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BAD BOYS Da un mondiale vinto a un europeo perduto



Italo Cucci

BAD BOYS Da un mondiale vinto a un europeo perduto

Minerva Edizioni


BAD BOYS

Da un mondiale vinto a un europeo perduto

di Italo Cucci

Grazie a Avvenire che con la rubrica “La Barba al Palo” mi ha permesso di fermare nel tempo le note di un lungo viaggio (2007-2012) alla ricerca di Fatti & Figure memorabili. (Alcuni articoli dagli Europei sono stati diffusi da Italpress)

Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Marco Tarozzi Impaginazione: Francesco Zanarini © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl – Bologna Foto di Copertina: © Getty Images

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge.

ISBN: 978-88-7381-457-3

Minerva Edizioni via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com email: info@minervaedizioni.com


Prefazione

Per un paradosso linguistico partorito da latente ironia, i Bad Boys, i Cattivi Ragazzi, sono – anche per mia colpa – calciatori famosi per la loro bravura accompagnata da atteggiamenti che i moralisti definiscono “non consoni alla figura dell’atleta”, mentre i Bravi Ragazzi (Goodfellas) – celebrati in un film di De Niro – facevano parte del mondo di Al Capone, detto anche Al Brown, soprannominato “Scarface” o “Big Pig”, figlio di Gabriele Caponi e di Teresina Raiola, originari di Castellamare di Stabia e Angri: i Bravi Ragazzi più famosi, come Dion O’Bannion e Bugs Moran, finirono al muro nella Notte di San Valentino e inaugurarono un filone letterario e cinematografico di successo; dei Bad Boys – fortunatamente estranei a vicende criminose – si parla abbondantemente in tutti i giornali, alla radio, in tivù, spesso forzando i toni del racconto per il malcelato desiderio di portarli alla gogna, di esporli al pubblico ludibrio, ritenendo le loro gesta pubbliche e private contrarie alla morale sportiva, meglio dire calcistica, mistero inglorioso del nostro tempo. Salvo rari casi, i miei Bad Boys, se anche non rappresentano modelli perfetti di vita, compaiono più spesso nel martirologio dei benpensanti che nella cronaca nera. Attualissimo il caso di Bobo Vieri, vittima di fiero sarcasmo dopo che un tribunale dello Stato – non sportivo! – ha condannato Inter e Telecom, che lo avevano “spiato”, a pagargli un euromilione di danni. Come dire: è un calciatore, cosa vuole? Mentre per altri cittadini si invocano più diritti che doveri. Ha avuto un grave torto, il Bobo figlio di Bob (uno dei primi Cattivi Ragazzi che ho conosciuto, fantasioso e folle pedatore che ha lasciato cuori infranti – tifosi e amorosi – a Bologna, a Genova, fronte Samp, e a Torino, fronte Juve): si è ribellato ai giornalisti ai tempi di Portogallo 2004 e alla... polizia segreta di Appiano Gentile. Fa storia a sé, anche per la sua qualità eccezionale di 7


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calciatore, Il Più Grande – Diego Armando Maradona – che ha peraltro pagato con dura pena gli eccessi privati (suggeriti da compagnie di malandrini: ne ho scritto come di un Pinocchio traviato dal Gatto e la Volpe e da uno stuolo di pantegane) largamente inferiori alle pubbliche virtù. Il primo Grande Cattivo della mia lunga vita nel calcio è stato Enrique Omar Sivori, l’italo-argentino detto “El Cabezon”, poco più vecchio di me, per lunghi anni amico vero, prematuramente scomparso nel 2005 dopo essere entrato nella leggenda da vivo per la sua immensa classe, il suo dribbling maldito e il suo temperamento da descamisado che lo avevano fatto amare da milioni di appassionati negli anni d’oro della Juventus e nei giorni napoletani del naturale declino. Omar ha indossato con fortuna la maglia della nazionale argentina, con scarsa soddisfazione quella dell’Italia e comunque da italiano ha vinto il primo Pallone d’Oro nostrano nel 1961. Apparso sulla scena calcistica italiana nel 1957 con Antonio Valentin Angelillo e Humberto Maschio (chiamati “gli angeli dalla faccia sporca”, spettacolari scugnizzi del pallone) formò nella Juve del suo primo ammiratore, l’Avvocato Agnelli, un altro trio favoloso con Giampiero Boniperti e John Charles che un giorno – in piena partita – gli mollò un ceffone per fermarne una crisi isterica. Nel 1965, approdato alla Juve l’allenatore paraguagio Heriberto Herrera, inventore del “movimento”, ascetico predicatore del calcio atletico più tardi riadattato da molti tecnici (vedi Guardiola), Omar non riuscì a sopportarne gli atteggiamenti da ginnasiarca e lo mandò a quel paese, scappò da Torino e si rifugiò a Sanremo dove lo raggiunsi e, con un’intervista pubblicata su “Stadio”, lo feci divorziare definitivamente dalla Juve. A Napoli conobbe gloria e mediocrità, lasciò la maglia azzurra e si consegnò al cinema con un ruolo nel film di Alberto Sordi “Il Borgorosso Football Club”. Poi l’esilio in Argentina, dove un giorno riuscii a scovarlo per proporgli una felice avventura televisiva che gli portò nuova popolarità e denaro. Quando gli si chiedeva chi fosse il più grande calciatore del mondo rispondeva con aria furba: “Io mi escludo e dico Maradona”, contestando l’esito di un referendum mondiale apparso sul mio “Guerin Sportivo” che aveva invece designato Alfredo Di Stefano: lo aveva sfidato in una storica partita di Coppa dei Campioni fra Real Madrid e Juventus e aveva perso con rabbia. A quei tempi un altro Bad Boy era sicuramente Benito Lorenzi detto “Veleno”, grande campione dell’Inter. 8


