” ristoranti!»: due); iniziative culturali (la pinacoteca, il premio Levi, l’anfiteatro sul filo di un lunare strapiombo d’argilla); turistiche, con l’albergo diffuso (ne sono ospite) e le “didascalie” in ogni angolo del paese, a indicare personaggi, episodi descritti in Cristo si è fermato a Eboli. La suggestione del racconto di Levi, e dei volti che dipinse e resero immortali gli sguardi antichi e severi degli alianesi è ovunque. «Questa terra confinata, poi di emigrazione, divenne terra di confino» riassume (e bene, con passione) Vincenzo Folino. Dell’isolamento dei paesi lucani la tirannia fascista fece un’arma: «Ne mandarono qui duemilacinquecento». Fu l’incontro fra Italie e italiani che ignoravano tutto gli uni degli altri. Si innamorarono. La fascinazione del Sud cambiò la vita a tanti di quei colti e indomiti antifascisti; nemmeno la caduta della dittatura riuscì più a staccarli da quei luoghi, a cui dedicarono (come Levi o Manlio Rossi Doria) i loro studi, la loro azione politica, il resto della loro esistenza. «E noi, ora, della nostra storia misera di case di pietra, abbiamo fatto un tesoro, per trarne futuro» dice Folino, con un linguaggio che non ha nulla di politichese nella forma, ma molto di politico nella sostanza, e la cadenza addolcita, contadina, le “t” che diventano “d”, idee alte rese con una parlata popolare, quella che ci rimproveravano, ragazzini, a scuola, perché era “l’indialetto” (ci si può esprimere in modo popolare, anche senza rutti, pernacchie e va’ da via el cul). E non è il solo, se poi senti Vito Di Filippo raccontare dei lucani «esposti al vento e al
gelo della storia», parte di quella «Questione meridionale che è ormai diventato l’irrisolto divario sociale ed economico più antico del mondo». Tutti più bravi di noi, possibile? I tedeschi con la Germania Est, gli spagnoli con l’Andalusia, i britannici con la Scozia, l’Irlanda..., e ora persino il ritardo di storici Paesi del Terzo Mondo si colma, sino al rischio-sorpasso sui primi! C’è bisogno di dire ancora che l’unica differenza è che, altrove, si è voluta riconoscere la ragione di quei divari e sanarli, e da noi no? E che l’economia italiana si regge da 150 anni sul mantenimento del dislivello a danno del Sud? La Lucania è la sintesi: regione dimenticata, tranne per il suo petrolio (i giacimenti in terraferma più grandi d’Europa), portato via a compensi da rapina: royalties del 7 per cento, contro il 35, il 50 e persino di più, che le stesse compagnie petrolifere riconoscono a Paesi africani. Di Filippo spiega che la sua regione è grande un quinto più del Friuli Venezia Giulia, ma ha meno della metà degli abitanti (scarsi 600.000), più dell’Umbria, il doppio della Liguria (tre volte più popolata) o del Molise, quanto l’Abruzzo... ma continua a svuotarsi e dei più giovani, ovvero di futuro. «Come dice uno scrittore meridionale, noi al Sud siamo ormai “rimanenti”, non “residenti”.» Non rassegnati, perché è proprio di quelle rimanenze, dimenticanze che vedono intessuto il domani. Sul ciglio di Aliano, a scavalco di due orridi belli e paurosi, a destra e sinistra (c’è pure quello “del bersagliere”, a ricordo di come finì, e soprattutto: dove, quel tale venuto qui in nome dell’Unità d’Italia; dicono avesse molestato delle donne); calanchi profondi in fuga per chilometri: tu sei quel puntino pieno di stupore e di pensieri, fra due baratri. Non esiste più il tempo, le distanze perdono significato; i valori dell’uomo sono ridotti all’essenziale:
al suo carattere. Ci vorrebbe una capatina qui, ogni tanto, a riprendere le misure dell’anima e dell’inutile distanza fra noi e gli altri. Su quel ciglio, ti senti osservato da molto lontano, da molto in alto e la dimensione che avverti di avere è quella minuscola che appare a chi ti guarda così. Mio nipote Giorgio, non aveva sei anni, mi chiese una volta: «Nonno, chi ha inventato l’Altrove?». Gli detti una risposta “utile”, logica. Sul ciglio di Aliano, ho deciso di portarlo lì e dirgli: «Eccolo, l’Altrove. È qui, e ovunque ti guardi da qui intorno. E tutto il resto è altrove. Di cui si può persino fare a meno. Il tempo piano piano si mangia i calanchi. E l’Altrove finisce. È solo un momento diverso da questo; ma sembra un posto». Non so se son riuscito a dirlo bene; temo di no. Ma ci vuole uno più bravo di me, per raccontare cosa senti su quel ciglio. O bisogna andarci.
36 I POETI ESTINTI
Sono sceso nelle catacombe in cui si nasconde la cultura meridionale, per salvarsi. Non cunicoli sotterranei: luoghi apertissimi, ma da cui non giunge voce, mentre vi arriva e si impone l’ottusità del potere che teme la memoria dei vinti, di un sapere non gregario, antico e autonomo. Ovunque, nel mio imprevisto pellegrinaggio meridionale, ho avuto a che fare con persone di ogni età, ma soprattutto giovani, impegnate nella ricerca e nella valorizzazione di storia e cultura locale; quasi una fatica archeologica per ricostruire, da pochi resti (ma spesso non sono affatto pochi e non sono resti), l’idea e lo splendore del perduto edificio. Ed è sorprendente con quale tenacia si indaga, si elabora. Sono quasi sempre loro, poi, a invitarmi, perché quel pezzetto recuperato in casa, appare ed è, lo sanno (ma non sempre), parte di un tutto di cui era funzione attiva. È come se tanti, ognuno per conto proprio, avessero scoperto che quel che vale sapere non è quel che ti dicono (la subalternità economica diviene anche culturale), ma quello che pensavi non valesse niente. Se questi ricercatori applicassero lo stesso tempo, lo stesso impegno, la stessa fatica a cose più redditizie, ne trarrebbero vantaggi materiali; invece ci
rimettono pure, nella gran parte dei casi. La cosa, in sé, non è nuova; nuovi sono il numero degli addetti, lo spirito, la dimensione, la modernità dell’approccio, dei metodi, degli strumenti; e della ricaduta politica e sociale che tale azione genera. È un ricorso al sapere, per fare, perché chi vuole sapere si prepara a fare. Da questa rete non programmata (e che persino stenta a divenire una rete) giungono rivelazioni che non risuonano oltre l’uscio di casa, della strada che porta fuori paese. E sono tesori, tesori veri. Ogni volta, torno da questi miei giri, con pile di libri, giornali poveramente fatti ma densi di fatti, che non avrò tempo di leggere tutti davvero, ma ti basta scorrerli, per trarne perle. Il Sud ha da dire, ma non ha voce: riesce a parlare a pochi, senza raggiungere la massa critica che fa valanga; o non ancora, si direbbe, vista l’abbondanza di palle di neve. Il Sud dà l’idea di un posto fascinoso e inquietante, di cui parlo ne Il trionfo dell’Apparenza: è la “Zona del Silencio”, in Messico, fra gli Stati di Durango, Chihuahua e Coahuila; ha estensione di circa cinquanta chilometri, è un luogo protetto, studiato dalla NASA, per un fenomeno unico al mondo: il suo livello di radioattività naturale e magnetismo è tale che “trattiene” persino le onde radio (e non sono le sole frequenze influenzate da quella strana forza, se pure i serpenti cambiano colore, le rocce diventano azzurre). I suoni hanno percorsi brevi, attratti al suolo da un potere che genera silenzio. Ci vanno i turisti a vivere l’esperienza della propria voce che cade spenta un po’ più avanti dei propri piedi, senza raggiungere chi è lì a un passo: ti vedono parlare, ma la terra ingoia i suoni, s’impadronisce delle tue parole. E ti fa muto. «...Ninco Nanco deve morire perché si campa potesse parlare / e si parlasse potesse dire qualcosa di meridionale» canta Eugenio Bennato. Questo è il Sud, per il resto del Paese; e persino per se stesso (anche se sempre meno).
Molti hanno cose interessanti da dire e le dicono, ma la voce fatica a raggiungere il paese accanto, nella terra del silenzio; che è tale non perché tace, ma perché non si vuol che dica o, se dice, che abbia ascolto. Così, di scarso valore sembra l’argomento, non lo strumento per divulgarlo, proporlo. Se del Sud poco si sa, sarà perché poco merita, no? Eh... Poeti e matti sono antenne sensibili della comunità, per l’esasperata capacità di cogliere, prima e più degli altri, il nuovo e il diverso. È bene rivolgersi a loro per capire cosa succede o succederà: sono i primi a vedere il fumo dell’accampamento oltre il deserto, la costa all’orizzonte, dopo lunga navigazione, a percepire l’animo della ciurma. E quando i poeti e i matti avvertono il pericolo del potere (o il potere li avverte come pericolo), scendono nel grembo della terra a coltivare la loro libertà di sentire e dire (come avete capito, sto citando le scene de L’attimo fuggente, la Setta dei Poeti Estinti, e se avrete voglia di seguirmi, sarà chiaro il perché). Per me, Nusco era solo il paese di Ciriaco De Mita, già potente capo del governo, padrone della Democrazia Cristiana, collettore dei soldi per la ricostruzione, dopo il terremoto dell’Irpinia (che, dati al Sud, tornarono per la maggior parte al Nord, come dimostrò lo studio condotto da ricercatori statunitensi: incluso alla Parmalat, che costruì qui il suo più grande stabilimento, incassò, e sparì). Così, quando mi chiamano e mi dicono che c’è anche il sindaco (De Mita pure lui, ma Giuseppe e “ribelle”), mi incuriosisco e vado. E a Nusco, catacomba di montagna, mi accolgono Paolo Saggese e Peppino Iuliano, poeta lui stesso, di rara eleganza, fondatori di una specie di Arca di Noè che opera dal 2004 e ha, tra i sostenitori (te li vogliono citare tutti), «intellettuali quali Giuseppe Liuccio, Giuseppe Panella, Francesco D’Episcopo, Franca Molinaro, Salvatore Salvatore, Alessandro Di Napoli, Vincenzo D’Alessio, Alfonso Nannariello, gli chansonnier Pina Cipriani e il
compianto Franco Nico del Teatro “Sancarluccio” di Napoli»: è il Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud, per salvarla da chi vorrebbe che sparisse e già comincia a farla sparire dalle antologie e dai programmi scolastici, per imporre, pure nell’anima, «l’egemonia del Nord e la subalternità del Sud» dice Saggese. Esagera? Lui e gli altri avevano notato che, nelle antologie, specie recenti, e nelle storie letterarie del Novecento, solo il dieci per cento dei poeti citati «era nato a Sud di Roma, e che la stragrande maggioranza degli autori erano “padani”, toscani e romani. L’Italia del Sud e l’Italia delle province erano completamente escluse dalla storia della poesia italiana». Soltanto tre i poeti meridionali «inclusi nelle antologie che “contano”»: il premio Nobel Salvatore Quasimodo, siciliano; Alfonso Gatto, salernitano; Rocco Scotellaro, lucano. Degni di menzione, Sinisgalli, Calogero, Bodini, de Libero, Fallacara e pochi altri. Una «“damnatio memoriae” della poesia del Sud» confermata «dagli studi e dalle riflessioni di molti critici letterari, da Vittoriano Esposito ad Alessandro Carandente, da Ugo Piscopo a Gian Battista Nazzaro, da Alessandro di Napoli a Daniele Giancane, a Dante Maffia» (più numerosi quelli che hanno segnalato l’esclusione dei poeti del Sud, che i poeti meridionali inclusi nelle rassegne scolastiche). Saggese e Iuliano fondano il loro Centro-Salvagente e dal 2003 al 2007 producono, con l’editore Elio Sellino, tre antologie dei Poeti del Sud e il primo libro della Storia della Poesia Irpina – 2009, più la rivista «Poesia meridiana» (con la Delta 3 edizioni, di Silvio Sallicandro). Ma «la situazione» scrive Saggese «sembra persino peggiorata, se si prende visione delle “Indicazioni nazionali per il curricolo” emanate in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica 89/2010, relativo al Regolamento per il riordino dei Licei». Detta così, sembra una di quelle cose scritte apposta per non essere lette. Ma è nel fumo
del burocratese che viene occultata la trappola: si tratta delle “indicazioni” del ministero della Pubblica istruzione, che sono la “traccia” cui devono attenersi i docenti per i programmi d’insegnamento e le case editrici per i testi scolastici. Ecco cosa dicono per il liceo classico e, dunque, per gli altri cinque indirizzi: «Dentro il ventesimo secolo e fino alle soglie dell’attuale, il percorso della poesia, che esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, contemplerà un’adeguata conoscenza di testi scelti tra quelli di autori della lirica coeva e successiva (per esempio, Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto...). Il percorso della narrativa, dalla stagione neorealistica ad oggi, comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, Primo Levi e potrà essere integrato da altri autori (per esempio Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello...)». Non c’è un meridionale! Nelle ministeriali “indicazioni” non vi è soltanto il «rifiuto della cultura del Sud» commenta Saggese «ma anche la convinzione dell’estraneità di questa poesia dalla storia nazionale». Da cui viene sbattuta fuori, ope legis, per legge! «Persino la “triade” Quasimodo, Gatto, Scotellaro, sembra essere indegna di figurare nella programmazione scolastica attuale.» Non basta nemmeno il premio Nobel, a un poeta del Sud (chissà con quali imbrogli lo ha avuto...), per rientrare nei criteri “meritocratici” dell’accidentale ministro alla Pubblica istruzione, Gelmini da Brescia. Sulla scorta delle cui “indicazioni”, nei libri di testo, «Quasimodo sarà considerato autore quasi secondario, avrà meno spazio, scomparirà quasi del tutto. Gli autori meridionali, che avevano avuto un loro spazio nei decenni passati, saranno confinati a realtà regionali, mentre la letteratura “vera”, quella che conta, che resterà, sarà quella dell’Italia vincente ed europea. L’Italia meridionale, al limite, potrà
essere anche letterariamente una colonia del Nord, ai margini della storia nazionale». Osservazioni che copio da un appunto di Saggese. Il tono, le azioni, sue, di Iuliano, degli altri, non sono dolenti e rassegnati, anzi! Sono combattivi e fantasiosi, sanno di essere pochi e di piccola voce, ma hanno coscienza del valore di quel che fanno e usano la poesia come arma (mi porgono i libri di versi che hanno curato sul terremoto del 23 novembre del 1981 in Irpinia e del 6 aprile 2008 all’Aquila, La polvere e la luna, Delta 3 edizioni; e in difesa di un anfiteatro naturale irpino che rischia di diventare una discarica, Versi per il Formicoloso). «Miriamo» spiega Iuliano «a una poesia che esca dalla clandestinità e sappia coniugare, oltre la fantasia artistica, l’identità e la militanza; una poesia capace di essere idea, ragione, passione civile e amore sociale; una poesia non maledetta, ma contro la maledizione disposta a rinunciare alla smania del serto, per il cardo e l’ortica» (capito, sì?: «...rinunciare alla smania del serto, per il cardo e l’ortica»: ha ragione la nonsisaperché ministra Gelmini a toglierli di mezzo i poeti meridionali: mo’, le tocca telefonare al suo amico giardiniere di Arcore, per farsi spiegare ’sta cosa del cardo, il serto, l’ortica...). Saggese e Iuliano sanno, pur non lasciandosene intimidire, qual è la sproporzione delle forze. La sera del mio arrivo a Nusco, distribuiscono un documento di protesta da firmare e inviare al Ministero, in cui leggi: «Paradossalmente, chi meno crede nell’Unità d’Italia ha imposto all’Italia la propria cultura, che dovrebbe essere l’unico strumento possibile di costruzione di un’identità che escluda la cultura del Sud. A questa colonizzazione violenta, a questa mortificazione della cultura del Sud si può rispondere soltanto con una voce forte, da parte del mondo della cultura del Mezzogiorno, da parte delle scuole, dei docenti di Lettere e dei centri di ricerca e delle università del Meridione».
È il gergo dei sindacalisti, non dei poeti; se il ministro stenta a capire il secondo, si prova con il primo: hai visto mai? Tocca adeguare il linguaggio alle situazioni. E persino gli argomenti, se il valore della poesia viene misurato con quello della dieta e delle calorie: Saggese cita, per esempio, un saggio, del 2010, del poeta Valentino Zeichen, in cui si sostiene che il “generoso slancio” dei “poeti impegnati” si sarebbe affievolito «quando nell’Europa del Miracolo Economico del 1955 si sono raggiunte le tremila calorie pro capite» (e non fate quella faccia: non è colpa mia, io lo riferisco soltanto!). Ma se davvero la poesia sgorga da un deficit calorico, sottratta allo sforzo della digestione, allora bisogna ricordare che «molte aree del Sud» replica Saggese «hanno raggiunto le “tremila calorie pro capite” almeno un trentennio dopo», perché negli anni Cinquanta della svolta alimentare, «gli irpini e i meridionali in generale erano carne da macello delle miniere del Belgio! Perciò, il “generoso slancio” della poesia impegnata al Sud si è affievolito molto dopo gli anni Sessanta ed è ancora oggi, almeno in parte, vivo»; e «si caratterizza per il suo atteggiamento “civile”, contro la mala politica, il clientelismo, la delinquenza organizzata, il malaffare» che «hanno generato una situazione di difficoltà economica, di povertà e sudditanza ancora molto diffusa. Ma questa diversità condanna la poesia del Sud, accusata di essere vetero e passatista. Noi siamo convinti, invece, che la grandezza della poesia italiana risieda nelle tante anime che sa esprimere. E non vogliamo che la nostra anima sia mortificata». Sarebbe facile prendersela con la signora che hanno messo alla Pubblica istruzione, tale Gelmini che (non ricordo se l’ho già detto) si laureò con tre anni di ritardo, voto modesto, tesi definita “sciatta” dal suo relatore, prese l’abilitazione in un esamificio a promozione garantita.
Lei fa quello che deve fare; o non sarebbe lì. Quando il Sud fu annesso al resto del Paese, le scuole vennero chiuse (gli istituti superiori a Napoli, d’imperio, dai nuovi arrivati; altrove, per lo stato di guerra); e quando l’Italia unita le costruì, ne fece poche al Sud e tante al Nord, dove spese anche duecento volte di più, sino a generare un divario mai più colmato. Diviso il Paese nell’edilizia scolastica, e le autostrade, le ferrovie, gli aeroporti, l’assistenza, le banche, i redditi e tutto il resto, lo si spacca persino nell’insegnamento, nella cultura, la poesia, con la sciocca presunzione di cancellare l’anima meridionale, facendone sparire gli aedi dai libri di scuola, come non esistessero, non avessero nulla da cantare, incapaci di sentire. Facendo così intendere agli studenti del Nord che il Sud non produce letteratura di cui valga la pena sapere; e a quelli del Sud che la loro letteratura non merita di essere divulgata, appresa. Ci consola sapere degli 800.000 euro erogati dal ministero del Tesoro alla scuola “Bosina” (una sola “s”) di Varese, fondata dalla signora Manuela Marrone in Bossi, per educare i piccoli alle tradizioni e all’identità territoriali. Ovunque un poeta sia messo a tacere, l’umanità intera s’impoverisce; è una cosa nota, detta da grandi uomini, da tanto tempo. Che tocchi a me doverlo ricordare dà la misura della sconcezza in cui s’infanga la scuola italiana, e quella dei pisquani che a tanto la riducono. Ma i poeti non si estinguono per volontà del potere. Sembra facile avere ragione di questi delicati cultori di cose inutili (non è tale la poesia?). Il guaio è che sono inoffensivi, ma tenaci; immersi in un mondo di cui si può fare a meno (non è tale la poesia?), ma capaci di difenderlo con la vita. Qualcuno può illudersi di deciderne sorti e indirizzo, come nei regimi oppressivi (dall’Unione Sovietica al Cile di Pinochet) o semplicemente stupidi, o stupidi e oppressivi. Ma quella sparsa dinastia di solitari, secondo la bella immagine di
Jorge Luis Borges, è imbattibile, perché possiede l’anima del mondo. Josif Brodskji, il più giovane premio Nobel per la letteratura, sbattuto nelle carceri sovietiche, vi entrò poetando; ne uscì anni dopo: poetando, rovinato nel fisico, intatto nell’anima. Della detenzione, non una parola (salvo «Troppo tempo in troppo poco spazio», se ricordo correttamente): non meritava occuparsene. Gli estensori di “indicazioni” che confondono la cultura con la latitudine, nella stupida presunzione di esaltare poeti e narratori del Nord a danno di quelli del Sud, ottengono l’offensivo risultato di denigrare i primi e innalzare i secondi: come se i Saba, gli Ungaretti, i Montale, i Calvino, i Pasolini, i Primo Levi, i Gadda e altri numi avessero bisogno di una Mariastella Gelmini (o chi per lei) che tolga loro di torno i “concorrenti meridionali”, per renderli più grandi. Solo da morti li possono umiliare così: fossero vivi, sarebbero i primi a scagliarsi contro la tizia disgraziatamente ministerializzata; e lo farebbero per tutelare se stessi, prima che la decenza. La setta di Nusco e gli sparsi cultori di cose inutili che spesso persino non sanno gli uni degli altri, e che incontro in paesini dove l’isolamento diviene occasione di profondità, sono custodi di un tesoro. Tengono in vita i poeti che la stupidità vorrebbe zittire, confinandoli nel ghetto di una inedita minorità culturale del Sud, indegna di sporcare i libri di testo degli studenti italiani con gli Sciascia, i Gatto, i Bodini, i Marotta, i Quasimodo che rubano il Nobel agli autori del Nord, gli Ortese, i Bufalino, i Silone, i Tomasi di Lampedusa, i Corrado Alvaro... (La Gelmini, però, richiami all’ordine i suoi tagliatori di teste meridionali: Pirandello è rimasto, ma fra quelli dell’Ottocento: o gli è scappato, o del secolo precedente si occupa un altro censore, o l’hanno scambiato per una maschera popolare veneta.)
Gli ignoranti del Sud sono ignoranti e basta; mentre ad alcuni di quelli del Nord, dà terribilmente fastidio che ci siano ’sti meridionali che sanno un sacco di cose antiche di cui a loro non importa nulla. Nuialter sem roba pratica, terun, minga filosofia! La cultura era l’unico campo in cui si era ancora disposti a riconoscere ai meridionali una qualche eccellenza, magari solo per accidente storico (i Greci e altre anticaglie...). E anche questo, tutto sommato, per una sorta di pregiudizio, seppur positivo: “quelli”, non avendo nulla da fare, studiano. Tutto, pur di non lavorare... Ora le cose sono state messe in ordine: la minorità del Sud, imposta e accettata nei comportamenti, nei servizi, nella sanità, negl’interventi dello Stato, è finalmente sancita, per ministerial divisamento e imposizione, pure nella poesia, nella letteratura.
37 LA MORTE DEL SOLE
Il Sud è 150 anni che “non schiatta e non guarisce”; ma nessuna malattia è per sempre, e se non c’è modo di goderti una resurrezione inutilmente attesa, puoi cedere al fascino complesso dell’agonia di un mondo. L’estetica della decadenza fiorisce dove una civiltà si sta perdendo o vuole perdersi. È un caso che il maggior cantore contemporaneo della fine sia emerso al Sud, a Catania? Oggi tutti lo conoscono come il filosofo amico di Franco Battiato, con il quale ha pure collaborato alla stesura dei sofisticati testi di alcune canzoni e assieme al quale, talvolta, è addirittura comparso, lui così schivo, sul palco. Io incontrai Manlio Sgalambro più di trent’anni fa, quando pubblicò, emergendo dal nulla, il suo primo libro, La morte del sole, per avvertire che eravamo diventati coevi della fine della nostra epoca (evocata dalla scomparsa della stella che ci scalda: svegliarsi una mattina e trovare vuoto il cielo). E se stesse parlando del Sud? Sgalambro era uno sconosciutissimo pensatore, estraneo a tutti i giri culturali, tranne antiche collaborazioni alla rivista «Tempo Presente», di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. In assoluta solitudine, aveva riflettuto per quasi quarant’anni, giungendo alla
conclusione (poi riemersa nei sofisticati studi di futurologi statunitensi, come Alvin Toffler, in Lo choc del futuro) che il vero problema dell’umanità non è più quello della sua origine, ma della fine, verso cui corre: «Il cervello va in senso contrario alla vita» scriveva; o: «l’uomo è un essere impaurito e tremante, i cui nervi sono saltati»; la scienza? Un inganno, perché in fondo alla sua strada c’è «la scomparsa del mondo». Eravamo lontani dal ridurci a Grandi Fratelli, politica dei crani incatramati e mignottocrazia, ma Sgalambro leggeva i segni del nulla rampante, nel decadimento della meditazione, nella scomparsa dell’individuo, travolto dall’avvento di masse omologate: «fine delle illusioni, disfacimento dei miti, di tutto ciò, ora lo si riconosce, che è un di più», perché «l’intelligenza viene assorbita dalla ricerca del profitto», per «lavorare, prescindendo dalla verità»; e «nella città mondiale il rumore è diventato il suono fondamentale», mentre «Dio passa frusciando» e debole è l’«eco della vita al suo spegnersi». Ogni cosa, prima solo desiderio, viene realizzata e muore, «le idee rotolano come le teste mozze dei re. Esse non sono più che trovate, meri espedienti, qualcosa come le donne nude sulle copertine dei rotocalchi». E i valori in cui generazioni di uomini hanno creduto (il muro di Berlino sarebbe crollato dieci anni dopo) si mostrano nella loro «stupidità irrimediabile». Alla fine di questa decadenza, «forse il tempo della ferocia o della compassione», «comunque della grande povertà». Non ci crederete: ho perso di tutto in questi trent’anni e passa, ma il testo di quell’incontro con Sgalambro no. E vede la luce adesso, per la prima volta. Non fu pubblicato allora, perché scrivevo su un settimanale popolare e suonava così isolata, elitaria, la voce di questo catanese... Estranea all’anima comune; troppo in anticipo o troppo
a parte, perché mentre gli altri vivevano, lui li guardava vivere; era in grado di capire dove andavano quelli in cammino, perché seduto sul marciapiedi, a vederli passare. Un privilegio toccato a pochi (il filosofo Plotino, per dire, alla fine dell’impero romano) poter osservare, rendendosene conto, un’era che muore: «Un momento ineguagliabile. Uno spegnersi lento e maestoso, dolce e senza sussulti. Quasi bello come un tramonto cantato». Filosofi e futurologi (a volte), poeti (se grandi) e bambini (inconsapevoli) sono antenne che colgono l’essenza dei tempi, che ai tanti sfugge, perché se ne ubriacano. Mi dicevo che Sgalambro aveva avvertito la decadenza della nostra era, perché meridionale e isolato (il Sud è anticipatore, perché decade prima, da 150 anni, per vocazione e per legge dello Stato). Aveva 58 anni, quando lo incontrai. Non si è mai laureato; abbandonò l’università, «perché già allora era evidente la sua povertà» e si immerse nei libri e nel pensiero, sorretto dal modesto reddito di un agrumeto. Non ha mai “lavorato”, nel senso che nessuno lo pagò mai per i suoi studi. Pochi viaggi, per consultare libri rari, in biblioteche lontane (legge francese, tedesco, spagnolo, inglese, latino). Sposato; ma fu Ersilia a cercare lui, che aveva quasi quarant’anni, quando lei andò a chiedergli consiglio per una tesi sugli operatori di magia. Hanno cinque figli. Da giovane, pensava di finire avvocato, ma assistette, a Catania, all’ultimo processo conclusosi con la pena di morte, in Italia. Il contrasto fra la liturgia legale, i complimenti agli avvocati, per la “vittoria” e lo sguardo sperduto del condannato che non aveva capito la sentenza, lo disgustarono: «Ero troppo debole, per una cosa tanto forte». Si ritirò a meditare: «Coniare pensieri, questo è ciò che rimane» ha scritto «e morire pensando». Avevo letto la frase a un collega milanese, persona in gamba e molto attiva, che mi stima e mi è (ricambiato) amico. Giuro che mi parve preoccupato: «Sì, ma tu che vuoi
fare?». E fu quella sua uscita così spontanea a farmi vedere più chiara la sintesi, che Sgalambro rappresentava, di quell’idea che oppone a un Sud del pensiero, un Nord dell’agire (come se pensare non fosse agire e agire non presupponesse un pensiero, almeno altrui, a volte...). E decisi di andare in Sicilia, a trovarlo. «Gli indiani» mi disse il filosofo catanese «avevano un certo concetto della vita: per una parte bisognava immergersi in essa intensamente e per un’altra, ritirarsi a meditare.» Solo molto tardi lui raccolse i suoi pensieri in libro, «questa forma decaduta della meditazione, in Occidente. Ma se scendi in piazza a parlare di filosofia, come Socrate, oggi finisci in manicomio. Così, bisogna scrivere il libro, che è come parlare, ma rimane cosa morta, inerte: non dice nulla». Gli chiesi perché e me lo spiegò con un aneddoto: «Qualche anno fa, un cabarettista, un poeta, non ricordo, passò dalla Germania Est a quella Ovest. “Lì” commentò dopo qualche tempo “ogni cosa che riusciamo a dire è importante, perché non si può dire nulla. Qui, poiché tutto si può dire, niente è importante”.» Avevo 24 anni, quando a Michele Abbate, Signore della Terza Pagina, della «Gazzetta del Mezzogiorno», di cui ero cronista ultimo arrivato, parlai di un libro che avevo in mente. Gli esposi l’idea e mi parve strano che stesse ad ascoltarmi, lui che aveva fama di scorbutico degli spazi siderali della cultura. «Che ne pensi?» chiesi. Non disse nulla sul progetto, ma: «Domandati: “Che vale fare il libro, se il libro non rifà la gente?”. Poi, decidi.» Il Vangelo era già stato scritto, il Capitale, pure; lasciai perdere, intimidito. (Molti anni dopo, mi posi obiettivi più bassi e cominciai a scrivere libri. O, forse, approfittai della dolorosa assenza di Michele.) Ma girai a Manlio Sgalambro, a proposito del suo libro, il criterio-Abbate. «Chi cambia l’altro, lo perde» rispose lui. «Io non voglio cambiare l’altro. Che resti com’è. Non do
consigli neppure ai figli.» E questa è la ferocia dei miti; ché tali sono, secondo la definizione di Norberto Bobbio (Elogio della mitezza), perché lasciano l’altro essere quel che è. Non credo ci sia modo di essere più cattivi. Questo guardare per riflettere senza intervenire, per capire e non per fare; e quindi inutile, secondo una concezione della cultura oggi molto diffusa e condivisa, è il peccato dei meridionali (dimenticando che fu gente così a pensare l’Occidente com’è). L’isolamento di Sgalambro mi parve incarnare, più che rappresentare, la presunta inattività colta del Mezzogiorno (quegl’intellettuali della Magna Graecia, su cui ironizzava Gianni Agnelli). «È bene che il filosofo stia in provincia» rispose lui. «Questo permette di vivere a distanza gli avvenimenti, vederli chiaro da lontano, senza esserne coinvolti. In provincia, i fenomeni si vivono con il distacco dei re.» Ci può essere qualche svantaggio: la solitudine; e persino far derivare l’irraggiungibilità fisica del Sud non solo dall’iniqua distribuzione, in Italia, di strade, ferrovie, aeroporti, in 150 anni di diseguale Unità, ma pure dalla voglia più o meno cosciente del Sud, di starsene appartato. Per Sgalambro (che poi instaurò il fertilissimo e lungo sodalizio culturale con Franco Battiato), per troppo tempo, «la cosa più dolorosa è stata vivere senza dialogo, senz’alcuno con cui confrontare le idee, valutarle. È stato duro. Non si sa se la pochezza di quello con cui parli è anche la tua; perché ci si commisura all’altro, ma all’altro scadente». Immaginavo i suoi figli cosa potessero rispondere alla domanda: che fa tuo padre? (Quel mio importante collega me l’aveva chiesto, perché “fare il filosofo” non è considerato fare.) «Non so come se la siano cavata,» replicò lui «ma la cosa deve averli imbarazzati parecchio. Soprattutto in un contesto in cui lo studioso, se non ha un ruolo, non ha significato.» Né lui si preoccupava di “regolarizzare la propria posizione” con l’università,
sede ufficiale della cultura. «Quello che si fa nelle università è riproducibile come le cose che si fanno in una fabbrica. Essa è per il numero, non per l’individuo.» Forse è migliorato, col tempo, ma non era un gran parlatore, per mancanza di allenamento (e aveva qualche remora, persino per i libri: «Un pensiero si contempla, non si legge»). Fu una felice sorpresa vederlo sul palco, tanti anni dopo, durante un concerto di Franco Battiato, recitare parole alte con la sua voce severa. Ma forse avrei potuto già immaginarlo, per quel che mi disse della massa in cui sparisce l’individuo, «questa specie di beato niente in cui ci si può immergere, come nella folla di una grande città. Credo che la massa sia, come dire?, ciò che deve essere, che sarà. Avvenga la massa. Non rimpiango». Pur sapendo che «dove l’individuo tende a scomparire nella massa, lì una civiltà muore». E cosa nasce dopo? «Usualmente, una nuova civiltà. Purtroppo,» aggiunse, perché «la più probabile ipotesi è che alla nostra ne segua una dell’angustia, dei poveri.» Riletto adesso, inquieta un po’. Quando me lo diceva, avevo lasciato da pochi anni Taranto, allora al momento più alto della sua epopea industriale siderurgica. Non sembrava che la direzione del futuro, almeno per il Sud o le sue parti più promettenti, potesse essere quella vista da Sgalambro (ma quella è stata). È vero che la sua era una visione ben più ampia, universale, ma io ero da lui, perché mi sembrava che impersonasse un’idea del Sud e pensieri del Sud, pur proponendosi scenari che avevano per protagonista l’uomo, non il proprio spazio, tantomeno così ristretto. «Penso che la ferocia sia sempre una chance, per l’uomo, se chance si può chiamare» aggiunse. «La ferocia nasce dal fatto che non resta più niente. Schopenhauer riteneva che se i nostri stivali fossero sporchi e non avessimo altro, per pulirli, che il grasso umano, ci procureremmo il grasso umano»: il nazismo lo fece. Né, quando Sgalambro me lo diceva,
potevamo immaginare che le coste della sua Sicilia sarebbero diventate, in ogni senso, l’ultima spiaggia per decine di migliaia di disperati e la civile Italia avrebbe proposto di bombardare quei naufraghi della vita e del mare. La regressione verso la ferocia, quale segno del disfacimento di una civiltà. E se così è, i primi a cadere sono i più deboli: nella scena modesta del nostro Paese, significa vedere il più ricco Nord inferocirsi contro lo zoppicante Sud e rubargli pure la stampella, per farne legna da camino. Ma la storia narra di orde impoverite che hanno travolto imperi ricchi e organizzati. E talvolta, li hanno rigenerati. Se così è, solo il Sud dato per morto può ridare vita all’intero Paese. «Ci sono quelli che amano le rinascite, sottolineano i momenti in cui la civiltà risorge. Ma bisogna tener conto anche di questi momenti finali. Io mi sono ritagliato un piccolo orto, da cui osservare l’attimo in cui la civiltà finisce.» È brutto? chiesi. «Dipende da quanto senso teatrale, dello spettacolo, si ha. Per me, quello che mi può legare al mio tempo, anche brutto, può essere questo senso del vedere, l’occasione che ho di guardare una civiltà che muore. Mille si lanceranno a soccorrere un uomo in pericolo; uno solo si fermerà a osservare, per capire. Io vorrei essere quell’uno. Il problema di salvare un uomo non mi interessa, personalmente; guardare come si fa, forse sì. Sono molto curioso, a riguardo, visto anche che diffido dei salvatori.» Basteranno una trentina di anni per mostrare, a lui e a me, i più poveri fra i presunti salvatori, a Lampedusa, in Calabria, in Salento, adoperarsi per soccorrere gli ultimi della Terra; e i più ricchi accanirsi contro, per tenerli lontano. Ma lui, Sgalambro, non si sente coinvolto: non interviene, osserva. «Con Schopenhauer» mi diceva «posso ringraziare gli dei di non dover badare all’impero romano». Riflettere gli basta, il “fare” è per altri: «Non c’è alcuna dignità nel fare le cose; forse solo si salva la
forma, il modo di farle» (me lo disse, con le stesse parole, Jorge Luis Borges). E quell’agitazione del cercare, del produrre, dell’aggiungere che è il vanto di alcuni, non suscita alcun fascino in lui (espressione massima, mi pareva, della riflessione prevalente sull’agire, che si rimprovera al Sud, ritenendola, a torto, sterile; perché le cose si vedono e appaiono vere, le idee non si vedono e sono vere: lo dice il filosofo Karl Popper, non io). Così, per Sgalambro, la scienza che “fa” le cose, è sempre un danno, «anche quando apporta i mezzi per debellare una malattia. Bisogna chiedersi qual è il progetto conclusivo della scienza. Essa parla con il linguaggio della matematica e della tecnica, che ha prodotto la bomba atomica. E perché non vedere nella bomba il giudizio della scienza sull’umanità?». Una scienza che con la matematica («tribunale del mondo») conta gli uomini e con la tecnica li distrugge. La scienza come arma di una civiltà che «esaurisce tutto il possibile, che diventa reale, disilludendoci». La scienza che più avanza, più distrugge l’impossibile. Proibito sognare, ridotto a progettare. Ma «per dire che tutto è vano, bisogna che si sia cumulata una enorme cultura». E valeva la pena farlo, mi spiegava Sgalambro, per scoprire che tutto è vano. Non so quanto pesi questo sentimento meridionale così forte ed ecumenico, da descrivere il destino di tutti; so che c’è, e persino se ne ha paura, lo si deride, perché si ritiene porti all’inazione. Non sono abbastanza colto e intelligente per dare una vera risposta; so soltanto che, qualunque sia il pensiero, non è mai inattivo. Che se l’uomo creativamente fa, è perché pensa. O no? E non mi sembra da buttare la consolazione estetica che, dovesse finir male il Sud, l’Italia e il resto, nessuno ce lo racconterà bene quanto questo catanese. Valeva la pena conoscerlo, no?, magari anche solo come esempio di quel Meridione che, pur di non
lavorare, è disposto a tutto. Umberto Bossi, per esempio, si è dato alla politica, pur di non lavorare. Ma la circostanza, come si può rilevare, non riduce tutti allo stesso modo: quel dito leghista è l’inno del nulla a cui si riduce una civiltà. Mi sa che Sgalambro ci ha azzeccato in pieno.
