Bar Toletti 4. Così ho cambiato Facebook

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Indice I virus sono allergici ai sogni Il mio piccolo principe Il Massimo che c’è Non solo pe’ cantà Pregate uno alla volta Il Komandante nel Palazzo Elton e i miei baffi Minchia quanto ci manchi Tutt’altro che Ultimo Joao e la rivoluzione sottovoce L’unico italiano di Indy Quel Toro in studio con me Camilleri sono Milva, la freccia Rossa Ognuno aveva la sua Luna C’era un ragazzo... Mimmo che guardava il mare C’era Woodstock e non lo sapevamo Felice di averti amato Le macerie dei miei ricordi Mogol: tu chiamale se vuoi... Gaetano e Gentiluomo E Giuan mi disse: «Tèl chì» Pietro scalzò il suo idolo Il Campione mi sorrise In Vespa con la Diva Bruce: born to be loved La mia radio del cuore L’Azzurro al verde Quando il calcio incontra la storia La miniera di Lucio

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Il derby della tragedia Il calcio e la Pace Civ: parole e musica Il (movimentato) matrimonio di Diego Ballando con Fred Kindu: la strage dimenticata Wembley: la rivincita dei “camerieri” Renato che portò il nome di suo padre C’è sempre un ragazzo Piazza Fontana: l’Italia al buio Il primo Buffon del calcio italiano Renato il rivoluzionario Sai Marco che ci manchi? La leggenda di Dinomito E il Mondo cantò per l’Africa Più Firenze che Parigi E il Festival entrò in Senato Buscaglione, il finto duro “Ama” il Festival tuo… Claudio, il medico eretico Teo, e per fortuna che non si è “applicato” Olivetti, il nostro Steve Jobs Mario-Piedone che sognava in rosso La fratellanza nel pallone L’Angelo che si prese cura di lei La scatoletta che mise in moto l’Italia Peter che parlava con la chitarra 1946: lo scudetto di luglio Parulè e la rosa non colta Ayrton, 60 anni di saudade Gianni, la poesia dello sport Mina: se ottanta mi dà tanto… Cesare che andava in Vespa Quel Corrierino di tanti anni fa Enzo che sembrava facesse ridere E il Papa citò Blowin’ in the wind Maurizio che urlava la verità

72 73 76 77 80 81 84 86 88 90 92 94 96 98 99 101 102 104 107 109 112 114 116 118 119 121 123 125 127 129 132 134 138 140 141 143 146


Ezio che aveva scelto di vivere 148 Mantovani, un esemplare unico 149 La Romagna a Hollywood 151 153 Quello scudetto che rese tutti felici Lingua lunga e pedalare 155 Franco che non dormì per un giorno e una notte 157 158 In Pressing sulla leggerezza Luis e il coraggio di volare 161 La bomba a virologeria 162 164 Quando torneremo a tenerci per mano Lui la guardia non l’ha mai abbassata 167 Walter, sessanta mi dà tanto 168 Ma la notte sì 170 La favola dell’Italia che vinceva 171 L’ultima provinciale in Paradiso 172 Gino che pedalava verso il cielo 174 Quel raggio di sole nel buio 176 Lui che sembrava Piscinin 178 Nostalgia di una Rosa 180 181 Sardine senza sale Quando la notte non fu magica 182 L’Azzurro che unisce 184 «La disabilità è solo negli occhi di chi guarda» 185 Quel Fiore unico 186 188 Giovanna che inventò il Dream Team Giallo come il fango 190 Quando fecero gol Milito e Nibali 192 Il gentiluomo che disse: «Si dovrebbe vergognare» 194 Nel cassetto dei ricordi 196 Cinquant’anni di canestri 197 L’odio per l’uomo sbagliato 199 La partita della morte 202 E Ago scrisse: «Chiamare Marino» 204 Il sole disse: «Giù la maschera» 206