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“VELENO” – Un giorno che volevo strappargli un’intervista, gli dissi che ci eravamo conosciuti ai tempi del “muto”, non dico all’epoca di Greta Garbo, che lui c’era e io no, piuttosto nella stagione del semimuto Amedeo Nazzari, di quell’Italia ingenua che rideva a sentire “E chi non beve con me, peste lo colga”. Sì, Benito l’ho conosciuto ai primi Sessanta, a Milano, quando già s’era ritirato, e circolava dalle parti di Piazza Duca d’Aosta, vecchia sede del “Guerin Sportivo”, bottega di Gianni Brera e di interisti di sicura fede. Il “muto”, per me, era quella stagione veterocalcistica in cui ci si parlava fra uomini, e si scriveva, o al massimo si rispondeva alle domande di Sandro Ciotti a Radiorai: perché praticamente non c’era tivù e Biscardi era ancora un oscuro redattore di “Paese Sera” che pestava sulla macchina da scrivere. Benito non era sempre “Veleno”, a quei tempi, anzi andava raccontando serenamente – e allegramente – le sue storie ai limiti dell’incredibile: perché a vederselo davanti, così normale, così borghese, il cronista ai primi passi – e soprattutto digiuno di calcio – era portato a rifiutarne i dettagli leggendari. Più che nella storia, “Veleno”, mi pareva nella favola, e anche se poco o nulla aveva da entusiasmarmi mi piaceva perché per me era come il Bartali del pallone: dai toscanismi di lingua e carattere al mugugno che in Benito (potenza del nome) diventava invettiva. Piaceva a mio fratello maggiore, perché avevano combattuto dalla stessa parte, già, dalla parte di quell’altro Benito, ma erano storie di ragazzi, “Veleno” era del ’25, mio fratello Cleto del ’26. Ne parlammo una volta, a Milano, ma finì lì, perché magari non si fidava. Storie più curiose su Lorenzi le seppi quando a metà dei Settanta scoprii che Nyers viveva a Bologna e passava le sue giornate giocando a biliardo nel Bar della Posta, economicamente rovinato ma integro nello spirito: venne in Redazione, al nuovo “Guerino”, e ci disse anche di quella volta che lui e Benito s’erano mezzo picchiati in un Fiorentina-Inter perché il grande Lorenzi era anche velenoso come una suocera, sempre a criticare. Un’altra storia, più bella, la seppi da Ferruccio Mazzola, il fratellino di Sandro, che mi raccontò come, dopo la tragica morte di papà Valentino a Superga, era stato proprio il burbero Benito Lorenzi a prendersi cura di loro, a raccomandarli a Moratti, a trovargli un ruolo – erano le mascotte dell’Inter – che gli procurasse qualche soldino per aiutare mamma a tirare avanti. 9