38 MESSINA, IL RISENTIMENTO
«Voi non potete giudicare. Voi non avete visto» (dalle corrispondenze di Claudio Treves, per «Il Tempo», sul terremoto del 1908) C’è una specie di risentimento o sbaglio nella loro voce? Si parla di Messina, la loro città rasa al suolo, nel 1908, da un terremoto (così violento che i sismografi finirono fuori scala e non riuscirono a segnarne l’ampiezza) e un maremoto (le onde anomale furono tre, in successione, spazzarono le rive calabre e sicule; la più alta era un mostro di 13 metri). Le vittime furono almeno 80.000 su 140.000 abitanti a Messina; 15.000 su 45.000 a Reggio, forse 40.000 in tutta la provincia. «Attendete, prima di dare la notizia», disse, prudente o seccato, ai giornalisti, il capo del governo, Giovanni Giolitti, che non voleva prenderla sul serio, «qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa, con la fine del mondo.» Le due città erano state ricostruite da poco più di un secolo, dopo il sisma che le aveva investite
nel 1783. «La natura...» mormoro. «Già, la natura, ma dopo arrivano gli uomini.» Non capisco. Ma non c’è tempo per domande. In albergo svuoto la busta in cui ho insaccato il mio quotidiano bottino di carta, come sempre, ovunque vada: c’è anche un libro del 1911, appena riprodotto anastaticamente, Un duplice flagello, scritto da uno scampato al disastro, Giacomo Longo (pensare che mi ero detto: e questo, che lo prendo a fare. Troverò, poi, che nell’immediatezza, l’inviato del «Giornale d’Italia» aveva usato le stesse parole di Longo: «Sì; il secondo flagello di Messina è la insipienza dei nostri dirigenti»). Si narra come l’Italia soccorse la città: «dallo stato d’assedio proclamato dal generale Mazza, forte di “diecimila fucili e cento cannoni”, all’imboscamento delle trentamila tende e trentamila coperte destinate ai superstiti dalla Francia e dall’Inghilterra; dalle ruberie di denaro e preziosi che i soldati al comando del generale Mazza spedivano ai parenti (i loro parenti, non quelli delle vittime), al mancato soccorso delle centinaia di feriti lasciati a morire; dall’immensa quantità di generi alimentari chiusi nei magazzini della Cittadella, alla distribuzione, ai superstiti di “pane nero e pasta ammuffita”; dalla negazione perfino di un sorso d’acqua agli scampati, all’assassinio del figlio del professor Melle, sorpreso dai soldati mentre scavava con le mani in via Cardines alla ricerca della famiglia». E che diamine: i soccorritori derubano i terremotati e sparano ai superstiti! Sapevo, ma l’avevo presa come una sorta di macabra battuta, che qualcuno, in Parlamento, propose di bombardare le rovine della città (fa niente se sotto c’erano migliaia di sepolti vivi) e cancellarla dalla storia e dalla geografia, spartendone la provincia fra quelle di Catania e Palermo. Sarebbe bastato cannoneggiarla una mezza giornata dal mare. Dicevano sul serio (ancora venti giorni dopo, dalle macerie sarebbero stati estratti vivi dei superstiti). Il
governo fece fallire il progetto e il primo ministro, Giolitti (che aveva persino concesso una proroga delle cambiali ai sopravvissuti!), «fu così convinto della eroicità del suo merito, da porre in marzo (tre mesi dopo il disastro ; N.d.A.) la candidatura in due collegi della città, sicuro di ottenervi [...] un plebiscito», scrive Francesco Mercadante, nell’introduzione a Il terremoto di Messina, la raccolta di testimonianze e articoli dell’epoca, pubblicata un secolo dopo dall’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini (il professore pugliese insegnava nell’università messinese; sopravvisse, ma perse tutta la sua famiglia). I soldati vennero, scavarono fra le macerie, con quel che avevano, con le mani e con le unghie, ma per recuperare la cassaforte della Banca d’Italia, annunciandone trionfalmente il ritrovamento al capo del governo, Giolitti: «per essi le vittime erano rappresentate dalle casse forti e dai gioielli» scrive Longo. E capitava che si lasciassero morire i sepolti vivi. Un vecchio si avvicina piangendo a un gruppo di soldati «richiede d’aiuto, perché la sua figliola gemeva viva ancora sotto le macerie. Non possiamo – gli risposero: Aspettiamo il nostro capitano», riferisce Longo. E poi: «Gemeva la famiglia Borzì, sotto le macerie [...] i genitori e altri figli erano ancora in condizioni tali da poter essere salvati [...]. Un ufficiale di fanteria li sentì – li vide ed ebbe l’empio coraggio di andare oltre, mormorando: Ho da fare». I familiari che tentavano di intervenire personalmente erano arrestati o fucilati come “sciacalli”, perché la prima decisione che si prese fu di decretare la pena di morte per i ladri e i saccheggiatori. Rocco Arena e sua moglie Domenica Scarfì, sorpresi a rovistare fra i resti della casa di una loro parente, finirono in prigione per cinque mesi, e i loro tre bimbi rimasero randagi. «Sparate su quelle belve» esortava il socialista Bissolati, sull’«Avanti!». Reazionari o socialisti (fu uno dei fondatori del partito, Camillo Prampolini, bolognese, a
distinguere gli italiani fra “nordici e sudici”), non importa quale sia il problema dei meridionali, rivolta contro un’invasione “fraterna” o sopravvivenza a un terremoto, la soluzione sembra essere sempre la stessa: fucilateli! È difficile resistere alla tentazione di concludere che, nell’inconscio dei sottoscala (e talvolta nell’attico della piena consapevolezza) di certi sentimenti nordisti, ci sia l’idea che di terroni meno ce n’è, meglio è; e ogni occasione è buona per sfoltirli, persino una catastrofe. E non pare che i soccorritori avessero bisogno di farselo ricordare: «Un giovinetto sui quindici anni, bello, biondo, ricciuto, dalle fattezze delicate e che a tutt’i segni pareva di gentile lignaggio [...] s’era salvato per un prodigio e, avendo trovato una camicia e un paio di pantaloni fra le macerie, li aveva raccattati per vestirsi. Arrestato (per sciacallaggio; N.d.A.)... andava chiamando invano “mamma! mamma!”. Il buon maggiore guardò la creatura supplichevole, guardò i carabinieri accigliati [...]. Si voltò dall’altra parte e ordinò: “Fate il vostro dovere!”», riferisce un cronista e testimone, Giovanni Alfredo Cesareo. Fucilato! «Si spara sui cani, sui gatti, sui ladri» spiega un militare a un altro giornalista, Oddino Morgari, il quale obietta che molti «frugano tra le rovine delle altrui case per procacciarsi quei viveri e quegl’indumenti che il governo non dà. In secondo luogo osservo che se non si fucila il ladro che ruba ai vivi non vi è ragione di fucilare quello che ruba ai morti». Evidentemente, il valore della vita dei meridionali non raggiungeva, nella stima dei soccorritori, il livello di tale logica. Nelle corrispondenze di alcuni inviati a Messina e Reggio Calabria si legge, anche con coloriture razziste, dell’apatia dei sopravvissuti, in attesa di tutto, seduti magari sulle rovine delle loro case. Ma chi si dava da fare rischiava l’esecuzione sul posto (al “giovanetto
Raboni”, che scavava per recuperare il cadavere del padre, «venne imposto di desistere – gli s’intimò l’arresto e lo si minacciò di fucilazione»). Le autorità si contendevano il diritto di dare ordini a tutti, annullando quelli altrui con i propri. «I militari di terra contro quelli di mare (e reciprocamente)» riassume Mercadante «il prefetto esautorato dal generale, il generale in lotta con l’onorevole De Felice o con l’onorevole Micheli; quest’ultimo in collaborazione con l’autorità ecclesiastica, “padrone della città”» (insomma, di quel che ne restava...). Goffredo Bellonci, del «Giornale d’Italia», racconta di «un vecchio bianco, curvo, con gli occhi aridi e un tight frusto» che «domanda ad ogni minuto», all’onorevole Micheli (uno dei veri eroi civili, in quel disastro, per quanto bene fece, al fine di risollevare le condizioni e il morale dei sopravvissuti): «Mi dà il permesso di prendere mio figlio?». Il corpo del ragazzo è sotto le macerie e il padre non vuole che imputridisca sotto la pioggia, vorrebbe almeno rispettarne i resti. Ma nemmeno l’onorevole può contraddire l’ordine del generale Mazza, il vecchio rischierebbe d’essere giustiziato sul posto. Nel muto imbarazzo dell’interpellato, l’uomo continua la sua cantilena: «Mi dà il permesso, onorevole?». Il giornalista si allontana sconvolto. A leggere quelle cronache, ti dici che la sciagura non fu il terremoto, ma l’arrivo dei soccorsi. Ma dici il già detto: «L’opera della insipienza burocratica si mostra ogni giorno più nefasta dell’opera distruttrice perpetrata dalla cieca natura» accusò Luigi Capuana. E uno dei più autorevoli inviati, Goffredo Bellonci, del «Giornale d’Italia», scrisse: «Lasciate che io riveli la miseria di questa spedizione governativa, che non ha provveduto a nulla e a nessuno [...] sono morti di inazione e di soffocazione parecchie migliaia di uomini sepolti». Il Duca di Genova arrivò a Messina tre giorni dopo il sisma, «con a bordo 3.200 uomini di
truppa, barelle e altra roba, scarsa sì, ma di pronto soccorso», annota Longo: ma nessuno e niente scese dalla nave, per tre giorni, perché il generale Mazza non aveva completato i suoi piani. La flotta russa in Mediterraneo, invece, si mosse da Siracusa, giunse in poche ore, ma «durante la navigazione gli equipaggi cercarono di prepararsi al meglio per i soccorsi», riferisce Tatiana Ostakhova, docente di russo a Messina, nel suo Abbiamo visto Messina ardere come una fiaccola – I marinai russi raccontano il terremoto del 28 dicembre del 1908, «si allestirono lettighe, si costituirono squadre di salvataggio, si stabilirono turni di lavoro; la gestione degli ambulatori fu affidata al medico della nave ammiraglia Aleksandre A. Bunge, famoso esploratore dell’Artico; le squadre di soccorso, composte da sei a venti persone ciascuna, furono poste agli ordini dei guardiamarina e coordinate dagli ufficiali» (sarà che invecchio, ma la lettura delle testimonianze riportate dalla professoressa Ostakhova, l’umanità di quella gente straniera, gli eroismi silenziosi... ingoiavo saliva e avevo voglia di trovare qualcuno a cui dire grazie!). Il porto di Messina era devastato, fondali sconvolti, navi affondate, buttate sulla costa. Ma la Makarov del contrammiraglio Litvinov avanzò; nell’impossibilità di attraccare, i marinai si tuffarono e raggiunsero a nuoto la riva. Calate le scialuppe, «Litvinov e i suoi ufficiali, fra i primi a toccare terra, stimarono l’entità dei danni e iniziarono a coordinare le operazioni di soccorso». Dall’incrociatore inglese Sutlej, giunto qualche ora prima, e rimasto «in rada senza intraprendere alcuna azione», videro cosa facevano i russi e li seguirono. In breve, a tutta forza, giunsero la Guilak, la Korietz, la Bogatir, la Slava, la Cesarevitc, agli ordini dell’ammiraglio Ponomareff; e sopraggiungevano le britanniche Minerva, Lancaster, Exmouth, Duncan, Euryalus (le flotte russa e britannica avevano potenziato la loro presenza in Mediterraneo a
fini strategici; in Fra le righe, Maria Teresa Di Paola e Sem Savasta, rileggono il ruolo degl’inglesi nello Stretto, in occasione del terremoto, sulla scorta di documenti britannici). Ma alla greca Sfacteria, con a bordo medici, infermieri e un ospedale da campo attrezzato, non fu concesso l’approdo, perché la zona era sottopposta a stato d’assedio! Pochi giorni, e furono decine le navi lungo la costa sicula (quella calabrese, ugualmente squassata, ebbe sorte peggiore. Un cronista narrò che i superstiti di Villa San Giovanni tentarono invano, per giorni, di attrarre l’attenzione di possibili soccorritori: «Passavano navi italiane, si gridava, si tiravano fucilate: esse proseguivano. Era l’esclusione totale dal mondo dei viventi, mentre i feriti gemevano, i morti imputridivano... Cinquecento persone di più sono morte per mancanza di soccorsi»). Quando i bersaglieri si decisero a sbarcare a Messina (si eran portate le biciclette!), il primo degli ufficiali toccò terra a spada sguainata. Furono disposte sentinelle ovunque fra le macerie. Una di queste sentì lamenti dalle rovine, ma non si mosse (erano gli ordini). La mattina dopo, al cambio guardia, ne riferì al caporale, che disse al sergente... La segnalazione giunse agli ufficiali imbarcati sul Savoia e da quelli trasferita sul Sardegna (Longo ricostruisce tutta la trafila). Solo nel pomeriggio una ventina di soldati si muove, in armi, e raggiunge il posto. Dove scoprono di non avere pale e picconi ma solo le armi. Si riparte per rifornirsene e, alla buon’ora!, si scava. Sfortunatamente, è troppo tardi. Più solleciti altri soldati che udirono una voce: «Maria, Maria!», provenire dalle macerie: le rimossero e liberarono... un pappagallo, impolverato, ma vivo (fu adottato dagli ufficiali di una delle nostre navi). Ma c’era pure Maria, lì sotto, viva: giovane, bella, priva di sensi, salvata, grazie al suo ciarliero pennuto. C’era un proverbio a Messina: «Chiù duru d’a cantunera d’u spitali», ricorda Salvatore
Pugliatti, nel libro del centenario, perché del possente Ospedale civico, simile a una fortezza, il bugnato d’angolo era l’opera più massiccia. Non era il solo edificio celebrato per la sua solidità; se ne indicavano altri che avevano retto ai terremoti dei secoli precedenti. Quello del 1908 li ridusse tutti in frantumi. «Rimasero in piedi per triste irrisione – tra i pochi altri» scrive Mercadante «quei due o tre che il Genio civile aveva dichiarato pericolanti.» «E quello che non distrusse il terremoto, demolirono i soccorritori, che si arricchirono» mi raccontano «con la fornitura della dinamite per tirare giù quello che era rimasto su.» È stato da poco ristampato il diario di Gaetano la Corte Callier, curatore del Museo storico della città, che tentò invano di impedire fossero abbattute, con «esplosioni della dinamite, una dopo l’altra, preziose e indenni testimonianze monumentali del grande passato architettonico e artistico della città» riferisce Nino Principato, nel presentare il libro di Longo. «31 ottobre 1911. Oggi, a Policara, la ditta Salvago ha chiuso i conti della fornitura di dinamite e capsule al Genio Civile per le demolizioni in Messina dal 4 febbraio 1909 ad oggi» scrive nel suo diaro la Corte Callier. «L’Ing. Ermes D’Orlando può andar contento! Esso ha distrutto Messina più del (terremoto del; N.d.A.) 28 dicembre, ed al Salvago (cognato dell’Ing. Capo Ghersi) ha fatto fare affari d’oro.» E non era finita, ché il curatore del museo, disperato, ricomincia con l’elenco di quello che non è stato ancora demolito e sta per esserlo: «Il R. Commissario è d’accordo per la distruzione di tutti i monumenti di Messina, ed io non so che fare» per frenare i «vandalici atti, al coperto dalla legge [...]. Mascalzoni!». «Cadevano così» riassume Principato «chiese rimaste intatte o perfettamente recuperabili come, per citarne alcune, S. Andrea Avellino, Anime del Purgatorio, S. Caterina Valverde,
S. Gregorio, S. Chiara, S. Maria delle Grazie, S. Maria Maddalena, S. Orsola, S. Pelagia, S. Giovanni di Malta.» Forse, bombardandola dal mare, come era stato proposto, si sarebbe risparmiato. «A dispetto dell’insolenza nazionale» scrive Longo, mentre «i soldati e gli ufficiali italiani, armati di tutto pugno, facevano sfoggio di autorità e di potere sopra le macerie», i marinai russi della Makarov che per primi accorsero, «pur di strappare alla morte un uomo, una donna, un bambino», perivano a volte nel crollo delle macerie (al loro sacrificio, alla loro umanità il libro è dedicato). «Vincoli di gratitudine perenne» la città contrasse con la Francia e la Germania, per l’aiuto pronto e generoso, l’invio di beni, spesso sottratti ai terremotati da chi doveva distribuirglieli (le autorità militari italiane); e con gli Stati Uniti, l’Inghilterra e i comitati italiani all’estero. Nell’immensa amarezza per quel che documenta, l’autore di Un duplice flagello attribuisce il comportamento delle autorità italiane al fatto che «le due Camere sono state in ogni tempo asservite ai signori del Settentrione»; e «l’opera di quaranta secoli distrutta in quaranta secondi» resta una tragedia «tutta siciliana, anzi tutta messinese», estranea «alla insipienza ed alla inettezza del Governo», forse per «quell’antagonismo feroce e bestiale, che i settentrionali hanno mai sempre allevato contro questa terra». Perché inviarono truppe «senza vettovaglie» e «uomini capaci di strappare il pane dalla bocca dei superstiti», non attrezzati ai soccorsi: «senza pompe, senza corde, senza picconi», ma con «diecimila fucili, diecimila baionette, un milione di cartucce e cento cannoni», che «arrestavano chiunque incontrassero sulle macerie col pretesto di furto perpetrato, ma in sostanza non arrestavano mai un ladro». Mentre «si videro le pubbliche autorità», è scritto in Il terremoto di Messina, «concentrare tutte le loro forze soprattutto nella ricerca di valori».
Alcuni corrispondenti raccontano di sciacalli giunti dalle città vicine, sorpresi e abbattuti sul posto. La famiglia del capitano di fanteria Munafò perì nel crollo della casa; scampò, ma incastrato fra le macerie, tranne la testa, solo un figlio di dodici anni, che vide giungere otto soldati e si pensò finalmente libero; ma quelli, insieme al portiere del palazzo, sopravvissuto pure lui, si dedicarono alla cassaforte, poi divisero fra loro gioielli, contanti e titoli di rendita e fuggirono lasciando lì il ragazzino. La cui testimonianza fu determinante per far arrestare i militari, mentre cercavano di vendere i titoli a Palermo. L’inviato del «Corriere della Sera» riferisce di un ufficiale fucilato mentre nascondeva sotto la divisa manciate di banconote. Il crepitio delle armi da fuoco («Quanta gente è stata fucilata e revolverata in questi giorni, fra queste macerie!» si legge nella corrispondenza del giornale milanese) era diventato la colonna sonora della città distrutta, oltre il lamento dei sepolti e dei feriti abbandonati sul molo, al freddo (era gennaio, tirava nevischio sullo Stretto), che morivano «a cento a cento» (Longo). Francesi e tedeschi sbarcano grandi quantità di farina, ma il comando generale italiano distribuisce ai superstiti del pane nero «in ragione di 800 grammi ogni tre persone e per tutto il giorno, mentre il pane bianco veniva sperperato e divorato dagli ufficiali e dai soldati» e quello che avanzava «lo mettevano in vendita». Le 24 grandi tende portate dai francesi (ma in tutto, gli aiuti internazionali ne faranno arrivare trentamila) vengono requisite dal colonnello Bellozzi «ad uso e consumo esclusivo di lui e dei suoi ufficiali»; soltanto una viene data ai terremotati, «ma la mattina del terzo giorno, i tenenti Caporaso e Usigli, con due caporali, tre soldati e un furiere, vennero a rilevare la tenda». Anche l’ultima! Un piroscafo statunitense arrivò a Messina per sbarcare aiuti, ma le autorità glielo impedirono; per non riportarli indietro, il capitano della nave accostò tre volte nei pressi,
facendo trasbordare i beni sulle barche che si avvicinavano. L’ultima volta, all’altezza di Ganzirri (sulla punta nord dello Stretto), dove il pescatore Giuseppe Burrascano raggiunse il bastimento, con la sua barca, caricò gli aiuti e tornò a riva: un tenente colonnello e una ventina di suoi uomini sequestrarono tutto, mentre il delegato di polizia (tale Vercelli) arrestava il pescatore e suo figlio, manco avessero rubato e non ricevuto in dono, riferisce Longo. Che poi fa un elenco di beni arrivati a Messina e non ai messinesi sopravvissuti: burro, strutto (tranne, una volta sola, 25 grammi a famiglia), patate olandesi, caffè, zucchero, frutti canditi, carne, tacchini, cioccolata, prosciutti, gelati, «ed il resto ve lo dirò poi», mentre un maresciallo della sussistenza vendeva, «come cosa sua», tendine e coperte di lana. Alcuni giorni dopo il disastro, il ministero delle Poste e Telegrafi aprì un ufficio, in un baraccone quasi sul molo, ma «non funzionava per il pubblico (a nessuno fu dato spedire un pacco e tanto meno riceverlo dai parenti lontani)», mentre i militari dei vari reggimenti spedivano alle rispettive famiglie «dai settanta ai cento pacchi al giorno» e «denaro – denaro – e sempre denaro, e la cui provenienza non poteva essere che una... una sola, e quella!». Longo si augurava di poter dimostrare tutto in tribunale, se mai si fosse giunti a un processo, anche solo per diffamazione, contro di lui. E contrapponeva il comportamento dei tanti inetti o disonesti a quello di «certi pochi uomini», i cui nomi «stanno scritti a caratteri indelebili in fondo ai nostri cuori», come quello del maggiore medico Farina, della Direzione di Sanità militare di Firenze («anima eletta di pietà»), interessato soprattutto alla sorte degli orfani, che aiutava in ogni modo («Che c’è buona gente? Che fate? Quanti bambini dormono qua dentro?», per distribuire in proporzione); o quello del «suo degno
successore», sottotenente medico Vito Ciaccio («buono, pietoso»). Si duole, Longo, di non essere riuscito a conservare i nomi di tutti gli onesti e provvidi soccorritori, come quelli dei sottotenenti Ciccarelli e Filippini, del tenente del 9° bersaglieri Torrebruno, Falsacapi e del capitano del 19°, Mazzoni, pare persino punito dai superiori «forse per essere troppo buono»; o degli «apostoli di carità» sottotenente di vascello Alberto Pezzi e tenente Pini. E fra le città che più si adoperarono per i terremotati, a parte Catania e Palermo, cita Genova «che ben ricordava ciò che Messina avea fatto» quando il colera imperversò in Liguria; e Milano, «la nobile, generosa e patriottica Milano» che più di ogni città italiana fece. Mentre Giuseppe Di Rosa, in 1908: Messina e Como – Profughi e orfani, racconta come la città lombarda soccorse e accolse messinesi in fuga dal disastro. Alcuni dei quali ripagarono Como arricchendola, poi, con il loro talento imprenditoriale o culturale. «Ma New York superò tutto e tutti.» Mentre durissime sono le accuse al presidente del Comitato di Soccorso, il sindaco di Roma, Ernesto Nathan, sull’uso dei milioni raccolti dalla solidarietà internazionale; e sulla gestione pubblica degli aiuti in danaro e beni (spesso distribuiti a possidenti, nobildonne, senatori, prostitute, amici e parenti), mentre si lasciavano «orfani e vedove senza suffragio e senza conforto»; e sugli appalti per la costruzione delle baracche, che il Genio Civile pagava 350 lire l’una e venivano erette in subappalto a non più di 105, 110 (mica solo a L’Aquila c’era chi rideva per gli affari del terremoto, all’ombra della Cricca); e peggio ancora i mutui per la ricostruzione delle case: «chiunque entro i sei mesi dalla data dello sgombero, non avrà fatto domanda di mutuo o almeno dichiarazione di voler ricostruire direttamente la propria casa, questa e l’area su cui sorgeva, passerà a proprietà esclusiva dell’Unione Messinese», un ente creato apposta per subentrare nei diritti altrui. «Fu così che
tanti persero, a Messina, pure quello che il terremoto aveva risparmiato. Ai superstiti, in quelle condizioni, si chiedeva di garantire i mutui, svolgere pratiche, sottoporsi a percorsi burocratici, in un caos totale, in tempi stretti, pena l’essere privati di tutto, a beneficio di pochi speculatori venuti da ogni parte d’Italia» racconta Donatella Rinaldo, ricercatrice universitaria. La sua era famiglia di importanti imprenditori, a Messina. E si vide sottrarre a quel modo le proprietà, che furono assegnate ad altri. I furbi e potenti «fecero incetta dei diritti a mutuo, essendo essi commerciabili», scrive Andrea Giovanni Bono, «finendo con il mandare in crisi non solo gli strati più poveri della società, ma pure i ceti medi e la piccola borghesia». Il terremoto distrusse la popolazione; la speculazione ne distrusse il tessuto e la struttura sociale; la politica distrusse l’economia, perché in un “clima di illegalità”, il ministro dei Lavori pubblici fece in modo che l’incarico della ricostruzione fosse assegnato a cooperative emiliane e romagnole, cui (solo dopo le proteste) si chiese di accordarsi con quelle locali (avete presente i lavori per la Salerno-Reggio Calabria?) I militari russi consegnarono alle autorità italiane un tesoro, venti milioni di lire (cifra enorme, per quel tempo), trovati fra le rovine del caveau di una banca; ad Arnaldo Cipolla, del «Corriere della Sera», due ufficiali dello zar chiesero a chi consegnare un cesto pieno di gioielli. Altre decine e decine di milioni in contanti, in titoli, in oro e pacchi di gioielli vennero alla fine recuperati. E ne fu erede, scrive Longo, «il Governo italiano» che da una parte garantiva la resurrezione di Messina, dall’altra le tolse «la manifattura dei tabacchi – il collegio e il Tribunale militare – le si tentò togliere la R. Università degli studi e si lasciò il suo Comune e la sua Provincia nell’arbitrio di applicare una miriade di tasse, alle quali non sapeano più
che nome dare». (Giovanni Cena, su Nuova Antologia, riferì lo scambio di battute fra un militare e una superstite: «Sapete, buona donna, che fucilano chi ruba?» – «Che vuole, recuperiamo qualcosa: questa era casa mia. Tanto si piglierà tutto il governo!».) Sembrava quasi che il governo italiano avesse colto l’occasione del disastro, per punire Messina, piuttosto che aiutarla. E, a ben guardare, il sospetto potrebbe non essere infondato, perché la rocca messinese, con quella di Civitella del Tronto, fu l’ultima a cedere all’assedio delle truppe piemontesi. La città aveva dimostrato, in maniera plateale, la sua disistima al nuovo governo, alle elezioni del 1866, l’anno in cui, fra l’altro, esplode in tutta la Sicilia, la rivolta del Sette e Mezzo (i giorni che durò), per la delusione di essere passati dalla scarsa autonomia sotto i Borbone, alla nessuna autonomia e alla miseria con i Savoia, che pure erano stati appoggiati, nella loro impresa di conquista. Su quanta ricchezza fosse sepolta sotto le macerie imperversarono stime: l’Austria valutò non ci fosse meno di un miliardo, forse più di uno (su ottanta dell’intera ricchezza nazionale!); economisti stranieri e italiani, fra cui Francesco Saverio Nitti, ridussero la cifra alla metà scarsa. Messina risorse per un carattere che fu il valore più grande salvato dai superstiti. Ci sono un paio di corrispondenze di Giuseppe Antonio Borgese, per «La Stampa», che sono fra le più belle pagine di giornalismo: raccontano la rinascita della città. Subito dopo la catastrofe, «i messinesi sparirono, abbandonando il loro suolo ai soldati, ai marinai e ai funzionari in missione speciale». Ma quando proprio sembrò che la loro città potesse morire, i sopravvissuti riapparvero: «vivono alla spicciolata, consci unicamente delle loro necessità individuali. Chiedono soccorsi, raccolgono vettovaglie, si fabbricano un alloggio» e, ottenuto il permesso di scavo, «esumano i loro parenti morti, frugano nel fango per
racimolare l’eredità». E tornano ad «agire come individui e cominciano a sentire come messinesi»: temono che le città vicine possano approfittare della loro sventura, criticano le autorità, «si dolgono che i forestieri – piemontesi o napoletani o romani poco importa – esercitino diritto d’imperio sulla loro città». E, per quella «solidità del legame che avvince l’uomo alla terra ove nacque e che nemmeno l’ecatombe, nemmeno la fame può sciogliere, finirete per commuovervi». Vero, anche per come lui lo racconta: che lezione! «Non mancano dunque né le autorità militari né le civili, non mancano i giornali né i comizi (ci furono elezioni tre mesi dopo il sisma ; N.d.A.) perché si possa parlare d’una città risorta. Mancano soltanto le case, le strade, le piazze.» Che faranno, ma non per resistere al prossimo terremoto: «la città ideale rimarrà ideale. Ed è così facile prevedere come andranno le cose, che quasi non vale la pena di prevederle». Infatti: non sorse la città antisismica, non si preferì il più elastico legno alla pietra, perché non solo i messinesi, ma noi italiani «preferiamo morire sotto il marmo, anziché vivere nel legno». È rinata come ha potuto, brutta e fragile, con meravigliose eccezioni. E il sentimento di quel che ha perso; e il sentimento di quel che la città non ha avuto, nel bisogno; di quel che non aveva avuto prima dall’Italia appena unita e addirittura le era stato tolto; lo stesso che accompagna l’ormai comica promessa nazionale del ponte sullo Stretto, che da mezzo secolo giustifica il non fare altre cose, nell’attesa che (non) se ne faccia una molto più grande (Nino Calarco, profeta del ponte, e Piero Orteca hanno potuto ripubblicare nel 2010, dopo ventisei anni, il loro Lo Stretto di Messina e gli scenari geostrategici del Terzo Millennio senza cambiare una parola!). Non è cosa nuova: il terremoto si abbatté sul «costrutto antico dell’opera del governo in cinquant’anni di regno: i pubblici servizi
inesistenti», riporta Mercadante. Almeno quello che non c’era, anche se avrebbe dovuto esserci, non venne distrutto. Sarà un’altra buona ragione per non fare il ponte, né tutto il resto? Non solo: l’Unità aveva condannato Messina a una feroce regressione economica e commerciale. La città nacque per essere un porto; di quello viveva, da lì traeva la sua ricchezza. E, nel sistema di protezione doganale borbonico (che permise una promettente espansione industriale), «Messina godeva del particolare privilegio del porto franco, che le aveva consentito un ruolo tra i più dinamici ed economicamente positivi», scrive il professor Pasquale Amato, docente di Storia contemporanea a Messina e a Reggio Calabria, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi . «La popolazione era costituita in massima parte da artigiani, da addetti alla piccola industria legata alle attività portuali, da un elevato numero di lavoratori portuali, da operai delle numerose fabbriche di derivati di agrumi, vini, tessuti di seta, pelli e pesce conservato, da una numerosa media e piccola borghesia industriale e commerciale e da una forte presenza di liberi professionisti, di impiegati e insegnanti». Messina era «fulcro economico di un sistema che coinvolgeva la propria provincia e le province attuali di Reggio e di Vibo Valentia». C’erano 161 filande di seta sulla costa calabrese dello Stretto, nel 1860 (sparirono, piano piano, dopo l’Unità, come il resto del comparto industriale del Sud); la produzione di essenze-base per l’industria profumiera poneva il porto messinese al centro di traffici con l’Europa più ricca, colta e moderna. Appena arrivati, i piemontesi imposero la loro tariffa doganale, come al resto del Meridione: il che comportò il declino dell’industria meridionale e della quantità di merci in transito per il porto siciliano; che, ancora peggio, smise pure di essere porto franco. La
depressione colpì l’intera area dello Stretto; su poco più di 105.000 abitanti (allora), Messina perse, ricordo, 33.000 posti di lavoro! La città dello Stretto era l’unica in cui la maggioranza del corpo elettorale non era composta da votanti per diritto di reddito, ma da professionisti, commercianti, piccoli e medi imprenditori, borghesia artigiana. E alle votazioni del 1866, per protesta, elesse deputato Giuseppe Mazzini (che mai era stato nella città di cui diveniva rappresentante): ineleggibile, perché condannato a morte dal Regno di Sardegna (noto per aver giustiziato più patrioti italiani dell’Austria). Per due volte il risultato delle votazioni fu annullato dalla Camera; per tre volte Messina rielesse Mazzini, la cui nomina fu infine convalidata. Ma lui la rifiutò (rubo al professor Amato una interessante osservazione, in proposito: a chi, in Parlamento, sostenne che la sentenza contro Mazzini non era valida, perché gli stati preunitari non esistevano più, la maggioranza liberal-conservatrice obiettò che l’argomento era vero per tutti gli altri ex Stati, meno quello dei Savoia, «di cui il Regno d’Italia era da considerarsi un’espansione territoriale». Per chi ancora avesse qualche dubbio). Nello stesso anno, 1866 (forse qualcuno intuì che la città aveva ragioni per dolersi), Stefano Jacini, ministro ai Lavori pubblici, propose la costruzione di un ponte sullo Stretto. Eccolo là! Mi sa che comincio a capire il (ri)sentimento messinese. Provo a riassumere: la sua rocca resse sino all’ultimo e i suoi difensori, invece dell’onore delle armi, ebbero gl’insulti dell’omicida di professione Enrico (Caino) Cialdini; appena annessa all’Italia, vide il porto declassato e sfiorire le industrie di cui era perno; per cinquant’anni, il nuovo governo la ignorò e quando il terremoto la distrusse, mandò i bersaglieri a fucilare i superstiti e a rubare gli aiuti (mentre si celebravano i 50 anni dell’Unità: Prezzolini propose di utilizzare
per i soccorsi le cifre disposte per i festeggiamenti). Oggi (celebrazioni in corso dei 150 anni dell’Unità), da almeno un altro mezzo secolo prendono in giro la città e lo Stretto con la storia del ponte. E adesso, pensatevi messinesi. La città c’è, ma non somiglia a quella che era. «Messina,» aveva scritto nell’immediatezza del disastro Ugo Fleres «la Messina vera, la Messina nostra è stata e non sarà più: la Messina ventura sarà un’altra e sarà di altri.» E così è andata: i sopravvissuti che, in forza del loro carattere, fecero rinascere la città, non riuscirono, per insufficienza demografica e non solo, a salvare quel carattere (figlio di una storia e un’attitudine secolare a industria e commerci) da un nuovo terremoto: la calata di funzionari pubblici, immigrati, speculatori da tutta Italia. I quali «operavano con mentalità da “conquistatori” e “sfruttatori”» spiega Andrea Giovanni Noto, nel suo bellissimo Messina 1908. I disastri e la percezione del terrore nell’evento terremoto . Molti vennero dai centri rurali, nel raggio d’un centinaio di chilometri (usi e teste lontane da quelli di una città che il porto e gli scambi, di ogni tipo, aprivano al mondo); decine di migliaia erano «funzionari in missione, per la ricostituzione degli uffici» e tanti «mediocri impresari e trafficanti di origine settentrionale». Ne derivarono «depressione», «sciattezza del tono sociale», «un certo provincialismo». «Città collusa e spenta» me la descrive Maurizio Castagna, attivo in movimenti autonomisti siciliani. «A ereditare Messina fu una classe parassitaria, collusa con il nuovo potere. Mentre in tutto il Mezzogiorno questa complice accettazione di subalternità fu lenta, qui il fenomeno ha una data: 28 dicembre 1908, il terremoto. Persino dopo il disastro, il porto rimase uno scalo importante, poi... e ora è solo di passaggio: ci si arriva per andare altrove. Di questo si vive e di posto pubblico, rendita edilizia; tutto si lascia scorrere e
finire, come non appartenesse alla città. Nell’indifferenza (un crimine, in una città di mare) si è persa un’eccellenza, i cantieri Rodriquez, passati da 800 a 20 dipendenti.» Castagna dedica tutto il tempo che gli lascia libero il lavoro di preparatore atletico e docente universitario di Scienze motorie, ai temi storici, economici, sociali del Sud, ma in particolare della Sicilia («Credi che qualcuno abbia fatto qualcosa per la soppressione dell’ennesima linea ferroviaria, la Canicattì-Siracusa, un anno fa? Tutti zitti. Non c’è una linea tra Agrigento e Siracusa e comunque arrivare dallo Jonio all’interno della Sicilia vuol dire compiere un viaggio di 7, 8 ore, terrificante! Da Gela, la martoriata Gela, nessuno si azzarda più a prender treni per la costa orientale, men che meno per quella occidentale e settentrionale. Credi si preoccupi qualcuno che se atterri dopo il tramonto, a Catania, non c’è un pullman che ti porti in città, sino alle 5 del mattino dopo: o dormi lì o ti sveni con il taxi? Credi che...?»). L’acquisita conoscenza della costante mortificazione del Sud, a beneficio della parte più ricca e prepotente del Paese ha mutato gli orientamenti politici di Castagna. È poco interessato, ormai, agli schieramenti ideologici; solo alle cose che si fanno o non si fanno; e come. Era partito da destra, «ma ora ho una visione sociale molto diversa: l’unico strascico ideologico che mi porto dietro è quello relativo alla socializzazione dell’economia e del lavoro, dei commerci e della moneta. Dopo un’esperienza da volontario in Afghanistan, fra la gente che vive in condizioni spaventose, ho capito che non esistono destra e sinistra, ma centri di interesse che usano alcuni popoli per opprimerne altri» dice. «Non rifarei quel che ho fatto, per una errata comprensione del sistema.» E non è affermazione da nulla, nel suo caso: il suo nome era nell’elenco trovato con il memoriale di Aldo Moro, nel covo delle Brigate Rosse, in via Montenevoso, a Milano,
quale membro di Stay Behind, quella Gladio, formazione paramilitare segreta e anticomunista, creata dall’Alleanza atlantica. Medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo di Smirne, nei duecento metri delfino, quarto ai campionati del mondo di gran fondo (anni dopo, recordman di resistenza in piscina: 26 ore), aveva 22 anni, quando fu avvicinato dai servizi segreti, a Napoli, dov’è nato (solo da 15 anni è a Messina, la città di suo padre). «Ci addestrarono per anni; ci portavano in un aeroporto in pullman oscurati, come gli aerei con cui ci trasferivano in una base militare segreta: all’italiana, s’intende, ché al ritorno, i piloti caricavano in cabina casse di Cannonau di Alghero. Insomma avrebbero fatto prima a dirci che eravamo a Capo Caccia. In tanti anni, mai visto un’arma. Non mi era chiaro a che pro tutto quell’addestramento, senza mai essere impegnati, nemmeno per un’azione dimostrativa. Poi, temo di averlo capito: siamo stati usati, per coprire una sezione sporca. Vincenzo Parisi, allora capo della Polizia, era mio zio; si chiese (ad alta voce) come mai le BR, in possesso di documenti all’epoca esplosivi per il Sistema Atlantico, li avessero tenuti nascosti, invece di divulgarli! (Se ci fai un pensierino anche tu...). Ci dissero che eravamo dei galantuomini; invece fummo galanfessi.» Si capisce che la cosa ancora lo disturba; ma la disillusione non gli ha fatto passare la voglia di impegnarsi, di fare. La formazione meridionalista nata da destra, Insorgenza (ma in cui trovi pure degli operai di incazzatissima sinistra di Pomigliano), gli sta stretta: «È più importante il risultato, di chi lo ottiene» dice. Collabora con ogni sorta di gruppo impegnato nel sociale in Sicilia, come il “Muovi”, a Palermo, guidato dal giovane avvocato Marcello Capetta (sorto da sinistra, con la Rete di Leoluca Orlando: «Un lavoro straordinario nei quartieri più difficili»); Fonso Genchi, che propose l’istituzione di un reddito di cittadinanza da attribuire ai più indigenti, con una moneta alternativa, lo Scec, finanziata
dalla solidarietà e spendibile nei negozi convenzionati; o “La Sicilia ai Siciliani”, che Fonso Genchi anima, con il catanese Santo Trovato e l’avvocato Roberto La Rosa di Palermo («Per il Giro d’Italia, sull’Etna, organizzarono una cosa bellissima, con le nostre bandiere. E ora parte un cineforum informativo e itinerante, per tutta l’isola»); o le iniziative di “Aria Nuova” e “Sciatu”, di Paolo Scicolone, a Gela (ex Insorgenza, pure lui), «e di tutti i siciliani contro l’impero multinazionale che ruba la nostra energia e avvelena la nostra gente, privando zone fertilissime dell’acqua potabile». Partecipa alle manifestazioni, organizzate da chiunque, per l’applicazione integrale dello Statuto speciale dell’isola; aiuta l’avvocato Fabrizio Palmieri, dell’Associazione culturale Demetra, che si spende «per il popolo di via Palermo, a Messina; una strada lunghissima, intorno alla quale gravita una comunità trascurata, in difficoltà»; sostiene Identità Mediterranea. Con l’Mpa, il movimento per l’autonomia della Sicilia, dice che stabilirà rapporti, solo quando il suo leader e fondatore, Raffaele Lombardo, presidente della Regione, irromperà, come suo diritto, nelle riunioni di governo, per votare, con pari dignità. Lo ascolto e riconosco, nella sua esperienza, quella di tanti di analogo percorso, da destra, da centro, su temi meridionalisti; o da sinistra, come Antonio Ciano, Beppe De Santis (e molti altri), il primo ex comunista, poi fondatore del Partito del Sud, di cui è segretario il secondo, dopo essere stato dirigente della Cgil, organizzatore dell’Mpa di Raffaele Lombardo. Un po’ degli strascichi ideologici restano, ma gli uni e gli altri si incontrano in quell’area comune del “che fare?”, ove tutti convergono. Il muro di Berlino è caduto e questo ha rivelato l’altezza (prima sottaciuta) del muro di pregiudizi e politica squilibrata, in Italia, fra Nord e Sud. Sotto quel muro si addensa ora un popolo consapevole, sempre più indifferente al colore dei picconi.