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Elton e i miei baffi 19 giugno 2019 La tentazione è fortissima: e non mi ci sottraggo. È più bello Bohemian Rhapsody (il film sui Queen e in particolare su Freddie Mercury)

o Rocketman (il film su Elton John)? Felice di aver ammirato entrambi, di aver cantato in entrambi, di essere uscito contentissimo da en-

trambi, di essermi commosso per entrambi: ma Elton batte Freddie di

almeno un’incollatura. Perché il suo è “più film”. Perché è più musical

(con citazioni maliarde, persino di La La Land ), perché è un racconto che “prende” di più (persino nei suoi ostentati risvolti onirici), perché

Elton viene raccontato con un’umanità superiore e con meno reticenze rispetto a Freddie (al punto di aver consentito che non gli venisse

fatto nessunissimo sconto). Anche se, sia chiaro, parliamo di Maradona e Pelè!

Come forse i venticinque amici che mi seguono rammentano, quando vidi Bohemian Rhapsody mi piacque ricordare l’unica, ma ovviamente meravigliosa e indimenticabile volta che potei ammirare Freddie Mercury dal vivo (a Barcellona); ma Elton John – ragazzi – l’ho visto da vicino, l’ho toccato, gli ho parlato. Perché l’11 gennaio del 1998 venne ospite di Quelli che il calcio. E la maledizione si rialza verso il cielo per

il fatto che allora non c’era alcuna possibilità di documentare quegli in-

contri se non con le immagini televisive ufficiali. Oddio, non so se avrei

avuto il coraggio di chiedergli un selfie: però, insomma, già che c’ero… Elton arrivò in Italia solo per cantare da noi (sì, vabbè, anche per la sfilata di Versace). Avevamo già avuto ospiti straordinari, ma mai una stella di

primissima grandezza come lui. La sua irruzione nella nostra vita e nei nostri studi si caricò di ri-

svolti anche un po’ caricaturali (non so se per suo

desiderio o per eccesso di zelo di chi lo accom-

pagnava). Ricordo che si dovette ripitturare di rosa un camerino del

celebre Teatro della Fiera dove Quelli che si era trasferito dopo gli


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esordi in corso Sempione. Che ci venne recapitato un lungo elenco di cose da fare, da preparare e da evitare. Il maestro voleva nello stanzino solo peonie (a gennaio!!!): assolutamente non lilium, nĂŠ tantomeno

rose (qualcuno disse perchĂŠ gli ricordavano la sua amica Diana a cui, appena quattro mesi prima, aveva dedicato piangente la struggente


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Candle in the wind). E poi solo acqua San Pellegrino, frutta di stagione, succhi di frutta, carote e sandwich vegetariani. Ma, tranquilli, Dio

c’è! Mentre Monica lo truccava prima della trasmissione, le scivolò il fard sulla giacca gessata. Scenata? No! Monica stava svenendo («È lui che si è mosso!»), ma di giacche per fortuna n’era un’altra ventina.

E poi si allagò pure il frigo (con dentro i succhi e la San Pellegrino), perché qualcuno – pare Paolo Brosio – aveva staccato per sbaglio la spina. Intervenne la signora Maria con secchio, straccio ed elmetto.

Ma anche in questo caso, per fortuna, il Maestro sorrise cordialmente. Per la trasmissione venne fatto accomodare su un trono che era già

stato utilizzato per Luciano Pavarotti. La cosa lo divertì. Non si limitò a cantare Recover your soul, ma si fermò a guardare i primi tempi delle partite, in compagnia – mi sembra – di Bruno Vespa, della signora

Boskov, di Anna Valle e di Claudia Pandolfi. Idris, per fortuna, era a Torino a vedere la Juve. Orietta Berti a Gstaad per insegnare le buo-

ne maniere al principe Emanuele Filiberto. Fabio chiese inutilmente a Elton di tifare per la Sampdoria. Lui replicò che gli piacevano Maldini e

il Milan (a cui peraltro il suo Watford aveva rifilato il bidone del secolo, Luther Blisset).