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Eccolo, dunque, Benito Lorenzi, personaggio complesso, più problematico – per cronisti e storici improvvisati – di quanto lo fosse nella realtà. E infatti sparì, quasi dimenticato, perché i cronisti che erano abituati a interpellarlo erano spariti prima di lui, come Nino Oppio, Angelo Rovelli, quelli della “Notte” e del “Lombardo”, testimoni di una stagione leggendaria che io ho conosciuto bene, talvolta finendone tritato come una tartare. Non voglio dirvi di più, perché vorrei che leggeste le sue imprese in Internet. Il Webmondo che ha un vantaggio: fa rivivere anche i morti. Voglio solo aggiungere che un giorno del 2002 inopinatamente mi chiamò al “Corriere dello Sport” e con la vivacità di uno che ti ha incontrato appena il giorno prima (eran passati quasi quarant’anni dagli incontri, almeno venti dalle chiacchiere telefoniche!) mi disse di far sapere a Massimo Moratti – il “bambino” di Angelo – che era ora di far rigare dritto tutta quella gente che gli spillava quattrini a volontà. E perché lo dici a me? – gli chiesi, visto che ero a dir poco... fuori zona. “Ti seguo da anni, anche quando vai dal Rosso... Di te mi fido, dici pane al pane... Eddài, sei un po’ Veleno anche tu”. LA LAZIO DI TOM – In migliaia di pezzi dedicati al calcio i Bad Boys hanno avuto una parte dominante e così nelle rapide riflessioni della rubrica “La barba al palo” pubblicate da “Avvenire”, un giornale che mi ha dato più libertà di scrittura di tanti fogli laici. Ho spesso ricordato ai miei allievi – in Redazione o nelle varie Università che ho frequentato come improbabile professore, alla LUISS in particolare – che non sempre ho scritto quel che volevo ma non ho mai scritto quel che non volevo: non è un principio eroico, c’è un po’ di spirito di adattamento alle vicende del Calciomondo governato da antiquati e prepotenti Padroni del Vapore ai quali, tuttavia, non ho mai risparmiato critiche, memore degli insegnamenti di Aldo Bardelli, Gianni Brera, Enzo Biagi, Girolamo Modesti e Alberto Rognoni, Conte di Romagna e patròn dell’antico “Guerin Sportivo”: i miei maestri. Per questo fui amico di Tommaso Maestrelli e della sua terribile Lazio che di Bad Boys era piena, da Long John Chinaglia (povero amico cui poco prima che ci lasciasse raccomandai una prudente… latitanza), a Luciano Re Cecconi (che finì sparato mentre fingeva di sparare), da 10


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Giuseppe Wilson a Luigi Martini, per finire con Vincenzino D’Amico il cui unico amore – oltre al pallone – è sempre stato l’Amore. Quella Lazio disordinata, anche violenta nel suo intimo, splendente sul campo, ha avuto gloria alla faccia dei perbenisti. Come altri pedatori illustri e meschini, fra i quali citerei Gianfranco Zigoni, detto “lo sceriffo”, che posava per il “Guerin” truccato da Tex Willer, o Paolo Sollier, autore di un libretto pieno di veleno (“Calci, sputi e colpi di testa”), o l’adorabile disperato Paul Gascoigne, un talento gettato al vento. Fino all’apoteosi di Antonio Cassano, tutto piedi e fantasia e poca testa, ma ultima vera rappresentazione del calcio/poesia, bistrattato dai critici, odiamato dai club che lo ingaggiano e lo rifiutano, dalla Roma al Real, alla Samp al Milan e finalmente all’Inter, magari in attesa di un Grande Ritorno a Bari imbottito di soldi e coperto di gloria. Fino alla riabilitazione del cattivissimo Mario Balotelli, il Bad Boy che un giorno disse ai tabloid inglesi “Why Alwais Me?” e gli mostrò proprio durante gli Europei di essere non solo un campione ma anche un autentico (non… caponiano) Bravo Ragazzo Che Bacia la Mamma. Come si dice in inglese?

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05/10/2007

Il pallone secondo Delio, figlio di Gipo Quando è nato Delio Rossi, nel Sessanta, il calcio mi incuriosiva. E basta. Mi appassionavano i profili di certi protagonisti, quelli che oggi chiamo, alla Longanesi, Vecchi Fusti. Uno di questi era Gipo Viani, detto anche lo Sceriffo di Nervesa della Battaglia, maestro della Scuola Salernitana. Che non è, come si potrebbe pensare, l’antica scuola medica che raccomandava di curare il corpo come lo spirito, ma quel particolare pensiero calcistico che si chiamò appunto «Vianema» e partorì prima la figura del “libero” e insieme quello stile di gioco che contribuì al successo del calcio “all’italiana”. Dieci anni fa, seguii la rinascita della Salernitana che riconquistò la Serie A dopo mezzo secolo: la prima volta c’era riuscito Viani, la seconda Delio Rossi. Il primo era stato un inventore, il secondo ci provava, ottenendo finalmente, dopo disastrosi effetti zemaniani, un concreto successo. Il primo guadagnò il plauso di una critica eccellente e l’inimicizia di potenti, il secondo poco più di un applauso dal popolo salernitano e tanta indifferenza altrove. Da una parte la Storia, dall’altra la Cronaca. Poi arrivò il Real Madrid. Non voglio – né potrei – introdurre Delio Rossi nella Storia del calcio ma in quella del costume calcistico sì. Alla vigilia del confronto fra i ricchi e potenti signori del Real e la sua Lazio povera ma bella (gli ingaggi dei “blancos” sono dieci volte quelli dei “lotiti”) Delio ha confessato serenamente la sua felicità: ci aveva pensato fin da ragazzino, nella Rimini felliniana più appassionata di donne che di pallone, al Real Madrid: una sorta di traguardo di vita. Questo, finalmente raggiunto, non gli incuteva paura ma curiosità, professionale e personale insieme. Dunque – gli suggerivano – basterebbe giocargli contro, non vincere. E lui, pur modesto: e invece ci proveremo, a vincere. Ci ha provato, ci è quasi riuscito e in ogni caso, grazie al piede di Pandev ha fatto tremare lo squadrone spagnolo. Lo hanno sgridato perché ha fatto giocare Rocchi con una caviglia malandata e Rocchi ha sbagliato un paio di gol. E lui, Rossi, con lo spirito dell’innamorato del pallone: «Aveva tanta voglia di giocare... come puoi negare a un ragazzo la partita della 13