«Messina non sa cos’è stata, per questo è così. E non fu il terremoto a farle questo» continua Castagna, mentre mi riaccompagna a Catania, in aeroporto (E “questo”, è ben descritto da Andrea Giovanni Noto: «un’intera comunità per molti secoli laboriosa e dinamica, divenuta da quel giorno, al contrario, sempre più distratta, infiacchita, indifferente, immemore della propria tradizione e dei propri destini, incapace di “scandalizzarsi”»). L’ambizione di Castagna e di molti è recuperare la memoria, per farne strumento di ricostruzione sociale, arma politica; con cui rivendicare diritti: «In forza dello Statuto, il presidente della Sicilia dovrebbe partecipare al Consiglio dei ministri, quando si tratta qualunque cosa riguardi l’isola; in Sicilia dovrebbero restare le tasse per le attività economiche che producono valore qui (tanti miliardi di euro da rendere autosufficiente l’isola; N.d.A.); quando c’era il Banco di Sicilia, per legge, i depositi bancari non potevano uscire dall’isola...». Avvenisse, forse Nettuno tornerebbe a dare le spalle al mare: fino al giorno del terremoto, la statua del dio, sulla fontana del Montorsoli che il Senato della città fece costruire nel Cinquecento, era in porto e, volta verso la città; il dio le tendeva il braccio quasi, fu scritto, nel gesto di donarle il mare. Dopo il sisma, la fontana fu riedificata dinanzi alla Prefettura, ma con la statua del dio fronte-mare, a cui tende il braccio, quasi a difendere, da quello, la città. A destra l’Etna è ancora imbiancato sino a metà di neve e, dalle bocche in su, dal fumo della colata in corso; a sinistra, il verde cupo dell’Aspromonte, sull’altra sponda, sembra quasi ombra, sa di mistero; in mezzo, la maestralata tesa tiene basse ma crestate le onde, e dà al mare quel colore elettrico, smaltato, che mette paura ma affascina (a patto di starne
fuori...). Dio, quant’è bello ’sto posto! Castagna mi saluta due volte: «Ciao»; e poi, «Antudo, semper!», che sta per Animus Tuus Dominus: il coraggio è il tuo signore. Era il motto dei Vespri siciliani, 730 anni fa («Ormai, l’hanno imparato anche gli irlandesi e i catalani, con i quali siamo in contatto da sempre, nell’ideale di un’Europa dei popoli, diversa da questa, dei banchieri e dei finanzieri»). Okay, Antudo!
39 SOLUZIONE VESUVIO
«Forza Vesuvio!»: brucia, bruciali. Impuniti e sempre più numerosi gli inviti alla pulizia etnica rivolti al vulcano di Napoli, da autorevoli fratelli d’Italia. Educati da cotanto esempio, fioriscono su Facebook i gruppi che invocano il disastro. Salvatore Lanza, segretario dei neoborbonici, li colleziona e mi gira l’elenco aggiornato. Rinuncio a leggerlo: troppo lungo. Provate a immaginare cosa succederebbe negli Stati Uniti, per analoghe esortazioni: «Forza Mississippi, “pulisci” New Orleans!», «Forza Katrina, annega quei negri!». Nel Paese del bunga bunga, abbattuto il muro della vergogna, tutto si può. Per l’editorialista Oscar Giannino, una bella eruzione del vulcano di Napoli risolverebbe l’emergenza monnezza; suggerimento non originale, avendolo già proposto l’iperleghista umanitario Mario Borghezio. E persino per il presunto e sedicente ex genio della Protezione Civile, Guido Bertolaso, l’eruzione del Vesuvio «non sarebbe una disgrazia»: gli auguro di trovarsi a ridosso del vulcano, per controllare l’esattezza della teoria. Nemmeno il terremoto dell’Aquila lo era, per alcuni allegri tifosi della Protezione Civile.
Ormai, credo di averlo imparato: quando parlano così, ci dev’essere di mezzo un affare. Allora, comincio a chiedere: cosa succede se il Vesuvio erutta davvero? Ops..., c’è un piano. Della Protezione Civile. Prevede l’evacuazione di circa 600.000 persone, da distribuire in tutt’Italia, soprattutto al Nord: nutrirli, alloggiarli... Un sacco di soldi. Una ventina scarsa di popolosi comuni da svuotare completamente, per trasferirne la gente verso le Alpi, ma anche giù a scalare, sino in Sicilia. Il progetto è del 1995 e si dovevano avviare gemellaggi fra le cittadine a rischio abbandono e quelle che dovrebbero accoglierne gli abitanti. Mai fatti. Nel frattempo, un imprenditore campano, Vincenzo Coronato, obiettava: se questo esodo avvenisse, da un giorno all’altro, l’intera economia della regione vesuviana verrebbe annullata. «Almeno 400.000 persone sarebbero trasferite al Nord» spiega. «Trasferite con i loro beni mobili, i conti correnti, le loro professionalità... Dopo 25 anni di Confindustria, nutro il cattivo pensiero che la cosa sia programmata anche per poter disporre, a buon prezzo, di competenze specializzate. Senza contare che l’ospitalità agli evacuati offrirebbe possibilità di accesso a fondi europei e nazionali.» Come dire: il danno qua, i vantaggi là. Coronato osservò: la Campania ha circa 5,7 milioni di abitanti, 4,5 dei quali concentrati nel 25 per cento del territorio, sulla costa fra Salerno e Castelvolturno; il restante 20 per cento della popolazione, sparso sul 75 per cento del territorio interno, dove ci sono decine di paesi disabitati o quasi. Perché non far defluire lì, poco lontano da casa, la gente da evacuare? I costi si abbattono, lo sradicamento non avviene e, nei limiti imposti dal fenomeno vulcanico, le attività economiche potrebbero essere continuate. In più, invece di prevedere l’intervento di circa 16.500 uomini, di varie Armi ed enti, di un centinaio di navi, di aerei, treni, gli evacuandi si muoverebbero da soli, con le proprie auto, considerato che
nella zona ce ne sono 2,5 a famiglia: i tragitti da percorrere sarebbero modesti e si sfrutterebbe la viabilità esistente. Con intenti analoghi, l’Associazione Progetto Vesuvio propone addirittura (ne riferisce lo scrittore Raffaele La Capria) la fondazione di una città per 600.000 sfollati, a ridosso della zona vulcanica: al sicuro, ma non lontano. «Senza contare» avverte Coronato, nel riferirmi di questo suo piano «che il progetto della Protezione Civile contiene un errore madornale: non può pianificare l’uso del territorio; spetta alla Regione. La Protezione Civile può intervenire solo in caso di catastrofe imminente o appena avvenuta.» L’idea di Coronato, nel 2006, viene proposta dalla Confindustria di Caserta alla Regione. Nell’ottobre 2008, la Regione la fa propria e, alla voce “Rischio Vesuvio”, fissa due principi inderogabili: 1) il consenso della popolazione; 2) che non va evacuata oltre i confini regionali. È anche sorta una Fondazione, di cui fanno parte fior di professionisti, per pungolare le autorità; ma sono passati già tre anni e null’altro è stato fatto: non i gemellaggi (eppure, questa volta, i paesi sono vicini!), non le esercitazioni. Ma, soprattutto, non è stato comunicato alla Protezione Civile che, ove mai il vulcano esplodesse, bisogna intervenire con il piano della Regione. Quindi, ove mai..., che succede? «La Protezione Civile ha il suo piano; e la Regione il suo. Nessuno dei due è stato sottoposto a verifica. Che possiamo dire? Speriamo non succeda niente...» Speriamo..., ché ’sti leghisti, quando augurano sventure portano male. Il 27 marzo del 1997, Irene Pivetti, ex presidente bossiana (poi defenestrata) dalla Camera dei deputati (cristiana, cristianissima!), suggerì di ributtare a mare gli albanesi che attraversavano il
canale d’Otranto su natanti precari. Poche ore dopo una imbarcazione albanese, la Kater I Rades, fu speronata dalla nostra nave militare Sibilla: 108 poveracci finirono in fondo al mare.
40 LE BANDIERE DI CASALDUNI E PONTELANDOLFO
Il paese rimosse i simboli del nuovo potere savoiardo e il tricolore e ripristinò quelli borbonici e la bandiera duosiciliana. I bersaglieri rasero al suolo il paese e sterminarono gli abitanti che non erano fuggiti. Casalduni, 149 anni dopo, ricorda (come ogni anno, da qualche anno) il massacro che subì insieme a Pontelandolfo, appena più in alto, oltre la gola e la cascata dell’Alenta, che li divide. Questa volta, lo fanno invitando l’autore di Terroni a parlare del libro in cui viene narrata la strage, ignota alle pagine dei libri di storia (le vergogne si tacciono. E le colpe: «Il male» scrive Corrado Alvaro in L’uomo è forte «sono le cose che si fanno di nascosto»). «Guardate che non vengo, se continuate a fare commemorazioni separate, voi e Pontelandolfo!» avevo minacciato, per la contesa ultrasecolare che oppone i due paesi: il secondo ritiene il primo responsabile della rappresaglia piemontese (i bersaglieri, malcondotti dal tenente Bracci e in fuga dagli abitanti di Pontelandolfo, furono uccisi da
quelli di Casalduni); entrambi, per ordine del macellaio generale Enrico Cialdini, vennero distrutti; restarono in piedi solo tre case; le altre furono date alle fiamme, con la gente dentro; non si sa quante le vittime: centinaia? oltre mille? di più? Dopo le esecuzioni in massa, gli stupri e il saccheggio, su ottomila abitanti, si contarono tremila profughi. Degli altri non si sa. Mi assicurano che troverò “tutti” all’incontro nel castello ducale che sovrasta l’abitato. Già entrando in paese, una teoria di bandiere tricolori, decine e decine, decora la strada che lo attraversa e conduce al maniero. Tante, ma proprio tante! Be’, ti credo, viene da pensare: dopo quello che gli è successo, l’ultima volta, che ne hanno tolta una... L’orgetta tricolore continua nel castello, e fuori, e sotto la grande rupe spaccata, dove avvenne l’eccidio dei bersaglieri e c’è la lapide: «Casalduni ai Casaldunesi: Dall’alto del Maniero vedeste il fuoco lambire il mio corpo / L’odore agre spandersi e raggiungere i comuni compagni / Il nero del fumo ridipinge il mio profilo. / Non ci furono lacrime di dolore ad ingrossare le acque / del fratello Lente / ma solo rabbia, tanta rabbia / si pregò nella chiesetta di San Rocco / ed ebbi la consapevolezza di aver scritto / una pagina di storia e di libertà perduta». (Emblema e sintesi di quanto avvenne, per anni, in tutto il Sud; e ancora non si sa quante furono le vittime. I conteggi vanno da un minimo di 100, 140.000 a molte centinaia di migliaia. In nome della libertà. Come il rapporto, si direbbe, del generale Westermann, che a fine Settecento domò la Vandea: 350.000 morti su 500.000 abitanti: «Non esiste più la Vandea, cittadini! È morta sotto le nostre spade libere, con le sue donne e i suoi bambini [...] Non ho un prigioniero da rimproverarmi».) Prima di entrare nel torrione, cerimonia dell’alzabandiera: un’altra! La tromba intona il silenzio. E potevano mancare le bandiere giusto nella sala della conferenza? Infatti, non
mancano. Qualcuno potrebbe vedere, nell’esagerazione, una (nemmeno tanto) sottile corbellatura; invece è l’entusiasmo sincero di Nicola Bove, presidente della pro-loco; lo stesso cui si deve parte del lavoro di ricerca sulla storia del massacro, ma soprattutto la sua divulgazione in paese, poi nei paesi attorno, infine in trasferta, con il gruppo folk della proloco. Per dedicarsi a questo, ha abbandonato, appena ha potuto, la sua attività di mobiliere. Il professor Enzo Gulì, uno dei relatori, esponente dei neoborbonici, alla fine non se la tiene: «Vabbe’, ma una bandiera duosciliana potevate mettercela!». «Mah, sai» replica Bove «per evitare polemiche... (moderna forma di rappresaglia, se vogliamo; N.d.A.). Ormai siamo tutti italiani». «Questo è fuori di dubbio,» insiste Gulì «ma quella è pure la nostra storia, mica la possiamo cancellare. Siamo italiani e “napolitani”.» «Italiani, napolitani e di Casalduni» interviene il sindaco locale, Raimondo Mazzarelli «e di Pontelandolfo» aggiunge subito, rivolto al vicesindaco ospite, Ferdinando Guerrera, per assicurargli che non intendeva escluderlo. Già, perché c’è pure lui (il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, è convalescente). Insomma, più il discorso si allarga, più la patria si restringe, e aumentano le bandiere, le ragioni inconciliabili e quelli che hanno ragione. Perché hanno ragione, ognuno a modo suo, come fai a negarlo? Siamo nel giorno del ricordo e della riconciliazione: un modo per uscirne bisogna trovarlo. E lo si trova; questo: la prossima volta, le bandiere devono esserci tutte, dai gonfaloni dei comuni a quella del passato, a quella del presente, a quella europea, «perché siamo di Casalduni, di Pontelandolfo, “napolitani” (non “napoletani”), italiani ed europei». Se m’invitano di nuovo, mi porto quella dell’ONU, non si sa mai. E scopro che sto solo riciclando un’idea vecchia, quando, incuriosito, chiedo cosa indichi lo stemma al centro
della bandiera delle Due Sicilie. Mi ritrovo con una dotta spiegazione di Domenico Iannantuoni (cui si deve il Comitato No Lombroso, contro il museo che lugubramente espone, a Torino, teste di meridionali) e un libro di Silvio Vitale. Siamo abituati a considerare una bandiera per i suoi colori. E un vessillo sembra raccontare, nella sua sintesi estrema, un’idea comune a un popolo, tanto che i calciatori della nazionale francese si chiamano “i Blu”, quelli italiani “gli Azzurri”, dal colore di casa Savoia. È come se le bandiere rendessero eterno il presente in cui un popolo e una nazione si riconobbero tali. Il che cancella il prima e trasmette l’idea che quel popolo e quella nazione furono sempre tali. Una bandiera così concepita impone un’identità: l’ultima, quella che ha vinto. E forse è quanto deve fare. Forse. In quella duosiciliana campeggia, invece, un trattato di storia: ogni potere che si sia steso sul Sud, da quando divenne uno Stato unico, viene ricordato con l’insegna di chi lo esercitò. La banda rosso e argento in campo azzurro è dei normanni: uno di loro, Ruggero, dal 1130, fu il primo re del Paese meridionale; l’aquila nera su fondo d’argento è degli svevi, che lo ressero dal 1194 al 1266, quando subentrarono gli angioini, rappresentati da gigli d’oro in campo azzurro, sormontati da un rastrello e da una I che incrocia una H, fra quattro croci; ma, nel 1282, in seguito ai Vespri siciliani, l’isola passa agli aragonesi, che si presentano con fasce rosso e oro e aquile sveve, a indicare l’unione fra le casate; nel 1442, gli aragonesi succedono agli angioini anche a Napoli; dal 1502 al 1707, con la Spagna unificata dal matrimonio fra Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona (quelli delle caravelle a Cristoforo Colombo), il Sud d’Italia viene interamente riportato alla sovranità ispanica dalle armi di Gonsalvo di Cordova e lo si riassume nello stemma in cui s’affastellano torri, leoni, bande rosso-oro, aquile e una rosa, a rappresentare tutte le casate coinvolte (non per
nulla c’è pure la scritta: «Tanto monta» fa lo stesso; come dire: sempre robba nostra è). Su tutto si stese, poi, l’imperio di Carlo V, che fu sovrano di ogni regno e delle appena scoperte Americhe, il che comportò uno stemma di spaventosa complicazione, considerato che ogni possedimento e casato doveva comparirvi; attraverso lui, il Paese meridionale passa agli Asburgo e poi ai Borbone che, dal 1734, avviano la dinastia napoletana e duosiciliana (l’isola sarà prima data ai Savoia, che nel 1720 la scambiano con la Sardegna) e saranno loro, con i gigli, a restare sino al 1861. La bandiera del Sud non rimuove la memoria dei predecessori, ma la ostenta come arricchimento: al centro, i gigli su campo azzurro dei Borbone delle Due Sicilie, ma, intorno, gli stemmi di tutte le casate e relativi popoli, che in più di sette secoli si fusero: di Castiglia e di Leon, di Borgogna (Antica e Moderna), di Aragona e Aragona di Sicilia, di Granada, Portogallo, Fiandra, Anversa, Brabante, di Angiò e Angiò Gerusalemme, e Asburgo, Farnese, Medici, più il medagliere che indica gli Ordini. Insomma, se sapevi leggere la bandiera, conoscevi la storia del tuo Paese. E, forse per non perdere il vizio, Nicola Bove, nel logo della pro-loco del suo paese, ha voluto inserire la scritta: «Casalduni, 14 agosto 1861 – Hic est locus», per dire: è qui che successe. Il nostro tricolore ha il pregio della semplicità, ma cancella tutte le splendide diversità di cui l’Italia è la somma, invece di menarne vanto. Diciamo che ci sono bandiere che ricordano e bandiere che dimenticano. I discorsi, mentre sembrano alleggerirsi sulle bandiere, sono intensi, veri. È passato tanto tempo, ma bastano i toni a capire quanto la ferita resti profonda, e quanto pesi il discutibile privilegio di essere nella storia, per averla subìta. E ancor più pesa l’essere dimenticati, ignorati.
Ma rievocare un comune dolore induce alla pacificazione. E il momento arriva: parla il vicesindaco di Pontelandolfo: «Noi consideriamo gli abitanti di Casalduni nostri fratelli» dice. È fatta! La cosa è più seria di quanto il mio tono faccia intendere. L’antagonismo fra le due comunità esisteva già prima che la strage le accomunasse e le dividesse ancora di più. Colpa della Madonna del Carmine. Se ne rinvenne un’immagine subito ritenuta miracolosa, disgraziatamente a metà strada fra i due paesi; ed entrambi ne rivendicarono il possesso. La cosa rischiava di finire male; ci si accordò un attimo prima del peggio, «lasciando fare alla Madonna» (lassa fa a’ Maronn ). E ai buoi: nel senso che si caricò l’immagine sacra su un carro a cui furono aggiogati dei buoi, liberi di dirigersi dove volevano. La loro scelta avrebbe indicato quella del cielo, che non avrebbe certo lasciato al capriccio di due ruminanti una decisione così delicata! I buoi volsero su Casalduni. La presero male a Pontelandolfo. Il patto impone che il paese preferito ringrazi la Vergine, celebrando ogni anno e degnamente l’avvenimento; la prima volta che non lo facesse, la sacra immagine passerebbe di diritto all’altro borgo. Non solo la storia e il sangue, pure la devozione alla stessa Madonna li divide! Bove, da cinque anni, a scopo conciliatorio, ha «inventato una tradizione»: il palio della Madonna. Una squadra di Pontelandolfo e una di Casalduni si contendono il carro su cui è un gonfalone con la copia dell’immagine sacra contesa: chi riesce a spingere il carro oltre la linea di confine conquista il diritto, per il proprio paese, a custodire il gonfalone per un anno. Ma Pontelandolfo non ha mai vinto. La Madonna proprio non ne vuol sapere di andarci? Capisco meglio, ora, le facce dei sindaci e degli abitanti degli altri paesi, ugualmente invitati e presenti (Ponte, Campolattaro, Fragneto Monforte, San Giorgio del Sannio...; ma
con loro non ci sono contenziosi, né di sangue, né di santi), quando il vicesindaco di Pontelandolfo ha detto «consideriamo fratelli» quelli di Casalduni. C’è anche il rappresentante del Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; potrà riferire, in sede nazionale, che dopo soli 149 anni, i due paesi eccidiati si sono finalmente riconosciuti figli della stessa storia. Addirittura fratelli (del Sannio, Italia). Chi pensasse che quale primo passo verso la nascita di una nazione non è poi molto (i comuni italiani, riconciliati i primi due, restano un po’ più di ottomila...), sbaglia: l’incontro più difficile è quello con i vicini. Dal Piemonte, avevano accettato l’invito a recarsi a Casalduni, prima di quelli di Pontelandolfo. Ma l’anno dopo, 2011, 150° anniversario dell’Unità, fra i due paesi sembra tornare la guerra fredda: a Casalduni non c’è nessuno di Pontelandolfo, quando viene commemorata la strage, con due settimane d’anticipo (mentre da Torino giunge Diego Robotti, della Sovrintendenza archivistica del Piemonte e della Valle d’Aosta); a Pontelandolfo, il 14 agosto, non invitano quelli di Casalduni, ma interviene il presidente del Comitato per le celebrazioni del 150° anniversario, Giuliano Amato, che porta un messaggio a lungo atteso, da un secolo e mezzo: «A nome del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di storia». Con lui c’è Achille Variati, sindaco di Vicenza, la città di Pier Eleonoro Negri, il colonnello (allora) dei bersaglieri che condusse la mattanza. Domanda perdono. Da mezzo secolo il Comune di Pontelandolfo chiedeva all’Italia il riconoscimento di città martire del Risorgimento. Mai nessuno, da Pertini a Napolitano, si era degnato di rispondere. Alla fine, nel 150°, il sindaco di Pontelandolfo l’aveva fatto da sé, con un suo
atto ufficiale. Aveva pure scritto al suo collega di Vicenza, che ogni anno, a nome del popolo italiano, depone una corona d’alloro dinanzi alla lapide che celebra le imprese di Negri, pluridecorato eroe del Risorgimento, prima medaglia d’oro nella storia del corpo dei Bersaglieri. Gli era stato risposto che quando dal ministero diranno di smetterla... Alla fine, l’Italia, per bocca del suo presidente (Napolitano di fatto e di nome) ha parlato. La colpa è stata ammessa, il silenzio rotto. Dimenticando Casalduni. C’è chi cerca la ragione di questo, forse politica (centrosinistra Pontelandolfo, centrodestra Casalduni); o il peso del sangue (il massacro grande fu a Pontelandolfo, dove il sindaco si allontanò sapendo, si sospetta, e non avvisando; mentre a Casalduni il sindaco avvertì i compaesani, che lasciarono in massa il paese, tranne gli increduli, i fiduciosi e i malati: tutti uccisi); o la competizione per conquistare il ruolo-guida quale santuario della memoria ritrovata. Se tutte queste ragioni contano, contano poco, rispetto a un’altra: Casalduni è spesso stata più attiva, accogliendo con minor prevenzione i risultati delle pionieristiche ricerche di storici non professionisti, come Antonio Ciano (partito del Sud) e alcuni neoborbonici e no, che hanno riscoperto e riproposto la verità sulle stragi; mentre altrettanto faceva, a Pontelandolfo, Renato Rinaldi. E proprio a quest’opera condotta al di fuori dell’Accademia e contro le reticenti versioni ufficiali si deve, innegabilmente, la conquista e la diffusione di una consapevolezza divenuta, negli ultimi anni, talmente incontenibile, che mentre ancora alcuni tentavano di soffocarla, deriderla, il vice direttore del «Corriere della Sera», Pierluigi Battista, invitò Giuliano Amato (e, indirettamente, la Presidenza della Repubblica) a recarsi nei paesi eccidiati. Lo si è, infine, fatto, ma in modo da controllarne gli sviluppi e non rischiare di riconoscere meriti a chi è sospetto (a torto, prima o poi capiranno pure questo), di scarsa fede unitaria (per la partecipazione del presidente Napolitano al meeting
di Comunione e Liberazione a Rimini, riferisce Adolfo Morganti, editore de Il Cerchio, in un incontro in piazza, in Veneto, è stata posta la condizione che nessun libro critico sul Risorgimento fosse presentato o messo in vendita nel corso del raduno. Lo si legge in un articolo di Giovanni Vinciguerra su Identitàeuropea.it). Detto questo, Napolitano ha l’obbligo della prudenza, persino dell’inutile eccesso di prudenza, per i doveri che il ruolo gli impone. Il suo messaggio a Pontelandolfo resta: è la fine del silenzio. Il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, il 3 agosto aveva ricevuto, dal suo collega di Reggio Emilia, Graziano Delrio, copia del primo tricolore, accompagnata da queste parole: «Se giustizia non può essere fatta, perché i tempi sono troppo lontani, si può dire che 150 anni sono sufficienti per chiedere scusa per l’enorme lutto che fu arrecato ingiustamente». «Non siamo stati terra di briganti, nel 1860» ha poi detto Testa ad Amato. E la frase può essere intesa in molti modi. Ma se la rappresaglia venne ordinata dal macellaio Ciadini, fu perché popolo e “briganti”, anche a Pontelandolfo, rimossero tricolore e insegne sabaude. E sembra così strano lo abbiano fatto? Il paese che non aveva mai visto, sino a pochi mesi prima, quei soldati che parlavano spesso un’altra lingua, il francese, in nome di un re sconosciuto, facevano guerra senza averla manco dichiarata, si dicevano fratelli e agivano da conquistatori. Cosa c’è di così pericoloso a dire una verità banale, come questa? Davvero la si teme tanto da doverne ancora prendere le distanze, distorcerla alla convenienza politica dell’oggi? Il sindaco di Pontelandolfo ha comunque fatto bene, benissimo, perché ha ottenuto un
risultato importantissimo; ma che il ricordo della strage sia stato diviso a metà lascia un amaro sapore: abbiamo ancora paura di parlarne con piena apertura, di ascoltare e far ascoltare chi è sospetto di un passo di troppo in avanti o indietro. Poco male, vuol solo dire che il tempo ha ancora del lavoro da fare. Ma il gesto più importante è stato compiuto. Anche Pontelandolfo, come Casalduni, grondava tricolori il 14 agosto 2011. E va bene: abbiamo un Paese e quella è la bandiera. Ma non avrei lasciato quelle del Regno delle Due Sicilie nelle mani dei neoborbonici che le sventolavano. Le avrei messe io, per dire che nessuno è escluso e che quelle bandiere rappresentano una parte della nostra storia; così come avrei messo quelle del Leone di San Marco in Veneto: il tricolore è l’oggi, è quel che siamo; le altre sono quel che fummo, perché far finta che non esista il passato che ricordano e ci appartiene? È una ricchezza, un sapere e una consapevolezza in più, non un pericolo. Sì, il tempo ha ancora del lavoro da fare; e speriamo di averne a sufficienza. La cerimonia, a Pontelandolfo, si è svolta in piazza Concetta Biondi, una delle più giovani vittime della strage: la memoria rinchiusa negli archivi e nella cattiva coscienza comincia a scendere nelle strade, si appende alle targhe sui muri. Dell’incontro ha scritto sul «Corriere della Sera», Gian Antonio Stella, vicentino pure lui. Il sindaco Variati, rientrando a casa, riferiscono miei colleghi veneti che mi chiedono un commento, ha detto che aver appreso come stanno le cose, impone di riflettere e decidere di conseguenza, perché a Pier Eleonoro Negri sono dedicate una strada e una scuola, nella sua città. Non so come andrà a finire, ma è bello ascoltare un parlare onesto. Questo è lo spirito con cui, a Nord e a Sud, dovremmo cominciare a leggere la nostra storia. La stretta di mano fra i sindaci Testa e Variati vale più di mille monumenti. Così, potremo, magari senza furbatine forse necessarie, ma penose, serenamente sfogliare anche le pagine che riguardano
Casalduni, Campolattaro, Misilmeri, Gioia del Colle e le decine e decine di paesi trattati come Marzabotto da truppe che agivano così in nome dell’Italia, contro altri italiani: «pe llà è passata ’a storia d’a nazione / fino a ’u paese e nomme Casalduni / Quanno ’na notte senza nu pensier’ / venettero a fa’ fuoco i bersaglieri » cantano I Trementisti, con Tu nunn o saje chello che è ’o passato, di Fabrizio e Duilio Cusani. Ed è una canzone di oggi. E, per altrettanta onestà, dovremo indurci a giudicare quegli scempi non con la più felice sensibilità di oggi, ma ricordando che quello fu un secolo feroce (cui fece seguito “il secolo delle stragi”) che vedeva nelle idee “sbagliate” un ostacolo intollerabile per il futuro dell’umanità; e meritorio, eroico era eliminare quelle idee, eliminando gli uomini che le sostenevano (come sapete, su presupposti del genere, è stato fatto anche di peggio, prima e soprattutto dopo). Così, forse, riusciremo davvero a ricostruire il percorso del fiume di sangue versato al Sud, all’ombra del tricolore. Che almeno, quel sangue, dopo tanto tempo, ci unisca, come Testa e Variati a Pontelandolfo. Senza aver paura delle parole, delle idee altrui (magari, cercare di capirle, prima di rifiutarle, aiuta) e dei raffronti: la sostanza dei fatti non muta, se diversa è la ragione che li genera. Più volte e più di uno, sul «Corriere della Sera», critica il paragone fra Marzabotto, in Toscana, dove i nazisti, per rappresaglia, massacrarono, seviziarono, poi incendiarono il paese; e Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, dove i bersaglieri italiani, nel 1861, per rappresaglia, massacrarono, seviziarono, poi incendiarono il paese. L’accostamento è stato visto come sacrilego: Marzabotto/Pontelandolfo, nazisti/bersaglieri. Ma né l’uno, né l’altro paragone sono miei: – il primo è riportato da Paolo Mieli, due volte direttore del «Corriere della Sera», che il
14 aprile 2003 risponde a un lettore sulle stragi del Risorgimento e cita il libro Indietro Savoia, di Lorenzo Del Boca (presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti), cugino dello storico Angelo: «...e, sulla scia di un’osservazione fatta qualche tempo fa da Giovanni Russo (altro editorialista del «Corriere della Sera» ; N.d.A.) nota: “Pontelandolfo fu una specie di Marzabotto, un atto di vandalismo senza motivo e senza giustificazione; però la storia di Marzabotto fa parte del patrimonio di memoria collettiva... mentre di Pontelandolfo sanno la gente del posto e il suo sindaco”. Sono d’accordo con Del Boca» conclude Mieli che, con Giovanni Spadolini, è il giornalista che più si sia dedicato alla nostra storia e con incontestabile obiettività; – il secondo paragone è tratto da un classico di decenni fa: La conquista del Sud, del grande Carlo Alianello: «Finiamola di definirci i “buoni” d’Europa, e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, piemontesi. Perciò smettiamola di sbarrare gli occhi, di spalancare all’urlo le bocche, a deprecare violenze altrui in questo e in altri continenti. Ci bastano le nostre, per sentire un solo brivido di pudore. Noi abbiamo saputo fare di più e di peggio». C’è da aggiungere: e prima. Ho qui un elenco di 80 paesi, cittadine, casolari che patirono, o probabilmente patirono, insulti “risorgimentali”. Non di tutti esistono documenti che vengano dagli Archivi di Stato. Spesso, le fonti sono gli stessi rapporti di militari, o le storie locali, raccolte da volenterosi ricercatori; o, persino tramandate oralmente. In molti casi, gli archivi comunali da cui si dovrebbero attingere le notizie non esistono più. Bruciati. In alcuni casi, non esistono più nemmeno i paesi: mai rinati. È concepibile che ci siano vuoti di memoria così grandi nella
storia di un Paese? Che in 150 anni non si siano ricostruite le vicende, pur brutte, che hanno coinvolto e sconvolto un terzo d’Italia, decine di centri abitati? Che, almeno, Pontelandolfo sia l’inizio.