Se ne andò un po’ perplesso, ma con modi amabili. Rifiutò di indos-

sare – vecchio volpone sospettoso – il cappellino dell’Atletico Van

Goof. Takaide Sano lo squadrò sentendosi il più normale dei due. Mi sembra di ricordare che ci fosse anche Scialpi. Mi diede la mano

e mi disse: «Lo sai che hai proprio dei bei baffi?». Gli sorrisi (sotto i medesimi). Chissà che mi sono perso!

L’ho “rivisto” al cinema pochi giorni fa. Bé, sì, non mi posso lamentare di quello che questo mestiere mi ha regalato.

Ascolta il brano


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Ognuno aveva la sua Luna 19 luglio 2019 La notte fra il 20 e il 21 luglio del 1969 c’era chi stava atterrando sulla Luna e c’era chi, con una 500 e tre Vespe, stava iniziando un avventuroso viaggio in Italia. Per certi versi non meno movimentato di quello nello spazio di Armstrong, Aldrin e Collins.

Mi rendo conto che l’accostamento sia audace. I ricordi sono amici, ma allo stesso tempo anche simpatici impostori a volte divertenti, a

volte crudeli, a volte imbarazzanti, a volte buffi, a volte inutili, a volte indispensabili: certamente non richiesti. Ma nel giorno in cui tutti parlano di questo anniversario, m’è venuto voglia di giocare col tempo e

con la memoria: esercizio che invito tutti coloro che hanno l’età (ma anche coloro che hanno solo “immaginato” quella notte) a fare con me. Dov’eravamo? Dov’eravate?

Io con i sei amici di questa foto ero in una piazzola della mia piccola

città. Tutto programmato (si fa per dire). Si guarda in tv l’atterraggio sulla Luna verso le 22, si dorme qualche ora e poi si parte dalla no-

stra Romagna. Per dove? Boh. Abbiamo le tende: decidiamo lì per lì. Istria? Perché no! Costa adriatica fino all’estrema punta meridionale? È un’idea. Riviera ligure e sconfinamento in Costa Azzurra? Molto

suggestivo. Per la cronaca, alla fine, attraversammo l’Appennino e ci ritrovammo a dormire in una pineta versiliana, per poi scendere,

attraverso a Roma, fino a Napoli e risalire dall’Umbria: ma la cosa

è assolutamente ininfluente nell’economia del racconto, se non per


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testimoniare la totale vacuità del “progetto” (d’altra parte il Maestrone non ha forse decretato che “a vent’anni si è stupidi davvero”? Noi sette avevamo assolutamente tutte le carte in regola: a incominciare dall’anagrafe).

Fu bella quella notte, alla fine completamente insonne. Certamente un po’ complicata. In effetti dopo l’allunaggio (parola nata per l’oc-

casione: al prossimo giro faremo forse l’ammartaggio? Per fortuna non si porrà mai il problema dell’aggiovaggio o dell’assaturnaggio): insomma dopo quella cosa lì, il “modulo” se ne stette parcheggiato per

parecchie ore senza pensare al nostro pisolino. Che si fa? Si dorme? Si aspetta? Tito Stagno e Ruggero Orlando ne sapevano quanto noi e

si punzecchiavano spacciando notizie provvisorie. Quando Armstrong iniziò a scendere dalla scaletta erano quasi le cinque del mattino: e,

per la cronaca (forse pochi lo ricordano) la telecamera che doveva immortalare il momento si bloccò lasciandoci tutti con un palmo di naso. A quel punto, la Luna l’avevamo conquistata e tanto valeva che partissimo. Eravamo o non eravamo entrati nel futuro? Certo, fu una notte indimenticabile: un po’ figlia dell’innocenza dei tempi. Probabilmente,