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vita?». Sto scivolando nel deamicisiano ma garantisco che Delio Rossi è lontano dall’indossare i panni del buon Garrone, anzi, quando fa il derby con la Roma mi sembra più il malvagio Franti. No: lo colloco semplicemente, con nostalgia, nel mio vecchio bar Sport di Rimini, dove non si strillava né si progettavano sassaiole o azioni squadriste, ma si parlava di calcio con rispetto. Quello dovuto – ad esempio – a Gipo Viani, l’involontario maestro di Delio Rossi.

12/10/2007

RUSTICHELLI E GLI IMPUNITI del Fuorigioco Quando leggo del Fuorigioco mi torna in mente un amico perduto per sempre che mi telefonava, puntualmente, ogni domenica mattina. Era il maestro Rustichelli, l’autore di oltre cento colonne sonore cinematografiche. Amava concedersi il lusso – mi diceva con elegante ironia – di due brevi editoriali calcistici esclusivi e gratuiti: uno sulla Juve che andava a giocare, uno sul Fuorigioco. A volte i due argomenti coincidevano. Ho pensato a lui nell’occasione dei due gol di Trezeguet, il primo al Torino il secondo alla Fiorentina perché, profeta, voleva che mi battessi a suo nome per l’abolizione dell’offside. Iniziativa che mi sono sentito proporre da tanti nelle due ultime settimane dopo gli «scandalosi» arbitraggi che l’eccellente Pierluigi Collina ha cercato di spiegare e anche assolvere durante l’ultima “Domenica Sportiva”. In realtà, Collina è riuscito, con abilità dialettica, a confermare quel che da tempo vado dicendo in tv, fino a recitare la parte del bastian contrario di ruolo: il «nuovo» fuorigioco è una truffa. Per carità, mi costringo, come tutti, a prender per buone le decisioni arbitrali suggerite da un regolamento stupido (come tanti regolamenti, ahinoi), ma insisto fino alla noia nel contestare il fatto che si debba considerare ininfluente la posizione di un giocatore che fino a ieri era irregolare. Molti dimenticano che la regola del Fuorigioco fu adottata nel 1863 per impedire il comportamento poco leale di quei giocatori che liberamente – impuniti – ostacolavano il portiere. Dopo cento e passa 14


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anni, i cervelloni del pallone – l’International Board – hanno partorito due riforme di spirito esattamente contrario: prima hanno criminalizzato e penalizzato il portiere, lasciandolo in balia degli avversari e di arbitri tapini, poi gli hanno tolto anche l’ultima difesa, quella appunto dell’offside. Come suggerisce Collina, è ora di reagire alla stupidità dei legislatori presunti riformisti e di reintrodurre la regola così com’era in vigore fino a poco tempo fa. La Federcalcio italiana dovrebbe farsene carico, come ai tempi in cui era autorevole (e io ero giovane). Ne trarrei grande soddisfazione. Sono stanco di sentirmi dire dai vari «moviolisti» che appartengo a un’altra epoca. In sintesi: rimbambito. Nel frattempo, una soddisfazione mi arriva dal presidente della Fifa Blatter. Il quale ha deciso che nel Mondiale per club a dicembre, saranno adottati altri due arbitri (o assistenti) per controllare i gol fantasma e altri accidenti da zona-gol, fuorigioco compreso. Lo chiedo da anni. Grazie in anticipo.

19/10/2007

LEVAN, UN GEORGIANO A EMPOLI Lo chiameremo Levan. Anche i telecronisti più scafati hanno difficoltà a dire Mchedlidze. La lingua georgiana è un busillis, prevede anche parole con sette consonanti consecutive. Peccato non ci sia più il mio poeta di Tbilisi, gli avrei chiesto il significato del nome di questo diciassettenne che l’altra sera ha scritto una delle ormai rare favole del calcio battendo la Scozia per far piacere alla Georgia, all’Italia e a se medesimo. Immagino che anche ad Empoli, sua città/squadra adottiva, lo chiamino semplicemente Levan, “Oh Levan!”, quello sbrindellone unoenovanta con la sua maglia numero 99, che ha conquistato i teleschermi e le prime pagine dei giornali, sollevando stupore. E chi lo conosceva, Levan? Nel mercato permanente c’è appena spazio per l’usato sicuro, quei pedatori ormai logorati da decine di partite ma famosi. Gli altri, metà bufale, metà mediocri e qualche raro Levan che ci vuole giusto un Gigi Cagni per portarlo alla ribalta. Per Toppmoeller, il tecnico della Georgia, la 15