41 MUSEO LOMBROSIANO
Sono venuto meno al primo dovere di un cronista: non sono “andato sul posto”; ero già lì e non ho fatto l’ultimo passo. Non ho scuse, eppure ho ragione. Hanno riaperto il museo di Torino, in cui sono esposte le prove che il professor Cesare Lombroso raccolse, per dimostrare che i meridionali sono delinquenti nati e il calabrese è il delinquente perfetto. Queste prove sono resti umani di italiani del Sud, crani che dimostrerebbero, nell’indifendibile confessione dei loro tratti, l’innata propensione al delitto; spesso accompagnata da limitatezza intellettuale prossima alla demenza e, ove in presenza di accidentale genio, genio criminale. Di queste sciocchezze si è nutrita una branca della “scienza” che ha poi dato giustificazioni allo sterminio nazista di ebrei (e Lombroso era ebreo!), zingari, omosessuali, malati mentali. Il sapere non sembra mai innocente, perché il suo uso può essere colpevole; figurarsi quando nasce colpevole... Ci sono state proteste contro il museo. È stato obiettato che non si dovrebbe chiederne la chiusura, perché si limita a mostrare come erano espresse e sostenute teorie discutibili, oltre un secolo fa.
E che ne dite di un museo del Risorgimento, a Napoli, con teche contenenti teste sabaude e la dicitura: “Bersagliere stupratore del Nord”? Non ricordo di aver visto, in Gran Bretagna, musei in cui gli scolaretti possano istruirsi, rimirando crani di irlandesi cattolici e terroristi. Perché la stessa sensibilità non c’è per i meridionali? Lombroso condusse due grandi (vabbe’...) indagini: sul perfetto criminale (al Sud, specie Calabria) e sul cretinismo perfetto (in val Padana). Perché è esposta al museo (fra le tante anonime) la testa di un calabrese, Giuseppe Villella, a riprova della genetica delinquenza meridionale e non c’è un cranio di cretino padano con nome e cognome? Se non sono riusciti a identificarne uno, fra quei crani, potrei suggerire qualche nome, escludendo, per burocratiche complicazioni di asporto cranico da vivente, teste (volendo esagerare...) ancora in giro sulle spalle dei legittimi detentori. Cosa direste se a Potenza (dopo aver avuto, come l’Università di Torino, 5 milioni e mezzo di euro dalla Commissione per le celebrazioni dell’Unità d’Italia), esponessero “crani di cretini padani”, solo per documentare gli studi del Lombroso trascurati da altri musei, si capisce? Il professore cedette i suoi resti alla scienza. L’autopsia fu condotta (per disposizione testamentaria) dal genero, professor Carrara. Il cervello viene «analizzato alla luce della teoria del rapporto tra genio e follia» si legge in La scienza infelice, di Giorgio Colombo. «Cosa il Carrara vi abbia riscontrato, non si sa.» Ma Domenico Iannantuoni, promotore del Comitato No Lombroso, per la chiusura del museo, riferisce del necrologio del professor Pio Foà, in morte del Lombroso, che riporta alcuni risultati dell’autopsia: il peso del cervello risulta inferiore alla media; e «sembra che
il cervello sia piuttosto ricco di pieghe di passaggio», che Lombroso e la sua scuola ritengono frequenti nell’alienato e nel criminale. Ecco, Reggio Calabria potrebbe chiedere in prestito al museo Lombroso, la testa del sor Cesare, ancora conservata in un contenitore di vetro, in modo da poterla esporre, in un museo adeguato, a riprova della validità della tesi sul calabrese delinquente per nascita, secondo le teorie di un tale che aveva un cervello inferiore alla media e con le caratteristiche “pieghe di passaggio” del cretino e del criminale. L’uno e l’altro: lo vedi che Lombroso era un genio?
42 GLI SPOSTATI
Sulla giacca ha un rosone (visto il diametro...) che lo dichiara membro dell’Associazione degl’italiani di Västerås; sul risvolto, il bicchiere che lo segnala sommelier; sull’altro risvolto, un vassoietto che dovrebbe attestare la sua appartenenza a non so quale congrega alimentare (olearia?). Il suo italiano è sicuro, ma non ergonomicamente, considerati gli spigoli. Gentile, efficiente, sicuro: l’Italia, per lui, è una passione trasformata in professione; guida svedesi e norvegesi in Italia alla scoperta di vini e alberghi; e italiani in Svezia e Norvegia a proporre vini e alberghi. Si chiama Peer ma, per tutti è Pierino. Anche la sua famiglia inclina verso l’Italia (la sorella ha vissuto a Roma). Non prende, da Stoccolma a Västerås, la via più breve, «per farti vedere qualcosa di bello». Mi hanno chiamato per Terroni, cento chilometri più a nord di Stoccolma! E bello è questo scampolo di Paese grande il doppio del mio e con un sesto della popolazione. Gli italiani sono un numero imprecisato, qui, da migliaia a decine di migliaia, secondo come li calcoli: appena arrivati, oriundi, di seconda generazione, di lontana origine... Ma, per quanto ridotta, dal tempo e dalla lontananza, la quota di appartenenza
sembra rivendicata come primaria. E dico di una mia sensazione, forse sbagliata (nel caso, me ne scuso): sono “italiani” per gli svedesi; ma, fra di loro, ancora settentrionali e meridionali. E tendono a ricordare e rappresentare, all’estero, solo (o quasi solo) la loro parte del Paese d’origine: comprensibile ma, sotto sotto, conflittuale. Sbaglio? O, forse, è solo un modo, non so quanto consapevole, per dirsi protagonisti di una diversa emigrazione, qualcuno per scelta, altri per bisogno. Un po’ lo vedi nelle loro storie (lunghe anche trenta, quarant’anni e più, fra questi laghi): l’emiliana venuta per insegnare, perno e motore della voglia d’italiano degli svedesi; e il campano venuto a fare ogni genere di lavoro precario, o riesco o schiatto, mentre frequenta l’università, perché si è innamorato di una svedese; e diviene uno dei più importanti specialisti scandinavi in una delicata branca della medicina. L’argomento preferito della prima è la norvegese Oslo, bella, ci sono i suoi nipoti (e solo per questo, malignano affettuosamente i vicini); del secondo, è la casa sul Tirreno, fra Gaeta e Capua, mentre la moglie svedese tace (e chissà se acconsente) al suo fianco, mora che più mora non si può. Entrambi rientrano periodicamente nel luogo da cui si allontanarono, ma per la prima quello sembra soltanto il luogo da cui è partita; per l’altro, quello in cui tornare, prima o poi, mentre una vita in prestito scorre altrove, qui; ma qui è dove sono nati i figli, per i quali la casa sul Tirreno è solo il posto delle vacanze di papà; i nipoti, poi, vorranno andarci? Il luogo mai abbandonato, nell’anima, diviene piano piano quello dei ricordi, e forse del rimpianto. Peer li osserva, comprende e tace (il suo lavoro è un misto intelligente di convivialità e discrezione): sono persone molto attive, determinate, con capacità di iniziativa che li rende preziosi e rispettati. Ma quella vena silente ogni tanto li fa sentire provvisori dove sono
stabili e radicati in un altrove che li vede ormai frequentatori occasionali. Sempre fuori posto. La nostalgia dura quanto il ricordo. E come te ne accorgi! C’è mezza giornata di vacanza, in attesa dell’aereo per rientrare in Italia. E Peer mi mostra quel che può della sua Stoccolma: siamo in tempo per il cambio della guardia a palazzo reale; non quello solito, è un vero e proprio spettacolo, dura un’ora. Affascinante, poco comprensibili le evoluzioni in piazza dei reparti, però la maestria della banda militare e le fantasiose marce sono ipnotiche. Ma... e gli svedesi? Come te li aspetti i guerrieri eredi dell’epopea vichinga: alti, biondi, occhi chiari, con divise e ritualità militare che a stento contengono un’aggressività primordiale e... che faccio, continuo? Be’, manco uno: altezza media, e pure meno, sazie tracce di dieta grassa e generosa birra; il maestro-giocoliere che precede e governa la banda con lo scettro è il più simpatico: botolotto, faccia da schiaffi e valgismo che inganna (e dai, non ha i piedi piatti!). Quasi tutti bruni, qualcuno (e qualcuna: truppa mista) olivastro, mediorientale, sino al black is beautiful. Io sarei della generazione vissuta nel mito delle svedesi nude, libere, bionde e alte, che nascevano top model e invecchiavano solo il giorno prima di morire. Dev’essere cambiato qualcosa, ultimamente, da queste parti. Quella stirpe di dee e dei (avete presente gli Abba?) erano da esportazione: esaurita nei depliant turistici e nei film post Sessantotto. Ma accidenti come suonano! Noi, il loro pubblico, siamo di tutto il mondo (quasi come loro, verrebbe da dire), incluso cinesi, arabi e altri meno riconoscibili. E mentre questi splendidi musicisti travestiti da soldati sfilano davanti, mi scappa un «Bravissimi!». Uno di loro, senza voltare la testa, gira lo sguardo verso di me, accenna, mi sembra, a un sorriso. No, davvero? Lo seguo con gli occhi, mentre le loro file si sdoppiano, si incrociano e
ricompongono. Eseguono inni, marce, roba militare, ma bella. Poi, accade qualcosa: si ricompattano e lenti, lentissimi, avanzano verso il lato aperto della piazza, con la reggia alle spalle. Poche note, all’inizio, molto scandite da una elegante danza di bacchette sui tamburi; poi la musica cresce, il rullio di più, una marcia mesta che prende corpo e spazio, ma con il ritmo che si avvia a divenire rombo e gioia... Mi guardo intorno: ci sono figli di tante culture e latitudini ad ascoltare, ma come me impietriti, per la sorpresa e l’emozione. Suonano gli Abba; e accidenti come! Non ci sono alberi qui, ma ci fossero, le foglie, per cadere, aspetterebbero la fine della musica, per non disturbare. Però finisce, se ne vanno. «Siete bravissimi!!» urlo mentre il soldatino di prima mi passa davanti: un’occhiata furba, un cenno del capo che potrebbe essere un grazie, il petto si allarga fiero. Allora è vero! Ciao, paisa’, io torno a casa.
43 E MO’, MI DICI CHE FARE!
«Io non capivo perché ai meridionali tocca stare sempre, come dire?, un passo indietro; mi dava fastidio, ma mi ero abituato, campavo tranquillo. Poi ho letto il tuo libro e ora ho una rabbia... Non sapevo nemmeno che avessero fucilato tanta gente al mio paese. E mo’, però, me lo dici!» «Dipende... cosa?», chiedo all’uomo che mi blocca, mentre sto per andar via, dopo due ore e mezzo di Terroni e domande. Non è solo: c’è un gruppetto di persone, con lui, tutti maschi, non giovanissimi, con l’aria dei creditori (non è una battuta, è proprio quel che sembravano). Era tanto tempo che non tornavo a Taranto; è sera, siamo appena usciti dal palazzo del Comune, nella piazza del Castello Aragonese, con il ponte girevole davanti, la rada chiusa dalle isole Cheradi a destra, le due colonne residue del tempio greco a sinistra. La sera è fresca, avrei voluto far due passi: subito dopo il ponte girevole c’è la redazione de «La Gazzetta del Mezzogiorno», dove cominciai a fare il giornalista, 41 anni fa. E, invece, il tizio mi blocca: «Mo’ mi dici che fare». Non servirebbe a niente dirgli: «Non sono un guru, ma un giornalista, uno scrittore, ho
qualche idea, e potrebbe essere sbagliata». Cerco di capire sino a che punto è disposto a tradurre quella veemenza in azione. Non ha tempo, lavora (e non basta) ogni minuto che può, i suoi amici assentono; sono nelle stesse condizioni: «Di ’sti tempi...». E da me che vuoi! Ma la voglia di fare sembra vera, potente. E strozzata. In quei momenti ti accorgi che non puoi sottrarti alla responsabilità del libro scritto; per loro, hai preso un impegno, gli devi una risposta. Che è una bella pretesa, se qualcosa vuoi fare, ma non ne hai il tempo. Non solo dovrei dirti che fare (e già questo...), ma trovarti pure il tempo! «Le ferie ce l’hai?» chiedo. «Poche.» «Un giorno all’anno lo puoi bruciare?» «Non esageriamo, pure qualcuno in più.» «Allora immagina che ogni giorno, 365 giorni all’anno, un bel numero di meridionali aspettino l’amministratore delegato delle Ferrovie sotto casa o davanti al suo ufficio, con cartelli, striscioni, slogan, per ricordargli che pure il Sud è Italia e vorrebbe prendere il treno e pure dal Sud lui acchiappa i soldi che spende solo al CentroNord; o davanti al ministero delle Finanze, ad aspettare Tremonti (o chi uguale a lui, dopo di lui), con tabelloni che fanno i conti dei miliardi di euro di fondi per le aree sottoutilizzate destinati al Sud e spesi al Nord; 365 giorni all’anno: “Restituisci il maltolto!”; o davanti a palazzo Chigi, a Montecitorio, con tabelle sulla destinazione degli investimenti pubblici, le disparità di infrastrutture fra le diverse aree del Paese: 365 giorni all’anno.» «Cioè non lavoriamo più?». «I Comuni meridionali sono circa 2.500; se tutti si impegnano a protestare così un giorno solo, a turno, a ognuno toccherà farlo una volta ogni sette anni circa; ma per sette anni, 365 giorni dell’anno, ci saranno manifestazioni di meridionali contro le discriminazioni a danno del Sud. Se solo metà dei Comuni aderisse, toccherebbe una volta ogni tre anni e rotti. Ma anche se si impegnassero soltanto gli abitanti del 15 per cento delle cittadine del
Mezzogiorno, si tratterebbe di sacrificare un giorno di ferie all’anno. Hai detto che un giorno lo puoi bruciare, no?» «Con internet, Facebook non dovrebbe essere difficile costruire ’sta cosa», dice uno di loro. E si allontanano. «Che gli hai detto... Ora si scateneranno» commenta il libraio che mi accompagna. Mi guarda, capisce: «No?». «No.» Lo farebbero se avessero un capo. Nessuno di loro lo era; nessuno voleva esserlo. «Come fai a dirlo?» «Se avessero voluto fare, l’avrebbero fatto; senza chiederlo a me.»
44 IL TRENO DEI SOGNI (ANCHE GLI INCUBI LO SONO)
Lo conosco e posso permettermi di rimproverarlo, amichevolmente: sei imprenditore, produci beni di gusto e di lusso che, per la prima volta, in questi ultimi anni hanno visto una espansione del proprio mercato, al Sud, e non li porti alla Fiera del Levante, a Bari? Mi risponde di averci provato, ma ha dovuto rinunciarvi. Non potendo recarsi in auto da Napoli a Bari (ragioni sue, serie, pur se temporanee), aveva deciso di andarci in treno: «Magari non ce n’è uno superveloce, come fra Milano e Roma, ma uno decente dovrei trovarlo, mi sono detto». Invece, ha scoperto che fra Napoli e Bari, le due maggiori città del Mezzogiorno, non ci sono collegamenti ferroviari diretti: devi prendere un locale per Caserta e aspettare una coincidenza per Bari; oppure per Benevento e aspettarla lì. E pensare che, in agenzia viaggi, gli avevano detto: «Mo’ è tutt’a posto» perché la frana di Montaguto, la più grande d’Italia, dicono (in movimento da decenni, con direzione e velocità note) che aveva invaso la ferrovia Napoli-Bari, era stata rimossa, dopo mesi di
proteste e di isolamento della Puglia, alla vigilia della stagione turistica (unica regione a far registrare indici d’afflusso di forestieri in vacanza invariabilmente positivi, negli ultimi anni. Provate a immaginare se una frana annunciata da anni e ad avanzamento lento e prevedibile avesse bloccato i treni fra Milano e Rimini e i presidenti delle Regioni Lombardia ed Emilia Romagna, le Associazioni industriali, i sindaci delle città danneggiate avessero dovuto protestare per mesi, prima di ottenere la rimozione dei detriti e il ripristino della circolazione ferroviaria). Fattisi i suoi conti, il mio amico imprenditore (anche al Sud il tempo è denaro) ha calcolato che la durata del viaggio, in treno, sarebbe stata eccessiva, tanto da rendergli non conveniente la trasferta: è un artigiano di grande qualità e tradizione ultrasecolare, noto in Italia e all’estero, ma la conduzione della sua azienda è poco più che familiare, come da solida inclinazione nazionale. «Così,» mi racconta «ho deciso di andarci in aereo, da Napoli a Bari. Be’, la buona notizia è che si può fare; la cattiva è che bisogna fare scalo a Venezia. E non ti dico quante ore ci vogliono. Insomma: meglio il treno. Cioè, per me, meglio niente. Ci ho rinunciato.» La Fiera del Levante di Bari ha perso uno stand di prestigio; il mio amico un’occasione di porsi in una vetrina adattissima alle sue cose belle, adattissime al tipo di visitatori della Fiera del Levante. «Lo so» mi dice «ma io il mio tempo lo devo far fruttare. A parità di impegno, mi conviene New York o Milano: ci arrivi più facilmente e non rende meno.» Cosa succederebbe se le due più grandi città del Nord, non avessero collegamenti diretti, o la linea restasse interrotta per mesi, alla vigilia dell’Expo, per una frana così ben conosciuta, che si poteva calcolarne decenni prima l’ora di arrivo sui binari? Le frane sono puntuali; mica le gestiscono le Ferrovie dello Stato!
Se questo avviene fra le due maggiori città del Mezzogiorno, immaginarsi il resto. I meridionali il treno lo pagano come gli altri, ma non lo prendono, perché non c’è; e se c’è, non conviene prenderlo: lo fareste voi, se la stessa azienda offrisse, allo stesso prezzo, medie di 200 chilometri all’ora ad alcuni dei suoi clienti e di 25 chilometri all’ora ad altri? (e anche su “lo stesso prezzo”, ci sarebbe qualcosa da dire: salgo sul Frecciarossa da Roma a Napoli, 44 euro, seconda classe, per poco più di 200 chilometri; qualche giorno dopo, sono sul Frecciarossa Roma-Padova: 66 euro, per più di 500 chilometri: il treno verso Sud costa più di 20 centesimi a chilometro; verso Nord, 13). È una faccenda che mi spiegava il professor Domenico Cersosimo, economista dell’università calabrese di Arcavacata: il problema degl’imprenditori meridionali non è riuscire a raggiungere i mercati internazionali, ma quelli vicini a casa. Il Sud non riesce a essere cliente di se stesso, per l’impossibilità o la non convenienza del trasporto delle sue merci. Provateci voi a far arrivare a Reggio Calabria un vestito fatto a Foggia, o ad Avellino: treni niente (ce n’è qualcuno, ma finto, messo apposta per far scrivere lettere di protesta degli utenti, nelle apposite rubriche dei quotidiani, grazie a un accordo fra giornali e Ferrovie, per far godere Bossi); superstrada jonica in costruzione da oltre mezzo secolo (attraversa i paesi costieri: è per il turismo di meditazione, non per i trasporti); e la Salerno-Reggio Calabria, la cui percorrenza fra un po’ sarà imposta, causa sovraffollamento delle carceri, come pena sostitutiva del 41bis (ma solo per reati molto, molto gravi, perché la tortura è vietata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Si potrà farlo lo stesso, soltanto perché, e questo non è uno scherzo, il nostro è l’unico Paese europeo a non prevedere il reato di tortura; del che approfittano le Ferrovie dello Stato, al Sud). E però, io ho tempo e da Bari a Napoli (c’è un dibattito su Terroni al Technologybiz,
grande fiera sulle innovazioni tecnologiche) decido di andare lo stesso in treno: così, invece di guidare, posso lavorare in viaggio. «Capisco tutto, ma forse ti fai condizionare troppo dall’orologio» dico al mio amico imprenditore. «E se anche devo fare scalo a Caserta (cioè andare più a Nord di Napoli e poi prendere una coincidenza per tornare indietro), non fa niente». In quella mezz’oretta scarsa di attesa in stazione, magari mangio qualcosa (sui treni veloci a Sud non trovi i ristoranti, i bar, che rendono più confortevoli i viaggi ad altre latitudini nazionali). Tanto, ho già il “titolo di viaggio”, come dicono loro (ma non si chiamava biglietto?). Sì, ma a Caserta il treno non c’è: «È stato soppresso» dice il bigliettaio. Come soppresso? E io, mo’ come vado a Napoli? «E mica non ce ne stanno più! Il primo che parte...» Già, peccato che non abbia tanta fretta di farlo, e che sia un locale che ferma anche dinanzi ai chioschi delle limonate; e che io rischio di arrivare tardi al Technologybiz, pur essendomi mosso la mattina. Sono nei guai: bella figura, per uno che pensava di potersela prendere comoda! Mi telefona il mio amico imprenditore: «Sei già qui?». Gli spiego la faccenda. E la mia fortuna è che il suo impedimento automobilistico, nel frattempo, sia stato superato: viene a prendermi e riesce a farmi approdare nella sala dove mi aspettano, giusto in tempo. Mi secca dargli ragione, ma non foss’altro che per gratitudine... Con Rino Lettieri (nessuna parentela con il candidato sindaco battuto da Luigi De Magistris), Bruno Uccello è l’ideatore e organizzatore del Technologybiz: «Ho vissuto sei anni a Bari e dovevo tornare spesso a Napoli. Della latitanza ferroviaria fra le due città so tutto». E te la spiega. Dice (ma davvero?) che il problema sono i locomotori capaci di superare l’Appennino: non ce ne stanno. Cioè: ci stanno, ma non a Sud. E, non portandoci i
locomotori, non si fa neanche la linea diretta e tocca adattarsi a un lungo giro. I cinesi sono stati più fortunati: non hanno avuto la strada sbarrata dall’Appennino, gli è capitata solo la catena montuosa più alta della Terra, che fora il cielo con l’Himalaya. E grazie a questo vantaggio geografico, hanno potuto costruire una linea ferroviaria che corre sui ghiacciai eterni e sale a 5.072 metri, sino a Tanggulla, la stazione ferroviaria più alta del mondo. Troppo facile, così. Ci provassero con l’Appennino fra Napoli e Bari, i cinesi; e con un tal Moretti a capo delle Ferrovie... Non so se, come il mio amico napoletano che ha disertato la Fiera del Levante dissuaso dalle Ferrovie, c’è stato qualche imprenditore barese che ha disertato il Technologybiz per lo stesso motivo. Di certo, questi ostacoli diventano mentali, ti abitui a considerare “lontano” quello che non è, ma lo diventa. Con una metafora bella, Giorgio Ruffolo ha titolato il suo libro sull’Italia Un paese troppo lungo, che diventerebbe più corto se ci fossero strade, ferrovie e aeroporti decenti ovunque: la lunghezza non si misura in chilometri, ma in tempo. A Sud tutto è lontano da tutto, tranne il Nord. Il Technologybiz, mi informa Uccello, si tiene nell’area delle antiche Vetrerie Borboniche, poi diventato uno stabilimento della Federconsorzi, per produrre fertilizzanti, e ora Città-Museo della Scienza. Tutto intorno, il silenzio di quello che fu lo stabilimento siderurgico dell’Italsider. Chiuso pure quello. Dinanzi, il mare; un villaggio di un paio di centinaia di pescatori; il resto, dove fervevano l’industria e la cultura industriale di Napoli, vuoto. Ci vuole coraggio per fare una fiera dell’informatica e delle tecnologie più avanzate qui! «Ci vuole coraggio pure per farla avendo soltanto sponsor privati» dice Uccello. «Lo Smau di Milano è finanziato dalla Regione Lombardia; noi dobbiamo fare tutto da soli, senza un euro di soldi pubblici; siamo appena nati, nel 2009, ma valiamo già un quinto della
fiera milanese.» Uccello e Lettieri erano nel campo da oltre venti anni, hanno chiesto di essere sostenuti al buio a Ibm, Microsoft: «Le garanzie? La faccia, il nome e l’esperienza». Gli hanno detto sì; e, con quelle, altre 33 aziende il primo anno, 45 il secondo. Qualche settimana dopo, i deputati del Pd organizzano una presentazione di Terroni; al tavolo, fra i relatori, c’è Sergio D’Antoni, l’ex sindacalista. Quando il discorso finisce sull’insulto antimeridionale delle Ferrovie (del Centro-Nord, abusivamente dette) dello Stato, lui spiega come stanno le cose, con una storiella (a me sembra stufo di battaglie perse e questa delle Ferrovie pagate da tutti, ma dimentiche e persino nemiche del Sud, deve ormai apparirgli come la più inutile): «Un tale prende il Frecciarossa da Milano a Roma: nella toilette trova carte per terra e arriva a destinazione con 15 minuti di ritardo. Blocca il capotreno e protesta, per la sporcizia e il tempo perso. Un altro sul Frecciarossa BolognaNapoli, organizza una raccolta di firme contro le Ferrovie, perché la toilette nella loro carrozza era guasta (le altre no) e il ritardo è di oltre mezz’ora! Il treno da Torino a Palermo viaggia con la gente in piedi, seduta per terra nei corridoi, tutte le toilette fuori uso e senz’acqua, e quando giunge a destinazione, con ore di ritardo, un signore, imbestialito, cerca il capotreno per aggredirlo a male parole, chiedere risarcimenti... “Muuutu!!”, zitto, lo implorano alcuni compagni di viaggio, “sennò ci tolgono pure questo treno!”». Abbiamo riso tutti, amaro. A volte, le barzellette dicono più di un’inchiesta. Altre volte, la anticipano: poche settimane dopo, in estate, il viaggio della barzelletta Torino-Palermo era su tutti i giornali, vero. Non ha riso nessuno: una indagine di «Altroconsumo» ha rivelato che tutti i treni da Torino a Palermo arrivano in ritardo: 100 su 100; e sul «Fatto», Ferruccio Sansa racconta le 21 ore di viaggio sul Torino-Reggio Calabria, 1.600 chilometri, 44 fermate, senza «uno straccio di bar, di carrello per il cibo» e i bagni «lerci, senz’acqua e
sapone, i water turati». Solo l’attitudine alla sudditanza (sud/distanza?) impedisce agli utenti meridionali delle Ferrovie dello Stato Nemico, di tirare giù dalla sua scrivania l’amministratore delegato dell’azienda e condannarlo a viaggiare sui “suoi” treni nel Mezzogiorno.
45 IL SUD CHE PERSE IL TRENO
Ma che, di nuovo delle ferrovie nel Regno delle Due Sicilie? Me lo chiedono, è il dibattito che segue il convegno, che faccio, non rispondo? Siete stufi di sentirne parlare? Sapeste io! Sono appena 150 anni che ci raccontano che il Sud era arretrato, perché aveva un decimo delle linee ferroviarie del Nord; non c’è articolo, conferenza, libro di editorialisti e dotti docenti, meridionali e non, di inclinazione, come dire...?, padan-ferroviaria, in cui non si usi questo dato come risolutivo. E, ogni volta, tocca dire del Borbone che punta, con la flotta, sullo sviluppo delle più ampie ed economiche vie del mare piuttosto che sul treno. Una sera, in Calabria, all’ennesimo intervento del genere, ma diluito in un tempo che parve eccessivo, il moderatore pregò di venire al dunque; ottenne una reazione sdegnata dell’offeso, abbandono della sala e urla di intollerabile censura (è successo pure a una conferenza dello scrittore Mimmo Gangemi; e pare sia sempre lo stesso). Qualche giorno dopo, su un giornale locale, si potevano leggere le prove, inconfutabili, dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie: un decimo delle ferrovie; serve dire altro?
Chi non ne può più, salti queste pagine. Io non posso (ho già preso l’anticipo dall’editore). Quindi, tema: Allora com’è la storia delle ferrovie duosiciliane? Svolgimento: quando arrivarono i piemontesi, nel 1860, «c’erano nel Regno delle Due Sicilie 130 km di linee operative», copio da Le costruzioni ferroviarie nel Sud dal 1843 ad oggi, di Angelo Mangone, edito da «Tecniche&Economie» dell’aprile 1987. Angelo Mangone deve saperne qualcosa, perché ha scritto anche L’industria del Regno di Napoli 1859-60. Naturalmente ci dice che prima nacque la Napoli-Portici, nel 1839 (il resto d’Italia, per vedere un treno doveva andare all’estero) e che nel 1845, la Napoli-Capua era già a doppio binario. Non solo, ma i treni, i napoletani, se li facevano da soli. Mangone, però, ci dice pure che, al momento dell’Unità, quei 130 chilometri di linee già operative non erano i soli: ce n’erano altri «132 km (fra cui la Capua-Presenzano-Ceprano e la SarnoMercato S. Severino) in avanzata costruzione, talché furono aperte al traffico pochi mesi dopo l’annessione». Come dire che i nuovi venuti si limitarono a inaugurarle. E quel decimo, rispetto allo sviluppo ferroviario del Nord, diventa un quinto, quasi un quarto. Che cambia? Poco. Un poco che è il doppio, però. «Era inoltre praticamente avviata la costruzione di tre linee da Napoli: per Brindisi (attraverso la Basilicata), per Bari (via Avellino), e per Pescara, secondo uno schema radiale che avrebbe determinato una proficua integrazione delle regioni meridionali.» Di nuovo: che cambia? Cambia che quel poco (il famoso decimo della vergogna) è il doppio, e, però, più un altro poco. Ma, soprattutto, cambia lo scopo per cui erano costruite le ferrovie: il Borbone mirava a innervare tutto il Sud, collegandolo con la capitale; i nuovi venuti fermano quei progetti e ne avviano altri, isolando Napoli: «dopo il 1860, la filosofia ferroviaria privilegiò i collegamenti Nord-Sud». Bisognava unire l’Italia, no?
Dici? Senza volerlo (si capisce), le linee veloci Nord-Sud servirono subito a trasportare i soldati che tennero il Paese meridionale in ginocchio; e sempre non volendo (si capisce), consentirono poi alle merci del Nord di raggiungere il Sud, prima che quelle del Sud raggiungessero il... Sud: se prodotte nel Mezzogiorno, per esempio sul Tirreno, non riuscivano ad arrivare sull’Adriatico, prima di quelle che partivano dalle Alpi. Se ne lamentavano già più di un secolo fa. Naturalmente, oggi è lo stesso, se non peggio. E ancora se ne lamentano, i meridionali. I quali sanno solo lamentarsi, invece di rimboccarsi le maniche (e prendere a sberle gli amministratori delegati delle Ferrovie dello Stato a metà? E i loro padrini politici?). Quella “filosofia ferroviaria” nordista, secondo Mangone (e dagli torto!) fu ed è «non ultima causa dello scollamento e del degrado delle regioni del Sud disarticolate in sostanza fra loro e collegate al Nord come appendici di questo. Non a caso infatti la linea BolognaFoggia (circa 550 chilometri; N.d.A.) fu aperta al traffico dieci anni prima della CasertaFoggia (circa 180 chilometri, ma con lunga deviazione irpina; N.d.A.)! Non a caso, oggi, da Napoli si arriva a Firenze in meno ore che a Taranto!». Mangone lo scriveva nel 1987. Oggi, 2011, a Firenze, da Napoli, si arriva ancora più presto (2 ore e 35, il treno più veloce, per oltre 470 chilometri); e a Taranto, ancora più tardi (più di quattro ore, e si tratta del treno più veloce, per 310 chilometri). Quella “filosofia” (non sarà troppo nobile la parola, per una tale porcata?) non riguardava solo i treni e sfida i secoli: oggi continua nelle ferrovie (nel senso che si continua a farle al Nord, anche con i soldi del Sud; e a non farle al Sud, perché sono finiti i soldi); e, per equità, è stata applicata pure alle autostrade e agli aeroporti (par condicio). Così, al Sud, c’è un modo indecente di andare da qui a lì, se “lì” è a Nord; mentre se “lì” è
sempre Sud, il modo può non esserci e basta, manco indecente. Ci sarebbe ancora qualcosa da dire, circa la prova dell’arretratezza del Sud, dimostrata dal «decimo della vergogna». E Mangone lo dice: «Le ferrovie napoletane, nel 1860, avevano una dotazione di una locomotiva ogni 1,3 km contro una disponibilità di una locomotiva per 2 km delle ferrovie sarde» (ma il 1860, ho scoperto, è l’anno in cui le cose cominciarono a cambiare; dev’essere successo qualcosa...). E non basta, perché quando Torino volle varare la sua ferrovia, riferisce Nicola Zitara, in L’invenzione del Mezzogiorno, le locomotive dovette andarle a comprare a Napoli (essendo il Sud arretrato, perché solo un decimo... Qualcuno ve ne ha mai parlato?). Tanto indietro era il Meridione, che dal 1839 al 1860, gli stabilimenti di Pietrarsa costruirono 46 locomotive, incluse tre di particolare potenza e interesse tecnologico; la Guppy ne fece 10, più un prototipo da montagna; la Zino&Henry solo due, ma aveva iniziato nel 1859: l’anno dopo arrivarono i liberatori e...; altre due ne fece l’Officina di Capua. Mentre il vanto dell’industria nordica, la Ansaldo di Genova, sino al 1860 «aveva costruito in tutto solo 10 o 12 locomotive e le Officine di Verona solo un paio (8 secondo altra fonte)». Fino al 1860, le varie aziende ferroviarie in tutta Italia acquistarono 75 locomotive fabbricate nella Penisola, «quindi all’epoca» riassume Mangone «le industrie napoletane avevano prodotto i quattro quinti delle locomotive nazionali». Arretrate, sia chiaro; e il Piemonte, ma si può?, proprio quelle di Napoli andava a comprare (pensa quant’era più arretrato...)! Poi arrivano i bersaglieri e l’industria ferroviaria del Sud ha qualche problema: sparano sulle maestranze dell’Officina di Pietrarsa, che vorrebbero continuare a fare locomotive; e spostano tutte le commesse dalle aziende del Mezzogiorno a quelle del Nord. «Il contributo
del Sud al totale delle costruzioni ferroviarie italiane che era di oltre il 50 per cento nel 1860, ancora del 35 per cento nel 1870», scese al 4, 5 per cento nel 1880, riporta Mangone. Salirà poi di qualche punto e lì si fermerà. Arretrarono, le ferrovie del Sud, ma dopo l’Unità, non prima! L’argomento «poche ferrovie, quindi arretratezza», però, non è solo falso nei dati, è soprattutto disonesto nel concetto. È comprensibile che il Piemonte, pur partito dopo, sviluppasse rapidamente una più ampia rete ferroviaria: poteva collegarla direttamente a quella degli ambìti mercati del Nord Europa; della Francia, con cui confina, e dei Paesi del futuro Stato germanico, osserva Martin Clark (Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa): «Ormai era evidente che le ferrovie avrebbero trasformato l’economia italiana ampliando considerevolmente il mercato potenziale». Mentre il Regno di Napoli, per conquistare i ricchi mercati nordeuropei e dell’America, poteva scegliere soltanto il mare. Per questo, in soli quindici anni, sviluppò una flotta commerciale che divenne una delle prime al mondo, e avviò traffici pure con la Cina. Al contrario, con la via ferrata, il Regno delle Due Sicilie avrebbe potuto collegarsi solo con se stesso. Per raggiungere il resto dell’Italia e l’Europa, avrebbe prima dovuto convincere gli altri Stati preunitari (Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Modena e Piacenza, Ducato di Parma, Piemonte e l’Austria del Lombardo-Veneto), a costruire ferrovie contemporaneamente e con lo stesso scartamento dei suoi binari. E avrebbe anche dovuto stringere rapporti commerciali clamorosamente innovativi, per quei tempi, per l’abolizione dei dazi sulle merci in transito. «Come sarebbe avvenuto per la Comunità Europea oltre un secolo dopo» nota Clark «un’unione doganale italiana avrebbe dovuto stabilire non solo dazi uguali, ma anche un sistema comune di pesi e misure, organi di
controllo e gestione comuni e forse anche una moneta unica.» E non è detto che sarebbe bastato: l’Austria ostacolava i commerci dei lombardi, impedendogli di servirsi del porto di Genova e persino di quello di Venezia e costringendoli a raggiungere Trieste (chiari ostacoli alle iniziative imprenditoriali di regioni che voleva continuare a tenere in condizioni semicoloniali: non produttrici, ma consumatrici di merci. Austriache. Chi di voi ha detto che la cosa sembra analoga a quanto avviene da 150 anni in Italia, con il Nord nella parte dell’Austria e il Sud in quella del Lombardo-Veneto? Bravo: ha vinto un biglietto per un viaggio in treno Milano-Matera, prima classe). E perché mai l’Austria, per tacere degli altri, avrebbe dovuto dare a Napoli i vantaggi che negava a Milano, che pure era parte del proprio impero? Insomma, il Regno delle Due Sicilie doveva prima fare l’Italia, per poter stendere i binari per il treno che la risalisse: nel pur breve tratto fra Lucca e Bologna c’erano ben sette barriere doganali. «Non era concepibile» commenta Clark «che i treni dovessero fermarsi per i controlli doganali ogni pochi chilometri.» Ma, volete la prova che il Meridione era più arretrato, anche se aveva una flotta che cominciava a fare concorrenza a quella inglese, costruiva i quattro quinti delle locomotive italiane e ne vendeva anche all’estero, e viaggiò in treno prima di tutti gli altri italiani? Napoli, nel 1860, aveva un decimo delle linee ferroviarie del Nord, che poi non erano un decimo, ma il doppio, e più qualcos’altro, perché... Mo’ basta però, eh? Anzi, post scriptum: il Mezzogiorno ci ha guadagnato dall’invasione e annessione al Piemonte (ma non sarebbe stato meglio fare l’Italia unita?), sostengono quelli che
parlano della scarsità di ferrovie al Sud arretrato. Ora, se un argomento del genere giustifica, per il trionfo della civiltà ferroviaria, l’invasione di uno Stato senza nemmeno dichiarazione di guerra, allora stiamo attenti: il Mezzogiorno oggi ha, in proporzione, meno ferrovie, rispetto al Nord, che nel 1860; treni, linee e tempi di percorrenza (vabbe’, si fa per dire) sono, e stavolta è vero, sicuramente arretrati, da Terzo Mondo (diciamo che potete avere la sorpresa di trovare ancora quelli del 1860, più o meno, sempre che l’immaginifico amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Penoso non abbia deciso di tagliare pure quelle linee, considerato che già ne hanno soppresse circa mille chilometri, a Sud, negli ultimi settant’anni). Quindi, se la Francia, per farvi le ferrovie, occupasse l’ex Regno delle Due Sicilie, per darlo a un erede di Gioacchino Murat (il progetto c’era già, nel 1860, e Napoleone III fu lì lì per metterlo in pratica), non dovremmo lamentarci. Non ci accorgeremmo nemmeno della differenza: pure loro parlano francese, come i piemontesi, quando, per il nostro ferroviario bene, vennero a liberare chi manco si rendeva conto di averne bisogno (hanno ragione: proprio arretrati!). I sostenitori del diritto altrui a invadere Paesi ferroviariamente poco dotati, avrebbero già l’argomento pronto a giustificare anche quest’altra invasione: gli toccherebbe solo cambiare i nomi...