a parte qualche certamente importante deriva scientifica, quell’impresa servì più a saziare l’orgoglio di una Potenza sull’altra, che non a far

fare il famoso “grande balzo all’umanità”. Con quei quattrini e con tanti altri spesi prima e dopo probabilmente si sarebbero potute fare cose

più utili. O forse li si sarebbe sciupati ugualmente, caso mai prendendosi a missilate in testa. Ma tant’è! A tutti noi, al momento, sembrò una cosa meravigliosa (eravamo o no figli di Jules Verne e di Walt Disney?). E come tale, assieme ai miei vent’anni, la voglio ricordare.

P.S. Di quei sette ragazzi uno sarebbe diventato ufficiale dell’esercito,

uno un affermato architetto, due medici di fama non solo nazionale (oncologia e stomatologia), uno un eccellente atleta e poi alto dirigente del Coni, uno presidente della Società italiana della Psicologia del lavoro e uno giornalista.


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Felice di averti amato 17 agosto 2019 Quanti sono i ricordi? Cento? Mille? So solo che adesso fanno tutti male. Anche quelli che fino a oggi mi rendevano felice.

Già, Felice… Ora è difficile persino pronunciare questo aggettivo: che diventa subito un nome… Perché tutto quello che era piacere, tene-

rezza, dolcezza, improvvisamente assume il sapore aspro del dolore. E quei ricordi più sono vicini al cuore e più lo feriscono.

Scrivere di Gimondi la sera della sua morte è un esercizio crudele. Ma sento di doverglielo. E di

doverlo a me stesso. C’è solo un problema: che

quasi tutti i termini che forse con troppa facilità usiamo (soprattutto) nello sport in questo momento diventano inadeguati e sprecati rispetto

alla grandezza umana prima che sportiva di Fe-

lice. Tenacia, lealtà, umiltà, onestà, generosità,

correttezza, dignità, eleganza… E, usandoli,

non sappiano se attribuirli al campione o all’uomo: che – non sempre accade – si assomigliavano terribilmente.

È morto in mare: lui uomo di mezza montagna. Ancora quest’anno

il Giro d’Italia aveva voluto onorarlo durante la diciasettesima tappa

passando dalla sua Sedrina, all’imbocco della Val Brembana. E Feli-

ce, come sempre, aveva ringraziato con sincerità e modestia, come se le cose non gli fossero mai dovute.

Era apparso nel 1964 nelle nostre vite di appassionati di ciclismo (in

quel periodo un po’ digiuni di soddisfazioni) vincendo a neanche 22 anni il Tour de l’Avenir quando questa corsa si era già segnalata come

un prologo rivelatore di campioni autentici (e che in fondo mantiene ancora il suo fascino e la sua missione se è vero che due anni fa vi ha trionfato Egan Bernal davanti, pensate un po’, al povero Bjorg Lam-

brecht). Diventò subito professionista nella Salvarani per imparare il mestiere accanto a Vittorio Adorni: che infatti vinse il Giro del 1965,


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con lo stesso Felice, devoto e incredulo, sul podio dietro a Zilioli.

Ovviamente non sarebbe dovuto andare al Tour, ma il grande Lu-

ciano Pezzi, che ne aveva intuito le doti, fece “infortunare” il povero

Bruno Fantinato, un onestissimo

gregario, e lo imbucò nella squa-

dra che aveva sempre Adorni come capitano. «Tu stai vicino a Vittorio, tieni gli occhi aperti e impara» gli disse.

Felice tenne gli occhi talmente aperti che al terzo giorno, azzeccando un’azione all’ultimo chilometro a Rouen, vinse la tappa e conquistò la

maglia verde della classifica a punti, la maglia bianca come miglior giovane e la maglia gialla di leader. La sera stese tutte le maglie sul letto e arrivò tardi a cena per guardarle.