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scommessa sui giovani è ragione di vita: in porta Giorgi Makaridze, 17 anni, che ha fatto miracoli, e con lui l’altro Levan, Kenia, 17 anni, centrocampista, e una fila di Under 19 perché lui è responsabile anche delle rappresentative giovanili, un vero talent scout. Non mi lascerò tentare da rischiose iperboli per raccontare Levan, ho infatti già detto e scritto che la Scozia non è storicamente irresistibile e il suo momento più alto lo ha raggiunto quando il Celtic vinse nel ’67 la finale di Coppa Campioni con l’Inter del Mago Herrera; io l’ho amata per la sua generosità spettacolare, per la classe dei suoi campioni (oh, Dalglish) ma poi succede che sul più bello... Stop. L’Italia dove ancora passare dall’Hampden Park, e a casa loro si esaltano come se la Scozia fosse l’unico mondo che conta. Mi piace e terrò cara la favola di Tbilisi, di quei ragazzi in maglia rossa che mi hanno ricordato i ragazzi della Via Pal. Gli eroi di Molnar fanno cent’anni in questi giorni, il protagonista dell’anima è Nemecsek che va a morire, ma l’eroe è Franco Ats, l’antagonista che gli dà involontariamente la morte. Colpiscono, di Franco, la sua altezza, la forza, l’intelligenza e il carisma. Figurina di Levan. Sarebbe stato un bomber, ma Molnar non aveva il calcio nella penna. Direte: che c’entra Tbilisi con Budapest? Beh, intanto è lo spirito di squadra che mi ha fatto ripensare alla Via Pal (ci sono stato: che delusione) e anche la città: da una immensa balconata ci si affaccia su Tbilisi “come da Buda su Pest” scoprendone la singolare mescolanza di stili, l’asiatico e il mitteleuropeo, e i tetti piatti, le palazzine dal tono dimesso, come consumate dal tempo, il tutto traversato da un fiume azzurro/grigio, il Mtkvari, che sta nel panorama come il Danubio blu. Piacerebbe, questo ricordo, al mio poeta perduto che mi insegnava a leggere Shota Rastaveli e “Il cavaliere con la pelle di pantera” che è la loro Divina Commedia. «Siamo parenti, noi e voi “mi diceva entusiasta” a Comacchio parlano il georgiano». Ma è la favola del pallone, che affascina, la favola che rinasce in uno stadio che visto dal balcone è un occhio verde sullo sfondo grigiastro, e la Scozia vi si perde. E rinasce il mito del campioncino che potrà farsi grande o perdersi ma intanto dà sapore a un calcio soffocato dal business. Parola di uno che ha visto nascere Rivera e Maradona. Intanto, caro poeta perduto, siamo davvero parenti: a Empoli si parla georgiano.

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26/10/2007

Il Milan impari dal giovane Arsenal Non m’ero sbagliato, prevedendo un bel Milan di Coppa dopo il naufragio del brutto Milan di Campionato. Sembrerà paradossale, ma l’Empoli sul campo è risultato più forte dello Shakhtar, Saudati più pericoloso di Lucarelli. Dopo la penosa camminata contro gli indiavolati toscani, ecco la marcia trionfale scaturita dal confronto con gli ucraini. Sono dunque guariti, i rossoneri? La crisi è già passata? Riusciranno ad imporsi, domenica, sulla zoppicante Roma? Giuro che non sono questi gli interrogativi che intendo affrontare: resto dell’idea che la prima fase della Champions sia di gran lunga meno impegnativa del nostro faticosissimo torneo. Non escludo – anzi ne son convinto – che quel gruppo di Signori del calcio abbia ormai la mente impegnata sull’Europa e sulla Coppa Intercontinentale, nonostante l’insegnamento di Ancelotti che ben conosce i rischi di ritrovarsi umile comparsa del campionato: tifosi e critici vogliono un Milan sempre e comunque di vertice, le polemiche feriscono, come dimostra la battutaccia di Galliani su Bierhoff («sogno ancora i suoi gol») male accolta dal tecnico: in verità, il Cantatore Calvo, i cui acuti da supertifoso s’alzano prodigiosi alla Scala del Calcio, potrebbe sostenere di aver pungolato alla riscossa, con quel confronto, l’Amaro Gilardino, finalmente scioltosi nel gol. Il Milan non può perdersi in queste bazzecole al compimento del ventunesimo anno berlusconiano. Cerchi di aggiudicarsi l’Intercontinentale, ma poi pensi al futuro stravolgendo l’attuale politica di bieca conservazione. E pensi giovane. La pagina più bella della settimana di Coppacampioni l’ha scritta senza dubbio l’Arsenal, la cui recente storia dovrebbe esser modello per il nuovo calcio continentale che si accontenta, invece, di prendere per oro colato le «storiche decisioni» dei premier europei sulla «specificità dello sport». Per fortuna Michel Platini non è un allocco e si fida poco delle conclusioni del Trattato di Lisbona così simili a quelle del Trattato di Nizza, cioè inutili. L’Arsenal ha schierato una squadra di ragazzi prodigio che non solo hanno infilato sette gol allo Slavia Praga, ma hanno fatto spirare sull’Europa un vento di giovinezza e intelligenza. I supporters dei Gunners s’erano imbestialiti quando il magnate ame17