46 IL POPOLO CHE CANTA
E cantano, cantano. Vai per dibattiti, conferenze, si discute di storia, di economia, di politica. E c’è qualcuno che canta; non sempre, ma troppo spesso, perché sia soltanto un caso: complessi folk o cori di bimbi, fini cultori di musica etnica o solo ragazzi con la chitarra per Brigante se more. Ma cantano. Quando pensavamo di essere nati per cambiare il mondo, prima che il mondo cambiasse noi, si andava dietro alla musica dei vinti (se la destra inneggia ai primi, il coro della sinistra è per gli ultimi). «Il popolo che canta non morrà» si diceva. Invece, i popoli forse sono come i cigni, che cantano una volta sola, secondo la leggenda, prima di morire o quando ci vanno vicino. «La poderosa fioritura della musica napoletana, che pure era già grande, quella che ha conquistato il mondo, esplose dopo il 1860, come sfogo artistico di un popolo sconfitto» mi aveva detto Enzo Gulì, cultore di storia meridionale (suo Il saccheggio del Sud), mentre ascoltavamo l’esecuzione di ’O sole mio, con il flauto di Pan, da parte di piccoli allievi della scuola di un quartiere degradato di Afragola, Salicelle. Parlava di una cultura musicale cui si riconosceva un primato indiscusso, per innovazioni ed
eccellenze, già nel Settecento; ma che doveva la sua maggior diffusione all’uso della musica, quale possibilità di recupero offerta a bambini abbandonati, orfani, indigenti, per i quali (come a Venezia, ricorda giustamente Dora Liguori, in Quell’amara Unità d’Italia) si crearono, sin dal Cinquecento, i primi conservatori. La musica per consolazione, riscatto e mestiere per i vinti della società. «Lo stesso ’O sole mio» mi racconterà, poi, Nando Citarella, attore, cantante, studioso della musica popolare (collabora con la cattedra di etnomusicologia di Tor Vergata, a Roma) «nasce durante la ritirata di Napoleone dalla Russia. Era un motivo sussurrato, quasi a bocca chiusa, di un meridionale che sognava il sole della sua terra, nel freddo e nella neve. Solo dopo lo hanno cantato a voce piena, riempito di acuti.» Come dire: pure la più famosa canzone napoletana di sempre, quasi confusa (talvolta è successo davvero) con l’inno nazionale italiano, è figlia di una sconfitta (ma si narra che il primo essere umano nello spazio, Jurij Gagarin, l’abbia cantata, nel cosmo, per presentare la nostra specie all’universo). È così, per dare un’idea della quantità e del livello, che abbiamo capolavori c o me Santa Lucia luntana, L’emigrante, Lacrime napulitane, Funiculì Funiculà, Marechiare, Era de maggio, Scetate, Comme te voglio ama’, ’E spingole frangese, Lariulà, Catarì, ’A frangese, Serenata napulitana, Maria Marì, ’O surdato ’nnammurato... Il canto attenua il dolore, lo scioglie, come i gospel per i neri, le nenie nelle trincee della Prima guerra mondiale, o quelle funebri in Mediterraneo. Il vincitore compone due marcette e un Te Deum; il vinto, tutto il resto. Il vincitore usa tamburi, cori e squilli di tromba, ottoni in cui pompare, mento all’aria e contro il cielo, il fiato dell’orgoglio che gonfia il petto; il vinto preferisce chitarre, strumenti a corda o a tasti, che lo obbligano a chinare la testa. E a
modulare temi e voce, ché se uno solo vince e detta la musica, tutti gli altri perdono; e soffre ognuno a modo suo: il dolore è fertile, perché vario. La scelta dei toni ne è conferma: nella musica napoletana predominano accordi “minori”. Giandomenico Curi, regista e docente universitario (suoi alcuni ponderosi studi su cinema e rock), narra che musicisti, psicologi della percezione e altri studiosi, partendo da interessi differenti, sono giunti alla stessa conclusione: «il modo “minore” definisce e connota i canti della tristezza; il modo “maggiore” quelli della gioia; o, volendo dirla diversamente, del vinto e del vincitore. In questo, un posto speciale occupa l’armonizzazione della cosiddetta “scala minore napoletana”, che è una scala di sonorità insolita (tra il morbido e l’orientale), che permette il massimo dell’abbandono musicale al piacere della sconfitta». Ed è incredibile come il tono musicale del dolore, ovunque nasca, ricompaia identico nel tempo, ovunque un uomo canti la sua sofferenza. Lo scopro con “la sesta napoletana”, che percorre i secoli, da un oratorio seicentesco a Jim Morrison: «La “sesta napoletana”» mi spiega Curi, «è un accordo, anzi una sequenza di accordi, che da sempre viene utilizzata per comunicare, in maniera più forte e sentita, il pianto, il dolore, la disperazione della sconfitta. Uno dei primi esempi è nell’oratorio-capolavoro (1645), di Giacomo Carissimi, Jepthe, che racconta del condottiero costretto da un voto a sacrificare a Dio sua figlia, per ringraziarlo della vittoria. La gioia diviene tragedia, accompagnata da un accordo insistito e straziante di “sesta napoletana”. Il cui uso dilaga dall’Ottocento in poi; spunta nel jazz (Satin Doll, The man I love), sino al grande rock dei Rolling Stones (Angie), di Jimi Hendrix (Little wing), dei Doors (Summer’s almost gone)» . Il Sud invaso, derubato e sottoposto a una strage ancora taciuta, si rifugiò nella musica: fu una fuga che coincise e si sommò ad altre fughe, oltremare. «In meno di dieci anni a cavallo
fra l’Ottocento e il Novecento» spiega Citarella, per dare un’idea della portata del fenomeno «fu prodotta circa metà della musica nata nell’intero Settecento»; che pure, a Napoli, fu un secolo memorabile (grazie soprattutto al tarantino Giovanni Paisiello): tanto che Mozart si trasferì temporaneamente all’ombra del Vesuvio. Per i 150 anni dell’Italia, nessuno ha celebrato il Settecento musicale napoletano; hanno chiesto al maestro Riccardo Muti, di farlo, ma da Salisburgo, in Austria (mica è mafia, mica è monnezza...). «Coloro che non riuscirono a essere massacrati» scrive Angelo Manna (Brigantaggio meridionale e circondario Cerretese ) «scesero dai monti, deposero le armi. Si vendettero financo l’onore delle figliolette e delle madri, per togliere il disturbo [...] E fu l’emigrazione... Andò al porto di Napoli, l’Italia degli intellettuali, a vederli partire... Fu soltanto capace di cantarci sopra, di sventolare fazzoletti, di intonare canzoni lagrimose... Partono ’e bbastimente pe’ tterre assaje luntane!» E se cantan’a bordo, allora so’ napuletane . Né aveva torto, il sanguigno Manna, a vedere nello sviluppo del canto l’accettazione della sconfitta, perché quando decide di raccontarla, invece di negarla a se stesso e agli altri, il vinto rinuncia alla speranza di ribaltarla; è come se si rivolgesse a una suprema giustizia, per avere aiuto. Domenico Modugno recuperò e riadattò (lo fece pure con Amara terra) un antico canto di protesta dei braccianti meridionali, Nu servu e nu Cristu, che chiedono a Gesù di distruggere la malarazza dei padroni. Ma il crocifisso replica che chi vuole la giustizia se la fa, non la chiede. La canzone fu vietata per legge nel 1857, rammenta Mimmo Martino, fondatore del gruppo calabrese dei Mattanza, e riammessa solo con l’aggiunta della versione di Cristo, che invita il perseguitato ad abbracciare il persecutore. Modugno vi inserì, più in linea con la versione censurata, due versi: «Tu ti lamenti, ma che ti lamenti / pigghia nu bastoni e tira
fora li denti». Se impugna la chitarra il vinto ha deposto la spada; se canta ha rinunciato alla lotta. Magari incita a farla, ma non la fa. Perché la fuga nella musica? Il napoletano è lingua musicale di suo. Non capisci una parola, se parlato stretto, ma il senso del discorso, sì (certi monologhi di Eduardo, o di Massimo Troisi). Nessuno, o quasi, comprende cosa reciti Lina Sastri all’inizio e alla fine del film E li chiamarono briganti, di Pasquale Squitieri, su Carmine Crocco Donatelli e Ninco Nanco, eppure, mentre la sua voce sale, si rompe, s’arrochisce, diviene umida, tagliente, pietosa e poi di minaccia... e tutti sentono e capiscono cosa vuol dire. E come, se non hanno colto una parola? La musica è forma di conoscenza non verbale: hanno compreso non per le parole, ma per i suoni delle parole. La nostra specie ha imparato a emetterli molto tempo prima di imparare a parlare: dal ruggito al verso del cuculo, sono un mezzo di comunicazione preumana. Il dolore, verrebbe da dire, spinge l’uomo ad arretrare nel mondo ancestrale in cui gli uomini non c’erano; perché sono stati i tuoi simili a farti del male; quelli che parlano. Allora meglio tornare, regredire, fra quelli che cantano. Perché è indietro che ti butta il dolore: chi soffre invoca la mamma, come i bambini; e come i bambini balbetta, si dondola, si culla, chiude gli occhi per negare la realtà nemica: se non la vedi, non c’è più; il dolore ti riduce al lamento, che è suono senza parole, modulazione del mugugno; poi, quando e se viene elaborato, il lamento evolve in canto; elementare, ma canto: una, due note, alte e basse, ossessivamente ripetute, poi complicate con variazioni di stati d’animo, in toni diversamente ordinati, sino a quella nenia funebre in cui la pena, diluita, riconquista le parole, per dire le ragioni del pianto, perché sia condiviso; e si soffra un po’ ciascuno, per
soffrire meno o non da soli. Guarda il lamento della vedova, fin dove arriva, irriconoscibile: «Le famosissime Mare maje e scure maje, in Abruzzo e in Salento (dove sono sbarcate quasi certamente dai Balcani), o Nigra me, in Sardegna, significano “Povera me, triste me, dolente me”. Sono lamentazioni funebri, narrazione di una pena. Ma non sai quanti brani di Chopin, Berlioz sono “ripresi”, per non dire copiati, da lì» racconta Citarella, e canta la versione popolare e quella di Chopin, praticamente simili, tranne la lentezza della seconda. «E Maramao perché sei morto? è ancora: Mare maje e scure maje...» La musica fiorisce nella casa dei vinti, perché vi entra il dolore (poi, però, va dove vuole). E se la casa è quella di un intero popolo, il canto è la risposta dell’oppresso all’oppressione. Nella sintesi estrema (non mia, ma dei fondatori della psicosociologia), questa condizione è quella del carcerato (qualunque sia la ragione per cui ci si arrivi). Lo conferma il fatto che un vero e proprio genere musicale è nato dalla necessità dei carcerati di lenire la propria pena (come tutti), e far varcare ai muri della prigione almeno la loro voce («Non potete vedermi, sono escluso, ma ci sono!»), i loro bisogni. Canzoni immortali, come Palummella zompa e vola, vennero generate o rielaborate dall’incontro fra la sofferenza dei prigionieri e quella dei familiari, e dalla necessità di comunicarsi non solo la pena, ma anche altro. Giandomenico Curi e Citarella spiegano che questi canti “carcerari” nascono come un linguaggio per iniziati, «lunghe frasi modulate con grande libertà» (almeno le frasi, parlando di detenuti...), note stirate, interrotte sino al singhiozzo, invenzioni di ritmo e altro «perché ci si intendesse solo fra chi doveva intendersi. Tanto che, quando quel gergo canoro cominciava a essere comprensibile pure da estranei, specie i carcerieri, si ricorreva a nuove varianti».
E il canto del prigioniero, lamento e comunicazione clandestina alle spalle del carceriere, può diventare, per estensione, quello dell’oppresso contro l’oppressore ed evolvere in inno di protesta, di ribellione. Accadde proprio con Palummella zompa e vola: «Il testo esprimeva l’anelito di libertà popolare divulgato dal grande interprete di Pulcinella, Antonio Petito» riferisce Gulì. «Il successo fu immediato e tutti ne intonavano il ritornello per darsi coraggio. Arrivò a essere considerata talmente pericolosa la sua diffusione popolare, che in un film di qualche decennio fa si mostrava Petito (interpretato da Eduardo De Filippo) che la cantava contro la tirannia borbonica!» E qui si scopre un giallo storico-culturale, la cui soluzione è davvero rivelatrice su come il potere tema il libero canto, perché «Palummella zompa e vola è del 1873» osserva Gulì (la data, verifico, è tratta da Napule è ’na canzone. Antologia della canzone napoletana, di Giovanni Alfano) «cioè quando da poco la violenza dei conquistatori sabaudi aveva soffocato nel sangue l’ultima resistenza di quelli da allora in poi detti “meridionali”». L’oppressore, quindi, non poteva essere la dinastia dei Borbone in esilio da 12 anni, ormai, «ma i colonizzatori sabaudi del Nord. Le preoccupate autorità non solo vietarono spettacoli che comprendessero Palummella zompa e vola, ma addirittura proibirono di cantarla per strada; stamparono infine» racconta Gulì «una nuova versione che non accennava più alla perduta indipendenza; ed è quella giunta sino ai nostri giorni. Naturalmente la gente continuò a sussurrarla a bassa voce o intonando il motivo a bocca chiusa. Sarebbe bellissimo riuscire a ritrovare il testo originale». Ho girato l’osservazione a Citarella, che ha coinvolto un paio di specialisti, Stefano Pogelli (storico restauratore sonoro della Rai, una sorta di archeologo della nostra musica) e Paquito Del Bosco (direttore dell’Archivio Storico della canzone napoletana). Be’, ecco
la sua risposta: «Tutte le notizie combaciano». Palummella zompa e vola, la canzone che fu proibita, perché denunciava l’oppressione borbonica, nacque ben dopo che i Borbone erano stati cacciati e sostituiti dai Savoia. Quanto alle molte versioni, c’è da crederci, visto che il motivo che si ritiene “carcerario”, ha, invece, nobilissimi natali: «La cosa bella» dice Citarella «è l’origine della melodia, che fu composta da Domenico Piccinni, nel 1766, e tuttora (come aria) viene eseguita nell’opera La Molinarella detta anche Aria di Brunetta» (il ministro non c’entra niente). Citarella mi invia pure lo spartito, rielaborato e trascritto da Teodoro Cottrau: fu lui a pubblicare, nel 1873, la versione in cui le autorità scorsero «evidenti contenuti sovversivi, perché alludeva alla libertà». Il testo venne cambiato, ma, ormai, ai napoletani bastava accennarne poche note, per capirsi. Era, se vogliamo, una prova del fallimento dell’ideale unitario, se l’oppressore contro cui puntava l’ala Palummella era italiano e la dinastia liberticida Savoia. Antonio Potito (morto nel 1876, mentre recitava, nel suo teatro), caricava di significati Palummella, alludendo a lotte sociali e voglia di libertà. Mentre è di trent’anni più tardi la versione di Salvatore Di Giacomo, Palomma ’e notte «si tratterebbe», riferisce Citarella «di un adattamento, con traduzione in napoletano, di una poesia in dialetto veneto, intitolata La pavegia, scritta dalla poetessa di origine armena Vittoria Aganoor Pompilj». Sarà interessante ricostruire i percorsi di quest’aria, secondo gli eventi storici. Ma la contorta vicenda di Palummella zompa e vola qui serve solo per mostrare come un canto di carcerati, oppressi in prigione, diviene inno di un intero popolo che si sente oppresso e vorrebbe reagire; tanto che l’oppressore deve proibirne il canto e poi riferire quell’oppressione ad altri, non a sé. Come dire: se la canzone dei vinti accusa il vincitore, taccia il canto o si cambi il nome del carceriere.
A tale genere musicale appartengono pure i canti di lavoro nei campi, di prigionieri della terra, non di una cella. Li accomuna «il carattere di intrinseca disperazione» cita Curi «capace di dare voce al senso di rabbia e di rassegnazione che si andava diffondendo nel Sud. Un tipo di canto, ornato e privo di accompagnamento, che sembra molto diffuso nei regni e negli imperi del Nordafrica, nel Mediterraneo meridionale e in Medio Oriente». Si parla di cose universali: il blues, per dire, fa parte della stessa famiglia musicale. Nel canto ripiega persino il dolore della madre, se generare è condanna per lei e vivere condanna per il figlio. «Fu García Lorca» racconta Curi «a parlare della tristezza delle ninne nanne spagnole. Tanto che “ne trassi il parere” scrisse in Las nañas infantiles “che la Spagna adopera le sue melodie più tristi (e i suoi testi di più fonda malinconia) per accarezzare il primo sonno dei suoi bimbi”. E l’etnomusicologo Alan Lomax, avverte che anche nell’Italia del Sud è così: “Le ninne nanne dell’Italia meridionale sono dolorose” scrive in Nuova ipotesi sul canto folcloristico italiano “veri e propri gemiti di sconforto, indistinguibili dai lamenti funebri dell’intera regione”.» Perché? Lomax lo spiega con la sottomissione, la subalternità cui era costretta la donna, e l’estrema difficoltà della vita, nelle regioni povere del Sud. Ma questo valeva e vale per chiunque sia sottomesso, tenuto in stato di subalternità. «E io canto! Canto, canto!» urla Lina Sastri, con le lacrime che le bagnano la voce. «Io canto!» L’inquadratura è a lungo fissa, vuol dire che non hanno potuto metterle le gocce negli occhi, perché lei le faccia scorrere sul volto, abbassando le palpebre, quando la telecamera torna a riprenderla: Lina recita, si strazia, s’indigna e piange davvero. La musica nasce dal dolore e talvolta tocca pure il cuore di chi lo provoca. Pensate agli schiavi neri dei campi di cotone in Louisiana: dal loro patire sorsero gli
spirituals; e da quelli, quasi tutto il resto. Sul quale, però, c’è qualcosa che ci riguarda. «Gli Stati Uniti dopo aver acquistato la Louisiana dalla Francia (nel 1803; nel 1812 divenne il diciottesimo Stato dell’Unione; N.d.A.) offrirono la terra gratis ai coloni. E molti si mossero dall’Italia. Ancora oggi, la più antica salsamenteria siciliana d’America è a New Orleans» racconta Renzo Arbore, che sulla città e la sua musica ha girato un sorprendente film-documento di un’ora e mezzo, per la regia di Riccardo Di Blasi. Fra il 1850 e il 1870, a New Orleans c’erano più cittadini nati in Italia, che in qualsiasi altra città degli Stati Uniti: con l’abolizione della schiavitù in America e l’estrema miseria a cui, dopo l’Unità d’Italia, fu ridotto il nostro Sud, arrivarono tanti meridionali, specie siciliani; presero il posto dei neri, nei campi di cotone: il rango di schiavo volontario era divenuto preferibile a quello di libero cittadino meridionale d’Italia. Quei contadini introdussero ed estesero coltivazioni specializzate, come le fragole, generarono ricchezza. Non fu l’unico campo in cui si fecero valere. «C’era una nave che faceva la spola fra Sicilia e New Orleans» narra Arbore «e quale che fosse, di volta in volta, il suo nome, la chiamavano Nave-Palermo: dall’isola portava agrumi ed emigranti; dall’America, cotone. Su quel bastimento salirono pure tanti musicisti; molti di Salaparuta.» Erano bandisti, avevano da raccontare, con la propria, la fuga e la disperazione di un popolo che non si era mai mosso dalla sua isola, e fu ridotto in condizioni tali, dopo il 1860, che un siciliano su tre se ne andò. A New Orleans incontrarono altri musicanti, nati lì da genitori italiani. La città era feroce con i nostri connazionali: «Gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo. Peggiori dei negri, più indesiderabili dei polacchi» secondo il sindaco. La più seria crisi diplomatica di
sempre, fra Stati Uniti e Italia, durata anni, con il ritiro del nostro ambasciatore, si ebbe allora, per il linciaggio di undici connazionali, avvenuto in carcere, a opera di migliaia di “onesti” e impuniti cittadini, delusi per l’assoluzione degl’italiani accusati dell’uccisione dello sceriffo (amico e forse qualcosa più, di mafiosi siciliani tesi alla conquista del controllo delle operazioni di carico e scarico nel porto). E quei nostri musicanti, quasi tutti siciliani, considerati come i neri, come i neri suonavano e i neri sfidavano, nella mitica Congo Square. E fu così che, improvvisando, improvvisando, inventarono il jazz. «Avevano nomi... pensa, c’era pure un Riina» mi dice Arbore «e Leon Rappolo, Salvatore Sbarbaro, Frank Signorelli, Tony Massaro, Louis Prima (quello di Bonasera, segnorina, bonasera...), Peter Rugolo. Si facevano chiamare, magari, e bada che non vado in ordine cronologico, Eddie Lang o Tony Scott, al secolo Antonio Sciacca, o Jack “Papa” Laine, ovvero George Vitale. Il primo al mondo a usare la chitarra per il jazz fu Salvatore Massaro, di origine molisana; con lui capitò, chissà come, uno di Bergamo, Joe Venuti: fu il primo violinista jazz. Ho avuto il piacere di suonare con lui. Erano tanti, una settantina e anche più, in band diverse. Ma il più famoso fu Nick La Rocca, trombettista e cornettista geniale, dal difficile carattere, leader della Original Dixieland Jass (solo in seguito divenne Jazz, per impedire, pare, con ass, “culo”, sconci giochi di parole) Band. Il primo disco jazz della storia è suo: facciata A Livery Stable Blues, facciata B Dixieland Jass Band; è suo Tiger Rag, un classico. Gli Stati Uniti hanno sottaciuto l’apporto italiano alla nascita del jazz, per far risaltare di più il proprio. E qualcuno si stupisce, quando sente dire che il jazz italiano è ancora oggi il primo o il secondo del mondo. Per forza, sono stati loro a inventarlo, con i neri di Congo Square, a New Orleans!» Renzo ha ricostruito l’epopea di quei nostri musicisti emigrati e ripercorso i luoghi della
loro impresa, da studioso del tema (e praticante con la sua Orchestra Italiana) e da pellegrino identitario; in Italia non li conosce quasi nessuno, ma nel cimitero di New Orleans le tombe dei terroni che fecero il jazz sono onorate. «Lo stesso Louis Armstrong, nella sua biografia, scrive che uno dei modelli a cui si ispirò, per diventare il Grande Satchmo, fu Nick La Rocca» ricorda Arbore. Di quei disperati che (specie dopo il 1870) fuggivano da un Sud reso invivibile dalla violenza con cui fu trattato, l’Italia sembra non voglia sapere nemmeno i successi. Immaginate cosa farebbero i francesi (e ce n’erano che suonavano a Congo Square), se il jazz avesse avuto padri marsigliesi o bretoni. Ma pure questo, nel generale moto di recupero della propria storia, viene riscoperto e rivalutato. A Salaparuta, da dove mossero molti di quei musicisti, ogni anno, organizzano una festa-concerto. «Il figlio di Nick La Rocca, 70 anni, trombettista, è degno di cotanto padre» assicura Arbore «e io vado a suonare con lui.» Renzo ama proporsi come uno scanzonato adolescente a vita, ma lo avete capito tutti che non è così, vero? La storia del suo paese e del Sud la conosce bene, ne cerca le eccellenze. E si è fatto ambasciatore della musica che nacque da quei meridionali costretti a emigrare: dal primo jazz dei neri di Sicilia, alle melodie dei napoletani sradicati («Ma i due italiani più amati degli Stati Uniti erano pugliesi: Rodolfo Valentino, di Castellaneta, Taranto, e Fiorello La Guardia, di Foggia, primo sindaco italiano di New York, figlio del direttore della banda dell’Aeronautica, originario di Cerignola. Fu lui a finanziare la costruzione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, voluto da padre Pio. Con i soldi dei fedeli americani, dissero. Ma, allora, del frate con le stimmate, non sapevamo niente noi, a Foggia, figurati a New York. Poi venne fuori che l’ospedale avrebbe dovuto servire ai militari della NATO e degli Stati Uniti, in caso di guerra con l’Unione Sovietica: il più
importante aeroporto militare intercontinentale, Amendola, è a soli 10 chilometri da San Giovanni Rotondo.»). C’è un dettaglio che sembra fatto apposta per collegare l’esperienza canora partenopea di quegli anni a quella, distantissima, dei siciliani di New Orleans. «Il jazz» spiega Renzo «nasce per evoluzione degli spirituals, dei gospel, ma la sua fonte primaria furono i calls, i richiami “di lavoro” cantati nei campi di cotone. Come quelli degli acquaioli, a Napoli, per dire, dei venditori d’acqua (’a fronn’e limone) e non solo. Le elaborazioni di quei richiami potevano portare, e lo fecero, a risultati impensabili. Il personalissimo stile di Sergio Bruni, per esempio, derivava da quelli.» In particolare, a partorire il genere e la tecnica era «la vierola,» spiega Citarella «che è la modulazione di chiusura dei richiami degli ambulanti. A fare i pignoli, trattasi della “espressione declinante del vibrato”». Capito, sì? Gli acquaioli a Napoli e i neri in Louisiana. Fra i valori persi dal nostro Paese con la diaspora dei meridionali, metteteci pure questo. Anche se la musica nasce con un passaporto, ma diventa apolide, di tutti. «Un pugliese, di nome Eugenio, emigrò a Nizza. Faceva un lavoro poverissimo: raccattava e legava fascine al mercato dei fiori. Ma era un grande suonatore di mandolino; e nel 1886 fondò un’orchestra di mandolini. Ancora oggi, a Nizza, c’è la più grande scuola per mandolinisti: ce ne sono circa 150.000, nel solo quadrilatero Nizza-Arles-Marsiglia-Bordeaux» narra Citarella, in partenza per un concerto, proprio lì. Gli oppressi cantano. E il popolo del Sud d’Italia non è il solo ad aver partorito grande musica da grande dolore. La musica conserva il ricordo del danno e, nel tramandarlo, diviene, a volte, inno di guerra: «Leonardo Sciascia» riferisce Giandomenico Curi «racconta che quello dei rivoltosi di Bronte, sui quali si abbatté, poi, la rappresaglia di
Nino Bixio, era il Canto della messe, con cui i contadini potevano permettersi, solo durante la mietitura, di dire male di chiunque». La musica della sconfitta irlandese (conoscete Foggy Dew, vero?), in patria divenne un’arma, per gli irredentisti antibritannici, mentre gli emigrati negli Stati Uniti, non sottomessi, la elaborarono e fusero nel country e poi nel rock. Le eccellenze musicali americane del Nord son figlie del canto di molti vinti dai neri fatti schiavi, ai meridionali italiani, agli irlandesi. Per altre vie e altri oppressi, è sorto qualcosa di analogo nel Sud America. Chi ama i gorgheggi dei canarini (li allevava anche il capo di uno dei peggiori campi di sterminio nazisti), sa che deve farli soffrire per spingerli ad avventurarsi nelle loro più ardite e dolci melodie. Per questo li accecano: gli togli la luce, gli sciogli la voce. La musica che il mondo conosce come italiana viene dal dolore di Napoli; e quella celebrata come invenzione dei neri d’America deve gli esordi a siciliani e meridionali in fuga, per disperazione. Nascono, l’una e l’altra, da una ferita. Pensate quanto profonda, per produrre tanta arte. «E io canto, canto, canto!» grida e piange Lina. Basterebbe la nostra musica a misurare il male che ci è stato fatto. Basterebbe il recupero di quella musica a misurare quanto sia cambiato il Sud e la percezione della propria storia, da parte dei meridionali. «Ancora nel dopoguerra, alle canzoni della tradizione meridionale si associavano sentimenti di vergogna, rimorso... Erano simbolo di povertà. Si deve arrivare agli anni Settanta, perché se ne riscopra il valore» rammenta Curi. I giovani si innamoravano di Ernesto de Martino, che ritrovava ballate e miti del Salento,
le voci delle “terre del rimorso”, come se rovistando nei bauli dimenticati in soffitta, apparissero, nelle vecchie foto, i volti persi dei nonni, dei loro genitori, per sorprenderci con la comunanza dei tratti, le somiglianze. Lo stupore fu grande per lo sbarco, a metà degli anni Sessanta, sul palco del festival di Spoleto, di un Omero contadino del Tavoliere, da cui tutti hanno imparato: Matteo Salvatore. E Rosa Balistreri che spendeva la sua voce negra sulla Sicilia dei vinti; come Ignazio Buttitta, con i suoi versi. La cosa appariva, ai più, opera meritoria (ridava dignità a una cultura e a una storia denigrate), ma di retroguardia; come chi colleziona vecchie mappe: un sapere interessante, ma ormai inutile, al tempo del tom-tom. La vicenda dei fratelli Bennato la sintetizza in un lampo: Edoardo, portatore sano di cultura musicale napoletana, gira l’Europa, armato di armonica a bocca e chitarra, assorbe, fonde, rielabora e partorisce canzoni che non moriranno. Il genere è quello dei tempi: rock, ma partenopeo. Eugenio, portatore sano (ma non ne sono sicuro, secondo me è contagioso) di musica napoletana, gira per il Sud, scova tesori musicali, nel Gargano, nel Salento, in Campania... li salva e li ripropone. È motore di molte cose: La Nuova Compagnia di canto popolare, vera incubatrice di talenti, il Taranta Power, i Musicanova. E compone canzoni che non moriranno. Ma così pregne di identità musicale del Sud, da essere ritenute antiche e riciclate. Una, scritta con Carlo D’Angiò, per lo sceneggiato televisivo L’eredità della priora, diventerà l’inno nazionale del Sud risorgente: Brigante se more. (A proposito di inni nazionali: quello italiano, definitivo, doveva essere La leggenda del Piave, del napoletano E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta. Ma non se ne fece più niente, perché l’autore rifiutò di comporre l’inno della Democrazia cristiana, riferisce Luigi Giova, in Mangiapolenta licco, e il capo del governo, Alcide De Gasperi, se la legò al
dito.) La forza di Eugenio Bennato è percepire un sentimento di tutti, sepolto nell’inconscio reso silente dal tempo, ma vivo. Lui coglie la profonda radice comune e la canta. Chi non sapeva di averla, la riconosce come sua, quando qualcuno gliela mostra; e scatta un moto di riappropriazione: come se Eugenio avesse soltanto ripreso quanto agli altri apparteneva già. In un certo senso, è vero, e credo non ci possa essere conferma più grande della riuscita dell’opera originale di un artista. La riappropriazione popolare può essere così forte, da strappare all’artista la paternità dell’opera: a Brigante se more han cambiato le parole, e non si capiva più quale fosse l’originale; e la presenza di una doppia versione era diventata prova non della contaminazione, ma del plagio compiuto da Eugenio (che, stufo, è ricorso persino agli avvocati)! Capisco che all’artista girino i gabasini, ma l’omaggio più grande che si può ricevere è vedere la propria opera diventare di tutti, quasi fosse, la sua, solo una restituzione. Ora, provo a riassumere, per fermare un significato: in nome della costruzione di un Paese unico, il Mezzogiorno è saccheggiato, ridotto a colonia interna ed escluso quando altrove si fanno strade, ferrovie, aeroporti, università, aziende pubbliche (meno due brevi periodi a inizio e a metà Novecento); i meridionali sono costretti a un ruolo di minorità per diritti e cittadinanza. La loro società è distrutta, la nuova li vuole a capo chino. Il dolore partorisce musica che va in giro per il mondo, insieme ai fuggiaschi: un modo per ricordare e chiedere a Dio, al mondo e a se stessi, il riconoscimento dell’ingiustizia e del danno subiti. E come spesso accade, col tempo, quel canto diventa inno di rivendicazione, talvolta di guerra, in senso lato o no, quando lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia.