Dopo quattro giorni perse il primo posto in classifica perché Adorni, il “capitano”, forò e lui, in giallo, si fermò ad aspettarlo senza che nessuno glielo avesse chiesto: «Perché ero in Francia per quello. Non

feci altro che il mio dovere». Poi il “capitano” dovette ritirarsi e per il giovane Felice iniziò il trionfo: tanto “facile”, malgrado la resistenza del povero Poulidor, quanto

inarrestabile. Durante quel Tour che lo aveva proietta-

to nel mondo della gloria e delle favole pianse una vol-

ta sola: quando qualcuno gli disse che fuori dall’albergo

c’era suo padre Mosè che lo aveva raggiunto, ma – da

perfetto bergamasco – non aveva voluto disturbarlo. Lo trovò col cappello in mano che guardava le Alpi. Lo


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abbracciò in lacri-

me. Al suo ritorno a Sedrina con l’Italia

impazzita, la prima cosa che fece fu di andare

all’Ufficio

Postale per dimettersi da vice-porta-

lettere (la titolare era

sua madre Angela). Aveva capito che…poteva fare il ciclista. E se ci

pensate già nel racconto di questa sua prima, straordinaria vittoria

c’è tutto Gimondi: la sua tenacia, la sua fedeltà, il suo talento, la sua modestia, la sua classe di uomo e di campione.

Il resto è storia ed albi d’oro: vincitore dei tre grandi Giri (secondo in

assoluto a compiere quell’impresa), campione d’Italia e del Mondo, trionfatore di classiche-monumento. Coraggioso e mite allo stesso

tempo. Durante il Processo alla Tappa del Giro del 1966, quando era

ormai un personaggio famoso, pronunciò una parola “proibita” (per l’esattezza disse: «Quelli della Molteni facevano un gran casino là

davanti…»). La Rai lo “sospese” dal video intimandogli di scrivere

una lettera di scuse per poter tornare ad essere intervistato. Lui lo fece: con convinzione e rispetto.

In quel momento era il potenziale dominatore assoluto del ciclismo mondiale: poi arrivò il Cannibale. Che ora piange più di tutti. «Sta-

volta ho perso io» ha detto disperato. D’altra parte Gimondi, a chi

lo stuzzicava su Merckx, ha sempre risposto: «Perdere da lui non è mai stata una sconfitta, ma un onore». E pensare che Felice, che era

esploso “prima”, sopravvisse sportivamente al suo rivale, vincendo

l’ultimo Giro a 34 anni (undici dopo il Tour!) con Eddy ormai in declino. Di lui Enrico Ruggeri in Gimondi e il Cannibale ha scritto e cantato: «… Devi dare tutto prima che ti faccia passare. Io non mi lascio andare. Non ci pensare, non mi staccherò...». Ecco, oggi se n’è andato un uomo così.


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In Vespa con la Diva 22 settembre 2019 Lo dico? Non lo dico? Non lo dico!

Non dico gli anni perché qualcuno potrebbe ritenerlo inelegante. Ma è abbastanza evidente che per Sophia Loren, che abbraccio e per cui soffio sulle candeline, gli anni sono una convenzione.

Di lei, incroci televisivi a parte, ho un ricordo molto divertente di quan-

do trascorremmo un paio di giorni insieme a Singapore in occasione di una fiera di moto che l’Italia aveva “esportato” in quella lontana,

ricchissima, misteriosa e contradditoria enclave e per la quale venne scelta come graditissima ambasciatrice del nostro Paese. Credo che non basti un piccolo post per riassumere la quasi incredibile pirotecnia

di esperienze e di aneddoti a cui mi trovai dinnanzi standole vicino. Ci vorrebbe un piccolo libro (e non è detto che un giorno non lo scri-

verò): il primo che mi viene in mente è di quando Sophia, avendolo

scambiato per il Presidente della Repubblica, prese sottobraccio con degnata, ma sussiegosa eleganza, il maître in smoking del ristorante extralusso dell’albergo in cui era prevista la cena di gala e con lui –

allibito – entrò nel Salone d’Onore senza che nessuno osasse contraddirla né fermarla, accolta dall’inno nazionale e da qualche faccia stupita che smontò col suo imperiale sorriso.