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ricano Stanley Kroenke s’era preso la loro squadra e aveva ceduto ai petrolieri arabi, demolendo il glorioso Highbury Stadium (dove ho goduto battaglie calcistiche memorabili) e ribattezzando il nuovo Emirates. E s’erano infuriati quando Thierry Henry era stato ceduto in estate al Barcellona. Adesso sono costretti a ricredersi. La squadra di Arsène Wenger, prima in patria e in Europa, dà spettacolo e tutti parlano di «quei ragazzi» facendoli protagonisti di una favola. Guardate Theo Walcott: Eriksson se lo portò ai Mondiali di Germania e sbagliò solo a non farlo esordire: a 17 anni da compiere se avesse segnato un gol sarebbe passato alla storia. I gol, per fortuna, li segna ora, in una squadra di giovanissimi che per l’Arsenal sono Gloria e Oro. Dice Wenger che fino a ieri avrebbe sognato di far giocare nell’Arsenal Ronaldinho, oggi mai più. E mi fa dunque ripensare al Milan che sul brasileiro molto fumo e poco arrosto aveva puntato tutto, ripiegando poi sul Ronaldo usato poco sicuro, come narrano i bollettini medici quotidiani emessi dall’ex Fenomeno. A Berlusconi piace la forza storica del suo Milan e mi piacerebbe consigliargli, nell’ora del tramonto rossonero (dico di questo Milan, naturalmente) di ripescare nell’album di famiglia una figurina ingiallita e forse dimenticata di un pedatore esemplare. Si chiamava Renzo De Vecchi, era milanesissimo, esordì in rossonero nel 1909, a 15 anni, nel ruolo di terzino: a 16 era già in Nazionale, a 19 un monumento. Per la straordinaria bravura fu definito “Figlio di Dio”. Va bene, presidente, come identikit del futuro milanista?

02/11/2007

Gol e furbetti? Tanto c’è la prova tv Una notte di campionato all’insegna della festa, con squadre libere da impegni difensivi, bomber invitati a dare il meglio di sé (34 gol su dieci campi, record stagionale in serie A). E con l’infallibile Trezeguet, che in questi casi fa la parte del leone. In più, l’esibizione paracinematografica di un Milan che – se mi passate l’ardito confronto – s’ispirava al mitico film di George Romero “La notte dei morti viventi”. Il calcio è così: dai per spacciato qualcuno ed ecco subito chi gli viene in generoso soccorso. Le squadre genovesi – tanto 18


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per dire – han fatto la gioia delle milanesi: quattro gol dell’Inter al Genoa, cinque del Milan in casa della Samp. Alla faccia della crisi... Tutto sommato, si poteva anche fare a meno di giocare: il calcio inteso come scienza (Brera avrebbe citato Euclide) è un’altra cosa. Così com’è un’altra cosa quando si trascorrono almeno settantadue ore (non c’è bisogno di più per scoprire la bufala) a parlare di moviola. La quale è non solo lo strumento degli incompetenti, ma anche l’ultima spiaggia degli urlatori. Il «caso Napoli-Juve» ha portato in prima pagina – e in apertura di tg – il peggio del settore, aggiungendo alle esibizioni dei paroliberi tradizionali e dei moviolisti in servizio permanente effettivo anche un paio di sentenze dei tribunali calcistici, a dimostrazione che la crisi della giustizia in questo Paese è ormai totale. Zalayeta non è semplicemente indagato – come s’usa altrove – ma immediatamente condannato come sleale tuffatore e truffatore, additato al pubblico disprezzo non solo come “pedator furbastro” ma anche, nel nome di una presunta etica dello sport, come goleador cialtrone. Il giorno dopo, tante scuse signor Panterone (revocate le due giornate di squalifica per il volo d’angelo simulato su Buffon che ha generato il secondo rigore contro la Juve). Come non detto, assolto per non aver commesso il fatto, innocente, generoso, altruista, applausi: al punto che – a ben vedere – non mi fido neanche di questa santificazione postuma. Perché il tutto avviene all’insegna della moviola, strumento che esalta la stupidità e la cialtroneria. Molti addetti ai lavori sanno che la moviola è falsa e bugiarda, e questo fa parte del gioco; ma sanno che è anche disonesta, come hanno rivelato le intercettazioni di Calciopoli e come è capitato di vedere in quei supermovioloni che riescono a manipolare la verità istantanea, a fare ricostruzioni ad arte con palloni che entrano o escono dalle aree secondo volontà del manovratore, sputi che volano se fa comodo farli volare, gomiti che spaccano se interessa far vedere il sangue: e il giudice sportivo che si beve tutti questi cocktail nel nome della Prova televisiva ed emette sentenze ad hoc. Povero calcio, un tempo ricco e felice perché pieno di magiche incertezze, di avvincenti dubbi, di gloriosi misteri, di scrupoli ancestrali. Ripenso con nostalgia al passato e vi consiglio un breve ma intenso esercizio calciospirituale: domenica sera c’è Juventus-Inter, un tempo derby d’Italia, oggi attesissimo confronto per Moviole & moviolisti. Non v’aspettate una prova d’alta tecnica in campo. Non interessa... Auguriamoci una bella Prova Tivù. 19