La fase della vergogna, al Sud ha cominciato a declinare negli avanzati anni Sessanta (una sorta di linea sotterranea, in realtà, era stata sempre viva, nelle catacombe della cultura popolare); si è infranta negli anni Settanta e, da allora, continua a lasciare spazio a quella del recupero identitario, della fierezza. Soprattutto a opera delle giovani generazioni. Detto con parole grosse: il lamento è, adesso, sempre più spesso una voce piena, alta e ragionata. Specie dove più profondamente ha pesato la sottomissione. La regione che più recupera valore ai propri occhi è la Calabria: fra i testi di etnomusicologia, resterete sorpresi dalla quantità e diversità di quelli dedicati alla musica identitaria calabrese. Potreste innamorarvi di alcune perle in grecanico (contro lo ius primae noctis) o dialetto ellonofono. Quando la voce si scioglie o erompe in canto, bisogna stare attenti, tendere l’orecchio, perché c’è da capire (ricordate cosa accadde a fine anni Sessanta? Un’intera generazione si mosse e ancora se ne canta). Un sentimento profondo dilaga a Sud, riempie spazio e anime, chiede di essere assecondato e riconosciuto in piena coscienza e dalla società, non più il silenzio inconsapevole dei vinti. Quando questo succede, qualcosa è cambiato. Io non so come sarà, qualcosa immagino, qualcosa spero; so cosa dice questa musica, perché l’ascolto: non sarà più come prima, non è già più come prima. Pensate a quale rivoluzione è nata dalla riscoperta della musica “etnica” salentina, la Pizzica. L’annuale appuntamento di Melpignano (Lecce) ha fatto del Tacco d’Italia «una delle capitali mondiali della musica estiva», secondo «DjMag», la più autorevole rivista specializzata del mondo. Ma l’ex sindaco Sergio Blasi, che fu tra i promotori della “Notte della Taranta”, dice di essere felice, perché «Melpignano è, in Salento, al primo posto per la raccolta differenziata dei rifiuti». C’è un nesso?, gli chiede Pierfrancesco Pacodo, per «La Stampa». «Quando una
piccola comunità riscopre l’orgoglio delle proprie radici, delle tradizioni che esprimono una musica riconosciuta e amata ovunque cura con maggior attenzione il proprio territorio.» Ma rischiano di non accorgersene, a volte, persino gli stessi protagonisti di tale potentissimo fenomeno, perché ognuno vede il suo albero. Bisogna allontanarsi dai fatti, ripeto, dopo esserci stati dentro, e guardarli come i forestieri, che vedono l’insieme, la foresta. Quello che accade nella musica, accade in letteratura, nella ricerca storica, nei rapporti sociali, nel bisogno di nuova rappresentanza politica, nell’idea e nella stima di sé. Sì, dicevamo «il popolo che canta non morrà»; è una bella frase, ma, onestamente, non so se è vero. Di sicuro, il popolo che canta non è morto, se Pure a Calabria mo’ s’è arrivutaata!
47 L’UOMO, IL SIGARO E IL POSACENERE
Quella foto: guardate quella foto e buttate il mio libro e tanti altri libri. Quella foto dice tutto e lo dice meglio, perché ci sono gesti, istanti che riassumono epoche: il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, regge il posacenere al ministro Umberto Bossi, che fuma il sigaro durante un incontro ufficiale alla Prefettura di Vicenza, presenti da Sua Eccellenza il Prefetto, in su, sino al capo del governo. Quel che più mi interessa è Cota: è lui la sintesi, ma per comprenderla meglio, bisogna partire da chi e cosa gli è intorno: 1. Bossi. Il suo progetto politico, dichiarato, è distruggere il Paese chiamato Italia e conclamare la riduzione del Sud a colonia interna (federalismo che toglie al Meridione e dà al Nord) o esterna (secessione, come da articolo uno dello statuto di fondazione della Lega). Progetto sovversivo nei riguardi della Repubblica italiana; razzista nei riguardi dei meridionali.
È vietato fumare nei luoghi pubblici, per legge dello Stato che lui rappresenta, come Cota, il prefetto e i tanti funzionari pubblici presenti. L’ostentazione del gesto profanatore della norma è la ragione stessa del gesto; vuol dire: io non rispetto queste regole, perché non riconosco l’autorità che le ha emanate. E lo fa impunemente; a riprova che il suo potere è maggiore di quello offeso e lo sostituisce; e se ne nutre. Il potere di cui si è portatori si misura dalla quantità di potere altro che si può calpestare, senza subirne conseguenze. E il potere di chi calpesta cresce esattamente di quanto viene calpestato, perché il potere sale sulle macerie di quello che distrugge. Ognuno dei pubblici funzionari presenti all’insulto di Bossi sarebbe scattato inflessibile, se un extracomunitario o un comunitario qualsiasi avesse acceso il sigaro con strafottenza, in faccia a Sua Eccellenza il Signor Prefetto, a Sua Eminenza il Presidente della Regione Piemonte e a Sua Bunga Bunghità, il Presidente del Consiglio. Perché, come avrebbe detto Cota, o il suo collega veneto, Zaia, lì accanto, o lo stesso Bossi: «La Lega è per la legalità!» e se sei in ritardo con le rette della mensa scolastica, i bambini li lasciano digiuni, mentre gli altri mangiano. L’acquiescenza dei custodi della norma allo stupro della norma è il pubblico riconoscimento che il potere di Bossi è più grande, in certi casi, di quello della legge italiana; e lo è, perché Bossi è il capo della Lega; quindi vuol dire che le norme della Lega sostituiscono quelle dello Stato italiano; e che il nuovo potere sta già occupando gli spazi e i templi del vecchio e imponendo la nuova legge. Ogni sfondamento ne prepara uno più grande: prima fumi in luogo pubblico, poi sposti sedi ministeriali come, quando e dove ti piace; prima mandi al diavolo il prefetto, poi il presidente della Repubblica. E il tuo potere è cresciuto sin lì, proprio perché ha mostrato di poter sottomettere quello del prefetto, del
presidente della Regione, del presidente del Consiglio sotto ricatto, per i suoi problemi giudiziari... (che era accanto al fumatore: zitto lui, zitti tutti, a scalare). Di volta in volta, il cumulo di macerie è più grande, come (in rapporto diretto) il potere del demolitore. 2. Il silenzio dei censori: non credono più al potere che pur rappresentano; lo amministrano per la parte che non porta disturbo ai padroni entranti e nel modo che può da loro essere apprezzato (nulla contro gl’industrialotti che impiegano manodopera clandestina; molto contro i clandestini). È l’agire servo di una fase di transizione, nella quale non si sa chi prevarrà e bisogna trovarsi pronti a salire sul treno giusto, avendo dei meriti da farsi compensare. Prefetto e pubblici funzionari hanno venduto una parte del dovere cui corrisponde il loro potere, per accreditarsi presso il nuovo, possibile padrone. 3. Cota, il reggitore. Non ricordo quale anziano collega, nel porgermi il cappotto (avevo un braccio ingessato), disse: «Un signore si riconosce quando, nel fare questo, non sembra un servo». Il gesto di Cota è eloquente in molti modi: dice che la forma di potere della Lega è monocratica, perché dipende da una sola fonte, il capo. Guardate le foto degl’incontri fra rappresentanti di volontà popolari, democraticamente conflittuali: ognuno cerca di sembrare più importante dell’altro e, comunque, mai meno dell’altro. Per questo, nelle foto di gruppo (il governo al completo, i capi di Stato del G8...), ci si rifugia in cerimoniali più asettici, anonimi possibile, in una rappresentazione che non esalta nessuno, per non diminuire qualcuno, perché a tutti attribuisce potere per il semplice fatto di esser nel gruppo, non esclusi, e a ognuno quella presenza tacitamente riconosce esattamente il potere che ha, non di più. Nella foto dei grandi del G8, Obama e Berlusconi compaiono alla pari, ma uno “è” gli Stati Uniti, l’altro l’Italia: si sta tutti alla pari, ma questo non rende pari. La “cortesia” di Cota a Bossi dice che il presidente del Piemonte non deve quel che è ai
suoi elettori, ma all’indicazione di Bossi (esplicita o no) agli elettori. Per assurdo, se Cota vuol rimanere in sella, può rischiare di deludere i suoi elettori, non Bossi. In un partito più democratico, ognuno è forte non per la benevolenza del capo, ma per il proprio seguito di votanti e capo diviene chi offre il miglior equilibrio possibile fra i diversi potentati (la Lega, in realtà, può essere meno monarchica di quel che sembra, ma solo quando il tocco del suo fondatore mostra di perdere la magia e sulla debolezza del sire, qualche vassallo progetta ascese). Il gesto di Cota dichiara anche complicità formale e sostanziale nella profanazione del luogo pubblico e della norma. Bossi avrebbe forse preferito fare a meno della cortesia cotiana: l’insulto sarebbe stato completo, più rozzo e simigliante a lui, se lo scudiero non gli avesse impedito di spandere, a braccio largo e dito percussore, le scorie del sigaro sul pavimento del palazzo del governo di Vicenza. L’uomo del posacenere, così, da una parte ha preservato il luogo dall’estremo scherno, dall’altro si è reso partecipe della prepotenza, condividendo la colpa del capo, e quindi, anche il suo dissacrante potere. Se Cota fosse rimasto al suo posto, fingendo di non vedere la cialtronata del boss, avrebbe spartito con gli altri il peccato di omissione; porgendogli il posacenere, ha scelto un ruolo attivo, di prendersi, con la cenere, un po’ di colpa e del potere che da quella colpa deriva, per essersi schierato. Badate che lì, proprio alle spalle di Bossi padre, c’era Bossi figlio, il Trota; e lui, il posacenere, a papà non gliel’ha retto. Quindi, Cota ha fatto, per il boss, più del figlio. Perché proprio lui? Roberto Cota è nato a Novara, dove suo padre, avvocato, si trasferì da San Severo, in provincia di Foggia. La madre è piemontese. Ho letto che Roberto Cota si sente solo
settentrionale: vero o no che sia, tecnicamente lo è, nulla di male (a parte dover discutere di latitudine, come se questa potesse influire sulle qualità umane). Ma quel gesto in più compiuto in Prefettura mi dà l’idea che senta il bisogno di sottolinearlo, per dimostrarsi lontano dall’origine meridionale, estraneo. È solo una mia impressione? Può darsi, certo non dissipata dalla decisione del presidente del Piemonte di escludere gli studenti del Sud dall’assegnazione di borse di studio, nelle università della sua regione. E forse è impressione non solo mia, se a San Severo raccontano (ne trovi tracce sul web) che lui avrebbe rifiutato la cittadinanza onoraria, informalmente propostagli dal presidente del Consiglio comunale, Luigi Damone (non è vero, lo stesso Damone mi assicura di non aver mai incontrato Cota, ma che, volendo, la proposta può essere fatta, perché no?); raccontano che avrebbe smentito di avere radici meridionali, in un incontro occasionale, a Torino, con consiglieri comunali di San Severo (salvo poi rivendicarla in televisione, in un confronto con il presidente della Puglia, Nichi Vendola?); di vero, ci sarebbe che nessuno ricorda di averlo mai visto a San Severo (e sarà pure padrone di andare dove gli pare...), anche se vi ha ancora dei parenti. Il cognome sembra persino un altro, perché la pronuncia settentrionale allarga la “o”; mentre quella meridionale la chiude: Couta, e la finale sfuma, quasi in una “e” atonica, Cout(e), che vuol dire: “coda”. Ora, qualunque sia il modo in cui Roberto Cota vive il suo stato di “meticcio italiano” (un quarto della popolazione del Paese è tale), quel modo non mi pare estraneo al gesto del posacenere: ogni nostra azione, ogni nostra parola è figlia di quel che siamo e sentiamo. L’esasperata manifestazione di appartenenza identitaria al Nord, con l’atto (servile, per eccesso di attenzione) nei riguardi di chi la incarna, forse svela la fragilità della radice di quell’appartenenza e sospetto che Roberto Cota, faccia pulita, linguaggio corretto (altro che
Borghezio e Calderoli), la viva con inquietudine palese o inconscia. C’era, lì, anche il presidente del Veneto, Zaia, ma i posacenere li ha lasciati stare (l’orgoglio veneto che raccoglie il mozzicone del lombardo... mah!). Non volendo, Cota, con il suo gesto, ha confermato l’idea del ruolo e della sudditanza meridionale, nella peggiore delle sintesi razziste della Lega (e non solo). Come per Rosy Mauro, terrona inclusa nel “cerchio magico” dei più stretti collaboratori di Bossi, vicinissimi ai padroni, ma terrona. A me, il gesto di Cota ha detto questo. Se mi sbaglio, chiedo scusa: immediatamente dopo le scuse di Bossi, per l’offesa alle leggi che a noi tutti tocca rispettare, e quelle di Cota (forse l’unico leghista che non riuscirà a diventare cafone e antipatico), che invece di impedire l’insulto, lo ha agevolato.
48 FREGALISMO EQUO E SOLIDALE
La chiamano “la sfida del federalismo”; però “solidale”, eh? Nei miei incontri con i lettori, c’è sempre qualcuno (a Sud) che domanda: «Sapremo accettare la sfida?»; o (a Nord): «Saprete accettare la sfida?». Dandola per scontata. Dicono che così gli amministratori meridionali (notoriamente corrotti; e “cialtroni”, garantisce Tremonti), saranno costretti a far bene o a sprofondare, meritatamente e insieme ai loro amministrati. Abbiamo capito tutti che l’ipotesi ritenuta davvero probabile è solo la seconda, sì? Il maestro di cerimonie della Lega Nord, Borghezio, ha anticipato il “tiè!” e il gesto dell’ombrello: è il più sincero. Cos’è il federalismo? Uno strumento per unire quello che è diviso. Quindi vuol dire che l’Italia è divisa e bisogna unirla? (Ma allora, cosa si è celebrato nel 150° anniversario del Risorgimento?). E perché si deve fare il federalismo? Lo vuole un partito razzista che rappresenta meno di dieci italiani su cento e concentrati in una sola parte del Paese (il che già dovrebbe suonare stranuccio); e che mira, come primo punto del programma del suo statuto, alla secessione del Nord (il che dovrebbe suonare ancora più strano).
Come funziona il federalismo? Sono tante le forme di federalismo. E gli esperti ve le spiegano bene. Io voglio solo capire con quali intenzioni lo si vuole, per arrivare dove, in Italia. I 26 cantoni svizzeri, per dire, avevano forme di organizzazione e lingue diverse. Hanno messo insieme quel che gli conveniva unire (moneta, economia, esercito, miti fondanti, la mela di Guglielmo Tell, bruciare le streghe: furono loro ad arrostire l’ultima, in Europa); e tenuto diviso quello cui non gli andava di rinunciare: la lingua (francese, tedesco, italiano e romancio); o la religione (chi protestante, specie nelle città, chi cattolico, specie in campagna). Quindi, il federalismo unisce quello che riesce a unire (non di più), e che prima era diviso. L’Italia ha in comune, negli stessi confini, istituzioni, leggi, lingua, storia e via di seguito: cosa deve unire (a parte gli italiani...), che non lo sia già, almeno da questo punto di vista? Il problema del Paese è l’opposto: quel che si fa per ridurlo in pezzi. E con risultati evidenti: le infrastrutture sono un diritto al Nord e al Centro, una pretesa al Sud; le ferrovie si espandono e velocizzano a Nord, riducono quantità, qualità e velocità, a Sud; i finanziamenti statali sono maggiori dove già hanno molto e vengono sottratti a chi già ha meno; la salute dei settentrionali vale di più di quella dei meridionali... Vuol dire che si lavora, e con evidente successo, a una secessione stradale, una secessione ferroviaria, una secessione sanitaria (più di sette milioni di meridionali sono a rischio indigenza, secondo il rapporto Svimez; uno su 5 non può pagare il medico; i controlli preventivi contro il tumore al seno riguardano il 99 per cento delle donne in Emilia Romagna, il 17 per cento in Sicilia), una secessione scolastica, bancaria e via discriminando; per costruire, in 150 anni, un Paese sempre più disuguale. Questa disuguaglianza aspetta di essere certificata con la
separazione o soppressa con l’equità; seconda che si voglia (ma qualunque cosa accada, sapremo che si tratterà di quello che si è voluto. Le cose non capitano, si fanno; e se si fanno, è perché si vogliono). E chi soffia sul fuoco di queste disparità, perché aumentino, persino inventandone di nuove, a forza di insulti e furti? Lo stesso partito (e suoi contigui tremontiani e gelministi) che invoca la secessione, minaccia il ricorso alle armi e chiede il federalismo. Per avere più soldi. Mentre in Europa, scopri in Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale, a cura del professor Alberto Zanardi, professore di Scienza delle finanze all’Università di Bologna, accadono cose che dovrebbero far venire qualche dubbio: in Stati federali come la Germania e la Svizzera, la quota di ricchezza nazionale spesa dalle amministrazioni locali è in calo e nemmeno di poco (nel periodo considerato, 1970-1995, si è scesi dal 45 al 38 per cento in Germania e dal 56 al 47, in Svizzera); mentre resta alta in Stati unitari, come quelli scandinavi (46 per cento in Danimarca): se si togliesse la dicitura sopra le tabelle, non si riuscirebbe a capire, dai numeri della spesa, per gran parte dei Paesi, quali sono federali e quali no. E «i valori degli indicatori generalmente impiegati per misurare il grado di decentramento [...] risultano a volte più elevati negli Stati unitari [...], che non negli Stati federali», inclusi gli Stati Uniti. Oh voi posteri italici che sarete obbligati a leggere queste pagine, come forma di pena alternativa al carcere, sappiate che fecero quasi tutti finta di credere che la Lega volesse davvero il federalismo per unire e non per recidere gli ultimi fili, mentre i ministri padani inneggiavano alla secessione, sul palco a Pontida, Umberto Bossi mostrava il medio (signori si nasce) e suo figlio Renzo, sbagliando?, l’indice (geni si nasce). Nel nostro Paese «nuove competenze di spesa, più ampi poteri autonomi di tassazione, trasferimenti meno
vincolanti hanno profondamente trasformato il quadro della finanza regionale e locale» scrive il professor Zanardi «tanto da far dire a Wallace Oates, uno dei massimi studiosi del federalismo fiscale, che in Italia “il movimento verso la decentralizzazione si è spinto talmente in là da prevedere una vera e propria proposta di separazione della nazione in due stati indipendenti”». Esattamente quello che vuole la Lega e teorizzava già l’ideologo padano Gianfranco Miglio, che spezzava il Paese in tre, pensando di consegnare il Sud alla mafia. Miglio era razzista, dichiarato, come tanti suoi seguaci. Sognano il Ku Klux Klanistan. Il federalismo dovrebbe consentire alle Regioni di trattenere le tasse sulla ricchezza prodotta nei loro territori, per assolvere i compiti che la legge federale assegnasse loro (strade, scuole, salute...). I soldi, oggi, vanno (non tutti) allo Stato, che poi li redistribuisce agli enti locali (Regioni, Comuni, Province eccetera). Il che fa dire a leghisti dichiarati e leghisti mascherati (li peggio: Tremonti, Formigoni, Gelmini, ma anche certi campioni del Pd non scherzano) che lo Stato è accentratore, nonostante le Regioni italiane gestiscano già una quantità di ricchezza nazionale paragonabile a quella stanziata per i cinquanta Stati federali degli USA, secondo Robert D. Putman, politologo all’università di Harvard. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Il divario Nord-Sud in Italia – 1861-2004, di Vittorio Daniele e Paolo Malanima), la Banca d’Italia (Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia postunitaria di Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea), la Svimez (150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011), l’Unione delle Camere di commercio (150 anni di economia) hanno dimostrato che, quando il Paese fu unito, le condizioni economiche erano sostanzialmente pari, a Nord e a Sud; e che il divario è stato costruito e accresciuto, specie per le
infrastrutture, da allora in poi. E dopo circa ottant’anni, tutta la povertà del Paese, prima distribuita a macchia di leopardo ovunque, era stata concentrata nelle sole regioni meridionali. Ma ancora oggi gira la favola del Sud che deruba il Nord, e un importante analista dati e sociologo, Luca Ricolfi, lo “dimostra” in un suo libro, per amor di chiarezza intitolato Il sacco del Nord. «Uno strano furto, invero» osservano in Federalismo avvelenato, Gianni Pittella, vice presidente del parlamento europeo, e Marco Esposito, giornalista specializzato in economia (il governo USA lo invitò negli Stati Uniti, nel 2002, a discutere di federalismo fiscale), perché «dopo un secolo e mezzo di “sacco del Nord” i derubati si sono arricchiti e i ladri sono rimasti indietro.» Il professor Giuseppe Tattara, del dipartimento di Economia dell’Università di Venezia, in un suo commento critico al Sacco del Nord (mostra, tra l’altro, che è sbagliata almeno una delle equazioni di Ricolfi: a tutti può succedere, l’errore è l’origine del nostro universo), ricorda i dati dello studio fatto da Fondazione Tagliacarne e Unioncamere: la quantità di infrastrutture e servizi, al Sud è inferiore di oltre un terzo, rispetto, per esempio, al Nord-Ovest; di poco meno di un terzo, per le strade, ma quasi dei due terzi, per gli aeroporti, nel confronto con il resto d’Italia. Ora: le infrastrutture, in Italia, sono state fatte negli scorsi 150 anni, con i soldi di tutti gli italiani. Come mai ce ne sono più qui che lì? Il Sud, per la sua geografia, arrivò all’Unità con meno strade e meno ferrovie, ma con una grande flotta; la flotta divenne italiana e fu “settentrionalizzata” a danno del Sud, strade e ferrovie restarono “settentrionali” e “meridionali”. Avete mai visto ladri, anzi “saccheggiatori”, più scemi dei meridionali?: rubano il meno di ogni cosa e lasciano il più di ogni cosa al derubato. Provo a metterla in formule (così ricolfeggio anch’io); due entità
(N e S) di pari capacità di produrre ricchezza (R) si uniscono: 1N + 1S =2 R; dopo abbiamo: 2/3N + 1/3S = 2R. Compito a casa: scoprite chi è il saccheggiatore, senza chiedere a Ricolfi (è chiaro già, ma lo dico lo stesso: non prendete sul serio le mie equazioni, sono la traduzione numerica di una frase precedente. Le ho esposte, solo per dire che qualche professore non prende per buone manco quelle di Ricolfi). C’è una specie di regola non enunciata che percorre e sorregge certi ragionamenti nordisti (bruttissima parola, perdonatemela, ma una ne devo usare): quello che dallo Stato va al Nord è un diritto (e, di norma, più di quanto spetterebbe, vedi bilancio della Ragioneria dello Stato, ma sempre meno di quanto il Nord ritiene giusto); quello che va al Sud, per quanto poco sia, se non è un furto, è uno spreco. Quindi, meglio al Nord. E se è un furto nordico, va bene lo stesso: al Sud sarebbe finito sprecato pure il furto. Per esempio, le Ferrovie del Centro-Nord (abusivamente dette dello Stato) spendono e investono a Nord e tagliano spese e linee a Sud. Per Ricolfi, rammentano Pittella ed Esposito, quei soldi non vanno calcolati nel «chi prende e chi no», perché le Ferrovie sono, formalmente, una società privata, anche se controllata al 100 per cento dallo Stato, che ci mette miliardi di euro ogni anno, per ripianarne i debiti e farla andare avanti. Quei miliardi sono di tutti gli italiani, ma vanno a beneficio solo di alcuni, geograficamente selezionati. Il “trucco”, per Ricolfi, non è (come fa lui) fingere che quei soldi siano di una società privata, pur se prelevati dalle tasche di tutti gli italiani, ma pretendere di contarli fra quelli che vanno al Nord e al Sud no (a proposito di “equo e solidale”: è di questa gente che dovremmo fidarci! In un confronto televisivo, a Raitre, il sottosegretario Guido Crosetto lamentava che in Italia non si caccia mai nessuno, per quanto male faccia. Mi dissi d’accordo e gli proposi di cominciare dall’amministratore delegato delle Ferrovie
curiosamente dette dello Stato, Mauro Moretti, che «andrebbe cacciato per due motivi: per quello che fa, e soprattutto, per quello che non fa». Crosetto disse di condividere in pieno. «Guardi che ha preso un impegno dinanzi a qualche milione di persone» gli fece osservare, divertito, Sergio D’Antoni, ex segretario della Cisl, presente all’incontro. «Lo so» replicò Crosetto, convinto. Naturalmente, Moretti fu subito riconfermato: perché cacciarlo, se fa esattamente quel che ci si aspetta da lui?). Eppure, nonostante queste discutibili sottrazioni, Ricolfi, con i suoi conti, ha un problema: per reddito inferiore e peggiori servizi pubblici, pur lasciando fuori le Ferrovie, che sono “private” (del senso della vergogna), i saccheggiatori meridionali restano più poveri dei saccheggiati settentrionali, di 3.000 euro pro capite. Ora, ci pensate la sfiga del Sud? Nel mondo reale è più povero perché, da 150 anni è derubato, a partire dal grande saccheggio risorgimentale (chiuse le aziende, spostate tutte le commesse al Nord, trasferito a Torino l’oro di Napoli, setacciati risparmi e denaro, in oro, circolante, con le svendite dei beni requisiti e rivenduti ai meridionali; gestione della ricchezza nazionale a quasi esclusivo beneficio del Nord). Negli ultramondi ricolfiani, invece, conviene essere derubati, per essere più ricchi; ma in quegli universi capovolti, al Sud tocca la parte del ladro: la più misera. Ce ne andasse bene una! Tornando in questo sistema solare: come dimostrare che il Mezzogiorno, pur se impoverito a forza e trascurato dallo Stato, arraffa, in realtà, più di quanto gli spetti? «Ricolfi fa una scoperta che gli sarà apparsa geniale: a causa della disoccupazione elevata, nel Sud c’è più tempo libero» scrivono Pittella ed Esposito (visto, a parlarne troppo? Se n’è accorto pure Ricolfi). Uno pignolo ricorderebbe che è libero il tempo che rimane quando quello “occupato” finisce, ma se quest’ultimo è zero... insomma, come dire che la
dieta è un valore, perché consente di mantenere, con il peso-forma, la buona salute. Ma la dieta è il digiuno volontario di chi non ha problemi di alimentazione (e, se ne ha, sono quelli del troppo); se fai la fame, perché non hai niente da mangiare, è lecita qualche obiezione sul valore salutistico della dieta totale e obbligata, o no? No, negli ultramondi ricolfiani, dove, «assegnando un valore di 6,30 euro per ogni ora libera, il cittadino del Sud ha in media 7.000 euro in più di ricchezza» (virtuale, da “non lavoro”, e poco spendibile su questo pianeta; il professore dimentica i disoccupati insonni, che dormendo poco e continuando a non far nulla, rendono ancora più ricco il Sud: fossero evasori fiscali...?). Così, nei suoi conti, Ricolfi riesce ad assorbire i 3.000 di svantaggio e darne 4.000 di vantaggio pro capite ai meridionali. Il totale fa 50 miliardi di euro che il Sud saccheggia ogni anno al Nord; grazie al non calcolo dei soldi veri (vedi Ferrovie) che arrivano al Nord e al calcolo degli ultrasoldi ricolfiani che il Sud produrrebbe, se ogni ora non lavorata portasse in tasca 6,30 euro, per ogni disoccupato. Al professor Tattara appare «del tutto discutibile il tentativo di completare il quadro aggiungendo una stima del valore del tempo libero»: «un’ipotesi dura da digerire». Figuratevi per i disoccupati meridionali (meglio continuare a non digerire niente...). Ma c’è qualcosa ancora da dire: il valore del tempo libero dei disoccupati «è assunto uniforme» spiega Tattara «per tutto il territorio nazionale». E qui un’osservazione vorrei aggiungerla: ai meridionali, se i soldi devono darli veri, si pretendono le gabbie salariali (cioè, dagliene di meno, a parità di lavoro); se devono darglieli finti, “virtuali”, li pagano come quelli del Nord e son disposti a darli (prezzo pieno, e vaiiiii!) persino ai disoccupati (cosa abbiamo fatto per meritare tanta generosità?). Operazione un pochino disonesta, perché trascura che i salari effettivi dei meridionali (quelli che lavorano...) sono inferiori a quelli del Nord. Da
disoccupati «pagati a chiacchiere» si torna pari, e il Sud risulta, così, ricolfianamente più ricco e più ladro. Sulla scorta di tali ragionamenti, il professor Ricolfi segnala che «il vittimismo non paga più» e che «un Mezzogiorno così com’è oggi è un lusso che il Nord non si può più permettere» (da «La Stampa»). Un nuovo modo di guardare l’Italia si intitola la prima parte del suo libro. Boh, a me pareva di averle già sentite queste cose. A proposito di saccheggi: il professor Gianfranco Viesti, uno dei maggiori economisti italiani, cui si devono alcune delle più lucide analisi del divario Nord-Sud (Abolire il Mezzogiorno, Mezzogiorno a tradimento), insegna all’Università di Bari e dirige la Fiera del Levante, su www.nel-Merito.it ha pubblicato un interessante studio, Ecco dove sono finiti i fondi Fas. Sappiamo tutti cosa sono i Fas? Sono fondi destinati allo sviluppo di aree sottoutilizzate. Per legge, dovrebbero essere spesi per l’85 per cento nel Sud e solo per investimenti extra, rispetto a quelli che già deve fare lo Stato. Si tratta di 43,6 miliardi di euro, di cui 36,9, per legge, al Mezzogiorno, 6,5 al Centro-Nord. Lo studio di Viesti è (al solito) chiarissimo e dettagliato, mi limito a dirvi come va a finire. Fate conto di dividere il vostro stipendio in una quota destinata alla normale amministrazione (vitto, alloggio, bollette...): questa è la spesa corrente; e una quota agl’investimenti (comprare casa, cambiare l’auto, iscrivervi a un corso di vela...): questo è il conto capitale. I Fas, per legge, non potevano essere usati per la spesa corrente: per quella c’è già il normale bilancio dello Stato (che valeva, per il 2008, 60 miliardi di euro); quindi, potete valutare quale enormità sia stata impiegare ben 23,6 miliardi di Fas, non per lo sviluppo, ma per, come dire?, le spese quotidiane. E quando si va a vedere dove sono stati spesi questi soldi, le cose peggiorano: al Sud, invece di 39,6 miliardi, solo 18,9; al Centro-Nord, invece di 6,5, ben 19,4. Alla faccia della legge: «La più grande rapina del
secolo» secondo l’attivissimo sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Se non basta, ecco dove sono finiti quelli che restavano: 4,6 miliardi ai terremotati dell’Aquila: significa che lo sforzo del Paese per far fronte al cataclisma è stato caricato quasi esclusivamente sulle spalle dei meridionali. E, per soccorrere i nostri connazionali abruzzesi (ricordate l’insulto del leghistissimo deputato europeo Matteo Salvini ai napoletani, in quei giorni, sì?: «Terremotati!»), il governo a trazione tremontian-leghista ha fatto pagare l’85 per cento della “solidarietà” a un terzo degl’italiani, i più poveri; e appena il 15 per centro ai due terzi più ricchi, al Centro-Nord. Non fatevi domande inutili, tipo: «Ma non si vergognano proprio di niente?» perché ha già risposto il maestro di cerimonie padane Mario Borghezio, accusando gli abruzzesi di essere, «come il Sud», «un peso morto» per il Nord, capaci solo di «lamentele e sceneggiate»: per un terremoto e poche centinaia di morti. E dai! E, visto che si parla di svergognati: i truffatori caseari padani che si servivano della banca della Lega, la Credieuronord (poi andata a gambe per aria) ci sono costati quanto il terremoto dell’Aquila (e pure quelli, soldi Fas o presi ovunque, persino dai fondi destinati ai malati di cancro!). Come dire: senza il danno procurato da un pugno di delinquenti elettori della Lega (finanziati a forza dagli italiani, quasi esclusivamente del Sud) ci saremmo pagati i danni del terremoto! (Qualcuno ha visto Borghezio? Oggi sono dell’Aquila e avrei qualcosa da... dirgli.) Vabbe’, non la faccio lunga: quanti dei 39,6 miliardi di fondi Fas destinati allo sviluppo del Mezzogiorno, sono stati davvero utilizzati per lo scopo stabilito dalla legge? Solo 11. Il boccone più grosso del totale è andato al Centro-Nord e, per fortuna (almeno quelli), hanno mangiato pure i terremotati dell’Aquila. Comincio a pensare che Il sacco del Nord sia
quello che si riempie fottendo i soldi al Sud. Non so, devo chiedere all’autore... Magari, prima ricordandomi di cosa spiegano i professori Paolo Savona, Riccardo De Bonis e Zeno Rotondi, in Sviluppo, rischio e conti con l’esterno delle regioni italiane: ogni anno dal Sud partono (per acquisti di merci settentrionali) circa 20 miliardi di euro in più di quanti da Nord ne siano trasferiti al Sud. Se il Sud si stufa, quel “sacco” si svuota. A pagina 67 del suo libro, Ricolfi pubblica un grafico: reddito pro capite Sud/Centro-Nord; fonte: elaborazione su dati Istat, Banca d’Italia e Daniele Malanima (entrambi del Consiglio Nazionale delle Ricerche; N.d.A.). La curva mostra come il reddito pro capite è cambiato dal 1861 al 2004. Nel 1861, il Sud era alla pari, da allora in poi scende, crolla, prova a risollevarsi, ricasca. A pagina 66, proprio accanto alla tabella, il professore riporta la domanda: «Perché in centocinquant’anni il Sud non è riuscito né a colmare né ad accorciare sensibilmente il divario con il Nord?». Scusi: quale divario? Ha visto il grafico a pagina 67? Il divario non c’è nel 1861. Quando il Sud non aveva il fraterno e liberatore aiuto del Nord, il Sud era almeno pari al Nord. Non sarebbe meno fuori luogo chiedersi: cosa è successo nel 1861 e da allora, per 150 anni, perché il Sud declinasse? Il Nord invade (con le migliori intenzioni, ci mancherebbe), brucia, ruba l’oro e il resto, massacra, distrugge le aziende; tassa tutti, ma investe solo a Centro-Nord, allora e oggi. Poi si chiede: perché il Sud non risorge? È come se uno atterrasse un altro con una randellata, poi, al tizio che ormai respira con la mascherina d’ossigeno, chiedesse: «Perché non ti riprendi, dopo tanti anni, ormai?». E se lui la smettesse di dare randellate prima e tenere il piede sul tubo dell’ossigeno, poi? (Ehm..., questa è una comunicazione privata con il professor Ricolfi; pertanto, nel rispetto
della legge sulla privacy, chi non è Ricolfi è pregato di saltare al paragrafo successivo, salvo sanzioni di legge: prof., se lei e i Tremonti calderolati gelminiani continuate a spargere principi “equi e solidali” di tal genere, c’è rischio che, diventando tutti disoccupati, i meridionali comincino a “saccheggiare” pure la Germania. Secondo lei, come la prenderebbe la Merkel?). Il lavoro di Pittella ed Esposito è interessante, perché fa una sintesi dei trucchi (quelli veri), con cui si costruisce il presunto vantaggio del Sud (dove si sta così bene, che «da qua se ne vanno tutti» lo canta persino Caparezza!): la vita costa il 16,5 per cento meno nel Meridione (ancora!), secondo un rapporto della Banca d’Italia che ignorava, però, la ricerca della Nielsen sulla spesa al supermercato, più cara al Sud (e, addirittura, quasi tanto più cara, quanto meno ricca è la regione, al punto che la spesa è massima in Calabria: 4,6 punti sopra la media nazionale, mentre in Lombardia, la più ricca, è 1,5 punti sotto). Non si dice che gli stipendi sono già inferiori di almeno il 17 per cento al Sud e ogni lavoratore meridionale deve mantenere due persone e mezzo; il suo collega settentrionale, una e mezzo. I servizi efficienti al Nord, carenti al Sud, il meridionale deve pagarseli a parte. E persino si giochicchia sporco, perché, gran parte del presunto minor costo della vita a Sud «è dovuto» avvertono Pittella ed Esposito «al diverso valore delle case di proprietà». Seguiteli, che la cosa è illuminante: la stragrande maggioranza delle famiglie italiane possiede la casa in cui abita; ma quanto spenderebbe se dovesse pagarci l’affitto? Al Sud meno, al Nord, di più. Quindi, la vita costa meno al Sud, concludono i compilatori del rapporto. Davvero? Ma non lo paga l’affitto chi vive in casa propria (case più modeste al Sud, più ricche al Nord). Ancora una volta, si prende per buono un vantaggio virtuale del Sud e si trascura un vantaggio reale del Nord, perché chi possiede una casa a Milano non