Di certo toccai con mano l’amore quasi idolatrante nei suoi confronti; di certo mi resi conto della sua, maniera di porsi, a volte ingenua e a volte un po’ fuori dal mondo, ma sempre di con-

tagiosa amabilità; di certo ebbi la prova della sua

dolcezza, per apprezzare la quale bastò soffiare su un quasi impalpabile velo di “divismo” che

certamente l’avvolgeva (più ad opera degli altri

che per sua volontà). Di certo vidi quanto l’Italia venisse amata grazie a lei!


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Non so chi pensò o chi capì che io fossi (in realtà ero lì per coordinare l’evento dal punto di vista mediatico e per dire un paio di cose in pubbli-

co), ma mi si attaccò in maniera quasi infantile, pregandomi di raccon-

tarle tutte le cose che avevano a che fare con quello strano e luccicante pianeta a motore. Ad un certo punto, avendo esaurito le conoscenze, le

storie, le favole e persino le balle e non sapendo più a cosa aggrapparmi, ebbi un piccolo, ma rischioso, colpo di genio: vidi davanti a me nello

stand della Piaggio una bellissima Vespa d’epoca e le dissi che era la

stessa su cui Audrey Hepburn e Gregory Peck avevano girato Vacanze romane, film cult del periodo in cui Sophia non aveva ancora vent’anni, non usava ancora il “ph”, portava “Lazzaro” come cognome e sognava

di diventare una grande attrice. La dissi grossa e la pagai: «Ma che bello! È il film della mia vita! Dai, mettiamola in moto: io faccio Audrey e tu fai Gregory, poi ce ne andiamo in giro per tutta la Fiera». Transammo

su alcune foto da fermo con me alla guida e lei seduta di lato nel sellino posteriore come si usava allora. Il giorno dopo tutti i giornali di Singa-

pore avevano quelle foto in prima pagina!

Forse l’ho presa troppo larga. Mi

perdonerete. Mi resta il piacere

(e pure un po’ la nostalgia) di

quei giorni: e anche dello spessore umano di una cosiddetta “diva” che certamente ha vissuto, sofferto, vinto, perso e volato.

E che per festeggiare i suoi “X anni” tornerà davanti alla macchina da presa per interpretare il

ruolo di una donna sopravvissuta all’olocausto.

Io credo che un applauso lo meriti. Il mio, certamente, sì.


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Bruce: born to be loved 23 settembre 2019 Benvenuto nei 70 amico di una vita senza, ovviamente, saperlo.

Buon compleanno Boss, padrone di tante nostre emozioni. Eri “nato” come “nuovo Bob Dylan”, poi sei diventato Bruce Springsteen. Direi che può bastare.

Quello che più mi entusiasma di te è la tua capacità di vivere con un’intensità e una capacita progettuale da trentenne. Hai appena

chiuso la trionfale avventura a Broadway, che è stata la straordinaria

evoluzione della tua autobiografia; a giugno hai pubblicato Western Stars, il tuo nuovo album: a fine ottobre arriverà nei cinema il film, che ha lo stesso titolo del disco. Intanto stai lavorando al nuovo progetto

con la tua storica E Street Band: evidentemente in vista (possiamo sperarci?) di una nuova tournée.

Non annoiarti troppo, mi raccomando. E soprattutto non dimenticare di far ballare la tua mammina Adele di 94 anni, originaria di Vico Equense.