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09/11/2007

ADRIANO, Depressione alla brasiliana Questa volta l’ha detta grossa, Adriano: «Sono ancora depresso». Ha confessato a Rete Globo “tamtam brasiliano” che la depressione lo accompagna da quando è morto suo padre, nell’agosto del 2004. Forse è vero, forse non sa quel che dice. La depressione non è uno stato occasionale di malessere, è una malattia. Se è vero che ne soffre, e da ben tre anni, la storia personale e professionale di questo ragazzo nato per il calcio e per il gol andrebbe profondamente rivisitata. Quest’anno ha segnato un solo gol, il 20 ottobre a Reggio Calabria dopo 188 giorni di digiuno. Le cifre di una polemica che è diventata un tormentone, non la via crucis di un malato che solo poche settimane fa, nel pieno della crisi, ha anche ammesso di essersi dato all’alcol. Ripeto: è importante scoprire la verità sulle reali condizioni di Adriano perché non si consolidi il sospetto che nel dorato mondo del grande calcio esista una così grave forma di indifferenza nei confronti di un giovane calciatore che ha lasciato la famiglia naturale giovanissimo per entrare a far parte della famiglia/ squadra, in questo caso l’Inter. Fino a ieri, Adriano è stato raccontato come il protagonista di dolce vita e notti brave, del tutto dimentico dei suoi doveri professionali, più presente al tabarin che sul lettino dello psicologo. Mancini ha appena detto: «I problemi di Adriano finiranno quando condurrà una vita da atleta, altrimenti non è in condizioni di giocare». Un referto duro, crudele ma realistico. Il tecnico nerazzurro, bombardato da settimane di domande sulla crisi dell’ex bomber, non poteva dire altrimenti per giustificare l’assenza di Adriano dall’elenco dei giocatori accreditati alla Champions League e dall’attività di campionato, prima la panchina, poi la tribuna, le ultime volte addirittura a casa. Non credo che Mancini sia un incosciente e ha sicuramente parlato in base alla conoscenza della situazione, magari creando problemi alla società che cerca di vendere il brasiliano tenendone alto il prezzo. Non credo che sia disinformato lo stesso Berlusconi che ha dichiarato che non gli spiacerebbe portare Adriano al Milan, magari per proseguire quell’at20


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tività di... recupero già felicemente realizzata con Pirlo, Seedorf e altri transfughi nerazzurri. Proprio per questo, è importante – ripeto – far luce sul “depresso”. Se lo fosse davvero, credo che non si parlerebbe di mercato per un bel pezzo. Spero davvero, per Adriano e per chi s’è assunto la responsabilità di gestirne l’esistenza, che ci si trovi difronte, una volta di più, a parole in libertà. Spero che per lui sia soltanto arrivata l’ora di crescere e di cambiar vita. Subito dopo, il gol, la migliore medicina per un bomber disarmato.

16/11/2007

E ora parliamo dell’elefante Lo stato dell’Opera Calcio è questo: adesso pensiamo alla Nazionale. Passata la tragedia, gabbati tutti coloro che avrebbero voluto non solo riflessioni serie sulla morte di Gabriele Sandri ma anche decisioni importanti per impedire che atrocità del genere si ripetano. Invece, parliamo della Nazionale. Come diceva Leo Longanesi, quando non vogliamo inguaiarci con parole o idee significative, “parliamo dell’elefante”. La Scozia, ah la Scozia! Una volta di più affidiamo agli azzurri d’Italia il salvataggio della reputazione non solo calcistica. Per non andar lontano, nell’estate del 2006 li spedimmo in Germania ad ascoltare i cori teutonici di “ladroni! ladroni!” ai quali si aggiunsero di lì a poco – quando si accorsero che facevamo sul serio – “mafiosi! pizzaioli! maccaroni!”. La vittoria finale li annichilì, ma c’è chi non demorde. La Bild di lunedì diceva pari pari che i vincitori dei Mondiali (noi italiani) mettevano a ferro e fuoco la Capitale. Adesso a Glasgow hanno paura dell’arrivo dei tifosi nostrani come se fossero i famigerati hooligans esportati dall’Inghilterra prima e dopo le “leggi perfette” che li combattevano e li mettevano in riga. In patria. Così, i giocatori di Donadoni oltre a dover staccare all’Hampden Park il biglietto per la fase finale degli Europei, devono anche salvarci la faccia. Alla vigilia di Berlino 2006, capitan Cannavaro lanciò un proclama tattico: «Ricordiamoci di giocare con il vecchio spirito italiano», quello 21