“spende” di più per l’affitto che non paga, ma ha in tasca un valore vero e ben più grande di chi ha gli stessi metri quadrati a Catanzaro. C’è un modo per capire che qualcuno vuole fregarti: l’uso distorto delle parole. Per esempio, per l’attuazione del federalismo fiscale (“equo e solidale”, si capisce) si è costituita una Commissione (“paritetica”, e ci mancherebbe), la Copaff. E ora decolliamo nei cieli del “fregalismo fiscale” (pilotano Pittella ed Esposito, siamo in buone mani); tenete pronti i sacchetti antivomito: la Copaff è un parlamentino di 30 membri; 15 nominati dal governo, 7 dalle Regioni, 5 dai Comuni, 3 dalle Province. «Pariteticamente» (avevate dubbi?), 13 dei 15 di nomina governativa sono stati indicati da ministri del Nord, 1 da un ministro toscano e solo 1 dal ministro per le Regioni (pugliese). Un bel 14 a 1: è paritetico, sì? Per fortuna (si fa per dire), a decidere davvero non è la Copaff (riunitasi solo due volte, nei primi sei mesi), ma il Comitato di presidenza, 5 membri, 4 del Nord, anzi di una sola regione, la Lombardia (2 nominati da Tremonti, 1 da Bossi, 1 dalla Regione), e 1 di Roma. Il Sud, che già non contava niente nella Copaff, scompare del tutto. Si rammenta ai viaggiatori che la Commissione (paritetica, mamma, non patetica o peripatetica. Per quanto...) deve elaborare pareri tecnici per il federalismo: equo e solidale, ne dubitavate?, e responsabile (di cose turpi, però). Per questo sono stati costituiti «sei gruppi di lavoro ai quali partecipano anche componenti non-Copaff, per un totale di 148 membri» (e io pago...), si legge in Federalismo avvelenato. «Anche nei gruppi di lavoro i meridionali sono messi ai margini» tanto che il rappresentante della regione più ricca, la Lombardia, coordina due gruppi di lavoro su sei, e quello della regione più povera, la Calabria, non compare in nessuno dei sei gruppi,
manco come semplice spettatore. Il gruppo di lavoro sulla perequazione è quello che dovrebbe stabilire entità e sistemi di aiuti da destinare alle regioni più svantaggiate, in seguito all’entrata in funzione delle norme federaliste. È, quindi, quello in cui maggiormente il Sud dovrebbe far sentire la sua voce. Questo gruppo «conta 24 componenti. I coordinatori sono due, uno scelto da Tremonti (lombardo, ministro delle Finanze ; N.d.A.) e l’altro da Formigoni (presidente della Lombardia; N.d.A.). Le altre regioni rappresentate sono tre: Liguria, Emilia Romagna e Lazio. Il Sud è assente». Una specie di processo in contumacia, ma equo, solidale e (dis)paritetico: garantiscono Formigoni, Bossi e Tremonti, quello che quando vara i “sacrifici lacrime e sangue” fa pagare ai redditi più bassi il doppio, rispetto a quelli alti (compito a casa: scoprire in quali regioni d’Italia ci sono i redditi più bassi). Che c’è, non vi fidate? Temete che non siano equi e solidali con i meridionali che fraternamente chiamano “cialtroni” e “porci”? La Copaff è una commissione tecnica; poi c’è quella Bicamerale, che dà pareri politici e, quindi, conta di più (il federalismo è complicato). Sono altri 30 membri, ma solo 6 delle regioni ordinarie del Sud (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Lucania, Calabria), nessuno dei quali fa parte della presidenza o della segreteria della Commissione; mentre ben 6 sono i rappresentanti della Sicilia (il doppio di quanti dovrebbero essere, in base alla popolazione); sono siciliani il presidente e un vicepresidente (l’altro è veneto, leghista), friulano uno dei due segretari (l’altro è laziale). Apparentemente, c’è squilibrio pro-Sicilia, pro-Sud, al vertice. Dov’è il trucco? «I decreti sul federalismo fiscale non si applicano alle regioni autonome», quali Sicilia, Friuli Venezia-Giulia e le altre a statuto speciale. Ma sono proprio i rappresentanti di queste (3 su 5) «ad avere i ruoli chiave» e 9 membri su 30 in
Commissione (il doppio di quanti gliene spetterebbero). Curioso che, nel decidere la distribuzione delle risorse con il federalismo, a contare di più siano proprio le Regioni escluse dall’applicazione di quelle norme! A meno che alle cinque Regioni autonome non sia stata già promessa l’intangibilità dei loro privilegi, «in cambio dell’accondiscendenza verso la parte sostanziosa della riforma e cioè il trasferimento di risorse dal Sud continentale al Nord». Non vi distraete: com’è il federalismo? Equo e solidale. Come lo si costruisce? Con commissioni “paritetiche”. E perché sento volare verso Sud un padulo equo e solidale, da schiantarlo pariteticamente e per sempre? Cosa sarebbe accaduto se, nelle commissioni e nei conseguenti gruppi di lavoro, le Regioni ordinarie del Nord fossero state escluse da ogni possibilità di esporre le loro proposte e di votare per difendere i loro interessi, per sottostare, mani legate, a quanto stabilito da Provincia di Bolzano e Val d’Aosta, in prepotente solitudine decisionale con Campania e Calabria? Sospetto che non lo avrebbero trovato equo, solidale e paritetico; e avrebbero fatto bene a reagire. Perché, invece, il contrario passa e le regioni meridionali tacciono? Perché non contano niente: in quanto colonia interna, possono solo consentire a loro danno o uscire dalla stanza. Il che dura, finché non sarà tanto diffusa da diventare azione la consapevolezza di questa subalternità (imposta con le armi, 150 anni fa, e mantenuta con la politica e l’economia, come pure questo caso clamorosamente dimostra). La concordanza sulla discriminazione a danno del Sud non è politica, ma geografica: ho già raccontato che negli incontri Stato-Regioni, per varare la bozza delle norme sul federalismo, l’allora presidente del Piemonte, Mercedes Bresso, superava “a Nord” pure la Lega; mentre dall’ex sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, è giunta la proposta di un Pd
del Nord, per rappresentarne gli interessi; l’ex di Venezia, Massimo Cacciari, suggerisce qualcosa di analogo. Come dire, ma non lo dicono: i forti con i forti, i deboli li si manda a fare autocritica. Sul federalismo fiscale delle Regioni si sono messi d’accordo in cinque, fra leghisti e Pd (c’era Vasco Errani, presidente dell’Emilia Romagna) e, al voto in Commissione, il Pd si è astenuto, favorendo l’avanzata delle camicie verdi. Vero: el pueblo unido jamas será vencido. El pueblo del Norte, claro! Quel giorno, manco a farlo apposta, ero ospite, in Campania, di un’associazione di area Pd. Feci rilevare la schifezza; mi fu risposto che la cosa sarebbe passata lo stesso, perché il Pd è minoranza, in Commissione, così, tanto vale... Ma il Pd è minoranza pure in Parlamento, sennò sarebbe al governo (guarda cosa sono andato a scoprire!); con questa logica, dovrebbe astenersi sempre, dal momento che la maggioranza è, scusate ma tocca dirlo, in maggioranza! Quando vuole, nonostante il suo stato (non solo numericamente) minoritario e comatoso, il Pd vota contro, fa ostruzionismo, fa quello che può fare una minoranza; però, per favorire il Nord e danneggiare il Sud, si astiene, nel timore di perdere altri voti padani. È una scelta. Geografica. Come la Lega, messo alle strette, il Pd fa coincidere la politica con la latitudine. Cioè, con questo (scusate se ora la cosa diventa un po’ più complessa, ma leggendo un po’ più lentamente, si dovrebbe capire): – già il calcolo di quello che era stato chiamato “il biglietto d’ingresso” (il primo, costoso passo) nel paradiso del federalismo (anno 2012) rende l’idea di cosa intendano per equo e solidale i paritetici padani di destra e di sinistra: alla regione più ricca, la Lombardia, sarebbero arrivati quasi 600 milioni di euro in più, sottratti alla Puglia (250),
alla Calabria, la più povera (173), alla Basilicata (96), al Molise (47); 200 milioni in più all’Emilia Romagna di Vasco Errani (che non parrebbe fra le più bisognose); 149 al Veneto (soccorso agl’indigenti, visto che i suoi amministratori non “cialtroni” hanno dissestato il bilancio della regione...); 264 al Lazio (Roma capitale e rigatoni co’ a pajata offerti a Bossi, dal sindaco Alemanno e dalla Polverini, presidentessa del Lazio, qual ringraziamento per averli chiamati «porci»). Tutte le Regioni ordinarie del Sud (ma pure Toscana, Piemonte e Liguria) ci avrebbero rimesso a favore delle tre più ricche del Nord e del Lazio. È l’equità dello sceriffo di Nottingham, che leva ai poveri per dare ai ricchi (a ogni lucano sarebbero stati tolti 163 euro in più all’anno, per darne 59 a ogni lombardo; quasi un miliardo di euro levato al Sud, per contribuire all’overdose delle satolle tribù del Nord): a Robin Hood buttano le noccioline nelle segrete del castello (vuote: non le segrete, le noccioline). Chi non crede che si risolva così la questione meridionale non ha capito nulla: ucciso il Meridione, questione risolta! «Il biglietto d’ingresso del 2012, poi, è stato soppresso in fase attuativa del decreto, per cui si partirà direttamente nel 2013, ma il ragionamento resta identico» dice Marco Esposito. Pfuii!! Per un attimo avevo temuto che il fregalismo non sarebbe stato equo e solidale! Per non lasciarci dubbi, pur di equamente fottere un altro po’ di soldi al Sud e assegnarli alle più ricche città del Nord (è la solidarietà ambrosiana di Comunione e Sottrazione), hanno deciso di fare un ulteriore sfregio alla Costituzione. «L’articolo 119» spiega Esposito, nel frattempo diventato assessore allo Sviluppo di Napoli, con Luigi De Magistris «dice che gli enti locali devono essere integralmente finanziati per le funzioni che devono svolgere. Ma fissate le “medie” (del fregalismo equo e solidale; N.d.A.), i Comuni che ne
sono sotto, tutti del Sud, si vedranno sforbiciato il 100 per cento costituzionale, di una percentuale minima, 0,28, per cominciare, e forse di più, in seguito.» Come dire che ai meridionali “porci”, “topi” “merdacce” e via solidarizzando, invece di dare 100 euro, ne daranno 99,72. Vuoi vedere che sono capaci di lamentarsi per così poco, questi «atavicamente incivili» (infatti, danno la cittadinanza onoraria di Ravello al ministro Brunetta che così li insulta)? Il fatto è che «in tal modo, si otterrebbero tre risultati» continua Esposito: «la creazione di un tesoretto che andrebbe ai 39 Comuni più ricchi del Nord; la violazione del principio costituzionale (una volta infranto, l’entità dei tagli può crescere senza più limite); e passarebbe il principio che ci possono essere cittadini di serie A e di serie B, mentre su temi come la scuola, la sanità, il diritto alla mobilità non si dovrebbe mai guardare al portafoglio di chi riceve il servizio (o dei suoi vicini di casa), ma soltanto che i soldi assegnati siano spesi con efficienza». Considerata la perversa fantasia e la spudoratezza di questi fregalisti padani, non sono in grado, mentre il libro viene chiuso, di dire cos’altro riusciranno a partorire. Ma, a questo punto, è persino poco interessante, perché quel che conta è mostrare con quale animo e quali criteri si procede alla costruzione del fregalismo. Con i rappresentanti del Sud, quelli in buona fede, convinti (come quelli del Nord in buona fede) di poter contrattare qualcosa di decente con questa gentaglia; mentre i rappresentanti del Sud in cattiva fede tornano all’accampamento a chiedere l’applauso, perché hanno strappato al nemico la promessa che donne e bambini saranno uccisi per ultimi (loro, quale premio per la condiscendenza, avranno salva la vita, ché ai vincitori servono dei camerieri). Ripeto: trattare con la Lega la trasformazione dell’Italia in un Paese federale è come discutere con il boia del colore della
corda con cui ci impiccherà. Cosa comporta l’applicazione di tali criteri equi e solidali al gorgonzola? Che alle Regioni con i servizi migliori si daranno altri soldi, per farli pagare meno o perfezionarli; quelle con i servizi peggiori (o nulli: la Calabria è l’unica in Europa a non potersi permettere un piano di assistenza sociale), dovranno aumentare le tasse per non farli degradare ulteriormente, o persino rinunciarvi. Ma le tasse sono già più alte nelle Regioni peggio servite (i lombardi pagano meno dei campani), e non solo per cattiva amministrazione: decentrare, comporta la necessità di spese fisse; detto in modo da far rabbrividire i professori: se per far dei conti nazionali serve un ragioniere, per farli regionali, ne serve uno in ogni regione; ma la spesa non è la stessa se, per pagargli lo stipendio, i lucani, meno di 600.000, devono addossarsi una quota pro capite 17, 18 volte più pesante di quella di 9 milioni di lombardi (e aspettatevi di sentirli vantarsi di spendere tanto meno dei meridionali...). E la Lucania, per dire, è la più virtuosa nell’utilizzo dei fondi europei, fra le migliori, in Italia, per la spesa sanitaria, ma può tassare solo quei quattro gatti dei lucani, sparsi in un territorio (strade, trasporti, sanità, servizi...) che è grande il doppio della Liguria, ma con un terzo della popolazione: significa che a ogni lucano, anche partisse a parità di condizioni (e così non è), si dovrebbe addossare un carico fiscale almeno sei volte maggiore di quello di un ligure, per garantire gli stessi diritti. È evidente che le regioni più popolose sono avvantaggiate, potendo dividere le spese fisse fra più contribuenti. Chi sostiene con maggior vigore l’equità di tale criterio? La più popolosa regione italiana, la Lombardia, 9 milioni di abitanti; arricchitasi con il drenaggio dei soldi dal Sud, poi con quello della gente dal Sud e ora, grazie a questa, pronta ad arraffare altri soldi. È il federalismo cristiano equo e solidale di rito lombardo di Comunione e
Desolazione, in perfetta sintonia con quella Lega che ha meritato le pubbliche lodi del Ku Klux Klan. La conclusione? Nelle Regioni del Sud già ora hai tasse maggiori (e costi più alti per benzina, assicurazioni...) e servizi peggiori; con l’applicazione dei criteri equi e solidali della Commissione paritetica (che ridi? Si chiama così!), aumentano sia le spese sia i disagi; così, chi può (aziende, professionisti) si trasferisce nelle regioni privilegiate, per risparmiare e avere di più, in efficienza, trasporti, università, sistema creditizio e finanziario, amministrativo, sicurezza. Sarà svantaggiata anche qualche regione del Nord, come la Liguria: Renzo Piano, per dire, manterrebbe il suo studio di rilevanza mondiale a Genova, potendo risparmiare un sacco di soldi, se lo trasferisse a Milano? Il progetto equo e solidale di quel branco di paritetici che sfascia l’Italia consiste nel concentrare in alcune (una, massimo due) regioni del Nord tutto il meglio del Paese, riducendo il resto a deserto. È «la secessione con altri mezzi», come è stato detto; solo che la si chiama federalismo. In uno dei nostri dibattiti televisivi (a Matrix, Canale 5), ricordai al vicepresidente della Lombardia, Davide Boni, che il suo partito si chiama “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”. Lui (furbo e abile polemista) mostrò la tessera di iscrizione alla cosca verde, lì qualificata come Lega Nord e basta. Peccato che il resto sia scritto nell’articolo 1 dello statuto del partito. Del disagio dei piccoli, nel federalismo alla diossina voluto dai paritetici, non si tiene conto, se si tratta di Regioni; se si tratta di Comuni sì: le norme del federalismo equo e solidale prevedono aiuti per i paesi con meno di 500 abitanti, per non obbligarli a consorziarsi con altri (il che permetterebbe di abbattere le spese e sarebbe ragionevole, oltre che equo e solidale. La Grecia, quando ha dovuto risparmiare per non fallire, ha
ferocemente ridotto il numero di Province e Comuni, proprio nei giorni in cui, in Italia, pure il Pd votava contro la soppressione delle ormai inutili Province). Come mai questa attenzione apparentemente illogica per i piccoli Comuni italiani, in un progetto federalista che nasce per eliminare gli sprechi? C’entrerà qualcosa che questi paesini sono soprattutto al Nord? (Allo stesso modo, subito dopo l’Unità, si vararono leggi per la costruzione di scuole che favorivano i centri piccoli a discapito dei grandi, quindi le scuole si fecero al Nord e niente al Sud). Nella mia Puglia, per dire, i Comuni con meno di 500 abitanti son sei; in Piemonte, cento volte tanto. Così, pure il federalismo comunale vede risorse migrare dal Sud al Nord, per finanziare spreco! Il criterio sbagliato per le Regioni diventa giusto per i Comuni ma, casualmente, coincide sempre con il vantaggio del Nord e lo svantaggio del Sud. Altro esempio, che rubo a Pittella ed Esposito: 1. la salute di un cittadino di 65 anni costa allo Stato quanto quella di quattro di 35; i primi sono soprattutto al Nord, i secondi soprattuto al Sud; 2. un povero incolto si ammala quattro volte più di un ricco che ha studiato: il primo, vado per sintesi estreme, è a Sud (i laureati meridionali emigrano a centinaia di migliaia), il secondo a Nord; 3. ma il calcolo dei costi del sistema sanitario tiene conto degli anziani ricchi e colti e se ne fotte dei giovani, poveri e ignoranti, ovvero salva sempre il Nord, cambiando di volta in volta criterio “equo e solidale”. (Compiti a casa: l’allievo provi a immaginare cosa sarebbe successo se i criteri federali fossero stati cuciti addosso alle regioni più povere e non alle più ricche; o anche soltanto se fossero stati davvero equi e solidali e, addirittura, ma la sto
sparando proprio grossa: paritetici. Ops... mi è scappata.) Sulla ricaduta economica del federalismo, in tanti anni, non sono mai stati forniti dati ufficiali (già questo dovrebbe condannare una legge che stravolge l’Italia, senza dire non solo se ci fa o no risparmiare davvero, ma nemmeno quanto costa!). A meno di credere alle generiche asserzioni leghiste, o diversamente interessate, che non si spenderà di più, «eliminando gli sprechi» (meridionali, ovvio: il progetto di una metropolitana per 24 milioni di utenti in una città di 170.000 abitanti, Parma, quella della Parmalat, non è tale; la stessa città in cui le spese folli del sindaco hanno portato a un deficit mostruoso e la popolazione ad assediare il Comune). Ma tutti gli studi e le proiezioni confermano la crescita dei costi e lo spostamento di risorse da chi ne ha meno a chi ne ha già di più (non dimentichiamo che trattasi di robina equa e solidale alla cassoëla). Persino dai sondaggi, quindi meno informati “a pelle”, emerge che accadrà questo, secondo l’opinione comune. E quando, «nella fase di scrittura dei decreti attuativi» denunciano Pittella ed Esposito, nelle Commissioni sul federalismo si sono dovute fare delle cifre (persino troppe, ma incomplete e confusionarie) «sono state nascoste ai meridionali presenti nei comitati tecnici, in quelli politici, agli studiosi, alle forze sociali, ai 14 milioni di cittadini che vivono fra Teramo e Reggio Calabria». Quindi, il fregalismo fiscale, ai meridionali vogliono darglielo solidale, ma equamente e qualunquemente a sorpresa: settete! «Fra i diversi modelli elaborati dalla teoria economica» si riassume in Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale «i sistemi di federalismo fiscale che osserviamo nella realtà sembrano addensarsi attorno a due schemi di articolazione multilivello della forma statuale: il federalismo cooperativo e il
federalismo competitivo». Insomma: o uno o l’altro. Il principale ideatore di quello nostrano, il Calderoli autore confesso di altre leggi “porcata”, può vantare l’invenzione di una nuova forma di federalismo: quello “furtivo”, a tradimento, trovando, il padulo da lunga pezza in volo, adeguata sistemazione, giungendoci alle spalle. Comprereste un’auto usata da questi maneggioni? Sono pacifista, ma talvolta capisco perché è stata inventata la clava. Sono gli stessi che quando a Vicenza, in una sola azienda, si scopre evasione fiscale per 108 milioni di euro, dicono, per bocca del presidente della Provincia, Attilio Schneck, leghista: «Ma dalle nostre parti l’evasione non crea allarme sociale. A chi hanno fatto del male?». E dice che al Sud non ti danno lo scontrino. Già, ma i dati (gruppo di studio, presso il ministero dell’Economia, sull’Irpef non pagata) sono questi: evasione pro capite al Sud, sul reddito dichiarato: 950 euro; al Nord, quasi il triplo: 2.532; al Centro più del triplo: 2.936. E Rimini figura fra le prime città a rischio povertà, in Italia. L’argomento principe per giustificare il federalismo allo stracchino qual è? Le spese gestite dall’ente locale sono più direttamente controllabili dall’elettore, che così può premiare o punire gli amministratori, a seconda che meritino. Davvero? Come mai, allora, il capitolo di spesa di gran lunga più disastrato è la sanità, in mano alle Regioni dalla fine degli anni Settanta (del secolo scorso...)? Le sole Regioni in grado di riscuotere tasse bastevoli a finanziare i servizi “federali” per i propri cittadini, sono tutte al Nord; le altre, tutte al Sud; meno, forse, la Sicilia, perché a statuto speciale, e soprattutto se ne applicasse i poteri. Ma ci hanno detto che sarebbe federalismo solidale! Vuol dire che le regioni più ricche verserebbero allo Stato “centrale” un obolo per soccorrere quelle con entrate insufficienti. C’è chi sostiene che il Sud potrebbe
persino guadagnarci: ma se il Nord si dice stufo di dar troppo al Sud, dovrebbe volere il federalismo per dargli ancora di più o di meno? E a quanto ammonterebbe l’obolo “solidale”? Qui le cose si fanno ancora meno chiare. Quando se ne cominciò a parlare, Giulio Tremonti usò un esempio: non uno stadio, un asilo (lo ricorda Agazio Loiero, in Se il Nord). Ecco: giusto l’asilo che mancava per mettere il Sud alla pari con il Nord! Senza tentare di capire quanto, possiamo solo essere certi che sarà il meno possibile. Sulla carta, però, i federalisti equi e solidali alla crescenza potrebbero mostrarsi più generosi e dire: ma sì, persino uno stadio. Sulla carta. Perché lo farebbero? Ne parliamo fra un po’. Quindi, cosa accadrebbe a fregalismo avviato? Le Regioni ricche, settentrionali, si terrebbero i loro soldi, per amministrarli da sé, come tanti piccoli staterelli. Quelle povere (generando la povertà tasse povere in proporzione) dovrebbero aspettare le sovvenzioni statali, finanziate dall’obolo solidale di samaritani che chiamano i meridionali “porci”, “topi”, “cancro”, “cialtroni”... Risultato? Si avrebbe uno Stato federale a Nord e uno doppiamente centralizzato a Sud. Perché doppiamente? Oggi, lo Stato prende da tutti e a tutti dà (in modo squilibrato: ogni 10 euro, poco meno di 5 vanno al solo Nord e il resto, diviso fra Centro e Sud, come da bilancio della Ragioneria dello Stato); con il “federalismo fregalista solidale”, lo Stato non prenderebbe ma “riceverebbe” dal Nord, per dare al Sud. Quindi il Mezzogiorno dovrebbe aspettare dal centro, che dovrebbe aspettare dal Nord. E siamo sicuri che le Regioni del Nord lo darebbero davvero, quell’obolo? Come no, starebbe scritto nella Costituzione federale, accidenti! Nella Costituzione, dove si dice che
la legge (ad personam?) è uguale per tutti, che la Repubblica è fondata sul lavoro... Per legge, era pure stabilito, scritto, che l’85 per cento dei fondi per le aree sottoutilizzate, i Fas, erano del Sud; per legge, così era scritto, servivano a risanare le scuole malmesse del Sud quei quasi 500 milioni di euro che la Gelmini ha distribuito pure al Nord e al Centro; ed erano per le strade dissestate di Calabria e Sicilia i 3,5 miliardi di euro con cui si è abbuonata (oh, ministro Tremonti, ancora lei?) la tassa sulle prime case di lusso a tutt’Italia; sempre per legge, Prima Repubblica, il 40 per cento degl’investimenti totali delle aziende di Stato doveva essere fatto al Sud (figurati!); per legge, Seconda Repubblica, il 45 per cento della somma dei fondi ordinari più quelli per le aree sottoutilizzate dovevano andare al Sud; per legge, almeno il 30 per cento di quelli ordinari dovevano andare al Sud e si è scesi a poco più di 20; mentre le Ferrovie incomprensibilmente dette dello Stato dovrebbero garantire la stessa facilità di trasporto a tutti gli italiani... ma che, devo continuare? Solo se mi viene imposto per legge, così me ne frego. Il federalismo non c’era ancora, ma è bastato piovesse un po’ di più, in Veneto (con conseguente inondazione: accade, se costruisci trascurando che lì scorre il fiume), perché il presidente della Regione, Zaia, chiedesse un miliardo di euro, pena il mancato invio delle tasse “a Roma”. E, per legge, non poteva farlo; immaginate il giorno che potesse. Quindi, metti che piovesse di nuovo, sotto le Alpi (l’Istituto meteorologico dell’Aeronautica mi conferma che potrebbe succedere!), il “federalismo solidale” si mostrerebbe per quello che davvero è: secessione. E se non piovesse (hai visto che questi del meteo non ne azzeccano una?), le Regioni del Nord troverebbero comunque una scusa (magari la siccità), per non inviare l’obolo “a Roma”. E tu che fai? Dichiari guerra, gli mandi la Finanza, la ministra Mara Carfagna per le pari opportunità?
Lo Stato centrale resterebbe senza fondi, il Sud si staccherebbe per inaridimento della giugulare. E se avvenisse in maniera incruenta, ci sarebbe ancora andata di lusso. Pessimista? Questo è lo scenario che traccia anche il più acuto ragioniere del potere che abbia mai incontrato: Raffaele Lombardo, divenuto presidente della Sicilia, con l’intento di attuare nella sua interezza lo Statuto speciale della Regione (l’unico recepito nella Carta costituzionale, della quale condivide, quindi la dignità). Mi spiegava che, nell’impossibilità di contrastare il disegno secessionista della Lega, a lui bastava salvare la sua Sicilia, impedendo che la ricchezza prodotta nell’isola, vedi i giacimenti di idrocarburi al largo della costa sudoccidentale, generasse introiti fiscali altrove (per esempio in Lombardia). Solo per l’industria estrattiva, si tratterebbe di quella nota decina di miliardi di euro. Forse, finalmente la Sicilia avrebbe le ferrovie, le strade mai fatte. E la Basilicata? Anche la Basilicata ha gli idrocarburi: i maggiori giacimenti petroliferi europei in terraferma. Ma non ha lo statuto speciale della Sicilia e la ricchezza delle sue viscere le vale royalties del 7 per cento, mentre Paesi africani meno colonizzati della Lucania, almeno da questo punto di vista, trattengono poco meno di dieci volte tanto. E la Sardegna? Ha il grande turismo, ma l’80 per cento delle sue aziende ha sede fiscale fuori dall’isola, quindi non ne riscuoterebbe le tasse; il Molise, l’Abruzzo, non hanno né il turismo della Sardegna, né il petrolio della Basilicata, né lo Statuto della Sicilia... Quindi? Avremmo un Sud nel Sud; e, con fenomeno identico ma proporzioni diverse, la stessa cosa al Nord. Insomma, il “federalismo solidale” vedrebbe i forti salvarsi, a spese dei più deboli; e ognuno per i fatti suoi: tana, liberi tutti. Qualcuno, di crepare. Forse, è più facile per un profano, che per lo specialista, capire dove conduce questo percorso. Perché, se cerchi di comprendere la complessità della questione “federalismo”,
rischi di perderne la visione d’insieme, nel labirinto di proposte, ipotesi, norme contrattate, riscritte, emendate... Lo Stato italiano è lento, farraginoso: un freno, piuttosto che un acceleratore. Sulla necessità di correggere questo difetto, molto serio, la Lega ha giocato l’idea del federalismo, che ha scopi ben diversi da quelli dichiarati. Ma su questo si lavora, non essendo stato proposto (con altrettanta forza) qualcosa di meglio e manco di peggio. Dopo il “federalismo amministrativo” della riforma Bassanini, 1997, per snellire i passaggi burocratici, arrivarono il “federalismo costituzionale” nel 2001, con Giuliano Amato, la riforma del Titolo V della Costituzione; quindi, dopo lunga gestazione, il “federalismo fiscale”, con Tremonti, dal 2009, che consta di otto decreti legislativi, su: federalismo demaniale, Roma capitale, i fabbisogni standard di Comuni e Province, il fisco municipale, provinciale, regionale e i costi standard della sanità, l’armonizzazione dei bilanci pubblici degli enti territoriali, la “governance”, con premi e sanzioni politicoistituzionali, la perequazione infrastrutturale. Chi si aspetta che spieghi cosa significhino questi otto decreti, ha ragione. Ma non lo farò, oltre quanto già riferito, sia pure per sommi capi; ricordo appena, velocemente, che il federalismo demaniale ha posto sul mercato, affidandola agli enti locali, spesso privi di risorse per valorizzarli o anche soltanto mantenerli, una quantità di beni che si erano finora salvati (altri solo sprecati), perché in mano allo Stato; e che il decreto sul fisco municipale toglierebbe ai Comuni del Sud (sino a dimezzarne le possibilità, per esempio a Napoli) e darebbe a quelli del Nord. Vorrei, invece, far notare l’ultima voce: perequazione infrastrutturale. Cioè il proposito di mettere tutte le regioni del Paese nelle condizioni di potersi collegare alle altre e con il resto del mondo, con la stessa facilità e celerità. Per
ultimo; come dire: è la cosa che meno interessa. E ci credo. Quando i meridionali videro in cosa consistesse l’Unità, vulgata Savoia, persino i più volenterosi al Sud ebbero ripensamenti. Lo stesso Giustino Fortunato, mistico dell’Unità, arrivò a dire che si stava meglio con i Borbone. Per non ricordare (o sì?) il citatissimo pentimento di Luigi Settembrini, l’autore della Protesta del popolo delle Due Sicilie, che nel 1870, rettore dell’Università di Napoli, agli studenti desolati per le condizioni sempre più difficili dell’ateneo, rispose: «Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di questo! [...] Se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente, e noi facemmo peggio». E più d’uno, da Ettore Ciccotti a Gaetano Salvemini, propose un’Italia federale, per salvare l’Italia e salvare il Meridione, frenando il drenaggio di risorse da Sud a Nord; mentre Guido Dorso (La rivoluzione meridionale) era per l’autonomia, perché il Mezzogiorno potesse investire nella realizzazione di infrastrutture che lo Stato non faceva e nella creazione di una economia più libera. Non se ne fece nulla. Oggi si vuole imporre il federalismo (a sentire Umberto Bossi, persino con la minaccia delle armi. E quando lo dice, lo ascoltano sorridendo. Io no. Dicono che scherza. Non si gioca con le armi: prima o poi, qualcuno si fa male), perché le Regioni e i loro amministratori e i cittadini di quelle Regioni facciano vedere quanto valgono, in leale confronto. Come dire: e se non ce la fai, è colpa tua. Trattasi di lealtà leghista. Il confronto fra le capacità di gestire, produrre e crescere delle varie Regioni, avverrebbe dopo (e ci son voluti tre quarti di secolo) che tutta la povertà del Paese, con il sangue e il furto, è stata concentrata nelle Regioni del Sud; dopo che le Regioni del Nord sono state dotate di autostrade con i soldi di tutti; di ferrovie, con i soldi di tutti; di aeroporti con i soldi di tutti (Malpensa, il peggiore, è costato pure il fallimento
dell’Alitalia, in un territorio che ha già un aeroporto ogni 50 chilometri); tutte, o quasi, le aziende di Stato o dipendenti dallo Stato per le loro commesse miliardarie, sono accasate al Nord; e così le banche, comprese quelle che erano del Sud, gli Istituti scientifici di eccellenza (come quello voluto a Genova da Tremonti: oh, ministro, ancora lei?); l’Authority europea per l’alimentazione a Parma (quella destinata a Foggia è stata dirottata per cagnara leghista); e via di seguito. È come sfidare a duello qualcuno, darsi le spalle, contare dieci passi, girarsi e... lui ha la pistola e tu la spada. Ai prodi lombardi della Lega (e non solo lombardi, e non solo leghisti) piace vincere facile. Come vincere cause in tribunale “alla Ghedini”: se, nel rispetto della legge, rischia di perdere, il suo cliente cambia la legge. ’Mmazza che bravo l’avvocato! Quando il federalismo lo chiese il Sud per difendersi, non lo si fece; quando lo pretende il Nord per assestare il colpo di grazia, si deve farlo. Semmai dovesse diventare federalista alla Bossi-Formigoni-Tremonti, l’Italia si dividerebbe (ricordate le parole di Wallace Oates, sulla deriva federalista italiana: «Una vera e propria proposta di separazione della nazione in due stati indipendenti»), e il Sud dovrebbe prepararsi ad andarsene, per salvare il salvabile e la dignità; o accettare un ruolo ancora più subordinato, persino servile, sino a quando non dovrà comunque andarsene (o essere cacciato), senza poter più salvare né il salvabile, né la dignità. Inizierebbe, a quel punto, pure il declino del Nord: non potendo più crescere togliendo ad altri, vedrebbe fallire il suo modello di sviluppo coloniale. La Lega (e i suoi “membri esterni” Tremonti, Gelmini, Formigoni) è stata brava a porre anche a Sud, Regioni a Statuto Speciale, contro quelle ordinarie. Così, il Nord ruberebbe alle seconde, salvando (per quanto?) le prime. Ma
è proprio questa furbata che può distruggere il disegno leghista. Se, come ho anticipato, le Regioni ordinarie del Sud chiedessero di accorparsi alla Sicilia, tutto il marchingegno costruito per blindare le risorse di questa e razziare quelle delle altre diventerebbe inutile, perché tutto il Sud e non solo l’isola, potrebbe gestire in proprio i suoi beni. Si può fare. Articolo 132 della Costituzione: «Sentiti i Consigli regionali» è possibile «disporre la fusione di Regioni esistenti [...] quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con un referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse». Parlandone con un amico, per accertarmi della fattibilità della cosa, ho scoperto che la proposta era stata elaborata già nel 2003, dal generale Antonio Pagano, fondatore della rivista «Le Due Sicilie». Egli suggeriva di “recuperare” così anche i territori che erano del Regno napoletano e il fascismo fece diventare del Lazio (Gaeta, Latina, Sora, Rieti). «Si può» sempre secondo la Costituzione «con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione e aggregati a un’altra.» Così «si ricompatterebbe un territorio» scrive Pagano «che ha un’origine quasi millenaria. Lo Stato delle Due Sicilie, infatti, nacque nel 1130 come Regno di Sicilia, con capitale Palermo, per opera di Ruggero II». E, con l’ombrello dello Statuto speciale siculo, il Sud sarebbe al riparo dalla pirateria padana. Il prezzo da pagare all’avidità leghista sarebbe l’unità del Paese, che non si sa quanto resisterebbe. Se l’Italia volesse restare una, dovrebbe modernizzare davvero, non alla leghista, l’amministrazione pubblica, come avvertono tutti quelli che ne capiscono, e avviare una
poderosa stagione di grandi lavori, per adeguare la dote di infrastrutture dell’intero territorio alle sue capacità e possibilità di sviluppo. Con equità. Il che significa: investire quasi soltanto al Sud e nelle aree periferiche del Nord (i treni per i pendolari lombardoveneti non sono migliori delle tradotte del Mezzogiorno), sino a porre tutto il Paese nelle stesse condizioni di agire e muoversi; come ha fatto la Germania dopo la riunificazione. Avremmo, così, il doppio risultato di rendere raggiungibili il Sud e le sue risorse (tali per tutti, non solo per i meridionali) e impegnare le maggiori aziende nazionali (quasi tutte del Centro-Nord) nei cantieri necessari. Un’opera così grande ed equa ci insegnerebbe il vantaggio di essere uniti.