Una volta hai detto: «Noi italiani tiriamo dritto fino allo stremo delle forze, teniamo duro finché non cedono le ossa, non molliamo la presa finché i muscoli resistono, balliamo, urliamo, ridiamo finché non ce la

facciamo più, fino alla fine». Noi italiani… Troppo buono signor Bruce

Frederick Joseph Springsteen nato nel New Jersey, simbolo della voglia di vivere. E di correre.

Pensate a quella che per voi è la sua canzone più bella. Scusate la mancanza di fantasia, ma per me è questa!

«’Cause tramps like us, baby we were born to run...»

Ascolta il brano


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Il (movimentato) matrimonio di Diego 7 novembre 2019 Esattamente trent’anni fa, mentre il Napoli – così lontano per motivazioni e vittorie da certe malinconie di questi giorni – si accingeva a costruire e a vivere il sogno del suo secondo scudetto, venni coinvolto in una delle più singolari avventure (un po’ professionali e un po’ no)

della mia vita. Fui invitato da Diego Maradona – unico giornalista assieme a Gianni Minà – al suo matrimonio a Buenos Aires.

Non è una medaglia al valore. È una delle tante esperienze che ho vissuto e raccontato: come sempre, non

per sentito dire, ma

avendola vista coi miei occhi. Espe-

rienza della quale ho due ricordi pre-

minenti: la divertita curiosità con cui la vissi e il disgusto

per i commenti che molti giornali italiani (che avevano mandato frotte di inviati-distruttori in totale coerenza col motto «non ci interessa quello che fa Maradona nella vita privata») dedicarono all’evento.

Su un importantissimo quotidiano scoppiò addirittura una disputa fra

una collega con una smisurata puzza sotto al naso (che titolò sobriamente il suo reportage Vergogna-Maradona!, aggiungendo fra altri

insulti che fu «il matrimonio più kitsch, più megalomane e più cafone

che si potesse immaginare») e il mite Minà, collaboratore dello stesso quotidiano, che si sentì in obbligo di replicare col suo garbato con-

tributo di testimone diretto (sostenendo che Diego non era il primo uomo al mondo a volersi sposare avendo vicino tanti amici, compresi quelli d’infanzia). Devo dire che io stesso, al ritorno, persi la pazienza

e intitolai i miei Dialoghi d’apertura sul “Guerin Sportivo”: Predoni di


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nozze, avendo letto non solo cattiverie, ma anche mostruosità che (se riuscite a vedere l’allegato) mi sembrarono veramente oltre i confini della maldicenza gratuita per entrare in quelli della fantascienza. Un quotidiano romano scrisse testualmente: «Fallita l’impresa di convocare i potenti della terra… El Pibe, assatanato di gloria, sì è dovuto ac-

contentare del “turco”, il presidente Menem, come scorniciato appena da una galleria di vampiri in basettoni, accompagnato dalla moglie

Zulema, musulmana, lievemente a disagio in quel putiferio losco-cat-

tolico…». Tutto molto carino. Con un piccolo particolare: Menem non era presente al matrimonio. E dopo aver letto anche che «il DC10

delle Areolineas Argentina aveva scaricato all’aeroporto di Ezeiza una banda di drogati e alcolizzati»

telefonai a Vincenzo Siniscalchi elegante principe del Foro napole-

tano con cui avevo viaggiato e gli

dissi: «Vincè, io non ho mai bevuto, non ho mai fumato e non mi sono

mai drogato, non sarai stato tu per caso?». Ricordo ancora il fragore della sua risata.

Perché ho raccontato tutto que-

sto? Intanto per rammentare una

data di vita vissuta e condividerla con gli amici che mi leggono sempre con curiosità e affetto. E per poi per ricordare a me stesso – certamente peccatore fra i peccatori – di appartenere a una categoria

non sempre votata alla correttezza e all’obiettività. Ed è un peccato: perché tenere una penna o un microfono in mano, è una fortuna e un privilegio che andrebbero sempre onorati. Se non altro con un pizzico di onestà. Anche quando l’argomento non ci piace.


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