BAD BOYS

che spagnoli e francesi insistono a chiamare, con disprezzo, “catenaccio”. Oggi, Cannavaro deve invece spendere parole per condannare il tifo ultrà che fa morti e precisare – con spirito stavolta poco nazionale – che «è meglio giocare in Spagna». Siamo comunque in grado di vincere – o non perdere – a Glasgow, ma paradossalmente converrebbe perdere. Una bella prova degli azzurri servirebbe soprattutto ai caporioni del calcio per stendere un bel velo sulla tragedia appena vissuta. Poi mi chiedono perché sono stato tanto amaro e severo, nella domenica della morte, e ci scherzano sopra, naturalmente, ironizzando e satireggiando. Alla fine avranno ragione quelli che dicono che il calcio non c’entra, che è malata la società intera, non la corporazione pallonara tutta intenta a dividersi la torta della paytivù. Infatti non succederà niente, anche se nel frattempo la sospensione di un certo numero di trasferte sarà presentata come un toccasana. Poi gli ultrà feroci torneranno a casa, anzi allo stadio, e tutti torneranno a parlare di pallonate. Fino al prossimo morto. Succede così da quarant’anni, perché cambiare?

23/11/2007

DAL SESSANTOTTO L’Europa mai amica Bella, la festa di Modena. Soprattutto per Luca Toni che in maglia gialloblù aveva esordito nel 1994 scendendo da Pavullo nel Frignano, Appennino modenese, affrontando la Serie C e un lungo viaggio attraverso l’Italia, prima di trovare con il Palermo e la Fiorentina la sua affermazione e un posto fisso da bomber azzurro. Bellissima, la conclusione del viaggio continentale, meritati gli applausi, viva Donadoni. Ma adesso svegliamoci... Ci siamo qualificati per l’Europeo, non l’abbiamo vinto. È vero che intorno alla Nazionale aleggia ancora lo spirito Mondiale e in questo clima rasserenato, allontanata la tempesta, odo augelli far festa: ma se questa è pur vera gloria, varrà la pena meditare sul fatto che il torneo continentale ci aspetta come sempre minaccioso. Al punto che, dopo averlo vinto con fatica nel ’68 (ci volle la monetina scelta da Facchetti per 22


Da un mondiale vinto a un europeo perduto

battere la Russia, a Napoli, e una doppia finale per far fuori la Jugoslavia, a Roma) le ripetute sconfitte ci fecero dire che la coppa Henry Delaunay era per noi «maledetta». Ripercorro con la memoria le numerose cadute che coinvolsero tanti allenatori di qualità, a partire dal vittorioso del ’68, Ferruccio Valcareggi, fatto fuori nel ’72 in Belgio dagli ostici padroni di casa, annuncio della débâcle mondiale del ’74 a Stoccarda. Nel ’76 toccò all’Olanda eliminare la Nazionale di Bernardini e Bearzot; nell’’80 il Vecio subì l’eliminazione nell’Europeo in casa grazie al catenaccio e al fuorigioco ossessivo del Belgio e non riuscì a raggiungere la fase finale nell’84, lasciando punti anche a Cipro (lì nacque il feroce fronte critico nei suoi confronti). E ancora nell’’88 amarissima Stoccarda-bis in semifinale con l’URSS per Azeglio Vicini, che non seppe far meglio nel 1992 nonostante la staffetta con Arrigo Sacchi, subentrato alle ultime battute, e a sua volta beffato dalla Repubblica Ceca in Inghilterra nel ’96. Un calvario, insomma, che diventò ancor più crudele quando l’Italia, guidata in panchina da Zoff, perse la finale in Francia con il golden gol di Trezeguet. Un velo pietoso, infine, sulla Nazionale di Trapattoni che nel 2004, in Portogallo, finì malamente fra sputazzi e polemiche per incapacità propria e un gol capolavoro dello “svedese” Ibrahimovic: alla resa dei conti, ci restarono le lacrime di Cassano e gli insulti di Bobo Vieri. Affido queste note dolenti a Roberto Donadoni, che saggiamente ha già preso le distanze dai festini, perché ne tenga conto nella preparazione del viaggio decisivo in Austria e Svizzera. Non è un problema il rinnovo del contratto: la Federcalcio, che stava per tradirlo con un Lippi-bis, dovrà onorare l’impegno; ma soprattutto proporgli un congruo numero di date per le amichevoli preparatorie, cosa sempre più difficile a causa di un torneo a venti squadre che ignora le necessità della Nazionale. Pensi piuttosto, Donadoni, a spendere bene quei cinque/sei posti disponibili nella rosa: ha ben operato da selezionatore, continui su questa strada, aspettando i frutti del campionato, qualche sorpresa da cogliere al volo. Buon lavoro...

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