49 IL TRENO PER MATERA
«Quindi, cosa dobbiamo fare?» mi chiede una studentessa, al liceo scientifico di Marsala. «E lo chiedi a me?» rispondo. «Noi siamo la generazione che ha fallito. Però ce ne siamo accorti. È poco, ma è quel tanto più di niente che serve per ricominciare.» «E chi lo farà?» «Tu.» Ma mi chiede da dove inizierei, se toccasse a me. «Dal treno per Matera» dico. Sanno, ne abbiamo appena parlato, che a Matera, le Ferrovie del Centro-Nord, comicamente dette “dello Stato”, non sono mai arrivate. Un giorno, potremmo decidere di andare alla stazione centrale di Milano e prendere il treno per Matera. Saremmo in tanti e, naturalmente, non sarebbe gratis: chi volesse “salire” sul nostro treno dovrebbe pagare il biglietto (con l’incasso si coprirebbero le spese dell’iniziativa). Al binario numero 10 avremmo in attesa i macchinisti, il capotreno, le hostess (è un treno che parte dal Nord, le hostess ci stanno, mica come sui treni del Sud) e persino l’addetto alle pulizie delle toilette (pure quelli stanno sui treni del Nord; su quelli
del Sud, spesso, mancano le toilette, ché i passeggeri italiani, per le Ferrovie del CentroNord, incomprensibilmente dette “dello Stato”, si dividono in passeggeri da ceramica e passeggeri da cespuglio). Vi diranno che dal binario 10 non parte il treno per Matera, e il treno per Matera non c’è proprio. Be’, non c’era. Oggi abbiamo deciso che c’è. È un treno pedonale, l’unico che la strabica equità dell’Italia-una sia stata in grado di offrire, in 150 anni, a Matera, città europea, nominata dall’Unesco Patrimonio Mondiale dell’Umanità, per i suoi Sassi. Alle spalle di macchinisti e personale, nelle... carrozze con posti numerati, si sistemerebbero i passeggeri. E, all’ora stabilita, fischio di partenza e via. Non vedete le carrozze, i sedili, la locomotiva? Allora state vedendo il treno giusto, lo stesso che vedono i materani da 150 anni. Vi piace?: la Freccia Pedonale, dono (si fa per dire, i materani versano la loro parte alle Ferrovie, come tutti gli italiani) delle Ferrovie dello Stato Pietoso. Ma ci metterebbe un paio di mesi ad arrivare, a piedi; si bloccherebbe la circolazione ferroviaria in tutt’Italia! Vero, e tutt’Italia saprebbe in quali condizioni è Matera, da sempre, non per un paio di mesi. Ma le forze dell’ordine impedirebbero una interruzione di pubblico servizio di tale portata, circonderebbero la stazione di Milano, e manganellate agli aspiranti viaggiatori, manco fossero produttori sardi di pecorino, invece che di grana padano o truffatori di quote latte leghisti. Vero, ma gli aspiranti viaggiatori dovrebbero mostrare il biglietto («Ho pagato» infatti ci saranno i controllori a bordo, cosa credete?) e pretendere di passare; provarci. Romperanno la testa al primo, al secondo, al terzo... A uno a uno, sino a che gli spaccatori di teste avvertiranno intollerabile il peso della violenza esercitata su chi chiede di essere trattato come tutti gli altri italiani: vi risulta che sulla Milano-Bologna distribuiscano manganellate
a chi prende il treno? (E pensate se fra i manganellatori c’è qualcuno di Matera, costretto a picchiare a sangue chi si fa rompere la testa per i materani, e magari è di Aosta!) Lo ha insegnato Gandhi: rendere esplicita, non più sottintesa, la discriminazione, la violenza di cui si è vittime. I passeggeri per Matera vogliono solo arrivare a destinazione in treno, come chiunque altro, in Italia; e le manganellate mostrano in che modo si nega loro un diritto riconosciuto a tutti, meno che a loro. Quella negazione è una violenza e quelle botte la rendono visibile. E se dovesse impedirsi la partenza del primo treno, se ne metterà in programma un altro, da Torino, da Firenze, da Bologna. Finché non arriveremo a Matera in treno. Non riesco a credere che gli onesti di questo Paese possano rendersi complici, con il loro disinteresse, di un’ingiustizia rivelata; e, una volta che avremo reso visibile la prima, le altre lo saranno più facilmente. Sono convinto che vedremmo persone perbene di ogni parte d’Italia acquistare il biglietto per Matera (con lo sconto, se on line) e presentarsi al “treno”... «Dev’essere un posto davvero interessante Matera, se si fa tutto questo per andarci, non trova?» «Non ci sono mai stato, vengo da Belluno, ma so che Mel Gibson ci ha girato un film, lì; e non solo lui.» «Ma non dovremmo essere già partiti, cosa aspettano?» «I soliti ritardi delle Ferrovie.» «Tanto per cambiare. E che ritardo porta questo treno?» «Per ora, centocinquant’anni.» «Be’, il progresso può a volte esser lento, ma resta inesorabile la sua avanzata: nel 1887, le Ferrovie italiane avviarono, in Eritrea, la Massaua-Asmara; nel 1895 il treno arrivò
addirittura a Reggio Calabria. Guardi, ho qui un ritaglio di giornale, “La Stampa”, di fine maggio 2010: l’Asian Development Bank ha finanziato, con 170 milioni di dollari, la linea Marazi-e-Sharif. I lavori sono stati appaltati alle ferrovie uzbeke. I binari, dice il giornale, sono ormai pronti: 75 chilometri.» «Mi scusi, di certo per una mia mancanza, ma mi sfugge l’importanza della notizia...» «Oh, no, scusi lei; avevo dimenticato di leggerle il titolo: “Rivoluzione a Kabul, arriva il treno”. Sono stati bravi, in Afghanistan, non crede?, nonostante la guerra, la guerriglia, gli eserciti stranieri, gli attentati, le montagne impossibili, la mafia dei trasporti che era assolutamente contraria, perché ingrassa con il pizzo preteso dai camionisti... Insomma, volendo; eh, che ne dice? E ora, le Ferrovie italiane hanno acquistato una Compagnia ferroviaria in Germania, la Arriva Deutschland, così, anche gli italiani del Sud (ma solo se emigrati in Germania) potranno viaggiare sui “nostri” treni.» Annuncio ai passeggeri: «Siamo dolenti di informarvi che, se rinunciate al nostro treno, non potrete raggiungere Matera in autostrada, perché nessuna autostrada porta a Matera; né optare per l’aereo, perché gli aeroporti più vicini alla città sono in altre regioni: in Puglia, in Calabria, in Campania. Benvenuti a Matera, Patrimonio dell’Umanità, meno che dell’Italia».
50 IL DONO DEI VINTI
«Qualcuno ha rimosso il cartello che indica la strada per raggiungere il monumento al Sergente Romano. Che fare?» mi chiedono via Facebook. «Rimetterlo.» Si celebrano i 150 anni dell’Unità-si-fa-per-dire dell’Italia. Il Sergente Romano, di Gioia del Colle, mio concittadino, combatté e a lungo vinse, contro i piemontesi per difendere il suo Paese, invaso per essere annesso, in quanto colonia interna, a uno più grande (con feroce delusione dei tanti idealisti che l’Italia volevano una, ma equa). Ci dev’essere chi ancora non lo accetta. Anche il Giappone moderno è nato dalla continua riorganizzazione di potentati locali, in strutture sempre più centralizzate, attraverso una serie di guerre civili; più o meno come accadeva, quegli stessi anni, negli Stati Uniti (questo processo di riaggregazione di strutture, pure attraverso cataclismi, in formazioni sempre più grandi, è tipico del nostro universo, non solo della nostra storia, o della nostra specie. Lo studia la Fisica. Si immagini ogni fase di questo percorso come un gradino; e che ogni gradino comporti spargimento di sangue per l’eliminazione dei sostenitori del vecchio ordine (lo scontro avveniva in nome della lealtà
diversamente intesa a dinastie imperiali: magari la stessa, per entrambi i contendenti). L’ultimo conflitto, scarso un secolo e mezzo fa, quasi contemporaneo al nostro Risorgimento, fu il più feroce: contrappose i due più grandi leader del Giappone, amici d’infanzia, colleghi di una vita; scatenò una guerra civile fra eserciti di decine di migliaia di uomini e si concluse con la restaurazione della dinastia Meiji. Una curiosa restaurazione che portò il Giappone a dismettere quasi tutto di quel che era, per occidentalizzarsi con efficienza e rapidità che ancora oggi stupiscono il mondo. Questo capolavoro di accelerazione storica, sociale ed economica fu merito di un vero genio politico, Okubo Toshimichi: a lui il Giappone deve, in gran parte, il suo posto, oggi, fra i primi al mondo, e di non essere rimasto un delizioso museo di se stesso: bello, colto, arcaico e perso. Lo sconfitto da Okubo, come lui rampollo di una modesta dinastia di samurai (venivano dalla stessa, molto periferica città), si chiamava Saigo Takamori: morì nella decisiva battaglia di Shiroyama, nel 1877 (avete visto il film L’ultimo samurai? È tratto dalla sua storia). È forse l’uomo più amato della storia del Giappone; secondo una duratura leggenda, in realtà, egli sopravvisse alla battaglia e tornerà per eliminare le ingiustizie, quando sarà il momento: è la stessa leggenda che sorse a Gioia del Colle, dopo la morte del Sergente Romano, l’alfiere del V Reggimento borbonico che (investendo tutti i suoi risparmi, era di famiglia benestante) raccolse i suoi ex commilitoni, dette filo da torcere all’esercito savoiardo e riconquistò molte città, prima di essere catturato e ucciso. Pure lui, come Saigo, sconfitto per lealtà al suo re. A Saigo, ferito gravemente, i suoi seguaci tagliarono la testa, per salvarne l’onore di samurai. Il corpo del Sergente Romano fu fatto a pezzi a sciabolate dai vincitori (aveva chiesto di
essere finito da soldato, gli risposero: «No, da brigante!»). La testa di Saigo Takamori fu ritrovata dall’esercito governativo e ricomposta con il resto del corpo, con le cerimonie e gli onori dovuti al più nobile dei samurai. Il corpo del Sergente duosiciliano Pasquale Domenico Romano, spogliato della sua divisa, fu ricomposto dai vincitori nella piazza del suo paese, dinanzi alla casa della madre, e lasciato a imputridire in pubblico (i fratelli liberatori e civilizzatori del Nord usavano decapitare i “briganti” e portarsi via le teste in gabbiette preparate apposta, quale macabro trofeo o souvenir da donare ad amici “scienziati” che studiavano i caratteri del perfetto criminale, che poteva essere solo del Sud. Nel caso di Romano, però, la testa andava esposta, perché tutti vedessero che era morto. La gente non ci credette lo stesso). Il nobile Saigo, una decina di anni dopo la sua morte, venne innalzato a più alta dignità da chi lo aveva combattuto e sconfitto (in Giappone è possibile essere promossi, nella gerarchia statale, anche “alla memoria”); e gli fu dedicata una statua in bronzo, eretta a Tokio, nel parco di Ueno: è ancora lì, oggetto di venerazione. Il Sergente Romano, le cui qualità umane e militari furono ufficialmente riconosciute (ma in seduta segreta) persino dal Parlamento di Torino, è passato alla storia infamato quale “brigante”, come decine di migliaia di meridionali che si opposero all’invasione del proprio Paese, il Regno delle Due Sicilie, e furono sconfitti. Il 2006, per iniziativa di comitati duosiciliani, nel bosco in cui il Sergente Romano fu ucciso, è stato eretto un obelisco in onore del valoroso alfiere e, da allora, ogni anno, il 6 gennaio, giorno della sua morte, c’è una cerimonia in ricordo. A ogni gradino del cammino del Giappone verso la modernità, corrisponde un eroe sconfitto, amato, venerato; e un vincitore disistimato, a volte persino diffamato, vilipeso.
Non soltanto dal sentimento popolare, ma persino dalla storiografia ufficiale, accademica. È un fenomeno molto interessante, analizzato da Morris Ivan in La nobiltà della sconfitta: il Giappone è quel che è, e non un reperto culturale, grazie a quei vincitori; ma l’ammirazione e la gratitudine del Paese vanno ai vinti, generalmente immolatisi, armi in pugno, in clima di santità, o con sereno sventramento da harakiri. Tutti, o quasi, erano di remota periferia, spesso chiamati a corte, a grandi responsabilità di governo, e talvolta persino sottrattisi a tale privilegio. Come si spiega questo culto per gli sconfitti? Provo a suggerire una risposta: i vincitori diedero al Paese un’organizzazione; i vinti un’anima. Lo dico diversamente: i vincitori fecero del Paese uno Stato; i vinti una nazione. Lo Stato fu grande, e ancora lo è, perché seppe conservare il meglio degli uni e degli altri, incamerando lo spirito dei vinti, nella struttura costruita dai vincitori. Al punto che quegli sconfitti furono quasi tutti promossi, dopo la morte (in Giappone, ripeto, succede), a gradi sempre più alti, nella burocrazia imperiale, sino a superare, in alcuni casi, quello dei loro vincitori (ed erano loro a promuoverli!). Alcuni di quei perdenti furono addirittura deificati; e nei templi a essi dedicati andavano a pregare quelli che li avevano sconfitti. E sapete cosa è venerato come “spirito divino” in quei vinti? L’aver combattuto con coraggio e lealtà una battaglia che sapevano persa. Questo rende l’onore del vinto più grande di quello del vincitore. Il quale aveva, più dell’altro, solo la forza (e non fu sempre vero: molti di quegli sconfitti erano privi di capacità organizzative, strategiche, militari; diciamo che, tecnicamente, non erano sempre all’altezza dei loro ideali, né dell’idea che contemporanei e posteri ebbero del loro valore). Questa l’anima del Giappone, in cui esso si riconosce come popolo.
E questa fu la ragione per cui l’allora viceammiraglio Onishi, alla fine del secondo conflitto mondiale, costituì le squadriglie di piloti kamikaze (il “Vento Divino”), contro la flotta statunitense (non so in giapponese, che ho studiato, ma non a sufficienza, ma in latino, “spirito” e “vento” sono sinonimi e resi da una sola parola: animus). La guerra era irrimediabilmente persa, ma il sacrificio dei piloti suicidi avrebbe testimoniato del maggior valore etico dello sconfitto Giappone, rispetto ai vittoriosi Stati Uniti. I giovani piloti andavano a schiantarsi contro le navi nemiche, ispirandosi ai poemi del grande Masashige e di Saigo: il primo e l’ultimo dei più venerati fra i vinti. Naturalmente, il viceammiraglio Onishi volle che la ragione fosse chiara; e non poteva limitarsi a dirla. Così, quando il Giappone si arrese, si aprì la pancia come gli amati samurai delle battaglie perdute: si sventrò con due tagli incrociati, poi sfilò la spada e si colpì alla gola e al petto. Sfortunatamente, l’arma era mal affilata e Onishi agonizzò per una notte e un giorno, prima di spirare: ebbe il tempo di respingere, con ironia e umorismo, le offerte di soccorso ed emulazione (non potete suicidarvi, disse ai suoi giovani sottoposti, qualcuno deve ripopolare il Paese!), di comporre una poesia e ricordare, a chi lo assisteva, il senso di tutta la faccenda. Perché il Paese salvasse, nella disfatta, la coscienza della propria unicità, la sua ragione di essere: il dono dei vinti. Anche l’Italia è nata da un bagno di sangue (si nasce tutti nel sangue, scusate se lo ricordo: quello di nostra madre, poi, però, ci lavano, ci allattano, ci accolgono in famiglia); ma gli sconfitti della nostra storia sono stati esclusi e diffamati: combatterono per il proprio Paese, i più erano soldati che tennero fede al giuramento, con le loro divise, i loro gradi, le loro armi, le loro bandiere. E li chiamarono briganti: ce n’erano, come ce n’erano dalla parte dei vincitori; ma quelli sono entrati nella storia come eroi.
Con gli sconfitti, l’Italia ha voluto condannare un intero periodo storico; a tutto il Paese chiede di dimenticarlo e, a una parte, anche di vergognarsene. Quella memoria amputata è una ferita nascosta e amputa pure il senso di appartenenza alla casa comune; perché è come se gli italiani del Nord e del Sud non facessero parte dello stesso Paese: i primi hanno vinto e ci tengono a ricordarlo; i secondi hanno perso e si fa di tutto per ricordarglielo, pretendendo che derivi, da questo, un minor diritto a tutto: ad avere strade, ferrovie, cure, rispetto, equità. La storia del Piemonte è storia d’Italia; quella di Venezia è storia d’Italia; quella di Roma è storia d’Italia; quella del Sud è storia dei meridionali, storia brutta: da tacere, agli stessi meridionali. La storia d’Italia non vuole, come parte di quella comune, la storia del Sud. Che se la tengano, i meridionali; e se la meritano, i meridionali; e la ignorino, se saggi. E se vuoi insultarli, chiamali borbonici. Saremo un solo Paese, quando la storia di tutti gli italiani, incluso il Sud, sarà storia d’Italia, storia di tutti. Quando e se questo avvenisse, l’Italia si unirebbe davvero, grazie a quel che le è mancato per essere una, come il Giappone: il dono (e le ragioni, e il rispetto) dei vinti. Allora, come al nobile e perdente Saigo (ma tanto più tardi), forse anche al Sergente Romano verrebbe eretta una statua. Ho appreso da Luigi Zoja che “onore” ha la stessa radice di “onestà”, perché entrambe le parole «derivano dal latino honos: una parola le cui origini sono oscure» (come dire: non sappiamo nemmeno da dove nascano onore e onestà; eppure, tutti sappiamo cosa sono, per la curiosa regola, secondo la quale, mi vien da dire, solo quel che è davvero certo risulta indefinibile).
Al nostro Paese è mancata sinora l’onestà di rendere onore ai vinti.
51 LO SPRECO DEL SUD
La domanda è: cosa sarebbe, dove sarebbe, oggi, l’Italia, se non avesse sprecato il Sud? Non avesse costretto alla fuga, in un secolo, trasformando la loro terra in un inferno, tredici, forse venti milioni di meridionali? Riporto stime altrui, difformi; ma sono tanti: erano coraggiosi, avevano doti e talenti; credevano nella loro capacità di cambiare la sorte cattiva; erano pieni di dolore, di risentimento, di rabbia, e di speranza riposta ovunque nel mondo, meno che a casa loro ormai (cambia il posto, cambia la fortuna...); molti pensavano di tornare, qualcuno lo fece; tornarono alcuni da vincitori, altri, da vinti: morti alla stima propria e dei paesani, e forse invidiosi di quanti sparirono con la propria sconfitta sotto una croce in terra lontana. E se partirono disperati, non sino al punto di rinunciare a giocarsi l’ultima carta. Erano figli di una incredibile mistura di popoli, eppure così tanto riconoscibili! Erano i primi meridionali ad abbandonare la propria terra nella plurimillenaria storia del Sud. Divennero carne e valore di altre nazioni, ricompensate con degne opere, per l’occasione data a donne e uomini in fuga, di dimostrare che non erano vite di scarto, nomi da perdere.
C’era il più grande stabilimento siderurgico d’Italia, in Calabria, ci lavorarono pure gli emigrati dal Nord (bresciani); e la più grande officina meccanica del tempo, nel Napoletano; la famiglia di imprenditori con più larga fortuna e interessi diversificati (dall’agricoltura alla maggiore flotta privata) erano i Florio di Sicilia; le banche più ricche parlavano meridionale; venivano investitori dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania, si associavano a colleghi locali, favoriti dalle condizioni fiscali di uno Stato che credeva nello sviluppo dell’industria e del commercio con l’estero (oggi, il problema dell’Italia è non riuscire ad attrarre capitali internazionali. Allora, il Sud ne era una delle mete preferite; ma se lo ricordi, ti dicono che questa è la prova che l’economia si nutriva di apporti stranieri, come le colonie; mentre, se succedesse oggi, sarebbe prova che il Paese funziona...); i ricchi erano molto ricchi, i poveri molto poveri (era così quasi ovunque, a quei tempi), ma se i meridionali non se ne andavano, come dal Nord d’Italia o da altre regioni europee, dovevano avere ragioni sufficienti per restare (i poveri sono poveri, non cretini), e poi non le ebbero più, se si ridussero alla fuga. Chi poteva, studiava, ed erano tanti (i due terzi di tutti gli studenti universitari d’Italia erano al Sud); chi non poteva, manco sapeva leggere e scrivere (l’analfabetismo, poi, fu sicuramente favorito dalla guerra d’invasione che imperversò per molti anni, in Meridione, e che chiamarono lotta al brigantaggio): ma se la cultura duosiciliana partorì discipline che hanno riempito il mondo (economia politica, archeologia, vulcanologia, sismologia, moderna storiografia...) avrà avuto radici profonde e basi larghe, o no? Non voglio dire se questo era molto o poco: era, c’era (e altrove no). Unificato il Paese con le armi e il furto, non ci fu più. E non fu solo questo a non esserci più. Farini, luogotenente (sorta di viceré) per il Sud appena conquistato, diceva che non
arrivavano a cento i meridionali che volevano l’Unità d’Italia e per Massimo D’Azeglio andava bene sparare agli stranieri che occupavano pezzi d’Italia, ma si domandava se era giusto costringere italiani a unirsi ad altri italiani a fucilate. Ma a determinare il sorprendente crollo del Regno delle Due Sicilie, non furono solo la campagna savoiarda di corruzione della dirigenza duosiciliana (militare e politica), la concorrenza di interessi internazionali e piemontesi, la spinta ideale e armata di tanti unitaristi, la debolezza e l’incapacità del re-ragazzino trovatosi sul trono di Napoli, nel momento più difficile. Molto Sud credeva nel valore dell’Italia unita; tantissimi contadini poveri credettero alla promessa della «terra a chi la lavora»; la Sicilia credeva di poter conquistare l’autonomia che da sempre insegue, liberandosi dei Borbone; i colti credettero di poter estendere su un Paese più vasto il loro campo di intervento e di trarre maggiori benefici dalla solidarietà di classe; industriali, commercianti e grandi agricoltori credettero di potersi espandere grazie a un mercato non più solo locale... Furono tutti delusi, persino i più convinti, come Giustino Fortunato, il più puro degli unitaristi, e Liborio Romano, che consegnò il suo Paese a un altro re, pensando che sarebbe stato re di tutti allo stesso modo. Molti di quei delusi, come Carmine Crocco Donatelli, presero le armi e combatterono per anni; lo fece pure Ricciotti, il figlio di Garibaldi (altro deluso confesso), che si unì ai “briganti”. Il Nord razziò le risorse economiche e umane del Paese, si dette il ruolo di motore e assegnò al Sud quello di gregario, cliente obbligato delle merci settentrionali, riserva di braccia e intelligenze, ma con ruoli subordinati: una colonia interna: ti tocca la parte di Venerdì, perché l’altro ha in mano un fucile e vuole essere Robinson Crusoe. Onestà impone di notare che quello era il sistema con cui i Paesi oggi più potenti del mondo costruirono la
loro ricchezza, finanziando lo sviluppo dell’industria a spese di classi sociali subordinate e di colonie interne (vedi la Gran Bretagna, con Irlanda, Scozia) ed esterne; e che, pur così male aggregata, l’Italia ha corso, si è rivelata un Paese di successo, uno dei primi dieci al mondo. Ma la domanda resta: dove sarebbe, oggi, se invece di distruggere industrie, commerci e fiducia del Sud, costringerne la gente alla fuga, l’Italia si fosse avviata verso il futuro e la competizione con gli altri Paesi, con tutta la forza delle economie e della gente del Nord e del Sud; con i meridionali non sospettosi e rancorosi nemici di uno Stato che li ha impoveriti, uccisi in massa e discriminati, ma quali cittadini accetti e partecipi di un equo destino comune; con l’ardimentosa forza vitale di quei milioni di fuggiaschi sfruttata in patria e non regalata ai concorrenti; con tante energie e intelligenze del Nord non corrotte e spese contro il Sud, ma per il Paese intero: non tese a spostare a Nord quello che è altrove, ma a produrre il nuovo... Dove sarebbe oggi l’Italia? Che Paese avremmo, se l’industria calabrese e napoletana avesse potuto seguitare a svilupparsi; le Ferrovie dette “dello Stato” corressero pure al Sud e non solo al CentroNord; le autostrade italiane rendessero raggiungibile velocemente pure il Sud; gli aeroporti non fossero talmente tanti al Nord, da risultare a volte inutili, e così pochi, al Sud, da rendere irraggiungibili intere subregioni, quali il Salento, il Cilento, la Lucania intera, gran parte della Calabria, la Sicilia sudoccidentale, il Molise, l’Abruzzo e la Campania interna; se il credito e i servizi bancari avessero lo stesso costo in tutto il Paese e non tariffe più alte per servizi peggiori al Sud; il Mezzogiorno non fosse la più grande area europea senza grandi banche; l’elettricità prodotta al Sud costasse almeno quanto al Nord, dove viene
dirottata, e non di più; e la fornitura elettrica fosse affidabile a Sud come a Nord, e non ballerina, con rischi enormi per i macchinari e danni alla produzione... Cosa sarebbe, dove sarebbe l’Italia, se fosse stata equa? O solo furba? Per un secolo e mezzo, il Paese ha sprecato le possibilità e le risorse del Sud, come se avesse tagliato ulivi per venderne il legno, invece di trarne olio per secoli. E oggi ha paura del deserto: un Paese in declino, dove i prepotenti arraffano pure le briciole dalla tavola degli ultimi, ottenendo solo di rinviare il crollo e renderlo più rovinoso, ove e quando non si riuscisse a fermarlo in tempo. Il sistema è lo stesso da sempre: invece di cercare, come gli altri Paesi, il modo di produrre insieme altra ricchezza, per non soccombere alla più lunga e seria crisi degli ultimi cinquant’anni, il più forte toglie agli altri, per salvare se stesso a spese di tutti: spostando a Malpensa quello che c’è già, ma a Fiumicino (e riuscendo a far fallire la compagnia di bandiera); volendo trasferire a Milano i ministeri che sono già a Roma, come le reti Rai, e via di seguito; con i fondi per le aree sottoutilizzate spesi a beneficio di quelle già più sviluppate, sino alla truffa del presunto federalismo, che si traduce solo nell’ulteriore spostamento di soldi dalle Regioni meno ricche a quelle più solide. Il tutto, con un aggravio di spese e di problemi, la cui soluzione viene resa, così, sempre più lontana e difficile. Contro questa deriva, pare ergersi un risveglio di identità meridionale che può rivelarsi salvifico per l’intero Paese e che sembra maturato da quella “storia inconsapevole” (ora, sempre meno tale), di cui Fernand Braudel parla in Storia e scienze sociali, «la quale si svolge al di sotto dei “riflettori” dei grandi avvenimenti» ricorda Andrea Giovanni Noto, in Messina 1908, «come luogo privilegiato delle evoluzioni lente, delle “inerzie”, delle “prigioni di lunga durata”». Da cui si esce; magari tardi, ma si esce.
Il nostro Paese non è nato da un incontro, ma da uno scontro (come la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia...), che ci divise fra vincitori e vinti. Il valore dei vincitori si misura da quello che distruggono (l’impero persiano, la cultura india, il genio di Archimede o il tempio di Gerusalemme). In alcune culture, questo potere misurabile con la distruzione è stato ritualizzato, come prova l’altrimenti incomprensibile istituzione del potlatch, fra gli indiani della costa nordoccidentale d’America: ogni anno, le tribù si incontravano per decidere quale dovesse avere lo scettro del comando, sino al successivo raduno. A vincere era quella che disintegrava la quantità maggiore di ricchezza propria: è pura riduzione della guerra a gara, come lo sport, perché ottiene lo stesso risultato, senza spargimento di sangue, ma salvando, intatta, la funzione e la potenza annientatrice del vincitore. Il valore dei vinti, invece, si misura da quello che riescono a salvare (vedi gli ebrei, in duemila anni di persecuzioni). In questo senso, comunque giudichi ognuno il valore del Risorgimento, dalla parte dei vincitori o da quella dei vinti, si dovrebbe convenire che, dopo 150 anni di separazione effettiva e unione nominale, gli uni e gli altri possono trovare un valore comune solo nel recupero di quanto resta, ovvero, nella valorizzazione di quello che i vincitori non hanno distrutto e i vinti hanno salvato, o vincitori e vinti hanno costruito insieme. Il contrario vedrebbe il Sud cercare un nuovo sviluppo da solo, a partire dalla memoria ritrovata (percorso faticoso e di incerto esito, ma con il vantaggio del potere sul proprio destino, non più in mani altrui); e un Nord, convinto di aver fatto un affare, finire con la cassa in orbita tedesca, ma in posizione subordinata, terronica (immaginate cosa succederebbe quando un Bossi o un similBossi, dicesse di pulirsi il culo con la bandiera
bavarese...): com’era prima, con l’Austria. E perderebbe pure la cassa.
52 CHI NON MI VUOLE NON MI MERITA
Studi, osservi; e questo aiuta, ma alcune cose le percepisci per vie profonde e sensibilità affinate da un interesse coltivato, specifico; nello stato di nervatura scoperta che ti dà la tensione prolungata su un argomento che ti invade i pensieri, sino a farne una sorta di lente attraverso cui finisci per vedere (e giudicare) ogni vicenda e comportamento. Siete stati sullo Stretto? Avete sentito quella densità di cose diverse, a cui non sai dare un nome, mentre dici, banalmente: «Che bello!»? È il mare, l’isola, la montagna d’Aspromonte che cela paradisi e inferni chiusi, mondi a parte uno appresso all’altro, strette valli, spiaggette, speroni di roccia nel Tirreno, un piede di ciottoli nello Jonio, storie sovrapposte o mai fuse nonostante si tocchino, storie tanto antiche che risalgono alla radice di quello che siamo; l’equilibrio naturale delle linee e dei blu e dei verdi; le barche sottocosta... E sotto tutta quella bellezza, scorgi la paura, che rende il bello prezioso, perché precario: è terra che si muove, questa, si scrolla i pidocchi di dosso; è mare che irrompe nelle strade, rade le
città, vuol risalire il monte. Lo ha fatto più volte. È l’emozione dell’essere seduti sul ciglio dello strapiombo, temendo di caderci. Quel disastro possibile acuisce i sensi; si aprono porte profonde, al limite della consapevolezza. E in quella condizione di annullata vigilanza del razionale, apprendi. Ti appare, allora, la sproporzione fra quanto sia straordinario ciò che ti circonda e, per contrasto, quanto ordinari siano i comportamenti privati e collettivi, quasi per rifugiarsi in una dimensione controllabile, che non ti annulli con la sua grandezza. Mentre il privilegio dell’estraneo a quei ritmi e obblighi, ti permette il rischio di negarti i limiti; e godere di uno stato di grazia. È scesa sera. La monotonia del traghetto, per chi abitualmente pendola fra ReggioMessina (città calabrosicula, unica e unita dallo Stretto, dai disastri e dal quotidiano), si spalma sulla pennica di chi anticipa, mento sul petto, il sonno della notte; la sigaretta del camionista nel corridoio esterno del ponte; il libro che priva la studentessa del panorama per lei consueto come l’aula dell’università. E tu come fai a descrivere l’intensità che viene dall’aria salata che ogni tanto dà un brivido, per una strisciata fredda scesa da chissà quale ruga d’Aspromonte e fende il tepore sciroccoso? E le luci che segnano i confini siculi e calabri sul mare così nero dello Stretto, che quelle luci inghiotte sottocosta, non riflette. La bellezza non puoi raccontarla, ma la riconosci, quanto ti tocca. Il film che più amo è La leggenda del pianista sull’oceano. Capisco il protagonista: appena il traghetto attraccherà, lo Stretto si riprenderà il suo dono; dovrò, in ogni senso, tornare con i piedi per terra. Resterei a bordo, a concentrare l’oceano in questi tre chilometri fra Jonio e Tirreno. Ma servirebbe a poco: l’alba svelerebbe la devastazione
dello Stretto, lo sfacelo delle fiumare, la cementificazione costiera senza gusto né disegno, la grazia corrotta a lebbra. Fra la bellezza rinnegata e lo scempio procurato (quasi ci si voglia ridurre al livello della disistima propria e altrui), c’è il danno di una storia la cui interruzione è sempre meno accetta. Averlo capito è l’inizio del cammino. Che, una volta avviato, può essere molto più breve di quanto si pensi: la distanza fra tutto e niente, non è tutto, è niente. È saperlo. Gli italiani non sono diventati popolo, nonostante siano una “nazione di nazioni”, perché non si è voluto. A una parte degli italiani ha fatto comodo non volerlo; e troppi, ormai, sono abituati, educati, a non volerlo. E popolo non saremo, vicendevolmente fieri gli uni degli altri, finché non ci conosceremo al punto da apprezzarci, per la diversa storia condivisa e quella identità “plurale” che ci rende così interessanti per il resto del mondo e conflittuali in patria. Finché i veneti non saranno orgogliosi di essere una (non “la”) nazione italiana, compartecipe della grandezza della Magna Graecia; finché i siciliani non saranno orgogliosi di essere una (non “la”) nazione italiana, compartecipe della grandezza di Venezia. Ché l’una non esisterebbe senza l’altra. Cito solo un esempio: l’affascinante epopea delle migrazioni micenee e greche, testimoniata dai miti degli Argonauti, dell’Odissea, di Diomede, che si sarebbero svolti in Adriatico: l’“oscuro Occidente” dei greci era il NordOvest, l’Adriatico, non l’ovest, la Sicilia (Odisseo aveva avuto per nutrice una schiava siciliana, come poteva ignorare l’esistenza dell’isola?). E, a mano a mano che i Micenei e poi i Greci avanzano in Adriatico, mercanteggiando e colonizzando, quei miti prendono piede: Odisseo arriva al Po e in Istria una generazione dopo che l’hanno fatto gli Argonauti; il mito di Diomede, dopo aver fecondato la Puglia, risale l’Adriatico con i Corinzi, poi con i Siracusani fondatori di Ancona. Una proto-Venezia nasce a Torcello, in quei tempi così
lontani. La vicenda è narrata da Lorenzo Braccesi (Storia antica all’Università di Padova) nel bellissimo supplemento a «Grecità adriatica»: Hellenikòs Kolpos (Golfo greco). E, da allora, e senza interruzione, per quella via sono passati tutti, adducendo a Venezia, che per quella via addusse, a sua volta, a tutti. Ma se quella via fu percorribile in tempi così remoti, lo si doveva ai Messapi di Puglia, il cui re, Artas, si assegnò il compito di tenere sgombro dai pirati il Canale d’Otranto, il che aprì la strada ai mercanti di ogni popolo; con le merci si trasportano e scambiano idee, dei e conoscenza. Così si fusero i nostri destini: senza i pugliesi, i Micenei e i Greci non avrebbero incontrato i Veneti. Nel nostro profondo, sappiamo di essere parte di un tutto che ci contiene e ci rende diversamente “italiani”. Con l’Unità fatta a quel modo, non ci siamo uniti: ci siamo persi e contrapposti. Ma abbiamo troppa storia comune per dissiparla in così poco tempo. Il Paese si costruisce con l’equità: porre ognuno nelle condizioni di misurarsi alla pari con gli altri. Questo non è di destra, né di sinistra, settentrionale o meridionale. Il progetto di cui mi voleva garante Raffaele Lombardo, presidente della Sicilia, era questo: i vari partiti o movimenti si impegnano a operare, politicamente, per ottenere dallo Stato (e da se stessi, per quel che, localmente, compete) l’attuazione di un programma: queste strade, queste linee ferroviarie, questi aeroporti... Poi, ognuno lavora secondo i suoi orientamenti e poteri, ma per quel fine, per il quale ci si è impegnati. A me sembra un buon programma (salvo esserne io il garante, per mia insufficienza e per attitudine all’agire solitario). Al quale, comunque lo si vari, non dovrebbe mancare l’appoggio degli onesti, senza distinzione geografica; perché senza distinzione geografica dovrebbe operare il programma: se il Paese mostra una carenza di attenzione e infrastrutture
in una parte del suo territorio, non mi importa dove sia quella parte, mi importa che, essendo il mio Paese e volendolo pari ed equo, quella parte sia posta nelle condizioni di svilupparsi come le altre. Perché sembra così difficile farlo? Perdonatemi, ma io non so dirlo in un altro modo, anche perché la cosa quella è, e pur se la dici diversamente, quella rimane; quindi, devo ripetermi: – se non lo si fa, è perché non lo si vuole. Qualunque altra cosa per sostenere di non poter fare, è fumo per nascondere che non si vuole; – a chi obietta che l’impresa è difficile, ricordo che la Germania l’ha fatta in vent’anni (i tedeschi dell’Ovest volevano i tedeschi dell’Est, per questo, caduto il muro, se li sono letteralmente “comprati”. Ulrich Beck, sociologo alla London School of Economics, dice che l’Europa è ormai il destino comune, ma c’è da abbattere un altro muro: quello fra Nord e Sud. L’Italia, come altre volte, dell’Europa è sintesi anticipatrice); e ricordo che le imprese non sono mai impossibili, solo la volontà degli uomini può rivelarsi insufficiente. Se vi sembra che esageri, pensate a quale sia stata, nell’intera storia dell’umanità, l’impresa più grande mai compiuta, di qualsiasi genere. C’è una cosa che le accomuna tutte, dalla scoperta del fuoco allo sbarco sulla Luna: sono state concepite da un uomo solo, prima di diventare opere collettive. Alessandro, figlio di un re pecoraio, aveva un progetto; Dario, soltanto il più grande impero del tempo. E lo perse. Quello che cambia le cose comincia sempre da qualche parte. Però ci viene più facile pensare che quel posto sia lontano da noi. Ma il mondo è tondo; ogni suo punto, indistinguibile dagli infiniti altri, può essere quello in cui cominciano a cambiare le cose.
Quando si mira a un risultato, se ne misura la difficoltà con quella della soluzione definitiva. Invece, tutte le cose nascono piccole e, nella gran parte dei casi, chi comincia, sa solo di cominciare. E nessuno può dire, fra quanti lo fanno, chi arriverà, quanto lontano. E, sempre per via del mondo tondo, quando trovi la soluzione, quella va oltre i confini del problema per cui la cercavi. Chi inventa la ruota per il suo carro, l’ha inventata per tutti i carri del mondo e per sempre. La questione Nord-Sud non è italiana, ma continentale (ho appena ricordato cosa dice Ulrich Beck), è planetaria. La divisione che fu ideologica oggi si presenta economica, culturale, persino religiosa, ma appare geografica. Chi la risolve qui, a partire dal suo paesello, dalla sua regione, e si può, potrebbe, non volendo, aprire la strada per tutti, ovunque. La smetti di guardarti intorno?